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34-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (gratuità per oo.pp. e/o private di interesse pubblico)
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36-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (rateizzato e/o ritardato versamento)
37-DEFINIZIONI INTERVENTI EDILIZI
38-DIA e SCIA
39-DIAP
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41-DISTANZA dai CONFINI
42-DISTANZA dai CORSI D'ACQUA
43-DISTANZA dalla FERROVIA

44-DISTANZA dalle PARETI FINESTRATE
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47-ESPROPRIAZIONE
48-INCARICHI LEGALI e/o RESISTENZA IN GIUDIZIO
49-INCARICHI PROFESSIONALI E PROGETTUALI
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51-INDUSTRIA INSALUBRE
52L.R. 12/2005
53-L.R. 23/1997
54-LEGGE CASA LOMBARDIA
55-LOTTO INTERCLUSO
56-MAPPE CATASTALI (valore probatorio o meno)
57-MOBBING
58-MURO DI CINTA/RECINZIONE, DI CONTENIMENTO/SOSTEGNO, ECC.
59-OPERE PRECARIE
60-PARERE DI REGOLARITA' TECNICA, CONTABILE E DI LEGITTIMITA'
61-PERGOLATO e/o GAZEBO e/o BERCEAU
62-PERMESSO DI COSTRUIRE (annullamento e/o impugnazione)
63-PERMESSO DI COSTRUIRE (decadenza)
64-PERMESSO DI COSTRUIRE (deroga)
65-PERMESSO DI COSTRUIRE (legittimazione richiesta titolo)
66-PERMESSO DI COSTRUIRE (prescrizioni)
67-PERMESSO DI COSTRUIRE (proroga)
68-PERMESSO DI COSTRUIRE (verifica in istruttoria dei limiti privatistici al rilascio)
69
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PERMESSO DI COSTRUIRE (volturazione)
70-
PERTINENZE EDILIZIE ED URBANISTICHE
71-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI
72-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard)
73-PISCINE
74-PUBBLICO IMPIEGO
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RINNOVO/PROROGA CONTRATTI
77-RUDERI
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84-SICUREZZA SUL LAVORO
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SINDACATI & ARAN
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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di DICEMBRE 2012

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aggiornamento al 31.12.2012

aggiornamento al 22.12.2012

aggiornamento al 18.12.2012

aggiornamento al 17.12.2012

aggiornamento all'11.12.2012

aggiornamento al 10.12.2012

aggiornamento al 06.12.2012

aggiornamento al 03.12.2012

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 31.12.2012

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NOVITA' NEL SITO

Inseriti i nuovi bottoni:
dossier ATTIVITA' COMMERCIALE IN LOCALI ABUSIVI

dossier DISTANZA DA ALLEVAMENTI ANIMALI
dossier MURO DI CINTA/RECINZIONE, DI CONTENIMENTO/SOSTEGNO, ECC.
dossier PERMESSO DI COSTRUIRE (verifica in istruttoria dei limiti privatistici al rilascio)

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ENTI LOCALI: Oggetto: Prossima scadenza funzioni associate obbligatorie (ANCI Lombardia, circolare 28.12.2012 n. 145/2012).

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: iscrizione all'albo pubblici dipendenti - Nota di rettifica (Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati, nota 19.12.2012 n. 13134 di prot.).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Legge 07.12.2012 n. 213 - Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 10.10.2012, n. 174, recante disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012. Proroga di termine per l’esercizio di delega legislativa - Nota di lettura degli articoli 1-bis e 3 relativamente al sistema dei controlli (ANCI, nota dicembre 2012).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI: Attuazione dell’art. 6-bis del dlgs 163/2006 introdotto dall'art. 20, comma 1, lettera a), legge n. 35 del 2012 (deliberazione 24.12.2012 - link a www.autoritalavoripubblici.it).
---------------
Delibera AVCPASS
Disponibile on-line la delibera attuativa dell'articolo 6-bis del Codice dei contratti.

Dal 01.01.2013, ai sensi dell’art. 6-bis, del D.Lgs. 163/2006, la documentazione comprovante il possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario per la partecipazione alle procedure disciplinate dal presente Codice è acquisita presso la Banca dati nazionale dei contratti pubblici, istituita presso l'Autorità.
In attuazione del sopracitato articolo del Codice l’Autorità ha:
• acquisito in data 19.12.2012 il parere positivo del Garante per la protezione dei dati personali relativamente ai dati concernenti la partecipazione alle gare per le quali è obbligatoria l'inclusione della documentazione nella Banca dati, nonché i termini e le regole tecniche per l'acquisizione, l'aggiornamento e la consultazione nella Banca dati,
• sentito i principali operatori del mercato e Stazioni Appaltanti nel merito dei contenuti della bozza di delibera pubblicata sul sito dell’Autorità il 13.12.2012,
• valutato le osservazioni pervenute a seguito della consultazione on-line,
Sulla basi di tali considerazioni il Consiglio ha emanato la delibera attuativa dell'articolo 6-bis del Codice dei contratti.

UTILITA'

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Terre e rocce da scavo: in un dossier dell’Ance le principali novità.
L’Ance ha predisposto un dossier nel quale sono analizzate le principali novità introdotte per la gestione delle terre e rocce da scavo a seguito dell’entrata in vigore del d.m. 161/2012.
In particolare, il dossier si compone dei seguenti due documenti:
- un’analisi dettagliata delle disposizioni contenute nel decreto ministeriale, con particolare riguardo ai riflessi applicativi/operativi per il settore edile;
- una sezione “domande & risposte” nella quale sono racchiusi alcuni dei più frequenti quesiti posti in questi primi mesi di applicazione della nuova normativa (17.12.2012 - tratto da www.ance.it).

APPALTI: Bando tipo”, standardizzazione e trasparenza nelle gare di appalti pubblici - ON-LINE I MATERIALI.
Sono già disponibili le slide di presentazione degli interventi al webinar di giovedì 13.12.2012 realizzato da FORUM PA in collaborazione con l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture e volto ad illustrare le novità contenute nella determina n. 4 del 10 ottobre scorso sul "Bando tipo".
Nel corso del seminario sono state prese in esame alcune delle cause tassative di esclusione dalle gare (link a http://saperi.forumpa.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

VARI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 31.12.2012, "Approvazione delle modalità operative semplificate per il rinnovo delle piccole derivazioni d’acqua sotterranea già concesse con le procedure di cui alla d.g.r. 29.12.1999, n. 47582 in attuazione dell’articolo 13, comma 1, della legge regionale 16.07.2012, n. 12" (deliberazione G.R. 28.12.2012 n. 4623).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 31.12.2012, "Approvazione della “Direttiva per il controllo degli scarichi degli impianti di trattamento delle acque reflue urbane, ai sensi dell’allegato 5 alla parte terza del d.lgs. 03.04.2006, n. 152 e successive modifiche e integrazioni” e revoca della deliberazione della giunta regionale 02.03.2011, n. 1393" (deliberazione G.R. 28.12.2012 n. 4621).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 31.12.2012, "Determinazioni in ordine ai criteri di gestione obbligatoria e delle buone condizioni agronomiche e ambientali ai sensi del reg. CE 73/09 - Modifiche ed integrazioni alla d.g.r. 4196/2007" (deliberazione G.R. 28.12.2012 n. 4613).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 31.12.2012, "Secondo aggiornamento dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche loro attribuite dall’art. 80 della legge regionale 11.03.2005, n. 12" (decreto D.G. 20.12.2012 n. 12476).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 29.12.2012 n. 302, suppl. ord. n. 213, "Approvazione del modello unico di dichiarazione ambientale per l’anno 2013" (D.P.C.M. 20.12.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 29.12.2012 n. 302, suppl. ord. n. 212/L, "Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2013)" (Legge 24.12.2012 n. 228).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 52 del 28.12.2012, "Interventi normativi per l’attuazione della programmazione regionale e di modifica e integrazione di disposizioni legislative - Collegato ordinamentale 2013" (L.R. 24.12.2012 n. 21).
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Di interesse l'art. 4 ("Modifiche alla l.r. n. 12/2005") che introduce dopo l'art. 25, comma 1-bis, l.r. n. 12 del 2005 ("Legge per il governo del territorio") tre nuovi commi, che declinano la disciplina transitoria necessaria per il completamento del processo di totale rinnovamento della strumentazione urbanistica comunale, pur
senza modificare il termine di validità dei vecchi piani regolatori generali, fissato al 31.12.2012 dall'art. 25, comma 1, della l.r. n. 12 del 2005.

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 21.12.2012, "Protocollo operativo per la gestione dei casi di inquinamento diffuso delle acque sotterranee" (deliberazione G.R. 13.12.2012 n. 4501).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: R. M. Carbonara, L’INCENTIVO PER LA PIANIFICAZIONE INTERNA - L’affermarsi di un orientamento (troppo) restrittivo (Personale News n. 24/2012 - tratto da www.gianlucabertagna.it).

EDILIZIA PRIVATA: T. Milelfiori, Sull’obbligo comunale di esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria (link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: A. Dal Molin, Spunti di riflessione e rassegna giurisprudenziale su alcune tematiche di interesse in ambito urbanistico-edilizio (29.10.2012 - tratto da www.solom.it).

EDILIZIA PRIVATA: W. Fumagalli, IL LAVORO DEGLI OPERATORI DELL’EDILIZIA È SEMPRE PIÙ COMPLICATO - La S.C.I.A. edilizia in Lombardia - Come se la crisi non bastasse, da Palazzo Lombardia ecco arrivare un’altra bella gatta da pelare (AL n. 9-10/2012).

EDILIZIA PRIVATA: W. Fumagalli, ALLE VOLTE SI RI-CICLANO ANCHE LE LEGGI - CHE FATICA TENTARE DI SALVARE LE RISTRUTTURAZIONI FUORI SAGOMA! - Dopo aver rotto le uova il Consiglio Regionale lombardo ha cercato di riaggiustarle, ma è un’impresa disperata (AL n. 7-8/2012).

EDILIZIA PRIVATA: W. Fumagalli, DOPO LA LEGGE REGIONALE N. 13/2009 È ARRIVATA LA LEGGE REGIONALE N. 4/2012 - COME È CAMBIATO IL “PIANO CASA”. Dalle “azioni straordinarie per lo sviluppo e la qualificazione del patrimonio edilizio e urbanistico della Lombardia”, alle “norme per la valorizzazione del patrimonio edilizio esistente (AL n. 6-7/2012).

CORTE DEI CONTI

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Il Comune di Montemarciano con nota a firma del suo Sindaco ha formulato, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. 131/2003, una articolata richiesta di parere in ordine alla corretta interpretazione della novella normativa recata dal D.L. n. 52 del 07.05.2012 –convertito in L. n. 94 del 06.07.2012– in tema di acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla soglia comunitaria.
In questa prospettiva ritiene
il Collegio che, a legislazione vigente, l’unica ipotesi in cui possano ritenersi consentite procedure autonome sia quella in cui il bene e/o servizio non possa essere acquisito secondo le modalità sin qui descritte ovvero, pur disponibile, si appalesi –per mancanza di qualità essenziali– inidoneo rispetto alle necessità della amministrazione procedente. Tale specifica evenienza dovrà essere, peraltro, prudentemente valutata e dovrà trovare compiuta evidenza nella motivazione della determinazione a contrattare i cui contenuti, per l’effetto, si arricchiscono.
In difetto di siffatta rigorosa verifica l’avvenuta acquisizione di beni e servizi, secondo modalità diverse da quelle previste dal novellato art. 1, comma 450, varranno, nella ricorrenza dei presupposti per il ricorso al Me.PA, ad inficiare il contratto stipulato ai sensi del disposto di cui all’art. 1, comma 1, L. 135/2012 ed a fondare le connesse responsabilità non potendo revocarsi in dubbio che, il Me.PA, sia ascrivibile al genus degli strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip Spa.

...
Il Comune di Montemarciano con nota a firma del suo Sindaco ha formulato, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. 131/2003, una articolata richiesta di parere in ordine alla corretta interpretazione della novella normativa recata dal D.L. n. 52 del 07.05.2012 –convertito in L. n. 94 del 06.07.2012– in tema di acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla soglia comunitaria.
Richiamati, in particolare,
• il disposto di cui al novellato art. 1 comma 450 della L. 296/2006 (L.F. 2007) a mente del quale “fermo restando gli obblighi di cui all’art. 449 della L. 296/2006, le altre amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 d.lgs. 165/2001 per gli acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo art. 328 (del d.p.r. 327/2010);
• la previsione di cui al prefato art.1 comma 449 che, nel porre l’obbligo per le amministrazioni statali centrali e periferiche di approvvigionarsi utilizzando le convenzioni-quadro, dispone –per le altre amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 d.lgs. 165/2001– la facoltà di ricorrere alle convenzioni quadro ovvero l’obbligo di utilizzarne i parametri prezzo-qualità come limiti massimi per la stipulazione dei contratti;
• nonché l’art. 1, comma 1, D.L. 95 del 06.07.2012 –come convertito in L. 135 del 07.08.2012– che commina la sanzione della nullità, tra l’altro, per i contratti stipulati in violazione degli obblighi di approvvigionarsi attraverso gli strumenti di acquisti messi a disposizione di CONSIP Spa, configurando, altresì, una ipotesi di responsabilità disciplinare oltre che una causa di responsabilità amministrativa;
il Comune istante chiede, partitamente, di conoscere il motivato avviso della Sezione in ordine:
• alla portata cogente per gli Enti locali del ricorso ai mercati elettronici ed alla possibilità di riconnettere all’espressione “sono tenuti a fare ricorso” un obbligo di “approvvigionarsi” ovvero di acquistare esclusivamente mediante il mercato elettronico;
• alla condotta che dovrebbe adottare l’Ente laddove rinvenisse sul mercato libero condizioni economiche e/o qualitative più vantaggiose ovvero laddove il bene offerto sul mercato elettronico fosse, anche solo parzialmente, non conforme alle esigenze dell’Ente medesimo;
• alla possibilità di ricondurre nell’ambito applicativo dell’art. 1 comma 1 D.L. 95/2012 anche i contratti stipulati in violazione dell’obbligo di ricorso al Mepa dovendo, dunque, ascriversi questo ultimo al genus “degli strumenti di acquisto messi a disposizione di Consip”;
• alla legittimità di una interpretazione funzionale della novella normativa in ragione della quale, nella ricorrenza di condizioni migliorative rispetto a quelle praticate sul Mepa, non sarebbe precluso agli Enti locali dar corso a procedure di acquisizione tradizionale;

...
La questione prospettata dal Comune di Montemarciano involge plurimi profili problematici il cui scrutinio – coerentemente con la natura vincolistica dei recenti interventi che hanno profondamente innovato il quadro normativo relativo agli acquisti di beni e servizi della p.a. – non può che essere condotto valorizzando una interpretazione rigorosa delle disposizioni di cui trattasi sì da non frustrarne o eluderne i sottesi principi informatori.
Ciò posto, la Sezione, pur evidenziando un indubbio problema di coordinamento delle nuove disposizioni con quelle di cui al previgente Codice dei contratti pubblici ed al relativo regolamento di esecuzione ed attuazione, con specifico riguardo alla portata della previsione recata dall’art. 1, comma 450, L.F. 2007 –come modificata dal secondo comma dell’art. 7 L. 94/2012– ritiene debba, atteso il chiaro tenore della stessa ed anche in applicazione dei canoni ermeneutici di cui all’art. 12, assegnarsi prioritario rilievo al criterio letterale.
Ne consegue che, in ragione del regime tratteggiato dalla richiamata disposizione e differenziato a seconda che si abbia riguardo alle “amministrazioni statali centrali e periferiche” ovvero alle “altre amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 d.lgs. 165/2001”,
gli Enti locali, ai fini dell’affidamento di appalti pubblici di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario, debbano obbligatoriamente ricorrere al mercato elettronico.
Non di meno non sussiste un obbligo assoluto di ricorso al Mercato elettronico della P.A. (c.d. Me.PA) essendo espressamente prevista la facoltà di scelta tra le diverse tipologie di mercato elettronico richiamate dall’art. 328 del d.p.r. 207/2010 e, segnatamente, il mercato elettronico realizzato dalla medesima stazione appaltante e quello realizzato dalle centrali di committenza di riferimento di cui all’art. 33 del Codice dei contratti.
Emerge, dunque, evidente un favor del legislatore per modalità di acquisto effettuata mediante sistemi c.d. di e-procurement siccome suscettivi di assicurare alla amministrazione la possibilità di entrare in contatto con una più ampia platea di fornitori ma, soprattutto, di garantire la tracciabilità dell’intera procedura di acquisto ed una maggiore trasparenza della stessa attesa l’automaticità del meccanismo di aggiudicazione con conseguente riduzione dei margini di discrezionalità dell’affidamento.
In vista del conseguimento di tale finalità –e nell’economia di una più complessiva operazione di razionalizzazione del sistema degli acquisti di beni e servizi della p.a. che ha trovato completamento con il D.L. 95/2012 (c.d. spending review 2)– il Legislatore ha ritagliato una disciplina specifica per gli acquisti sotto soglia dal carattere particolarmente stringente che, in difetto di espresse previsioni, pare non ammettere deroghe e/o eccezioni di sorta.
Né, a parere del Collegio, può, atteso il portato letterale delle disposizioni in parola, colmarsi tale preteso, secondo alcuni Commentatori, vuoto normativo in via interpretativa così come sollecitato dal Comune istante che, di fatto, prospetta due ipotesi –quella relativa all’esistenza sul mercato libero di condizioni contrattuali più favorevoli e quella relativa alla difformità parziale del bene disponibile sul mercato elettronico rispetto a quello rinvenuto sul mercato tradizionale– per cui la normativa non appresta alcuna disciplina positiva.
Del resto giova evidenziare che, a parte la gamma di possibilità offerta alla stazione appaltante alla stregua del richiamato art. 328 del Regolamento di esecuzione ed attuazione, lo stesso Me.PA, diversamente dal sistema delle Convenzioni Consip, si atteggia come un mercato aperto cui è possibile l’adesione da parte di imprese che soddisfino i requisiti previsti dai bandi relativi alla categoria merceologica o allo specifico prodotto e servizio e, quindi, anche di quella o quelle asseritamente in grado di offrire condizioni di maggior favore rispetto a quelle praticate sul Me.PA ovvero un bene/servizio conforme alle esigenze funzionali della amministrazione procedente.
D’altro canto, con riferimento ad entrambe le fattispecie delineate, preme segnalare che, proprio in virtù di tale peculiare caratteristica del mercato elettronico della P.A., quale mercato aperto, nell’ambito dello stesso è prevista una duplicità di modalità di acquisto: così, oltre all’ordine diretto che permette di acquisire sul Mercato Elettronico i prodotti/servizi con le caratteristiche e le condizioni contrattuali già fissate, è prevista la richiesta di offerta (cd. R.d.O) con la quale è possibile negoziare prezzi e condizioni migliorative o specifiche dei prodotti/servizi pubblicati sui cataloghi on-line.
In questa prospettiva
ritiene il Collegio che, a legislazione vigente, l’unica ipotesi in cui possano ritenersi consentite procedure autonome sia quella in cui il bene e/o servizio non possa essere acquisito secondo le modalità sin qui descritte ovvero, pur disponibile, si appalesi –per mancanza di qualità essenziali– inidoneo rispetto alle necessità della amministrazione procedente.
Tale specifica evenienza dovrà essere, peraltro, prudentemente valutata e dovrà trovare compiuta evidenza nella motivazione della determinazione a contrattare i cui contenuti, per l’effetto, si arricchiscono.
In difetto di siffatta rigorosa verifica l’avvenuta acquisizione di beni e servizi, secondo modalità diverse da quelle previste dal novellato art. 1, comma 450, varranno, nella ricorrenza dei presupposti per il ricorso al Me.PA, ad inficiare il contratto stipulato ai sensi del disposto di cui all’art. 1, comma 1, L. 135/2012 ed a fondare le connesse responsabilità non potendo revocarsi in dubbio che, il Me.PA, sia ascrivibile al genus degli strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip Spa
(Corte dei Conti, Sez. controllo Marche, parere 29.11.2012 n. 169).

NEWS

APPALTIAppalti, la verifica si fa sul web. Le p.a. controlleranno online i requisiti delle imprese. La procedura dell'Authority parte subito per i lavori sopra i 20 mln. A regime da luglio 2013.
Dal 1° gennaio verifiche online per gli appalti pubblici attraverso l'Avcpass dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, anche se il sistema sarà realmente obbligatorio per tutti gli appalti oltre i 40 mila euro dal 01.07.2013. I concorrenti dovranno registrarsi presso l'Autorità e tramite Posta elettronica certificata (Pec) inserire i documenti sul sistema che, una volta attivato, permetterà alle stazioni appaltanti di controllare i requisiti dichiarati senza più chiedere documenti cartacei.
È quanto prevede la deliberazione 24.12.2012 dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, che rende possibile la verifica dei requisiti di partecipazione agli appalti pubblici attraverso un sistema informatico collegato alla Banca dati nazionale dei contratti pubblici, istituita presso l'Autorità.
In realtà dalla delibera si evince che il sistema sarà a regime per la maggior parte degli appalti dal 01.07.2013, anche se dal 01.01.2013, per i soli appalti di lavori oltre i 20 milioni, sarà possibile utilizzare l'Avcpass. L'applicazione consentirà, da un lato, alle stazioni appaltanti l'acquisizione della documentazione comprovante il possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario per l'affidamento dei contratti pubblici (per l'aggiudicatario e i concorrenti sorteggiati in sede di verifica) e, dall'altro, agli operatori economici (imprese e professionisti) di inserire i documenti richiesti (previa registrazione al sistema Avcpass e utilizzando obbligatoriamente la propria Pec), con un notevole risparmio di tempo e di costi.
La delibera individua i dati concernenti la partecipazione alle gare e la valutazione delle offerte e prevede che l'Avcpass si applichi a tutte le tipologie di contratti disciplinate dal Codice per le quali è previsto il rilascio del Codice identificativo gara (Cig), cioè a quelle oltre i 40 mila euro. Il sistema prevede che dopo la registrazione al servizio Avcpass (accedendo al sito www.avcp.it -servizi ad accesso riservato– Avcpass), il concorrente indichi gli estremi della procedura di affidamento cui intende partecipare e riceva un «Passoe» da inserire nella busta contenente la documentazione amministrativa. Fermo restando l'obbligo per l'operatore economico di presentare le autocertificazioni richieste dalla normativa vigente in ordine al possesso dei requisiti per la partecipazione alla procedura di affidamento, il «Passoe» rappresenta lo strumento necessario per procedere alla verifica dei requisiti stessi da parte delle stazioni appaltanti.
Sarà poi il responsabile del procedimento (Rup) a chiedere all'Autorità i documenti a comprova dei requisiti autodichiarati dal concorrente. Gli operatori economici dovranno invece caricare sul sistema i documenti in proprio possesso. Per quel che riguarda i certificati dei servizi e delle forniture svolte, la delibera prevede che a regime siano messi a disposizione dall'Autorità che quindi dovrebbe acquisirli dalle stazioni appaltanti. Però, in considerazione del fatto che in molti settori non esiste un sistema standardizzato di certificati utilizzabili, la delibera prevede che, in via transitoria, gli operatori economici possono inserire nel sistema, al posto dei certificati dei servizi o delle forniture svolte, le fatture relative alle prestazioni svolte indicando, ove disponibile, il Cig del contratto cui si riferiscono (articolo ItaliaOggi del 29.12.2012).

APPALTIDECRETO CRESCITA/ Le imprese pagano per i bandi. Costi di pubblicazione dell'ente rimborsati da chi vince. Il meccanismo entrerà in vigore il 1° gennaio prossimo.
Dal 01.01.2013 le spese per la pubblicazione sui quotidiani dei bandi e degli avvisi di gara saranno rimborsate alla stazione appaltante dall'affidatario del contratto; rimane sempre ferma la disciplina prevista nel Codice dei contratti pubblici che obbliga anche dopo il 1° gennaio le stazioni appaltanti a pubblicare i bandi e gli avvisi, oltre che sulla Gazzetta Ufficiale, sul proprio sito internet e su quello del ministero delle infrastrutture e dell'Osservatorio dell'Autorità, anche per estratto su quotidiani a diffusione nazionale e locale.

È questo il quadro che si ricava alla luce del comma 35 dell'articolo 34 del decreto legge 179/2012, (legge 221/2012).
La norma prende in considerazione soltanto l'onere di pubblicità sui quotidiani di bandi e avvisi di gara che fa capo alle stazioni appaltanti e che riguarda la pubblicazione per estratto, ai sensi dell'articolo 66, comma 7, del Codice dei contratti pubblici, su due quotidiani a diffusione nazionale e due a diffusione locale, se si tratta di contratti di rilevanza comunitaria (ai sensi dell'articolo 122, comma 5, del Codice, su un quotidiano a diffusione nazionale e locale, se il contratto è al di sotto delle soglie di applicazione della normativa comunitaria). In sostanza il nuovo comma 35 dell'articolo 34 del provvedimento stabilisce che a partire dai bandi e dagli avvisi pubblicati successivamente al 01.01.2013, le spese per la pubblicazione per estratto sui quotidiani previste dalle norme del Codice (i citati articoli 66, comma 7 e 122, comma 5) «sono rimborsate alla stazione appaltante dall'aggiudicatario, entro il termine di 60 giorni dall'aggiudicazione».
La norma ha due effetti, ma lascia aperto un dubbio interpretativo che dovrebbe essere in qualche modo risolto.
Il primo effetto è quello di confermare a chiare lettere che anche dal 01.01.2013 le stazioni appaltanti sono comunque tenute alla pubblicazione sui quotidiani dei bandi e degli avvidi di gara per estratto. Da ultimo, e prima dell'approvazione della legge «anticorruzione», il dubbio poteva infatti esservi. Nel 2009, infatti, il comma 5 dell'articolo 32 della legge n. 69/2009 aveva stabilito che proprio a decorrere dal 01.01.2013, le pubblicazioni effettuate in forma cartacea non avessero più «effetto di pubblicità legale, ferma restando la possibilità per le amministrazioni e gli enti pubblici, in via integrativa, di effettuare la pubblicità sui quotidiani a scopo di maggiore diffusione, nei limiti degli ordinari stanziamenti di bilancio».
Con tutta probabilità, quindi, la pubblicazione sui quotidiani sarebbe sparita. Con la recente legge 06.11.2012, n. 190 («anticorruzione») il legislatore ha però previsto una disposizione «di salvezza» delle norme in materia di pubblicità contenute nel Codice dei contratti pubblici In sostanza, quindi, l'aver fatte salve le due norme del Codice dei contratti pubblici (vedi ItaliaOggi del 30.11.2012, pag. 35) ha significato implicitamente abrogare la norma che avrebbe fato perdere efficacia legale alla pubblicità sui quotidiani a decorrere da inizio 2013. Appare evidente, adesso, che la disposizione del decreto legge sulla crescita, nel testo del maxi-emendamento, nel prendere atto della norma della legge 190/2012, non fa altro che confermare l'obbligo di pubblicità sui quotidiani occupandosi però di venire incontro alle difficoltà di bilancio delle stazioni appaltanti.
Il secondo effetto è, appunto, quello di sollevare le finanze delle amministrazioni che, seppure dovranno sopportare inizialmente le spese di pubblicazione, si vedranno rimborsare tali spese dall'aggiudicatario del contratto dopo due mesi dall'aggiudicazione. Una sorta di spending review sulle spalle delle imprese.
Il dubbio interpretativo riguarda il fatto che, dal tenore letterale della norma, non si desume se e come chi partecipa alla gara avrà contezza dei costi già sostenuti dalla stazione appaltante, il che farà una certa differenza soprattutto quando le gare sono al massimo ribasso (articolo ItaliaOggi del 28.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTILe stazioni appaltanti dovranno iscriversi all'Anagrafe unica.
Le stazioni appaltanti dovranno iscriversi all'anagrafe unica istituita presso la Banca dati dei contratti pubblici, gestita dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, che dovrebbe essere attivata entro il 01.01.2013; in caso di inadempimento dell'obbligo di iscrizione scatta la nullità degli atti e la responsabilità amministrativa e contabile del funzionario responsabile.

È questa una delle principali novità contenuta nel testo del decreto legge 179 convertito, presentato dal governo e sul quale l'aula del senato ha votato ieri la fiducia.
Si tratta di una assolta novità l'istituzione presso l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture dell'anagrafe unica delle stazioni appaltanti alla quale obbligatoriamente ogni stazione appaltante dovrà iscriversi. La norma precisa infatti che le stazioni appaltanti di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture saranno tenute a richiedere l'iscrizione all'anagrafe unica presso la banca dati nazionale dei Contratti pubblici istituita ai sensi dell'articolo 52-bis del codice dell'amministrazione digitale di cui al decreto legislativo 07.03.2005 n. 82.
In sostanza ciò significa che prima dovrà essere attiva la banca dati nazionale dei contratti pubblici (che dovrebbe partire il 01.01.2013, quanto meno per gli affidamenti di rilievo superiore alla soglia comunitaria, stando ad alcune indiscrezioni filtrate nelle ultime settimane) e poi le amministrazioni potranno iscriversi. Sarà l'Autorità di vigilanza presieduta da Sergio Santoro a dettare, poi, con una propria delibera, le modalità operative e di funzionamento della anagrafe.
Gli obblighi per le amministrazioni non si esauriscono però nella mera iscrizione all'anagrafe, perché esse dovranno anche procedere, ogni anno, all'aggiornamento dei rispettivi dati identificativi. L'inadempimento di questi obblighi è previsto che dia luogo alla nullità degli atti adottati e alla responsabilità amministrativa e contabile dei funzionari responsabili (articolo ItaliaOggi del 28.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTINulla di fatto per le modifiche alla responsabilità solidale.
Nulla di fatto per la responsabilità solidale negli appalti: rimane la disciplina attuale; ammessi i contratti di rete nelle gare di appalto; salta all'ultimo momento l'estensione della disciplina sui crediti di imposta per le infrastrutture in PPP di importo superiore a 100 milioni e per quelle già aggiudicate.
È quanto emerge dal testo del dl 179/2012 convertito che proprio per il settore delle infrastrutture in project financing compie alcuni significativi passi indietro. Si parlava, con alcuni emendamenti dei relatori, di due modifiche alla disciplina sui crediti di imposta: la riduzione da 500 a 100 milioni della soglia minima di applicazione e della possibilità di utilizzarli anche per le opere aggiudicate.
Le due modifiche sono però saltate e tutto invariato. Stessa sorte per la proposta di esclusione del settore degli appalti pubblici dalla disciplina sulla responsabilità solidale fiscale; anche in questo caso la norma non compare più nel testo finale.
Rappresenta invece una novità, peraltro presa dal disegno di legge semplificazioni-bis, riguarda i cosiddetti contratti di rete stipulati fra aggregazioni di imprese ai sensi dell'articolo 3, comma 4-ter, del decreto legge 10.02.2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.04.2009, n. 33. La norma approvata ieri stabilisce che alle aggregazioni che si basano su questi contratti si applicano le disposizioni dell'articolo 37 del Codice dei contratti pubblici che, a sua volta, detta le regole per la costituzione e il funzionamento dei raggruppamenti temporanei di imprese e dei consorzi ordinari di concorrenti.
Ciò dovrebbe significare che le imprese che hanno sottoscritto il contratto di rete dovranno configurare la propria «aggregazione» secondo le regole proprie di queste due tipologie di soggetti raggruppati, quanto meno, quindi, secondo lo schema del mandato con rappresentanza. Infine per far fronte ai pagamenti per lavori e forniture già eseguiti, l'Anas potrà utilizzare le risorse dell'ex Fondo centrale di garanzia, nel limite di 400 milioni di euro (articolo ItaliaOggi del 28.12.2012).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAIl Durc dell'Inail è solo online. Dal 2 gennaio la richiesta va fatta in via telematica. Una circolare dell'Istituto indica i servizi che con il nuovo anno saranno su internet.
Dal 2 gennaio la richiesta del Durc potrà essere fatta all'Inail soltanto online. Così come solo per via telematica si dovranno presentare le domande di riduzione dei tassi medi di tariffe e i ricorsi in materia di applicazione delle tariffe dei premi.

L'Inail prosegue così sulla strada della telematizzazione obbligatoria dei servizi, avviata all'inizio del 2012, e con la circolare 21.12.2012 n. 68 indica il nuovo gruppo di istanze destinate a transitare solo online.
Riduzione del tasso medio di tariffa dopo il primo biennio di attività. Le aziende, operative da almeno un biennio, che eseguono interventi per il miglioramento delle condizioni di sicurezza e di igiene nei luoghi di lavoro, possono richiedere, entro il 28 febbraio (29 febbraio in caso di anno-bisestile) dell'anno per il quale la riduzione è richiesta, la riduzione del tasso medio di tariffa dopo il primo biennio di attività (riduzione per prevenzione OT 24). L'istanza di riduzione deve essere presentata utilizzando l'apposito servizio online attivo in www.inail.it alla sezione Punto Cliente - Denunce.
Riduzione del tasso medio di tariffa nei primi due anni di attività. Nei primi due anni di attività la riduzione dei premi può essere richiesta da tutti i datori di lavoro in regola con le disposizioni obbligatorie in materia di prevenzione infortuni. In questo caso la domanda deve essere presentata utilizzando l'apposito servizio online attivo in www.inail.it alla sezione Punto Cliente - Denunce all'atto della denuncia dei lavori, dopo l'inizio dei lavori (in qualsiasi momento, ma non oltre la scadenza del biennio di attività).
Ricorsi in materia di tariffe dei premi. I provvedimenti in materia di applicazione delle tariffe dei premi possono essere oggetto di ricorso al presidente dell'Istituto. Il ricorso deve essere proposto entro 30 giorni dalla piena conoscenza degli atti impugnati utilizzando il servizio online attivo in www.inail.it alla sezione Punto Cliente - Ricorsi on-line.
Documento unico di regolarità contributiva (Durc). Tutte le tipologie di richiesta di Durc devono essere effettuate esclusivamente utilizzando l'apposito servizio telematico disponibile sul sito www.sportellounicoprevidenziale.it. L'obbligo di richiedere il Durc esclusivamente in via telematica era già stato previsto per le amministrazioni pubbliche, i soggetti privati a rilevanza pubblica, le società di qualificazione (Soa), i consulenti del lavoro e per tutti gli altri intermediari previsti dalla legge 11.01.1979, n. 12.
Contributi di malattia e maternità per il settore della navigazione. Dovrà essere fatta esclusivamente online anche la denuncia mensile dei contributi di malattia e/o di maternità per il personale delle imprese di navigazione e del settore volo, compresa quella riguardante le quote di servizio e i contributi per l'assistenza contrattuale, limitatamente alle convenzioni in essere con l'Istituto. La denuncia deve essere effettuata utilizzando i servizi online disponibili sul sito www.inail.it - Navigazione marittima - Servizi on-line - Accesso Area dedicata agli utenti del settore navigazione- Denuncia contributi malattia e maternità.
Assistenza. A disposizione di aziende e consulenti ci saranno il contact center multicanale (Ccm) al numero verde 803.164 e il servizio -Inail Risponde- (disponibile nell'area Contatti del portale www.inail.it) per richiedere informazioni o chiarimenti sull'utilizzo dei servizi online e approfondimenti normativi e procedurali. Per gli utenti del settore marittimo, inoltre, è attivo uno specifico servizio di help-desk per la soluzione di eventuali problematiche di natura tecnica, raggiungibile al seguente indirizzo: helpdesk.navigazione@inail.it (articolo ItaliaOggi del 28.12.2012).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: LE NUOVE PENSIONI/ Al debutto la speranza di vita. Ai requisiti anagrafici si sommano per tutti tre mesi in più. Dal 01.01.2013 in vigore le regole della riforma Fornero.
Pensione sempre più lontana. Tre mesi almeno per tutti, da Capodanno, e senza contare il passo in avanti già preventivato dalla riforma Fornero.
I tre mesi sono l'effetto della cosiddetta speranza di vita che il prossimo 1° gennaio farà debutto (è la prima volta) sulla scena pensionistica. Vediamo, dunque, come si potrà andare in pensione nel 2013 tenendo conto che i requisiti (in sintesi riprodotti in tabella) si differenziano in base al regime contributivo cui si appartiene: quello retributivo/misto (chi possiede un'anzianità contributiva al 31.12.1995) e quello contributivo (chi non possiede un'anzianità contributiva al 31.12.1995).
Da quattro a due pensioni. Fino all'anno scorso si era abituati a ragionare sulle pensioni avendo in mente quattro possibilità: la pensione di vecchiaia retributiva, la pensione di vecchiaia contributiva, la pensione di anzianità con le quote e la pensione di anzianità con il massimo di lavoro (i famosi 40 anni). Dal 1° gennaio 2012 sono scomparse queste pensioni, sostituite da due prestazioni: la pensione di vecchiaia e la pensione anticipata.
Lavoratori con anzianità contributiva al 31.12.1995. Nel 2013 hanno diritto alla pensione di vecchiaia con almeno 20 anni di contributi e un'età di: ... (articolo ItaliaOggi del 28.12.2012).

ENTI LOCALIBilanci 2013 zeppi di incognite. I nodi: Imu, fondo di solidarietà, trasferimenti regionali. Il 2012 lascia in eredità molte questioni aperte. Giro di vite sugli oneri di urbanizzazione.
L'esercizio finanziario che sta per iniziare si presenta, per i comuni, ricco di incognite quanto quello che sta per concludersi. Non a caso, la legge di stabilità 2013, appena approvata dal parlamento, ha rinviato di sei mesi (al 30 giugno) il termine per l'approvazione del prossimo bilancio di previsione.
Alcune delle questioni aperte nascono proprio da partite relative al 2012 non ancora chiuse.
In primo luogo, entro il prossimo mese di febbraio si provvederà alla regolazione dei rapporti finanziari con lo stato a seguito della verifica del gettito dell'Imu (art. 9, comma 6-bis, del dl 174/2012). In ogni caso, il Mef ha chiarito che, in sede di consuntivo, gli enti dovranno confermare l'importo relativo al gettito stimato dal dipartimento delle finanze e che tale entrata convenzionale deve essere considerata valida ai fini del Patto.
Contestualmente, dovrebbe essere reso definitivo il riparto del taglio da 1.450 milioni previsto dall'art. 28 del dl 201/2011, anch'esso legato alla distribuzione territoriale dell'Imu.
Infine, entro il 31 marzo (termine perentorio) i comuni soggetti al Patto di quest'anno dovranno comunicare al ministero dell'interno (con modalità da stabilire entro il 31 gennaio) l'importo non utilizzato per l'estinzione o la riduzione anticipata del debito ai sensi dell'art. 8, comma 3, del dl 174, che verrà decurtato nel 2013. Tutte queste variazioni riguardano la competenza 2012, ma in termini di cassa incideranno sul 2013.
La nuova Imu
Lo «spacchettamento» dell'Imu deciso dalla legge di stabilità (con destinazione ai comuni dell'intero gettito sugli immobili residenziali ed allo stato di quello relativo agli immobili produttivi), per quanto opportuno in una prospettiva di medio-periodo, nell'immediato pone altri punti interrogativi, essendo (inevitabilmente) accompagnato da un nuovo meccanismo perequativo (il fondo di solidarietà comunale) che sostituisce il fondo sperimentale di riequilibrio (e i residui trasferimenti erariali) e che difficilmente sarà operativo prima del mese di maggio. Per la definizione dei relativi criteri di formazione e di riparto, infatti, è prescritta l'adozione di un dpcm che dovrà essere emanato (previo accordo in Conferenza stato-città e autonomie locali) entro il 30 aprile (in caso di mancato accordo il termine per l'emanazione slitta di 15 giorni).
Nelle more, il Viminale provvederà, entro il 28 febbraio, ad erogare un anticipo pari al 20% di quanto dovuto ai comuni per l'anno 2012 a titolo di fsr o di trasferimenti (a tal fine si assumerà come riferimento l'importo delle spettanze pubblicato alla data del 31.12.2012). I successivi conguagli dovranno tenere conto di una lunga serie di parametri (costi e fabbisogni standard, dimensione demografica e territoriale, capacità fiscale ai fini Imu e distribuzione del relativo gettito, tagli ex art. 16 del dl 95), oltre che ovviamente, anche in tal caso, dell'esito delle verifiche sull'Imu 2012. Per evitare oscillazioni eccessive, la legge di stabilità ha previsto l'introduzione di una clausola di salvaguardia, che dovrebbe «limitare le variazioni, in aumento e in diminuzione, delle risorse disponibili».
Tares
Non pochi dubbi avvolgono anche il nuovo tributo comunale su rifiuti e servizi indivisibili (Tares), che dal 1° gennaio sostituirà Tarsu, Tia1 e Tia2. Sui siti di diversi comuni, infatti, si trovano ancora istruzioni di pagamento ormai superate (in quanto riferite al precedente regime fiscale o tariffario), che vanno aggiornate quanto prima. Al riguardo, occorre tener presente che la Tares può essere pagata o in un'unica soluzione entro il mese di giugno o in modo rateizzato. I comuni possono decidere autonomamente il numero e la scadenza delle rate (la disciplina standard ne prevede 4, scadenti a gennaio, aprile, luglio e ottobre), ma per il 2013 la legge di stabilità ha previsto che il versamento della prima rata sia comunque posticipato ad aprile e che i comuni non possano anticiparlo, ma solo eventualmente differirlo.
Sempre per il 2013, inoltre, fino alla determinazione delle nuove tariffe, l'importo da pagare è commisurato a quanto versato nel 2012 a titolo di Tarsu o di Tia, salvo conguaglio, e il pagamento della quota per i servizi indivisibili è effettuato nella misura standard di 0,30 euro al metro quadrato fino all'ultima rata, allorché verrà effettuato il conguaglio riferito all'eventuale incremento della maggiorazione fino a 0,40 euro.
Trasferimenti regionali
Nebuloso è anche il destino trasferimenti regionali, che dal 2013 dovrebbero essere fiscalizzati e sostituti da una compartecipazione all'addizionale regionale Irpef (e alla tassa automobilistica regionale per le province). Al momento, tuttavia, quasi nessuna regione ha provveduto (si veda ItaliaOggi del 23 novembre).
Oneri di urbanizzazione
Dal prossimo anno, infine, non potranno più essere applicati alla parte corrente della spesa i proventi degli oneri di urbanizzazione: non è stata, infatti, prorogata la deroga di cui all'art. 2, comma 8, della legge 244/2007, che ha quindi esaurito i suoi effetti nel 2012 (articolo ItaliaOggi del 28.12.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOTrasparenza, albo e sito a braccetto. I chiarimenti in una delibera Civit.
Doppia trasparenza per gli enti locali. L'albo pretorio non basta per la pubblicazione delle varie informazioni che occorre mettere in evidenza ai fini delle varie disposizioni che puntano sulla cosiddetta total disclosure. Occorre sempre replicare ogni atto nella sezione «Trasparenza, valutazione e merito», obbligatoriamente prevista nei siti internet istituzionali, ai sensi del dlgs 150/2009.

Lo ha stabilito la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche (Civit) con la deliberazione 18.12.2012 n. 33/2012, confermando che l'attuale regime delle pubblicazioni complica le cose per le amministrazioni, costrette ad un'ondata di burocrazia, in attesa che si modifichi il regime normativo delle pubblicazioni obbligatorie.
La Civit ha inteso rispondere ad uno dei primi problemi applicativi delle disposizioni dell'articolo 18 del dl 83/2012, convertito in legge 134/2012, la norma sulla cosiddetta «amministrazione aperta», che in effetti crea un doppione di molte pubblicazioni già obbligatorie ai sensi di altre norme, relativamente ai procedimenti di erogazione di contributi o di assegnazione di incarichi di collaborazione esterna e di appalti, di importi superiori ai 1.000 euro.
Si constata, nella deliberazione della Civit, che alcuni tra gli atti da pubblicare nell'albo pretorio (avvisi, bandi di gare, appalti, bandi di concorso per l'assunzione di personale) rientrano tra quelli che sia a norma dell'articolo 18 della legge 134/2012, sia a norma della legge 190/2012 (anticorruzione) devono essere pubblicati anche sul sito dell'ente.
Secondo la Civit, «ad analoga conclusione si può pervenire esaminando l'oggetto di alcune delle determinazioni dirigenziali».
Né la norma sull'amministrazione aperta, né la legge anticorruzione hanno espressamente previsto che le pubblicazioni da esse previste siano sostitutive di quella all'albo pretorio, che non è stata abrogata.
I primi osservatori avevano constato che in ragione di ciò, le disposizioni sulla trasparenza fossero da cumulare: gli adempimenti, dunque, sono aggiuntivi e non sostitutivi l'uno dell'altro.
La Civit, correttamente, osserva che l'inserimento degli atti nell'albo pretorio ha una durata temporalmente limitata: ciò induce a ritenere tenere «distinto l'obbligo di affissione nell'albo pretorio da quello di pubblicazione sul sito web»; il secondo, infatti, non è espressamente soggetto a limiti temporali (semmai, il problema è dato da limiti «fisici» degli spazi di archiviazione).
Da qui la conclusione tratta dalla Civit: «L'affissione di atti nell'albo pretorio online non esonera l'amministrazione dall'obbligo di pubblicazione anche sul sito istituzionale nell'apposita sezione “Trasparenza, valutazione e merito”, nei casi in cui tali atti rientrino nelle categorie per le quali l'obbligo è previsto dalla legge».
Le indicazioni della commissione sono ineccepibili ed aderenti al dettato legislativo, ma confermano un incremento notevole del carico di lavoro. In assenza di strumenti informatici capaci di integrare le varie informazioni ed i database contenenti gli atti da pubblicare, gli uffici saranno chiamati a replicare più volte le pubblicazioni, con buona pace della semplificazione e della razionalizzazione del lavoro.
Risulta, dunque, urgente attuare la delega legislativa prevista dall'articolo 1, comma 35, della legge 190/2012, che chiama il Governo futuro a un decreto legislativo «per il riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, mediante la modifica o l'integrazione delle disposizioni vigenti, ovvero mediante la previsione di nuove forme di pubblicità» (articolo ItaliaOggi del 28.12.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOGhigliottina sui contratti locali. Se non adeguati alla legge Brunetta cessano al 31/12. Gli enti sono rimasti inerti credendo alla disapplicazione della riforma. Accordi a rischio.
Tempo scaduto per i contratti collettivi decentrati degli enti locali. Laddove non fossero stati adeguati alle disposizioni della riforma Brunetta, il dlgs 150/2009, dal 01.01.2013 cesserà totalmente la loro applicazione e le amministrazioni potrebbero trovarsi senza la legittima possibilità di applicare la contrattazione aziendale.
Col nuovo anno, scatta la tagliola prevista dall'articolo 65 del dlgs 150/2009, ai sensi del quale era necessario per le amministrazioni locali adeguare i contratti decentrati alla riforma entro il 31.12.2011, in mancanza di che cessano la loro efficacia con lo spirare del 31.12.2012.
Si conclude, dunque, il lunghissimo periodo di sospensione dell'effetto ghigliottina sui contratti decentrati, fortemente voluto a suo tempo dall'Anci, che si è rivelato, però, molto controproducente.
Infatti, ambigue letture dell'articolo 65 sono state utilizzate dai sindacati e dalle prime pronunce dei giudici del lavoro, per ritenere che detto articolo avesse addirittura sospeso l'efficacia della riforma Brunetta.
Questa tesi iniziale è stata, poi, smentita sia dalla giurisprudenza successiva (in particolare dai tribunali in sede di opposizione ai decreti monocratici dei giudici del lavoro emessi in applicazione dell'articolo 28 dello statuto dei lavoratori), sia dall'articolo 5, comma 1, del dlgs 141/2011.
Norma, quest'ultima, di interpretazione autentica, ai sensi della quale «l'articolo 65, commi 1, 2 e 4, del decreto legislativo 27.10.2009, n. 150, si interpreta nel senso che l'adeguamento dei contratti collettivi integrativi è necessario solo per i contratti vigenti alla data di entrata in vigore del citato decreto legislativo, mentre ai contratti sottoscritti successivamente si applicano immediatamente le disposizioni introdotte dal medesimo decreto».
Sta di fatto che l'iniziale erronea lettura della portata dell'articolo 65 ha portato moltissimi enti a ritenere non necessario adeguare i contratti in essere, in attesa della disapplicazione ex lege.
Chi non avesse già adeguato i contratti o quanto meno attivato per tempo la contrattazione per il 2013, rischia, adesso, di trovarsi nell'impossibilità di erogare il trattamento economico accessorio strettamente connesso alla contrattazione e di disapplicare totalmente le disposizioni decentrate di parte giuridica.
L'effetto ghigliottina sui contratti decentrati non adeguati al dlgs 150/2009 implica che gli enti, in assenza di nuovi contratti, potranno solo erogare i trattamenti connessi al fondo della contrattazione decentrata direttamente disciplinati dagli ancora vigenti contratti nazionali di lavoro. Si tratta di voci come, ad esempio, la posizione di sviluppo dovuta alla progressione orizzontale, l'indennità di comparto, l'indennità di rischio, l'incentivo per le ex ottave qualifiche funzionali, le indennità di turno, reperibilità, maneggio valori, a condizione che siano formalmente organizzati servizi richiedenti queste prestazioni, l'orario notturno, festivo e notturno-festivo.
Non sarà possibile disciplinare nuove progressioni orizzontali (del resto congelate per effetto dell'articolo 9, comma 1, della legge 122/2010, né ammissibili solo giuridicamente, contrariamente all'erroneo indirizzo proposto dalla Corte dei conti), né attribuire indennità la cui determinazione risulti competenza esclusiva, anche per l'ammontare, della contrattazione decentrata.
Si tratta, ad esempio, di tutte le indennità come quelle per il disagio, o quelle previste dall'articolo 17, comma 2, lettera f), del Ccnl 01.04.1999, o quelle previste per protocollatori o addetti agli uffici relazioni col pubblico, ai sensi dell'articolo 17, comma 2, lettera i), sempre del Ccnl 01.04.1999, come modificato dall'articolo 36, comma 2, del Ccnl 22.01.2004.
Gli enti, per evitare il congelamento di queste risorse e di importanti parti del salario accessorio è opportuno corrano ai ripari e stipulino celermente contratti decentrati adeguati senza eccezione alcuna al dlgs 150/2009, anche per gli eventuali incrementi consentiti dall'articolo 15, commi 2 e 5, del Ccnl 01.04.1999.
In mancanza, le indennità connesse strettamente alla contrattazione e anche la possibilità dell'incremento dei fondi risulta compromessa. Né sarebbe legittimo attivare gli istituti connessi alla contrattazione aziendale sulla base di contratti decentrati sottoscritti nel corso del 2013, ma con effetti retroattivi, poiché i contratti producono effetti solo successivamente alla loro sottoscrizione definitiva (articolo ItaliaOggi del 28.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTI: Il 2013 sarà l'anno della Tares. Rifiuti e servizi unificati in un unico tributo comunale. Tutto quello che i comuni devono sapere per prepararsi all'appuntamento del 1° gennaio.
Dal 01.01.2013 sono soppressi tutti i prelievi relativi alla gestione dei rifiuti e in tutti i comuni del territorio nazionale viene introdotto il tributo comunale sui rifiuti e sui servizi. La conoscenza della produzione dei rifiuti prodotti dalle utenze all'interno di un determinato territorio, sia in termini quantitativi che qualitativi, oltre a consentire di effettuare una corretta gestione dei servizi di igiene urbana, consentirà di valutare, in maniera diretta e secondo il principio del «chi più produce, più paga», il corrispettivo che ciascuna utenza dovrà versare al soggetto che di tale gestione si occupa.
Il calcolo della Tares dovrà essere effettuato sulla base dell'80% della superficie catastale; tuttavia, per consentirne una effettiva applicabilità dal 01.01.2013, una recente disposizione prevede che, in via di prima applicazione, per gli immobili che non hanno una superficie catastale aggiornata, l'Agenzia del territorio determini una superficie convenzionale.
In via transitoria, dal 01.01.2013 si potranno applicare le disposizioni del dpr 158/1999 con una maggiorazione di 0,30 euro per metro quadrato a copertura dei costi.
I comuni potranno, con delibera del consiglio, modificare la maggiorazione fino a 0,40 euro anche in virtù della ubicazione e della tipologia dell'immobile. Sono previste anche riduzioni (nella misura massima del 30% nel caso di a) abitazioni con un unico abitante; b) abitazione per uso stagionale; c) cittadini proprietari residenti all'estero per più di sei mesi; d) fabbricati rurali a uso abitativo.
Una ulteriore riduzione (non superiore al 40% spetta per le zone in cui non è effettuata la raccolta) ovvero nel caso di smaltimento in proprio dei rifiuti assimilati. Il calcolo del tributo avviene sulla base di tabelle allegate al regolamento approvato dal comune. Tali dati possono essere dedotti da una serie di specifiche tabelle allegate alla citata normativa oppure in modo più preciso e razionale eseguendo misure sperimentali dirette nell'ambito territoriale di applicazione della Tares.
Le procedure di calcolo prevedono accertamenti sperimentali per quantificare la produzione dei rifiuti da parte delle diverse tipologie di utenza, e richiedono una sperimentazione attiva capace di portare a regime la corretta gestione e applicazione del tributo (articolo ItaliaOggi del 28.12.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Commissioni variabili. Il regolamento può aumentare i componenti. Fa eccezione solo la materia elettorale, di competenza dello stato.
Può essere aumentato il numero dei componenti delle commissioni consiliari permanenti e speciali previsto dal regolamento comunale qualora l'attuale previsione fosse ritenuta lesiva del principio di rappresentanza di ciascun gruppo consiliare in seno alla commissione stessa?
L'articolo 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000 dispone che le commissioni consiliari, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dall'apposito regolamento comunale con l'inderogabile limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio devono essere il più possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse ne sia riprodotto il peso numerico e di voto; la proporzionalità è volta ad assicurare in seno alle commissioni la maggiore rappresentatività possibile.
Il legislatore, però, non ha precisato in che modo debba essere applicato detto criterio di proporzionalità. Si ritiene che spetti al regolamento, cui sono demandate la determinazione dei poteri delle commissioni, nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, stabilire i meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
Secondo un orientamento giurisprudenziale, il criterio proporzionale può dirsi rispettato solo ove sia assicurata la presenza in ogni commissione di ciascun gruppo presente in consiglio, in modo che se una lista è rappresentata da un solo consigliere, questi deve essere presente in tutte le commissioni costituite (v. Tar Lombardia, Brescia, 04/07/1992, n. 796; Tar Lombardia Milano, 03/05/1996, n. 567), assicurando una composizione delle commissioni proporzionata all'entità di ciascun gruppo consiliare.
La stessa giurisprudenza richiamata ha, inoltre, precisato che il criterio proporzionale «è posto dal legislatore come direttiva suscettibile di svariate opzioni applicative, egualmente legittime purché coerenti con la ratio che quel principio sottende, e che consiste nell'assicurare in seno alle commissioni la maggiore rappresentatività possibile. Al raggiungimento di questo obiettivo concorrono, non solo la rappresentanza individuale proporzionata alla consistenza delle forze politiche presenti nell'organo elettivo, ma anche –quando la varietà di consistenza e di numero dei gruppi non consenta di conseguire l'obiettivo, con precisione aritmetica, per quozienti interi– meccanismi tecnici (quali il voto ponderato, il voto plurimo e simili) idonei ad assicurare a ciascun commissario un peso corrispondente a quello della forza politica che rappresenta» (Tar Lombardia, n. 567/1996).
Pertanto, l'ente, nell'ambito della propria autonomia organizzativa, potrà valutare l'evenienza di procedere ad opportuna integrazione delle previsioni regolamentari, individuando la soluzione applicativa che meglio garantisca il rispetto del criterio proporzionale nella composizione delle commissioni consiliari.
Tuttavia, un'eventuale modifica regolamentare che determini l'aumento del numero dei componenti delle commissioni consiliari, non potrà in alcun modo trovare applicazione con riferimento alla composizione della commissione elettorale comunale, disciplinata dall'art. 12 del dpr 20.03.1967, n. 223.
Infatti, la materia elettorale rientra tra quella di competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. p) della Costituzione, e agli adempimenti ad essa relativi sovrintende il sindaco in qualità di ufficiale del governo (artt. 14 e 54, comma 3, del dlgs. n. 267/200) (articolo ItaliaOggi del 28.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

INCARICHI PROFESSIONALIRiforma forense. Compensi senza limiti massimi. Il preventivo dell'avvocato solo su richiesta del cliente.
ACCORDI/ Il patto di quota lite resta possibile ma il professionista non può ricevere parte del bene oggetto della causa.

La legge professionale degli avvocati tende ad eliminare le asimmetrie informative, cioè le incertezze, le difficoltà di orientamento del cliente. La scelta del professionista deve poter avvenire anche sulla base di una comparazione tra compensi, cioè circa i costi della prestazione, che in ogni caso è “obbligazione di mezzo”. L'avvocato cioè mette a disposizione i mezzi per raggiungere un risultato, non garantisce il risultato stesso. Solo in modo indiretto, e appunto in tema di compensi, vi può essere un impegno del legale a raggiungere il risultato, ancorando la retribuzione al vantaggio concreto del cliente (patto di quota lite).
Procedendo con ordine, nell'ottica dell'utente, si possono prevede situazioni di prestazione gratuita (articolo 13), ad esempio per condivisione di interessi, partecipazione a comuni ideali o per valutazione della notorietà che può derivare al professionista dalla controversia. L'avvocato infatti può esercitare l'attività anche a proprio favore, traendo un vantaggio anche indiretto, ad esempio nel caso di partecipazione all'affare (difendendo propri interessi in una lite condominiale, tra soci, tra parenti), a differenza di altre professioni, in cui è presente anche una funzione di garanzia per i terzi (ad esempio, nella revisione contabile). La prestazione gratuita, che il cliente avrà cura di pattuire espressamente, non è in contrasto con il principio della «retribuzione proporzionata e sufficiente» posto dall'articolo 36 della Costituzione (Cassazione 1223/2003).
Anche la prestazione pattuita come gratuita potrebbe, tuttavia, diventare onerosa se si altera l'equilibrio iniziale (ad esempio, la comunanza di interessi, di ideali, la potenziale parentela): di qui l'opportunità che patti su prestazioni gratuite siano redatti in forma scritta, con una clausola di invariabilità.
Le pattuizioni sul compenso possono avere varie basi di calcolo (si veda la scheda in alto), tenendo presente che non sono previsti limiti massimi. È tuttavia possibile che una pretesa eccessiva del professionista sia stata ottenuta sulla base di un errore del cliente (che pensava particolarmente difficile il risultato), o di una situazione di debolezza (infondato timore di un danno che avrebbe potuto verificarsi): in questi casi l'avvocato che risulti aver approfittato del cliente rischia anche sanzioni disciplinari. Un problema simile a quello dei limiti massimi, è posto dal patto di quota lite.
Tale patto prevede che il compenso del professionista sia collegato ad un certo risultato, coinvolgendo il professionista stesso nella tensione verso un risultato favorevole. In caso di vittoria, il compenso è ancorato al valore del bene ottenuto, anche superando quanto risulterebbe applicando un compenso medio, elevato o elevatissimo. Il patto di quota lite ha l'effetto di coinvolgere il professionista nel risultato da ottenere, e rimedia sia alla mancata anticipazione del compenso (in genere, una percentuale di quanto pattuito per l'intera vicenda) sia alla mancata anticipazione delle spese vive (consulenze, approfondimenti, studi).
La riforma forense appena approvata consente tale patto, ma pone uno specifico limite: l'articolo 13, comma 4 impedisce che l'avvocato percepisca, come compenso, una quota del beni oggetto della prestazione. Ciò significa che il professionista non può, attraverso la vittoria di una lite o la positiva gestione di una trattativa, diventare socio, quotista o comproprietario di un bene insieme al suo cliente. L'avvocato può esigere il pagamento della quota lite, ma solo in danaro, senza poter obbligare il cliente a condividere il bene. In tal modo, si applica alla professione il divieto di “patto commissorio” (articolo 2744 del Codice civile).
La legge professionale non prevede l'obbligo di forma scritta per i patti sul compenso, nemmeno nei casi di prestazione gratuita o di quota lite. È tuttavia intuitivo che, sia per le ipotesi di compensi squilibrati (gratuiti o in quota lite), sia per la generalità degli affari legali, le parti coinvolte si scambieranno corrispondenza. Se il cliente lo chiede, il professionista è tenuto a comunicare in forma scritta la prevedibile misura del costo della prestazione, con voci suddivise in spese, oneri (fiscali, previdenziali) e compenso professionale. Il cliente, in tal modo, potrà comparare i servizi offerti.
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I compensi
01 | PATTUIZIONE A TEMPO
La «Pattuizione a tempo» si applica alle prestazioni per lo più telefoniche, all'assistenza a singoli atti. Viene definita «a tempo» perché ha come unità di misura l'ora o una sua frazione di effettivo impegno
02 | PATTUIZIONE FORFETARIA
La «Pattuizione forfetaria» opera indipendentemente dal tempo e dalla difficoltà del caso. Normalmente si collega ad una specifica vicenda o ad una fase predefinita
03 | SU UNO O PIÙ AFFARI
L'indicazione «Su uno o più affari» presuppone la delimitazione di un oggetto di consulenza o di una specifica lite. Può esser collegato ad un'esclusiva o ad un numero minimo di affari da gestire
04 | IN BASE AI TEMPI DI EROGAZIONE
L'indicazione «In base ai tempi di erogazione» riguarda i tempi di risposta, immediata, dodici ore, ventiquattro ore o altra tempistica con o senza presenza fisica
05 | IN BASE ALL'ASSOLVIMENTO
L'indicazione «In base all'assolvimento» riguarda i dettagli dell'incarico: ad esempio, la possibilità di farsi sostituire da ausiliari o collaboratori
06 | PER SINGOLE FASI O PRESTAZIONI
L'indicazione «per singole fasi o prestazioni» riguarda le vicende che possono evolversi, ad esempio in primo grado, in appello, in Cassazione, urgente (cautelare) o di merito (che si conclude con sentenza)
07 | A PERCENTUALE
L'indicazione «A percentuale» sottointende sul valore economico dell'affare o sul vantaggio, anche non strettamente patrimoniale, del cliente (articolo Il Sole 24 Ore del 27.12.2012).

CONDOMINIOPubblicate in G.U. le nuove disposizioni sui condomini, in vigore anche per quelli complessi. Una riforma senza esclusioni. Disciplina estesa a villette a schiera o centri residenziali.
Disciplina condominiale ad ampio raggio. La legge di riforma, la n. 220 dell'11/12/2012, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 293 del 17 dicembre scorso, ha infatti definitivamente chiarito che la nuova disciplina si applica anche ai condomini complessi, o supercondomini, ai c.d. condomini orizzontali e anche nelle ipotesi di multiproprietà.
In altri termini, la normativa dettata per i caseggiati costituiti da un unico corpo si applica anche a quei complessi edilizi sempre più articolati, distinti in diversi corpi di fabbrica, dotati di autonomia strutturale, ma caratterizzati dalla presenza di una serie di opere e servizi comuni a tutto il complesso edilizio. Tale principio riguarda il grande caseggiato composto da una pluralità di corpi di fabbrica affiancati l'uno all'altro, con le scale, gli ingressi e la copertura distinti, ma aventi in comune determinate parti essenziali o utili, e il gruppo di palazzine signorili o di palazzi con numerosi piani, i quali in comune beneficiano di alcuni beni, impianti e servizi necessari per l'esistenza o per l'uso, ovvero destinati all'uso o al servizio comune.
Il nuovo art. 1117-bis del codice civile, introdotto dalla legge di riforma, chiarisce quindi che la disciplina del condominio si applica, in quanto compatibile, in tutti i casi in cui più unità immobiliari o più edifici ovvero più condomini di unità immobiliari o di edifici abbiano parti comuni (per esempio, i muri maestri, i pilastri di ferro o di cemento armato legati tra loro dalle travi, i lastrici solari, il riscaldamento centrale, l'impianto per l'acqua calda e per il condizionamento dell'aria, l'ingresso e le strade di accesso ecc.).
La medesima disciplina si applica anche alle villette o costruzioni plurifamiliari delle località di villeggiatura: infatti, di condominio si può parlare non solo negli edifici che si estendono in senso verticale, ma anche in relazione a corpi di fabbrica adiacenti orizzontalmente (come in particolare proprio le villette c.d. a schiera), che possono ben essere dotati di strutture portanti e di impianti essenziali comuni. Quindi anche nel caso in cui le unità immobiliari esclusive non siano disposte verticalmente (una sopra all'altra nello stesso edificio) ma orizzontalmente, cioè una accanto all'altra, sussiste un'ipotesi di condominio, da qualificarsi come orizzontale qualora esista un patrimonio comune a tali porzioni, cioè un complesso di beni e/o impianti destinati strutturalmente e funzionalmente al servizio o al godimento delle predette unità immobiliari private.
Tutte queste situazioni sono oggi contemplate nella legge di riforma del condominio. In particolare, seguendo la definizione normativa, possono ipotizzarsi le seguenti combinazioni: più unità immobiliari autonome, per esempio villette o garage; più edifici condominiali; più gruppi di unità immobiliari autonome aventi ciascuno un'organizzazione condominiale, definiti condomini di unità immobiliari; più gruppi di edifici condominiali, definiti condomini di edifici. In tutte le quattro ipotesi considerate, la caratteristica comune è rappresentata dall'esistenza di parti che servono all'uso comune, quali aree, opere, installazioni e manufatti di qualunque genere. Non si ha, invece, condominio quando vi sono edifici totalmente distinti e autonomi: infatti, le regole condominiali riguardano essenzialmente gli immobili divisi in piani orizzontali e trovano applicazione anche per quei fabbricati che siano verticalmente divisi da una semplice paratia di legno. Esse non riguardano invece l'edificio che sia diviso in due parti da un muro interno verticale, dalle fondamenta al tetto, in modo da formare due corpi di fabbrica distinti e autonomi.
Allo stesso modo la nuova disciplina riguarda anche i proprietari delle singole unità immobiliari dell'edificio, anche se aventi diritto a godimento periodico, cioè i proprietari di appartamenti in multiproprietà facenti parte di un condominio: il multiproprietario è condomino diretto a tutti gli effetti ed è titolare dei diritti e degli obblighi che gli fanno capo, in quanto condomino. Del resto la multiproprietà di singole unità immobiliari nell'ambito di un complesso residenziale non importa alcuna deroga all'applicazione della disciplina sul condominio negli edifici per quanto riguarda le parti e ai servizi comuni di utilità generale all'intero edificio.
Inoltre resta confermato che la sussistenza del condominio non è influenzata dal numero dei titolari delle proprietà esclusive, con la conseguenza che è sufficiente che vi siano anche due soli partecipanti affinché lo stesso venga a giuridica esistenza e si applichino le relative regole di funzionamento e di gestione: si tratta del c.d. condominio minimo (articolo ItaliaOggi Sette del 24.12.2012).

VARIIl ddl sulle categorie non regolamentate. Vigilanza al ministero dello sviluppo. L'albo non fa più la differenza. Regole chiare per le professioni.
Attività in chiaro per i senz'albo. Il consumatore che vuole affidarsi a un professionista non iscritto a un ordine, infatti, d'ora in poi potrà andare sul sito del ministero dello sviluppo economico, scorrere l'elenco delle associazioni professionali legate al settore d'interesse, e valutare attestazioni e standard qualitativi degli iscritti.

È questo uno degli obiettivi principali del disegno di legge sulle professioni non regolamentate, approvato il 19 dicembre scorso in via definitiva dalla Camera (si veda ItaliaOggi del 20 dicembre), che regolamenta dopo 30 anni un universo di 3,5 milioni di lavoratori, dipendenti e autonomi, che esercitano un'attività professionale senza essere iscritti in ordini o albi professionali. Ma vediamo nel dettaglio cosa prevede la legge, in via di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Le definizioni. Il ddl definisce anzitutto la professione non organizzata in ordini o collegi, escludendo dalla disciplina le attività riservate per legge a soggetti iscritti in albi o collegi, le professioni sanitarie e le attività e mestieri artigianali, commerciali e di pubblico esercizio disciplinati da specifiche normative. Chiunque svolga una professione non ordinistica, inoltre, dovrà contraddistinguere la propria attività, in ogni documento e rapporto scritto con il cliente, con l'espresso riferimento, quanto alla disciplina applicabile, agli estremi della stessa legge.
Le associazioni. I professionisti possono costituire associazioni professionali, allo scopo di valorizzare le competenze degli associati, diffondere tra essi il rispetto di regole deontologiche, favorendo la scelta e la tutela degli utenti nel rispetto delle regole sulla concorrenza. Le associazioni hanno natura privatistica, sono fondate su base volontaria, senza alcun vincolo di rappresentanza esclusiva. Promuovono la formazione permanente dei propri iscritti, adottano un codice di condotta, vigilano sulla condotta professionale degli associati, definiscono le sanzioni disciplinari da irrogare agli associati per le violazioni del medesimo codice e promuovono forme di garanzia a tutela dell'utente, tra cui l'attivazione di uno sportello di riferimento per il cittadino consumatore. Le associazioni possono anche costituire forme aggregative, che rappresentano le associazioni aderenti e devono agire in piena indipendenza e imparzialità. Si tratta di soggetti autonomi rispetto alle associazioni professionali che le compongono. Le forme aggregative hanno funzioni di promozione e qualificazione delle attività professionali che rappresentano, nonché di divulgazione delle informazioni e delle conoscenze a esse connesse e di rappresentanza delle istanze comuni nelle sedi politiche e istituzionali. Su mandato delle singole associazioni, esse possono controllare l'operato delle medesime associazioni, ai fini della verifica del rispetto e della congruità degli standard professionali e qualitativi dell'esercizio dell'attività e dei codici di condotta definiti dalle stesse associazioni.
La pubblicità. Le associazioni pubblicano sul proprio sito web gli elementi informativi che presentano utilità per il consumatore, secondo criteri di trasparenza, correttezza, veridicità. Della correttezza di tali informazioni garantisce il responsabile legale dell'associazione professionale o della forma aggregativa. Nei casi in cui le associazioni autorizzino i propri associati a utilizzare il riferimento all'iscrizione all'associazione quale marchio o attestato di qualità dei propri servizi, sul proprio sito Internet devono rendere disponibili anche le informazioni sul significato dei marchi e sui criteri di attribuzione dei marchi e degli altri attestati di qualità, dandone contemporaneamente notizia al ministero dello sviluppo economico, ai sensi dell'articolo 81 del decreto legislativo di recepimento della c.d. «direttiva servizi» (dlgs 59/2010).
Le attestazioni. Le associazioni professionali possono rilasciare ai propri iscritti delle attestazioni su molteplici aspetti, dalla regolare iscrizione del professionista, requisiti e standard qualitativi, possesso della polizza assicurativa, previe le necessarie verifiche, sotto la responsabilità del proprio rappresentante legale, al fine di tutelare i consumatori e di garantire la trasparenza del mercato dei servizi professionali. Tali attestazioni non rappresentano però requisito necessario per l'esercizio dell'attività professionale. Per i settori di competenza, le medesime associazioni possono promuovere la costituzione di organismi di certificazione della conformità a norme tecniche Uni, accreditati dall'organismo unico nazionale di accreditamento (Accredia), che possono rilasciare, su richiesta del singolo professionista anche non iscritto ad alcuna associazione, il certificato di conformità alla norma tecnica Uni definita per la singola professione.
La vigilanza. La non veridicità delle informazioni pubblicate sul sito dell'associazione o contenute nell'attestazione rilasciata, infine, è sanzionabile ai sensi dell'articolo 27 del Codice del consumo dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato, anche su segnalazione del ministero dello sviluppo economico, che svolge compiti di vigilanza sul mercato relativamente alla corretta attuazione delle previsioni della legge (articolo ItaliaOggi Sette del 24.12.2012).

ENTI LOCALILegge di stabilità. L'effetto delle nuove regole dipende dalla situazione in ogni ente in termini di competenza mista.
Ai mini-enti Patto con mini-bonus. Nel 2013 per i Comuni tra mille e 5mila abitanti obiettivi di saldo al 13 per cento.
LE CONSEGUENZE/ L'estensione delle regole di finanza pubblica impatta anche sulla gestione del personale e delle società partecipate.

Niente da fare. Nonostante le manifestazioni, le proposte di emendamenti, le richieste di proroga, da gennaio anche i Comuni fra mille e 5mila abitanti dovranno fare i conti con il Patto di stabilità.
Nelle Regioni soggette ai vincoli ordinari del Patto si tratta di 3.422 Comuni (il 42,3% dei municipi italiani), che nel complesso moltiplicano per 2,5 volte la platea obbligata a centrare gli obiettivi di saldo imposti dalle manovre di finanza pubblica.
Facili da immaginare i problemi tecnici e applicativi che porterà con sé la cervellotica architettura del Patto di stabilità, con il suo metodo della «competenza mista» (competenza di parte corrente e cassa di conto capitale), le voci incluse e quelle escluse e le ricadute sulla disciplina relativa a personale e società. Altrettanto facile da prevedere un ampliamento della mole di pagamenti alle imprese incagliati nelle casse degli enti, soprattutto perché nei Comuni medio-piccoli la spesa corrente, su cui si fondano tutti i calcoli del Patto, è assai meno lineare nel tempo rispetto a quella delle città, con la conseguenza che non saranno rari i casi in cui le amministrazioni si troveranno ad avere a che fare con obiettivi irraggiungibili o di fatto casuali.
Nel tentativo di rendere un po' meno amara la novità, la legge di stabilità nella versione emendata al Senato e confermata in via definitiva, assegna agli enti fra mille e 5mila abitanti un obiettivo un po' più leggero rispetto a quello riservato a chi già da anni è inserito nei meccanismi del Patto di stabilità. Per tutti i Comuni, la base di calcolo viene aggiornata rispetto agli anni scorsi e fa riferimento alla media registrata nel triennio 2007/2009.
Per chi conta più di 5mila abitanti, l'obiettivo di saldo si ottiene applicando a questa grandezza il moltiplicatore del 15,8%, mentre se i residenti sono compresi fra mille e 5mila il parametro da applicare è il 13 per cento. Di conseguenza, l'avanzo obbligatorio da raggiungere per rispettare gli obiettivi di bilancio sarà un po' più leggero rispetto a quello assegnato agli altri enti. Solo per un anno però, perché dal 2014 (quando nei vincoli del Patto entreranno anche i Comuni sotto i mille abitanti che si aggregheranno in Unioni senza scegliere la via alternativa delle convenzioni) il moltiplicatore sarà per tutti il 15,8 per cento.
L'effetto del "bonus", comunque, è del tutto relativo e dipenderà dalle condizioni di bilancio dei singoli Comuni: il Patto impone a tutti un avanzo in termini di competenza mista, un sistema contabile che i piccoli enti non hanno mai utilizzato, e la strada sarà particolarmente in salita per chi oggi presenta un bilancio in pareggio secondo i criteri ordinari ma disavanzo secondo questi parametri. Ovviamente, come per gli altri Comuni, anche per i piccoli c'è la possibilità di essere considerati «virtuosi» in base alla capacità di riscossione, all'equilibrio corrente e all'autonomia finanziaria. Dal 2013, nei parametri di virtuosità entrano anche i valori catastali e il numero di occupati (anche se di quest'ultimo indicatore non è chiara la relazione con le condizioni della finanza locale).
L'ingresso nel mondo del Patto di stabilità non cambia solo la gestione del bilancio, ma modifica anche le regole per la gestione del personale. Gli enti fra mille e 5mila abitanti dovranno abbandonare il tetto che limita la spesa ai livelli registrati nel 2008, e abbracciare le regole che chiedono di ridurre l'incidenza delle spese di personale sul complesso delle uscite correnti intervenendo sulla «razionalizzazione delle strutture» e sulle dinamiche della contrattazione integrativa.
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Che cosa cambia
01 | IL PATTO
Dal 2013 rientrano nei meccanismi del Patto di stabilità anche i Comuni con popolazione compresa fra mille e 5mila abitanti. Dal 2014 le regole si estenderanno anche ai Comuni con meno di mille abitanti che si aggregheranno nelle Unioni
02 | IL BONUS
Gli obiettivi di saldo si individuano applicando alla media della spesa corrente 2007/2009 il moltiplicatore del 13 per cento. Dal 2014 il moltiplicatore diventa quello generale del 15,8 per cento (articolo Il Sole 24 Ore del 24.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIEquilibri. Obbligo di utilizzo per investimenti e debito. L'alienazione non può finanziare la spesa corrente.
LA FACOLTÀ/ Per ripristinare gli equilibri concessa la possibilità di modificare le tariffe e le aliquote dei tributi locali entro il 30 settembre.

Era nell'aria. Dal 01.01.2013 l'equilibrio di parte corrente di Comuni e Province sarà più stringente. La versione definitiva della legge di stabilità cancella infatti la norma che finora ha consentito di utilizzare il plusvalore delle alienazioni patrimoniali per finanziare le spese correnti aventi carattere non permanente (articolo 3, comma 28, legge 350/2003) e per rimborsare la quota di capitale delle rate di ammortamento dei mutui (articolo 1, comma 66, legge 311/2004). I proventi da alienazioni patrimoniali, precisa la legge di stabilità 2013, potranno essere destinati solo a coprire le spese di investimento, o, in assenza di queste o per la parte eccedente, per ridurre il debito.
Sempre in tema di equilibrio di parte corrente del bilancio di previsione, dal 2013 sparirà anche l'altra deroga, ancora più utilizzata, relativa all'utilizzo delle entrate da rilascio di permessi di costruire (prima denominati oneri di urbanizzazione) per finanziare le spese correnti, nella misura del 50%, e, per un ulteriore 25%, per coprire le spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio. Già nel bilancio di previsione 2012-2014 i Comuni hanno dovuto "quadrare" i conti degli ultimi due anni del pluriennale senza far ricorso a questa possibilità, che era consentita solo fino al 2012 (dopo la proroga introdotta sull'articolo 2, comma 8 della legge 244/2007). Pertanto, le entrate da permessi di costruire potranno essere destinate solo a coprire le spese di investimento.
L'ultima stretta sull'equilibrio corrente va a colpire la salvaguardia degli equilibri di bilancio prevista dall'articolo 193 del decreto legislativo 267/2000. Dal prossimo anno i proventi derivanti da alienazione di beni patrimoniali potranno essere utilizzati solo per ripristinare gli equilibri di parte capitale e non potranno più essere impiegati per gli squilibri di parte corrente. Per il ripristino degli equilibri spunta una facoltà nuova per gli enti locali: quella di modificare le tariffe e le aliquote relative ai tributi di propria competenza entro la data della verifica degli equilibri (30 settembre). E ciò in deroga, si legge nel testo, all'articolo 1, comma 169, della legge 296/2006, secondo cui le tariffe e le aliquote dei tributi di competenza degli enti locali sono deliberate entro la data fissata per la deliberazione del bilancio di previsione.
L'attenzione all'equilibrio di parte corrente è già entrata nel mondo della finanza locale nel capitolo "virtuosità" ai fini del patto di stabilità e fra gli indicatori "spia" che possono far scattare verifiche ispettive da parte del ministero dell'Economia. Ora, queste norme restrittive intendono agire sulla qualità della spesa. Infatti, impongono un limite alla dinamica della spesa corrente, dopo che per il rispetto del patto di stabilità gli enti locali hanno compresso maggiormente la spesa per investimenti rispetto a quella corrente (articolo Il Sole 24 Ore del 24.12.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALILa supplenza. Verifiche del Viminale sul rispetto dei vincoli di bilancio. Revisori-commissari per certificare i conti.
LE SANZIONI/ Fino alla comunicazione sono sospesi erogazioni e trasferimenti di fondi e scatta il divieto di nuove assunzioni.

Si allarga il coinvolgimento dei revisori dei conti in materia di patto di stabilità interno: da controllori possono diventare anche commissari ad acta. È l'effetto delle novità introdotte dal testo finale dalla legge di stabilità 2013 sulla certificazione finale del rispetto del patto di stabilità interno.
L'intervento punta a recuperare i "numeri" degli enti che non trasmettono i dati effettivi al ministero dell'Economia entro il termine perentorio del 31 marzo dell'anno successivo. E lo fa agendo su due fronti. Da un lato, concede più tempo: 60 giorni dal termine stabilito per l'approvazione del rendiconto (30 giugno, quindi, e non più 15 maggio). Dall'altro lato, addossa l'adempimento all'organo di revisione economico-finanziaria, che esce così sempre più carico di compiti e responsabilità dopo ogni provvedimento normativo di finanza locale (da ultimo, i decreti legge 83/2012 sulla crescita, 95/2012 sulla spending review e 174/2012 sul riordino degli enti locali).
La norma introduce, negli enti che non inviano la certificazione entro il 30 giugno, l'obbligo per il presidente dell'organo di revisione economico-finanziaria (in presenza di un collegio) o per il revisore unico (in caso di organi monocratici) di provvedere, in qualità di commissario ad acta, ad assicurare l'assolvimento dell'adempimento e a trasmettere la certificazione entro i successivi 30 giorni, con la sottoscrizione di tutti i soggetti tenuti. In altri termini, il revisore dei conti, se verifica che il responsabile finanziario non ha inoltrato i dati consuntivi, si deve sostituire a questo e inviare i dati entro il 30 luglio, acquisendo anche le firme del responsabile del servizio finanziario e del sindaco o del presidente della Provincia.
Sino alla data di trasmissione da parte del commissario ad acta le erogazioni di risorse o trasferimenti da parte del ministero dell'Interno sono sospese. A questo fine, la Ragioneria generale dello Stato trasmette una comunicazione ad hoc al ministero dell'Interno.
La novità sostituisce la precedente norma che equiparava gli enti che non avessero inviato la certificazione entro il 31 marzo agli enti fuori patto di stabilità, con conseguente assoggettamento alle sanzioni.
Ora, per gli enti rispettosi dei vincoli del patto di stabilità interno, che però trasmettono la certificazione finale in ritardo, comunque entro il 30 giugno, si applica la sanzione del divieto di assumere personale a qualsiasi titolo. Ancora, il testo della legge di stabilità 2013 introduce l'obbligo di trasmettere la certificazione dei risultati finali a rettifica di quella precedentemente inviata; l'obbligo scatta decorsi 60 giorni del termine stabilito per approvare il rendiconto, se l'ente rileva, con riferimento alla certificazione già trasmessa, un peggioramento del saldo finanziario effettivo rispetto all'obiettivo del patto (articolo Il Sole 24 Ore del 24.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTIPagamenti Pa. La circolare 36. Incognita Durc sul «visto» ai crediti.
Nuove indicazioni sulle certificazioni dei crediti di somme dovute da Regioni, enti locali ed enti del servizio sanitario nazionale per lavori, forniture e servizi, per consentire ai creditori la cessione dei crediti a banche o intermediari finanziari. Le ha fornite il ministero dell'Economia dopo che, con il decreto del 29 ottobre scorso, ha chiarito le disposizioni del precedente decreto del 25 giugno.

Con la circolare 36, pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» 291 del 14 dicembre, il ministero ha poi fornito le istruzioni applicative, con particolare riferimento all'utilizzo della piattaforma elettronica e alle comunicazioni da inviare al ministero.
Circa la regolarità contributiva, certificata dal Durc, che la stazione appaltante deve chiedere ai datori di lavoro in ogni fase della gestione dei contratti, la circolare non ritiene che il documento vada richiesto in sede di certificazione, ma di pagamento. Poiché tra il rilascio della certificazione e l'erogazione dei fondi da parte della banca cessionaria del credito trascorrono pochi giorni, è opportuno che sia l'ente pubblico a chiedere il Durc al momento della certificazione e a comunicare l'esito alla banca. Se il documento evidenzia inadempienze non iscritte a ruolo, e quindi non risultanti dalla verifica in base all'articolo 48-bis del Dpr 602/1973, la banca ne terrà conto nella determinazione della somma da erogare, per evitare perdite contributive.
Circa la tracciabilità dei flussi finanziari, prevista dalla legge 136/2010, modificata e completata dal decreto legge 187/2012, ai fini della lotta contro la mafia, la circolare 36 non dà invece informazioni. La normativa prevede che nei contratti con gli appaltatori per lavori, forniture e servizi pubblici deve essere inserita, a pena di nullità, una clausola con la quale gli operatori economici coinvolti in appalti pubblici si impegnano a utilizzare conti correnti, accesi presso banche (o poste), dedicati alle commesse pubbliche, sui quali devono essere esclusivamente eseguiti tutti i movimenti finanziari riferiti ai contratti.
È inoltre previsto che gli strumenti di pagamento devono riportare, per ciascuna transazione posta in essere dalla stazione appaltante, il codice identificato di gara (Cig) e, se richiesto in base all'articolo 11 della legge 3/2003, il codice unico di progetto (Cup). Anche queste indicazioni dovrebbero essere comunicate dalla stazione appaltante, che ne è a conoscenza, alla banca cessionaria del credito in sede di certificazione. Altrimenti, se non viene informata, la banca non potrebbe versare i fondi sul conto corrente dedicato e indicare Cig e Cup (articolo Il Sole 24 Ore del 24.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATALa legge di stabilità.
IL PUBBLICO IMPIEGO/ Torna la buonuscita «pesante». Riliquidazione entro un anno per tutti i soggetti che erano stati penalizzati.

La prima regola che entrerà definitivamente in vigore con la pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» della legge di stabilità è quella sul trattamento di fine servizio dei dipendenti pubblici, che ripesca il decreto sullo stesso tema varato a fine ottobre dal Governo dopo la bocciatura costituzionale (sentenza 223/2012) delle regole scritte nella manovra 2010.
In pratica, si fissa nella legge il termine di un anno entro il quale le Pubbliche amministrazioni dovranno ri-erogare il trattamento di servizio in formula piena ai dipendenti pubblici che erano in regime di Tfs (e quindi erano stati assunti prima del 31.12.2000), e che sono usciti dall'ufficio fra il 01.01.2011 e l'ottobre del 2012 vedendosi di conseguenza riconoscere un assegno d'uscita alleggerito perché fondato sul sistema di calcolo del Tfr, cioè quello applicato ai dipendenti privati e ai pubblici con anzianità minore.
L'allineamento fra Tfr e trattamento di fine servizio (Tfs) era stato introdotto nella manovra estiva 2010 (articolo 12, comma 10, del Dl 78/2010) all'interno del pacchetto di misure nate dall'esigenza di contenere le spese per il pubblico impiego. L'ingresso di questi dipendenti nella "famiglia" del Tfr non aveva, però, fatto cadere la trattenuta del 2,5% a loro carico prevista dal vecchio regime, e questo aspetto ha contribuito a far cadere l'intero meccanismo sotto i colpi della Corte costituzionale.
La via d'uscita individuata con il decreto ora accolto dalla legge di stabilità ai commi 98-100 permette di salvaguardare i diritti dei dipendenti interessati senza il rischio di far saltare a breve i bilanci degli enti pubblici, e in particolar modo quelli di Comuni e Province che avevano impostato tutta la programmazione sulla base della trattenuta del 2,5% a carico del dipendente.
La decisione della Corte costituzionale aveva aperto infatti una doppia strada. La regola è: il regime di Tfs comporta la trattenuta del 2,5%, ma offre una buonuscita più ricca, quello del Tfr elimina la trattenuta e alleggerisce l'assegno d'addio. La nuova norma in pratica afferma che per i dipendenti assunti prima del 31.12.2000 il regime di Tfs non è mai venuto meno, perché l'allineamento viene abrogato retroattivamente dal 01.01.2011, data della sua entrata in vigore. Morale della favola: rimane la trattenuta, e il calcolo più "generoso" della buonuscita.
Nel capitolo dedicato al reclutamento, la legge di stabilità affronta poi la questione precari, cercando un equilibrio fra l'esigenza di non chiudere la porta ai titolari di contratti a termine (e alle attività loro assegnate) e quella di non far saltare la programmazione della spesa pubblica. Per tenere insieme questi due fattori, la legge (commi 400 e seguenti) disegna una procedura in due passaggi. Il primo offre alle amministrazioni pubbliche la possibilità di prorogare fino al 30 giugno i contratti che superano il limite di 36 mesi, tramite accordi decentrati con le organizzazioni sindacali più rappresentative.
La seconda punta invece sui concorsi pubblici, che potranno prevedere una riserva di posti del 40% a favore di chi ha già svolto almeno tre anni di servizio, e possono premiare nel punteggio l'esperienza maturata da chi ha passato almeno tre anni da co.co.co. I concorsi, però, non potranno uscire dai binari fissati dalla programmazione triennale del personale e dal tetto del 50% delle risorse finanziarie disponibili (articolo Il Sole 24 Ore del 23.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Sul diritto, o meno, di accedere alle dichiarazioni rese agli ispettori del lavoro.
L’art. 2 del D.M. n. 757 del 1994 stabilisce che sono sottratte al diritto di accesso le seguenti categorie di atti in relazione alla esigenza di salvaguardare la vita privata e la riservatezza di persone fisiche, di persone giuridiche, di gruppi, imprese e associazioni: documenti contenenti notizie acquisite nel corso delle attività ispettive, quando dalla loro divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni o pregiudizi a carico di lavoratori o di terzi.
La citata previsione di cui al D.M. n. 757 del 1994 deve essere interpretata alla luce delle disposizioni di legge di cui all’art. 24 della legge n. 241 del 1990, secondo cui deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici.
Ovverosia qualora il procedimento ispettivo si concluda senza l'adozione di atti o provvedimenti a carattere sanzionatorio o comunque in danno al datore di lavoro, si deve ritenere prevalente il diritto del dipendente alla riservatezza circa le dichiarazioni rese all'ispettore e conseguentemente legittimamente negato l'accesso a tali documenti formatisi nell'ambito del procedimento ispettivo. Viene meno infatti il nesso strumentale tra l'actio ad exhibendum esercitata dal datore di lavoro e la necessità di agire in giudizio a difesa di una posizione soggettiva lesa non riscontrata.
Se invece le dichiarazioni costituiscono il supporto di un provvedimento sanzionatorio adottato nei confronti del datore di lavoro, il diritto di difesa del datore di lavoro include l’accesso alle dichiarazioni rese da dipendenti e terzi nel corso del procedimento ispettivo.

Con il provvedimento impugnato è stata rigettata l’istanza di accesso presentata dal titolare della ditta Hotel Ristorante alla Veneziana s.r.l. alle dichiarazioni rese dai controinteressati agli ispettori del lavoro nel corso di un controllo in materia di sommerso da lavoro effettuato in data 26.05.2012.
La motivazione del provvedimento impugnato fa riferimento agli artt. 2 e 3 del D.M. n. 757 del 1994.
In particolare l’art. 2 del D.M. n. 757 del 1994 stabilisce che sono sottratte al diritto di accesso le seguenti categorie di atti in relazione alla esigenza di salvaguardare la vita privata e la riservatezza di persone fisiche, di persone giuridiche, di gruppi, imprese e associazioni: documenti contenenti notizie acquisite nel corso delle attività ispettive, quando dalla loro divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni o pregiudizi a carico di lavoratori o di terzi.
La citata previsione di cui al D.M. n. 757 del 1994 deve essere interpretata alla luce delle disposizioni di legge di cui all’art. 24 della legge n. 241 del 1990, secondo cui deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici.
Ovverosia qualora il procedimento ispettivo si concluda senza l'adozione di atti o provvedimenti a carattere sanzionatorio o comunque in danno al datore di lavoro, si deve ritenere prevalente il diritto del dipendente alla riservatezza circa le dichiarazioni rese all'ispettore e conseguentemente legittimamente negato l'accesso a tali documenti formatisi nell'ambito del procedimento ispettivo. Viene meno infatti il nesso strumentale tra l'actio ad exhibendum esercitata dal datore di lavoro e la necessità di agire in giudizio a difesa di una posizione soggettiva lesa non riscontrata.
Se invece le dichiarazioni costituiscono il supporto di un provvedimento sanzionatorio adottato nei confronti del datore di lavoro, il diritto di difesa del datore di lavoro include l’accesso alle dichiarazioni rese da dipendenti e terzi nel corso del procedimento ispettivo (così Consiglio di Stato VI n. 7979 del 2010, Tar Veneto III n. 814 del 2012).
Nel caso di specie il verbale di accertamento ispettivo, contenente la comunicazione della sanzione, fa specifico riferimento agli indici di subordinazione riscontrati in seno ai verbali di acquisizione informazioni.
Ne consegue che i verbali contenenti le dichiarazioni richieste si rendono necessari per il datore di lavoro per difendersi rispetto ai provvedimenti con cui gli sono comunicate le sanzioni.
Il contenuto sanzionatorio del verbale di accertamento ispettivo evidenzia altresì l’infondatezza dell’eccezione sollevata dall’Amministrazione secondo cui parte ricorrente non avrebbe un interesse concreto.
L’ulteriore eccezione dell’Amministrazione, secondo cui l’istanza non sarebbe stata presentata da parte ricorrente, ma da soggetto terzo non delegato, è priva di pregio, avendo l’Amministrazione adottato un provvedimento espresso di diniego, sul presupposto che l’istanza sia stata effettivamente presentata da parte ricorrente e con la specificazione dei termini per presentare ricorso a questo Tribunale.
Il ricorso deve pertanto essere accolto e deve essere ordinato al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali di esibire i documenti richiesti entro 30 giorni dalla comunicazione o notificazione della presente sentenza (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 24.12.2012 n. 1597 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ai fini della esistenza delle condizioni dell’azione avverso provvedimenti lesivi dal punto di vista ambientale, il concetto di vicinitas dei singoli che insorgono deve essere visto in relazione allo scopo precipuo di proteggere l'ambiente, la salute e/o la qualità della vita dei residenti su un circoscritto territorio, anche laddove si tratti di singole persone fisiche, in posizione differenziata sulla base del criterio della vicinitas quale elemento qualificante dell'interesse a ricorrere.
Vanno respinti i motivi di appello con i quali si deducono difetto di interesse ad agire e legittimazione per mancanza di vicinitas e perché già apposto nel 2005 il vincolo di esproprio.
Infatti, ai fini della esistenza delle condizioni dell’azione avverso provvedimenti lesivi dal punto di vista ambientale, il concetto di vicinitas dei singoli che insorgono deve essere visto in relazione allo scopo precipuo di proteggere l'ambiente, la salute e/o la qualità della vita dei residenti su un circoscritto territorio, anche laddove si tratti di singole persone fisiche, in posizione differenziata sulla base del criterio della vicinitas quale elemento qualificante dell'interesse a ricorrere (così, tra tante, Consiglio di Stato sez. IV 11.11.2011 n. 5986) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.12.2012 n. 6667 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il documento o dato o elemento costitutivo dell’offerta deve essere già stato presentato in sede di gara, sia pure parzialmente e la richiesta di regolarizzazione o di chiarimenti non deve consentire una nuova produzione o una nuova offerta, comportando così l’elusione dei termini perentori fissati dal bando per la presentazione delle offerte.
L’incompletezza non può spingersi quindi fino alla insufficienza, altrimenti attraverso l’attività integrativa si consentirebbe di variare gli elementi costitutivi dell’offerta stessa.
Nelle gare pubbliche il c.d. soccorso istruttorio di cui all’art. 46, comma 1, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 è invocabile unicamente in caso di clausole della legge di gara ambigue e non di contrasto tra la stessa e la superiore normativa primaria. In ogni caso la necessità di assicurare la par condicio tra i concorrenti conduce inevitabilmente a circoscrivere il dovere di soccorso ad irregolarità di documenti comunque ritualmente presentati in sede di gara e non già in caso di vere e proprie omissioni.
Il rimedio della regolarizzazione documentale di cui all’art. 46 codice contratti non si applica al caso in cui l’impresa concorrente abbia integralmente omesso la produzione documentale prevista dal precedente art. 38, con la conseguenza che alla stazione appaltante è precluso di sopperire, con l’integrazione, alla totale mancanza di un documento considerato anche che la disposizione relativa al c.d. dovere di soccorso deve considerarsi di stretta interpretazione.
In una gara di appalto pubblico l’amministrazione appaltante non può formulare una richiesta di integrazione della documentazione qualora si tratti di documenti univocamente previsti dal bando o dalla lettera di invito a pena di esclusione.

Il limite di applicazione dell’art. 46, che costituisce estensione nel campo dei contratti pubblici degli articolo 6 e 7 della legge n. 241 del 1990 e della esigenza della correttezza e del dialogo con l’amministrazione, trova il suo limite naturale nel fatto che non si può estendere a supplire né alla violazione di adempimenti procedurali sostanziali, né alla omessa produzione documentale richiesta a pena di esclusione e, naturalmente, non può consentire la regolarizzazione degli elementi essenziali dell’offerta.
Deve cioè essere impedito al concorrente, attraverso la richiesta della stazione appaltante di ulteriori documenti o chiarimenti, di completare la sua domanda successivamente al termine stabilito in via generale dalle regole di gara.
Il documento o dato o elemento costitutivo dell’offerta deve essere già stato presentato in sede di gara, sia pure parzialmente (Cons. Stato, V, 11.02.2005, n. 392; Aut. Vig. deliberazione n. 120 del 19.12.2006) e la richiesta di regolarizzazione o di chiarimenti non deve consentire una nuova produzione o una nuova offerta, comportando così l’elusione dei termini perentori fissati dal bando per la presentazione delle offerte.
L’incompletezza non può spingersi quindi fino alla insufficienza, altrimenti attraverso l’attività integrativa si consentirebbe di variare gli elementi costitutivi dell’offerta stessa.
Nelle gare pubbliche il c.d. soccorso istruttorio di cui all’art. 46, comma 1, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 è invocabile unicamente in caso di clausole della legge di gara ambigue e non di contrasto tra la stessa e la superiore normativa primaria. In ogni caso la necessità di assicurare la par condicio tra i concorrenti conduce inevitabilmente a circoscrivere il dovere di soccorso ad irregolarità di documenti comunque ritualmente presentati in sede di gara e non già in caso di vere e proprie omissioni (Cons. Stato, V, 30.08.2012, n. 4654).
Il rimedio della regolarizzazione documentale di cui all’art. 46 codice contratti non si applica al caso in cui l’impresa concorrente abbia integralmente omesso la produzione documentale prevista dal precedente art. 38, con la conseguenza che alla stazione appaltante è precluso di sopperire, con l’integrazione, alla totale mancanza di un documento considerato anche che la disposizione relativa al c.d. dovere di soccorso deve considerarsi di stretta interpretazione (Cons. Stato, IV, 04.07.2012, n. 3925).
In una gara di appalto pubblico l’amministrazione appaltante non può formulare una richiesta di integrazione della documentazione qualora si tratti di documenti univocamente previsti dal bando o dalla lettera di invito a pena di esclusione (Cons. Stato, IV, 10.05.2007, n. 2254) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.12.2012 n. 6666 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi degli artt. 33, l. 28.02.1985 n. 47 e 32, comma 27, lett. c), d.l. 30.09.2003 n. 269, non sono condonabili le opere edilizie abusivamente realizzate in aree sottoposte a vincoli idrogeologico, paesaggistico e ambientale, risultando ininfluente che gli stessi siano stati apposti successivamente alla presentazione dell'istanza di condono, atteso che, in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria per opere ricadenti in zona sottoposta a vincolo previsto dall'art. 32, cit. l. n. 47 del 1985, l'obbligo di acquisire il parere da parte della autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del vincolo stesso al momento in cui deve essere valutata la domanda di condono.
L’appello deve essere accolto, non potendosi in ogni caso consentire la sanatoria in zone sottoposte a stringenti vincoli di inedificabilità assoluta.
Come rimarca l’appellante Comune, la zona in questione è situata nel Parco Nazionale del Circeo, è soggetta a vincolo paesaggistico-ambientale e dal 1983 è zona I/d a tutela integrale ed inedificabilità assoluta; ricade in zona a Protezione speciale (ZPS) e in sito di importanza comunitaria (SIC); sia soggetta a vincolo idrogeologico.
E’ quindi giuridicamente impossibile, senza alterare l’equilibrio ambientale della zona, il completamento degli insediamenti abitativi e la realizzazione di un piano di lottizzazione.
Si è ritenuto, proprio su questioni riguardanti aree comprese all’interno del Parco Nazionale del Circeo, che, atteso che in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria per opere ricadenti in zona sottoposta a vincolo previsto dall'art. 32, l. n. 47 del 1985, l’obbligo di acquisire il parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del vincolo stesso al momento in cui deve essere valutata la domanda di condono, e che, in applicazione degli art. 33 l. n. 47 del 1985 e 32, comma 27, del d.l. n. 269 del 2003, sussiste l’assoluta inedificabilità alle condizioni ivi previste degli interventi abusivi realizzati su immobili sottoposti a vincolo paesaggistico, deve ritenersi corretto l’operato dell'autorità preposta alla tutela del vincolo -nella specie l’Ente parco nazionale del Circeo (nella specie si verte sul diniego comunale)- che non abbia svolto accertamenti sulle caratteristiche dell'immobile oggetto dell'istanza di condono che insiste in area sottoposta a vincolo idrogeologico, al fine di valutare la sua eventuale compatibilità con le ragioni del vincolo stesso (così, Consiglio Stato sez. VI, 17.05.2010, n. 3064).
Si è ritenuto nel su indicato precedente quindi che l’amministrazione non dispone di alcun potere discrezionale in merito al rilascio del nulla-osta, stante l’assoluta preclusione normativa, di tal che va dichiarato improcedibile per carenza di legittimazione e interesse a ricorrere il ricorso per la declaratoria di illegittimità o annullamento del silenzio-rifiuto determinato dalla mancata formulazione del parere da parte dell'organo tutorio nel termine di 180 giorni dalla richiesta.
Anche nella fattispecie, può ritenersi che l’acquisizione del parere era addirittura superflua, stante la preclusione di sanatoria e quindi l’impossibilità di un esito favorevole.
Inoltre, come ha osservato la sentenza su richiamata su immobili situati nella medesima area dell’immobile oggetto della presente controversia, in punto di fatto l'immobile è stato realizzato negli anni settanta, nel quadro di una lottizzazione di fatto, ed è pacifico che insista in un'area sottoposta a vincolo idrogeologico nota del 24 marzo 2000 del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali richiamata nel precedente citato).
Basterebbero i richiamati vincoli per ostacolare il perfezionamento della istanza di condono per ragioni relative alla pubblica incolumità.
Inoltre, l'immobile insiste nel Parco Nazionale del Circeo, istituito dalla legge n. 285 del 1934.
Nell'ambito del Parco, ai sensi dell'art. 5 della legge citata sono vietati la manomissione e l'alterazione delle bellezze naturali e delle formazioni geologiche, da determinarsi con regolamento, per le quali non sia applicabile la legge 11.06.1922 n. 778 abrogata e sostituita dalla legge n. 1479 del 1939.
Né può dirsi che tale richiamo comporterebbe la possibilità di valutare la compatibilità di quanto realizzato abusivamente con il vincolo.
L'area su cui insiste l'immobile in termini (sentenza della sesta sezione di questo consesso su richiamata) ricade nel PTP della Regione Lazio nella zona destinata a tutela integrale (I /d) per la quale non è ammesso alcun tipo di intervento se non a tutela della zona stessa (nota del Ministero del 03.10.2000).
Ai sensi dell'art. 33 della legge n. 47 del 1985: "Le opere di cui all'articolo 31 non sono suscettibili di sanatoria quando siano in contrasto con i seguenti vincoli, qualora questi comportino inedificabilità e siano stati imposti prima della esecuzione delle opere stesse:
a) vincoli imposti da leggi statali e regionali nonché dagli strumenti urbanistici a tutela di interessi storici, artistici, architettonici, archeologici, paesistici, ambientali, idrogeologici;
b) vincoli imposti da norme statali e regionali a difesa delle coste marine, lacuali e fluviali;
c) vincoli imposti a tutela di interessi della difesa militare e della sicurezza interna;
d) ogni altro vincolo che comporti la inedificabilità delle aree.
Sono altresì escluse dalla sanatoria le opere realizzate su edifici ed immobili assoggettati alla tutela della L. 01.06.1939, n. 1089, e che non siano compatibili con la tutela medesima.
Per le opere non suscettibili di sanatoria ai sensi del presente articolo si applicano le sanzioni previste dal capo I
."
Inoltre nel caso di specie rileva anche quanto previsto dall'art. 32, comma 27, lett. d), del d.l. n. 269 del 2003 convertito in legge n. 326 del 2003 che, in particolare, si riferisce a vincoli preesistenti le opere abusive e chiarisce meglio le condizioni di applicabilità dell'art. 33, specificandole: "Fermo restando quanto previsto dagli articoli 32 e 33 della legge 28.02.1985, n. 47, le opere abusive non sono comunque suscettibili di sanatoria, qualora:
d) siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici
".
Nella specie: 1) i vincoli paesaggistici ed idrogeologici preesistevano all'intervento; 2) l'intervento concretava una lottizzazione di fatto per la quale erano state annullate le licenze concesse dallo stesso Comune che le aveva rilasciate e quindi in assenza del titolo (dovendo a tale ipotesi equipararsi quella del titolo posto nel nulla in autotutela); 3) la realizzazione dei manufatti era avvenuta in assenza delle opere di urbanizzazione e di un piano di lottizzazione (e quindi in assenza delle prescrizioni urbanistiche); 4) le valutazioni che si pretende di invocare a tutela dell'intervento abusivo da condonare sono superate dall'avvenuto annullamento in autotutela delle licenze, che imporrebbe, in sede di condono, ove non sussistesse (come invece sussiste) l'insanabilità assoluta del manufatto, un nuovo apprezzamento sulla compatibilità degli interventi.
In proposito si è ribadito con rigore nella giurisprudenza del Consiglio di Stato che ai sensi degli artt. 33, l. 28.02.1985 n. 47 e 32, comma 27, lett. c), d.l. 30.09.2003 n. 269, non sono condonabili le opere edilizie abusivamente realizzate in aree sottoposte a vincoli idrogeologico, paesaggistico e ambientale, risultando ininfluente che gli stessi siano stati apposti successivamente alla presentazione dell'istanza di condono, atteso che, in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria per opere ricadenti in zona sottoposta a vincolo previsto dall'art. 32, cit. l. n. 47 del 1985, l'obbligo di acquisire il parere da parte della autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del vincolo stesso al momento in cui deve essere valutata la domanda di condono (tra tante, Consiglio Stato, sez. IV, 19.03.2009, n. 1646).
In ricorrenza di tali condizioni va applicato l'art. 33 della legge n. 47 del 1985 e lo stesso disposto di cui all'art. 32, comma 27, del d.l. n. 269 del 2003, norme che non prevedono alcuna possibilità di sanatoria ex post, mediante l'accertamento sulla compatibilità dell'intervento rispetto al vincolo.
Di fronte al chiaro disposto normativo del citato art. 32, comma 27, che stabilisce l'assoluta insanabilità alle condizioni ivi previste degli interventi abusivi realizzati su immobili sottoposti a vincolo paesaggistico, l'Amministrazione non deve neanche svolgere ulteriori accertamenti sulle caratteristiche dell'intervento al fine di valutare la sua eventuale compatibilità con le ragioni del vincolo stesso, non sussistendo nel caso specifico alcuna ragione per lo svolgimento di un'approfondita istruttoria sulla tipologia dell'abuso, non disponendo l'Amministrazione di alcun potere discrezionale in merito al rilascio del nulla osta, stante l'assoluta preclusione normativa.
Ai sensi degli artt. 33, l. 28.02.1985 n. 47 e 32, comma 27, lett. c), d.l. 30.09.2003 n. 269, non sono condonabili le opere edilizie abusivamente realizzate in aree sottoposte a vincoli idrogeologico, paesaggistico e ambientale, risultando ininfluente che gli stessi siano stati apposti successivamente alla presentazione dell'istanza di condono, atteso che, in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria per opere ricadenti in zona sottoposta a vincolo previsto dall'art. 32, cit. l. n. 47 del 1985, l'obbligo di acquisire il parere da parte della autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del vincolo stesso al momento in cui deve essere valutata la domanda di condono, come si è visto nella giurisprudenza su richiamata.
Nel caso di specie, inoltre, i vari motivi negativi evidenziati dalle impugnate ordinanze facevano riferimento (anche) ai seguenti atti mancanti: certificato di idoneità statica; prova dell’avvenuto accatastamento; rilievi planimetrici dell’opera e del lotto su cui insiste; piano di lottizzazione e quindi tutta una serie di diversi documenti mancanti, non prodotti come invece era onere di parte istante.
Su tali motivi autonomi di diniego, vestiti da mancanza della idonea produzione documentale, la parte appellate, ricorrente in prime cure, non ha ulteriormente controdedotto.
Ferma restando la sufficienza del motivo di diniego relativo alla esistenza di vincoli di inedificabilità assoluta, si aggiunge, per completezza, il principio giurisprudenziale, secondo il quale, in caso di diniego sorretto da più ragioni giustificatrici fra loro autonome, è sufficiente a sorreggere la legittimità dell'atto impugnato la conformità a legge anche di una sola di esse (così, Consiglio Stato , sez. IV, 10.12.2007, n. 6325) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.12.2012 n. 6662 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le scelte urbanistiche costituiscono apprezzamenti di merito, e quindi sottratte al sindacato di legittimità con l’eccezione di quelle inficiate da errori di fatto o da incongruità argomentativa.
Sulla scorta di tale premessa, va condivisa l’affermazione per cui le scelte sulla destinazione di singole aree sono congruamente motivate facendo riferimento alle ragioni evincibili dai criteri generali seguiti nell'impostazione del piano regolatore, ossia emergenti dalla relazione illustrativa del piano. Al contrario, la necessità di altri e più incisivi profili motivazionali può essere rinvenuta solo nei casi in cui preesistano particolari situazioni che abbiano creato aspettative o affidamenti, e che quindi, stante l’esistenza di posizioni soggettive meritevoli di specifica considerazione, debbano ricevere una più compiuta valutazione.
Tuttavia, tali situazioni, lungi dall’essere riscontrabili in qualsiasi situazione peggiorativa, hanno il loro referente in situazioni oramai tipizzate dalla interpretazione giurisprudenziale (si pensi al superamento degli standards urbanistici minimi, alla lesione dell'affidamento qualificato del privato in rapporto a precedenti convenzioni di lottizzazione, agli accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, alle conseguenze da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione).
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All’interno della pianificazione urbanistica possano trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l'ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi.
Infatti, l’urbanistica e il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo e armonico del medesimo; uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli, non in astratto, ma in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi, sia dei valori ambientali e paesaggistici, delle esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, delle esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che s'intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione de futuro sulla propria stessa essenza, svolta per autorappresentazione ed autodeterminazione dalla comunità medesima, con le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, con la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio.

Occorre osservare come il giudice di prime cure abbia fatto precedere la disamina dei singoli punti di doglianza con una premessa teorica di carattere generale.
In particolare, con un esame del tutto in linea con i principi e i criteri seguiti dalla giurisprudenza, ha evidenziato come le scelte urbanistiche costituiscano apprezzamenti di merito, e quindi sottratte al sindacato di legittimità con l’eccezione di quelle inficiate da errori di fatto o da incongruità argomentativa.
Sulla scorta di tale premessa, va condivisa l’affermazione per cui le scelte sulla destinazione di singole aree sono congruamente motivate facendo riferimento alle ragioni evincibili dai criteri generali seguiti nell'impostazione del piano regolatore, ossia emergenti dalla relazione illustrativa del piano. Al contrario, la necessità di altri e più incisivi profili motivazionali può essere rinvenuta solo nei casi in cui preesistano particolari situazioni che abbiano creato aspettative o affidamenti, e che quindi, stante l’esistenza di posizioni soggettive meritevoli di specifica considerazione, debbano ricevere una più compiuta valutazione. Tuttavia, tali situazioni, lungi dall’essere riscontrabili in qualsiasi situazione peggiorativa, hanno il loro referente in situazioni oramai tipizzate dalla interpretazione giurisprudenziale (si pensi al superamento degli standards urbanistici minimi, alla lesione dell'affidamento qualificato del privato in rapporto a precedenti convenzioni di lottizzazione, agli accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, alle conseguenze da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione, da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 11.09.2012 n. 4806).
Sulla base di tale ricostruzione, e sulla non contestata affermazione che nel caso in esame non ricorre nessuna di tali ipotesi, il TAR ha potuto ravvisare in capo al ricorrente unicamente una generica aspettativa ad una non reformatio in peius, tale da non giustificare né una particolare tutela, né un obbligo di più puntuale motivazione. La conclusione di tale iter argomentativo è stata quindi nel senso di non poter spingere il proprio sindacato fino al merito delle scelte urbanistiche operate, che rientrano nell'ambito della discrezionalità degli organi preposti all'adozione e approvazione del piano.
Deve pertanto evidenziarsi che, al contrario di quanto dedotto in appello, il TAR abbia correttamente spiegato le ragioni per cui non ha valutato i profili d’irrazionalità censurati, atteso che gli stessi o ricadono in un ambito sottratto alla disamina giurisprudenziale oppure, come si vedrà in seguito, ricadono in altri aspetti di doglianza, partitamente esaminati.
Conseguentemente, non può dirsi immotivata la scelta di procedere ad una classificazione dell’area a “verde privato”, stante l’inesistenza di una posizione particolarmente qualificata a non subire destinazioni peggiorative. Deve condividersi l’assunto del primo giudice che, sulla base del principio generale, ha applicato la stessa tecnica di giudizio anche al caso in specie, atteso che il passaggio dalla destinazione edificatoria, prevista dal previgente piano, a quella di tipo agricolo all’interno di una più ampia zona omogenea con carattere edificabile altro non è che un’applicazione in concreto di quanto sopra evidenziato; né la circostanza dedotta è tale da fare mutare la ratio applicativa sottostante.
Anche in questo caso, infatti, la destinazione a verde privato non richiede motivazione specifica. E, infatti, opportunamente deve farsi ricorso a quella giurisprudenza che ha evidenziato come all’interno della pianificazione urbanistica possano trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l'ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi. Infatti, l’urbanistica e il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo e armonico del medesimo; uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli, non in astratto, ma in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi, sia dei valori ambientali e paesaggistici, delle esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, delle esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che s'intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione de futuro sulla propria stessa essenza, svolta per autorappresentazione ed autodeterminazione dalla comunità medesima, con le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, con la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 10.05.2012 n. 2710).
Non è dato quindi riscontrare alcuna tipizzazione abnorme o extra ordinem nella vicenda de qua, atteso che il verde privato viene a svolgere una funzione di riequilibrio del tessuto edificatorio, del tutto compresa nelle potestà pianificatorie dell’ente comunale, come peraltro precisamente motivato nella relazione illustrativa, dove si fa riferimento all’intento di “ritrovare un equilibrio nuovo dotando il centro esistente delle infrastrutture e delle aree per verde e servizi necessari”.
Proprio la funzione svolta rende corretta la risposta data dal giudice di prime cure, il quale ha inquadrato la destinazione a verde privato in un’ottica più comprensiva, utilizzabile anche al fine di salvaguardare precisi equilibri dell'assetto territoriale
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.12.2012 n. 6656 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Va ricordato come la nozione di “lotto intercluso” abbia una sua valenza quando non si rinvenga spazio giuridico per un'ulteriore pianificazione, mentre non è applicabile nei casi, come quello in esame, di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto.
Come sopra evidenziato, la situazione del fondo escludeva la necessità di una motivazione di particolare puntualità. Né peraltro pare condivisibile la lettura della detta area come lotto intercluso, attesa la funzione eccezionale di tale concetto (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 10.06.2010 n. 3699 e tale quindi da escludere l’estensione analogica della sua applicazione) e la tipologia dell’area (che, affacciando su due diverse strade, non pare riconducibile a tale ambito).
In ogni caso, va ricordato come la nozione di “lotto intercluso” abbia una sua valenza quando non si rinvenga spazio giuridico per un'ulteriore pianificazione, mentre non è applicabile nei casi, come quello in esame, di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (Consiglio di Stato, sez. V, 01.12.2003, n. 7799)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.12.2012 n. 6656 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’autore di un esposto-denuncia non assume per ciò solo le vesti di controinteressato processuale nel giudizio amministrativo instaurato avverso l’annullamento d’ufficio dell’atto, anche ove il suo ritiro sia stato sollecitato nella denuncia.
L’autotutela decisoria, per quanto sollecitata da terzi portatori di interessi di mero fatto al suo esercizio, resta prerogativa dell’Amministrazione non soltanto nel suo concreto atteggiarsi, ma anche in relazione alla autonoma valutazione delle condizioni, in fatto ed in diritto, per il suo esplicarsi.
Per tal ragione, l’impugnazione diretta avverso l’atto di annullamento di ufficio di un pregresso provvedimento abilitativo non va notificata necessariamente all’autore dell’esposto-denuncia che aveva sollecitato l’esercizio dell’atto di autotutela, ferma comunque la facoltà di quest’ultimo di intervenire ad opponendum nel relativo giudizio.

Il Collegio ritiene che tali considerazioni siano da condividere. L’autore di un esposto-denuncia non assume per ciò solo le vesti di controinteressato processuale nel giudizio amministrativo instaurato avverso l’annullamento d’ufficio dell’atto, anche ove –come nella specie- il suo ritiro sia stato sollecitato nella denuncia.
L’autotutela decisoria, per quanto sollecitata da terzi portatori di interessi di mero fatto al suo esercizio, resta prerogativa dell’Amministrazione non soltanto nel suo concreto atteggiarsi, ma anche in relazione alla autonoma valutazione delle condizioni, in fatto ed in diritto, per il suo esplicarsi. Per tal ragione, l’impugnazione diretta avverso l’atto di annullamento di ufficio di un pregresso provvedimento abilitativo non va notificata necessariamente all’autore dell’esposto-denuncia che aveva sollecitato l’esercizio dell’atto di autotutela, ferma comunque la facoltà di quest’ultimo di intervenire ad opponendum nel relativo giudizio
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.12.2012 n. 6639 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le preminenti esigenze pubblicistiche connesse alla salvaguardia delle incomprimibili finalità di igiene e salubrità dei luoghi sottese alla regola della distanza minima delle costruzioni civili rispetto agli allevamenti di animali hanno necessariamente valenza erga omnes, nel senso che sono poste nell’interesse di tutti i potenziali soggetti che hanno titolo a vederne rispettato il precetto.
Ciò implica che l’osservanza della disposizione regolamentare che pone, per ragioni di igiene e sanità pubblica, il rispetto di quella distanza minima dagli allevamenti non può essere interpretata, come assume il giudice di primo grado, in senso unilaterale, e cioè che alla sua osservanza sarebbe tenuto soltanto il costruttore di un allevamento rispetto agli insediamenti costruttivi preesistenti e non anche il costruttore di fabbricati ad uso abitativo rispetto ad allevamenti già insediati.
Non v’è infatti ragione per ritenere fondata una tale interpretazione, dalla quale irragionevolmente deriverebbero, pur a fronte della medesima ratio legis, soluzioni differenziate rispetto alla stessa questione inerente il rispetto o meno delle distanze imposte dal regolamento di igiene. D’altra parte il rispetto della disposizione regolamentare si impone anche a salvaguardia degli aventi causa della società immobiliare, quali acquirenti degli appartamenti destinati a civile abitazione, perché è proprio in relazione alla loro posizione giuridica che si pongono le delicate questioni afferenti la salubrità dell’aria.
Non par dubbio che l’amministrazione comunale anche delle esigenze abitative di tali soggetti si sia fatta implicitamente carico nell’esercizio dell’autotutela di guisa che il provvedimento, tenuto conto di tali primarie esigenze di tutela della salute umana, non risulta adottato in carenza dei presupposti.

La questione giuridica da dirimere attiene alla legittimità del provvedimento col quale il Comune di Zimella ha fatto luogo all’annullamento, in autotutela, del permesso di costruire rilasciato in favore dell’odierna società appellata nonché degli effetti della denuncia di inizio di attività a suo tempo prodotta per alcune modifiche di destinazione d’uso relative al medesimo complesso residenziale costituito da cinque unità abitative.
A base dell’autoannullamento l’Amministrazione comunale di Zimella ha posto la questione dirimente dell’intervenuta violazione, da parte della società costruttrice dell’immobile, della disposizione contenuta nell’art. 96 del Regolamento comunale di igiene, che impone la distanza minima di settantacinque metri dagli allevamenti civili.
La circostanza fattuale inerente la violazione di detta distanza rispetto all’allevamento gestito dall’azienda agricola Iseo nel caso in esame è pacifica ed incontestata, in quanto la nuova costruzione è stata in parte realizzata, dalla società odiernamente appellata, a distanza inferiore a quella prevista dalla citata disposizione regolamentare; si discute tra le parti se ai fini del calcolo di detta distanza minima si debba aver riguardo soltanto ai locali adibiti a stalla, ove gli animali stazionano abitualmente, ovvero anche alla sala di mungitura ed ai locali accessori, dato che soltanto in relazione a questi ultimi (e non anche alle stalle) si pone un problema di violazione di quella distanza minima.
Il Tribunale amministrativo è pervenuto alla pronuncia di accoglimento, ritenendo l’illegittimità del provvedimento in primo grado impugnato, seguendo il seguente percorso logico:
a) è assorbente la violazione dell’art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241 avendo l’Amministrazione trascurato di evidenziare l’interesse pubblico concreto e attuale sotteso all’esercizio dell’autotutela, vieppiù visto il lungo lasso temporale tra il rilascio del permesso di costruire ed il suo annullamento d’ufficio;
b) in ogni caso è rispettata la distanza rispetto ai locali di stabulazione, la violazione dell’art. 96 del Regolamento di igiene essendo riferibile soltanto ai locali accessori (sala mungitura e deposito latte), dal che non potrebbe evincersi un interesse pubblico in re ipsa al ripristino della legalità;
c) la disposizione assuntivamente violata non postula reciprocità, nel senso che “la ratio ad essa sottesa sembra essere quella di impedire l’insediamento di nuovi allevamenti con conseguente creazione del pericolo e non anche quella di escludere l’accettazione di disagi connessi all’edificazione di edifici residenziali in prossimità degli allevamenti stessi”;
d) il permesso di costruire a suo tempo rilasciato ed oggetto di annullamento dopo circa ventidue mesi non faceva riferimento alcuno all’obbligo di rispettare la distanza di settantacinque metri e, d’altra parte, l’autodichiarazione del progettista non contiene elementi di falsità, la stessa facendo riferimento alla distanza dalla stalla;
e) vero è che l’Amministrazione già nel maggio 2008 ha avviato il procedimento per l’accertamento delle distanze ma tale procedimento non ha mai concluso, salva l’adozione della sospensione del procedimento conseguente alla presentazione, a lavori ormai conclusi, della domanda di agibilità da parte della società interessata.
Ritiene il Collegio che tale decisione, assunta sulla base della motivazione brevemente qui riprodotta, non sia condivisibile e non resista alle censure dedotte dalla Amministrazione comunale appellante.
In particolare, è per il Collegio dirimente osservare quanto segue, a comprova del fatto che nessun affidamento legittimo si sia nella specie potuto radicare in capo alla società appellata e che, quindi, i poteri di annullamento d’ufficio siano stati correttamente esercitati avuto rispetto delle condizioni individuate dall’art. 21-nonies della legge 07.08.1990 n. 241:
a) il permesso di costruire oggetto di annullamento è stato rilasciato sul presupposto (poi rivelatosi non veritiero) del rispetto delle norme igienico-sanitarie vigenti, per come attestato in data 04.03.2008 dal tecnico progettista incaricato dalla società odiernamente appellata;
b) l’autorizzazione ad attuare il piano di recupero del 21.10.2002, conseguente alla variante urbanistica ottenuta dalla società per realizzare l’intervento edilizio, recava l’esplicita prescrizione che gli insediamenti civili da realizzare all’interno del piano avrebbero dovuto rispettare la distanza minima di settantacinque metri dagli allevamenti esistenti;
c) è significativo osservare che pochi giorni dopo l’avvio dei lavori (07.04.2008) da parte della società costruttrice l’Amministrazione ha comunicato (12.05.2008) l’avvio del procedimento funzionale al controllo sulla regolarità degli atti adottati: prudenza avrebbe imposto alla società di astenersi dal dar corso ad ulteriori interventi prima della positiva finalizzazione del procedimento di controllo.
A fronte di tali emergenze, a ragione l’Amministrazione assume la piena legittimità dell’esercizio dell’autotutela, senza che in contrario possa farsi valere la pretesa carenza di ponderazione dei contrapposti interessi, ai sensi del citato art. 21-nonies della legge generale sul procedimento amministrativo.
Al proposito vale osservare, ancora in senso dirimente, che le preminenti esigenze pubblicistiche connesse alla salvaguardia delle incomprimibili finalità di igiene e salubrità dei luoghi sottese alla regola della distanza minima delle costruzioni civili rispetto agli allevamenti di animali hanno necessariamente valenza erga omnes, nel senso che sono poste nell’interesse di tutti i potenziali soggetti che hanno titolo a vederne rispettato il precetto.
Ciò implica che l’osservanza della disposizione regolamentare che pone, per ragioni di igiene e sanità pubblica, il rispetto di quella distanza minima dagli allevamenti non può essere interpretata, come assume il giudice di primo grado, in senso unilaterale, e cioè che alla sua osservanza sarebbe tenuto soltanto il costruttore di un allevamento rispetto agli insediamenti costruttivi preesistenti e non anche il costruttore di fabbricati ad uso abitativo rispetto ad allevamenti già insediati.
Non v’è infatti ragione per ritenere fondata una tale interpretazione, dalla quale irragionevolmente deriverebbero, pur a fronte della medesima ratio legis, soluzioni differenziate rispetto alla stessa questione inerente il rispetto o meno delle distanze imposte dal regolamento di igiene. D’altra parte il rispetto della disposizione regolamentare si impone anche a salvaguardia degli aventi causa della società immobiliare, quali acquirenti degli appartamenti destinati a civile abitazione, perché è proprio in relazione alla loro posizione giuridica che si pongono le delicate questioni afferenti la salubrità dell’aria.
Non par dubbio che l’amministrazione comunale anche delle esigenze abitative di tali soggetti si sia fatta implicitamente carico nell’esercizio dell’autotutela di guisa che il provvedimento, tenuto conto di tali primarie esigenze di tutela della salute umana, non risulta adottato in carenza dei presupposti.
Allo stesso modo, risulta contrastante con la stessa ragione della prescrizione sulle distanze di cui si tratta la soluzione interpretativa, che lo stesso giudice di primo grado sembra condividere, di ammettere la scomposizione materiale dei locali ove si esercita l’allevamento, a seconda delle specifiche destinazioni d’uso, per inferire non condivisibilmente che, assicurato il rispetto della distanza dalla stalla ove gli animali stazionano, non rileverebbe che la sala mungitura ed il deposito latte siano a distanza inferiore a quella minima regolamentare.
Non par dubbio al contrario che l’allevamento vada considerato, ai fini che qui interessano, quale un complesso edilizio unitario, rispetto al quale le esigenze di igiene e salubrità dei luoghi destinati ad abitazioni civili rilevano quali che siano le specifiche destinazioni d’uso (peraltro col tempo mutevoli) impresse dall’imprenditore agricolo ai singoli locali ove l’allevamento di animali viene in concreto esercitato.
Nemmeno appare condivisibile e pertinente il rilievo svolto in memoria conclusiva dalla difesa della società immobiliare Alex riguardo al titolo di sanatoria edilizia a suo tempo ottenuto (il 05.06.1992) dall’azienda agricola in relazione all’immobile adibito ad allevamento.
Quand’anche fosse provato che, in occasione del rilascio del predetto titolo in sanatoria, non siano stati conteggiati i locali accessori ai fini del calcolo della distanza dalla zona di completamento edilizio (150 metri), cionondimeno la circostanza non potrebbe comportare una diversa soluzione della questione controversa, avuto riguardo:
a) alla consolidazione degli effetti del provvedimento di sanatoria, ormai intangibile in difetto di un’impugnazione tempestiva;
b) alla necessità che, in sede di nuova edificazione da parte della società immobiliare Alex, si dovesse in ogni caso tener conto della situazione attuale con riguardo alle costruzioni preesistenti, a prescindere dalle questioni di legittimità dei titoli edilizi a suo tempo rilasciati
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.12.2012 n. 6639 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: L'interpretazione degli atti amministrativi, ivi compreso il bando di gara pubblica, soggiace alle stesse regole dettate dall'art. 1362 e ss. c.c. per l'interpretazione dei contratti, tra le quali assume carattere preminente quella collegata all'interpretazione letterale in quanto compatibile con il provvedimento amministrativo, dovendo in ogni caso il giudice ricostruire l'intento dell'Amministrazione, ed il potere che essa ha inteso esercitare, in base al contenuto complessivo dell'atto, tenendo conto del rapporto tra le premesse ed il suo dispositivo e del fatto che, secondo il criterio di interpretazione di buona fede ex art. 1366 c.c. gli effetti degli atti amministrativi devono essere individuati solo in base a ciò che il destinatario può ragionevolmente intendere; ciò anche in ragione del principio costituzionale di buon andamento, che impone alla P.A. di operare in modo chiaro e lineare, tale da fornire ai cittadini regole di condotte certe e sicure, soprattutto quando da esse possano derivare conseguenze negative.
Pertanto, solo in caso di oscurità ed equivocità delle clausole del bando e degli atti che regolano i rapporti tra cittadini e Amministrazione può ammettersi una lettura idonea a tutela dell'affidamento degli interessati in buona fede, non potendo generalmente addebitarsi al cittadino un onere di ricostruzione dell'effettiva volontà dell'Amministrazione mediante complesse indagini ermeneutiche ed integrative.

Preliminarmente deve essere evidenziato che, per conforme giurisprudenza di questo Consiglio, l'interpretazione degli atti amministrativi, ivi compreso il bando di gara pubblica, soggiace alle stesse regole dettate dall'art. 1362 e ss. c.c. per l'interpretazione dei contratti, tra le quali assume carattere preminente quella collegata all'interpretazione letterale in quanto compatibile con il provvedimento amministrativo, dovendo in ogni caso il giudice ricostruire l'intento dell'Amministrazione, ed il potere che essa ha inteso esercitare, in base al contenuto complessivo dell'atto, tenendo conto del rapporto tra le premesse ed il suo dispositivo e del fatto che, secondo il criterio di interpretazione di buona fede ex art. 1366 c.c. gli effetti degli atti amministrativi devono essere individuati solo in base a ciò che il destinatario può ragionevolmente intendere; ciò anche in ragione del principio costituzionale di buon andamento, che impone alla P.A. di operare in modo chiaro e lineare, tale da fornire ai cittadini regole di condotte certe e sicure, soprattutto quando da esse possano derivare conseguenze negative (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 05.09.2011, n. 4980).
Da tale premessa, deriva, quale diretto corollario, la regola secondo la quale solo in caso di oscurità ed equivocità delle clausole del bando e degli atti che regolano i rapporti tra cittadini e Amministrazione può ammettersi una lettura idonea a tutela dell'affidamento degli interessati in buona fede, non potendo generalmente addebitarsi al cittadino un onere di ricostruzione dell'effettiva volontà dell'Amministrazione mediante complesse indagini ermeneutiche ed integrative (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.12.2012 n. 6615 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: E' noto che, ai sensi dell'art. 76 del Codice dei contratti pubblici, le varianti progettuali migliorative riguardanti le modalità esecutive dell'opera o del servizio sono ammesse, purché non si traducano in una diversa ideazione dell'oggetto del contratto; pertanto, le varianti incontrano il solo limite della non alterazione degli elementi essenziali dell’oggetto del contratto che, nel caso di specie, non risultano pregiudicati.
Nel merito dell’ammissibilità delle varianti in concreto proposte dall’appellato, oggetto del secondo motivo d’appello, incentrato sull’ipotizzato aliud pro alio, il Collegio ritiene che le proposte migliorative non risultino aver reso l’immobile diverso per qualità e funzione, migliorandone, invece, la fruibilità, assecondando così le finalità che l’Amministrazione intendeva raggiungere con l’indizione della gara.
Peraltro, è noto che l’ipotesi di aliud pro alio ricorre non solo quando la cosa consegnata appartenga ad un genere del tutto diverso da quello a cui appartiene la cosa pattuita, ma anche quando difetti delle particolari qualità necessarie per assolvere alla sua naturale funzione economico-sociale (cfr., ex multis, Cassazione civile, sez. II, 04.05.2012, n. 6787): ipotesi che chiaramente non ricorre nel caso di specie.
Nello specifico campo degli appalti di opere pubbliche, inoltre, è noto che, ai sensi dell'art. 76 del Codice dei contratti pubblici, le varianti progettuali migliorative riguardanti le modalità esecutive dell'opera o del servizio sono ammesse, purché non si traducano in una diversa ideazione dell'oggetto del contratto (Consiglio di Stato, sez. V, 17.09.2012, n. 4916); pertanto, le varianti incontrano il solo limite della non alterazione degli elementi essenziali dell’oggetto del contratto che, nel caso di specie, non risultano pregiudicati
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.12.2012 n. 6615 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Responsabilità solidale significa responsabilità per inadempimento, vale a dire responsabilità in cui più soggetti sono chiamati a rispondere, per una violazione o comunque per un'obbligazione, in posizione di parità.
La responsabilità solidale è ignota soltanto nel diritto penale o, comunque, nel diritto punitivo (in tale seconda evenienza, tranne i casi di espressa previsione sanciti dalla legge), in ragione del principio di personalità della pena, mentre è frequente il suo impiego in ambito civile o amministrativo (cfr. 1292 c.c., e 2055 c.c. anche in relazione all’art. 1218 c.c.): se il fatto dannoso, contrattuale o aquiliano è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno; pertanto, a tutte è imputabile l’inadempimento.
Peraltro, con riferimento alle ATI, di recente il Consiglio di Stato ha stabilito che la distinzione tra A.T.I. orizzontali e A.T.I. verticali oggi enunciata sul piano legislativo dall'art. 37, commi 1 e 2, D.lgs. 12.04.2006, n. 163 (poggia sul contenuto delle competenze portate da ciascuna impresa raggruppata ai fini della qualificazione a una determinata gara: in linea generale, l'A.T.I. orizzontale è caratterizzata dal fatto che le imprese associate (o associande) sono portatrici delle medesime competenze per l'esecuzione delle prestazioni costituenti l'oggetto dell'appalto, mentre l'A.T.I. verticale è connotata dalla circostanza che l'impresa mandataria apporta competenze incentrate sulla prestazione prevalente, diverse da quelle delle mandanti, le quali possono avere competenze differenziate anche tra di loro, sicché nell'A.T.I. di tipo verticale un'impresa, ordinariamente capace per la prestazione prevalente, si associa ad altre imprese provviste della capacità per le prestazioni secondarie scorporabili.
Sul piano del regime della responsabilità, l’Adunanza Plenaria ha specificato che nelle A.T.I. orizzontali ciascuna delle imprese riunite è responsabile solidalmente nei confronti della stazione appaltante, mentre nelle A.T.I. verticali le mandanti rispondono ciascuna per le prestazioni assunte e la mandataria risponde in via solidale con ciascuna delle imprese mandanti in relazione alle rispettive prestazioni secondarie.
Pertanto, la responsabilità per inadempimento, contrariamente a quanto ritiene parte appellante, si estende anche agli inadempimenti delle mandanti, sia che l’A.T.I. sia verticale, sia che l’A.T.I. (a maggior ragione) sia orizzontale.

Ritiene il Collegio che la prospettiva adottata dall’Amministrazione e recepita nella sentenza impugnata sia da condividere in pieno; la circostanza, infatti, anche data per ammessa, che le inadempienze contestate nel provvedimento impugnato fossero attribuibili alla mandante Tributi Italia SpA, con cui il servizio era diviso, non incide sul regime di responsabilità solidale descritto dall’art. 11, comma 3, del D. lgs. 157-1995 e, ora, dall’art. 37, comma 5, del D.lgs. 163-2006.
Responsabilità solidale significa responsabilità per inadempimento, vale a dire responsabilità in cui più soggetti sono chiamati a rispondere, per una violazione o comunque per un'obbligazione, in posizione di parità.
La responsabilità solidale è ignota soltanto nel diritto penale o, comunque, nel diritto punitivo (in tale seconda evenienza, tranne i casi di espressa previsione sanciti dalla legge), in ragione del principio di personalità della pena, mentre è frequente il suo impiego in ambito civile o amministrativo (cfr. 1292 c.c., e 2055 c.c. anche in relazione all’art. 1218 c.c.): se il fatto dannoso, contrattuale o aquiliano è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno; pertanto, a tutte è imputabile l’inadempimento.
Peraltro, con riferimento alle ATI, di recente il Consiglio di Stato, Ad. Plen., 13.06.2012, n. 22 ha stabilito che la distinzione tra A.T.I. orizzontali e A.T.I. verticali oggi enunciata sul piano legislativo dall'art. 37, commi 1 e 2, D.lgs. 12.04.2006, n. 163 (poggia sul contenuto delle competenze portate da ciascuna impresa raggruppata ai fini della qualificazione a una determinata gara: in linea generale, l'A.T.I. orizzontale è caratterizzata dal fatto che le imprese associate (o associande) sono portatrici delle medesime competenze per l'esecuzione delle prestazioni costituenti l'oggetto dell'appalto, mentre l'A.T.I. verticale è connotata dalla circostanza che l'impresa mandataria apporta competenze incentrate sulla prestazione prevalente, diverse da quelle delle mandanti, le quali possono avere competenze differenziate anche tra di loro, sicché nell'A.T.I. di tipo verticale un'impresa, ordinariamente capace per la prestazione prevalente, si associa ad altre imprese provviste della capacità per le prestazioni secondarie scorporabili.
Sul piano del regime della responsabilità, l’Adunanza Plenaria ha specificato che nelle A.T.I. orizzontali ciascuna delle imprese riunite è responsabile solidalmente nei confronti della stazione appaltante, mentre nelle A.T.I. verticali le mandanti rispondono ciascuna per le prestazioni assunte e la mandataria risponde in via solidale con ciascuna delle imprese mandanti in relazione alle rispettive prestazioni secondarie.
Pertanto, la responsabilità per inadempimento, contrariamente a quanto ritiene parte appellante, si estende anche agli inadempimenti delle mandanti, sia che l’A.T.I. sia verticale, sia che l’A.T.I. (a maggior ragione) sia orizzontale.
Nel caso in esame, assodato dunque che l’inadempimento controverso è anche imputabile all’appellante, il Collegio deve ammettere che l’esclusione di cui all’art. 38, comma 1, lett. f), del D.Lgs. 163-2006 si fonda su un potere discrezionale dell’Ente appaltante nella valutazione circa il venir meno del rapporto fiduciario per vicende inerenti a precedenti rapporti contrattuali.
Pertanto, occorre verificare se, nella situazione concreta, ricorrano elementi sintomatici tali da denotare un uso distorto del potere attribuito dalla norma nell’effettuare tale valutazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.12.2012 n. 6614 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Nel rapporto di pubblico impiego non può essere liquidato legittimamente alcun compenso per lavoro straordinario quando manchi una preventiva e formale autorizzazione al relativo svolgimento da parte dell'amministrazione, perché solo in questo modo è possibile controllare, nel rispetto dell'art. 97 cost., la reale esistenza delle ragioni di pubblico interesse che rendono opportuno il ricorso a tali prestazioni; tuttavia, detta autorizzazione può intervenire anche in sanatoria, nel caso di prestazioni di lavoro straordinario espletate per improcrastinabili esigenze di servizio e l'autorizzazione stessa è implicita nello svolgimento dell'attività cui il dipendente deve obbligatoriamente partecipare oltre il normale orario d'ufficio.
L’orientamento giurisprudenziale pacificamente seguito, che il Collegio condivide, non sorregge la tesi proposta dall’appellante.
C. di S. IV, 31.03.2005, n. 1445, ha per esempio stabilito che (massima) “se è vero che nel rapporto di pubblico impiego non può essere liquidato legittimamente alcun compenso per lavoro straordinario quando manchi una preventiva e formale autorizzazione al relativo svolgimento da parte dell'amministrazione, perché solo in questo modo è possibile controllare, nel rispetto dell'art. 97 cost., la reale esistenza delle ragioni di pubblico interesse che rendono opportuno il ricorso a tali prestazioni; tuttavia, detta autorizzazione può intervenire anche in sanatoria, nel caso di prestazioni di lavoro straordinario espletate per improcrastinabili esigenze di servizio e l'autorizzazione stessa è implicita nello svolgimento dell'attività cui il dipendente deve obbligatoriamente partecipare oltre il normale orario d'ufficio”.
Secondo tale orientamento, quindi, il compenso relativo allo svolgimento di lavoro straordinario è subordinato all’autorizzazione dell’Amministrazione.
Il lavoro straordinario, infatti, può essere svolto, e deve essere pagato, sul presupposto che i competenti organi dell’Amministrazione abbiano riconosciuto la sua utilità, ed abbiano accertato la necessità e sostenibilità della relativa spesa.
E’ chiaro che qualora manchi l’autorizzazione preventiva espressa, spetta a chi pretende il relativo pagamento dimostrare l’esistenza dei presupposti per il pagamento, consistenti nell’autorizzazione a sanatoria o nella dimostrazione del verificarsi di una situazione di fatto che ha reso imprescindibile lo svolgimento delle prestazioni straordinarie, in applicazione del principio di cui all’art. 2967 c.c..
E’ vero che nel giudizio amministrativo tale onere è attenuato, in quanto la documentazione necessaria è normalmente nella disponibilità dell’Amministrazione, ma solo nei limiti della necessaria introduzione, nel processo, di un principio di prova, che legittimi l’esperimento di incombenti istruttori.
Nel caso di specie peraltro l’appellante non ha assolto nemmeno tale onere attenuato.
In particolare, non costituisce indizio della continua costrizione allo svolgimento di prestazioni straordinarie l’unica occasione nella quale egli sarebbe stato sanzionato per essersi rifiutato di svolgerle
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.12.2012 n. 6605 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute, indipendentemente da una normativa espressa che lo prevede, discende direttamente dal mancato godimento, allorché sia certo che detta mancanza non sia stata determinata dalla volontà unilaterale del lavoratore.
L’appellante chiede poi il riconoscimento del suo diritto a percepire l’indennità per ferie non godute nel periodo 1995-1998.
L’appellante implicitamente ammette di non avere chiesto di usufruire delle ferie, sostenendo peraltro l’irrilevanza del fatto.
Neanche questa domanda può essere accolta in quanto la tesi dell’appellante è in contrasto con l’orientamento sostanzialmente pacifico della giurisprudenza, che il Collegio condivide.
Ad esempio, secondo C. di S., IV, 10.12.2003, n. 8118, “il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute, indipendentemente da una normativa espressa che lo prevede, discende direttamente dal mancato godimento, allorché sia certo che detta mancanza non sia stata determinata dalla volontà unilaterale del lavoratore”.
Atteso che, come appena sottolineato, l’appellante ha sostanzialmente ammesso che la mancata fruizione delle ferie è a lui imputabile, la pretesa deve essere respinta
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.12.2012 n. 6605 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Nel caso di istanza di risarcimento del danno non patrimoniale per usura psicofisica derivante da attività lavorativa prestata anche nel giorno destinato al riposo settimanale senza aver goduto di riposo compensativo, il lavoratore è tenuto ad allegare e provare in termini reali, sia nell'an che nel quantum, il pregiudizio del suo diritto fondamentale alla salute psico-fisica, nei suoi caratteri naturalistici e nella sua dipendenza causale dalla violazione dei diritti patrimoniali di cui all'art. 36 della costituzione.
Il lavoratore che assume di essere stato adibito ad attività lavorativa anche nel giorno destinato al riposo settimanale senza aver goduto di riposo compensativo, ove chieda il risarcimento del danno non patrimoniale per usura psicofisica ovvero per la lesione del diritto alla salute o alla libera esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana, è tenuto a provare in termini reali il pregiudizio subito, sia nell'an sia nel quantum.

L’appellante chiede poi il riconoscimento del suo diritto al risarcimento per danno da usura.
Anche questa pretesa deve essere respinta, in quanto contrastante con pacifico orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio.
C. di S., VI, 08.03.2012, n. 1317, ha affermato che “nel caso di istanza di risarcimento del danno non patrimoniale per usura psicofisica derivante da attività lavorativa prestata anche nel giorno destinato al riposo settimanale senza aver goduto di riposo compensativo, il lavoratore è tenuto ad allegare e provare in termini reali, sia nell'an che nel quantum, il pregiudizio del suo diritto fondamentale alla salute psico-fisica, nei suoi caratteri naturalistici e nella sua dipendenza causale dalla violazione dei diritti patrimoniali di cui all'art. 36 della costituzione”.
Allo stesso modo, C. di S., VI, 15.07.2010, n. 4553, ha affermato che “il lavoratore che assume di essere stato adibito ad attività lavorativa anche nel giorno destinato al riposo settimanale senza aver goduto di riposo compensativo, ove chieda il risarcimento del danno non patrimoniale per usura psicofisica ovvero per la lesione del diritto alla salute o alla libera esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana, è tenuto a provare in termini reali il pregiudizio subito, sia nell'an sia nel quantum”.
E’ quindi pacifico in giurisprudenza il principio secondo il quale il lavoratore che vanti il suo diritto al risarcimento del danno da usura psicofisica derivante dal mancato godimento del giorno di riposo ha l’onere di provare l’effettivo verificarsi del danno e di quantificarlo
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.12.2012 n. 6605 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La nozione di “situazione giuridicamente rilevante” che giustifica l’esercizio del diritto di accesso si configura certamente come diversa e più ampia rispetto alla legittimazione ed all'interesse al ricorso, e non presuppone necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo, per cui la legittimazione all'accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l'autonomia del diritto di accesso, inteso come interesse ad un bene della vita, distinto rispetto alla situazione legittimante all'impugnativa dell'atto.
Tuttavia, l'interesse legittimante l'accesso non può essere individuato in qualunque interesse giuridicamente rilevante vantato da un qualsiasi soggetto dell'ordinamento, ma deve invece essere attinente all'azione amministrativa in relazione alla quale l'istanza è presentata, atteso che solo in tal modo può venire in essere il carattere diretto, attuale e concreto cui l’art. 22 della L. n. 241/1990 fa riferimento.
La domanda di accesso non può così essere palesemente sovradimensionata rispetto all'effettivo interesse conoscitivo del soggetto, da cui l’inammissibilità di un ricorso nel caso di omessa dimostrazione del collegamento tra la documentazione di cui si chiede l'ostensione, e la posizione soggettiva meritevole di tutela.
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L'interesse che legittima la richiesta di accesso, oltre ad essere serio e non emulativo, deve essere infatti "concreto", cioè ricollegabile alla persona dell'istante da uno specifico nesso, dovendosi dimostrare che gli atti procedimentali richiesti abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei confronti dell’istante.
Tuttavia, poiché il citato art. 22 L. 07.08.1990 n. 241 non ha introdotto alcun tipo di azione diretta a consentire una sorta di controllo generalizzato sulla amministrazione, deve escludersi che il diritto di accesso consenta l'acquisizione meramente conoscitiva di atti o documenti.

La nozione di “situazione giuridicamente rilevante” che giustifica l’esercizio del diritto di accesso si configura certamente come diversa e più ampia rispetto alla legittimazione ed all'interesse al ricorso, e non presuppone necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo, per cui la legittimazione all'accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l'autonomia del diritto di accesso, inteso come interesse ad un bene della vita, distinto rispetto alla situazione legittimante all'impugnativa dell'atto.
Tuttavia, l'interesse legittimante l'accesso non può essere individuato in qualunque interesse giuridicamente rilevante vantato da un qualsiasi soggetto dell'ordinamento, ma deve invece essere attinente all'azione amministrativa in relazione alla quale l'istanza è presentata, atteso che solo in tal modo può venire in essere il carattere diretto, attuale e concreto cui l’art. 22 della L. n. 241/1990 fa riferimento (TAR Lazio, Roma Sez. I 08.03.2011 n. 2083).
La domanda di accesso non può così essere palesemente sovradimensionata rispetto all'effettivo interesse conoscitivo del soggetto, da cui l’inammissibilità di un ricorso nel caso di omessa dimostrazione del collegamento tra la documentazione di cui si chiede l'ostensione, e la posizione soggettiva meritevole di tutela (TAR Lazio, Roma Sez. I 05.08.2010 n. 2012).
In sede procedimentale, ed al momento di proposizione del ricorso, il ricorrente ha espressamente motivato il proprio interesse all’accesso in relazione all’impatto acustico ed elettromagnetico potenzialmente indotto dalla realizzazione delle opere contenute nel progetto, il cui abbandono da parte della resistente, comporta il venire meno dello stesso interesse, che difetta pertanto del requisito dell’attualità.
L'interesse che legittima la richiesta di accesso, oltre ad essere serio e non emulativo, deve essere infatti "concreto", cioè ricollegabile alla persona dell'istante da uno specifico nesso, dovendosi dimostrare che gli atti procedimentali richiesti abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei confronti dell’istante (Ad Plen. C.S. n. 7 del 24.04.2012), ciò che invece manca nel caso di specie, in cui non esiste alcun procedimento in corso, né è fissata alcuna data per il suo avvio. Lo stesso ricorrente sostanzialmente conferma che solo l’esistenza, futura ed eventuale, di nuove versioni progettuali, giustificherebbe il proprio interesse all’accesso, qualificando la propria azione “meramente conoscitiva” (pag. 3 della citata memoria del 06.12.2012).
Tuttavia, poiché il citato art. 22 L. 07.08.1990 n. 241 non ha introdotto alcun tipo di azione diretta a consentire una sorta di controllo generalizzato sulla amministrazione (Ad. Plen. n. 7/2012 cit.), deve escludersi che il diritto di accesso consenta l'acquisizione meramente conoscitiva di atti o documenti (TAR Sardegna, Sez. II, 19.01.2006 n. 29) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 21.12.2012 n. 3201 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Ritenendo che l’art. 75 D.L.gs 12.04.2006 n. 163 abbia portata "eterointegrativa", come tale applicabile agli appalti a prescindere dall'espresso richiamo contenuto nella legge di gara, l'integrazione da parte della stazione appaltante della lex specialis della gara con clausole precedentemente omesse è atto.
Pertanto la mancata previsione nella lettera invito dell’obbligo di presentare la cauzione non costituisce una ragione per procedere all’annullamento della lettera medesima, ben potendo essere colmata con il meccanismo della eterointegrazione: da qui l’assenza dei presupposti per l’esercizio del potere di autotutela.

Con il presente ricorso la società Ristorazione e Servizi per Comunità (da ora anche solo Ristorazione), ha impugnato il provvedimento del Comune di Eupilio, con cui è stata disposto l’annullamento della procedura per la concessione del servizio di ristorazione scolastica, da aggiudicarsi secondo il sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
...L’annullamento è stato disposto con la seguente testuale motivazione: “la mancanza nella lettera invito della presentazione della cauzione provvisoria da parte dei partecipanti, ai sensi dell’art 75 del D.Lgs. 163/2006 costituisce motivo di illegittimità della stessa e pertanto ragione di doveroso annullamento della lettera medesima da parte della stazione appaltante”.
Secondo la tesi della società ricorrente la mancata indicazione nella lex specialis dell’obbligo di presentare la cauzione provvisoria non doveva indurre all’annullamento della gara, ma alla esclusione della società controinteressata: l’art 75 del D.L.gs. 163/2006 è norma imperativa, che deve trovare applicazione, in forza del principio di eterointegrazione, in caso di previsioni generiche della lex specialis.
Sostiene invece l’Amministrazione che il servizio in oggetto è ricompreso tra quelli elencati nell’All. II B del D.L.gs. 163/2006, disciplinati dall’art. 20 del Codice, secondo il quale non trova applicazione l’art. 75, che può trovare ingresso solo attraverso un esplicito intervento dell’amministrazione aggiudicatrice in sede di predisposizione degli atti.
Entrambe le tesi inducono a ritenere illegittimo l’annullamento in autotutela.
Infatti ritenendo che l’art. 75 D.L.gs 12.04.2006 n. 163 abbia portata "eterointegrativa" (in tal senso TAR Lazio Latina, sez. I, 28.07.2009, n. 737, TAR Sicilia Palermo, sez. III, 10.03.2010, n. 2646 e Consiglio Stato sez. V, 12.06.2009, n. 3746), come tale applicabile agli appalti a prescindere dall'espresso richiamo contenuto nella legge di gara, l'integrazione da parte della stazione appaltante della lex specialis della gara con clausole precedentemente omesse era atto dovuto e quindi l’Amministrazione avrebbe dovuto escludere la società controinteressata.
Pertanto la mancata previsione nella lettera invito dell’obbligo di presentare la cauzione non costituiva una ragione per procedere all’annullamento della lettera medesima, ben potendo essere colmata con il meccanismo della eterointegrazione: da qui l’assenza dei presupposti per l’esercizio del potere di autotutela.
A voler seguire, poi, la tesi difensiva dell’Amministrazione, secondo cui, in base alla tipologia di servizio oggetto di appalto, l’art. 75 non potrebbe trovare applicazione, anche in tal caso non vi sarebbe alcuna lacuna della lex specialis e, quindi, non vi sarebbe alcun vizio nella lettera invito da giustificarne l’annullamento, che risulterebbe disposto in difetto dei presupposti.
L’art. 20 del Codice infatti stabilisce per gli appalti di cui all. II B (tra cui il servizio di ristorazione), un regime differenziato, in quanto disciplinati solo dagli artt. 68, 65 e 225, per cui la mancata prescrizione nella lettera di invito dell’obbligo di prestare cauzione provvisoria non costituiva una “lacuna”, per la quale dovesse operare il principio di eterointegrazione, né rappresentava un motivo di illegittimità della lex specialis, che potesse giustificare l’annullamento della gara
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 21.12.2012 n. 3174 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il funzionario comunale ha aperto i plichi ai soli fini della verifica della documentazione prodotta dalle Ditte concorrenti.
Le operazioni di gara effettuate in questa fase non richiedevano la costituzione di una vera e propria commissione, la cui nomina, ai sensi dell'art. 84, comma 1, è richiesta solo per la valutazione tecnica dell’offerta, mentre le attività preliminari di verifica documentale possono essere svolte direttamente dai funzionari della stazione appaltante assegnati all'unità operativa responsabile delle procedure di gara.
La giurisprudenza in materia di gara da aggiudicare con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa afferma, infatti, che la procedura selettiva si compone di varie fasi, alcune delle quali necessitano di competenze amministrative ed altre, invece, di competenze tecniche.
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Non è ravvisasibile alcuna illegittimità nella nomina, quale presidente della commissione di gara, del funzionario Responsabile del settore che dovrà poi controllare il servizio oggetto dell’appalto, in quanto l'art. 84 del D.Lgs. n. 163 del 2006 mira ad impedire la presenza nella Commissione di gara di soggetti che abbiano svolto un'attività idonea ad interferire con il giudizio di merito sull'appalto, avendo svolto nell’interesse proprio o in quello di ditte concorrenti, compiti relativi all’attività oggetto dell’appalto.
Detta incompatibilità non si può estendere al funzionario che, sempre nell’ambito della propria attività professionale, ha predisposto gli atti di gara.

Lamenta parte ricorrente la violazione dell’art. 84, c. 1 e 4, nonché dell’art. 30, c. 3, del D.Lgs. 163/2006, in quanto la Commissione di gara sarebbe stata costituita da un solo soggetto, la Sig.ra Trovato, la quale avrebbe anche predisposto gli atti di gara.
Come risulta dal verbale della seduta del 10.09.2012, la Sig. Trovato ha aperto i plichi ai soli fini della verifica della documentazione prodotta dalle Ditte concorrenti.
Le operazioni di gara effettuate in questa fase non richiedevano la costituzione di una vera e propria commissione, la cui nomina, ai sensi dell'art. 84, comma 1, è richiesta solo per la valutazione tecnica dell’offerta, mentre le attività preliminari di verifica documentale possono essere svolte direttamente dai funzionari della stazione appaltante assegnati all'unità operativa responsabile delle procedure di gara.
La giurisprudenza in materia di gara da aggiudicare con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa afferma, infatti, che la procedura selettiva si compone di varie fasi, alcune delle quali necessitano di competenze amministrative ed altre, invece, di competenze tecniche (cfr. CdS, sez. V, 13.10.2010 n. 7470).
Nel caso in esame correttamente le fasi amministrative sono state espletate dal Responsabile della competente unità organizzativa settore, atteso che, ai sensi dell'articolo 10, 2 comma, del d.l.vo n. 163/2006, il RUP svolge tutti i compiti relativi alle procedure di affidamento previste dal codice degli appalti che non siano specificamente attribuiti ad altri organi o soggetti.
Neppure è ravvisasibile alcuna illegittimità nella nomina, quale presidente della commissione, del funzionario, Responsabile del settore che dovrà poi controllare il servizio oggetto dell’appalto, in quanto l'art. 84 del D.Lgs. n. 163 del 2006, mira ad impedire la presenza nella Commissione di gara di soggetti che abbiano svolto un'attività idonea ad interferire con il giudizio di merito sull'appalto, avendo svolto nell’interesse proprio o in quello di ditte concorrenti, compiti relativi all’attività oggetto dell’appalto. Detta incompatibilità non si può estendere al funzionario che, sempre nell’ambito della propria attività professionale, ha predisposto gli atti di gara
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 21.12.2012 n. 3174 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’art. 37, comma 13, del D. Lgs 163/2006 –con disposizione valida anche per gli appalti di servizi e forniture– stabilisce che i concorrenti riuniti in ATI devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento, per cui è evidente che deve sussistere una perfetta corrispondenza tra quota di lavori (o, nel caso di forniture o servizi, di parti di esse) eseguita dal singolo operatore economico e quota di effettiva partecipazione al raggruppamento, e che vi è la necessità che sia l’una che l’altra siano specificate dai componenti del raggruppamento all’atto della partecipazione alla gara.
E’ altresì richiesto che la singola impresa componente dell’A.T.I. abbia la qualifica, ovvero i requisiti di ammissione, in misura corrispondente alla quota di partecipazione, il tutto a garanzia della stazione appaltante e del buon esito del programma contrattuale nella fase di esecuzione: l’inosservanza di detta regola comporta l’inammissibilità dell’offerta contrattuale, perché implica l’adempimento da parte di un’impresa priva (almeno in parte) di qualificazione in una misura simmetrica alla quota di prestazione ad essa devoluta dall’accordo associativo ovvero dall’impegno delle parti a concludere l’accordo stesso.

Come già sottolineato (cfr. sentenza 19/07/2012 n. 1385), l’art. 37, comma 13, del D. Lgs 163/2006 –con disposizione valida anche per gli appalti di servizi e forniture– stabilisce che i concorrenti riuniti in ATI devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento, per cui è evidente che deve sussistere una perfetta corrispondenza tra quota di lavori (o, nel caso di forniture o servizi, di parti di esse) eseguita dal singolo operatore economico e quota di effettiva partecipazione al raggruppamento, e che vi è la necessità che sia l’una che l’altra siano specificate dai componenti del raggruppamento all’atto della partecipazione alla gara (cfr. TAR Lazio Roma, sez. II – 30/4/2012 n. 3891).
E’ altresì richiesto che la singola impresa componente dell’A.T.I. abbia la qualifica, ovvero i requisiti di ammissione, in misura corrispondente alla quota di partecipazione, il tutto a garanzia della stazione appaltante e del buon esito del programma contrattuale nella fase di esecuzione: l’inosservanza di detta regola comporta l’inammissibilità dell’offerta contrattuale, perché implica l’adempimento da parte di un’impresa priva (almeno in parte) di qualificazione in una misura simmetrica alla quota di prestazione ad essa devoluta dall’accordo associativo ovvero dall’impegno delle parti a concludere l’accordo stesso (Consiglio di Stato, sez. III – 16/02/2012 n. 793) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 21.12.2012 n. 2004 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’occupazione di una porzione di suolo pubblico si configura come una vera e propria concessione d’uso, ossia alla stregua di un provvedimento –espressione di un potere pubblicistico ampiamente discrezionale– con il quale l’amministrazione locale sottrae il predetto bene alla fruizione comune e lo mette a disposizione di soggetti particolari (c.d. uso particolare).
Il titolo abilitativo, pertanto, può essere rilasciato solo previo accertamento che lo stesso permetta comunque di realizzare una funzione primaria o comprimaria del bene pubblico, e non per il conseguimento di interessi meramente privati.

Premette il Collegio –in linea generale e sulla scorta di giurisprudenza assolutamente consolidata (cfr. TAR Lazio, sez. II – 03/11/2009 n. 10782; 01/04/2009 n. 3479)– che l’occupazione di una porzione di suolo pubblico si configura come una vera e propria concessione d’uso, ossia alla stregua di un provvedimento –espressione di un potere pubblicistico ampiamente discrezionale– con il quale l’amministrazione locale sottrae il predetto bene alla fruizione comune e lo mette a disposizione di soggetti particolari (c.d. uso particolare).
Il titolo abilitativo, pertanto, può essere rilasciato solo previo accertamento che lo stesso permetta comunque di realizzare una funzione primaria o comprimaria del bene pubblico, e non per il conseguimento di interessi meramente privati (su un caso di diniego di rinnovo di concessione si rinvia a sentenza Sezione 20/01/2011 n. 127 confermata in appello dal Consiglio di Stato, sez. V – 06/07/2012 n. 3964) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 21.12.2012 n. 2003 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il solo dato della mancanza dell’autorizzazione sanitaria non può giustificare l’ordinanza di sospensione dell’attività già da tempo intrapresa, senza un concreto accertamento di effettive situazioni di pericolo o di danno per la salute pubblica.
Nel sistema delineato dagli art. 216 e 217 t.u. 27.07.1934 n. 1265 in materia di lavorazioni insalubri, il preventivo conseguimento dell'autorizzazione sanitaria non costituisce una condizione di legittimità o di liceità dell'esercizio dell'attività classificata come insalubre; pertanto, l'intervento repressivo sindacale non può basarsi sul mero dato formale ed estrinseco del mancato conseguimento dell'autorizzazione, ma presuppone un concreto accertamento dell'esistenza di effettive situazioni di pericolo e di danno per la salute pubblica, accertamento che tenga conto anche delle particolari condizioni di luogo e delle eventuali cautele adottabili.

Questo Collegio condivide infatti l’orientamento giurisprudenziale secondo cui “il solo dato della mancanza dell’autorizzazione sanitaria non può giustificare l’ordinanza di sospensione dell’attività già da tempo intrapresa, senza un concreto accertamento di effettive situazioni di pericolo o di danno per la salute pubblica. Nel sistema delineato dagli art. 216 e 217 t.u. 27.07.1934 n. 1265 in materia di lavorazioni insalubri, il preventivo conseguimento dell'autorizzazione sanitaria non costituisce una condizione di legittimità o di liceità dell'esercizio dell'attività classificata come insalubre; pertanto, l'intervento repressivo sindacale non può basarsi sul mero dato formale ed estrinseco del mancato conseguimento dell'autorizzazione, ma presuppone un concreto accertamento dell'esistenza di effettive situazioni di pericolo e di danno per la salute pubblica, accertamento che tenga conto anche delle particolari condizioni di luogo e delle eventuali cautele adottabili” (Cfr. TAR Lazio, sent. n. 474/2010; TAR Lazio, sede di Latina, 20.07.2005 n. 621 e TAR Veneto, Sez. III, 26.04.2001 n. 1066).
Nel caso di specie, risulta pacifico, anche in relazione alla documentazione versata in atti, che l’attività industriale fosse già ben avviata all’epoca dell’accertamento che ha dato luogo al provvedimento impugnato, e che il comune convenuto non abbia graduato in nessun modo l’esercizio del suo potere sanzionatorio né abbia controllato in concreto, prima di disporre la cessazione dell’attività, se il suo proseguimento potesse anche solo potenzialmente recare danno alla comunità rappresentata (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 20.12.2012 n. 3155 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA:  I) in sede di rilascio del provvedimento autorizzatorio l’Ente proprietario della strada deve accertare il rispetto di tutte le condizioni poste dal legislatore e –poiché l’obiettivo primario è quello di salvaguardare la sicurezza della circolazione stradale e la pubblica incolumità– può legittimamente inibire la collocazione dei cartelli su tutte le tipologie di strade quando emergano circostanze ostative al perseguimento di quell’obiettivo;
II) la valutazione della pericolosità dei cartelli pubblicitari è rimessa alla discrezionalità dell’amministrazione e, in quanto tale, non è censurabile in sede di legittimità se non per errori di valutazione o vizi logici;
III) l’amministrazione deve optare per la preminenza delle esigenze di sicurezza della circolazione rispetto al pur rilevante interesse economico di cui sono portatori gli imprenditori del settore, con una scelta perfettamente legittima anche alla luce dei canoni costituzionali di salvaguardia dell’integrità fisica e della salute degli individui: infatti il valore dell’iniziativa economica privata della quale l’attività pubblicitaria costituisce estrinsecazione –seppur riconosciuto e protetto dalla Carta costituzionale– recede nel giudizio di bilanciamento con il valore superiore della salute individuale e collettiva, al quale è garantita la massima protezione;
IV) il Comune può valorizzare l’interesse pubblico alla coerenza urbanistica del territorio con la ricerca del punto di equilibrio tra la “pulizia” della visuale e le esigenze della produzione e del commercio (di cui la pubblicità stradale è una componente), consumando in misura proporzionata la visuale stradale e il paesaggio urbano.

Rilevato:
- che il Collegio ripropone alcune considerazioni già sviluppate dalla giurisprudenza, ed anche recentemente da questo TAR (cfr. sentenza Sezione II – 20/11/2012 n. 1816):
   I) in sede di rilascio del provvedimento autorizzatorio l’Ente proprietario della strada deve accertare il rispetto di tutte le condizioni poste dal legislatore e –poiché l’obiettivo primario è quello di salvaguardare la sicurezza della circolazione stradale e la pubblica incolumità– può legittimamente inibire la collocazione dei cartelli su tutte le tipologie di strade quando emergano circostanze ostative al perseguimento di quell’obiettivo (sentenza Sezione 20/04/2011 n. 593; TAR Toscana, sez. III – 11/06/2004 n. 2047);
   II) la valutazione della pericolosità dei cartelli pubblicitari è rimessa alla discrezionalità dell’amministrazione e, in quanto tale, non è censurabile in sede di legittimità se non per errori di valutazione o vizi logici (TAR Lombardia Milano, sez. IV – 07/07/2008 n. 2886);
   III) l’amministrazione deve optare per la preminenza delle esigenze di sicurezza della circolazione rispetto al pur rilevante interesse economico di cui sono portatori gli imprenditori del settore, con una scelta perfettamente legittima anche alla luce dei canoni costituzionali di salvaguardia dell’integrità fisica e della salute degli individui: infatti il valore dell’iniziativa economica privata della quale l’attività pubblicitaria costituisce estrinsecazione –seppur riconosciuto e protetto dalla Carta costituzionale– recede nel giudizio di bilanciamento con il valore superiore della salute individuale e collettiva, al quale è garantita la massima protezione (cfr. sentenze Sezione 28/02/2008 n. 174; 27/11/2008 n. 1702; 05/03/2009 n. 529);
   IV) il Comune può valorizzare l’interesse pubblico alla coerenza urbanistica del territorio con la ricerca del punto di equilibrio tra la “pulizia” della visuale e le esigenze della produzione e del commercio (di cui la pubblicità stradale è una componente), consumando in misura proporzionata la visuale stradale e il paesaggio urbano (TAR Brescia – 06/09/2004 n. 1013) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 20.12.2012 n. 1992 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Il diritto di accesso non può essere utilizzato come strumento per un mero generico e generalizzato controllo esplorativo sull'azione amministrativa per verificare la possibilità di eventuali, future lesioni di interessi privati, né può essere configurato come un particolare tipo di azione popolare.
Parte ricorrente, nella propria replica, nel tentativo di sostenere la sussistenza di un’adeguata rappresentazione del proprio interesse, quale consigliere comunale, ad ottenere l’estrazione di copia della documentazione richiesta, ha raggruppato gli oggetti dei verbali richiesti, rappresentando la volontà di acquisire agli atti delibere relative al bilancio (e, quindi, all’impiego delle risorse), alla fissazione delle tariffe, alle deleghe rilasciate agli amministratori e ai loro compensi, alla programmazione delle attività fieristiche, agli adeguamenti strutturali degli impianti della società.
Ciò pone in evidenza come l’indagine che il consigliere comunale intende porre in essere riguardi l’intero ambito di attività della società istanziata, lasciando sottintendere che essa non abbia l’obiettivo di verificare eventuali specifiche irregolarità nella gestione, ma di consentire un’azione meramente esplorativa della gestione stessa.
Come affermato dalla giurisprudenza costante, da cui il Collegio non ravvisa ragione di discostarsi, infatti, “il diritto di accesso non può essere utilizzato come strumento per un mero generico e generalizzato controllo esplorativo sull'azione amministrativa per verificare la possibilità di eventuali, future lesioni di interessi privati (C.d.S., sez. IV, 15.11.2004, n. 7412; sez. VI, 06.07.2010, n. 4297), né può essere configurato come un particolare tipo di azione popolare (C.d.S., sez. V, 07.09.2004, n. 5873; sez. IV, 15.09.2010, n. 6899)” (così Cons. Stato Sez. V, sentenza 11.01.2012, n. 85).
Analoghe considerazioni possono essere formulate con riferimento anche all’interesse perseguito dal consigliere comunale nell’esercizio delle sue funzioni, come si legge nella sentenza TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 27.11.2008, n. 1535 e in quella del Cons. Stato, sez. V, 13.11.2002, n. 6293 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 20.12.2012 n. 1990 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'istituto della denuncia di inizio di attività, disciplinato dagli art. 22 e 23 D.P.R. 06.06.2001, n. 380, evidenzia profili di incompatibilità con le nuove norme di ordine generale dettate in tema di comunicazione (preventiva) dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza.
In particolare l'adozione del provvedimento con il quale l'amministrazione comunale ordina al privato di non effettuare l'intervento da lui denunciato non deve essere preceduta dalla comunicazione di cui all'art. 10-bis, l. n. 241/1990 ostando in tal senso non solo la circostanza che la denuncia di inizio di attività non può, letteralmente, considerarsi una "istanza di parte", ma anche (e soprattutto) la speciale disciplina "della notifica all'interessato" dell'"ordine motivato di non effettuare il previsto intervento", contenuta dal comma 6 dell'art. 23 cit., dove già è prevista la motivazione dell'ordine inibitorio e dove viene assicurata una forma di confronto e di tutela del privato, a favore del quale viene comunque fatta "salva la facoltà di ripresentare la denuncia di inizio attività, con le modifiche o le integrazioni necessarie per renderla conforme alla normativa urbanistica ed edilizia.

L’ultimo motivo di ricorso non può essere accolto perché esistono profili di incompatibilità tra il preavviso di rigetto e la D.I.A.
Si veda in merito quanto affermato nella sentenza 2478/2011 del TAR Lombardia che è espressione di un indirizzo consolidato: “L'istituto della denuncia di inizio di attività, disciplinato dagli art. 22 e 23 D.P.R. 06.06.2001, n. 380, evidenzia profili di incompatibilità con le nuove norme di ordine generale dettate in tema di comunicazione (preventiva) dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza; in particolare l'adozione del provvedimento con il quale l'amministrazione comunale ordina al privato di non effettuare l'intervento da lui denunciato non deve essere preceduta dalla comunicazione di cui all'art. 10-bis, l. n. 241/1990 ostando in tal senso non solo la circostanza che la denuncia di inizio di attività non può, letteralmente, considerarsi una "istanza di parte", ma anche (e soprattutto) la speciale disciplina "della notifica all'interessato" dell'"ordine motivato di non effettuare il previsto intervento", contenuta dal comma 6 dell'art. 23 cit., dove già è prevista la motivazione dell'ordine inibitorio e dove viene assicurata una forma di confronto e di tutela del privato, a favore del quale viene comunque fatta "salva la facoltà di ripresentare la denuncia di inizio attività, con le modifiche o le integrazioni necessarie per renderla conforme alla normativa urbanistica ed edilizia" (TAR Umbria, sentenza 19.12.2012 n. 537 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Modificazioni soggettive delle ATI: annullamento dell'aggiudicazione.
Qualsiasi modificazione soggettiva di un raggruppamento temporaneo di imprese affidatario di una gara pubblica, diversa da quelle espressamente previste dal legislatore (art. 37, commi 18 e 19, D.Lgs. 163/2006) determina l’annullamento dell’aggiudicazione disposta dalla stazione appaltante.

Questo il principio enunciato dalla IV Sez. del Consiglio di Stato, con la sentenza 14.12.2012 n. 6446, nell’ambito di una gara per l’affidamento dei lavori di ammodernamento e adeguamento di un tratto autostradale.
Nel caso in esame, a seguito dell’aggiudicazione a favore di un RTI, la mandataria aveva rinunciato alla stipula del contratto, con conseguente provvedimento di annullamento dell’aggiudicazione della p.a. in favore di tutto il raggruppamento ed aggiudicazione nei confronti del secondo classificato.
La mandante dell’Ati chiedeva l’annullamento del provvedimento dell’Anas trovando il conforto dei Giudici di primo grado, secondo i quali a seguito della rinuncia della mandataria la p.a. avrebbe dovuto verificare il tenore della procura conferita dalle mandanti, che non prevedeva alcun potere di rinuncia al contratto e accertare la sussistenza degli estremi per procedere alla stipula del contratto nei confronti delle altre società componenti il raggruppamento.
Impugnata la sentenza resa in primo grado da parte del RTI secondo classificato e nuovo affidatario, i Giudici di Palazzo Spada concentravano la loro attenzione sull’esatta interpretazione dell’art. 37 del D.Lgs. 163/2006 e sulla ampiezza del divieto di modificazione soggettiva di un raggruppamento temporaneo aggiudicatario e delle deroghe previste dalla norma.
Il Supremo Consesso amministrativo, attraverso un’attenta ricostruzione logico–giuridica delle disposizioni in esame stabilisce che le deroghe previste dall’art. 37, commi 18 e 19, hanno carattere esaustivo e le eventuali ulteriori ipotesi di modificazione soggettiva, come la rinuncia alla stipula del contratto da parte della mandataria, determinano la violazione del divieto previsto dal Codice e il conseguente annullamento dell’aggiudicazione a favore dell’ATI.
Sul punto è affermato infatti “…l’immodificabilità soggettiva dei partecipanti alle gare pubbliche è preordinata a garantire l’amministrazione appaltante in ordine alla verifica dei requisiti di idoneità morale, tecnico organizzativa ed economica, nonché alla legittimazione delle imprese che hanno partecipato alla gara E per tali ragioni, che l’art. 37, co. 9, del D.Lgs. n. 163/2006 stabilisce il divieto di modificare la composizione dei raggruppamenti temporanei e le eccezioni previste ai commi 18 e 19 (fallimento del mandante, del mandatario e, se si tratta di imprenditore individuale, morte, interdizione o inabilitazione, nonché le ipotesi previste dalla normativa antimafia).”.
Tali considerazioni determinano pertanto che “...al di fuori delle ipotesi normativamente previste, non è ammissibile alcuna modifica della composizione del raggruppamento affidatario.”
In conclusione, la sentenza in esame ha ravvisato l’esistenza di un orientamento giurisprudenziale secondo cui il mutamento della composizione “...va letto come inteso ad impedire l’aggiunta o la sostituzione di imprese partecipanti all’ATI e non anche a precluderne il recesso di una o più imprese dall’associazione...” (Cons. Stato, sez. VI, 16.02.2010 n. 842 e 13.05.2009 n. 2964), ma ha tuttavia ritenuto di non potervi aderire alla luce del chiaro disposto dell’art. 37, comma 9, per il quale oltre le ipotesi espressamente indicate dal legislatore è vietata qualsiasi modificazione alla composizione dei raggruppamenti temporanei e dei consorzi ordinari di concorrenti, rispetto a quanto formulato in sede di offerta (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Annullamento del permesso di costruire per difetto di volumetria.
Il TAR Campania-Napoli, Sez. II, con la recente sentenza 14.12.2012 n. 5209, ha afferma un significativo principio in materia di interventi in autotutela, aventi ad oggetto l’annullamento di un permesso di costruire viziato da un originario difetto di volumetria.
Secondo la decisione che qui si annota, un Comune può -a seguito delle espresse valutazioni effettuate dalla commissione edilizia e, in particolare, in forza della mancanza di un chiaro conteggio delle superfici utilizzate nelle precedenti concessioni edilizie rilasciate-, annullare in autotutela una concessione edilizia, per difetto della volumetria prevista dallo strumento urbanistico generale.
Il tutto, si badi bene, senza dover dare all’interessato alcuna comunicazione di avvio del procedimento.
In questi casi, infatti, il provvedimento di secondo grado (autotutela) è fondato sull’assenza di un presupposto essenziale per l’ammissibilità dell’intervento edilizio, costituito dal rispetto dei limiti di densità di edificazione stabiliti dallo strumento urbanistico generale, di fondamentale rilevo al fine di assicurare un ordinato sviluppo del territorio.
Di conseguenza, l’Amministrazione non ha alternative; ragion per cui la partecipazione dell’interessato al procedimento non può determinare alcuna incidenza sul potere in concreto esercitato e sul contenuto del provvedimento.
Detto in altre parole, la partecipazione dell’interessato, in questi casi (concreti) nei quali la pubblica amministrazione non può che procedere in un determinato modo, sarebbe inutile.
Più in dettaglio, il ricorrente aveva appunto eccepito l’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento, in quanto l’amministrazione aveva adottato il provvedimento di annullamento d’ufficio a seguito di una riscontrata erosione, in base agli indici di fabbricabilità previsti dal P.R.G., della volumetria stabilita per il lotto interessato dall’intervento.
Ma il Tar Napoli osserva che il provvedimento gravato, adottato a meno di un anno dal rilascio del titolo edilizio annullato, poneva a proprio fondamento l’assenza di un presupposto essenziale per l’ammissibilità dell’intervento, ovvero il rispetto dei limiti di densità di edificazione stabiliti dallo strumento urbanistico generale, di fondamentale rilevo al fine di assicurare un ordinato sviluppo del territorio.
Del resto, il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici, tra i quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità, con la conseguenza che esso è conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata.
In questo quadro, sebbene l’annullamento in autotutela costituisca esercizio di un potere discrezionale dell’amministrazione, nel caso specifico la gravità dell’illegittimità del titolo edilizio è stata doverosamente apprezzata ai fini dell’adozione del provvedimento in autotutela.
Per tali ragioni non residuava all’amministrazione nessuna diversa alternativa.
Corollario di quanto detto è che la partecipazione dell’interessato al procedimento amministrativo non avrebbe potuto determinare alcuna incidenza sul potere in concreto esercitato dal Comune e sul contenuto del suo provvedimento (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINei propri atti di gara le stazioni appaltanti possono includere solo due tipologie di clausole escludenti: quelle che riproducono obblighi previsti dal codice appalti o da altre disposizioni normative e quelle che sono comunque funzionali ad evitare incertezze sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, ad assicurane la completezza contenutistica, ovvero ad assicurarne la segretezza.
Nessuna disposizione impone di allegare la carta d’identità agli atti aventi natura di proposta contrattuale, quali sono le offerte tecniche ed economiche proposte dai concorrenti che partecipano alle gare pubbliche. Siffatto obbligo, in base all'art. 38, comma 3, del D.P.R. 28.12.2000, n. 445, è difatti previsto solo per le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà e per le istanze rivolte all'amministrazione.
Per altro verso non sembra effettivamente potersi ritenere che la mancata allegazione della copia della carta d’identità possa determinare incertezza assoluta sulla provenienza dell’offerta, in quanto contenuta in una busta a sua volta contenuta in un’altra busta in cui è inserita l’istanza di partecipazione alla gara, la quale, invece, deve essere ed è stata, anche nel caso di specie, necessariamente corredata dalla copia della carta d’identità.
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La questione della necessità della dichiarazione, ex art. 38 del d.lgs. 163/2006, con riferimento agli amministratori delle società incorporate per fusione dall’aggiudicataria è stata definita con la sentenza n. 17 del 07.06.2012.
In tale pronuncia sono stati chiariti i seguenti principi:
1) in caso di incorporazione o fusione societaria sussiste in capo alla società incorporante, o risultante dalla fusione, l’onere di presentare la dichiarazione relativa al requisito di cui all’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163/2006 anche con riferimento agli amministratori ed ai direttori tecnici che hanno operato presso la società incorporata o le società fusesi nell’ultimo triennio ovvero che sono cessati dalla relativa carica in detto periodo (dopo il d.l. n. 70 del 2011: nell’ultimo anno). Resta ferma la possibilità di dimostrare la c.d. dissociazione;
2) l’art. 38, comma 2, d.lgs. n. 163 del 2006, sia prima che dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 70 del 2011, impone la presentazione di una dichiarazione sostitutiva completa, a pena di esclusione, e tale dichiarazione sostitutiva deve essere riferita, quanto all’art. 38, comma 1, lett. c), anche agli amministratori delle società che partecipano ad un procedimento di incorporazione o di fusione, nel limite temporale ivi indicato;
3) nel contesto di oscillazioni della giurisprudenza e di conseguente incertezza delle stazioni appaltanti, fino alla plenaria n. 10/2012 e alla plenaria odierna, i concorrenti che omettono la dichiarazione di cui all’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163/2006, relativamente agli amministratori delle società partecipanti al procedimento di fusione o incorporazione, possono essere esclusi dalle gare -in relazione alle dichiarazioni rese ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. c), fino alla data di pubblicazione della presente decisione- solo se il bando espliciti tale onere di dichiarazione e la conseguente causa di esclusione; in caso contrario, l’esclusione può essere disposta solo ove vi sia la prova che gli amministratori per i quali è stata omessa la dichiarazione hanno pregiudizi penali.

Orbene, la giurisprudenza, anche di questo Tribunale, si è recentemente allineata a quella maggioritaria nell’affermare che nei propri atti di gara le stazioni appaltanti possono includere solo due tipologie di clausole escludenti: quelle che riproducono obblighi previsti dal codice appalti o da altre disposizioni normative e quelle che sono comunque funzionali ad evitare incertezze sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, ad assicurane la completezza contenutistica, ovvero ad assicurarne la segretezza (sul punto cfr. TAR Lombardia Milano Sez. III, Sent., 23-05-2012, n. 1397).
Nessuna disposizione impone di allegare la carta d’identità agli atti aventi natura di proposta contrattuale, quali sono le offerte tecniche ed economiche proposte dai concorrenti che partecipano alle gare pubbliche (cfr. TAR Lombardia Brescia, sez. II, 26.03.2012 n. 530). Siffatto obbligo, in base all'art. 38, comma 3, del D.P.R. 28.12.2000, n. 445, è difatti previsto solo per le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà e per le istanze rivolte all'amministrazione.
Per altro verso non sembra effettivamente potersi ritenere che la mancata allegazione della copia della carta d’identità possa determinare incertezza assoluta sulla provenienza dell’offerta, in quanto contenuta in una busta a sua volta contenuta in un’altra busta in cui è inserita l’istanza di partecipazione alla gara, la quale, invece, deve essere ed è stata, anche nel caso di specie, necessariamente corredata dalla copia della carta d’identità.
Pertanto, alla luce di tutto ciò e considerato che la specifica clausola escludente era prevista dal disciplinare di gara con esclusivo riferimento alle “autocertificazioni” rilasciate ai sensi del DPR 445/2000 e non anche alle mere “sottoscrizioni” ai sensi dello stesso testo unico, la mancata allegazione della copia della carta d’identità non parrebbe sufficiente a giustificare l’esclusione dell’offerta. Non può, però, trascurarsi che, nella fattispecie, l’allegazione del documento doveva essere contenuta nel numero massimo di pagine ammissibili, per cui la mancata presentazione della stessa potrebbe risultare rilevante sotto questo profilo, potendo avvantaggiare chi abbia utilizzato lo spazio destinato alla fotocopia del documento per meglio esplicitare la propria offerta.
L’esame dell’offerta della Copra, peraltro, evidenzia come una diversa organizzazione dello spazio nelle ultime due pagine avrebbe comunque consentito all’impresa di rispettare il vincolo del numero massimo imposto dal capitolato di gara. Ciò anche in considerazione del fatto che non appare condivisibile la tesi di parte ricorrente, secondo cui la sottoscrizione avrebbe dovuto essere necessariamente corredata di un autonomo allegato: la lex specialis, infatti, prevede esplicitamente che il numero di trenta pagine debba essere comprensivo di tutte le pagine relative all’offerta “e/o l’allegato per la sottoscrizione”. L’uso dell’alternativa non può che far pensare alla possibilità di riportare copia del documento di identità in calce alla sottoscrizione, anche nel medesimo foglio.
Ne deriva il rigetto della doglianza, con la conseguenza che può ragionevolmente escludersi che il rispetto della condizione (allegazione di copia del documento di identità) avrebbe comportato la violazione di quella che imponeva il numero massimo delle pagine dell’offerta.
La questione della necessità della dichiarazione, ex art. 38 del d.lgs. 163/2006, con riferimento agli amministratori delle società incorporate per fusione dall’aggiudicataria, che risultava rimessa all’Adunanza Plenaria con ordinanza della V sezione del Consiglio di Stato del 31.03.2012, n. 1886 è stata definita con la sentenza n. 17 del 07.06.2012.
In tale pronuncia, nella quale sono ripresi i principi affermati nella sentenza n. 10 del 04.05.2012, avente ad oggetto la diversa, ma assimilabile fattispecie della cessione d’azienda, sono stati chiariti i seguenti principi:
1) in caso di incorporazione o fusione societaria sussiste in capo alla società incorporante, o risultante dalla fusione, l’onere di presentare la dichiarazione relativa al requisito di cui all’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163/2006 anche con riferimento agli amministratori ed ai direttori tecnici che hanno operato presso la società incorporata o le società fusesi nell’ultimo triennio ovvero che sono cessati dalla relativa carica in detto periodo (dopo il d.l. n. 70 del 2011: nell’ultimo anno). Resta ferma la possibilità di dimostrare la c.d. dissociazione;
2) l’art. 38, comma 2, d.lgs. n. 163 del 2006, sia prima che dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 70 del 2011, impone la presentazione di una dichiarazione sostitutiva completa, a pena di esclusione, e tale dichiarazione sostitutiva deve essere riferita, quanto all’art. 38, comma 1, lett. c), anche agli amministratori delle società che partecipano ad un procedimento di incorporazione o di fusione, nel limite temporale ivi indicato;
3) nel contesto di oscillazioni della giurisprudenza e di conseguente incertezza delle stazioni appaltanti, fino alla plenaria n. 10/2012 e alla plenaria odierna, i concorrenti che omettono la dichiarazione di cui all’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163/2006, relativamente agli amministratori delle società partecipanti al procedimento di fusione o incorporazione, possono essere esclusi dalle gare -in relazione alle dichiarazioni rese ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. c), fino alla data di pubblicazione della presente decisione- solo se il bando espliciti tale onere di dichiarazione e la conseguente causa di esclusione; in caso contrario, l’esclusione può essere disposta solo ove vi sia la prova che gli amministratori per i quali è stata omessa la dichiarazione hanno pregiudizi penali.
Ciò in quanto la sentenza n. 10/2012 ha affermato il principio secondo cui il cessionario, come si avvale dei requisiti del cedente sul piano della partecipazione a gare pubbliche, così risente delle conseguenze, sullo stesso piano, delle eventuali responsabilità del cedente, anche se l’esclusione potrà essere disposta, in caso di mancata dichiarazione di condanne relative all’amministratore della società cedente, solo laddove risulti che la cessionaria non ha posto in essere le attività necessarie a frapporre una completa cesura tra vecchia e nuova gestione.
Lo stesso principio di valutazione in concreto deve trovare applicazione con riferimento alla concreta situazione dell’amministratore della società incorporata, escludendo la rilevanza dell’omessa dichiarazione nel caso esso sia incensurato, salvo che il bando non preveda espressamente l’obbligo di dichiarazione anche per tali soggetti (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 10.12.2012 n. 1931 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa legittimazione ad agire delle associazioni e/o comitati ambientalisti spetta non solo con riferimento alla tutela degli interessi ambientali in senso stretto, ma anche con riferimento alla tutela ambientale in senso lato, che implica in quanto tale la possibilità di impugnare atti aventi finalità urbanistica-edilizia.
Invero, “la materia ambientale per le peculiari caratteristiche del bene protetto, si atteggia in modo particolare: la tutela dell’ambiente, infatti, lungi dal costituire un autonomo settore d’intervento dei pubblici poteri, assume il ruolo unificante e finalizzante di distinte tutele giuridiche predisposte a favore dei diversi beni della vita che nell’ambiente si collocano, assumendo un carattere per così dire trasversale rispetto alle ordinarie materie e competenze amministrative, che connotano anche le distinzioni fra ministeri”.
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La stretta relazione che sempre più spesso corre tra l’urbanistica e l’ambiente è ben rappresentata dalla stretta interconnessione sviluppatasi in questi anni fra i contenuti della pianificazione urbanistica e quelli della tutela ambientale, derivante dalla circostanza che il territorio, inteso in tutte le sue accezioni, è un bene fondamentale avente carattere costitutivo dello stesso bene “ambiente”.
Nell’attuale sviluppo dell’ordinamento giuridico l’ambito di applicazione della tutela paesaggistica non riguarda ormai soltanto le aree oggetto di vincolo di tutela, in quanto detto vincolo ex artt. 146 e ss. d.lgs. 42/2004 è soltanto uno degli strumenti attraverso cui l’ordinamento persegue l’obiettivo della tutela del paesaggio.
Si segnala altresì come il Consiglio di Stato –nell’esaminare un ricorso di Italia Nostra contro uno strumento urbanistico che avrebbe dato vita al raddoppio del bacino di cava con un impatto particolarmente negativo sull'ambiente e sul paesaggio– ha ravvisato che “nel presente giudizio tale legittimazione debba essere comunque riconosciuta, perché il provvedimento impugnato ha una diretta e immediata rilevanza ambientale”
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L’eccezione va disattesa, ed in proposito il Collegio si richiama alle argomentazioni racchiuse nella sentenza della sez. I di questo Tribunale in data 27/2/2012 n. 274.
In via generale, è stato rilevato che la più recente ed avanzata posizione giurisprudenziale (cfr. TAR Sardegna, sez. II – 06/10/2008 n. 1816; Consiglio di Stato, sez. IV – 11/11/2011 n. 5986) ha posto in luce che la legittimazione ad agire delle associazioni e/o comitati ambientalisti spetta non solo con riferimento alla tutela degli interessi ambientali in senso stretto, ma anche con riferimento alla tutela ambientale in senso lato, che implica in quanto tale la possibilità di impugnare atti aventi finalità urbanistica-edilizia, specificando che “la materia ambientale per le peculiari caratteristiche del bene protetto, si atteggia in modo particolare: la tutela dell’ambiente, infatti, lungi dal costituire un autonomo settore d’intervento dei pubblici poteri, assume il ruolo unificante e finalizzante di distinte tutele giuridiche predisposte a favore dei diversi beni della vita che nell’ambiente si collocano, assumendo un carattere per così dire trasversale rispetto alle ordinarie materie e competenze amministrative, che connotano anche le distinzioni fra ministeri” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV – 11/11/2011 n. 5986).
La stretta relazione che sempre più spesso corre tra l’urbanistica e l’ambiente è ben rappresentata dalla stretta interconnessione sviluppatasi in questi anni fra i contenuti della pianificazione urbanistica e quelli della tutela ambientale, derivante dalla circostanza che il territorio, inteso in tutte le sue accezioni, è un bene fondamentale avente carattere costitutivo dello stesso bene “ambiente” (cfr. Corte costituzionale 21/11/2011 n. 309).
L’attività di programmazione intrapresa con il procedimento contestato incide su un ampio territorio coincidente con l’intera Provincia di Bergamo, e interferisce o comunque lambisce aree di pregio ambientale e naturalistico (sono 16 i siti di importanza comunitaria contemplati nella valutazione d’incidenza della Direzione generale qualità dell’ambiente del 02/02/2005).
Va ricordato, al riguardo, quanto affermato dalla Sezione con la recente sentenza 01/07/2010 n. 2411, per cui nell’attuale sviluppo dell’ordinamento giuridico l’ambito di applicazione della tutela paesaggistica non riguarda ormai soltanto le aree oggetto di vincolo di tutela, in quanto detto vincolo ex artt. 146 e ss. d.lgs. 42/2004 è soltanto uno degli strumenti attraverso cui l’ordinamento persegue l’obiettivo della tutela del paesaggio. Ebbene nel procedimento in questione sono espressamente previsti pareri di autorità preposte alla salvaguardia degli interessi pubblici ad un misurato impatto sull’habitat naturale, alla conservazione dei terreni agricoli (doc. 4), alla protezione del paesaggio (doc. 5).
Si segnala altresì come il Consiglio di Stato (sez. VI – 25/03/2011 n. 1843) –nell’esaminare un ricorso di Italia Nostra contro uno strumento urbanistico che avrebbe dato vita al raddoppio del bacino di cava con un impatto particolarmente negativo sull'ambiente e sul paesaggio– ha ravvisato che “nel presente giudizio tale legittimazione debba essere comunque riconosciuta, perché il provvedimento impugnato ha una diretta e immediata rilevanza ambientale” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 10.12.2012 n. 1927 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANozione di precarietà di un manufatto.
La natura precaria del manufatto non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore o dalle caratteristiche costruttive, ma deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale dell'opera ad un uso realmente precario e temporaneo e che, in conformità a quanto più volte affermato da questa Corte, il carattere stagionale di un'opera, vale a dire l'utilizzo annualmente ricorrente della struttura, non significa assoluta precarietà (tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.12.2012 n. 47636 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARICalze da neve fuorilegge. Non equivalgono alle catene. Si rischia la multa. Saranno utilizzabili solo dopo apposito provvedimento ministeriale.
Rischia la multa l'autista che in caso di maltempo con obbligo di catene a bordo riveste le ruote del veicolo con i dispositivi tessili supplementari di aderenza. In mancanza di una attestazione ministeriale ad hoc infatti questi sistemi non possono ancora considerarsi equivalenti alle catene o ai pneumatici da neve.
È questa la conseguenza operativa più prudente, nonostante il TAR Lazio-Roma, Sez. III-ter, con l'ordinanza 07.12.2012 n. 4432 di sospensione abbia messo in dubbio il parere negativo del ministero sull'equivalenza specificamente richiesta da un produttore di calze da neve.
Con l'approssimarsi del periodo invernale è tornato di viva attualità il problema delle dotazioni necessarie per la guida in caso di neve e ghiaccio, in particolare quando è vigente l'obbligo di circolazione con catene da neve.
L'art. 6 del codice stradale ora prevede (dopo la retromarcia dell'ultima ora contenuta nella legge di stabilità) la possibilità da parte dell'ente proprietario della strada «di prescrivere che i veicoli siano muniti di mezzi antisdrucciolevoli o degli speciali pneumatici per la marcia su neve o ghiaccio». L'art. 122 del regolamento stradale sancisce di fatto l'equivalenza tra le catene e i pneumatici invernali. Per uniformare i requisiti di sicurezza dei sistemi supplementari di aderenza, il ministero dei trasporti ha quindi adottato il decreto 13.03.2002.
In buona sostanza solo le tradizionali catene da neve metalliche e i pneumatici da neve ricadono dentro questa classificazione. Con il dm 10.05.2011 le cose stanno però per cambiare. Specifica infatti questo provvedimento che dal 01.04.2013 sarà abrogato il dm 13.03.2002 e nel frattempo possono già essere utilizzati anche in Italia dispositivi la cui validità deve essere però preventivamente valutata dal ministero dei trasporti.
Ed è proprio contro un parere negativo di equivalenza espresso dal Mit che gli interessati hanno proposto ricorso al Tar Lazio ottenendo la sospensiva del 7 dicembre. Quindi al momento resta tutto congelato. Per circolare in regola con ghiaccio e neve in Italia è necessario avere al seguito gomme invernali o catene tradizionali (articolo ItaliaOggi del 27.12.2012).

EDILIZIA PRIVATACirca il diritto di accesso agli atti in materia edilizia, l’individuazione della “situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso” (art. 22 della legge n. 241/1990) è operata, così come evidenziato dalla giurisprudenza amministrativa, direttamente dalla legislazione, che di seguito si riporta.
L’art. 31, comma 9, della legge 17.08.1942, n. 1150, già disponeva che “chiunque può prendere visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto e ricorrente contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione”.
L’art. 5 del Testo unico approvato con D.P.R. 06.06.2001, n. 380, nel fissare le competenze e responsabilità dello “sportello unico per l’edilizia”, ha individuato quella di “fornire informazioni sulle materie di cui al punto a)” (cioè sul rilascio dei titoli abilitativi) “anche mediante predisposizione di un archivio informatico”, al dichiarato fine di consentire a chiunque vi abbia interesse “l’accesso gratuito, anche in via telematica, … all’elenco delle domande presentate, allo stato del loro iter procedurale, nonché a tutte le possibili informazioni utili disponibili”.
E, circa la definizione dell’interesse “giuridicamente tutelato”, la giurisprudenza amministrativa, se da un lato ha fornito del concetto di “chiunque” una portata non incondizionatamente espansiva, tale, cioè, da non ricomprendervi qualsiasi persona (come la formulazione letterale della norma potrebbe far supporre), al contempo ha fornito allo stesso concetto una portata sostanzialistica, che prescinde dalla sola titolarità di diritti reali insistenti su terreni direttamente confinanti con quello ove è stato realizzato l’intervento edilizio, ma ricomprende qualsiasi situazione, anche di fatto, di “stabile collegamento” con l’area comprendente il terreno edificato. In proposito, si è anche recentemente ribadito che la legittimazione ad impugnare titoli abilitativi edilizi sussiste per il fatto stesso che il terzo di trova in una situazione, appunto, di “stabile collegamento” con la “zona” interessata dalla costruzione oggetto di concessione, a prescindere da ogni indagine sulla sussistenza di un ulteriore specifico interesse.
Per la giurisprudenza, il proprietario o il possessore dell’immobile o il semplice residente o domiciliato nella zona interessata è legittimato a ricorrere in ragione di tale stabile collegamento, idoneo a radicare una posizione d’interesse, differenziata rispetto a quella posseduta dal “quisque de populo”, all’impugnazione di una concessione edilizia in sanatoria.

In via generale deve ricordarsi che la legge n. 241/1990, nel fornire definizioni e princìpi in materia di accesso, ha qualificato il “diritto di accesso” come il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi, mentre per “interessati” ha inteso tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso (art. 22, comma 1, lett. a e b).
Al contempo, la stessa legge n. 241/1990 conferisce al “diritto” di accesso, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, valore di “principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza” (art. 22, comma 2, come sostituito dalla legge n. 69/2009).
Circa il diritto di accesso agli atti in materia edilizia, l’individuazione della “situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso” (art. 22 della legge n. 241/1990) è operata, così come evidenziato dalla giurisprudenza amministrativa (cfr., Cons. di Stato, sez. IV, n. 2092/2010), direttamente dalla legislazione, che di seguito si riporta.
L’art. 31, comma 9, della legge 17.08.1942, n. 1150, già disponeva che “chiunque può prendere visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto e ricorrente contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione”.
L’art. 5 del Testo unico approvato con D.P.R. 06.06.2001, n. 380, nel fissare le competenze e responsabilità dello “sportello unico per l’edilizia”, ha individuato quella di “fornire informazioni sulle materie di cui al punto a)” (cioè sul rilascio dei titoli abilitativi) “anche mediante predisposizione di un archivio informatico”, al dichiarato fine di consentire a chiunque vi abbia interesse “l’accesso gratuito, anche in via telematica, … all’elenco delle domande presentate, allo stato del loro iter procedurale, nonché a tutte le possibili informazioni utili disponibili”.
E, circa la definizione dell’interesse “giuridicamente tutelato”, la giurisprudenza amministrativa, se da un lato ha fornito del concetto di “chiunque” una portata non incondizionatamente espansiva, tale, cioè, da non ricomprendervi qualsiasi persona (come la formulazione letterale della norma potrebbe far supporre), al contempo ha fornito allo stesso concetto una portata sostanzialistica, che prescinde dalla sola titolarità di diritti reali insistenti su terreni direttamente confinanti con quello ove è stato realizzato l’intervento edilizio, ma ricomprende qualsiasi situazione, anche di fatto, di “stabile collegamento” con l’area comprendente il terreno edificato. In proposito, si è anche recentemente ribadito che la legittimazione ad impugnare titoli abilitativi edilizi sussiste per il fatto stesso che il terzo di trova in una situazione, appunto, di “stabile collegamento” con la “zona” interessata dalla costruzione oggetto di concessione, a prescindere da ogni indagine sulla sussistenza di un ulteriore specifico interesse.
Per la giurisprudenza (Cons. St., sez. VI, 26.07.2001, n. 4123, e, con specifico riferimento alle concessioni in sanatoria, Cons. St., V, 07.05.2008, n. 2086), il proprietario o il possessore dell’immobile o il semplice residente o domiciliato nella zona interessata è legittimato a ricorrere in ragione di tale stabile collegamento, idoneo a radicare una posizione d’interesse, differenziata rispetto a quella posseduta dal “quisque de populo”, all’impugnazione di una concessione edilizia in sanatoria (v. da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 30.11.2009, n. 7491) (Cons. Stato, 14.04.2010, n. 2092).
Potendosi senz’altro applicare i principi sopra esposti anche quando si tratti di richieste di accesso agli atti in materia edilizia, non vi è dubbio –così come dedotto dalla ricorrente con il primo motivo di ricorso– che nella fattispecie in esame quest’ultima sia titolare del richiesto interesse, come è stato evidenziato nella relativa domanda, laddove la stessa ha esplicitamente fondato il proprio predetto interesse sul rapporto di vicinitas intercorrente tra il terreno di propria titolarità e quello di proprietà del sig. Varanini, nonché sulla necessità di verificare la legittimità e conformità urbanistico-edilizia del titolo ad aedificandum oggetto di estensione.
E tale posizione, in quanto qualificata e differenziata e non meramente emulativa o preordinata ad un controllo generalizzato dell'azione amministrativa, basta ai sensi dell'art. 22 della L. n. 241/1990 a legittimare il diritto di accesso alla documentazione amministrativa richiesta (cfr. Cons. Stato. Sez. V, 14.05.2010, n. 2966).
Sicché, il diniego opposto dall’amministrazione comunale risulta, sotto il profilo esaminato, illegittimo.
A ciò si aggiunga che, sotto il profilo oggettivo, limitazioni all'accesso possono essere disposte unicamente nelle ipotesi tassativamente previste dal comma 1 e dal comma 6 dell'art. 24, ovvero in quelle ulteriori eventualmente individuate, ai sensi del comma 2 del medesimo art. 24, dai regolamenti di cui le Amministrazioni si siano dotate per disciplinare l'accesso alla documentazione in loro possesso.
Ma, la documentazione afferente la concessione edilizia rilasciata ai Sigg.ri Varanini e Guscioni, di cui l'odierna ricorrente ha domandato l'ostensione, non rientra –così come evidenziato dalla ricorrente- in alcuna delle summenzionate ipotesi e, pertanto, la relativa domanda di accesso non è suscettibile -sotto tale aspetto- di limitazioni (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 07.12.2012 n. 1993 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione dell'istanza di accertamento di conformità, successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di demolizione -o alla notifica del provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per gli abusi edilizi- produce l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione stessa, per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, provocato dall'istanza di sanatoria, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito od implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
Di qui consegue che il ricorso giurisdizionale avverso un provvedimento sanzionatorio proposto anteriormente all'istanza di concessione in sanatoria è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, “spostandosi” l'interesse del responsabile dell'abuso edilizio dall'annullamento del provvedimento sanzionatorio già adottato, all'eventuale annullamento del provvedimento (esplicito o implicito) di rigetto.

Secondo consolidata giurisprudenza, la presentazione dell'istanza di accertamento di conformità, successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di demolizione -o alla notifica del provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per gli abusi edilizi- produce l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione stessa, per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, provocato dall'istanza di sanatoria, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito od implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.12.1997, n. 1377; TAR Sicilia, sez. II, 05.10.2001, n. 1392; TAR Toscana, sez. II, 25.10.1994, n. 350; TAR Campania, Sez. IV, 25.05.2001, n. 2340, 11.12.2002, n. 7994, 30.06.2003, n. 7902).
Di qui consegue che il ricorso giurisdizionale avverso un provvedimento sanzionatorio proposto anteriormente all'istanza di concessione in sanatoria è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, “spostandosi” l'interesse del responsabile dell'abuso edilizio dall'annullamento del provvedimento sanzionatorio già adottato, all'eventuale annullamento del provvedimento (esplicito o implicito) di rigetto (TAR Sicilia, Catania, Sez. II, 16.03.1991, n. 67, Palermo, Sez. II, 27.03.2002, n. 826; TAR Campania, Sez. IV, 24.09.2002, n. 5559, 22.02.2003, n. 1310) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 06.12.2012 n. 4986 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’art. 36, comma 3, DPR 380/2001 sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata.
Pertanto, per i casi in cui il procedimento instaurato ai sensi dell’art. 36 cit. non sia stato definito con un provvedimento espresso, questo Collegio ha avuto modo di rilevare che, nella formulazione di cui all'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, il silenzio dell'Amministrazione su un'istanza di sanatoria di abusi edilizi costituisce ipotesi di silenzio significativo, al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego, venendosi a determinare una situazione del tutto simile a quella che si verificherebbe in caso di provvedimento espresso.
In virtù della previsione legale di implicito diniego, il silenzio tenuto dall'Amministrazione non può, infatti, essere inteso come mero fatto di inadempimento, ma abilita l'interessato alla proposizione di impugnazione, entro il termine decadenziale di sessanta giorni dal suo perfezionamento.

Al riguardo occorre evidenziare che ai sensi dell’art. 36, comma 3 cit. sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata.
Pertanto, per i casi in cui il procedimento instaurato ai sensi dell’art. 36 cit. non sia stato definito con un provvedimento espresso, questo Collegio ha avuto modo di rilevare che, nella formulazione di cui all'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, il silenzio dell'Amministrazione su un'istanza di sanatoria di abusi edilizi costituisce ipotesi di silenzio significativo, al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego, venendosi a determinare una situazione del tutto simile a quella che si verificherebbe in caso di provvedimento espresso. In virtù della previsione legale di implicito diniego, il silenzio tenuto dall'Amministrazione non può, infatti, essere inteso come mero fatto di inadempimento, ma abilita l'interessato alla proposizione di impugnazione, entro il termine decadenziale di sessanta giorni dal suo perfezionamento (cfr. Tar Napoli sez. VIII 13.11.2011, n. 5797).
Di qui consegue che, nella fattispecie in esame, l’omessa impugnazione del silenzio con valore legale tipico di diniego, formatosi con il decorso dei sessanta giorni a partire dal deposito in data 16.06.2010 della istanza di sanatoria ex art. 36 d.p.r. n. 380/2001 avente valore legale tipico di diniego, rende inammissibile ogni censura circa la conformità urbanistica del manufatto formulata avverso il successivo provvedimento di demolizione n. 213 dell’01.09.2011
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 06.12.2012 n. 4986 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione non deve essere necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario ed il cui presupposto è costituto unicamente dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo.
Né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art. 3, l. n. 241 del 1990, dato che, ricorrendo i predetti requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione.
Anche qualora intercorra un lungo periodo di tempo tra la realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento sanzionatorio, tale circostanza non rileva ai fini della legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso affidamento circa la legittimità dell'opera, che il protrarsi del comportamento inerte del comune avrebbe ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in relazione ad un presunto ulteriore obbligo, per l'amministrazione procedente, di motivare specificamente il provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico attuale a far demolire il manufatto. La lunga durata nel tempo dell'opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza il carattere abusivo (trattandosi di illecito permanente), il che preserva il potere-dovere dell'amministrazione di intervenire nell'esercizio dei suoi poteri sanzionatori, tanto più che il provvedimento demolitorio non richiede una congrua motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso, che è in re ipsa.

Al riguardo va rimarcato che, per orientamento costante di questo Collegio, l’ordine di demolizione non deve essere necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario ed il cui presupposto è costituto unicamente dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo.
Né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art. 3, l. n. 241 del 1990, dato che, ricorrendo i predetti requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (cfr, ex plurimis, Consiglio Stato , sez. IV, 31.08.2010 , n. 3955).
Anche qualora intercorra un lungo periodo di tempo tra la realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento sanzionatorio, tale circostanza non rileva ai fini della legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso affidamento circa la legittimità dell'opera, che il protrarsi del comportamento inerte del comune avrebbe ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in relazione ad un presunto ulteriore obbligo, per l'amministrazione procedente, di motivare specificamente il provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico attuale a far demolire il manufatto. La lunga durata nel tempo dell'opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza il carattere abusivo (trattandosi di illecito permanente), il che preserva il potere-dovere dell'amministrazione di intervenire nell'esercizio dei suoi poteri sanzionatori, tanto più che il provvedimento demolitorio non richiede una congrua motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso, che è in re ipsa
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 06.12.2012 n. 4986 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di demolizione la figura del responsabile dell’abuso non si identifica solo in colui che ha materialmente eseguito l’opera ritenuta abusiva, ma si riferisce, necessariamente, anche a colui che di quell’opera ha la materiale disponibilità e pertanto, quale detentore, è in grado di provvedere alla demolizione restaurando così l’ordine violato.
L’ordine di demolizione, infatti, non presuppone l’accertamento dell’elemento soggettivo integrante responsabilità a carico del suo destinatario, non è un provvedimento diretto a sanzionare un comportamento illegittimo da parte del trasgressore, ma è un atto di tipo ripristinatorio avendo esso la funzione di eliminare le conseguenze della violazione edilizia, attraverso la riduzione in pristino dello stato dei luoghi che consegue alla rimozione delle opere abusive. Per tale ragione l’ordine di demolizione deve essere rivolto a colui che abbia la disponibilità materiale dell’opera abusiva, indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente realizzata, cosa che potrebbe rilevare sotto il profilo della responsabilità penale, ma non per la legittimità dell’ordine di demolizione.
Si è difatti affermato, con riguardo all’analoga posizione dell’utilizzatore di un bene abusivo realizzato su area demaniale che: “i provvedimenti repressivi di illeciti edilizi possono essere indirizzati anche a persone diverse da quelle che hanno materialmente realizzato l’abuso, ma è anche vero che, ai fini della legittimità delle relative ingiunzioni, è sempre necessaria la sussistenza di una relazione giuridica o materiale del destinatario con il bene”.
In ogni caso, il presupposto del provvedimento amministrativo è la realizzazione di un’opera in assenza di permesso di costruire, la cui eliminazione è necessaria per ripristinare il corretto assetto del territorio, sicché l’ordine di demolizione legittimamente è rivolto a colui che al momento della sua irrogazione aveva l’attuale disponibilità del bene abusivo e ciò indipendentemente dal fatto di averlo realizzato.
A ciò si aggiunga che l’estraneità all’abuso deve essere rigorosamente provata da parte di colui che la deduce non potendo ritenersi sufficiente al riguardo la mera asserzione contenuta in ricorso, ma occorrendo la dimostrazione dell’adozione di comportamenti e/o iniziative attive con cui il proprietario abbia inteso dissociarsi dall’illecito posto in essere dal responsabile, dimostrando di aver fatto tutto il possibile per ottemperare all’ordine di demolizione legalmente irrogato.

Quanto alla dedotta illegittimità della prospettata acquisizione dell’immobile al patrimonio comunale sul presupposto dell’addotta estraneità all’abuso della proprietaria del suolo Esposito Francesca, è bene chiarire che in materia di demolizione la figura del responsabile dell’abuso non si identifica solo in colui che ha materialmente eseguito l’opera ritenuta abusiva, ma si riferisce, necessariamente, anche a colui che di quell’opera ha la materiale disponibilità e pertanto, quale detentore, è in grado di provvedere alla demolizione restaurando così l’ordine violato.
L’ordine di demolizione, infatti, non presuppone l’accertamento dell’elemento soggettivo integrante responsabilità a carico del suo destinatario, non è un provvedimento diretto a sanzionare un comportamento illegittimo da parte del trasgressore, ma è un atto di tipo ripristinatorio avendo esso la funzione di eliminare le conseguenze della violazione edilizia, attraverso la riduzione in pristino dello stato dei luoghi che consegue alla rimozione delle opere abusive. Per tale ragione l’ordine di demolizione deve essere rivolto a colui che abbia la disponibilità materiale dell’opera abusiva, indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente realizzata, cosa che potrebbe rilevare sotto il profilo della responsabilità penale, ma non per la legittimità dell’ordine di demolizione.
Si è difatti affermato, con riguardo all’analoga posizione dell’utilizzatore di un bene abusivo realizzato su area demaniale che: “i provvedimenti repressivi di illeciti edilizi possono essere indirizzati anche a persone diverse da quelle che hanno materialmente realizzato l’abuso, ma è anche vero che, ai fini della legittimità delle relative ingiunzioni, è sempre necessaria la sussistenza di una relazione giuridica o materiale del destinatario con il bene” (cfr C.d.S. sez. IV 16.07.2007 n. 4008).
In ogni caso, il presupposto del provvedimento amministrativo è la realizzazione di un’opera in assenza di permesso di costruire, la cui eliminazione è necessaria per ripristinare il corretto assetto del territorio, sicché l’ordine di demolizione legittimamente è rivolto a colui che al momento della sua irrogazione aveva l’attuale disponibilità del bene abusivo e ciò indipendentemente dal fatto di averlo realizzato.
A ciò si aggiunga che l’estraneità all’abuso deve essere rigorosamente provata da parte di colui che la deduce non potendo ritenersi sufficiente al riguardo la mera asserzione contenuta in ricorso, ma occorrendo la dimostrazione dell’adozione di comportamenti e/o iniziative attive con cui il proprietario abbia inteso dissociarsi dall’illecito posto in essere dal responsabile, dimostrando di aver fatto tutto il possibile per ottemperare all’ordine di demolizione legalmente irrogato.
Una tale prova nella specie non è stata fornita risultando al contrario l’esistenza di un concreto interesse in capo alla proprietaria Esposito Francesca al mantenimento in vita dell’abuso, attraverso l’intervenuta presentazione da parte della medesima della istanza di sanatoria allegata in atti
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 06.12.2012 n. 4986 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: In seno al procedimento espropriativo, che la mancata impugnazione dell’atto impositivo del vincolo, come della dichiarazione di pubblica utilità, preclude la possibilità di farne valere l’illegittimità derivata in sede di impugnativa del provvedimento finale o dei successivi atti della sequenza procedimentale, trattandosi di atti direttamente lesivi.
Nell’ambito del procedimento ablatorio, l’ordinamento riconosce e valorizza le garanzie partecipative dei proprietari espropriandi sia in riferimento alla fase iniziale di apposizione del vincolo, sia a quella di dichiarazione della pubblica utilità (sia essa esplicita od implicita) in considerazione dell’ampia discrezionalità di cui dispone l’Amministrazione nella localizzazione, oltre che della lesività dell’effetto finale, consistente nella definitiva privazione del diritto di proprietà.
L’art. 11 del vigente t.u. in materia di espropriazioni per pubblica utilità, approvato con d.p.r. 08.06.2001 n. 327, coerentemente del resto con il fondamentale arresto dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 19.06.1986 n. 6, richiede sia garantita mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla localizzazione dell’opera e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo.
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E’ innegabile che parte della giurisprudenza, partendo dall’espresso riferimento contenuto nel citato art. 22-bis a “decreto motivato”, opina nel senso della necessità della sussistenza di una urgenza qualificata, da indicare adeguatamente in motivazione .
Diversamente, l’orientamento dominante, seppur non pacifico, invalso presso il Consiglio di Stato, ritiene che in presenza della preventiva apposizione del vincolo, unitamente all’approvazione della dichiarazione di pubblica utilità, l’autorità espropriante ben può immettersi senz'altro nel possesso dell'area in esecuzione della suddetta ordinanza, per realizzare le opere per le quali vi è stata l'approvazione del progetto e lo stanziamento delle relative risorse, “atteso che nel sistema del testo unico è divenuta irrilevante una specifica dichiarazione di indifferibilità ed urgenza, rilevante nel precedente sistema per ragioni storiche, ma di per sé già sussistente "in re ipsa”.
Tali considerazioni interpretative sono state più volte ribadite, confermando che l'ordinanza di occupazione d'urgenza riguarda una fase puramente attuativa di quella riguardante la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza dei lavori, “con la conseguenza che è sufficiente che la motivazione dell'ordinanza di occupazione si limiti a richiamare espressamente tale dichiarazione, che ne costituisce l'unico presupposto e che consenta di rilevare l'urgenza della realizzazione delle opere previste nella dichiarazione di pubblica utilità”.

Costituisce principio pacifico, in seno al procedimento espropriativo, che la mancata impugnazione dell’atto impositivo del vincolo, come della dichiarazione di pubblica utilità, preclude la possibilità di farne valere l’illegittimità derivata in sede di impugnativa del provvedimento finale o dei successivi atti della sequenza procedimentale, trattandosi di atti direttamente lesivi (ex multis TAR Piemonte 21.05.2010, n. 2438; Consiglio di Stato sez. IV 15.05.2008, n. 2246).
La mancata rituale impugnazione del suddetto provvedimento di vincolo rende pertanto inammissibile il gravame per difetto di interesse, poiché la ricorrente si duole, sotto il profilo sostanziale, della illegittimità degli atti impugnati proprio in relazione alla irragionevolezza e al difetto di proporzionalità della scelta localizzativa -che a suo dire avrebbero potuto condurre l’autorità espropriante ad una diversa scelta del tracciato viario- scelta tuttavia già espressa stante la perdurante efficacia dell’inoppugnata deliberazione C.C. n. 112/2002, resa intangibile dalla mancata tempestiva impugnazione.
Invero, è innegabile che, nell’ambito del procedimento ablatorio, l’ordinamento riconosce e valorizza le garanzie partecipative dei proprietari espropriandi sia in riferimento alla fase iniziale di apposizione del vincolo, sia a quella di dichiarazione della pubblica utilità (sia essa esplicita od implicita) in considerazione dell’ampia discrezionalità di cui dispone l’Amministrazione nella localizzazione, oltre che della lesività dell’effetto finale, consistente nella definitiva privazione del diritto di proprietà (ex multis Consiglio di Stato sez. VI 11.02.2003, n. 736; id. IV 30.07.2002, n. 4077; id. IV 26.09.2001 n. 5070; id. IV 15.04.2008 n. 2249; id. IV 29.07.2008 n. 3760; TAR Puglia-Bari sez. III 24.06.2010, n. 2665).
L’art. 11 del vigente t.u. in materia di espropriazioni per pubblica utilità, approvato con d.p.r. 08.06.2001 n. 327, coerentemente del resto con il fondamentale arresto dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 19.06.1986 n. 6, richiede sia garantita mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla localizzazione dell’opera e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo (ex multis Consiglio Stato, sez. IV, 29.07.2008, n. 3760).
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Ad avviso della ricorrente il procedimento di occupazione d’urgenza -speciale e del tutto autonomo rispetto all’ordinario modello procedimentale ablatorio (Consiglio di Stato sez IV, 08.07.2011, n. 3500; id. IV 30.01.2006 n. 293; TAR Sicilia Palermo sez. III 08.05.2008, n. 609; TAR Campania Napoli sez. V 24.01.2008, n. 384)- necessita, ai sensi del disposto di cui all’art. 22-bis del t.u., di congrua motivazione circa le specifiche ragioni d’urgenza qualificata.
E’ innegabile che parte della giurisprudenza, partendo dall’espresso riferimento contenuto nel citato art. 22-bis a “decreto motivato” (così come del resto lo stesso art. 15, c. 1-bis, L.R. Puglia 22.02.2005 n. 3), opina nel senso della necessità della sussistenza di una urgenza qualificata, da indicare adeguatamente in motivazione (ex plurimis TAR Campania Salerno, sez. II, 07.05.2009, n. 1829).
Diversamente, l’orientamento dominante, seppur non pacifico, invalso presso il Consiglio di Stato, ritiene che in presenza della preventiva apposizione del vincolo, unitamente all’approvazione della dichiarazione di pubblica utilità, l’autorità espropriante ben può immettersi senz'altro nel possesso dell'area in esecuzione della suddetta ordinanza, per realizzare le opere per le quali vi è stata l'approvazione del progetto e lo stanziamento delle relative risorse, “atteso che nel sistema del testo unico è divenuta irrilevante una specifica dichiarazione di indifferibilità ed urgenza, rilevante nel precedente sistema per ragioni storiche, ma di per sé già sussistente "in re ipsa” (Consiglio Stato sez. IV, 29.05.2009, n. 3350; id. sez IV, 24.12.2009, n. 8756; id. sez. IV, 27.06.2007 n. 3696; così anche TAR Campania Salerno, sez. I, 30.01.2006, n. 23).
Tali considerazioni interpretative sono state più volte ribadite, confermando che l'ordinanza di occupazione d'urgenza riguarda una fase puramente attuativa di quella riguardante la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza dei lavori, “con la conseguenza che è sufficiente che la motivazione dell'ordinanza di occupazione si limiti a richiamare espressamente tale dichiarazione, che ne costituisce l'unico presupposto e che consenta di rilevare l'urgenza della realizzazione delle opere previste nella dichiarazione di pubblica utilità” (Consiglio di Stato sez IV, 24.12.2009 n. 8756)
(TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 06.12.2012 n. 2064 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: La scelta del tracciato di un’opera viaria stradale costituisce manifestazione di un giudizio di merito dell'Amministrazione, anche perché implicante la valutazione di profili attinenti alla maggiore o minore onerosità delle diverse soluzioni tecnicamente prospettabili; di conseguenza detta scelta, involgendo il merito dell'agire amministrativo, è insindacabile da parte del giudice amministrativo, se non sotto i profili della manifesta illogicità e irrazionalità.
Peraltro, osserva il Collegio per mera completezza che la scelta del tracciato di un’opera viaria stradale costituisce manifestazione di un giudizio di merito dell'Amministrazione, anche perché implicante la valutazione di profili attinenti alla maggiore o minore onerosità delle diverse soluzioni tecnicamente prospettabili; di conseguenza detta scelta, involgendo il merito dell'agire amministrativo, è insindacabile da parte del giudice amministrativo, se non sotto i profili della manifesta illogicità e irrazionalità (ex multis TAR Piemonte sez. II 04.12.2009, n. 3235; TAR Lombardia Milano sez. II 09.12.2008, n. 5734) non configurabili nella fattispecie (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 06.12.2012 n. 2064 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Qualora l'atto si basi su una pluralità di motivazioni autonome (c.d. atto plurimotivato), il ricorso con il quale non si contestino tutte le motivazioni deve essere dichiarato inammissibile per difetto di interesse, atteso che l'eventuale riconoscimento della fondatezza delle doglianze proposte non esclude l'esistenza e la validità della restante causa giustificatrice dell'atto.
Come già desumibile dalla parte in fatto della sentenza, il provvedimento impugnato è caratterizzato da una struttura motivazionale complessa che individua due circostanze autonomamente in grado di reggere il provvedimento sotto l’aspetto motivazionale e costituite dalla realizzazione di una serie di abusi edilizi (che hanno reso possibile la modificazione parziale della destinazione urbanistica dell’immobile e creato alcuni “vani-dormitorio” posti in immediata promiscuità con gli ambienti di lavoro) e dall’originaria mancanza del certificato di agibilità dell’intero immobile (<<dalla verifica d‘ufficio, effettuata sui supporti informatici che coprono un arco temporale che va al 1961 ad oggi, non risulta rilasciato, per l’immobile sito in Prato alla Via Gioacchino Rossini n. 56….la “Dichiarazione per l’uso di locali a carattere industriale” attualmente denominato “Certificato di Agibilità”; …L’immobile è (quindi) da ritenersi privo del certificato di agibilità di cui all’art. 24 del D.P.R. n. 380/2001>>).
Del resto, anche in punto di fatto, la mancanza originaria del certificato di agibilità dell’immobile al momento dell’emanazione dell’atto impugnato costituisce un dato indiscutibile, alla luce anche del comportamento di parte ricorrente che ha presentato la richiesta di agibilità dell’immobile solo in data 11.11.2010, ovvero molti mesi dopo l’intervento dell’ordinanza Sindacale impugnata.
Nell’articolare le proprie censure nei confronti del provvedimento impugnato, parte ricorrente ha però articolato motivi che investono solo una delle due serie motivazionali poste a base dell’atto (quella relativa alle opere abusive realizzate dai locatari), tralasciando completamente le argomentazioni relative alla mancanza originaria del certificato di agibilità dell’immobile (che non risulta contestata in alcun modo).
Nella fattispecie, deve pertanto trovare applicazione il tradizionale orientamento giurisprudenziale che, nell’ipotesi di atti fondati su una pluralità di motivazioni autonome, ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi che si limitino a contestare solo alcune delle motivazioni poste a giustificazione del provvedimento e non l’intera struttura motivazionale dello stesso: <<qualora l'atto si basi su una pluralità di motivazioni autonome (c.d. atto plurimotivato), il ricorso con il quale non si contestino tutte le motivazioni deve essere dichiarato inammissibile per difetto di interesse, atteso che l'eventuale riconoscimento della fondatezza delle doglianze proposte non esclude l'esistenza e la validità della restante causa giustificatrice dell'atto>> (TAR Campania, Napoli, sez. III, 16.01.2012 n. 194; TAR Piemonte, sez. I, 20.10.2011 n. 1107; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 08.04.2011 n. 2009; TAR Lazio, Roma, sez. III, 14.10.2010 n. 32810)
(TAR Toscana, Sez. II, sentenza 06.12.2012 n. 1953 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La dichiarazione di incostituzionalità della legge attributiva di un potere amministrativo non rend(e) di per sé nulli i provvedimenti che ne hanno fatto applicazione, dovendo invece detti provvedimenti essere considerati affetti da illegittimità derivata, anche se parrebbe più appropriato affermare che l'atto, come nel caso di legge retroattiva, sia affetto da illegittimità sopravvenuta.
Contrariamente a quanto prospettato da parte ricorrente, la Sezione ritiene, infatti, di non aver motivo per discostarsi dal tradizionale orientamento giurisprudenziale che ha rilevato come <<la dichiarazione di incostituzionalità della legge attributiva di un potere amministrativo non rend(a) di per sé nulli i provvedimenti che ne hanno fatto applicazione, dovendo invece detti provvedimenti essere considerati affetti da illegittimità derivata, anche se parrebbe più appropriato affermare che l'atto, come nel caso di legge retroattiva, sia affetto da illegittimità sopravvenuta>> (TAR Campania, Salerno, sez. II, 31.03.2011 n. 570; 25.01.2010 n. 878; Consiglio Stato, sez. VI, 06.06.2008 n. 2724); non sussistendo pertanto alcuna possibilità di inquadrare la problematica all’interno dell’azione di nullità del provvedimento amministrativo, anche la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 54, 4° comma, del d.lgs. 267 del 2000 operata da Corte cost. 07.04.2011 n. 115 deve pertanto trovare esplicazione all’interno della sistematica dei vizi di legittimità del provvedimento e, nella fattispecie che ci occupa, non può trovare accoglimento per effetto dell’inammissibilità originaria del ricorso (con relativo consolidamento del provvedimento) sopra rilevata (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 06.12.2012 n. 1953 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Aria. Emissione in atmosfera di sostanze in assenza di autorizzazione.
Il reato di cui all'art. 279 d.lgs. 152/2006 (per l'assenza della prescritta autorizzazione) prevede, quale presupposto, non la generica possibilità, ma la concreta attività di produzione delle emissioni da parte dell'impianto.
L'affermazione di responsabilità per il reato di cui all'art. 279 per l'emissione in atmosfera di sostanze (pericolose o non) in assenza di autorizzazione, comporta la prova della concreta produzione delle emissioni da parte dell'impianto, non potendo dirsi sufficiente la mera potenzialità produttiva di emissioni inquinanti, per cui sussiste l'obbligo dell'autorizzazione di cui al D.L.vo 152/2006, art. 269, soltanto in relazione agli stabilimenti che producono effettivamente emissione in atmosfera con esclusione di quelli che sono solo potenzialmente idonei a produrre emissioni.
E' necessario, quindi, per la configurabilità il superamento dei valori limite stabiliti dalla legge, che le emissioni siano effettivamente sussistenti (tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.12.2012 n. 46835 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il risarcimento del mancato appalto è in rapporto all'offerta presentata.
In sede di determinazione del risarcimento dei danni subiti per la mancata aggiudicazione di un appalto, ai fini della quantificazione del lucro cessante, va fatto riferimento, sulla base dell'offerta presentata dalla società, agli utili che sarebbero derivati dallo svolgimento del servizio oggetto di gara.
Un consorzio ha adito il TAR di Roma per l’ottemperanza della pronuncia con cui il medesimo Tribunale aveva annullato l’aggiudicazione definitiva della gara di appalto indetta dal Ministero della Giustizia per l’affidamento del servizio di documentazione degli atti processuali.
Parallelamente, ha chiesto il risarcimento dei danni patrimoniali subìti per effetto dell’illegittima aggiudicazione ad altra ditta, consistenti nel mancato conseguimento dell’utile d’impresa e nel danno curriculare.
Nelle more del giudizio, il giudicante ha dichiarato la cessazione della materia del contendere con riferimento al ricorso per ottemperanza, avendo l’Amministrazione provveduto ad attribuire alla ricorrente il contratto di appalto in questione.
Al contempo, in relazione alla domanda di risarcimento del danno per equivalente, il G.A. capitolino ha distinto le voci di danno sia per quel che concerne la perdita di utile derivante dal mancato svolgimento del servizio oggetto di appalto, sia con riferimento al danno curriculare.
Sicché, con riferimento al primo pregiudizio, il Collegio ha rilevato l’opportunità di riconoscere integralmente il danno da mancato utile, in ragione dell’inconfigurabilità del principio dell’aliunde perceptum derivante dalla particolare natura del servizio richiesto e dalla conseguente mancata utilizzazione da parte del consorzio del personale e degli investimenti effettuati.
Sul punto ha richiamato un fermo convincimento giurisprudenziale per cui: “… nelle ipotesi in cui deve essere quantificato il lucro cessante da mancata esplicazione di un’attività d’impresa, gli utili attesi dall’intera iniziativa devono essere determinati sulla base dell’offerta presentata dalla società, diminuiti dei redditi sotto qualunque forma conseguiti dalla società; tanto, in applicazione del criterio dell’aliunde perceptum, vale a dire dell’utile alternativo che l’impresa avrebbe potuto acquisire svolgendo attività alternative rispetto a quella che avrebbe dovuto eseguire ove avesse ottenuto il servizio in appalto” (Cons. Stato, Sez. VI, 09.06.2008, n. 2751; TAR Lazio, Roma, Sez. III-ter, 23.07.2010, n. 28158).
Tuttavia, nella specie, l’adito TAR ha evidenziato l’impossibilità per il consorzio di utilizzare "aliunde" le attrezzature e le maestranze deputate all'espletamento del servizio non aggiudicato, atteso che l’appalto affidato all’altra ditta non poteva più essere eseguito dal deducente, con conseguente impossibilità dello stesso di utilizzare le relative risorse aziendali all’uopo predisposte.
Per siffatta ragione, è stato ritenuto di dover riconoscere l'integrale risarcimento del danno per mancato utile d'impresa, ragguagliato all'intero utile che sarebbe derivato dall'esecuzione dell'appalto in questione.
Orbene, procedendo alla determinazione del predetto pregiudizio, il Tribunale amministrativo ha applicato un criterio razionale secondo cui i ricavi complessivamente conseguiti dall’originario aggiudicatario nel periodo di vigenza del contratto di appalto, avrebbero costituito un parametro certo, oggettivo ed espressivo di un dato reale.
In secondo luogo, avuto riguardo all’ulteriore voce di danno opposto dal ricorrente e rappresentato dal danno curriculare, il giudicante ha sottolineato che lo stesso avrebbe dovuto essere oggetto di autonoma valutazione, non potendo considerarsi incluso nel mancato utile d’impresa, anche in ragione dell’acclarata impossibilità per il consorzio di utilizzare "aliunde" le attrezzature e le maestranze deputate all'espletamento del servizio non aggiudicato.
Sul proposito, anche alla stregua di consolidata giurisprudenza, ha precisato che l'impresa ingiustamente privata dell'esecuzione di un appalto avrebbe potuto rivendicare anche la perdita della concreta possibilità di incrementare il proprio avviamento per la parte relativa al curriculum professionale, da intendersi come immagine e prestigio professionale, al di là dell'incremento degli specifici requisiti di qualificazione e di partecipazione alle singole gare (ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 18.05.2011, n. 1681; idem, Sez. IV, 27.11.2010, n. 8253; Sez. VI, 11.01.2010, n. 20; 21.05.2009, n. 3144; 09.06.2008, n. 2751).
Di conseguenza, ha sottolineato che il danno curricolare, costituendo una specificazione di quello per perdita di chance, avrebbe dovuto essere correlato necessariamente alla qualità di impresa operante nel settore degli appalti pubblici, in tal modo costituendo una fonte di vantaggio economicamente valutabile, idoneo ad accrescere la capacità competitiva sul mercato e, quindi, la possibilità di aggiudicazione di ulteriori e futuri appalti.
Pertanto, è stato ritenuto, nella specie, che la mancata esecuzione dell’appalto aveva determinato (indiretti) nocumenti all'immagine della ricorrente, al suo radicamento nel mercato, all'ampliamento della qualità industriale o commerciale dell'azienda, al suo avviamento; difatti, il consorzio, prima dell’illegittima aggiudicazione, rappresentava un’impresa leader nel settore in esame, aperto a pochi soggetti economici altamente specializzati.
In virtù delle suddette argomentazioni, il TAR di Roma ha ritenuto ravvisabili i presupposti necessari per accordare la pretesa risarcitoria del danno curriculare subito dal deducente in ragione dell’illegittima aggiudicazione in favore del controinteressato (TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 28.11.2012 n. 9883 - commento tratto da www.ispoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Sia il Consiglio di Stato che la Corte di Cassazione hanno a più riprese affermato che le disposizioni in materia di competenza professionale dei geometri rispondono ad esigenze di pubblico interesse a tutela della pubblica incolumità. Invero, rispettivamente è stato affermato che:
è affetto da nullità il contratto di prestazione d'opera che affidi a un geometra calcoli in cemento armato e ciò anche ove il compito, limitatamente a quelle strutture, venga poi svolto da un professionista abilitato, che ne sia stato officiato dall'originario incaricato; è irrilevante, a tali fini, che l'incarico sia distinto per le parti in conglomerato e non sia stato subdelegato dal geometra, ma conferito direttamente dal committente stesso a un ingegnere o architetto, in quanto non è consentito neppure al committente scindere dalla progettazione generale quella relativa alle opere in cemento armato poiché non è possibile enucleare e distinguere un'autonoma attività, per la parte di tali lavori, riconducibile ad un ingegnere o ad un architetto -il che appare senz'altro esatto, poiché chi non è abilitato a delineare l'ossatura, neppure può essere ritenuto in grado di dare forma al corpo che deve esserne sorretto-;
i limiti posti dall'art. 16, lett. m, r.d. 11.02.1929 n. 274 alla competenza professionale dei geometri rispondono ad una scelta inequivoca del legislatore, dettata da evidenti ragioni di pubblico interesse, che lascia all'interprete ristretti margini di discrezionalità, attinenti alla valutazione dei requisiti della modestia della costruzione, della non necessità di complesse operazioni di calcolo e dell'assenza di implicazioni per la pubblica incolumità, indicando invece un preciso requisito, ovverosia la natura di annesso agricolo dei manufatti, per le opere eccezionalmente progettabili dai predetti tecnici anche nei casi di impiego di cemento armato.
È pertanto esclusa la possibilità di un'interpretazione estensiva o "evolutiva" di tale disposizione, che, in quanto norma eccezionale, non si presta ad applicazione analogica, non potendosi pervenire ad una diversa conclusione neppure in virtù delle norme -art. 2 l. 05.11.1971 n. 1086 e art. 17 l. 02.02.1974 n. 64- che disciplinano le costruzioni in cemento armato e quelle in zone sismiche, in quanto le stesse richiamano i limiti delle competenze professionali stabiliti per i geometri dalla vigente normativa professionale.
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Qualora il rapporto professionale abbia avuto ad oggetto una costruzione per civili abitazioni, è affetto da nullità il contratto anche relativamente alla direzione dei lavori affidata a un geometra, quando la progettazione -richiedendo l'adozione anche parziale dei calcoli in cemento armato- sia riservata alla competenza degli ingegneri.
Sennonché non può trarsi dalla nullità del contratto d’opera professionale sotteso, la conseguenza indefettibile della illegittimità del titolo abilitativo rilasciato.
Invero costituisce approdo condiviso in giurisprudenza quello per cui “è legittimo l'annullamento mediante esercizio del potere di autotutela di una concessione edilizia in ragione dell'incompetenza del geometra progettista, rilevabile sotto il profilo dell'assenza di abilitazione alla progettazione di costruzioni civili che non siano di modesta entità e che prevedano l'adozione di strutture in cemento armato”.
Si è detto del pari, in passato, che “non è illegittima la concessione edilizia avente ad oggetto un edificio in cemento armato, rilasciata sulla base di un progetto firmato da un geometra, e controfirmato da un ingegnere limitatamente agli aspetti strutturali del progetto“.
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Per concludere sul punto, si deve marcare una netta distinzione tra la nullità del contratto affidato al professionista (geometra) non abilitato e la supposta illegittimità del titolo abilitativo formato su progetto “redatto” dal professionista incompetente.
Con riferimento a tale ultimo profilo, la circostanza che il progetto fosse accompagnato dai calcoli in c.a. redatti da professionista a ciò abilitato (si rammenta che la finalità della disposizione sulla competenza professionale dei geometri è diretta a prevenire problematiche di tutela della pubblica incolumità) milita per la esclusione di profili di illegittimità della variante medesima, trattandosi di una irregolarità formale non investente profili di natura sostanziale.

Stabilisce infatti il Regio decreto 11.02.1929, n. 274, all’art. 16 che: “L'oggetto ed i limiti dell'esercizio professionale di geometra sono regolati come segue:
a) operazioni topografiche di rilevamento e misurazione, di triangolazioni secondarie a lati rettilinei e di poligonazione, di determinazione e verifica di confini; operazioni catastali ed estimi relativi;
b) operazioni di tracciamento di strade poderali e consorziali ed inoltre, quando abbiano tenue importanza, di strade ordinarie e di canali di irrigazione e di scolo;
c) misura e divisione di fondi rustici;
d) misura e divisione di aree urbane e di modeste costruzioni civili;
e) stima di aree e di fondi rustici, anche ai fini di mutui fondiari e di espropriazione, stima dei danni prodotti ai fondi rustici dalla grandine o dagli incendi, e valutazione di danni colonici a culture erbacee, legnose, da frutto, da foglia e da bosco. È fatta eccezione per i casi di notevole importanza economica e per quelli che, per la complessità di elementi di valutazione, richiedano le speciali cognizioni scientifiche e tecniche proprie dei dottori in scienze agrarie;
f) stima, anche ai fini di mutui fondiari e di espropriazione, di aree urbane e di modeste costruzioni civili; stima dei danni prodotti dagli incendi;
g) stima di scorte morte, operazioni di consegna e riconsegna dei beni rurali e relativi bilanci e liquidazioni; stima per costituzione ed eliminazione di servitù rurali; stima delle acque irrigue nei rapporti dei fondi agrari serviti. È fatta eccezione per i casi di notevole importanza economica e per quelli che, per la complessità di elementi di valutazione, richiedano le speciali cognizioni scientifiche e tecniche proprie dei dottori in scienze agrarie;
h) funzioni puramente contabili ed amministrative nelle piccole e medie aziende agrarie;
i) curatele di piccole e medie aziende agrarie, in quanto non importino durata superiore ad un anno ed una vera e propria direzione tecnica; assistenza nei contratti agrari;
l) progetto, direzione, sorveglianza e liquidazione di costruzioni rurali e di edifici per uso d'industrie agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato, che non richiedono particolari operazioni di calcolo e per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone; nonché di piccole opere inerenti alle aziende agrarie, come strade vicinali senza rilevanti opere d'arte, lavori d'irrigazione e di bonifica, provvista d'acqua per le stesse aziende e riparto della spesa per opere consorziali relative, esclusa, comunque, la redazione di progetti generali di bonifica idraulica ed agraria e relativa direzione;
m) progetto, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili;
n) misura, contabilità e liquidazione delle costruzioni civili indicate nella lettera m) ;
o) misura, contabilità e liquidazione di lavori di costruzioni rurali sopra specificate;
p) funzioni peritali ed arbitramentali in ordine alle attribuzioni innanzi menzionate;
q) mansioni di perito comunale per le funzioni tecniche ordinarie nei Comuni con popolazione fino a diecimila abitanti, esclusi i progetti di opere pubbliche d'importanza o che implichino la risoluzione di rilevanti problemi tecnici
.” .
Circa la legittimazione a sollevare la relativa eccezione, ritiene il Collegio che essa sussistesse pienamente in capo alla odierna appellante –titolare di immobile limitrofo a quello per cui è causa- con esclusivo riferimento alla circostanza che si trattava di opere in cemento armato.
Si rileva in proposito che sia il Consiglio di Stato (“è affetto da nullità il contratto di prestazione d'opera che affidi a un geometra calcoli in cemento armato e ciò anche ove il compito, limitatamente a quelle strutture, venga poi svolto da un professionista abilitato, che ne sia stato officiato dall'originario incaricato; è irrilevante, a tali fini, che l'incarico sia distinto per le parti in conglomerato e non sia stato subdelegato dal geometra, ma conferito direttamente dal committente stesso a un ingegnere o architetto, in quanto non è consentito neppure al committente scindere dalla progettazione generale quella relativa alle opere in cemento armato poiché non è possibile enucleare e distinguere un'autonoma attività, per la parte di tali lavori, riconducibile ad un ingegnere o ad un architetto -il che appare senz'altro esatto, poiché chi non è abilitato a delineare l'ossatura, neppure può essere ritenuto in grado di dare forma al corpo che deve esserne sorretto-;” Consiglio Stato, sez. V, 28.04.2011, n. 2537) che la Corte di Cassazione (Cassazione civile, sez. II, 07.09.2009, n. 19292: “i limiti posti dall'art. 16, lett. m, r.d. 11.02.1929 n. 274 alla competenza professionale dei geometri rispondono ad una scelta inequivoca del legislatore, dettata da evidenti ragioni di pubblico interesse, che lascia all'interprete ristretti margini di discrezionalità, attinenti alla valutazione dei requisiti della modestia della costruzione, della non necessità di complesse operazioni di calcolo e dell'assenza di implicazioni per la pubblica incolumità, indicando invece un preciso requisito, ovverosia la natura di annesso agricolo dei manufatti, per le opere eccezionalmente progettabili dai predetti tecnici anche nei casi di impiego di cemento armato. È pertanto esclusa la possibilità di un'interpretazione estensiva o "evolutiva" di tale disposizione, che, in quanto norma eccezionale, non si presta ad applicazione analogica, non potendosi pervenire ad una diversa conclusione neppure in virtù delle norme -art. 2 l. 05.11.1971 n. 1086 e art. 17 l. 02.02.1974 n. 64- che disciplinano le costruzioni in cemento armato e quelle in zone sismiche, in quanto le stesse richiamano i limiti delle competenze professionali stabiliti per i geometri dalla vigente normativa professionale”) hanno a più riprese affermato che le disposizioni in materia di competenza professionale dei geometri rispondono ad esigenze di pubblico interesse a tutela della pubblica incolumità.
L’appellante, in quanto titolare di una abitazione ubicata nelle immediate vicinanze del plesso in costruzione aveva quindi immediato e diretto interesse a sollevare la relativa eccezione in considerazione dei profili di salvaguardia della incolumità.
Il motivo di ricorso di primo grado riproposto in appello doveva essere dichiarato ammissibile, pertanto, in parte qua.
Non ad identiche considerazioni può pervenirsi per ciò che concerne la supposta “incompetenza” motivata con riferimento alla circostanza che le aree insistevano su zona soggetta a vincolo laddove, all’evidenza, non sussistono problematiche di possibile compromissione investente profili di pubblica incolumità ed è carente il diretto ed immediato interesse dell’appellante a sollevare la detta eccezione, per cui la statuizione di inammissibilità del mezzo di primo grado sul punto deve essere confermata.
Rimossa la –per le già chiarite ragioni, e nei ristretti termini sopra individuati- statuizione di inammissibilità, pertiene al Collegio il compito di vagliare il merito della doglianza (è appena il caso di precisare che all’erronea declaratoria della inammissibilità dell’impugnazione non segue l’annullamento con rinvio della appellata decisione, non ricorrendo l’ipotesi di “difetto di procedura o vizio di forma” di cui all’art. 35 della legge n. 1034/1971 – oggi: art. 105 c.p.a.; per il passato, si veda, ex multis, sul punto Consiglio di Stato , sez. V, 23.04.1998, n. 474).
Resta in proposito, quindi, da interrogarsi in ordine alla fondatezza del motivo e alla refluenza dello stesso sulla variante autorizzata.
Ritiene sul punto il Collegio che la doglianza tesa a sostenere la complessiva illegittimità della variante e del permesso di costruire del 2009 a cagione della riscontrata “incompetenza professionale” del progettista sia infondata.
Risulta dagli atti di causa, infatti, che il progetto di variante venne corredato da relazione sui calcoli svolta da un ingegnere a ciò abilitato.
E’ noto al Collegio –che lo condivide– l’orientamento di recente affermato da questo Consiglio di Stato sez. V, 28.04.2011, n. 2537 e prima riportato.
Tale principio –che si attaglia a perfezione alla odierna vicenda processuale- esclude quindi il rilievo sotto il profilo privatistico dell’avvenuto espletamento del calcolo da parte dell’ingegnere abilitato e si inquadra, confermandolo ed ampliandolo, nel consolidato filone giurisprudenziale secondo il quale “qualora il rapporto professionale abbia avuto ad oggetto una costruzione per civili abitazioni, è affetto da nullità il contratto anche relativamente alla direzione dei lavori affidata a un geometra, quando la progettazione -richiedendo l'adozione anche parziale dei calcoli in cemento armato- sia riservata alla competenza degli ingegneri” (Cassazione civile, sez. II, 26.07.2006, n. 17028, ma anche Cassazione civile, sez. II, 15.02.1996, n. 1157 che afferma in tali casi “la conseguenza della nullità del rapporto tra il geometra ed il cliente”).
Sennonché non può trarsi dalla nullità del contratto d’opera professionale sotteso, la conseguenza indefettibile della illegittimità del titolo abilitativo rilasciato.
Invero costituisce approdo condiviso in giurisprudenza quello per cui “è legittimo l'annullamento mediante esercizio del potere di autotutela di una concessione edilizia in ragione dell'incompetenza del geometra progettista, rilevabile sotto il profilo dell'assenza di abilitazione alla progettazione di costruzioni civili che non siano di modesta entità e che prevedano l'adozione di strutture in cemento armato” (Consiglio Stato, sez. IV, 22.05.2006, n. 3006).
Si è detto del pari, in passato, che “non è illegittima la concessione edilizia avente ad oggetto un edificio in cemento armato, rilasciata sulla base di un progetto firmato da un geometra, e controfirmato da un ingegnere limitatamente agli aspetti strutturali del progetto“ (Consiglio Stato, sez. V, 04.06.2003, n. 3068).
La questione quindi va risolta avuto riguardo all’interesse pubblicistico sotteso al riparto di competenza professionale in capo al geometra e, quindi, alla possibile sussistenza di pericoli per la pubblica incolumità.
Nel caso di specie può convenirsi con parte appellata che la complessiva modestia dell’opera e la circostanza che comunque i calcoli relativi alle opere in cemento armato (sia per ciò che concerne il permesso di costruire che per la variante del 2009) fossero stati redatti da un professionista abilitato consentono di inferire dalla data circostanza la complessiva legittimità del titolo abilitativo in variante.
Appare essenziale in proposito rilevare che, comunque, i calcoli in cemento armato furono svolti; e furono svolti da un ingegnere abilitato, il che in concreto elide il profilo della illegittimità dedotto (pur essendo, come si è prima chiarito, circostanza del tutto neutra con riguardo al sotteso rapporto privatistico tra committente e geometra -elemento quest’ultimo, comunque, che non rileva nel caso di specie in questa sede-).
Per concludere sul punto: premesso che non può tenersi conto in questa sede delle allusive affermazioni contenute nelle memorie prodotte dall’appellante con le quali si adombra la possibilità che la detta documentazione non sia veridica (si rammenta sul punto che l’appellante non ha impugnato per falsità la detta documentazione e gli atti pubblici alla stessa sottesi, anche con riguardo al momento di presentazione della stessa, e non rileva sotto il profilo sostanziale che la stessa non avesse avuto conoscenza, in passato, della detta comunicazione, mentre costituisce incongruenza non decisiva la circostanza che il nominativo della impresa costruttrice indicato fosse diverso, perché ciò che è decisivo è che i calcoli si riferiscano alle opere per cui è causa) si deve marcare una netta distinzione tra la nullità del contratto affidato al professionista (geometra) non abilitato e la supposta illegittimità del titolo abilitativo formato su progetto “redatto” dal professionista incompetente.
Con riferimento a tale ultimo profilo (che è quello che maggiormente, se non unicamente, rileva in questa sede) la –per le già chiarite ragioni incontestabile in punto di fatto- circostanza che il progetto fosse accompagnato dai calcoli in c.a. redatti da professionista a ciò abilitato, in uno con la modestia complessiva dell’opera in variante (si rammenta che la finalità della disposizione sulla competenza professionale dei geometri è diretta a prevenire problematiche di tutela della pubblica incolumità, palesemente non sussistenti nel caso di specie) milita per la esclusione di profili di illegittimità della variante medesima, trattandosi di una irregolarità formale non investente profili di natura sostanziale
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.11.2012 n. 6036 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sebbene strumentali e “temporalmente precarie” le opere edilizie quali stesura nastro d’asfalto e rifacimento mediante ripavimentazione in acciottolato necessitano del preventivo rilascio di autorizzazione paesaggistica.
Non si ritiene sul punto di doversi discostare dagli approdi della copiosa giurisprudenza –anche penalistica- che ha stabilito che “in tema di reati edilizi e paesaggistici, è necessaria l'autorizzazione paesaggistica anche per i lavori di demolizione e ricostruzione di un immobile in zona sottoposta a vincolo che rispettino la precedente volumetria e destinazione d'uso".
Ogni attività di trasformazione e ripristino deve essere assistita dal relativo titolo. Invero, rientrano nella previsione delle norme urbanistiche e richiedono la concessione dell'autorità comunale non solo i manufatti tradizionalmente compresi nelle attività murarie, ma anche le opere di qualsiasi genere con cui si operi nel suolo, mirando le norme urbanistiche alla tutela complessiva ed armonica dell'ambiente e dei centri abitati, nonché di una serie di interessi collettivi artistici, architettonici, geologici, ecc..

Quanto al primo versante di indagine, ritiene il Collegio che sebbene strumentali e “temporalmente precarie” le opere in oggetto (stesura nastro d’asfalto e rifacimento mediante ripavimentazione in acciottolato) necessitassero del preventivo rilascio di autorizzazione paesaggistica.
Non si ritiene sul punto di doversi discostare dagli approdi della copiosa giurisprudenza –anche penalistica- che ha stabilito che “in tema di reati edilizi e paesaggistici, è necessaria l'autorizzazione paesaggistica anche per i lavori di demolizione e ricostruzione di un immobile in zona sottoposta a vincolo che rispettino la precedente volumetria e destinazione d'uso" (Cassazione penale, sez. III, 24.10.2008, n. 45072).
Sostanzialmente ci si trova al cospetto di un rifacimento di un bene tutelato (tale ultima circostanza è incontroversa) e tale attività di trasformazione e ripristino doveva essere assistita dal relativo titolo (“rientrano nella previsione delle norme urbanistiche e richiedono la concessione dell'autorità comunale non solo i manufatti tradizionalmente compresi nelle attività murarie, ma anche le opere di qualsiasi genere con cui si operi nel suolo, mirando le norme urbanistiche alla tutela complessiva ed armonica dell'ambiente e dei centri abitati, nonché di una serie di interessi collettivi artistici, architettonici, geologici, ecc. -nella specie, è stata ritenuta illegittima l'apertura di una strada di accesso al mare, realizzata in zona paesaggistica, attraverso lo spianamento di rocce, mirante allo scopo di assicurare il ricovero dei natanti ed il passaggio diretto ad essi ed è stata esclusa l'applicabilità dell'amnistia-“ -Cassazione penale, sez. III, 18.05.1979-).
La circostanza che –sia pure ex post, nel 2011- sia stata effettivamente rilasciata l’autorizzazione paesaggistica proprio con riferimento a dette opere comprova vieppiù detta prospettazione (poiché altrimenti argomentando, all’evidenza, si sarebbe dovuto dichiarare il non luogo a provvedere sulla detta istanza).
Il permesso di costruire rilasciato nel 2009 contiene quindi una illegittimità, quanto a detta prescrizione
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.11.2012 n. 6036 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In tema di responsabilità civile della P.A. l'art. 30, comma 3, CPA pur non richiamando espressamente l'art. 1227, comma 2, c.c. ne recepisce in sostanza il principio informatore allorché afferma che l'omessa attivazione da parte dell'interessato degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell'esclusione o della riduzione del danno evitabile con l'ordinaria diligenza, in una logica che vede l'omessa impugnazione dell'atto lesivo non più come preclusione del rito, ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini del giudizio della sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile.
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In tema di responsabilità civile della P.A., la regola della non risarcibilità dei danni evitabili con l'impugnazione del provvedimento amministrativo e con la diligente utilizzazione degli altri strumenti di tutela previsti dall'ordinamento, oggi sancita dall'art. 30, comma 3, CPA (d.lgs. n. 104/2010), deve ritenersi ricognitiva di principi già evincibili alla stregua di un'interpretazione evolutiva del comma 2, art. 1227 c.c..
Pertanto l'omessa attivazione degli strumenti di tutela costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell'esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l'ordinaria diligenza, non più come preclusione di rito, ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile.
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Proposta domanda risarcitoria dinanzi al Giudice Amministrativo, e pur nella piena autonomia di tale azione rispetto a quella diretta ad ottenere la declaratoria di illegittimità dell'atto amministrativo dal quale trae origine il preteso danno, ai fini della verifica in ordine alla sussistenza del nesso di causalità, occorre accertare se la domanda di risarcimento sia da dichiararsi comunque infondata a causa della rilevanza sostanziale, sul versante causale, della mancata impugnazione dell'atto lesivo, da considerarsi come fatto valutabile ai sensi dell'art. 1227 c.c. al fine di escludere la risarcibilità dei danni che, secondo un giudizio causale ipotetico prognostico, sarebbero stati evitati attraverso una tempestiva impugnazione ed una richiesta cautelare di sospensione dell'atto lesivo.
All'uopo deve, tuttavia, rilevarsi come non sia esigibile, affinché il comportamento del creditore possa intendersi conforme all'ordinaria diligenza, il necessario esperimento da parte sua degli ordinari rimedi giurisdizionali di impugnazione, in quanto ciò sarebbe contrario alla ratio della norma di cui all'art. 30, c.p.a. (D.Lgs. n. 104 del 2010) che ha escluso la necessità di previa impugnazione dell'atto ai fini dell'ammissibilità dell'azione di risarcimento del danno patrimoniale, nonché alla lettera del comma terzo, che chiaramente si riferisce a strumenti di tutela, non già di tutela giurisdizionale e comunque non li considera ineluttabili.
In circostanze siffatte, dunque, è sufficiente che l'Amministrazione sia stata messa in condizione, tramite un apposito “avviso di danno” consistente nell'invito all'autotutela, di ritornare sul proprio atto, assolvendo, in un regime di risarcibilità della lesione dell'interesse legittimo, l'obbligo (o, meglio, l'onere) di annullamento d'ufficio dell'atto illegittimo, al fine di evitare di incorrere nella condanna al risarcimento del danno anche per le spese ulteriori sostenute dal privato.
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I principi del nuovo codice del processo amministrativo, in coerenza con la delega (art. 44, comma 2, lett. b, n. 4, legge n. 69/2009) sono applicabili anche ai processi in corso e consentono di superare la limitazione della tutela dell'interesse legittimo al modello impugnatorio, ammettendo azioni tese al conseguimento di pronunce dichiarative, costitutive e di condanna a tutela del cittadino. Di qui, la trasformazione del giudizio amministrativo, da giudizio sulla legittimità dell'atto, a giudizio sul rapporto regolato dal medesimo atto, volto a scrutinare la fondatezza della pretesa sostanziale azionata. Nel merito, il risarcimento è negato applicando il principio della causalità ipotetica, previsto dall'art. 1227, comma 2, c.c., perché con la tempestiva utilizzazione dei rimedi previsti il privato avrebbe evitato il pregiudizio lamentato.
Più in dettaglio, nelle controversie alle quali non si applica il c.p.a. la mancata impugnazione di un provvedimento amministrativo può essere ritenuto un comportamento contrario a buona fede nell'ipotesi in cui si appuri che una tempestiva reazione avrebbe evitato o mitigato il danno. La scelta di non avvalersi della forma di tutela specifica e non (comparativamente) complessa che, grazie anche alle misure cautelari previste dall'ordinamento processuale, avrebbe plausibilmente (ossia più probabilmente che non) evitato, in tutto o in parte il danno, integra violazione dell'obbligo di cooperazione, che spezza il nesso causale e, per l'effetto, impedisce il risarcimento del danno evitabile. Detta omissione, apprezzata congiuntamente alla successiva proposizione di una domanda tesa al risarcimento di un danno che la tempestiva azione di annullamento avrebbe scongiurato, rende configurabile un comportamento complessivo di tipo opportunistico che viola il canone della buona fede e, quindi, in forza del principio di auto-responsabilità cristallizzato dall'art. 1227, comma 2, c.c., implica la non risarcibilità del danno evitabile.

Sennonché, costituisce approdo pienamente condiviso dal Collegio quello per cui il principio (ormai espressamente codificato nell’ultima parte del comma 3 dell’art. 30: “in tema di responsabilità civile della P.A. l'art. 30, comma 3, CPA pur non richiamando espressamente l'art. 1227, comma 2, c.c. ne recepisce in sostanza il principio informatore allorché afferma che l'omessa attivazione da parte dell'interessato degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell'esclusione o della riduzione del danno evitabile con l'ordinaria diligenza, in una logica che vede l'omessa impugnazione dell'atto lesivo non più come preclusione del rito, ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini del giudizio della sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile” -TAR Puglia Lecce Sez. I, 07-06-2012, n. 1053-) di cui al comma 2 dell’art. 1227 del codice civile debba applicarsi anche alle domande risarcitorie proposte antecedentemente alla sua espressa codificazione, essendosi condivisibilmente affermato che “in tema di responsabilità civile della P.A., la regola della non risarcibilità dei danni evitabili con l'impugnazione del provvedimento amministrativo e con la diligente utilizzazione degli altri strumenti di tutela previsti dall'ordinamento, oggi sancita dall'art. 30, comma 3, CPA (d.lgs. n. 104/2010), deve ritenersi ricognitiva di principi già evincibili alla stregua di un'interpretazione evolutiva del comma 2, art. 1227 c.c. Pertanto l'omessa attivazione degli strumenti di tutela costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell'esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l'ordinaria diligenza, non più come preclusione di rito, ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile” (Cons. Stato Sez. IV, 26-03-2012, n. 1750, ma anche TAR Sardegna Cagliari Sez. I, 08-05-2012, n. 426).
In particolare, -premesso che sull’applicabilità del disposto di cui all’art. 1227 cc alle domande risarcitorie proposte innanzi alla giurisdizione amministrativa era già stata raggiunta in passato una sostanziale concordanza di opinioni (ex multis: Cons. Stato Sez. VI, 24-09-2010, n. 7124, ma anche Cons. Stato Sez. VI, 22-10-2008, n. 5183)- con una recente pronuncia questo Consiglio di Stato ha affermato che “proposta domanda risarcitoria dinanzi al Giudice Amministrativo, e pur nella piena autonomia di tale azione rispetto a quella diretta ad ottenere la declaratoria di illegittimità dell'atto amministrativo dal quale trae origine il preteso danno, ai fini della verifica in ordine alla sussistenza del nesso di causalità, occorre accertare se la domanda di risarcimento sia da dichiararsi comunque infondata a causa della rilevanza sostanziale, sul versante causale, della mancata impugnazione dell'atto lesivo, da considerarsi come fatto valutabile ai sensi dell'art. 1227 c.c. al fine di escludere la risarcibilità dei danni che, secondo un giudizio causale ipotetico prognostico, sarebbero stati evitati attraverso una tempestiva impugnazione ed una richiesta cautelare di sospensione dell'atto lesivo. All'uopo deve, tuttavia, rilevarsi come non sia esigibile, affinché il comportamento del creditore possa intendersi conforme all'ordinaria diligenza, il necessario esperimento da parte sua degli ordinari rimedi giurisdizionali di impugnazione, in quanto ciò sarebbe contrario alla ratio della norma di cui all'art. 30, c.p.a. (D.Lgs. n. 104 del 2010) che ha escluso la necessità di previa impugnazione dell'atto ai fini dell'ammissibilità dell'azione di risarcimento del danno patrimoniale, nonché alla lettera del comma terzo, che chiaramente si riferisce a strumenti di tutela, non già di tutela giurisdizionale e comunque non li considera ineluttabili. In circostanze siffatte, dunque, è sufficiente che l'Amministrazione sia stata messa in condizione, tramite un apposito “avviso di danno” consistente nell'invito all'autotutela, di ritornare sul proprio atto, assolvendo, in un regime di risarcibilità della lesione dell'interesse legittimo, l'obbligo ( o, meglio, l'onere) di annullamento d'ufficio dell'atto illegittimo, al fine di evitare di incorrere nella condanna al risarcimento del danno anche per le spese ulteriori sostenute dal privato” (Cons. Stato Sez. V, 29-11-2011, n. 6296).
Sotto altro profilo, ed in ogni caso, è stato chiarito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che “i principi del nuovo codice del processo amministrativo, in coerenza con la delega (art. 44, comma 2, lett. b, n. 4, legge n. 69/2009) sono applicabili anche ai processi in corso e consentono di superare la limitazione della tutela dell'interesse legittimo al modello impugnatorio, ammettendo azioni tese al conseguimento di pronunce dichiarative, costitutive e di condanna a tutela del cittadino. Di qui, la trasformazione del giudizio amministrativo, da giudizio sulla legittimità dell'atto, a giudizio sul rapporto regolato dal medesimo atto, volto a scrutinare la fondatezza della pretesa sostanziale azionata. Nel merito, il risarcimento è negato applicando il principio della causalità ipotetica, previsto dall'art. 1227, comma 2, c.c., perché con la tempestiva utilizzazione dei rimedi previsti il privato avrebbe evitato il pregiudizio lamentato” Cons. Stato (Ad. Plen.), 23-03-2011, n. 3.
Più in dettaglio, è stato nell’occasione rimarcato che nelle controversie alle quali non si applica il c.p.a. la mancata impugnazione di un provvedimento amministrativo può essere ritenuto un comportamento contrario a buona fede nell'ipotesi in cui si appuri che una tempestiva reazione avrebbe evitato o mitigato il danno. La scelta di non avvalersi della forma di tutela specifica e non (comparativamente) complessa che, grazie anche alle misure cautelari previste dall'ordinamento processuale, avrebbe plausibilmente (ossia più probabilmente che non) evitato, in tutto o in parte il danno, integra violazione dell'obbligo di cooperazione, che spezza il nesso causale e, per l'effetto, impedisce il risarcimento del danno evitabile. Detta omissione, apprezzata congiuntamente alla successiva proposizione di una domanda tesa al risarcimento di un danno che la tempestiva azione di annullamento avrebbe scongiurato, rende configurabile un comportamento complessivo di tipo opportunistico che viola il canone della buona fede e, quindi, in forza del principio di auto-responsabilità cristallizzato dall'art. 1227, comma 2, c.c., implica la non risarcibilità del danno evitabile (Cons. Stato, Ad. Plen, 23-03-2011, n. 3)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.11.2012 n. 6036 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il danno da alterazione delle bellezze naturali di luoghi sottoposti a tutela ambientale è in re ipsa solo se lamentato dalla pubblica amministrazione, per espressa disposizione di legge. Il privato che affermi di aver subito un danno nel godimento del proprio fondo, sottoposto a tutela, in virtù degli illeciti edilizi eseguiti sul fondo del vicino grazie ad autorizzazioni illegittimamente concesse, è tenuto invece a dimostrare l'esistenza e l'entità del danno -nella specie, l'azione di risarcimento danni proposta contro un sindaco, condannato nel giudizio penale anche al pagamento di una provvisionale, è stata rigettata perché priva di prova del pregiudizio concretamente arrecato al fondo dell'attore dalle costruzioni abusive erette sul terreno confinante ed a distanza significativa dal confine.
Si è detto in passato, in particolare, che “la realizzazione di opere (nella specie, garage con parete appoggiata al muro di cinta appartenente al proprietario del fondo confinante) in violazione di norme di tutela ambientale, recepite negli strumenti urbanistici, anche se non contrastanti con le prescrizioni comunali in materia di distanze, non comporta un immediato e contestuale danno per i vicini, il cui diritto al risarcimento presuppone l'accertamento del nesso tra la violazione contestata ed il pregiudizio effettivamente subito. La prova di tale pregiudizio -limitato a quei danni che il terreno adiacente all'immobile ove si è commesso l'illecito, subisce in termini di amenità, comodità, tranquillità e per la riduzione di aria, luce e vista- deve essere fornita dall'interessato in modo preciso non solo con riferimento alla sussistenza del danno, ma anche alla entità dello stesso”.

A tale proposito, il Collegio non intende discostarsi dalla costante giurisprudenza di legittimità, secondo la quale “il danno da alterazione delle bellezze naturali di luoghi sottoposti a tutela ambientale è in re ipsa solo se lamentato dalla pubblica amministrazione, per espressa disposizione di legge. Il privato che affermi di aver subito un danno nel godimento del proprio fondo, sottoposto a tutela, in virtù degli illeciti edilizi eseguiti sul fondo del vicino grazie ad autorizzazioni illegittimamente concesse, è tenuto invece a dimostrare l'esistenza e l'entità del danno -nella specie, l'azione di risarcimento danni proposta contro un sindaco, condannato nel giudizio penale anche al pagamento di una provvisionale, è stata rigettata perché priva di prova del pregiudizio concretamente arrecato al fondo dell'attore dalle costruzioni abusive erette sul terreno confinante ed a distanza significativa dal confine-“. (Cass. civ. Sez. III, 21-03-2008, n. 7695).
Si è detto in passato, in particolare, che “la realizzazione di opere (nella specie, garage con parete appoggiata al muro di cinta appartenente al proprietario del fondo confinante) in violazione di norme di tutela ambientale, recepite negli strumenti urbanistici, anche se non contrastanti con le prescrizioni comunali in materia di distanze, non comporta un immediato e contestuale danno per i vicini, il cui diritto al risarcimento presuppone l'accertamento del nesso tra la violazione contestata ed il pregiudizio effettivamente subito. La prova di tale pregiudizio -limitato a quei danni che il terreno adiacente all'immobile ove si è commesso l'illecito, subisce in termini di amenità, comodità, tranquillità e per la riduzione di aria, luce e vista- deve essere fornita dall'interessato in modo preciso non solo con riferimento alla sussistenza del danno, ma anche alla entità dello stesso” (Cass. civ. Sez. II, 23-02-1999, n. 1513)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.11.2012 n. 6036 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa natura paritetica dell’atto di determinazione del contributo di costruzione consente che l’Amministrazione possa apportarvi rettifiche (sia in favore del privato che in senso contrario), purché ciò avvenga nei limiti della prescrizione del relativo diritto di credito.
Trattasi infatti, nel caso di specie, di una determinazione che “obbedisce” a prescrizioni desumibili da tabelle, in ordine alla quale l’amministrazione comunale si limita ad applicare i detti parametri, (conseguentemente per la stessa rivestenti natura cogente) laddove è esclusa qualsivoglia discrezionalità applicativa (è appena il caso di rilevare che ad analoghi approdi perviene la giurisprudenza amministrativa in ogni ipotesi di impugnazione di atti paritetici - ivi compresa la indebita corresponsione di una retribuzione non dovuta al pubblico dipendente- il che dimostra la coerenza della impostazione sistematica secondo la quale la pariteticità dell’atto e l’assenza di discrezionalità ne legittima o addirittura ne impone la revisione ove affetta da errore, con il solo limite della maturata prescrizione del credito).
La originaria determinazione, pertanto, può essere sempre rivisitata, ove la si assuma affetta da errore (e fermo restando la necessità che detta originaria erroneità della determinazione iniziale sussista effettivamente), e ciò sia laddove essa abbia indicato un importo inferiore al dovuto, che laddove abbia quantificato un importo superiore e, pertanto, non dovuto.
Si rammenta in particolare la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato secondo cui “le controversie relative alla determinazione dei contributi urbanistici involgono l'accertamento di diritti soggettivi che traggono origine direttamente da fonti normative, per cui sono proponibili, a prescindere dall'impugnazione di provvedimenti dell'amministrazione, nel termine di prescrizione“.

A tale proposito va affermato che è certamente infondata la tesi –contenuta nel primo motivo di gravame- secondo cui (a pretesa tutela della buona fede e dell’affidamento riposto dal privato nella più risalente determinazione degli oneri adottata dall’amministrazione appellata) sarebbe preclusa la rideterminazione degli oneri concessori da parte dell’amministrazione comunale se non nella ipotesi di meri errori di calcolo ictu oculi percepibili, a tutela dell’affidamento in buona fede riposto dal privato nella quantificazione operata in sede di prima determinazione.
Al contrario di quanto affermato dall’appellante, infatti, rileva la più attenta giurisprudenza (ex multis: Consiglio di Stato sez. V 17.09.2010 n. 6950) che, la natura paritetica dell’atto di determinazione consente che l’Amministrazione possa apportarvi rettifiche (sia in favore del privato che in senso contrario), purché ciò avvenga nei limiti della prescrizione del relativo diritto di credito (tra le tante, TAR Torino Piemonte sez. I 01.03.2010 n. 1302: il computo degli oneri di urbanizzazione non è attività autoritativa e la contestazione sulla relativa corresponsione è proponibile nel termine di prescrizione decennale a prescindere dall'impugnazione dei provvedimenti adottati o dal sollecito a provvedere in via di autotutela).
Trattasi infatti, nel caso di specie, di una determinazione che “obbedisce” a prescrizioni desumibili da tabelle, in ordine alla quale l’amministrazione comunale si limita ad applicare i detti parametri, (conseguentemente per la stessa rivestenti natura cogente) laddove è esclusa qualsivoglia discrezionalità applicativa (è appena il caso di rilevare che ad analoghi approdi perviene la giurisprudenza amministrativa in ogni ipotesi di impugnazione di atti paritetici - ivi compresa la indebita corresponsione di una retribuzione non dovuta al pubblico dipendente- il che dimostra la coerenza della impostazione sistematica secondo la quale la pariteticità dell’atto e l’assenza di discrezionalità ne legittima o addirittura ne impone la revisione ove affetta da errore, con il solo limite della maturata prescrizione del credito).
La originaria determinazione, pertanto, può essere sempre rivisitata, ove la si assuma affetta da errore (e fermo restando la necessità che detta originaria erroneità della determinazione iniziale sussista effettivamente), e ciò sia laddove essa abbia indicato un importo inferiore al dovuto, che laddove abbia quantificato un importo superiore e, pertanto, non dovuto.
Si rammenta in particolare la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato secondo cui “le controversie relative alla determinazione dei contributi urbanistici involgono l'accertamento di diritti soggettivi che traggono origine direttamente da fonti normative, per cui sono proponibili, a prescindere dall'impugnazione di provvedimenti dell'amministrazione, nel termine di prescrizione“ (Consiglio Stato, sez. V, 04.05.1992, n. 360).
Non si rinviene nel caso di specie una posizione del privato tutelabile nei termini prospettati nell’atto di appello (né sono applicabili alla fattispecie i principi predicabili in ipotesi di esercizio del potere di autotutela, che non può ricorrere laddove, come nel caso in esame, ci si trovi al cospetto di atti paritetici).
In via teorica peraltro, come chiarito dallo stesso primo giudice, le ragioni del privato restano tutelate in ipotesi di tardiva rideterminazione “in peius” in quanto questi potrebbe prospettare una lesione alla propria buona fede ed all’affidamento riposto nella “originaria determinazione” successivamente rettificata ascrivibile ad una responsabilità colposa dell’Amministrazione (il che, comunque, non è avvenuto nel presente giudizio).
Il primo motivo di censura deve pertanto essere respinto, e può affermarsi che ben legittimamente poteva il Comune procedere alla avversata rideterminazione e riquantificazione (il che, come meglio si chiarirà immediatamente di seguito, non esclude che la stessa sia immune da vizi)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.11.2012 n. 6033 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell'art. 2 d.m. 10.05.1977, recante norme per la determinazione del costo di costruzione di nuovi edifici, concorrono a determinare il costo di costruzione il 60% del totale delle superfici non residenziali destinate a servizi e accessori.
Pertanto legittimamente nel calcolo del contributo vengono inclusi, in detta superficie, spazi seminterrati adibiti a manovra delle auto ed accesso ai box essendo riconducibili, stante la loro caratteristica di volumi seminterrati nella categoria dei locali indicati nell'art. 2, lett. c), del predetto decreto avuto riguardo alla funzione consimile degli androni, in tale disposizione previsti, e dei citati spazi di manovra e di accesso, consistenti nel rendere possibile la comunicazione tra la strada e altri locali.

Quanto infatti al profilo della impugnazione investente il “merito” della rideterminazione ritiene il Collegio di doverne affermare la parziale fondatezza.
Il secondo caposaldo della impugnazione, infatti, poggia su un duplice presupposto: la non condivisibilità della rideterminazione del costo di costruzione tenendo conto delle superfici dei corselli di manovra per l’accesso alle autorimesse (mq. 625,35) e la porzione dell’atto gravato relativo alla originaria –asseritamente errata- omessa considerazione di “altre superfici non residenziali pari a mq 579,19”.
Come è agevole riscontrare, la doglianza in realtà introduce due distinte tematiche, che dovranno essere affrontate separatamente.
Quanto alla prima di esse (id est: doverosa ricomprensione dei tornelli di accesso alle autorimesse), il Collegio concorda con la statuizione del primo giudice e ritiene che -per quanto di interesse avuto riguardo ai successivi capi della presente decisione- il gravame sia infondato (non potendo ovviamente incidere sulla questione la deliberazione del Consiglio Regionale dell’Emilia Romagna del 04.02.2010 in quanto non afferente alla detta problematica -ma concernente più in generale la inquadrabilità dei parcheggi pertinenziali tra le opere di urbanizzazione sulla quale di seguito pure ci si soffermerà partitamente- ed in ogni caso non avente portata retroattiva).
La questione si fonda sulla interpretazione del disposto di cui all’art. 2 del Decreto ministeriale 10.05.1977, n. 312400 (“La superficie complessiva, alla quale, ai fini della determinazione del costo di costruzione dell'edificio, si applica il costo unitario a metro quadrato, è costituita dalla somma della superficie utile abitabile di cui al successivo art. 3 e dal 60% del totale delle superfici non residenziali destinate a servizi ed accessori (Snr), misurate al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci e vani di porte e finestre (Sc = Su + 60% Snr).
Le superfici per servizi ed accessori riguardano:
a) cantinole, soffitte, locali motore ascensore, cabine idriche, lavatoi comuni, centrali termiche, ed altri locali a stretto servizio delle residenze;
b) autorimesse singole o collettive;
c) androni di ingresso e porticati liberi;
d) logge e balconi.
I porticati di cui al punto c) sono esclusi dal computo della superficie complessiva qualora gli strumenti urbanistici ne prescrivano l'uso pubblico
.”)
Il Collegio non ravvisa ragione di discostarsi dal consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui (Consiglio Stato sez. V 25.10.1989 n. 679) “ai sensi dell'art. 2 d.m. 10.05.1977, recante norme per la determinazione del costo di costruzione di nuovi edifici, concorrono a determinare il costo di costruzione il 60% del totale delle superfici non residenziali destinate a servizi e accessori. Pertanto legittimamente nel calcolo del contributo vengono inclusi, in detta superficie, spazi seminterrati adibiti a manovra delle auto ed accesso ai box essendo riconducibili, stante la loro caratteristica di volumi seminterrati nella categoria dei locali indicati nell'art. 2, lett. c), del predetto decreto avuto riguardo alla funzione consimile degli androni, in tale disposizione previsti, e dei citati spazi di manovra e di accesso, consistenti nel rendere possibile la comunicazione tra la strada e altri locali.”.
E ciò secondo una ineccepibile interpretazione logica della detta disposizione, che non collide con la tesi secondo cui (Consiglio Stato, sez. V, 18.10.1981 n. 445) “ai fini della individuazione delle superfici non residenziali per servizi e accessori, computabili per la determinazione del costo di costruzione, l'art. 2, comma 2, d.m. 10.05.1977 (richiamato integralmente dal d.m. 09.05.1978) ha una struttura chiaramente esaustiva, quanto meno delle tipologie, che debbono ritenersi incluse nel predetto computo, -nelle quali non è dato far rientrare anche le scale-.”.
La affermata esaustività della indicazione ivi contenuta, infatti, non contrasta con la logica ricomprensione “categoriale” di superfici indispensabili alla utilizzazione di quelle espressamente menzionate nel d.M..
Alla stregua di tale condivisibile ed armonica interpretazione ritiene il Collegio che sia infondata la doglianza incentrata sulla tassatività della prescrizione contenuta nella citata norma, che, per le già chiarite ragioni deve essere intesa secondo un criterio “categoriale” e fondata su “tipologie” (e le autorimesse sono ivi espressamente contemplate, ragion per cui la indicazione deve essere estesa anche ai corselli di manovra di accesso ai garage interrati)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.11.2012 n. 6033 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa legge n. 122/1989 nell’innovare la disciplina dei parcheggi all’art. 11, comma 1, ha equiparato i parcheggi pertinenziali alle opere di urbanizzazione anche per quanto riguarda la gratuità del titolo edilizio.
I parcheggi pertinenziali sono stati quindi complessivamente qualificati come opere di urbanizzazione e quindi a tutti (e non già soltanto a quelli previsti per la fruizione collettiva) è stato riconosciuto un rilievo pubblico: se può concordarsi in proposito con la tesi per cui la gratuità non va estesa anche ai parcheggi pertinenziali che eccedono la misura minima di legge, atteso che, in carenza di una espressa disposizione di legge in tal senso (e pur nella opinabilità della questione) la interpretazione teleologica consente di affermare che la qualificazione dei parcheggi pertinenziali come opere di urbanizzazione ex art. 11, comma 1, della legge 122/1989 debba rimanere circoscritta entro i confini tracciati dall’art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 (di guisa che per i parcheggi eccedenti il “tetto” di dotazione obbligatoria trova applicazione il disposto di cui al d.M. più volte citato).

Il primo giudice si è motivatamente discostato dalle doglianze dell’odierna appellante incentrate sulla tesi secondo cui ex art. 11, comma 1, della legge n. 122/1989 i parcheggi privati (nei limiti della dotazione obbligatoria) dovevano essere considerati quali opere di urbanizzazione esenti da contributo.
Le articolate argomentazioni contenute nella sentenza –seppur corroborate dalle deduzioni svolte da parte appellata nelle proprie memorie di replica- non persuadono il Collegio e non lo inducono a mutare orientamento rispetto al convincimento espresso di recente con la decisione n. 6154/2011, secondo cui i parcheggi pertinenziali in quanto espressamente individuati quali opere di urbanizzazione, non soggiacciono al contributo di costruzione.
Deve sul punto ribadirsi, infatti, che la legge n. 122/1989 nell’innovare la disciplina dei parcheggi (anche ex art. 2, comma 2, incrementando la misura minima obbligatoria di parcheggi pertinenziali nei nuovi edifici -il rapporto di 1mq/20mc stabilito inizialmente dall’art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 nel testo aggiunto dall'art. 18 della legge 06.08.1967 n. 765 è stato portato a 1mq/10mc- e nello stabilire all’art. 9, comma 1, il principio secondo cui i parcheggi pertinenziali possono essere realizzati anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti) all’art. 11, comma 1, ha equiparato i parcheggi pertinenziali alle opere di urbanizzazione anche per quanto riguarda la gratuità del titolo edilizio.
I parcheggi pertinenziali sono stati quindi complessivamente qualificati come opere di urbanizzazione e quindi a tutti (e non già soltanto a quelli previsti per la fruizione collettiva) è stato riconosciuto un rilievo pubblico: se può concordarsi in proposito con la tesi per cui la gratuità non va estesa anche ai parcheggi pertinenziali che eccedono la misura minima di legge, atteso che, in carenza di una espressa disposizione di legge in tal senso (e pur nella opinabilità della questione) la interpretazione teleologica consente di affermare che la qualificazione dei parcheggi pertinenziali come opere di urbanizzazione ex art. 11, comma 1, della legge 122/1989 debba rimanere circoscritta entro i confini tracciati dall’art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 (di guisa che per i parcheggi eccedenti il “tetto” di dotazione obbligatoria trova applicazione il disposto di cui al d.M. più volte citato).
Per le già chiarite ragioni, quindi, non può accedersi alla tesi propugnata da parte appellata e fatta propria dal Tribunale amministrativo nella sentenza gravata secondo cui a cagione della assenza di espressa abrogazione del citato dm 10.05.1977, n. 312400 i parcheggi “equiparati” alle opere di urbanizzazione e conseguentemente esenti dal contributo di costruzione siano soltanto quelli destinati ad uso collettivo.
E’ agevole replicare, sul punto, che nulla prova la mancata abrogazione in parte qua del più volte citato dM 10.05.1977 in quanto la equiparazione di cui all’art. 11, comma 1, della legge n. 122/1989 dei parcheggi pertinenziali alle opere di urbanizzazione non opera per quelli eccedenti la dotazione obbligatoria che quindi risultano normati dal citato d.M. (da interpretarsi nel senso ricomprensivo dei tornelli di manovra cui si è fatto in precedenza riferimento)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.11.2012 n. 6033 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il diritto di scomputo dalla somma dovuta a titolo di oneri concessori non può configurarsi in assenza quantomeno di una anche informale accettazione dell'opera di urbanizzazione realizzata o promossa dal costruttore, con la ineluttabile conseguenza che, in assenza di qualsivoglia partecipazione consensuale dell'Ente, anche solo ex post, gli oneri contributivi, così come determinati, devono essere integralmente corrisposti.
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● l'art. 16 d.P.R. n. 380/2001 prevede la corresponsione di un contributo composto da due quote distinte: gli oneri di urbanizzazione, che non sono dovuti se il titolare del permesso si obbliga a realizzare direttamente tali opere, ed il costo di costruzione, che, invece, essendo una percentuale rapportata non ad opere da fare per la collettività, ma ai costi di costruzione per tipologia edilizia, adeguati annualmente, non sono suscettibili di entrare nel meccanismo dello scomputo, ma non per questo è possibile ricavare la regola fiscale di un pagamento pecuniario; l'indisponibilità dei costi di costruzione è nel senso che essi sono previsti e quantificati per legge, ma la forma del pagamento, con compensazione o meno, è rimessa all'accordo tra le parti;
● ai sensi dell'art. 11, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, a scomputo totale o parziale della quota dovuta per oneri di urbanizzazione, il titolare del permesso di costruire può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, con le modalità e le garanzie stabilite dal Comune. Dall'inequivoco tenore letterale della norma si desume che il titolare del permesso non può realizzare le opere di sua iniziativa, ovvero limitandosi ad inviare una richiesta di autorizzazione, mai riscontrata al Comune, essendo invece necessario che l'Amministrazione disciplini espressamente le modalità di esecuzione delle opere e le necessarie garanzie;
● l'autorizzazione all'esecuzione diretta di opere di urbanizzazione a scomputo dei relativi oneri normalmente viene rilasciata attraverso la concessione edilizia -attualmente art. 45 della l.reg. Lombardia 11.03.2005 n. 12- ma di per sé potrebbe intervenire anche successivamente, in base alle valutazioni degli uffici comunali che vigilano sull'attività edilizia.

Quanto all’ultima censura di merito formulata –in ordine alla quale non colgono nel segno le obiezioni di parte appellata con le quali se ne sostiene la inammissibilità per genericità e tardività, avendo l’appellante introdotto il petitum già nel mezzo di primo grado- essa pare al Collegio senz’altro accoglibile.
Invero l’appellante ha chiesto che venga affermato il diritto della stessa ad ottenere lo scomputo dagli oneri di urbanizzazione secondaria determinati ex lege e quantificati dal Comune (e concorrenti a determinare il contributo di costruzione), dell’onere direttamente sostenuto per eseguire le corrispondenti opere (id est: i parcheggi ed il verde attrezzato).
Escluso che la stessa si riferisse al costo di costruzione, e preso atto della incontestata affermazione che la omessa quantificazione di tali oneri direttamente sopportati discenda dalla circostanza che ad una compiuta determinazione degli stessi potrebbe procedersi soltanto a seguito del collaudo dell’opera da parte del Comune (ex multis: “Il diritto di scomputo dalla somma dovuta a titolo di oneri concessori non può configurarsi in assenza quantomeno di una anche informale accettazione dell'opera di urbanizzazione realizzata o promossa dal costruttore, con la ineluttabile conseguenza che, in assenza di qualsivoglia partecipazione consensuale dell'Ente, anche solo ex post, gli oneri contributivi, così come determinati, devono essere integralmente corrisposti” -TAR Campania Napoli, sez. VIII, 17.09.2009, n. 4983-) cadono le eccezioni di genericità ed indeterminatezza prospettate dall’appellata amministrazione comunale.
Nel merito, pare al Collegio che la richiesta di parte appellante, oltre a rientrare pacificamente nella giurisdizione di questo Collegio, sia strettamente aderente alla previsione normativa contenuta nell’art. 16, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, (“la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune all'atto del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta dell'interessato, può essere rateizzata. A scomputo totale o parziale della quota dovuta, il titolare del permesso può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, nel rispetto dell'articolo 2, comma 5, della legge 11.02.1994, n. 109, e successive modificazioni, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune”): ovviamente, nei limiti in cui siano state seguite le procedure che consentono la operatività di tale meccanismo compensativo (ex multis si vedano:
● ”l'art. 16 d.P.R. n. 380/2001 prevede la corresponsione di un contributo composto da due quote distinte: gli oneri di urbanizzazione, che non sono dovuti se il titolare del permesso si obbliga a realizzare direttamente tali opere, ed il costo di costruzione, che, invece, essendo una percentuale rapportata non ad opere da fare per la collettività, ma ai costi di costruzione per tipologia edilizia, adeguati annualmente, non sono suscettibili di entrare nel meccanismo dello scomputo, ma non per questo è possibile ricavare la regola fiscale di un pagamento pecuniario; l'indisponibilità dei costi di costruzione è nel senso che essi sono previsti e quantificati per legge, ma la forma del pagamento, con compensazione o meno, è rimessa all'accordo tra le parti” -TAR Abruzzo Pescara, sez. I, 18.10.2010, n. 1142-;
● ”ai sensi dell'art. 11, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, a scomputo totale o parziale della quota dovuta per oneri di urbanizzazione, il titolare del permesso di costruire può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, con le modalità e le garanzie stabilite dal Comune. Dall'inequivoco tenore letterale della norma si desume che il titolare del permesso non può realizzare le opere di sua iniziativa, ovvero limitandosi ad inviare una richiesta di autorizzazione, mai riscontrata al Comune, essendo invece necessario che l'Amministrazione disciplini espressamente le modalità di esecuzione delle opere e le necessarie garanzie (il che non è accaduto nel caso di specie)” -TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 08.04.2011, n. 501-;
● “l'autorizzazione all'esecuzione diretta di opere di urbanizzazione a scomputo dei relativi oneri normalmente viene rilasciata attraverso la concessione edilizia -attualmente art. 45 della l. reg. Lombardia 11.03.2005 n. 12- ma di per sé potrebbe intervenire anche successivamente, in base alle valutazioni degli uffici comunali che vigilano sull'attività edilizia” -TAR Lombardia Brescia, sez. I, 12.07.2010, n. 2481-).
Entro tali limiti, il motivo di appello è fondato e va accolto, potendosi affermare il diritto dell’appellante allo scomputo richiesto dal contributo di urbanizzazione (con esclusione, ovviamente, del costo di costruzione) degli oneri relativi alla esecuzione delle opere di urbanizzazione secondaria
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.11.2012 n. 6033 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costituzione di parte civile del privato confinante.
Nei procedimenti per violazioni urbanistico-edilizie, il privato confinante è legittimato a costituirsi parte civile, quando la realizzazione dell'abuso edilizio da parte del vicino non violi solo le norme poste a tutela del regolare assetto del territorio, ma anche le norme che impongono limiti al diritto di proprietà, che stabiliscono distanze, volumetria ed altezza delle costruzioni, previste dal cod. civ. e dai piani regolatori, violazioni produttive di un danno patrimoniale.
Ed, infatti, ai fini dell'accoglimento della domanda di risarcimento danni proposta dalla parte civile costituitasi in un processo per reato urbanistico, è necessario che il giudice accerti la lesione di un diritto soggettivo della parte, a seguito della violazione di norme poste a tutela dello statuto proprietario di questa, non essendo idonea a tale effetto la violazione di norme che disciplinano la sfera della potestà amministrativa, e quindi rilevanti esclusivamente nei rapporti tra comune e privato (tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.11.2012 n. 45942 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti a cagione dell’insussistenza del titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario.
L'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001 riconosce all'Amministrazione Comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutte le attività urbanistico-edilizie del territorio, ivi comprese quelle riguardanti immobili sottoposti a vincolo storico-artistico e impone l'obbligo, per il dirigente, di adottare immediatamente provvedimenti definitivi, al fine di ripristinare la legalità violata dall'intervento edilizio realizzato, mediante l'esercizio di un potere-dovere del tutto vincolato dell'organo comunale, senza margini di discrezionalità edilizi accertati e ciò in quanto a partire dalla l. n. 142 del 1990, rientrano nella competenza del dirigente comunale, e non del Sindaco, in quanto atti di gestione, i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia e di tutela del territorio, tra i quali l'ordinanza di demolizione di opere abusive.

Infondate sono le censure inerenti l’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento e la competenza dell’organo dirigenziale all’emanazione del provvedimento: sotto il primo profilo, si osserva, in conformità con l’orientamento giurisprudenziale prevalente, che gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti a cagione dell’insussistenza del titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario (cfr. ex multis, TAR Lazio, Sez. II, 31.01.2001, n. 782); sotto il secondo profilo, si evidenzia che «l'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001 riconosce all'Amministrazione Comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutte le attività urbanistico-edilizie del territorio, ivi comprese quelle riguardanti immobili sottoposti a vincolo storico-artistico e impone l'obbligo, per il dirigente, di adottare immediatamente provvedimenti definitivi, al fine di ripristinare la legalità violata dall'intervento edilizio realizzato, mediante l'esercizio di un potere-dovere del tutto vincolato dell'organo comunale, senza margini di discrezionalità edilizi accertati» (TAR Napoli Campania, sez. IV, 14.11.2011, n. 5334) e ciò in quanto «a partire dalla l. n. 142 del 1990, rientrano nella competenza del dirigente comunale, e non del Sindaco, in quanto atti di gestione, i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia e di tutela del territorio, tra i quali l'ordinanza di demolizione di opere abusive» (TAR Lazio Roma, sez. II, 08.04.2010, n. 5889)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 22.11.2012 n. 4727 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una tettoia è soggetta a concessione edilizia ai sensi dell'art. 1, l. 28.01.1977 n. 10, in quanto essa, pur avendo carattere pertinenziale rispetto all'immobile cui accede, incide sull'assetto edilizio preesistente; incisione particolarmente significativa ove, come nel caso di specie, la tettoia insiste su un territorio tutto vincolato quale l'isola di Ischia.
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In caso di abuso edilizio l'ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione; l'abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l'adozione della misura repressiva in argomento. Ne consegue che, in presenza di un'opera abusiva, l'autorità amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna discrezionalità dell'amministrazione in relazione al provvedere.
Infatti l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto e all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi.
Presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che, essendo l'ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con l'accertamento dell'abuso, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico alla sua rimozione e sussistendo l'eventuale obbligo di motivazione al riguardo solo se l'ordinanza stessa intervenga a distanza di tempo dall'ultimazione dell'opera avendo l'inerzia dell'amministrazione creato un qualche affidamento nel privato.
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La mancata indicazione delle conseguenze derivanti dall'inottemperanza all'ordine di demolizione, non infirma il procedimento preordinato alla demolizione delle opere abusive, in quanto concernente effetti automatici ex lege (ossia ex art. 31, comma 3, d.P.R. 06.06.2001 n. 380), come tali presuntivamente conosciuti dai destinatari.

Secondo il costante orientamento di questo Tribunale, dal quale non vi è motivo di discostarsi, deve osservarsi in proposito, in primo luogo, che “la realizzazione di una tettoia è soggetta a concessione edilizia ai sensi dell'art. 1, l. 28.01.1977 n. 10, in quanto essa, pur avendo carattere pertinenziale rispetto all'immobile cui accede, incide sull'assetto edilizio preesistente; incisione particolarmente significativa ove, come nel caso di specie, la tettoia insiste su un territorio tutto vincolato quale l'isola di Ischia” (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 16.12.2009, n. 8781); in secondo luogo, che, trattandosi di intervento realizzato in area assoggettata a protezione vincolistica (cfr. motivazione del provvedimento impugnato) opera il divieto di rilascio dell’autorizzazione paesistica in sanatoria di cui all’art. 146, 4° comma, D.Lgs. 42/2004, se non nelle limitate ipotesi, nelle quali non rientra il caso in esame, di cui all’art. 167, commi 4 e 5, (cfr. “l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio. Fuori dai casi di cui all'articolo 167, commi 4 e 5, l'autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi…”); in ultimo, che costituisce jus receptum che in caso di abuso edilizio “l'ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione; l'abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l'adozione della misura repressiva in argomento. Ne consegue che, in presenza di un'opera abusiva, l'autorità amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna discrezionalità dell'amministrazione in relazione al provvedere” (TAR Lazio Roma, sez. I, 19.07.2006, n. 6021); infatti “l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto e all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi” (TAR Marche Ancona, sez. I, 12.10.2006, n. 824) ed, ancora, “presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che, essendo l'ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con l'accertamento dell'abuso, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico alla sua rimozione e sussistendo l'eventuale obbligo di motivazione al riguardo solo se l'ordinanza stessa intervenga a distanza di tempo dall'ultimazione dell'opera avendo l'inerzia dell'amministrazione creato un qualche affidamento nel privato” (Consiglio di Stato, sez. V, 29.05.2006 n. 3270).
Da ultimo, il Tribunale osserva che il motivo di ricorso inerente l’omesso avviso delle conseguenze dell’inottemperanza all’ordine di demolizione è destituito di fondamento, meritando, all’opposto, condivisione l’orientamento secondo il quale «la mancata indicazione delle conseguenze derivanti dall'inottemperanza all'ordine di demolizione, non infirma il procedimento preordinato alla demolizione delle opere abusive, in quanto concernente effetti automatici ex lege (ossia ex art. 31, comma 3, d.P.R. 06.06.2001 n. 380), come tali presuntivamente conosciuti dai destinatari» (TAR Basilicata, Potenza, 08.02.2012, n. 48)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 22.11.2012 n. 4727 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPuò essere definita giuridicamente "strada" anche un’area di proprietà privata ove essa sia asservita all’uso pubblico.
Quest’ultimo, però, non può essere meramente affermato ma esige di essere dimostrato tramite la prova, oltreché dell'intrinseca idoneità del bene, dell’uso continuo e pubblico ad opera di una collettività indeterminata di persone e per soddisfare un pubblico, generale interesse.
Segnatamente, la costituzione su di una strada privata di una servitù di uso pubblico può avvenire, alternativamente, a mezzo della cosiddetta dicatio ad patriam -costituita dal comportamento del proprietario di un bene che mette spontaneamente ed in modo univoco il bene a disposizione di una collettività indeterminata di cittadini, producendo l'effetto istantaneo della costituzione della servitù di uso pubblico-, ovvero attraverso l'uso del bene da parte della collettività indifferenziata dei cittadini, protratto per il tempo necessario all'usucapione.
Simmetricamente, la giurisprudenza civile ha puntualizzato che “affinché un'area assuma la natura di strada pubblica, non basta né che vi si esplichi di fatto il transito del pubblico (con la sua concreta, effettiva e attuale destinazione al pubblico transito e la occupazione sine titolo dell'area da parte della pubblica amministrazione) … né l'intervento di atti di riconoscimento da parte dell'amministrazione medesima circa la funzione da essa assolta”, ma che è invece necessario, ai sensi dell'art. 824 c.c., che la strada risulti di proprietà di un ente pubblico territoriale in base a un atto o a un fatto (fra anche l’usucapione) idoneo a trasferire il dominio, “ovvero che su di essa sia stata costituita a favore dell'Ente una servitù di uso pubblico e che essa venga destinata, con una manifestazione di volontà espressa o tacita dell'Ente, all'uso pubblico, ossia per soddisfare le esigenze di una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad una comunità territoriale”.
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Vari sono gli “indici di riferimento” individuati dalla giurisprudenza per integrare l’asservimento all’uso pubblico da tempo immemorabile da parte della collettività dei cittadini, fra i quali rileva l'uso continuo della strada da parte di un numero indeterminato di persone, il comportamento in relazione ad essa dell’Amministrazione nei settori dell'edilizia e dell'urbanistica, la sua inclusione in un centro abitato e l'effettiva ed attuale destinazione del bene al pubblico servizio.

Quanto al secondo presupposto, ossia l’asserita esistenza di un uso pubblico, si deve osservare che può essere definita giuridicamente "strada" anche un’area di proprietà privata ove essa sia asservita all’uso pubblico.
Quest’ultimo, però, non può essere meramente affermato ma esige di essere dimostrato tramite la prova, oltreché dell'intrinseca idoneità del bene, dell’uso continuo e pubblico ad opera di una collettività indeterminata di persone e per soddisfare un pubblico, generale interesse (cfr., in termini, C.d.S., sez. IV, 15.06.2012, n. 3531).
Segnatamente, la costituzione su di una strada privata di una servitù di uso pubblico può avvenire, alternativamente, a mezzo della cosiddetta dicatio ad patriam -costituita dal comportamento del proprietario di un bene che mette spontaneamente ed in modo univoco il bene a disposizione di una collettività indeterminata di cittadini, producendo l'effetto istantaneo della costituzione della servitù di uso pubblico-, ovvero attraverso l'uso del bene da parte della collettività indifferenziata dei cittadini, protratto per il tempo necessario all'usucapione (cfr., C.d.S., sez. V, 28.06.2011, n. 3868).
Simmetricamente, la giurisprudenza civile ha puntualizzato che “affinché un'area assuma la natura di strada pubblica, non basta né che vi si esplichi di fatto il transito del pubblico (con la sua concreta, effettiva e attuale destinazione al pubblico transito e la occupazione sine titolo dell'area da parte della pubblica amministrazione) … né l'intervento di atti di riconoscimento da parte dell'amministrazione medesima circa la funzione da essa assolta”, ma che è invece necessario, ai sensi dell'art. 824 c.c., che la strada risulti di proprietà di un ente pubblico territoriale in base a un atto o a un fatto (fra anche l’usucapione) idoneo a trasferire il dominio, “ovvero che su di essa sia stata costituita a favore dell'Ente una servitù di uso pubblico e che essa venga destinata, con una manifestazione di volontà espressa o tacita dell'Ente, all'uso pubblico, ossia per soddisfare le esigenze di una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad una comunità territoriale” (cfr., Cass. Civ., sez. II, 07.04.2006, n. 8204; sez. I, 26.08.2002, n. 12540).
5b. Nella specie, risulta che:
- a detta della ricorrente l’accesso all’area di passaggio de qua è chiuso da una stanga (visibile dalla documentazione fotografica dimessa) chiusa con lucchetto, del quale l’Amministrazione possiede la chiave solo per poter accedere dapprima all’area gravata dalla servitù di passo e, quindi, tramite un viottolo, ad un fondo del Comune (situato oltre la proprietà della deducente) sul quale insiste una stazione di pompaggio della fognatura;
- il Comune conferma di aver autorizzato la posa della stanga ma sostiene che essa preclude l’accesso solo nel periodo estivo, quando sono presenti gli ospiti minori di Sos Feriendorf, mentre nel resto dell’anno essa rimane aperta per consentire il libero transito. In proposito produce una nota, inviata alla direzione della Società ricorrente nel dicembre 2006, con cui il Sindaco, su segnalazione di un censito (che, invero, lamentava una serie di inadempienze del Comune in ordine alla donazione di terreni ricevuta dalla Società consortile Lago di Caldonazzo) ha chiesto di rimuovere la stanga per “garantire il passaggio al pubblico” (cfr., doc. n. 13 in atti del Comune).
5c. Orbene, i principi giurisprudenziali esposti rendono ancor più evidente l’insufficienza dei dati allegati in questa sede dal Comune di Caldonazzo per suffragare la dedotta esistenza dell’uso pubblico. L’Amministrazione intimata, in altri termini, ha affidato ad una sola nota, con cui in un’occasione ha chiesto di aprire la stanga della quale un terzo lamentava la frequente chiusura, il compito di integrare la probatio della sussistenza di una servitù di uso pubblico.
Ne consegue che il Comune di Caldonazzo non ha adeguatamente provato:
- né l'avvenuto acquisto del tratto in questione per usucapione per decorso del termine ventennale;
- né ha rigorosamente dimostrato la sussistenza degli “indici di riferimento” individuati dalla giurisprudenza per integrare l’asservimento all’uso pubblico da tempo immemorabile da parte della collettività dei cittadini, fra i quali rileva l'uso continuo della strada da parte di un numero indeterminato di persone, il comportamento in relazione ad essa dell’Amministrazione nei settori dell'edilizia e dell'urbanistica, la sua inclusione in un centro abitato e l'effettiva ed attuale destinazione del bene al pubblico servizio (cfr., Cass. Civ., sez. II, 28.09.2010, n. 20405) (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 21.11.2012 n. 341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIQuanto al principio di rotazione, occorre precisare che la sua applicazione, se pur non esclude la facoltà dell’Amministrazione di invitare a successive gare il precedente affidatario del servizio, tuttavia esso non si converte affatto nell’obbligo di chiamata del precedente aggiudicatario ad ogni riedizione della procedura comparativa.
Più precisamente, sull’applicazione del principio in esame la più recente giurisprudenza amministrativa ha affermato:
- che esso “non collide con il principio di trasparenza, costituendo all’opposto attuazione del principio di pari opportunità tra gli operatori”;
- che detto principio “preclude di riconoscere in capo al precedente gestore di un servizio una pretesa qualificata ad essere ulteriormente invitato alla procedura indetta per riaffidare lo stesso servizio, ovvero a conoscere le ragioni dell'omesso invito, ed impone invece di osservare il principio opposto, ovvero di motivare in modo congruo nel caso in cui si ritenga di estendergli il nuovo invito”;
- che da esso, in altri termini, discende “il superamento del criterio che riconosceva una posizione qualificata in capo al precedente gestore nel caso di successivi affidamenti dello stesso servizio attraverso procedure negoziate, dato che lo strumento della rotazione è coerente con i principi di trasparenza e pari opportunità”, per cui “la scelta di non estendere l'invito all'impresa già affidataria di un precedente contratto non esige una puntuale motivazione”;
- che quando vi sono imprese che hanno già svolto analoghi lavori o servizi sulla base di procedure negoziate “l’Amministrazione aggiudicatrice può legittimamente decidere di favorire l’ingresso di altri soggetti escludendo dagli inviti, per un certo periodo, gli affidatari pregressi”;
- che la rotazione, se “può essere applicata non solo ai precedenti affidatari ma anche ai soggetti che abbiano partecipato alle procedure negoziate senza conseguire l’appalto”, indubbiamente ha come suo diretto e principale destinatario il precedente aggiudicatario;
- in definitiva, che il principio di rotazione “distribuisce il confronto tra gli operatori economici su un piano intertemporale, evitando la formazione di rendite di posizione e conseguendo così un'effettiva concorrenza”.

Occorre ulteriormente osservare che al confronto concorrenziale in esame l’Amministrazione ha dichiarato di applicare i principi sanciti dal comma 11 dell’art. 125 del Codice dei contratti, ossia “di trasparenza, rotazione, parità di trattamento”. Sicché, da un elenco di 10 imprese operanti nel settore oggetto di gara -elenco in parte predisposto d’ufficio e in parte sulla base delle richieste degli interessati giunte al Comune di Ala- tutte ritenute potenzialmente idonee allo svolgimento dello specifico servizio, l’Amministrazione ha individuato 4 imprese a cui ha inviato la lettera d’invito a formulare l’offerta.
La deducente, invocando –paradossalmente– a suo favore proprio il principio di rotazione, asserisce che le 4 imprese ammesse a partecipare erano già state invitate a precedenti gare; che, tuttavia, esse hanno ricevuto questo ulteriore invito a differenza di Pulirapid la quale, in quest’occasione, non è stata invece presa in considerazione. Da ciò la lamentata violazione anche dei principi di trasparenza e di parità di trattamento.
Pure queste argomentazioni non possono essere condivise.
Innanzitutto è infondata la censura di mancato rispetto del principio di parità di trattamento: la situazione della ricorrente -che ha già espletato per quattro anni il servizio di gara e che attualmente sta svolgendo per la stessa Amministrazione il servizio di manutenzione del verde della rete viaria- non è assolutamente comparabile a quella delle imprese invitate al confronto in esame, che, per quanto risulta dagli atti del processo, non sono mai state aggiudicatarie di alcun servizio.
Quanto al principio di rotazione, occorre precisare che la sua applicazione, se pur non esclude la facoltà dell’Amministrazione di invitare a successive gare il precedente affidatario del servizio, tuttavia esso non si converte affatto nell’obbligo di chiamata del precedente aggiudicatario ad ogni riedizione della procedura comparativa (cfr., in termini, C.d.S., sez. VI, 28.12.2011, n. 6906).
Più precisamente, sull’applicazione del principio in esame la più recente giurisprudenza amministrativa ha affermato:
- che esso “non collide con il principio di trasparenza, costituendo all’opposto attuazione del principio di pari opportunità tra gli operatori” (cfr., TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 30.4.2010, n. 1672);
- che detto principio “preclude di riconoscere in capo al precedente gestore di un servizio una pretesa qualificata ad essere ulteriormente invitato alla procedura indetta per riaffidare lo stesso servizio, ovvero a conoscere le ragioni dell'omesso invito, ed impone invece di osservare il principio opposto, ovvero di motivare in modo congruo nel caso in cui si ritenga di estendergli il nuovo invito” (cfr., TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 19.11.2009, n. 2240);
- che da esso, in altri termini, discende “il superamento del criterio che riconosceva una posizione qualificata in capo al precedente gestore nel caso di successivi affidamenti dello stesso servizio attraverso procedure negoziate, dato che lo strumento della rotazione è coerente con i principi di trasparenza e pari opportunità”, per cui “la scelta di non estendere l'invito all'impresa già affidataria di un precedente contratto non esige una puntuale motivazione” (cfr., TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 30.07.2010, n. 7142);
- che quando vi sono imprese che hanno già svolto analoghi lavori o servizi sulla base di procedure negoziate “l’Amministrazione aggiudicatrice può legittimamente decidere di favorire l’ingresso di altri soggetti escludendo dagli inviti, per un certo periodo, gli affidatari pregressi” (cfr., T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 21.1.2011, n. 137);
- che la rotazione, se “può essere applicata non solo ai precedenti affidatari ma anche ai soggetti che abbiano partecipato alle procedure negoziate senza conseguire l’appalto” (cfr., TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 21.01.2011, n. 137), indubbiamente ha come suo diretto e principale destinatario il precedente aggiudicatario;
- in definitiva, che il principio di rotazione “distribuisce il confronto tra gli operatori economici su un piano intertemporale, evitando la formazione di rendite di posizione e conseguendo così un'effettiva concorrenza” (cfr., TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 19.07.2012, n. 1370) (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 21.11.2012 n. 339 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio incombe sull'interessato, e non sull'Amministrazione, che, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo edilizio che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di demolizione.
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In presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili nella loro oggettività alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o del risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione.
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In presenza di un intervento edilizio realizzato in assenza del prescritto permesso di costruire, l'ordine di demolizione costituisce atto dovuto, mentre la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi.
L’ordine di demolizione di opere edilizie abusive, costituendo un atto dovuto in presenza dei presupposti stabiliti dalla legge, non necessita della preventiva acquisizione del parere della richiamata Commissione né di altra autorità.
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I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
Seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2 della legge n. 241 del 1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento...qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data ai ricorrenti l’opportunità di interloquire con l’amministrazione.

Con l’ordinanza impugnata il Comune di Somma Vesuviana ha ingiunto ai ricorrenti di eliminare i lavori di rifinitura eseguiti sul manufatto posto sotto sequestro in data 5 agosto 2008 sito alla via Pizzone Cassante n. 12 nel medesimo Comune.
Le opere in questione sono state realizzate su un fabbricato (ed in particolare sul piano mansarda – cfr. memoria della difesa comunale) di cui non è provata la legittima preesistenza. I ricorrenti si limitano, infatti, ad affermare che la sopraelevazione del manufatto è stata realizzata in tempi molto remoti senza allegare alcuna documentazione a supporto.
In argomento la giurisprudenza ha affermato che l'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio incombe sull'interessato, e non sull'Amministrazione, che, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo edilizio che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di demolizione (TAR Campania Napoli, sez. VIII, 02.07.2010, n. 16569).
Tanto premesso, l’amministrazione ha legittimamente ordinato ai ricorrenti il ripristino dello stato dei luoghi in relazione a lavori che, seppure riconducibili alla categoria del restauro e/o del risanamento conservativo (secondo e terzo motivo) si sono realizzati su un fabbricato abusivo sottoposto a sequestro e in violazione dello stesso.
La giurisprudenza ha, in proposito, evidenziato come “In presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili nella loro oggettività alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o del risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione” (TAR Campania Napoli, sez. VI, 03.12.2010, n. 26787).
Con il quarto motivo i ricorrenti invocano l’art. 12 della legge n. 47/1985 in base al quale l’amministrazione sarebbe obbligata a valutare preventivamente se la demolizione possa avvenire senza pregiudizio della restante parte dell’edificio eseguita in conformità. Osserva il Collegio come quest’ultimo presupposto non sussiste nella fattispecie ove non è stata fornita alcuna prova della legittimità del manufatto sul quale sono stati effettuati i lavori di rifinitura.
In ogni caso, la costante giurisprudenza ha affermato che “In presenza di un intervento edilizio realizzato in assenza del prescritto permesso di costruire, l'ordine di demolizione costituisce atto dovuto, mentre la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi” (TAR Campania Salerno, sez. II, 13.04.2011, n. 702).
E’, altresì, infondato il quinto motivo di ricorso con il quale si deduce l’illegittimità dell’atto impugnato in quanto lo stesso sarebbe stato adottato senza prima aver sentito la Commissione edilizia integrata. Osserva al riguardo il Collegio che l’ordine di demolizione di opere edilizie abusive, costituendo un atto dovuto in presenza dei presupposti stabiliti dalla legge, non necessita della preventiva acquisizione del parere della richiamata Commissione né di altra autorità (ex multis, TAR, Campania Napoli, sez. II, 30.10.2006, n. 9243; sez. IV, 16.07.2003, n. 8434).
Destituita di ogni fondamento risulta la censura incentrata sulla omissione della fase partecipativa al procedimento (violazione degli artt. 7 e 10 della legge n. 241 del 1990 –primo motivo) in quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. IV 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime. Seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2 della legge n. 241 del 1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento...qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data ai ricorrenti l’opportunità di interloquire con l’amministrazione (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 20.11.2012 n. 4661 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Laddove, come nella fattispecie, vengano realizzate opere di ristrutturazione edilizia comportanti un aumento delle unità immobiliari e delle superfici, senza previamente acquisire il più gravoso sul piano procedimentale, titolo abilitativo, né presentare la DIA, è pienamente legittima l’applicazione della sanzione della demolizione. Peraltro, l’intervento abusivo ricade, come correttamente evidenziato nella motivazione del provvedimento impugnato, in una zona del Piano Paesistico Territoriale e, quindi, in un’area vincolata paesaggisticamente.
Alla fattispecie si applica, quindi, il regime previsto dal comma 6 del richiamato art. 22, secondo il quale “la realizzazione degli interventi di cui ai commi 1, 2 e 3 che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale, è subordinata al preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione richiesti dalle relative normative”.
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In presenza di un abuso edilizio “l’ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione; l’abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l’adozione della misura repressiva in argomento. Ne consegue che, in presenza di un’opera abusiva, l’autorità amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna discrezionalità dell’amministrazione in relazione al provvedere”.
Infatti “l’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all’indicazione dei presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione degli abusi edilizi”.
Ed ancora, “presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che, essendo l’ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con l’accertamento dell’abuso, essendo “in re ipsa” l’interesse pubblico alla sua rimozione e sussistendo l’eventuale obbligo di motivazione al riguardo solo se l’ordinanza stessa intervenga a distanza di tempo dall’ultimazione dell’opera avendo l’inerzia dell’amministrazione creato un qualche affidamento nel privato”.
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I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
Seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento...qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data al ricorrente l’opportunità di interloquire con l’amministrazione.
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Una volta accertata l’esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso di costruire l’amministrazione comunale deve disporne senz’altro la demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità delle stesse.

In base al chiaro disposto dell’art. 10, comma 1, lettera c) del D.P.R. n. 380 del 2001, gli interventi di ristrutturazione edilizia comportanti aumenti di unità immobiliari, modifiche del volume, delle sagome e dei prospetti o delle superfici, richiedono la previa acquisizione del permesso di costruire.
Nella fattispecie, risulta incontestata la realizzazione di lavori che hanno condotto a un aumento della superficie (circa 140 mq) e alla creazione di una nuova unità immobiliare. Né possono essere invocate, al fine di censurare la legittimità della sanzione demolitoria, le disposizioni di cui al comma 3, lett. a), dell’art. 22 del medesimo decreto n. 380/2001 in base alle quali è consentita l’effettuazione delle opere di ristrutturazione di cui all’art. 10, comma 1, lettera c), senza la previa acquisizione del permesso di costruire ma con la sola presentazione della DIA (c.d. superdia).
Si tratta invero di una semplificazione procedimentale rimessa alla scelta dell’interessato (DIA in luogo di permesso di costruire) che comunque non ha nessun effetto sul piano sostanziale e segnatamente su quello sanzionatorio (si vd. in proposito quanto stabiliscono le disposizioni recate dal comma 9-bis dell’art. 31 e dal comma 2-bis dell’art. 34 del citato decreto n. 380).
In altre parole, laddove, come nella fattispecie, vengano realizzate opere di ristrutturazione edilizia comportanti un aumento delle unità immobiliari e delle superfici, senza previamente acquisire il più gravoso sul piano procedimentale, titolo abilitativo, né presentare la DIA, è pienamente legittima l’applicazione della sanzione della demolizione (cfr. TAR Lazio, sez. I-quater, 18.06.2007, n. 5534 e TAR Campania, Napoli, sez. VI, 09.11.2009, n. 7057). Peraltro, l’intervento abusivo ricade, come correttamente evidenziato nella motivazione del provvedimento impugnato, in una zona del Piano Paesistico Territoriale e, quindi, in un’area vincolata paesaggisticamente.
Alla fattispecie si applica, quindi, il regime previsto dal comma 6 del richiamato art. 22, secondo il quale “la realizzazione degli interventi di cui ai commi 1, 2 e 3 che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale, è subordinata al preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione richiesti dalle relative normative”.
Nel caso in esame, in definitiva, sono carenti sia il titolo edilizio (permesso di costruire o DIA sostitutiva) sia quello paesistico (parere o autorizzazione dell’autorità tutoria).
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Con riguardo alla mancata qualificazione giuridica dell’abuso e alla insufficienza per tale profilo della motivazione rammenta il Collegio che in presenza di un abuso edilizio “l’ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione; l’abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l’adozione della misura repressiva in argomento. Ne consegue che, in presenza di un’opera abusiva, l’autorità amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna discrezionalità dell’amministrazione in relazione al provvedere” (TAR Lazio Roma, sez. I, 19.07.2006, n. 6021); infatti “l’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all’indicazione dei presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione degli abusi edilizi” (TAR Marche Ancona, sez. I, 12.10.2006 , n. 824) ed, ancora, “presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che, essendo l’ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con l’accertamento dell’abuso, essendo “in re ipsa” l’interesse pubblico alla sua rimozione e sussistendo l’eventuale obbligo di motivazione al riguardo solo se l’ordinanza stessa intervenga a distanza di tempo dall’ultimazione dell’opera avendo l’inerzia dell’amministrazione creato un qualche affidamento nel privato” (Consiglio di Stato, sez. V, 29.05.2006 n. 3270).
Destituita di ogni fondamento risulta la censura incentrata sulla omissione della fase partecipativa al procedimento (violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990) in quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. IV 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
Seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento...qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data al ricorrente l’opportunità di interloquire con l’amministrazione.
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Osserva il Collegio che dal chiaro tenore letterale dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 (che ha sostituito l’art. 13 della legge n. 47/1985) si desume che il rilascio del permesso di costruire in sanatoria consegue necessariamente ad un’istanza dell’interessato (la cui presentazione non risulta nella specie comprovata), mentre al Comune compete, ai sensi dell’art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001, l’esercizio della vigilanza sull’attività urbanistico–edilizia che si svolge nel terreno comunale.
Pertanto, una volta accertata l’esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso di costruire l’amministrazione comunale deve disporne senz’altro la demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità delle stesse (ex multis, TAR Campania, sez. III, 27.09.2006, n. 8331; sez. IV, 04.02.2003, n. 617)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 20.11.2012 n. 4660 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 12 del decreto legislativo 29.12.2003 n. 387 ha previsto il rilascio da parte della regione o della provincia se del caso delegata di un'"autorizzazione unica", che sostituisce tutti i pareri e le autorizzazioni altrimenti necessari e in cui confluiscono, con il meccanismo della conferenza di servizi, anche le valutazioni di carattere paesaggistico e quelle relative all'esistenza di vincoli di carattere storico-artistico.
Il Collegio ritiene che, per definire la natura di tale conferenza, sia necessario fare riferimento al Decreto Ministeriale 10.09.2010, n. 47987, attuativo dell’art. 12, comma 10, del D.lgs. 29.12.2003 n. 387, il quale, nel dettare le linee guida per l'autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, offre sicuri elementi testuali in favore della tesi della natura "decisoria" della conferenza di servizi, integrati, quali:
- l'art. 14.6 del D.M. citato, nella parte in cui si prevede che la conferenza di servizi "si svolge con le modalità di cui agli articoli 14 e seguenti della legge 241 del 1990 e successive modificazioni ed integrazioni";
- l'art. 15.1, in cui si stabilisce che "l'autorizzazione unica, conforme alla determinazione motivata di conclusione assunta all'esito dei lavori della conferenza di servizi, sostituisce a tutti gli effetti ogni autorizzazione, nulla osta o atto di assenso comunque denominato di competenza delle amministrazioni coinvolte".
In tale quadro legislativo è avviso della Sezione che la seconda disposizione chiarisca la natura tipicamente decisoria della conferenza di servizi.

Al fine di valutare la legittimità del diniego osserva il Collegio che deve essere preliminarmente risolto il problema della natura giuridica dell’indetta conferenza di servizi.
L'art. 12 del decreto legislativo 29.12.2003 n. 387 ha previsto il rilascio da parte della regione o della provincia se del caso delegata di un'"autorizzazione unica", che sostituisce tutti i pareri e le autorizzazioni altrimenti necessari e in cui confluiscono, con il meccanismo della conferenza di servizi, anche le valutazioni di carattere paesaggistico e quelle relative all'esistenza di vincoli di carattere storico-artistico.
Sulla natura giuridica di detta conferenza si registrano opinioni non univoche nella giurisprudenza amministrativa, una parte di essa affermandone la natura "istruttoria" (TAR Campania Napoli, sez. VII, nn. 9345/2009 e 9367/2009 e 157/2010; Consiglio di Stato sez. VI, n. 3502/2004 e C.G.A. nn. 295/2008 e 763/2008), altra, invece, la natura "decisoria" (Cons. Stato, sez. VI, 22.02.2010, n.1020; TAR Campania Napoli, sez. V, n. 1479/2010; TAR Sicilia Palermo, sez. II, n. 1539/2009).
Il Collegio ritiene peraltro che, per definire la natura di tale conferenza, sia necessario fare riferimento al Decreto Ministeriale 10.09.2010, n. 47987, attuativo dell’art. 12, comma 10, del D.lgs. 29.12.2003 n. 387, il quale, nel dettare le linee guida per l'autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, offre sicuri elementi testuali in favore della tesi della natura "decisoria" della conferenza di servizi, integrati, quali:
- l'art. 14.6 del D.M. citato, nella parte in cui si prevede che la conferenza di servizi "si svolge con le modalità di cui agli articoli 14 e seguenti della legge 241 del 1990 e successive modificazioni ed integrazioni";
- l'art. 15.1, in cui si stabilisce che "l'autorizzazione unica, conforme alla determinazione motivata di conclusione assunta all'esito dei lavori della conferenza di servizi, sostituisce a tutti gli effetti ogni autorizzazione, nulla osta o atto di assenso comunque denominato di competenza delle amministrazioni coinvolte".
In tale quadro legislativo è avviso della Sezione che la seconda disposizione chiarisca la natura tipicamente decisoria della conferenza di servizi (cfr. in questo senso TAR Piemonte, Sez. I, 21-12-2011, n. 1342), dal che consegue che ad essa si applicano le disposizioni degli artt. 14-bis ss. della legge 241/1990 (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 16.11.2012 n. 2777 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - SEGRETARI COMUNALIE' fondato il primo motivo di ricorso, incentrato sulla asserita incompetenza del Segretario comunale, autore dell’atto, rispetto al dirigente, competente in via generale ai sensi dell’art. 107 TUEL.
Occorre infatti ricordare il testo della norma citata, comma 3, per cui “sono attribuiti ai dirigenti tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dai medesimi organi”.
La norma stessa ammette una sola deroga, quella di cui al successivo art. 109 ultimo comma, per cui nei Comuni privi di dirigenti le relative funzioni “possono essere attribuite, a seguito di provvedimento motivato del sindaco, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale, anche in deroga a ogni diversa disposizione”.
Non esiste invece alcuna norma che affidi in via generale e ordinaria un compito di supplenza dei dirigenti impediti o assenti al Segretario comunale, al quale, ai sensi dell’art. 97, comma 4, TUEL soltanto “sovrintende allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e ne coordina l'attività”.

... per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, del provvedimento 07.07.2010 prot. n. 7012, ricevuto il successivo 16 luglio, con il quale il Segretario comunale del Comune di Grumello del Monte ha respinto l’istanza della ricorrente volta ad ottenere l’autorizzazione ad installare una stazione radio base per telefonia mobile nella locale via Don Francesco Lazzari;
...
Nel merito, è fondato anzitutto il primo motivo di ricorso, incentrato sulla asserita incompetenza del Segretario comunale, autore dell’atto, rispetto al dirigente, competente in via generale ai sensi dell’art. 107 TUEL.
Occorre infatti ricordare il testo della norma citata, comma 3, per cui “sono attribuiti ai dirigenti tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dai medesimi organi”. La norma stessa ammette una sola deroga, quella di cui al successivo art. 109 ultimo comma, per cui nei Comuni privi di dirigenti le relative funzioni “possono essere attribuite, a seguito di provvedimento motivato del sindaco, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale, anche in deroga a ogni diversa disposizione”. Non esiste invece alcuna norma che affidi in via generale e ordinaria un compito di supplenza dei dirigenti impediti o assenti al Segretario comunale, al quale, ai sensi dell’art. 97, comma 4, TUEL soltanto “sovrintende allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e ne coordina l'attività”.

Ciò posto, nel caso di specie in cui il dirigente all’origine responsabile della pratica era deceduto, non era possibile farlo sostituire in via automatica ed ordinaria al Segretario, rispetto al quale non consta uno specifico atto di conferimento di funzioni.
Ciò posto, l’accoglimento di detto motivo non preclude l’esame dei restanti. In proposito, il Collegio non ignora l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale “la fondatezza della censura di incompetenza dell'autorità che ha emanato l'atto, da esaminarsi prioritariamente rispetto ad ogni altro motivo di ricorso, determina unicamente la rimessione dell'affare all'autorità indicata come competente, in applicazione dell'art. 26 legge n. 1034 del 1971, ed impedisce l'esame delle altre doglianze, che finirebbe, altrimenti, per risolversi in un giudizio anticipato sui futuri provvedimenti dell'organo riconosciuto come competente ed in un vincolo anomalo sulla riedizione del potere” (così in motivazione C.d.S. sez. IV 14.05.2007 n. 2427; conformi anche C.d.S. sez. IV 12.12.2006 n. 7271 e 12.03.1996 n. 310, nonché sez. VI 07.04.1981 n. 140)
Sempre il Collegio ritiene però che tale orientamento vada inteso in modo corretto. Come risulta dalla stessa decisione 310/1996 citata, infatti, esso si fonda sulla circostanza per cui nel processo amministrativo “non è prevista alcuna forma di integrazione del contraddittorio nei confronti dell'organo amministrativo effettivamente competente”, e quindi si spiega con l’esigenza di non vincolare al giudicato un soggetto che al processo non è stato in condizione di partecipare. Non sfugge allora che tale esigenza non sussiste nel caso di specie, in cui si fa questione della competenza di due organi, il dirigente e il Segretario, pur sempre appartenenti ad un medesimo soggetto giuridico, ovvero al Comune, che nel processo è stato ritualmente evocato ed ha potuto esercitare appieno il proprio diritto di difesa con riguardo a tutte le censure dedotte
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 15.11.2012 n. 1804 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di stazioni radio base l’ente locale non può prevedere “limiti generalizzati di esposizione diversi da quelli previsti dallo Stato” ovvero una “deroga generalizzata” a tali limiti, ma deve se mai adottare limiti tradotti in “specifiche e diverse misure, la cui idoneità… emerga dallo svolgimento di compiuti e approfonditi rilievi istruttori sulla base di risultanze di carattere scientifico”.
E’ infatti fondato ed assorbente il terzo motivo di ricorso, incentrato sulla presunta illegittimità delle norme comunali sulla localizzazione delle stazioni radio base descritte in narrativa. In proposito, non occorre dilungarsi, atteso che proprio sul censurato art. 51, comma 8, delle NTA del vigente PRG, cui l’art. 6 del regolamento specifico si limita a rinviare, si è pronunciato questo TAR, nel senso della sua illegittimità, con le sentenze sez. II 13.06.2011 n. 898 e 899, che qui interamente si condividono.
A fondamento di tali sentenze, in sintesi estrema, vi è infatti l’indirizzo, proprio ormai di costante giurisprudenza, per cui in tema di stazioni radio base l’ente locale non può prevedere “limiti generalizzati di esposizione diversi da quelli previsti dallo Stato” ovvero una “deroga generalizzata” a tali limiti, ma deve se mai adottare limiti tradotti in “specifiche e diverse misure, la cui idoneità… emerga dallo svolgimento di compiuti e approfonditi rilievi istruttori sulla base di risultanze di carattere scientifico”: così, fra le molte C.d.S. sez. VI 15.07.2010 n. 4557, nonché in via di principio C. cost. 07.11.2003 n. 331 e 07.10.2003 n. 307
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 15.11.2012 n. 1804 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATALa pianificazione acustica non si esaurisce in un'attività di programmazione dell'assetto territoriale in senso stretto, essendo diretta ad orientare lo sviluppo non dal punto di vista urbanistico-edilizio -che pure costituisce un aspetto connesso e correlato- ma sotto il particolare profilo della tutela ambientale e della salute umana, attraverso la localizzazione delle attività antropiche in relazione alla loro rumorosità.
È doveroso rammentare che la normativa di riferimento valorizza il profilo funzionale, inteso ad assicurare la vivibilità dei luoghi preservandoli da fonti di inquinamento acustico: l'impianto normativo dunque assume ad indice quantitativo l'assetto urbanistico attuale, e lo integra con quello qualitativo della fruizione collettiva dei luoghi per il miglioramento delle condizioni di vita. La stessa L.r. 13/2001, all'art. 4, stabilisce che ogni Comune assicura il "coordinamento" tra la classificazione acustica e gli strumenti urbanistici, esigendo pertanto l'integrazione tra i due strumenti senza prescrivere una perfetta sovrapposizione.

La difesa del Comune ha evidenziato che la variante urbanistica del 2001 ha interessato solo l’area di sedime dello stabilimento Tempini, al fine di permetterne la presenza in loco (e l’eventuale adeguamento tecnologico), senza incidere sugli ambiti contermini, che hanno mantenuto la destinazione residenziale.
In tale contesto va esclusa la stessa necessità di un eventuale aggiornamento dell’azzonamento acustico in classe III “aree di tipo misto” effettuata dal piano di zonizzazione acustica approvato nel 1998, atteso che è invariata la situazione di fatto preesistente.

Più in generale, va ricordato (cfr. TAR Brescia Sez. 2°, 18.05.2012 n. 837; Sez. 1°, 02.04.2008 n. 348) che: 
<<La L.r. 13/2001 -in attuazione del disposto di cui all'art. 4, comma 1, lett. a), della L. 447/1995- detta norme per la tutela dell'ambiente esterno ed abitativo dall'inquinamento acustico (art. 1 significativamente rubricato "prevenzione") e demanda testualmente alla Giunta regionale la definizione dei criteri tecnici di dettaglio per la redazione della classificazione acustica del territorio comunale, nel rispetto di alcune linee guida (art. 2, comma 3). Tra queste ultime la lett. a) puntualizza che la classificazione "deve essere predisposta sulla base delle destinazioni d'uso del territorio, sia quelle esistenti che quelle previste negli strumenti di pianificazione urbanistica". La deliberazione della Giunta regionale 12/07/2002 n. 7/9776, recante l'approvazione dei menzionati criteri tecnici, afferma, in coerenza con la normativa di rango superiore, che gli obiettivi fondamentali della zonizzazione acustica "sono quelli di prevenire il deterioramento di aree non inquinate e di risanare quelle dove attualmente sono riscontrabili livelli di rumorosità ambientale superiori ai valori limite". Precisa altresì che "la zonizzazione è inoltre un indispensabile strumento di prevenzione per una corretta pianificazione, ai fini della tutela dall'inquinamento acustico, delle nuove aree di sviluppo urbanistico o per la verifica di compatibilità dei nuovi insediamenti o infrastrutture in aree già urbanizzate". ... D'altro canto, tuttavia, il provvedimento puntualizza che "Il processo di zonizzazione non si deve limitare a "fotografare l'esistente" ma, tenendo conto della pianificazione urbanistica e degli obiettivi di risanamento ambientale, deve prevedere una classificazione in base alla quale vengano attuati tutti gli accorgimenti volti alla migliore protezione dell'ambiente abitativo dal rumore". Inoltre "Va perseguita la compatibilità acustica tra i diversi tipi di insediamento tenendo conto di considerazioni economiche della complessità tecnologica, dell'estensione dell'insediamento o infrastruttura rumorosa, delle necessità di interventi di risanamento, dei programmi di bonifica o di trasferimento".
Il quadro normativo delineato, nel rispetto degli obiettivi fondamentali fissati dalla Legge quadro nazionale e precisati dal legislatore regionale, offre ai Comuni gli strumenti utili per intraprendere una corretta pianificazione, individuando le fasi essenziali dell'attività da espletare ed evidenziando una serie di elementi fondamentali da assumere a parametri di riferimento. Nel compiere la complessa ed articolata valutazione tecnica il Comune deve prendere in considerazione non soltanto la zonizzazione urbanistica, ma anche il rilievo delle attività effettivamente esercitate e l'assetto della viabilità, focalizzando l'analisi sulla situazione attuale e sulle prospettive future di medio periodo, allo scopo di assicurare le condizioni di migliore vivibilità dei luoghi e di salvaguardare la salute dei cittadini. ...
La giurisprudenza ha del resto precisato che la pianificazione acustica non si esaurisce in un'attività di programmazione dell'assetto territoriale in senso stretto, essendo diretta ad orientare lo sviluppo non dal punto di vista urbanistico-edilizio -che pure costituisce un aspetto connesso e correlato- ma sotto il particolare profilo della tutela ambientale e della salute umana, attraverso la localizzazione delle attività antropiche in relazione alla loro rumorosità (cfr. TAR Piemonte, sez. II - 13/13/2005 n. 3969). ... È doveroso rammentare che la normativa di riferimento valorizza il profilo funzionale, inteso ad assicurare la vivibilità dei luoghi preservandoli da fonti di inquinamento acustico: l'impianto normativo dunque assume ad indice quantitativo l'assetto urbanistico attuale, e lo integra con quello qualitativo della fruizione collettiva dei luoghi per il miglioramento delle condizioni di vita. La stessa L.r. 13/2001, all'art. 4, stabilisce che ogni Comune assicura il "coordinamento" tra la classificazione acustica e gli strumenti urbanistici, esigendo pertanto l'integrazione tra i due strumenti senza prescrivere una perfetta sovrapposizione>>
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 15.11.2012 n. 1794 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAIl rumore ambientale è costituito da tutte le sorgenti di rumore esistenti in un dato luogo e durante un determinato tempo. Il rumore ambientale è costituito dall’insieme del rumore residuo, per tale intendendosi il rumore rilevato quando si esclude la specifica sorgente disturbante, e da quello che prodotto dalla specifica sorgente disturbante.
A tal riguardo occorre precisare che il valore limite differenziale è quel valore dato dalla differenza tra il livello equivalente di rumore ambientale e il rumore residuo. Tenendo presente la definizione di rumore residuo che è il rumore che residua una volta eliminata la sorgente disturbante il valore differenziale esprime lo specifico grado di inquinamento acustico della specifica fonte disturbante.
In altre parole il valore differenziale esprime il contributo che una specifica fonte dà al livello di inquinamento generale.
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Il Piano di classificazione acustica ha la funzione di procedere a ricognizione del territorio comunale al fine di individuare, tenendo conto delle destinazioni d'uso delle varie zone, i "valori di qualità" di inquinamento acustico da applicare a ciascuna di esse: ciò al duplice fine di contenere il livello di emissioni sonore nei limiti stabiliti in considerazione della concreta destinazione delle varie porzioni di territorio, e di fornire un criterio utile a verificare le attività eventualmente autorizzabili in ciascuna di esse.
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Va chiarita la latitudine del potere attribuito dall’art. 9 della L. 26.10.1995 n. 447 ovverosia:
- la norma non può essere riduttivamente intesa come una mera (e, quindi, pleonastica) riproduzione, nell'ambito della normativa di settore in tema di tutela dall'inquinamento acustico, del generale potere di ordinanza contingibile ed urgente tradizionalmente riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico al Sindaco (quale Ufficiale di Governo) in materia di sanità ed igiene pubblica, ma che invece la stessa deve essere logicamente e sistematicamente interpretata nel particolare significato che assume all'interno di una normativa dettata -in attuazione del principio di tutela della salute dei cittadini previsto dall'art. 32 della Costituzione- allo scopo primario di realizzare un efficace contrasto al fenomeno dell'inquinamento acustico, tenendo nel dovuto conto il fatto che la Legge n. 447/1995 (nell'art. 2 primo comma lettera "a") ha ridefinito il concetto di inquinamento acustico, qualificandolo come "l'introduzione di rumore nell'ambiente abitativo o nell'ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo ed alle attività umane", sancendo espressamente che esso concreta (in ogni caso) "un pericolo per la salute umana";
- conseguentemente l'utilizzo del particolare potere di ordinanza contingibile ed urgente delineato dall'art. 9 della Legge 26.10.1995 n. 447 deve ritenersi ("normalmente") consentito allorquando gli appositi accertamenti tecnici effettuati dalle competenti Agenzie Regionali di Protezione Ambientale rivelino la presenza di un fenomeno di inquinamento acustico, tenuto conto sia che quest'ultimo -ontologicamente (per esplicita previsione dell'art. 2 della stessa L. n. 447/1995 )- rappresenta una minaccia per la salute pubblica, sia che la Legge quadro sull'inquinamento acustico non configura alcun potere di intervento amministrativo "ordinario" che consenta di ottenere il risultato dell'immediato abbattimento delle emissioni sonore inquinanti;
- in siffatto contesto normativo, l'accertata presenza di un fenomeno di inquinamento acustico (pur se non coinvolgente l'intera collettività) appare sufficiente a concretare l'eccezionale ed urgente necessità di intervenire a tutela della salute pubblica con l'efficace strumento previsto (soltanto) dall'art. 9, primo comma, della citata Legge n. 447/1995;
- la tutela della salute pubblica non presuppone necessariamente che la situazione di pericolo involga l'intera collettività ben potendo richiedersi tutela alla P.A. anche ove sia in discussione la salute di una singola famiglia (o anche di una sola persona);
- non può essere certamente reputato ordinario strumento di intervento (sul piano amministrativo) la facoltà riconosciuta dal Codice Civile al privato interessato di adire l'Autorità Giudiziaria Ordinaria per far cessare le immissioni dannose che eccedano la normale tollerabilità.

In Lombardia, la L.R. 10.08.2001 n. 13 -Norme in materia di inquinamento acustico- all’art. 15 (Controlli e poteri sostitutivi) prevede che “Le attività di vigilanza e controllo in materia di inquinamento acustico sono svolte dai comuni e dalle province nell'ambito delle competenze individuate dalla legislazione statale e regionale vigente, avvalendosi del supporto dell'Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente ai sensi della legge regionale 14.08.1999, n. 16 (Istituzione dell'Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente - ARPA)” (c.1).
Il c. 2 del cit. art. 15 specifica che: “Per le attività di vigilanza e controllo di cui al comma 1, il comune o la provincia effettuano precise e dettagliate richieste all'ARPA privilegiando le segnalazioni, gli esposti, le lamentele presentate dai cittadini residenti in ambienti abitativi o esterni prossimi alla sorgente di inquinamento acustico per la quale sono effettuati i controlli. Gli oneri per le attività di vigilanza e controllo effettuate ai sensi del presente comma sono a carico dell'ARPA, così come stabilito dall'art. 26, comma 5, della L.R. n. 16/1999”.
Più in generale, l'art. 9, primo comma, della L. 26.10.1995 n. 447 –legge quadro sull'inquinamento acustico- dispone: “Qualora sia richiesto da eccezionali ed urgenti necessità di tutela della salute pubblica o dell'ambiente il sindaco, il presidente della provincia, il presidente della giunta regionale, il prefetto, il Ministro dell'ambiente, secondo quanto previsto dall'articolo 8 della L. 03.03.1987, n. 59, e il Presidente del Consiglio dei ministri, nell'ambito delle rispettive competenze, con provvedimento motivato, possono ordinare il ricorso temporaneo a speciali forme di contenimento o di abbattimento delle emissioni sonore, inclusa l'inibitoria parziale o totale di determinate attività. Nel caso di servizi pubblici essenziali, tale facoltà è riservata esclusivamente al Presidente del Consiglio dei ministri”.
Il D.P.C.M. 14.11.1997 che reca “valori limite assoluti di immissione” all’art. 3 stabilisce: “1. I valori limite assoluti di immissione come definiti all'art. 2, comma 3, lettera a), della legge 26.10.1995, n. 447, riferiti al rumore immesso nell'ambiente esterno dall'insieme di tutte le sorgenti sono quelli indicati nella tabella C allegata al presente decreto.
2. Per le infrastrutture stradali, ferroviarie, marittime, aeroportuali e le altre sorgenti sonore di cui all'art. 11, comma 1, legge 26.10.1995, n. 447, i limiti di cui alla tabella C allegata al presente decreto, non si applicano all'interno delle rispettive fasce di pertinenza, individuate dai relativi decreti attuativi. All'esterno di tali fasce, dette sorgenti concorrono al raggiungimento dei limiti assoluti di immissione.
3. All'interno delle fasce di pertinenza, le singole sorgenti sonore diverse da quelle indicate al precedente comma 2, devono rispettare i limiti di cui alla tabella B allegata al presente decreto. Le sorgenti sonore diverse da quelle di cui al precedente comma 2, devono rispettare, nel loro insieme, i limiti di cui alla tabella C allegata al presente decreto, secondo la classificazione che a quella fascia viene assegnata
.”

Il successivo art. 4 -rubricato valori limite differenziali di immissione- stabilisce: “1. I valori limite differenziali di immissione, definiti all'art. 2, comma 3, lettera b), della legge 26.10.1995, n. 447, sono: 5 dB per il periodo diurno e 3 dB per il periodo notturno, all'interno degli ambienti abitativi. Tali valori non si applicano nelle aree classificate nella classe VI della tabella A allegata al presente decreto.
2. Le disposizioni di cui al comma precedente non si applicano nei seguenti casi, in quanto ogni effetto del rumore è da ritenersi trascurabile: a) se il rumore misurato a finestre aperte sia inferiore a 50 dB(A) durante il periodo diurno e 40 dB(A) durante il periodo notturno; b) se il livello del rumore ambientale misurato a finestre chiuse sia inferiore a 35 dB(A) durante il periodo diurno e 25 dB(A) durante il periodo notturno.
3. Le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano alla rumorosità prodotta: dalle infrastrutture stradali, ferroviarie, aeroportuali e marittime; da attività e comportamenti non connessi con esigenze produttive, commerciali e professionali; da servizi e impianti fissi dell'edificio adibiti ad uso comune, limitatamente al disturbo provocato all'interno dello stesso
”.

Va chiarito che il rumore ambientale è costituito da tutte le sorgenti di rumore esistenti in un dato luogo e durante un determinato tempo. Il rumore ambientale è costituito dall’insieme del rumore residuo, per tale intendendosi il rumore rilevato quando si esclude la specifica sorgente disturbante, e da quello che prodotto dalla specifica sorgente disturbante.
A tal riguardo occorre precisare che il valore limite differenziale è quel valore dato dalla differenza tra il livello equivalente di rumore ambientale e il rumore residuo. Tenendo presente la definizione di rumore residuo che è il rumore che residua una volta eliminata la sorgente disturbante il valore differenziale esprime lo specifico grado di inquinamento acustico della specifica fonte disturbante.
In altre parole il valore differenziale esprime il contributo che una specifica fonte dà al livello di inquinamento generale.
I valori limite sono di 5 db per il periodo diurno e di 3 db per il periodo notturno (art. 4 D.P.C.M. 14.11.1997).
Tali valori differenziali non si applicano quando comunque il rumore ambientale è al di sotto di determinati valori e precisamente 50 db(A) per il periodo diurno e 40 db (A) per il periodo notturno misurati a finestre aperte e 35 db(A) per il periodo diurno e 25 db (A) per il periodo notturno misurati a finestre chiuse.
Si tratta ovviamente di limiti da applicarsi disgiuntamente nel senso che anche il superamento di uno solo di essi consente l’applicazione del valore differenziale. Ciò è fatto palese dalla circostanza che il rumore viene definito in tali casi trascurabile. Orbene è evidente che, essendo il rumore sempre lo stesso, per ritenersi trascurabile non deve superare i parametri di cui sopra per cui il superamento anche di uno solo di essi implica l’applicazione dei valori limite differenziali (cfr. TAR Liguria, Sez. I, 15.03.2010, n. 1166).
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Va ricordato che, ai sensi degli artt. 4 e 6 della legge 26.10.1995, n. 447, il Piano di classificazione acustica ha la funzione di procedere a ricognizione del territorio comunale al fine di individuare, tenendo conto delle destinazioni d'uso delle varie zone, i "valori di qualità" di inquinamento acustico da applicare a ciascuna di esse: ciò al duplice fine di contenere il livello di emissioni sonore nei limiti stabiliti in considerazione della concreta destinazione delle varie porzioni di territorio, e di fornire un criterio utile a verificare le attività eventualmente autorizzabili in ciascuna di esse.
In relazione alle doglianze prospettate dalla ricorrente va chiarita la latitudine del potere attribuito dall’art. 9 della L. 26.10.1995 n. 447 (cfr. TAR Lecce, Sez. I, 11.01.2006, n. 488, TAR Milano, Sez. IV, 27.12.2007 n. 6819, TAR Brescia, Sez. II, 02.11.2009 n. 1814, TAR Brescia, Sez. I, 30.08.2011 n. 1276):
- la norma non può essere riduttivamente intesa come una mera (e, quindi, pleonastica) riproduzione, nell'ambito della normativa di settore in tema di tutela dall'inquinamento acustico, del generale potere di ordinanza contingibile ed urgente tradizionalmente riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico al Sindaco (quale Ufficiale di Governo) in materia di sanità ed igiene pubblica, ma che invece la stessa deve essere logicamente e sistematicamente interpretata nel particolare significato che assume all'interno di una normativa dettata -in attuazione del principio di tutela della salute dei cittadini previsto dall'art. 32 della Costituzione- allo scopo primario di realizzare un efficace contrasto al fenomeno dell'inquinamento acustico, tenendo nel dovuto conto il fatto che la Legge n. 447/1995 (nell'art. 2 primo comma lettera "a") ha ridefinito il concetto di inquinamento acustico, qualificandolo come "l'introduzione di rumore nell'ambiente abitativo o nell'ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo ed alle attività umane", sancendo espressamente che esso concreta (in ogni caso) "un pericolo per la salute umana";
- conseguentemente l'utilizzo del particolare potere di ordinanza contingibile ed urgente delineato dall'art. 9 della Legge 26.10.1995 n. 447 deve ritenersi ("normalmente") consentito allorquando gli appositi accertamenti tecnici effettuati dalle competenti Agenzie Regionali di Protezione Ambientale rivelino la presenza di un fenomeno di inquinamento acustico, tenuto conto sia che quest'ultimo -ontologicamente (per esplicita previsione dell'art. 2 della stessa L. n. 447/1995 )- rappresenta una minaccia per la salute pubblica, sia che la Legge quadro sull'inquinamento acustico non configura alcun potere di intervento amministrativo "ordinario" che consenta di ottenere il risultato dell'immediato abbattimento delle emissioni sonore inquinanti;
- in siffatto contesto normativo, l'accertata presenza di un fenomeno di inquinamento acustico (pur se non coinvolgente l'intera collettività) appare sufficiente a concretare l'eccezionale ed urgente necessità di intervenire a tutela della salute pubblica con l'efficace strumento previsto (soltanto) dall'art. 9, primo comma, della citata Legge n. 447/1995;
- la tutela della salute pubblica non presuppone necessariamente che la situazione di pericolo involga l'intera collettività ben potendo richiedersi tutela alla P.A. anche ove sia in discussione la salute di una singola famiglia (o anche di una sola persona);
- non può essere certamente reputato ordinario strumento di intervento (sul piano amministrativo) la facoltà riconosciuta dal Codice Civile al privato interessato di adire l'Autorità Giudiziaria Ordinaria per far cessare le immissioni dannose che eccedano la normale tollerabilità (cfr. TAR Lecce, 11.01.2006, n. 488)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 15.11.2012 n. 1792 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nelle gare da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa la c.d. riparametrazione ha la funzione di ristabilire quanto voluto dalla stazione appaltante nel bando e, quindi, l’equilibro fra i diversi elementi qualitativi e quantitativi previsti per la valutazione dell’offerta. Si attribuisce, così, alla migliore offerta tecnica il punteggio massimo e, proporzionalmente, si determina il punteggio a tutte le altre.
Per mezzo di questa operazione, i punteggi relativi alla qualità hanno lo stesso peso che viene dato al prezzo, mentre, senza la riparametrazione, per effetto delle formule matematiche previste dal d.P.R. n. 207/2010 (che correttamente attribuiscono sempre il massimo punteggio al ribasso più alto) il prezzo peserebbe, di fatto, relativamente di più della qualità.
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Il principio secondo cui i pesi proporzionali degli elementi quantitativi e qualitativi non possono essere modificati dalla commissione in sede di attribuzione dei punteggi porta alla conclusione che i punti previsti per l’offerta tecnica migliore devono essere assegnati per intero, riparametrando, appunto, l’offerta tecnicamente migliore, con conseguente assegnazione del punteggio massimo previsto.
Occorre rammentare, del resto che il giudizio operato dalla commissione non è di tipo assoluto, bensì di tipo relativo: se ad un’offerta viene assegnato il punteggio massimo, questo non vuol dire che la stessa costituisce la migliore offerta in assoluto presente sul mercato, ma significa che detta offerta è la migliore offerta presentata in una data procedura di gara e valutata da una data commissione. Quell’offerta, pertanto, anche se singolarmente considerata non meriterebbe il massimo punteggio, deve, tuttavia, ricevere il massimo dei punti una volta che, all’esito del confronto comparativo, sia risultata la migliore sotto il profilo tecnico, in quanto, se così non fosse, si attribuirebbe all’elemento prezzo un peso proporzionalmente superiore rispetto all’elemento qualitativo, in violazione di quanto stabilito nella lex specialis.
Infatti, per i criteri di valutazione riguardanti aspetti dell’offerta aventi natura quantitativa (appunto il prezzo), all’offerta più conveniente per la stazione appaltante (per esempio ribasso più alto), è sempre attribuito il coefficiente uno e, quindi, nel metodo aggregativo compensatore, il punteggio massimo previsto nel bando. Qualora non si procedesse nello stesso modo, attribuendo all’offerta tecnica e qualitativa più favorevole il coefficiente uno e, quindi, il massimo punteggio previsto nel bando, verrebbe indebitamente alterato il rapporto numerico prezzo/qualità, vale a dire il rapporto proporzionale fondamentale che concretizza, secondo l’apprezzamento di base dell’amministrazione, il prescelto criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa e che la stessa stazione appaltante ha manifestato nel bando.
In sostanza, se alla migliore offerta sul piano della qualità non venisse attribuito il coefficiente uno, aumenterebbe, nel giudizio, il peso del prezzo, con una conseguente alterazione dell’obiettivo prefissato dalla stazione appaltante.
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Nell’ambito delle gare da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, quando la lex specialis preveda due (o più) criteri autonomi per la valutazione dell’offerta tecnica, occorre rispettare due diverse “proporzioni”: la prima, “interna” alla valutazione dell’elemento qualitativo, consiste nel diverso peso ponderale che la stazione appaltante ha attribuito a ciascuna sub componente al fine di valutare l’offerta tecnicamente migliore; la seconda, “esterna” alla valutazione della componente tecnica, consiste nel diverso peso ponderale che la stazione appaltante ha assegnato rispettivamente all’elemento qualità tecnica e all’elemento prezzo al fine di individuare quella che nel complesso risulta l’offerta economicamente più vantaggiosa.

Occorre anzitutto evidenziare che nelle gare da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa la c.d. riparametrazione ha la funzione di ristabilire quanto voluto dalla stazione appaltante nel bando e, quindi, l’equilibro fra i diversi elementi qualitativi e quantitativi previsti per la valutazione dell’offerta. Si attribuisce, così, alla migliore offerta tecnica il punteggio massimo (nel caso di specie 70 punti) e, proporzionalmente, si determina il punteggio a tutte le altre.
Per mezzo di questa operazione, i punteggi relativi alla qualità hanno lo stesso peso che viene dato al prezzo, mentre, senza la riparametrazione, per effetto delle formule matematiche previste dal d.P.R. n. 207/2010 (che correttamente attribuiscono sempre il massimo punteggio al ribasso più alto) il prezzo peserebbe, di fatto, relativamente di più della qualità (cfr., in tal senso, anche la determinazione dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici n. 7 del 24.11.2011).
Se si accogliesse la tesi sostenuta dalla società ricorrente, la proporzione tra prezzo e qualità tecnica nella valutazione complessiva dell’offerta sarebbe alterata rispetto a quanto voluto dal bando. In base alla lex specialis, infatti, il prezzo deve “pesare” nella valutazione complessiva solo per il 20% (20 punti su 100 punti attribuibili) e la qualità tecnica (sebbene scomposta in due voci autonome) deve comunque pesare per il 70% (70 punti su 100 complessivi attribuibili).
Se l’offerta migliore dal punto di vista tecnico ricevesse 62 punti, anziché 70, questa proporzione verrebbe chiaramente alterata, in quanto l’elemento prezzo finirebbe, inevitabilmente, per pesare di più rispetto a quanto voluto dalla stazione appaltante.
Il principio secondo cui i pesi proporzionali degli elementi quantitativi e qualitativi non possono essere modificati dalla commissione in sede di attribuzione dei punteggi porta, quindi, alla conclusione che i punti previsti per l’offerta tecnica migliore devono essere assegnati per intero, riparametrando, appunto, l’offerta tecnicamente migliore, con conseguente assegnazione del punteggio massimo previsto.
Occorre rammentare, del resto che il giudizio operato dalla commissione non è di tipo assoluto, bensì di tipo relativo: se ad un’offerta viene assegnato il punteggio massimo, questo non vuol dire che la stessa costituisce la migliore offerta in assoluto presente sul mercato, ma significa che detta offerta è la migliore offerta presentata in una data procedura di gara e valutata da una data commissione. Quell’offerta, pertanto, anche se singolarmente considerata non meriterebbe il massimo punteggio, deve, tuttavia, ricevere il massimo dei punti una volta che, all’esito del confronto comparativo, sia risultata la migliore sotto il profilo tecnico, in quanto, se così non fosse, si attribuirebbe all’elemento prezzo un peso proporzionalmente superiore rispetto all’elemento qualitativo, in violazione di quanto stabilito nella lex specialis.
Infatti, per i criteri di valutazione riguardanti aspetti dell’offerta aventi natura quantitativa (appunto il prezzo), all’offerta più conveniente per la stazione appaltante (per esempio ribasso più alto), è sempre attribuito il coefficiente uno e, quindi, nel metodo aggregativo compensatore, il punteggio massimo previsto nel bando. Qualora non si procedesse nello stesso modo, attribuendo all’offerta tecnica e qualitativa più favorevole il coefficiente uno e, quindi, il massimo punteggio previsto nel bando, verrebbe indebitamente alterato il rapporto numerico prezzo/qualità, vale a dire il rapporto proporzionale fondamentale che concretizza, secondo l’apprezzamento di base dell’amministrazione, il prescelto criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa e che la stessa stazione appaltante ha manifestato nel bando.
In sostanza, se alla migliore offerta sul piano della qualità non venisse attribuito il coefficiente uno, aumenterebbe, nel giudizio, il peso del prezzo, con una conseguente alterazione dell’obiettivo prefissato dalla stazione appaltante (in questi termini, cfr. ancora le condivisibili considerazioni dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici determinazione n. 7 del 2011).
A differenza di quanto sostiene l’appellante, tale principio non può mutare laddove, come nel caso di specie, la lex specialis di gara preveda per la valutazione dell’offerta tecnica due criteri autonomi stabilendo per ciascuno di essi un punteggio massimo attribuibile.
In questo caso, il corretto modus procedendi per rispettare la lex specialis è proprio quello seguito dalla commissione nel caso di specie, consistente nell’attribuire a ciascun elemento qualitativo il punteggio massimo previsto dal bando e poi, individuata sulla base di questa prima riparametrazione l’offerta migliore dal punto di vista tecnico, effettuare una seconda riparametrazione volta ad assicurare che l’incidenza relativa della voce qualità tecnica sul punteggio finale sia sempre in grado di rispecchiare la proporzione voluta dalla stazione appaltante.
In questo modo, infatti, si evita di alterare, per un verso, il peso ponderale di ciascun elemento qualitativo rispetto alla valutazione complessiva della qualità tecnica e, per altro verso, il peso ponderale complessivo della qualità tecnica rispetto all’elemento quantitativo rappresentato dal prezzo.
Ed infatti, nell’ambito delle gare da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, quando la lex specialis preveda due (o più) criteri autonomi per la valutazione dell’offerta tecnica, occorre rispettare due diverse “proporzioni”: la prima, “interna” alla valutazione dell’elemento qualitativo, consiste nel diverso peso ponderale che la stazione appaltante ha attribuito a ciascuna sub componente al fine di valutare l’offerta tecnicamente migliore; la seconda, “esterna” alla valutazione della componente tecnica, consiste nel diverso peso ponderale che la stazione appaltante ha assegnato rispettivamente all’elemento qualità tecnica e all’elemento prezzo al fine di individuare quella che nel complesso risulta l’offerta economicamente più vantaggiosa
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 14.11.2012 n. 5754 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Il principio secondo cui la tempestiva impugnazione dell’atto presupposto esime dall’onere di impugnare l’atto consequenziale, al quale si estende l’effetto caducante derivante dall’annullamento dell’atto presupposto, non può trovare applicazione nel caso in cui l’atto consequenziale incide in via immediata e diretta sulla posizione di soggetti terzi rispetto al giudizio instaurato contro l’atto presupposto.
In tal caso, vi è onere di impugnare anche l’atto consequenziale e di notificare l’impugnazione al soggetto controinteressato o vi è quanto meno l’onere di integrare il contraddittorio in relazione all’originario giudizio contro l’atto presupposto.
Infatti, la giurisprudenza ha chiarito che l’annullamento dell’atto presupposto non può comportare l’automatica caducazione dell’atto consequenziale, quando l’atto posteriore abbia conferito un bene o una qualche utilità ad un soggetto non qualificabile come parte necessaria nel giudizio che ha per oggetto l’atto presupposto.
Tale principio esonera il ricorrente dall’onere di impugnare tutti gli atti strettamente esecutivi e conseguenti rispetto a quello presupposto impugnato a condizione che con tali atti non vengano in gioco posizioni di terzi, in quanto tale eventualità comporta la necessità di consentire la loro difesa in giudizio non già attraverso il rimedio dell’opposizione di terzo, che costituisce pur sempre una patologia del processo, ma attraverso la notificazione del ricorso da proporre avverso l’atto conseguente.
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E' stato ritenuto esservi un onere di immediata impugnazione:
a) delle clausole del bando di gara che, imponendo requisiti soggettivi di partecipazione non posseduti dal concorrente, gli impediscono in via immediata e diretta la partecipazione;
b) delle clausole del bando in quei limitati casi in cui gli oneri imposti all’interessato ai fini della partecipazione risultino manifestamente incomprensibili o implicanti oneri per la partecipazione del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della gara o della procedura concorsuale.
Salvo puntuali eccezioni, la legittimazione all’impugnazione spetta a chi partecipa alla gara e che le eccezioni alla regola sono:
- la contestazione in radice della scelta di indire la procedura (con la legittimazione in capo al titolare di un rapporto incompatibile con il nuovo affidamento);
- la contestazione dell’affidamento diretto senza gara (con la legittimazione della “impresa di settore”);
- la contestazione di una clausola del bando ‘escludente’.

Il principio secondo cui la tempestiva impugnazione dell’atto presupposto esime dall’onere di impugnare l’atto consequenziale, al quale si estende l’effetto caducante derivante dall’annullamento dell’atto presupposto, non può trovare applicazione nel caso in cui l’atto consequenziale incide in via immediata e diretta sulla posizione di soggetti terzi rispetto al giudizio instaurato contro l’atto presupposto.
In tal caso, vi è onere di impugnare anche l’atto consequenziale e di notificare l’impugnazione al soggetto controinteressato o vi è quanto meno l’onere di integrare il contraddittorio in relazione all’originario giudizio contro l’atto presupposto.
Infatti, la giurisprudenza ha chiarito che l’annullamento dell’atto presupposto non può comportare l’automatica caducazione dell’atto consequenziale, quando l’atto posteriore abbia conferito un bene o una qualche utilità ad un soggetto non qualificabile come parte necessaria nel giudizio che ha per oggetto l’atto presupposto (Cons. St., sez. VI, 30.10.2001 n. 5677; Id., sez. V, n. 447/1994; Cons. giust. sic., n. 154/1996; n. 398/1997).
Tale principio esonera il ricorrente dall’onere di impugnare tutti gli atti strettamente esecutivi e conseguenti rispetto a quello presupposto impugnato a condizione che con tali atti non vengano in gioco posizioni di terzi, in quanto tale eventualità comporta la necessità di consentire la loro difesa in giudizio non già attraverso il rimedio dell’opposizione di terzo, che costituisce pur sempre una patologia del processo, ma attraverso la notificazione del ricorso da proporre avverso l’atto conseguente (Cons. St., sez. VI, 03.05.2007 n. 1948).
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La decisione della adunanza plenaria 29.01.2003, n. 1, ha ritenuto esservi un onere di immediata impugnazione:
a) delle clausole del bando di gara che, imponendo requisiti soggettivi di partecipazione non posseduti dal concorrente, gli impediscono in via immediata e diretta la partecipazione;
b) delle clausole del bando in quei limitati casi in cui gli oneri imposti all’interessato ai fini della partecipazione risultino manifestamente incomprensibili o implicanti oneri per la partecipazione del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della gara o della procedura concorsuale.
La medesima decisione non si è invece occupata funditus dei casi (esaminati anche dalla giurisprudenza comunitaria) in cui l’impugnazione sia stata proposta da una impresa che non abbia presentato domanda di partecipazione alla gara.
La sentenza della adunanza plenaria n. 4/2011 ha chiarito che, salvo puntuali eccezioni, la legittimazione all’impugnazione spetta a chi partecipa alla gara (§§ 37-40) e che le eccezioni alla regola sono (§ 39):
- la contestazione in radice della scelta di indire la procedura (con la legittimazione in capo al titolare di un rapporto incompatibile con il nuovo affidamento);
- la contestazione dell’affidamento diretto senza gara (con la legittimazione della “impresa di settore”);
- la contestazione di una clausola del bando ‘escludente
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 14.11.2012 n. 5748 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'obbligo, ex art. 10 l. n. 241 del 1990, di esame delle memorie e dei documenti difensivi presentati dagli interessati nel corso del procedimento amministrativo, non impone all'amministrazione una formale, analitica confutazione in merito ad ogni argomento esposto, essendo sufficientemente adeguata, alla luce dell'art. 3 della stessa legge, un'esternazione motivazionale che renda, nella sostanza, percepibile la ragione del mancato adeguamento dell'azione amministrativa alle loro deduzioni partecipative.
La giurisprudenza è difatti concorde nell’affermare che l'obbligo, ex art. 10 l. n. 241 del 1990, di esame delle memorie e dei documenti difensivi presentati dagli interessati nel corso del procedimento amministrativo, non impone all'amministrazione una formale, analitica confutazione in merito ad ogni argomento esposto, essendo sufficientemente adeguata, alla luce dell'art. 3 della stessa legge, un'esternazione motivazionale che renda, nella sostanza, percepibile la ragione del mancato adeguamento dell'azione amministrativa alle loro deduzioni partecipative (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, sez. VI, 29.05.2012, n. 3210)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.11.2012 n. 2757 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il fatto che i titoli abilitativi edilizi vengano rilasciati ex lege con salvezza dei diritti dei terzi significa che i diritti dei terzi non possono venire lesi dal provvedimento finale amministrativo ma non già che l’ente locale non li debba considerare, nell’ambito della fase istruttoria di rilascio del titolo. In tale fase, infatti, sussiste l’obbligo per il Comune di verificare il rispetto -da parte dell’istante- dei limiti privatistici, a condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili o non contestati, di modo che il controllo da parte del Comune si traduca in una semplice presa d’atto dei limiti medesimi, senza necessità di procedere ad un’accurata ed approfondita disamina dei rapporti tra i privati.
Per giurisprudenza costante, quindi, qualora i lavori edilizi siano da eseguirsi su parti comuni e si tratti di opere non connesse all'uso normale della cosa comune, essi abbisognano del previo assenso dei comproprietari anche in relazione agli aspetti pubblicistici dell'attività edificatoria, in sede di rilascio del titolo autorizzativo.

Il diniego del rilascio di un titolo abilitativo (sia esso una variante al permesso di costruire già rilasciato oppure un permesso di costruire in sanatoria) trova fondamento nell’art. 11, d.P.R. n. 380/2001, ai sensi del quale “Il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo”.
Il fatto che i titoli abilitativi edilizi vengano rilasciati ex lege con salvezza dei diritti dei terzi significa che i diritti dei terzi non possono venire lesi dal provvedimento finale amministrativo ma non già che l’ente locale non li debba considerare, nell’ambito della fase istruttoria di rilascio del titolo. In tale fase, infatti, sussiste l’obbligo per il Comune di verificare il rispetto -da parte dell’istante- dei limiti privatistici, a condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili o non contestati, di modo che il controllo da parte del Comune si traduca in una semplice presa d’atto dei limiti medesimi, senza necessità di procedere ad un’accurata ed approfondita disamina dei rapporti tra i privati (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 04.05.2010, n. 2546; Tar Umbria, sez. I, 28.10.2011, n. 333).
Per giurisprudenza costante, quindi, qualora i lavori edilizi siano da eseguirsi su parti comuni e si tratti di opere non connesse all'uso normale della cosa comune, essi abbisognano del previo assenso dei comproprietari anche in relazione agli aspetti pubblicistici dell'attività edificatoria, in sede di rilascio del titolo autorizzativo (Consiglio di Stato sez. VI, 20.12.2011, n. 6731; sez. IV, 10.03.2011, n. 1566; sez. VI, 10.10.2006, n. 6017; sez. V, 24.09.2003, n. 5445; Tar Campania, Napoli, sez. VII, 05.05.2010, n. 2663; Tar Lombardia Brescia, sez. I, 28.05.2007, n. 460).
Nel caso di specie, la pensilina realizzata dal ricorrente, sebbene ancorata sul suo fabbricato, aggetta -per una lunghezza di 5,60 m. e la profondità di 1,40 m.- su di un’area che è, pacificamente, di proprietà comune di più soggetti.
L’occupazione dello spazio aereo sovrastante tale area –in considerazione delle dimensioni della pensilina e del suo carattere permanente, in quanto stabilmente ancorata al fabbricato- va ad incidere sul diritto di comproprietà degli altri soggetti e non è riconducibile a quell'utilizzo della cosa comune ed alle modifiche della stessa funzionali a detto utilizzo, ammessi ai sensi degli artt. 1102 e 1120 c.c. (cfr. Cassazione civile sez. II, 20.08.2002, n. 12258, secondo cui la colonna d'aria sovrastante un'area appartiene anch'essa al proprietario e, a norma del comma 2 dell'art. 840 c.c., l'immissione degli sporti nello spazio aereo sovrastante il fondo del vicino è consentita solo quando costui non abbia interesse ad escludere l'immissione stessa, ossia quando questa intervenga ad un'altezza dal suolo tale da non pregiudicare un qualche concreto, legittimo interesse del proprietario del fondo, in relazione alle concrete possibilità di utilizzazione dello spazio).
A fronte dell’assenza del consenso degli altri comproprietari -e anzi di un dissenso espressamente manifestato- legittimamente l’amministrazione ha negato il rilascio del titolo, adottando un provvedimento adeguatamente motivato e supportato da coerenti risultanze istruttorie
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.11.2012 n. 2757 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La pensilina, di ampie dimensioni e stabilmente ancorata al fabbricato, non può essere considerata di natura pertinenziale, dando invece luogo ad una modificazione della sagoma e del prospetto dell'edificio comportante il previo rilascio di titolo abilitativo espresso.
La qualificazione dell’abuso quale intervento eseguito in assenza di permesso di costruire ed il richiamo all’art. 31, d.P.R. n. 380/2001 sono corretti.
La pensilina, di ampie dimensioni e stabilmente ancorata al fabbricato, non può, difatti, essere considerata di natura pertinenziale, dando invece luogo ad una modificazione della sagoma e del prospetto dell'edificio comportante il previo rilascio di titolo abilitativo espresso (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 29.04.2011, n. 2549)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.11.2012 n. 2757 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le osservazioni dei privati ai progetti di strumenti urbanistici sono un mero apporto collaborativo alla formazione di detti strumenti e non danno luogo a peculiari aspettative, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo sufficiente che esse siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano.
Per costante giurisprudenza, le osservazioni dei privati ai progetti di strumenti urbanistici sono un mero apporto collaborativo alla formazione di detti strumenti e non danno luogo a peculiari aspettative, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo sufficiente che esse siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano (Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2008, n. 3358)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.11.2012 n. 2756 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non sussiste alcun obbligo per il Comune di dare comunicazione ai proprietari frontisti o vicini dell'avvio del procedimento diretto al rilascio di concessione edilizia, e ciò perché gli interessi coinvolti dal provvedimento con cui si consente la trasformazione edilizia del territorio sono di tale varietà ed ampiezza da rendere difficilmente individuabili tutti i soggetti che dall'emanazione dell'atto potrebbero ricevere nocumento.
Non vi è, infatti, violazione degli artt. 7 e 8, l. n. 241/1990, in quanto, per giurisprudenza costante, non sussiste alcun obbligo per il Comune di dare comunicazione ai proprietari frontisti o vicini dell'avvio del procedimento diretto al rilascio di concessione edilizia, e ciò perché gli interessi coinvolti dal provvedimento con cui si consente la trasformazione edilizia del territorio sono di tale varietà ed ampiezza da rendere difficilmente individuabili tutti i soggetti che dall'emanazione dell'atto potrebbero ricevere nocumento (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 31.07.2009, n. 4847; TAR Liguria, sez. I, 10.07.2009, n. 1736) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.11.2012 n. 2756 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Comune ha l'obbligo, nel corso dell'istruttoria sul rilascio del permesso di costruire, di verificare che esista il titolo per intervenire sull'immobile per il quale è richiesto il titolo edilizio e che, quindi, questo sia rilasciato al proprietario dell'area o a chi abbia titolo per richiederlo.
A carico dell'amministrazione incombe, però, solo tale adempimento e non quello di compiere complesse ricognizioni giuridico-documentali ovvero accertamenti in ordine ad eventuali pretese che potrebbero essere avanzate da soggetti estranei al rapporto concessorio.
Il Comune, invero, nel verificare l'esistenza in capo al richiedente il permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento sull'immobile, non si assume il compito di risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti private in ordine all'assetto proprietario, ma accerta unicamente il requisito della legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, il Comune ha l'obbligo, nel corso dell'istruttoria sul rilascio del permesso di costruire, di verificare che esista il titolo per intervenire sull'immobile per il quale è richiesto il titolo edilizio e che, quindi, questo sia rilasciato al proprietario dell'area o a chi abbia titolo per richiederlo (v. ex multis: Cons. Stato, sez. V, 07.07.2005 n. 3730; TAR Lombardia, Brescia, 19.10.2005 n. 995).
A carico dell'amministrazione incombe, però, solo tale adempimento e non quello di compiere complesse ricognizioni giuridico-documentali ovvero accertamenti in ordine ad eventuali pretese che potrebbero essere avanzate da soggetti estranei al rapporto concessorio.
Il Comune, invero, nel verificare l'esistenza in capo al richiedente il permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento sull'immobile, non si assume il compito di risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti private in ordine all'assetto proprietario, ma accerta unicamente il requisito della legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso (Cons. Stato, sez. IV - sentenza 06.03.2012 n. 1270)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.11.2012 n. 2756 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il permesso di costruire è un atto amministrativo che rende legittima l'attività edilizia nell'ordinamento pubblicistico e regola il rapporto che in relazione a quell'attività si pone in essere tra l'autorità amministrativa che lo emette ed il soggetto a favore del quale è emesso, ma non attribuisce a favore di tale soggetto diritti soggettivi conseguenti all'attività stessa, la cui titolarità deve essere sempre verificata alla stregua della disciplina fissata dal diritto comune, con le consentite integrazioni della normativa speciale di cui all'art. 872 c.c. ed alle norme da esso richiamate.
In ogni caso, il permesso di costruire è un atto amministrativo che rende legittima l'attività edilizia nell'ordinamento pubblicistico e regola il rapporto che in relazione a quell'attività si pone in essere tra l'autorità amministrativa che lo emette ed il soggetto a favore del quale è emesso, ma non attribuisce a favore di tale soggetto diritti soggettivi conseguenti all'attività stessa, la cui titolarità deve essere sempre verificata alla stregua della disciplina fissata dal diritto comune, con le consentite integrazioni della normativa speciale di cui all'art. 872 c.c. ed alle norme da esso richiamate (Cons. Stato, sez. V, 07.09.2009, n. 5223; TAR Milano Lombardia sez. II, 28.04.2010, n. 1168) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.11.2012 n. 2756 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di “pertinenza” in senso urbanistico differisce notevolmente da quella civilistica (cfr. per quest’ultima, l’art. 817 del codice civile), essendo il carattere pertinenziale in materia urbanistica circoscritto ad opere di limitatissima superficie o volume (ad esempio i volumi per il ricovero di impianti tecnologici), ma non a manufatti di ampie dimensioni (nel caso di specie il manufatto abusivo contraddistinto con il n. 1 nell’ingiunzione impugnata ha una superficie di metri 4 x 7 ed un’altezza di metri 2,9; mentre il manufatto n. 2 ha superficie di metri 11,4 x 8,2 ed altezza di metri 4,25).
Nel quarto motivo si sostiene, in primo luogo, che due delle opere oggetto dell’ordinanza impugnata (manufatto ad uso ufficio ed abitazione di custodia), sarebbero insuscettibili di autonomo utilizzo e prive di accesso all’area pubblica, il che escluderebbe la legittimità della loro demolizione.
L’asserzione difensiva è palesemente infondata, visto che le opere di cui sopra non assumono certo un oggettivo carattere pertinenziale o di servizio, tenuto conto della loro dimensione e della loro autonomia sotto il profilo urbanistico-edilizio: a tale proposito è sufficiente l’esame dell’ingiunzione di demolizione e dei suoi allegati (cfr. doc. 1 del ricorrente e doc. 1 del resistente), per comprendere che tutti i fabbricati abusivi (cfr. la pianta degli edifici e la documentazione fotografica di cui al doc. 1 del Comune), hanno superfici e volumi tali da escluderne ogni carattere pertinenziale.
Sul punto, si ricordi ancora che la nozione di “pertinenza” in senso urbanistico differisce notevolmente da quella civilistica (cfr. per quest’ultima, l’art. 817 del codice civile), essendo il carattere pertinenziale in materia urbanistica circoscritto ad opere di limitatissima superficie o volume (ad esempio i volumi per il ricovero di impianti tecnologici), ma non a manufatti di ampie dimensioni (cfr. tra le tante, TAR Toscana, sez. III, 27.09.2012, n. 1568; si ricordi che nel caso di specie il manufatto abusivo contraddistinto con il n. 1 nell’ingiunzione impugnata ha una superficie di metri 4 x 7 ed un’altezza di metri 2,9; mentre il manufatto n. 2 ha superficie di metri 11,4 x 8,2 ed altezza di metri 4,25)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.11.2012 n. 2751 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza della scrivente Sezione ha affermato la necessità di un titolo edilizio per le opere di asfaltatura di ampie porzioni di terreno, che hanno rilevanza urbanistica quanto meno in termini di incremento di superficie.
In ogni caso, la copertura con bitume e cemento era finalizzata al mutamento abusivo della pregressa destinazione d’uso (standard per attrezzature di interesse generale, secondo il previgente PRG), per realizzare una illegittima destinazione produttiva, per cui anche sotto tale profilo l’intervento non poteva sottrarsi all’obbligo di titolo edilizio.
Deve quindi escludersi l’illegittimità dell’ingiunzione di demolizione della copertura in cemento e bitume, con conseguente legittimità dell’acquisizione gratuita in caso di inottemperanza all’ordine di rimozione della copertura stessa.

Nella seconda parte del quarto motivo, viene asserito che l’area di pertinenza volumetrica coinciderebbe con l’area di deposito e movimentazione rottami, che sarebbe legittimamente utilizzata per l’attività commerciale.
Anche tale argomento difensivo è palesemente privo di pregio.
Innanzi tutto, occorre premettere che l’intera area dove il ricorrente asserisce di esercitare “legittimamente” la propria attività, ha attualmente destinazione in parte agricola ed in parte di sede stradale, per effetto del Piano di Governo del Territorio (PGT), approvato con deliberazione consiliare n. 29 del 20.04.2009 (cfr. doc. 2 del resistente, certificato di destinazione urbanistica); mentre la pregressa destinazione era quella di area “a standard” (cfr. doc. 16 del resistente).
L’esponente –e di ciò è dato atto a pag. 4 del proprio atto introduttivo– ha impugnato il PGT davanti al TAR Lombardia, lamentando la destinazione agricola dell’area, ma il ricorso (RG 2352/2009), è stato respinto con sentenza della II Sezione n. 1277 dell’08.05.2012.
Vista, quindi, la destinazione attuale e quella pregressa dell’area dove insiste l’attività imprenditoriale dell’esponente, appare prima di tutto legittima l’ingiunzione di demolizione con riguardo non solo ai manufatti indicati con i numeri 1, 2 e 3 nel provvedimento impugnato, ma anche all’abuso contraddistinto con il numero 4 e consistente nella pavimentazione, realizzata in parte in cemento e per l’altra parte in bitume, dell’area di pertinenza degli edifici, per una superficie complessiva di 380 + 785 = 1.165 metri quadrati (cfr. doc. 1 del resistente).
Infatti, la giurisprudenza della scrivente Sezione ha affermato la necessità di un titolo edilizio per le opere di asfaltatura di ampie porzioni di terreno, che hanno rilevanza urbanistica quanto meno in termini di incremento di superficie (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 22.11.2010, n. 7306, con la giurisprudenza ivi richiamata).
In ogni caso, la copertura con bitume e cemento era finalizzata al mutamento abusivo della pregressa destinazione d’uso (standard per attrezzature di interesse generale, secondo il previgente PRG), per realizzare una illegittima destinazione produttiva, per cui anche sotto tale profilo l’intervento non poteva sottrarsi all’obbligo di titolo edilizio (cfr. la sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, n. 2450/2012, citata correttamente da parte della difesa del Comune).
Deve quindi escludersi l’illegittimità dell’ingiunzione di demolizione della copertura in cemento e bitume, con conseguente legittimità dell’acquisizione gratuita in caso di inottemperanza all’ordine di rimozione della copertura stessa
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.11.2012 n. 2751 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAUn giudizio estetico negativo (ndr: tinteggiatura facciate esterne) può aversi solo con riferimento ad aspetti (attinenti, per esempio, all’uso di particolari materiali e/o colori) espressamente previsti e disciplinati dalla normativa edilizia e/o paesaggistica, i quali debbono pertanto essere adeguatamente individuati in sede motivazionale mediante il richiamo alle pertinenti disposizioni.
L’art. 3.0.1 del regolamento edilizio stabilisce che “Le parti delle case e degli edifici in genere prospettanti sulle vie e spazi pubblici … devono rispondere alle esigenze del decoro edilizio tanto per ciò che si riferisce alla corretta armonia delle linee, quanto per materiali da impiegarsi nelle opere di decorazione e per tinteggiature”. L’art. 23 delle N.T.A. del P.R.G. per tempo vigente dispone che “Quando per effetto dell’esecuzione del PRG anche una sola parte di edificio venga ad essere esposta alla pubblica vista e ne derivi un deturpamento dell’ambiente urbano, è facoltà del Comune di imporre ai proprietari di sistemare le fronti secondo progetto da approvarsi”.
La giurisprudenza ha affermato che un giudizio estetico negativo può aversi solo con riferimento ad aspetti (attinenti, per esempio, all’uso di particolari materiali e/o colori) espressamente previsti e disciplinati dalla normativa edilizia e/o paesaggistica, i quali debbono pertanto essere adeguatamente individuati in sede motivazionale mediante il richiamo alle pertinenti disposizioni (TAR Liguria, sez. I – 20/04/2010 n. 1834).
Nella fattispecie dall’esame delle fotografie a colori depositate in atti non traspare alcuna lesione del decoro urbano, né soprattutto alcuno “stridente contrasto” con il contesto circostante l’edificio dei ricorrenti. Quest’ultimo corrisponde perfettamente alla descrizione dagli stessi effettuata nella memoria finale, in quanto si presenta finito con un intonaco di malta cementizia di colore uniforme, in buono stato di manutenzione ed in alcun modo ammalorato (non sono infatti visibili distacchi o rigonfiamenti – cfr. doc. 7). E’ altresì evidente la somiglianza con una pluralità di fabbricati dell’abitato, ugualmente terminati con intonaco “a vista”, mentre si dà conto di altri manufatti connotati da un’evidente situazione di degrado. A queste considerazioni i ricorrenti hanno aggiunto il rilievo che l’edificio non ricade in zona interessata da vincolo paesaggistico
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 14.11.2012 n. 1787 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I provvedimenti con cui l'Ente locale rivendica somme a conguaglio dovute a titolo di oblazione o di oneri concessori non abbisognano di particolare motivazione, in quanto la determinazione di tali somme costituisce il risultato di una mera operazione materiale, applicativa di parametri stabiliti dalla legge o da norme di natura regolamentare stabilite dall'Amministrazione, sicché l'interessato può solo contestare l'erroneità dei conteggi effettuati dall'Ente.
Lo sviluppo logico di questi passaggi è presente alla parte ricorrente, che lo ripropone nella parte espositiva del suo ricorso, il che rende ragione dell’inconsistenza dell’ultima censura, argomentata sull’asserita violazione dell’art. 3 L. 241/1990; tanto più che –per costante giurisprudenza- i provvedimenti con cui l'Ente locale rivendica somme a conguaglio dovute a titolo di oblazione o di oneri concessori non abbisognano di particolare motivazione, in quanto la determinazione di tali somme costituisce il risultato di una mera operazione materiale, applicativa di parametri stabiliti dalla legge o da norme di natura regolamentare stabilite dall'Amministrazione, sicché l'interessato può solo contestare l'erroneità dei conteggi effettuati dall'Ente (cfr., ex multis, TAR Lecce sez. III, 10.01.2012, n. 16; TAR Catania sez. I, 07.07.2010, n. 2847; TAR Lazio sez. II, 15.04.2009, n. 3862)
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 14.11.2012 n. 1221 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il contributo relativo al costo di costruzione (art. 6, legge n. 10/1977), definibile acausale, è riconducibile all'attività costruttiva ex se considerata e, correlandosi direttamente all'uso edificatorio del suolo ed ai potenziali vantaggi economici che ne discendono, è sostanzialmente configurabile alla stregua dei prelievi di natura paratributaria ed è sempre dovuto in presenza di una trasformazione edilizia del territorio ed in conseguenza della produzione di ricchezza connessa alla sua utilizzazione.
Al contrario l'imposizione del contributo di urbanizzazione (art. 5, L. n. 10/1977) -il quale non ha natura di controprestazione in rapporto sinallagmatico, rispetto al rilascio della concessione edilizia, ma è assimilabile ai corrispettivi di diritto pubblico di natura non tributaria, che svolgono funzione recuperatoria non commisurata né all'utile dell'operazione né al vantaggio del concessionario– presenta natura causale e risponde ad una diversa ratio, che va individuata nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare sugli interessati che beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle opere medesime, in modo più equo per la comunità.
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Da quanto sopra discende che, nell'ipotesi di variazione di destinazione d'uso di un immobile senza la realizzazione di opere, mentre non sussiste il presupposto per il pagamento della parte di contributo afferente al costo di costruzione, da riferire al dato oggettivo della realizzazione dell'edificio, per la parte, invece, che attiene agli oneri di urbanizzazione, può sussistere il presupposto del pagamento, occorrendo avere riguardo all'eventuale aumento del carico urbanistico indotto dalla nuova destinazione d'uso del manufatto, dovendosi ritenere, per contro, che tali oneri non siano dovuti ove non sia riscontrabile alcuna variazione in aumento del carico urbanistico.
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Il cambio di destinazione d'uso, da locale a uso industriale a locale ad uso commerciale, ha certamente conferito all'immobile di proprietà della società ricorrente un'utilizzazione autonoma e produttiva, in relazione alla quale si giustifica il pagamento delle spese di urbanizzazione derivanti dal maggior carico urbanistico che esso comporta per effetto della nuova destinazione.
Invero, la giurisprudenza ha più volte affermato che la richiesta di pagamento degli oneri di urbanizzazione, in sede di rilascio della concessione edilizia, deve ritenersi illegittima ogni volta che non sia ravvisabile un aumento del carico urbanistico a seguito del realizzato intervento edilizio; e, correlativamente, legittima nel caso in cui si sia verificata una variazione in aumento del carico medesimo, giacché in tale evenienza sussiste il presupposto che giustifica l'imposizione al titolare del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se maggiori, dovuti per la nuova destinazione impressa all'immobile.

Con riferimento alle ulteriori censure va premesso che a fronte della modificazione della destinazione d'uso di un manufatto edilizio, la possibilità dello stesso di essere assoggettato a sanatoria (o condono edilizio) è subordinata al pagamento degli oneri concessori, vale a dire alla corresponsione di un contributo commisurato sia all'incidenza delle spese di urbanizzazione, sia al costo di costruzione.
In proposito, la giurisprudenza ha chiarito che il contributo relativo al costo di costruzione (art. 6, legge n. 10/1977), definibile acausale, è riconducibile all'attività costruttiva ex se considerata e, correlandosi direttamente all'uso edificatorio del suolo ed ai potenziali vantaggi economici che ne discendono, è sostanzialmente configurabile alla stregua dei prelievi di natura paratributaria ed è sempre dovuto in presenza di una trasformazione edilizia del territorio ed in conseguenza della produzione di ricchezza connessa alla sua utilizzazione; al contrario l'imposizione del contributo di urbanizzazione (art. 5, L. n. 10/1977) -il quale non ha natura di controprestazione in rapporto sinallagmatico, rispetto al rilascio della concessione edilizia, ma è assimilabile ai corrispettivi di diritto pubblico di natura non tributaria, che svolgono funzione recuperatoria non commisurata né all'utile dell'operazione né al vantaggio del concessionario (cfr. Cass. Civ., Sez. I, 27.09.1994, n. 7874)– presenta natura causale e risponde ad una diversa ratio, che va individuata nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare sugli interessati che beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle opere medesime, in modo più equo per la comunità (cfr. TAR Veneto, 17.06.2002, n. 2877; id., Sez. II, 12.05.1994, n. 394; TAR Salerno, Sez. II, 23.05.2003, n. 548; TAR Toscana, Sez. III, 11.08.2004, n. 3181).
Da quanto sopra discende che, nell'ipotesi di variazione di destinazione d'uso di un immobile senza la realizzazione di opere, mentre non sussiste il presupposto per il pagamento della parte di contributo afferente al costo di costruzione, da riferire al dato oggettivo della realizzazione dell'edificio, per la parte, invece, che attiene agli oneri di urbanizzazione, può sussistere il presupposto del pagamento, occorrendo avere riguardo all'eventuale aumento del carico urbanistico indotto dalla nuova destinazione d'uso del manufatto, dovendosi ritenere, per contro, che tali oneri non siano dovuti ove non sia riscontrabile alcuna variazione in aumento del carico urbanistico (cfr. TAR Veneto, Sez. II, 13.11.2001, n. 3699).
Con riferimento al caso specifico va rilevato che il cambio di destinazione d'uso, da locale a uso industriale a locale ad uso commerciale, ha certamente conferito all'immobile di proprietà della società ricorrente un'utilizzazione autonoma e produttiva, in relazione alla quale si giustifica il pagamento delle spese di urbanizzazione derivanti dal maggior carico urbanistico che esso comporta per effetto della nuova destinazione (cfr. TAR Veneto Sez. II Sent., 12.07.2007, n. 2438; TAR Lazio sez. II 17.05.2005, n. 3844).
Invero, la giurisprudenza ha più volte affermato che la richiesta di pagamento degli oneri di urbanizzazione, in sede di rilascio della concessione edilizia, deve ritenersi illegittima ogni volta che non sia ravvisabile un aumento del carico urbanistico a seguito del realizzato intervento edilizio; e, correlativamente, legittima nel caso in cui si sia verificata una variazione in aumento del carico medesimo, giacché in tale evenienza sussiste il presupposto che giustifica l'imposizione al titolare del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se maggiori, dovuti per la nuova destinazione impressa all'immobile (confr. Cons. Stato, Sez. IV, 29.04.2004, n. 2611; id., Sez. V, 15.09.1997, n. 959; TAR Milano, Sez. II, 02.10.2003, n. 4502; TAR Bologna, Sez. II, 19.02.2001, n. 157 e 07.05.1999, n. 259; TAR Veneto, n. 2877/2002, cit.).
Nel caso di specie, l’incremento del carico urbanistico costituisce dato pacifico, al pari della sussistenza dell’obbligo di pagamento degli oneri di urbanizzazione, risultando controverso unicamente il metodo di liquidazione degli stessi
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 14.11.2012 n. 1221 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: La classificazione acustica del territorio deve coordinarsi e non sovrapporsi meccanicamente alla pianificazione urbanistica, essa si caratterizza per la tendenziale omogeneità con la zonizzazione degli strumenti urbanistici, la quale costituisce l'imprescindibile punto di partenza per la classificazione del territorio.
Tuttavia, deve considerarsi che tale corrispondenza non è perfettamente biunivoca e che anzi esiste un naturale scollamento fra le due tipologie di pianificazione, poiché lo strumento urbanistico disciplina l'assetto del territorio ai fini prettamente urbanistici ed edilizi, individuando le zone omogenee con criteri quantitativi, mentre la classificazione acustica ha riguardo all'effettiva fruibilità dei luoghi, valendosi di indici qualitativi.
In altri termini, va considerato che, da un punto di vista funzionale, la pianificazione acustica non si esaurisce in un'attività di programmazione dell'assetto territoriale in senso stretto, non essendo diretta ad orientare lo sviluppo dal punto di vista urbanistico-edilizio, ma è rivolta a governare l’assetto del territorio sotto il distinto profilo della tutela ambientale e della salute umana, attraverso la più coerente ed opportuna localizzazione delle attività umane in relazione alla loro rumorosità.
Ne consegue che l’interpretazione teleologica della normativa in questione porta a valorizzare gli interessi protetti da tale disciplina, desumibili dall'art. 2, comma 1, lett. a), l. n. 447 del 1995, ossia la tutela del riposo e della salute, la conservazione degli ecosistemi, dei beni materiali, dei monumenti, dell'ambiente abitativo e dell'ambiente esterno.
Questo corrobora ulteriormente l’idea, da un lato, dell’autonomia tra le distinte sfere di pianificazione, urbanistica ed acustica, dall’altro della necessità, per l’amministrazione, di operare tali scelte contemperando i contrapposti interessi in gioco, esercitando, in tale ambito, poteri connotati da ampia discrezionalità tecnico amministrativa.
In questa ottica, pertanto, l'esigenza di salvaguardare le attività economiche già insediate sul territorio non può essere d’ostacolo a modifiche più restrittive alla zonizzazione acustica; essa è, piuttosto, come chiarito, un elemento da tenere in adeguata considerazione nella comparazione dei contrapposti interessi.
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L'amministrazione gode di un'ampia potestà discrezionale nella programmazione acustica del territorio, senza necessità di dare conto in modo specifico delle scelte adottate in ordine alla classificazione delle singole aree, salva la coerenza con i principi legislativi e con le linee generali poste a base della formazione del Piano stesso.
Considerato, infatti, il rapporto di regola-eccezione che intercorre tra la previsione che introduce il divieto di salto di classi e quello che ne ammette la deroga, mercé l’adozione, ove possibile, di adeguati piani di risanamento, il riferimento alla vicinanza ad una zona mista di classi IV e III aggiunge un significativo quid pluris, piuttosto che un deficit di motivazione, all’inidoneità di un piano che autorizzi siffatta deroga.

L’art. 4, co. 3, lett. a), l. n. 447 del 1995 stabilisce che “le regioni, entro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, definiscono con legge: a) i criteri in base ai quali i comuni, ai sensi dell'articolo 6, comma 1, lettera a), tenendo conto delle preesistenti destinazioni d'uso del territorio ed indicando altresì aree da destinarsi a spettacolo a carattere temporaneo, ovvero mobile, ovvero all'aperto procedono alla classificazione del proprio territorio nelle zone previste dalle vigenti disposizioni per l'applicazione dei valori di qualità di cui all'articolo 2, comma 1, lettera h), stabilendo il divieto di contatto diretto di aree, anche appartenenti a comuni confinanti, quando tali valori si discostano in misura superiore a 5 dBA di livello sonoro equivalente misurato secondo i criteri generali stabiliti dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 01.03.1991, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 57 dell'08.03.1991. Qualora nell'individuazione delle aree nelle zone già urbanizzate non sia possibile rispettare tale vincolo a causa di preesistenti destinazioni di uso, si prevede l'adozione dei piani di risanamento di cui all'articolo 7…”.
Ad avviso del Collegio occorre partire dall’analisi di tale normativa.
Ebbene, la stessa normativa, interpretata secondo criteri letterali e teleologici, assume la preesistente zonizzazione urbanistica come uno dei parametri attraverso cui determinare la zonizzazione acustica del territorio: non dunque come parametro unico ed esclusivo.
Ne è conferma il fatto che il legislatore prescrive di “tener conto” delle preesistenti destinazioni urbanistiche, ma non impone di trasfondere le stesse tal quali in corrispondenti classi acustiche.
Quanto appena evidenziato, trova riscontro nell’interpretazione già recepita da questo Tribunale, conformemente all’indirizzo della prevalente giurisprudenza, secondo la quale “la classificazione acustica del territorio deve coordinarsi e non sovrapporsi meccanicamente alla pianificazione urbanistica, essa si caratterizza per la tendenziale omogeneità con la zonizzazione degli strumenti urbanistici, la quale costituisce l'imprescindibile punto di partenza per la classificazione del territorio. Tuttavia, deve considerarsi che tale corrispondenza non è perfettamente biunivoca e che anzi esiste un naturale scollamento fra le due tipologie di pianificazione, poiché lo strumento urbanistico disciplina l'assetto del territorio ai fini prettamente urbanistici ed edilizi, individuando le zone omogenee con criteri quantitativi, mentre la classificazione acustica ha riguardo all'effettiva fruibilità dei luoghi, valendosi di indici qualitativi” (Tar Lombardia Milano, sez. IV 13.12.2010 n. 7545; Tar Veneto Venezia, sez. III 12.01.2011 n. 24).
In altri termini, va considerato che, da un punto di vista funzionale, la pianificazione acustica non si esaurisce in un'attività di programmazione dell'assetto territoriale in senso stretto, non essendo diretta ad orientare lo sviluppo dal punto di vista urbanistico-edilizio, ma è rivolta a governare l’assetto del territorio sotto il distinto profilo della tutela ambientale e della salute umana, attraverso la più coerente ed opportuna localizzazione delle attività umane in relazione alla loro rumorosità.
Ne consegue che l’interpretazione teleologica della normativa in questione porta a valorizzare gli interessi protetti da tale disciplina, desumibili dall'art. 2, comma 1, lett. a), l. n. 447 del 1995, ossia la tutela del riposo e della salute, la conservazione degli ecosistemi, dei beni materiali, dei monumenti, dell'ambiente abitativo e dell'ambiente esterno.
Questo corrobora ulteriormente l’idea, da un lato, dell’autonomia tra le distinte sfere di pianificazione, urbanistica ed acustica, dall’altro della necessità, per l’amministrazione, di operare tali scelte contemperando i contrapposti interessi in gioco, esercitando, in tale ambito, poteri connotati da ampia discrezionalità tecnico amministrativa.
In questa ottica, pertanto, l'esigenza di salvaguardare le attività economiche già insediate sul territorio non può essere d’ostacolo a modifiche più restrittive alla zonizzazione acustica; essa è, piuttosto, come chiarito, un elemento da tenere in adeguata considerazione nella comparazione dei contrapposti interessi.
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Tralasciato il profilo secondo cui, inquadrato il piano di zonizzazione acustica del territorio comunale tra i regolamenti, l'amministrazione gode di un'ampia potestà discrezionale nella programmazione acustica del territorio, senza necessità di dare conto in modo specifico delle scelte adottate in ordine alla classificazione delle singole aree, salva la coerenza con i principi legislativi e con le linee generali poste a base della formazione del Piano stesso (Tar Lombardia Brescia, sez. II 18.05.2012 n. 837), nel caso esaminato detta motivazione, fondata sulle dimensioni dell’area e sulla prossimità a zona in classe IV, ha consentito di tracciare in modo esauriente l’iter logico seguito dall’amministrazione. Né può ritenersi che il rilievo incentrato sulla vicinanza ad una area mista (classe IV e III) classificata in classe IV valga ex se a renderla contraddittoria.
Considerato, infatti, il rapporto di regola-eccezione che intercorre tra la previsione che introduce il divieto di salto di classi e quello che ne ammette la deroga, mercé l’adozione, ove possibile, di adeguati piani di risanamento, il riferimento alla vicinanza ad una zona mista di classi IV e III aggiunge un significativo quid pluris, piuttosto che un deficit di motivazione, all’inidoneità di un piano che autorizzi siffatta deroga.
Il rigetto, a questo punto, di tutti i motivi di ricorso trae seco anche la reiezione della domanda risarcitoria, sia perché essa è consequenziale alla dedotta illegittimità del provvedimento impugnato sia perché parte ricorrente non ha comunque offerto un principio di prova a supporto del pregiudizio risentito o del pericolo di danno pretesamene derivante dalle restrizioni all’esercizio dell’attività d’impresa, nelle ore notturne, ascrivibili alla contestata pianificazione acustica
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.11.2012 n. 2734 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire ed opere che lo richiedono.
Il permesso di costruire è necessario non soltanto per i manufatti tradizionalmente compresi nelle attività murarie, ma anche per le opere di ogni genere con le quali si intervenga sul suolo o nel suolo, indipendentemente dal mezzo tecnico con il quale è stata assicurata la stabilità del manufatto (tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.11.2012 n. 43142 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul diniego del permesso di costruire, in zona agricola, di una casa di campagna di lusso mascherata con sembianze attinenti all'edificio agricolo.
Considerato, nel merito, che:
- il gravato diniego di permesso di costruire è da ritenersi sorretto da adeguata e autosufficiente istruttoria e motivazione, nella misura in cui illustra perspicuamente e compiutamente le ragioni poste a suo fondamento;
- in particolare, l’amministrazione resistente ha evidenziato:
   -- l’incompatibilità dei manufatti progettati –per la relativa connotazione, propria delle “residenze di lusso, di livello superiore all’ordinario, con un’ampia consistenza e dotazione di impianti e servizi”– con la destinazione dell’area di intervento, ricadente in zona E (“verde agricolo”) ai sensi del vigente p.r.g. del Comune di Carinaro, nonché “sprovvista di opere di urbanizzazione, quali luce, strade, fogne, ecc.”;
   -- a riprova della vocazione non rurale dei predetti manufatti, la sostanziale coincidenza tra questi ultimi e quelli prospettati in altra domanda di permesso di costruire avente per oggetto “un edificio country house”;
   -- il significativo impatto volumetrico di quelle che indebitamente risultano qualificate come “pertinenze agricole” in sede di domanda di permesso di costruire;
   -- la sussistenza dei “presupposti di una lottizzazione abusiva sia materiale che cartolare ai sensi dell’art. 18 della l. n. 47/1985”;
- siffatti rilievi trovano, peraltro, concreto riscontro nella relazione tecnica allegata alla domanda di permesso di costruire del 14.10.2008 (prot. n. 9072) e depositata in giudizio dalla ricorrente il 29.04.2009;
- a tenore della citata relazione tecnica, il denegato progetto di “casa rurale” e di relative “pertinenze agricole” prevedeva, innanzitutto, un edificio articolato in “un piano seminterrato destinato al ricovero delle auto e/o macchine agricole”, in “un piano rialzato adibito in parte a residenza e in parte a pertinenza” e in “un primo piano in parte chiuso, da destinare al deposito/stoccaggio temporaneo del frumento, e in parte aperto, tale da garantire l’essiccazione dello stesso”;
- la parte residenziale, posta al piano rialzato ed avente una superficie complessiva pari a mq 159,36, era, a sua volta, suddivisa in una “zona giorno”, costituita da cucina e bagno, e in una “zona notte”, costituita da tre camere da letto e doppi accessori;
- l’accesso al primo piano era assicurato da un montacarichi, oltre che da una scala a tre rampe;
- un ulteriore corpo di fabbrica a pianta “pressoché rettangolare”, articolato su due livelli (piano interrato e piano terra) risultava, poi, adibito alle “pertinenze agricole”;
- trattasi, dunque, all’evidenza, di un complesso edilizio di cui l’amministrazione resistente, per il concorso di una serie di fattori architettonici, dimensionali e costruttivi –quali, segnatamente, lo sviluppo su due piani fuori terra, l’estensione, la distribuzione e la dotazione di servizi dell’abitazione, la presenza di un montacarichi, la consistenza delle strutture ‘pertinenziali’–, ha correttamente ravvisato la natura residenziale, incompatibile con la destinazione agricola dell’area di intervento (cfr. Cons. Stato, sez. V, 16.06.2009, n. 3853; sez. IV, 27.07.2011, n. 4505; 02.10.2012, n. 5188; TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, 15.02.2010, n. 178; 14.09.2011, n. 926; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 18.11.2011, n. 2143), e, per il collegamento puramente fittizio alla coltivazione ed allo sfruttamento produttivo del suolo –desumibile anche dalla coincidenza del progetto non assentito con quello implicante tutt’altra destinazione delle opere previste (“country house”)–, ha ragionevolmente inferito gli estremi di una lottizzazione abusiva (cfr. Cass. pen., sez. III, 27.10.2011, n. 46343) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 08.11.2012 n. 4490 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il muro di contenimento non è costruzione ex art. 873 c.c..
Come costantemente affermato dalla Suprema Corte in tema di distanze legali: <<…il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi "costruzione" agli effetti della disciplina di cui all'art. 873 c.c. per la parte che adempie alla sua specifica funzione e, quindi, dalle fondamenta al livello del fondo superiore, qualunque sia l'altezza della parete naturale o della scarpata o del terrapieno cui aderisce, impedendone lo smottamento>> (cfr. da ultimo Cassazione civile, sez. VI, 13.09.2012, n. 15391).
Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi per la parte di muro sopraelevata sul muro di contenimento a scopo di recinzione, che non può, ai sensi dell’art. 878, co. 1 c.c., essere considerata ai fini del computo delle distanze, laddove l’altezza complessiva sia contenuta nei limiti fissati dalla normativa comunale (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.11.2012 n. 2687 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALo speciale regime di gratuità di cui all'art. 9, comma 1, lett. f), della L. 10/1977 richiede il concorso di due requisiti, il primo dei quali di carattere soggettivo che si risolve nell'esecuzione delle opere da parte degli Enti istituzionalmente competenti: anche aderendo all’indirizzo che ammette l’iniziativa del privato, questo deve agire per conto di un Ente pubblico, come nell’istituto della concessione di opera pubblica o in altre analoghe figure organizzatorie ove l’intervento è realizzato da soggetti non animati dallo scopo di lucro o che accompagnano tale obiettivo con un legame istituzionale con l’azione dell’amministrazione per la cura degli interessi della collettività. Poiché è assente il titolo concessorio, la Società ricorrente è priva della qualità di Ente istituzionalmente competente.
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Il quadro normativo prevede un’ipotesi di esenzione totale dal contributo di costruzione (art. 17, comma 3, lett. c), del D.P.R. 380/2001, che riproduce l’art. 9, comma 1, lett. f), di cui si controverte) “… Nell’ipotesi relativa all’esenzione totale il privato realizza un’opera espressamente qualificata di interesse pubblico nello strumento urbanistico generale o nei piani attuativi. Essendovi una tale previsione urbanistica l’utilità per l’amministrazione deriva direttamente dalla realizzazione dell’opera e pertanto l’esenzione è automatica. Non ricorre tuttavia questa fattispecie quando lo strumento urbanistico si limita ad autorizzare una destinazione d’uso implicante la realizzazione di opere astrattamente qualificabili come urbanizzazioni”.
Nella fattispecie è pacifico che il P.R.G. per tempo vigente prevede espressamente la realizzazione della Caserma dei Carabinieri sull’area ove l’opera è stata poi in concreto realizzata. Il punto controverso è la riconducibilità della struttura nel “genus” delle opere di urbanizzazione.
L’art. 4 della L. 348/1964 –nell’elencare le opere di urbanizzazione secondaria– individua esplicitamente:
a) asili nido e scuole materne;
b) scuole dell'obbligo nonché strutture e complessi per l'istruzione superiore all'obbligo;
c) mercati di quartiere;
d) delegazioni comunali;
e) chiese ed altri edifici religiosi;
f) impianti sportivi di quartiere;
g) centri sociali e attrezzature culturali e sanitarie;
h) aree verdi di quartiere.
In proposito il Collegio concorda con l’indirizzo espresso dal Consiglio di Stato secondo il quale l’elenco delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria non deve intendersi tassativo e vincolato, per cui debbono ritenersi rientrare nella nozione di opere di urbanizzazione previste dalla normativa anche quelle realizzazioni di specifica rilevanza pubblica e sociale, qual è certamente la costruzione di un immobile da adibirsi a caserma dei Vigili del fuoco.
In particolare si può puntualizzare che –se la disposizione rilevante in questa sede (art. 9 della L. 10/1977) è considerata dalla giurisprudenza di stretta interpretazione (in quanto introduce talune ipotesi di deroga alla previsione generale la quale assoggetta a contributo tutte le opere che comportino trasformazione del territorio)– la struttura in esame dà risposta in via immediata e diretta ad interessi collettivi di primario spessore, di tutela della salute e della sicurezza pubblica: per questo si può affermare la sua capacità di fare fronte a bisogni assimilabili a quelli soddisfatti da un impianto sportivo o da un Centro culturale (e correlati ai valori dello sviluppo del benessere e della personalità).
D’altronde la norma valorizza proprio la decisione dell’amministrazione di qualificare la pianificazione con l’indicazione specifica dell’opera da realizzare, sicché non si concorda con quell’orientamento che esclude l’assimilazione alle opere di urbanizzazione in ragione dell’aggravio del carico urbanistico e della permanenza della proprietà privata, trattandosi di requisiti di carattere negativo che il legislatore non prevede.

La Società ricorrente lamenta l’erronea esazione degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione da parte del Comune di Castiglione in sede di rilascio del titolo abilitativo per la costruzione della nuova Caserma dei Carabinieri.
Il Comune eccepisce l’inammissibilità del gravame per acquiescenza, poiché parte ricorrente (cfr. suo doc. 12) ha realizzato direttamente alcune opere di urbanizzazione concordando lo scomputo degli oneri dovuti per alcuni interventi edilizi, tra i quali figura la Caserma dei Carabinieri.
L’eccezione è infondata, poiché l'acquiescenza presuppone una condotta consapevole, da parte dell'avente titolo all'impugnazione, che sia libera e inequivocabilmente diretta ad accettare l'assetto di interessi definito dall'amministrazione attraverso gli atti oggetto di contestazione, ed inoltre occorre che sia posta in essere anteriormente all’iniziativa giurisdizionale, così da assumere il significato indiscutibile di rinuncia preventiva alla stessa (Consiglio Stato, sez. IV – 27/06/2008 n. 3255; 02/10/2006 n. 5743; TAR Campania Napoli, sez. IV – 03/08/2009 n. 4638, appellata).
Nel caso in esame difetta il requisito della condotta univoca, ed anzi dall’esame della documentazione versata in atti (doc. 3 e 3-bis di parte ricorrente) traspare una volontà di segno contrario poiché Rudiana Immobiliare ha accettato di pagare il contributo con riserva di ripetere quanto indebitamente versato; in secondo luogo la presente causa è stata instaurata ben prima che fosse avanzata la richiesta di scomputo invocata dall’amministrazione. Peraltro è stato persino evidenziato che, con riguardo agli oneri concessori, non ricorre il requisito dell’univoca manifestazione di volontà dell'interessato di rinunciare all'esperimento della tutela giurisdizionale anche nel caso in cui, al momento del ritiro della concessione edilizia, il richiedente non abbia avanzato riserva alcuna circa la debenza di detti oneri, in quanto tale comportamento risponde all’esigenza di dare avvio senza indugi all'opera edilizia (TAR Toscana Firenze, sez. III – 11/03/2004 n. 671).
Passando all’esame del merito, parte ricorrente denuncia la violazione dell’art. 9, comma 1, lett. f), della L. 10/1977, dato che il contributo non è dovuto per le opere di urbanizzazione eseguite –anche da privati– in esecuzione degli strumenti urbanistici, e il P.R.G. del Comune di Castiglione destina specificamente l’area in questione a Caserma dei Carabinieri (opera di urbanizzazione secondaria) e nessun’altra edificazione è consentita sul lotto.
La difesa comunale oppone la mancata classificazione della “Caserma dei Carabinieri” come opera di urbanizzazione secondaria: la zona è destinata a servizi pubblici in genere e la caserma non costituisce opera di urbanizzazione (non essendo contemplata nell’elenco di cui all’art. 4 della L. 29/09/1964 n. 847) ma servizio pubblico.
L’impostazione della ricorrente è condivisibile.
Non è suscettibile di applicazione la prima parte della lett. f), nella parte in cui prevede l’esenzione dal pagamento del contributo per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti. Come ha recentemente messo in luce questa Sezione (sentenza 24/08/2012 n. 1467) lo speciale regime di gratuità di cui alla lett. f) richiede il concorso di due requisiti, il primo dei quali di carattere soggettivo che si risolve nell'esecuzione delle opere da parte degli Enti istituzionalmente competenti: anche aderendo all’indirizzo che ammette l’iniziativa del privato, questo deve agire per conto di un Ente pubblico, come nell’istituto della concessione di opera pubblica o in altre analoghe figure organizzatorie ove l’intervento è realizzato da soggetti non animati dallo scopo di lucro o che accompagnano tale obiettivo con un legame istituzionale con l’azione dell’amministrazione per la cura degli interessi della collettività (Consiglio di Stato, sez. IV – 10/05/2005 n. 2226). Poiché è assente il titolo concessorio, la Società ricorrente è priva della qualità di Ente istituzionalmente competente.
La questione a questo punto da affrontare riguarda la seconda parte della disposizione. Il Collegio richiama il proprio precedente (TAR Brescia – 27/11/2008 n. 1704) ove si è osservato che il quadro normativo prevede un’ipotesi di esenzione totale dal contributo di costruzione (art. 17, comma 3, lett. c), del D.P.R. 380/2001, che riproduce l’art. 9, comma 1, lett. f), di cui si controverte) “… Nell’ipotesi relativa all’esenzione totale il privato realizza un’opera espressamente qualificata di interesse pubblico nello strumento urbanistico generale o nei piani attuativi. Essendovi una tale previsione urbanistica l’utilità per l’amministrazione deriva direttamente dalla realizzazione dell’opera e pertanto l’esenzione è automatica. Non ricorre tuttavia questa fattispecie quando lo strumento urbanistico si limita ad autorizzare una destinazione d’uso implicante la realizzazione di opere astrattamente qualificabili come urbanizzazioni”.
Nella fattispecie è pacifico che il P.R.G. per tempo vigente prevede espressamente la realizzazione della Caserma dei Carabinieri sull’area ove l’opera è stata poi in concreto realizzata. Il punto controverso è la riconducibilità della struttura nel “genus” delle opere di urbanizzazione.
L’art. 4 della L. 348/1964 –nell’elencare le opere di urbanizzazione secondaria– individua esplicitamente:
a) asili nido e scuole materne;
b) scuole dell'obbligo nonché strutture e complessi per l'istruzione superiore all'obbligo;
c) mercati di quartiere;
d) delegazioni comunali;
e) chiese ed altri edifici religiosi;
f) impianti sportivi di quartiere;
g) centri sociali e attrezzature culturali e sanitarie;
h) aree verdi di quartiere.
In proposito il Collegio concorda con l’indirizzo espresso dal Consiglio di Stato (sentenza sez. V – 18/09/2003 n. 5315), secondo il quale l’elenco delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria non deve intendersi tassativo e vincolato, per cui debbono ritenersi rientrare nella nozione di opere di urbanizzazione previste dalla normativa anche quelle realizzazioni di specifica rilevanza pubblica e sociale, qual è certamente la costruzione di un immobile da adibirsi a caserma dei Vigili del fuoco.
In particolare si può puntualizzare che –se la disposizione rilevante in questa sede (art. 9 della L. 10/1977) è considerata dalla giurisprudenza di stretta interpretazione (in quanto introduce talune ipotesi di deroga alla previsione generale la quale assoggetta a contributo tutte le opere che comportino trasformazione del territorio)– la struttura in esame dà risposta in via immediata e diretta ad interessi collettivi di primario spessore, di tutela della salute e della sicurezza pubblica: per questo si può affermare la sua capacità di fare fronte a bisogni assimilabili a quelli soddisfatti da un impianto sportivo o da un Centro culturale (e correlati ai valori dello sviluppo del benessere e della personalità).
D’altronde la norma valorizza proprio la decisione dell’amministrazione di qualificare la pianificazione con l’indicazione specifica dell’opera da realizzare, sicché non si concorda con l’orientamento (TAR Emilia Romagna Bologna, sez. II – 12/10/2010 n. 7956) che esclude l’assimilazione alle opere di urbanizzazione in ragione dell’aggravio del carico urbanistico e della permanenza della proprietà privata, trattandosi di requisiti di carattere negativo che il legislatore non prevede.

In conclusione la domanda è fondata e deve essere accolta (restando assorbito l’ulteriore profilo formale dedotto): il Comune ha erroneamente preteso il contributo di costruzione e gli oneri di urbanizzazione, che devono essere restituiti (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 07.11.2012 n. 1772 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASe si sia, nel caso di specie, in presenza di una nuova attività di allevamento, soggetta all’obbligo del rispetto delle distanze minime imposto dal regolamento di igiene, ovvero all’adeguamento, previo rilascio di una nuova autorizzazione, di un’attività già esistente, legittimata a continuare il suo esercizio anche in deroga all’obbligo delle distanze minime.
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Ai fini della verifica del rispetto delle distanze legali tra edifici, non sono computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano una funzione meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria di limitata entità (come le mensole, i cornicioni, le grondaie e simili); sono, invece, computabili, rientrando nel concetto civilistico di costruzione, le parti dell'edificio (quali scale, terrazze e corpi avanzati) che, benché non corrispondano a volumi abitativi coperti, siano destinati a estendere e ampliare la consistenza del fabbricato. Ne deriva che anche il lato esterno del portico deve, pertanto, essere considerato al fine della verifica del rispetto della distanza minima.
Peraltro deve tenersi in debito conto il concetto generale in materia edilizia, in ragione del quale, per la sua natura e consistenza costituisce "nuova costruzione" ex art. 3, lettera e5), d.p.r. n. 380/2001 che esclude dall'ambito applicativo della norma i soli manufatti che, indipendentemente dalla loro amovibilità, "non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee".

Al fine della definizione della controversia in esame, attinente al lamentato mancato rispetto delle distanze minime intercorrenti tra l’abitazione del ricorrente e l’allevamento controinteressato, deve, in primo luogo, risolversi la querelle se si sia, nel caso di specie, in presenza di una nuova attività di allevamento, soggetta all’obbligo del rispetto delle distanze minime imposto dal regolamento di igiene, ovvero all’adeguamento, previo rilascio di una nuova autorizzazione, di un’attività già esistente, legittimata a continuare il suo esercizio anche in deroga all’obbligo delle distanze minime.
A tal fine viene in soccorso il regolamento di igiene comunale. Esso ammette gli ampliamenti di allevamenti esistenti e dismessi da meno di tre anni, purché nel rispetto delle distanze preesistenti. Se, dunque, la deroga all’obbligo delle distanze minime è ammessa nel caso di ampliamenti di stabilimenti già esistenti, purché entro il termine massimo di tre anni dalla loro chiusura e a condizione che non intervengano variazioni nelle distanze già esistenti, deve presumersi che la stessa possa, a maggior ragione, trovare applicazione anche nel caso in cui lo stabilimento non sia stato ampliato, ma solo adeguato alla sopravvenuta normativa attraverso un complesso iter che ha conosciuto una molteplice serie di solleciti e proroghe di termini e la successiva declaratoria di decadenza dall’originaria autorizzazione, cui ha fatto seguito, però, il rilascio di una nuova autorizzazione al suo esercizio.
Invero, nel caso di specie, appare ragionevole ritenere che un ampliamento vi sia in concreto stato, dal momento che sono stati realizzati ex novo quattro box esterni in sostituzione di quelli preesistenti e il cui utilizzo era stato negato dall’autorizzazione del 2001. Peraltro, a prescindere dal fatto che vi sia stato, o meno, nel caso di specie, un ampliamento (accertamento di per sé irrilevante, dal momento che la norma comunque lo ammetterebbe) ciò che appare determinante è che dal regolamento richiamato si deve desumere che, per quanto di rilievo, un’autorizzazione non può essere considerata “nuova” se non dopo almeno tre anni dalla dismissione del precedente allevamento.
In altre parole, il fatto che l’edificio fosse già adibito ad allevamento è sufficiente a rendere possibile la ripresa dell’attività, nel rispetto delle distanza preesistenti ed entro il termine massimo di tre anni dalla dismissione, a prescindere dal fatto che l’esercizio dell’attività sia stato continuativamente autorizzato o, al contrario, interrotto.
Nel caso di specie risulta rispettata la prima condizione, essendo stata rilasciata la nuova dichiarazione a pochi giorni di distanza dalla decadenza della originaria. Né può rilevare in senso contrario il cambio di denominazione subito dall’azienda agricola esercitante l’attività di allevamento in questione.
Chiarito, dunque, che ci si trova in presenza di un allevamento “esistente”, si rende allora necessario verificare il rispetto della seconda condizione e cioè se la preesistente distanza dall’abitazione del ricorrente sia stata rispettata e non anche ulteriormente ridotta, come invece lamentato da parte ricorrente.
Nell’ottica di tale verifica viene in rilievo il par. 3.10.5 del regolamento d’igiene, il quale prevede che, ai fini del rispetto delle distanze minime, l’allevamento debba essere considerato come il perimetro dei fabbricati adibiti a ricovero.
Ci si deve, però, allora, interrogare sul concetto di “perimetro”.
Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia, “ai fini della verifica del rispetto delle distanze legali tra edifici, non sono computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano una funzione meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria di limitata entità (come le mensole, i cornicioni, le grondaie e simili); sono, invece, computabili, rientrando nel concetto civilistico di costruzione, le parti dell'edificio (quali scale, terrazze e corpi avanzati) che, benché non corrispondano a volumi abitativi coperti, siano destinati a estendere e ampliare la consistenza del fabbricato” (Consiglio Stato, sez. IV, 27.01.2010, n. 424; Corte appello Brescia, sez. II, 18.05.2009; Consiglio Stato, sez. IV, 30.06.2005, n. 3539). Ne deriva che anche il lato esterno del portico deve, pertanto, essere considerato al fine della verifica del rispetto della distanza minima.
Peraltro deve tenersi in debito conto il concetto generale in materia edilizia, in ragione del quale, per la sua natura e consistenza costituisce "nuova costruzione" ex art. 3, lettera e5), d.p.r. n. 380/2001 che esclude dall'ambito applicativo della norma i soli manufatti che, indipendentemente dalla loro amovibilità, "non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee".
Il Collegio ritiene, pertanto, che sia escluso che i box esterni, per il solo fatto di essere stati realizzati in rete metallica, non debbano essere considerati ai fini del rispetto delle distanze minime o non possano essere, in linea di principio, riconducibili al concetto di ampliamento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 07.11.2012 n. 1766 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Recinzione con rete metallica e permesso di costruire.
Non è necessario il permesso di costruire per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, e cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno e senza muretto di sostegno.
Entro tali limiti, infatti, la recinzione rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo “ius excludendi alios”, e non comporta di norma trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, a differenza di altre e diverse ipotesi in cui la recinzione stessa non assume solo la funzione ora descritta ma dà luogo ad una trasformazione ulteriore mediante installazione di elementi non strettamente necessari alla sua primaria funzione, quali, ad esempio, un muretto di sostegno in calcestruzzo lungo tutto il perimetro.
Tale conclusione deve ritenersi applicabile anche ai relativi cancelli, che ugualmente, se inseriti nella recinzione in semplice rete, non dà luogo a trasformazione urbanistica tale da richiedere il permesso di costruire.

In particolare, secondo la prevalente giurisprudenza, condivisa dal Collegio, non è necessario il permesso di costruire per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, e cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno e senza muretto di sostegno (ex multis, TAR Veneto, Sez. II, 07.03.2006, n. 533; TAR Campania Napoli, sez. VII, 04.07.2007, n. 6458; TAR Emilia Romagna Bologna, sez. II, 26.01.2007, n. 82).
Entro tali limiti, infatti, la recinzione rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo “ius excludendi alios”, e non comporta di norma trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, a differenza di altre e diverse ipotesi in cui la recinzione stessa non assume solo la funzione ora descritta ma dà luogo ad una trasformazione ulteriore mediante installazione di elementi non strettamente necessari alla sua primaria funzione, quali, ad esempio, un muretto di sostegno in calcestruzzo lungo tutto il perimetro (ex multis, TAR Basilicata Potenza, 19.09.2003, n. 897; TAR Liguria, Sez. I, 11.09.2002, n. 961; TAR Toscana, Sez. I, 26.03.2009, n. 521; TAR Toscana, Sez. II, 13.10.2009, n. 1532).
Tale conclusione deve ritenersi applicabile anche ai relativi cancelli, che ugualmente, se inseriti nella recinzione in semplice rete, non dà luogo a trasformazione urbanistica tale da richiedere il permesso di costruire (cfr., TAR Lombardia, Brescia, n. 574/2011; TAR Campania, sez. VII, n. 1222/2009; TAR Lazio, sez. II, n. 8777/2008) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 26.10.2012 n. 1733 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Valutazione tecnico-economica immobile abusivo.
Il mutamento di destinazione d’uso da cantina ad abitazione comporta, indipendentemente dalla realizzazione o meno di opere ad esso preordinate, un aggravamento degli standards urbanistici e, pertanto, necessita di permesso di costruire secondo quanto previsto dagli artt. 16 e 17, lettera a), l.r. n. 15/2008 “Vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia”.
La norma regionale richiamata deve essere interpretata in senso coerente con la normativa nazionale (d.p.r. n. 380/2001) per cui la valutazione “tecnico-economica”, è insita nell’accertamento di abusività del manufatto dovendosi, invece, escludere l’esistenza di un potere discrezionale in capo agli organi comunali in quanto incompatibile con il carattere vincolato del provvedimento di demolizione quale è prefigurato dal d.p.r. n. 380/2001 (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 18.10.2012 n. 8645 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Annullamento del Soprintendente del parere comunale per trasformazione della originaria tettoia con struttura in ferro.
E’ legittimo il Decreto di annullamento del Soprintendente per i Beni Architettonici e Paesaggistici, in relazione alla trasformazione della originaria tettoia con struttura in ferro e copertura in lamiera ondulata del tutto differente per materiali e configurazione rispetto a quella esistente. Trattandosi di elemento strutturale e non funzionale, non può trovare applicazione il disposto dell’art. 43 della legge n. 47/1985. Infatti, è ammessa la sanatoria qualora provvedimenti amministrativi o giurisdizionali abbiano impedito l'ultimazione dell'opera entro la data ultima fissata per il cosiddetto condono edilizio, ma a condizione che si tratti di lavori destinati a consentire la funzionalità delle opere stesse, con esclusione, quindi, di ogni intervento strutturale.
In altre parole la struttura realizzata deve presentare le caratteristiche di un intervento nel quale sia possibile già cogliere la specificità e i tratti essenziali dell'edificio (Cons. Stato, Sez. IV, 03.05.2000, n. 2614) e, dunque, suscettibile di una sicura identificazione edilizia, sia dal punto di vista strutturale che da quello della destinazione. In questa direzione è stato in particolare osservato che le opere suscettive di sanatoria sono quelle necessariamente comprensive delle tamponature esterne che realizzino in concreto i volumi rendendoli individuabili ed esattamente calcolabili (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 15.10.2012 n. 4105 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI provvedimenti sanzionatori in materia edilizia hanno carattere strettamente vincolato, onde l’omessa comunicazione di avviso di avvio del procedimento sanzionatorio non risulta rilevante nella specie, in quanto in presenza dell’abuso contestato l’esito del procedimento non avrebbe potuto essere diverso.
Il puntuale riferimento al rapporto ed alle opere ivi menzionate così come alla normativa sanzionatoria applicata integra una motivazione adeguata, sia in relazione all’istruttoria compiuta che all’esternazione dell’iter logico-giuridico seguito, tenuto conto della natura vincolata dell’atto adottato, nonché idonea ad evidenziare con la necessaria chiarezza le opere cui l’ingiunzione demolitoria, volta al ripristino della situazione preesistente, si riferisce.
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Il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è quello vigente al momento dell’irrogazione della sanzione e non già quello in vigore all’epoca della realizzazione dell’abuso non avendo tali sanzioni natura afflittiva bensì ripristinatoria del corretto assetto del territorio.
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Spetta agli interessati dimostrare, ai fini dell’applicazione della sanzione pecuniaria alternativa, l’impossibilità di demolizione dell’abuso senza pregiudizio della parte conforme.

I provvedimenti sanzionatori in materia edilizia hanno carattere strettamente vincolato, onde l’omessa comunicazione di avviso di avvio del procedimento sanzionatorio non risulta rilevante nella specie, in quanto in presenza dell’abuso contestato l’esito del procedimento non avrebbe potuto essere diverso.
Il puntuale riferimento al rapporto ed alle opere ivi menzionate così come alla normativa sanzionatoria applicata integra una motivazione adeguata, sia in relazione all’istruttoria compiuta che all’esternazione dell’iter logico-giuridico seguito, tenuto conto della natura vincolata dell’atto adottato, nonché idonea ad evidenziare con la necessaria chiarezza le opere cui l’ingiunzione demolitoria, volta al ripristino della situazione preesistente, si riferisce.
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Va innanzi tutto premesso, che il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è quello vigente al momento dell’irrogazione della sanzione e non già quello in vigore all’epoca della realizzazione dell’abuso (cfr., ex multis, TAR Liguria, sez. I, 21.04.2009, n. 779; TAR Piemonte, sez. I, 05.05.2004, n. 762) –nella specie, peraltro, non provata– non avendo tali sanzioni natura afflittiva bensì ripristinatoria del corretto assetto del territorio.
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Quanto, infine, all’ultimo motivo di ricorso, è sufficiente rilevare che spetta agli interessati dimostrare, ai fini dell’applicazione della sanzione pecuniaria alternativa, l’impossibilità di demolizione dell’abuso senza pregiudizio della parte conforme, dimostrazione non fornita, invece, nella specie
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 27.09.2012 n. 1568 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza distingue il concetto di pertinenza previsto dal codice civile (artt. 817 e ss.) da quello inteso in senso urbanistico, lì dove non assumono carattere pertinenziale quei manufatti che pur svolgendo, come nel caso di specie, una funzione servente rispetto al fabbricato principale hanno dimensioni e caratteristiche di una certa consistenza, tali da costituire una trasformazione dello stato dei luoghi.
In particolare, la giurisprudenza ha avuto modo di affermare che anche ove ricorra un rapporto “pertinenziale” (in senso civilistico) ciò non può giustificare la realizzazione di opere di rilevante consistenza solo perché direttamente al servizio della cosa principale.

La giurisprudenza distingue il concetto di pertinenza previsto dal codice civile (artt. 817 e ss.) da quello inteso in senso urbanistico, lì dove non assumono carattere pertinenziale quei manufatti che pur svolgendo, come nel caso di specie, una funzione servente rispetto al fabbricato principale hanno dimensioni e caratteristiche di una certa consistenza, tali da costituire una trasformazione dello stato dei luoghi (cfr. questa Sezione n. 605 del 27/11/2006).
In particolare, la giurisprudenza ha avuto modo di affermare che anche ove ricorra un rapporto “pertinenziale” (in senso civilistico) ciò non può giustificare la realizzazione di opere di rilevante consistenza, come quelle qui in rilievo, solo perché direttamente al servizio della cosa principale (cfr. questo TAR, Sezione I n. 785 del 09/05/2000).
E, pertanto, nel caso di specie, tenuto anche conto che non è stato in alcun modo dimostrato che l’intervento in questione abbia comportato la realizzazione di un volume inferiore al 20% del volume dell’edificio principale, non può ritenersi che si tratti di mera pertinenza, ma della realizzazione di un intervento qualificabile come addizione volumetrica non pertinenziale, secondo quanto disposto dalla L.R.T. n. 52/1999, ovvero come ristrutturazione con ampliamento, secondo quanto disposto dal D.P.R. n. 380/2001, assoggettabile, in entrambi i casi a concessione edilizia/permesso di costruire, e, in mancanza del necessario titolo edilizio, a sanzione demolitoria
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 27.09.2012 n. 1568 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di opere di spianamento e riporto di terreno.
Integra il reato previsto dall'art. 44 d.P.R 06.06.2001, n. 380 la realizzazione, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, di opere di spianamento e riporto di terreno (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.07.2012 n. 29466 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Procedura di localizzazione e realizzazione di impianti produttivi.
Il perfezionamento della procedura prevista dagli artt. 4 e 5 del d.P.R. 20.10.1998, n. 447, relativa alla localizzazione e alla realizzazione di impianti produttivi, non produce l'effetto di sanare o comunque di elidere le violazioni urbanistiche già compiute e sanzionate dall'art. 44 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.07.2012 n. 27304 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: La Cassazione chiarisce i significati di volume tecnico e pertinenza urbanistica. Il titolo edilizio non può essere eluso parcellizzando l’attività.
Costituisce orientamento consolidato che, “mentre il muro di cinta può essere ricondotto alla categoria delle pertinenze, non così il muro di contenimento che viene assimilato alla categoria delle costruzioni”.
Infatti “Nel caso in cui lo scopo della realizzazione sia la delimitazione della proprietà si ricade nell’ipotesi della pertinenza, per cui non è necessario il rilascio della concessione. Diversa è la situazione, allorché il muro è destinato non solo a recingere un fondo, ma contiene o sostiene esso stesso dei volumi ulteriori; in tal caso il manufatto ha una funzione autonoma, dal punto di vista edilizio e da quello economico”, “si eleva al di sopra del suolo ed è destinato a trasformare durevolmente l’area impegnata, come tale qualificabile intervento di nuova costruzione”, con conseguente necessità del permesso di costruire.

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Con la
sentenza 14.02.2012 n. 5618 la Corte di Cassazione, Sez. III penale, fa nuovamente il punto su alcune importanti questioni in materia di titoli abilitativi edilizi e di inerenti fattispecie criminose, con particolare riguardo a quelle realizzate mediante pratiche elusive.
Le questioni rilevanti.
Vengono in rilevo, segnatamente, le seguenti questioni:
- l’individuazione dell’ambito di riferimento del permesso di costruire, se come intervento complessivo ovvero come singole opere in cui esso si estrinseca, con quanto ne consegue in ordine al fenomeno della parcellizzazione dell’attività edificatoria;
- la nozione di “volume tecnico” e la sua riferibilità o meno alle parti di edificio destinate all’assolvimento di funzioni complementari;
- la puntualizzazione del concetto di “pertinenza urbanistica”, con particolare riferimento ai profili della strumentalità funzionale e della individualità strutturale rispetto all’edificio principale.
Le soluzioni.
La pronuncia in commento riafferma, ponendosi in linea di continuità con una consolidata giurisprudenza sia di legittimità che amministrativa, la rilevanza penale degli interventi edilizi che non trovino abilitazione in un corrispondente permesso di costruire, nonché l’approccio sostanziale che deve guidare tali riscontri.
La suddivisione dell’attività edificatoria.
Viene ribadito, segnatamente, che la realizzazione di opere riguardanti un preesistente fabbricato necessita sempre di un permesso di costruire, la cui valenza abilitativa va riferita all’intervento complessivo, al fine di evitare che i vincoli urbanistici possano essere aggirati per il tramite di pratiche elusive consistenti nella artificiosa parcellizzazione dell’attività edificatoria.
Invero, il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso attraverso la suddivisione dell’attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, facendo leva sul fatto che le stesse sono astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate, in ragione della loro più modesta incisività sull’assetto territoriale. Per contro, l’opera deve essere sempre “considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti” (Cass., sez. III, sent. 29.01.2003; sent. 11.10.2005).
Al citato fine antielusivo, la Cassazione puntualizza inoltre i contenuti di alcune nozioni urbanistiche che sovente sono invocate al fine, per l’appunto stigmatizzato dal Giudice della legittimità, di reperirvi una pretesa giustificazione in ordine a interventi edilizi sostanzialmente ampliativi dei fabbricati preesistenti.
Il volume tecnico.
Un primo concetto in tal senso esaminato è quello di volume tecnico. La Cassazione ne ribadisce una interpretazione restrittiva, rigorosamente ancorata al dato funzionale e perimetrata in termini di effettiva indispensabilità tecnica. In questa prospettiva, richiamandosi la risalente e consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. V, sent. n. 6038 del 16.09.2004), vengono individuati come tali esclusivamente i volumi che siano “strettamente necessari a consentire l’eccesso di quelle parti degli impianti tecnici che non possono, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti stessi, trovare allocazione all’interno della parte abitativa dell’edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche”.
Trattasi, in altri termini, di volumi “che, per funzione e dimensione, si pongono rispetto alla costruzione come elementi tecnici essenziali per l’utilizzazione della stessa” (Cons. Stato, sez. V, sent. n. 239/1982; sez. V, sent. n. 44/1991) e ai quali, soltanto e nella misura delineata dalla necessità tecnica ineludibile, è consentito eccedere rispetto ai limiti urbanistici posti alla parte abitativa, la quale, diversamente, si vedrebbe pregiudicata con riferimento a profili funzionali essenziali.
Dalle esposte premesse discende una serie di più articolate conseguenze. In primis, quella per cui i volumi tecnici, quali “parti di edificio destinate a comprendere gli impianti tecnici che, per la loro funzionalità, non possono essere contenuti entro i limiti volumetrici previsti dalla legge” (Cass., sez. III, sent. 28.10.1981), non possono mai fare riferimento all’intero edificio, legittimandone indifferenziati e generalizzati aumenti di volume, bensì soltanto a porzioni ben individuate dell’edificio stesso, la cui eccedenza rispetto ai limiti urbanistici non può che essere commisurata e perimetrata in ragione di quanto necessario e sufficiente ad assicurare la funzionalità degli impianti.
Ne discende, ancora, che possono qualificarsi come volumi tecnici soltanto quelli destinati a ospitare “le parti degli impianti tecnici che non possono, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti stessi, trovare allocazione all’interno della parte abitativa dell’edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche”, con esclusione dunque di ogni ampliamento volumetrico che fosse invece finalizzato a contenere parti di impianti
che ben potrebbero, senza alcun pregiudizio funzionale, essere localizzate e contenute all’interno della parte abitativa.
Ulteriore corollario attiene al fatto che i volumi tecnici “non sono utilizzabili né adattabili a uso abitativo” (Cons. Stato, sez. V, sent. n. 638/2004, richiamata da Cass., sez. III, sent. n. 5618/2012 in commento), non potendosi, in buona sostanza, approfittare della copertura offerta dal regime abilitativo di favore consentito, in via di stretta eccezione, per fronteggiare le necessità tecniche essenziali ineludibili degli impianti al fine distorto ed elusivo dei vincoli urbanistici e, come tale, illecito di espandere il volume della parte abitativa oltre quanto obiettivamente indispensabile in relazione alle necessità tecniche suddette.
Un’altra importante conseguenza è quella per cui i volumi tecnici “non ricomprendono quelli suscettibili di assolvere a funzioni complementari” (Cons. Stato, sez. V, sent. n. 239 del 19.03.1982; sez. V, sent. n. 44 del 14.01.1991). Ciò è connesso al carattere di “funzionalità essenziale” che il volume tecnico deve rivestire, dovendo trattarsi, ai fini dell’esclusione del calcolo della volumetria ammissibile, di spazi destinati e “strettamente necessari a contenere o a consentire l’accesso a quelle parti degli impianti (es. idrico, termico, elevatoio, televisivo, di parafulmine, di ventilazione ecc.)” che pur non potendo “per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti stessi, trovare luogo entro il corpo dell’edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche” “si pongono rispetto alla costruzione come elementi tecnici essenziali per l’utilizzazione della stessa”, il cui difetto ne pregiudicherebbe pertanto l’obiettiva attitudine all’uso essenziale (abitativo) cui essa è destinata (Cons. Stato, sent. n. 6038/2004). Non può quindi invocarsi il regime di favore in relazione ad ampliamenti volumetrici connessi alla realizzazione di finalità complementari, stante la non essenzialità ad assicurare la funzionalità del fabbricato, attenendo piuttosto gli stessi a una maggiore valorizzazione del costrutto che non trova giustificazione in termini di ineludibile necessità e che, come tale, è soggetta all’ordinario regime abilitativo.
La suddetta caratteristica di strumentalità necessaria è inoltre presidiata per il tramite della remissione dell’individuazione della tipologia e della volumetria delle parti di impianti qualificabili come volumi tecnici, cui consegue l’ammissione al regime derogatorio di favore, alle specifiche elencazioni e ai relativi indici come definiti, per ciascuna zona, a opera dei competenti strumenti urbanistici. Elencazioni e prescrizioni alle quali la giurisprudenza riconosce “natura tassativa” (Cons. Stato, sent. n. 6038/2004), con conseguente esclusione della invocabilità del favorevole regime derogatorio di non computo del volume tecnico con riferimento sia a tipologie di impianti che esulino da quelle tassativamente elencate e sia a volumi eccedenti rispetto agli indici altrettanto tassativamente prescritti.
In tale prospettiva, è stato escluso dalla sentenza penale in commento che l’insediamento di tipologia di impianto esulante dalla tassativa elencazione contenuta nello strumento urbanistico potesse giustificare la maggiore altezza di tutto l’edificio in termini di destinazione al volume tecnico, ritenendosi piuttosto che si trattasse di una vera e propria sopraelevazione, assolvente a funzioni complementari all’abitazione e non invece “alla necessaria funzionalità degli impianti del fabbricato preesistente”.
A tale ultimo riguardo va sottolineata l’importanza del riferimento della funzionalità necessaria al fabbricato preesistente, che sottende l’esclusione del beneficio della scomputabilità del volume tecnico con riferimento alla sopraelevazione o ultraedificazione a beneficio di parte del fabbricato che non sia sorretta da un corrispondente titolo abilitante. In altri termini, il volume tecnico può riferirsi soltanto agli spazi eccedentari che sono necessari ad assicurare la funzionalità degli impianti a servizio essenziale del preesistente fabbricato, sul presupposto e nella misura in cui lo stesso sia conforme alle abilitazioni edilizie, dovendo invece escludersi che lo scomputo volumetrico possa invocarsi anche con riferimento agli spazi destinati a servire la sopraelevazione o ultraedificazione illegittima.
Ciò in quanto l’illiceità della stessa, conseguente al difetto ab origine di un idoneo titolo abilitante, si estende automaticamente e conseguenzialmente anche a ogni opera che sia servente rispetto a quella abusiva. In tal senso la giurisprudenza ha precisato che “Il regime delle pertinenze urbanistiche … non è applicabile allorché l’accessorio acceda a un manufatto principale abusivo non sanato ex art. 13 della legge n. 47/1985 e non condonato. […] Infatti: il regime pertinenziale è un regime eccezionale di favore che non può essere esteso a situazioni non corrispondenti alla sua ratio; l’accessorio è intimamente connesso al principale, per cui se quest’ultimo è abusivo non vi è alcuna ragione per agevolare la costruzione di altra opera destinata a produrre una compromissione del territorio ulteriore rispetto a quella causata dal manufatto principale; la non conformità, o comunque la mancata verifica di conformità allo strumento urbanistico dell’opera principale, realizzata in assenza di concessione edilizia, priva il comune del parametro di legalità in relazione al quale può essere esercitato il potere di autorizzare opere pertinenziali che costituiscono completamento di quanto conserva caratteristiche di contrarietà all’assetto urbanistico del territorio” (Cass. pen., sez. VI, sent. n. 4164 del 19.07.1995, richiamata da Cass. pen., sez. III, sent. n. 4087 del 28.01.2008).
La pertinenza urbanistica.
L’ulteriore nozione disaminata dalla sentenza penale in commento, con il fine di puntualizzarne i contenuti in senso antielusivo, è quella di pertinenza urbanistica, anch’essa sovente invocata nella prassi quale possibile escamotage, per l’appunto stigmatizzato dal giudice della legittimità, per la pretesa giustificazione di abusi edilizi. Anche per le pertinenze urbanistiche nonché per le costruzioni di natura accessoria è previsto un regime di favore, potendo le stesse essere sottratte alle disposizioni degli strumenti urbanistici relative ai fabbricati e alle norme sulle distanze integrative del codice civile sulla base e nei limiti delle espresse previsioni derogatoria che siano in tal senso eventualmente sancite dagli strumenti urbanistici (Cass. civ., sez. II, sent. n. 4208 del 06.05.1987).
La giurisprudenza ha meglio delineato i tratti distintivi della pertinenza urbanistica rispetto alla nozione civilistica.
Quest’ultima è fornita dall’art. 817 c.c., che definisce tali “le cose destinate in modo durevole a servizio od ornamento di un’altra cosa”; il nesso funzionale stabile che contrassegna ontologicamente il rapporto pertinenziale si traduce nella regola generale, salvo diversa disposizione legislativa o contrattuale, dell’assoggettamento della pertinenza al medesimo regime e destino giuridico del bene principale (artt. 818, 819 c.c.).
Più articolato è il concetto di pertinenza urbanistica, che riflette “il preminente rilievo che nel settore urbanistico hanno le esigenze di tutela del territorio”. In tale prospettiva, “mentre nella pertinenza civilistica rilevano sia l’elemento obiettivo che quello soggettivo, nella pertinenza urbanistica acquista rilevanza solo l’elemento oggettivo”.
Proprio con riferimento all’elemento oggettivo il Legislatore, “con il Testo unico dell’edilizia approvato con Dpr n. 380/2001, per superare le incertezze derivanti dal criterio quantitativo indicato dalla giurisprudenza per le pertinenze, ha fissato due criteri per precisare quando l’intervento perde le caratteristiche della pertinenza per assumere i caratteri della nuova costruzione: il primo rinvia alla determinazione delle norme tecniche degli strumenti urbanistici, che dovranno tenere conto della zonizzazione e del pregio ambientale e paesistico delle aree; il secondo, alternativo al primo, qualifica come nuova opera gli interventi che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% di quello dell’edificio principale” (Cass. pen., sez. III, sent. n. 28504 del 18.07.2007).
A ogni modo, va precisato che “una trasformazione urbanistica e/o edilizia per essere assoggettata all’intervento
autorizzatorio in senso ampio dell’autorità amministrativa non deve essere ‘precaria’: un’opera oggettivamente finalizzata a soddisfare esigenze improvvise o transeunti non è destinata a produrre, infatti, quegli effetti sul territorio che la normativa urbanistica è rivolta a regolare.
Restano esclusi, pertanto, dal regime del permesso di costruire i manufatti di assoluta ed evidente precarietà, destinati cioè a soddisfare esigenze di carattere contingente e a essere presto eliminati
” (Cass. pen., sez. III, sent. n. 24241 del 24.06.2010).
Anche con riferimento al profilo della precarietà, l’approccio valutativo, trattandosi di “tutela del territorio”, deve essere sempre “oggettivo e non soggettivo”. Segnatamente, detta caratteristica “non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all’opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale dell’opera a un uso realmente precario e temporaneo per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente possibilità di successiva e sollecita eliminazione” (Cass., sez. III, sentenze n. 26573 del 26.06.2009; n. 25965 del 22.06.2009; n. 22054 del 25.02.2009; tutte richiamate da sent. n. 24241 del 24.06.2010).
Inoltre “la natura precaria di una costruzione non dipende dalla natura dei materiali adottati e quindi dalla facilità
della rimozione, ma dalle esigenze che il manufatto è destinato a soddisfare e cioè dalla stabilità dell’insediamento indicativa dell’impegno effettivo e durevole del territorio
”. La precarietà va esclusa “quando trattasi di struttura destinata a dare un’utilità prolungata nel tempo, indipendentemente dalla facilità della sua rimozione, a nulla rilevando la temporaneità della destinazione data all’opera del proprietario, in quanto occorre valutare la stessa alla luce della sua obiettiva e intrinseca destinazione naturale” (Cons. Stato, sez. V, sent. n. 3321 del 15.06.2000; sent. n. 97 del 23.01.1995).
Anche a tale fine, l’approccio valutativo deve essere globale e non parcellizzato: invero, “l’opera deve essere considerata unitariamente e non nelle sue singole componenti” (Cass., sez. III, sent. del 27.05.2004). “La stabilità non va confusa con l’irremovibilità della struttura o con la perpetuità della funzione a essa assegnata, ma si estrinseca nell’oggettiva destinazione dell’opera a soddisfare bisogni non provvisori, ossia nell’attitudine a una utilizzazione che non sia temporanea e contingente” (Cass., sez. III, sent. del 07.06.2006).
È stato anche precisato che “la precarietà non va confusa con la stagionalità, vale a dire con l’utilizzo annualmente ricorrente della struttura, poiché un utilizzo siffatto non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo” (Cass., sez. III, sent. n. 24241 del 24.06.2010).
Proseguendo nel solco tracciato dagli esposti orientamenti giurisprudenziali, la pronuncia n. 5618/2012 in commento, individua la pertinenza urbanistica nella “opera che abbia comunque una propria individualità fisica e una propria conformazione strutturale e non sia parte integrante o costitutiva di altro fabbricato preordinata a un’oggettiva esigenza dell’edificio principale, funzionalmente e oggettivamente inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato, non valutabile in termini di cubatura o comunque dotata di un volume minimo tale da non consentire, in relazione anche alle caratteristiche dell’edificio principale, una sua destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell’immobile cui accede” (artt. 22, 100 e 101 del Dpr n. 380/2001; Cass. pen., sez. III, sent. n. 32939/2010, sent. n. 4134/1998). Due, in sostanza, i requisiti, uno di carattere strutturale e l’altro di carattere funzionale.
Sotto il profilo strutturale, l’opera deve essere dotata di una individualità sua propria, che sia distinta, autonoma e separata dall’edificio principale, così come da ogni altro fabbricato; in relazione al detto requisito strutturale, la pronuncia in commento esclude la qualificabilità in termini pertinenziali di ogni opera che sia fisicamente parte integrante o costitutiva di altro fabbricato nonché dell’“ampliamento di un edificio che per la relazione di connessione fisica costituisce parte di esso quale elemento che attiene all’essenza dell’immobile e lo completa affinché soddisfi i bisogni cui è destinato” (in tal senso anche Cass. pen., sez. III, sent. n. 36941/2007, e 40843/2005 e Cass. pen., sez. III, n. 24241/2010, che ha escluso la natura pertinenziale della edificazione di una tettoia-portico, che, per la relazione di connessione fisica con l’edificio, ne costituisce parte integrante, attenendo all’essenza dell’immobile e completandola affinché lo stesso soddisfi i bisogni cui è destinato, dovendo pertanto qualificarsi in termini di ampliamento).
Invero, è incompatibile con la nozione di pertinenza che la stessa possa essere parte integrante della cosa principale ovvero rappresentare un elemento indispensabile per la sua esistenza. In tal senso, “L’elemento distintivo tra la parte e la pertinenza non consiste solo in una relazione di congiunzione fisica, normalmente presente nella prima e assente nella seconda, ma anche e soprattutto in un diverso atteggiamento del collegamento funzionale della parte al tutto e della pertinenza alla cosa principale: tale collegamento si esprime per la parte come necessità di questa per completare la cosa affinché essa soddisfi ai bisogni cui è destinata: la parte quindi è elemento della cosa. Nella pertinenza, invece, il collegamento funzionale consiste in un servizio od ornamento che viene realizzato in una cosa già completa e utile di per sé: la funzione pertinenziale attiene non all’essenza della cosa ma alla sua gestione economica e alla sua forma estetica. Inoltre […] la pertinenza si riferisce a un’opera autonoma dotata di propria individualità mentre la parte di un edificio è compresa nella struttura di esso ed è quindi priva di autonomia” (Cass. pen., sez. III, sent. n. 28504/2007).
Per quanto concerne il profilo funzionale, l’unità pertinenziale, strutturalmente separata da quella principale, deve essere caratterizzata da una destinazione servente alle obiettive esigenze dell’edificio principale, “allo scopo di renderne più agevole e funzionale l’uso (carattere di strumentalità funzionale)”. Tale destinazione funzionale servente deve essere ineludibile e trovare rispondenza, da un lato, nella congruità della struttura della pertinenza rispetto alle obiettive esigenze della struttura principale e, dall’altro lato, nella altrettanto oggettiva impossibilità di destinare la pertinenza stessa, proprio in relazione alla sua conformazione strutturale inevitabilmente servente, ad alcuna destinazione autonoma o diversa da quella a servizio dell’immobile cui accede.
L’esposta configurazione funzionale ineludibilmente servente della pertinenza urbanistica si riflette nella sua non negoziabilità in via autonoma e nella conseguente assenza di un autonomo valore di mercato, che sola può giustificare, unitamente alla modestia dimensionale del volume rispetto all’edificio principale “in modo da evitare il cosiddetto carico urbanistico”, la non valutabilità della stessa in termini di cubatura e la diversità di regime abilitativo (Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 1174/2000; sez. V, sent. n. 2325/2001; sez. V, sent. n. 7822/2003). In assenza invece degli esposti stringenti requisiti strutturali e funzionali, la nozione di pertinenza urbanistica, nonché il corrispondente regime derogatorio di non computo volumetrico, non sono invocabili e torna quindi a riespandersi la regola generale della necessità del permesso di costruire.
Resta a ogni modo fermo che il regime agevolato delle pertinenze non può mai trovare applicazione in caso di contrasto con gli strumenti urbanistici (Cass. pen., sez. III, sent. n. 32939/2010).
Una chiara concretizzazione dei principi suesposti la si ha, ad esempio, in relazione alla diversa disciplina che la giurisprudenza ha individuato con riferimento al muro di contenimento ovvero al muro di cinta, che costituisce specifico oggetto della pronuncia n. 5618/2012 in commento.
In proposito, costituisce orientamento consolidato che, “mentre il muro di cinta può essere ricondotto alla categoria delle pertinenze, non così il muro di contenimento che viene assimilato alla categoria delle costruzioni”.
Infatti “Nel caso in cui lo scopo della realizzazione sia la delimitazione della proprietà si ricade nell’ipotesi della pertinenza, per cui non è necessario il rilascio della concessione (Tar Emilia Romagna, Parma, n. 106/2001; Tar Liguria, sez. I, sent. n. 492/1996; Tar Liguria, sent. n. 345/1994). Diversa è la situazione, allorché il muro è destinato non solo a recingere un fondo, ma contiene o sostiene esso stesso dei volumi ulteriori (Tar Emilia Romagna, Parma, sent. n. 246/2001; Tar Lazio, sez. II, sent. n. 8923/2000); in tal caso il manufatto ha una funzione autonoma, dal punto di vista edilizio e da quello economico” (Tar Piemonte, sent. n. 657/2003)”, “si eleva al di sopra del suolo ed è destinato a trasformare durevolmente l’area impegnata, come tale qualificabile intervento di nuova costruzione”, con conseguente necessità del permesso di costruire (Tar Liguria, sez. I, sent. n. 4131/2009; Cass., sez. III, sent. n. 35898/2008) (commento tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 4/2012 -
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.02.2012 n. 5618 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha da tempo individuato un corretto discrimine tra le costruzioni che si definiscono muro: la differenziazione viene istituita movendo dalla destinazione del manufatto.
Nel caso in cui lo scopo della realizzazione sia la delimitazione della proprietà si ricade nell’ipotesi della pertinenza, per cui non è necessario il rilascio della concessione, con le note conseguenze in tema di legittimità dell’eventuale ordinanza di demolizione adottata al riguardo.
Diversa è la situazione, allorché il muro è destinato non solo a recingere un fondo, ma contiene o sostiene esso stesso dei volumi ulteriori; in tal caso il manufatto ha una funzione autonoma, dal punto di vista edilizio e da quello economico.

Il giudice osserva che la giurisprudenza ha da tempo individuato un corretto discrimine tra le costruzioni che si definiscono muro: la differenziazione viene istituita movendo dalla destinazione del manufatto.
Nel caso in cui lo scopo della realizzazione sia la delimitazione della proprietà si ricade nell’ipotesi della pertinenza, per cui non è necessario il rilascio della concessione, con le note conseguenze in tema di legittimità dell’eventuale ordinanza di demolizione adottata al riguardo (TAR Emilia Romagna, Parma, 12.03.2001, n. 106; TAR Liguria, sez. I, 14.11.1996, n. 492; Id, 19.10.1994, n. 345).
Diversa è la situazione, allorché il muro è destinato non solo a recingere un fondo, ma contiene o sostiene esso stesso dei volumi ulteriori (tar Emilia Romagna, Parma, 27.04.2001, n. 246; tar Lazio, sez. II, 04.11.2000, n. 8923); in tal caso il manufatto ha una funzione autonoma, dal punto di vista edilizio e da quello economico.
Nel caso in questione il muro svolge la funzione di contenimento (si intenda, del terreno) per circa trenta metri, al di là della recinzione preesistente, ed è connesso ad un porticato che si estende per una superficie di circa 105 metri quadrati. La funzione della costruzione si ricava dalla sua estensione, per cui non può ritenersi che il ricorrente abbia inteso soltanto recingere la proprietà, allorché realizzò quanto indicato.
Ne consegue che il manufatto avrebbe dovuto essere edificato in forza di una concessione, sì che i motivi dedotti al riguardo sono infondati e vanno respinti (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 07.05.2003 n. 657 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Una recinzione in manufatti di cemento che si sviluppa per una lunghezza di circa m. 346 con altezza di m. 2,50 costituisce intervento che comporta, per le sue rilevanti dimensioni, quella “trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale” per la quale è necessario, ex art. 1 L. n. 10 del 1977, il previo rilascio della concessione edilizia da parte della competente amministrazione comunale.
Il Tribunale deve osservare, infatti, che non è assolutamente condivisibile la tesi della ricorrente secondo cui la realizzazione della recinzione di cui trattasi, non sarebbe stata soggetta al rilascio di alcun titolo edilizio, costituendo tale intervento una semplice estrinsecazione dello “jus excludendi alios” insito nel diritto di proprietà.
Invero, a confutazione di quanto precede, basta sottolineare che una recinzione in manufatti di cemento che si sviluppa per una lunghezza di circa m. 346 con altezza di m. 2,50 costituisce intervento che comporta, per le sue rilevanti dimensioni, quella “trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale” per la quale è necessario, ex art. 1 L. n. 10 del 1977, il previo rilascio della concessione edilizia da parte della competente amministrazione comunale (v. TAR Puglia –LE- sez. 1^, 04/05/1999 n. 481; TAR Lazio –RM- sez. 2^, 10/03/1999 n. 829; TAR Piemonte, sez. 1^, 06/11/1997 n. 738).
E’ inoltre infondata l’ulteriore argomentazione contenuta nell’atto introduttivo del giudizio secondo la quale, per tali interventi di recinzione, non sarebbe richiesto titolo edilizio alcuno a norma dell’art. 23, comma 1, del P.R.G. comunale.
La citata norma, infatti, anche secondo quanto affermato dalla stessa ricorrente, richiede l’autorizzazione edilizia per le recinzioni riguardanti lotti edificati e, pertanto, risulta del tutto legittimo il provvedimento comunale che ha irrogato, ex art. 10 L. n. 47 del 1985, la sanzione pecuniaria di cui si discute, sul presupposto che fosse quantomeno sottoposto a regime autorizzatorio l’intervento di recinzione di un’area sulla quale insiste lo stabilimento industriale della società ricorrente (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 27.04.2001 n. 246 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Anche la realizzazione ex novo di un muro di contenimento rientra tra gli interventi soggetti a semplice autorizzazione edilizia.
Ciò premesso, risulta che i lavori in questione rientrassero a pieno titolo tra quelli di manutenzione straordinaria, assentibili dall’Autorità Comunale con semplice titolo autorizzatorio e non con concessione edilizia, atteso che, secondo un orientamento giurisprudenziale condiviso dal Collegio, anche la realizzazione ex novo di un muro di contenimento rientra tra gli interventi soggetti a semplice autorizzazione edilizia (v. TAR Liguria, sez. 1^, 14/11/1996 n.492; 19/10/1994 n. 345).
In tale ottica, quindi, mentre l’intervento sul muretto non risultava in alcun modo difforme dall’autorizzazione edilizia legittimamente rilasciata dal Comune, l’ulteriore intervento, contestato alla ricorrente con l’ordinanza impugnata e costituito dalla sostituzione della recinzione in rete metallica sovrastante il muretto con una recinzione in legno, ben poteva essere qualificato quale opera eseguita in difformità dall’autorizzazione edilizia ed essere conseguentemente sanzionato con la pena pecuniaria prevista per tali violazioni dall’art. 10 L. n. 47 del 1985.
Risulta pertanto illegittima, per violazione della suddetta disposizione, l’ordinanza impugnata, con la quale il Sindaco ha ordinato alla ricorrente, con avvertimento di comminatoria dell’acquisizione al patrimonio indisponibile del Comune delle opere e dell’area di sedime in caso di inadempimento, la demolizione di opere che, risultando (solo per una di esse) difformi dall’autorizzazione edilizia precedentemente rilasciata, dovevano essere sanzionate con l’irrogazione della pena pecuniaria prevista dall’art. 10 L. n.47 del 1985 (v. TAR Abruzzo –PE- 05/12/1997 n. 671; TAR Piemonte, sez. 1^, 16/10/1996 n. 714) (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 12.03.2001 n. 106 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non ogni muro che sia collocato ai limiti di un’area su cui insistono costruzioni edilizie può considerarsi come “recinzione” allorquando, come nel caso in esame, la funzione dello stesso non sia quella di recingere bensì di sostenere altri volumi ovvero, più precisamente, di contenere il terreno di un’area di livello superiore suscettibile di smottamenti: infatti in tale ultima ipotesi non soccorre più il regime semplificato istituito per la realizzazione delle vere e proprie opere di recinzione di edifici preesistenti, restando invero anche il muro di contenimento assoggettato al regime del rilascio della concessione edilizia.
Nel caso di specie l’opera realizzata dalla attuale istante per la sua collocazione, che la medesima indica nel ricorso come situata immediatamente a ridosso non già del preesistente edifici per abitazione bensì di due capannoni installati nell’area adiacente, non può certo ritenersi come un’opera muraria di conservazione delle strutture o di altre parti dell’organismo edilizio abitativo, essendo stata posta per fornire un riparo da smottamenti di terreno ad un’area circostante la proprietà edilizia della stessa istante.
A tale opera le medesima assegna anche la funzione costitutiva della dotazione di un “muro di cinto” a quella parte della sua proprietà, sulla quale, come sopra riferito, si trovano installati due capannoni (vedasi al riguardo le precisazioni che la stessa esponente fornisce nella memoria depositata in data 16.06.1999).
Va tuttavia osservato che deve escludersi che le finalità di recinzioni che la istante intenderebbe ritenere riconoscibili nel suo intervento murario, possano far considerare tale muro rientrante tra quelle opere (“recinzioni”) che restano escluse dal regime della concessione edilizia per restare soggette a quello, semplificato, della c.d. “denunzia di inizio dei lavori”, previsto dall’art. 4 della legge n. 493/1993 come sostituito dall’art. 2 -comma 60- della legge 23.12.1996 n. 662.
La funzione della stessa opera come muro di contenimento, benché posto su una pretesa linea di cinta di una parte della proprietà immobiliare della ricorrente, non la rende annoverabile tra le “recinzioni” cui si riferisce la suindicata disposizione.
Va al riguardo osservato che non ogni muro che sia collocato ai limiti di un’area su cui insistono costruzioni edilizie può considerarsi come “recinzione” allorquando, come nel caso in esame, la funzione dello stesso non sia quella di recingere bensì di sostenere altri volumi ovvero, più precisamente, di contenere il terreno di un’area di livello superiore suscettibile di smottamenti: infatti in tale ultima ipotesi non soccorre più il regime semplificato istituito per la realizzazione delle vere e proprie opere di recinzione di edifici preesistenti, restando invero anche il muro di contenimento assoggettato al regime del rilascio della concessione edilizia (cfr. sul punto in fattispecie pressoché analoga C.S.I. 05.05.1993, n. 165)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 04.11.2000 n. 8923 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 22.12.2012

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A U G U R I
a tutti i nostri lettori ... e che il 2013 porti pace, serenità e salute ad ognuno ... tutto il resto avanza.
Ed un pensiero (ma con le parole non si campa: quindi, mano al portafoglio ...) a chi sta peggio di noi poiché ricordateVi che i nostri Vecchi usavano dire:
"fai del bene e riceverai del bene, fai del male e riceverai del male".
22.12.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAModifiche alla legge regionale n. 12 del 2005 per i Piani di Governo del Territorio dei Comuni.
Il Consiglio regionale nella seduta del 19.12.2012 ha approvato la legge regionale "Interventi normativi per l'attuazione della programmazione regionale e di modifica e integrazione di disposizione legislative - Collegato ordinamentale 2013" (Legge Consiglio Regionale 19.12.2012 n. 057).
In particolare, l'art. 4 ("Modifiche alla l.r. n. 12/2005") introduce dopo l'art. 25, comma 1-bis, l.r. n. 12 del 2005 ("Legge per il governo del territorio") tre nuovi commi, che declinano la disciplina transitoria necessaria per il completamento del processo di totale rinnovamento della strumentazione urbanistica comunale, pur
senza modificare il termine di validità dei vecchi piani regolatori generali, fissato al 31.12.2012 dall'art. 25, comma 1, della l.r. n. 12 del 2005.
Solamente i Comuni terremotati e quelli dichiarati in dissesto finanziario entro il 31.12.2012, con una disposizione di favor (comma 1-ter), potranno continuare ad attuare le previsioni del vigente PRG fino al 31.12.2013. La norma, nel contempo, chiarisce la disciplina da applicarsi qualora i suddetti Comuni non adottino il PGT entro il 31.12.2013. Per tutti gli altri Comuni, resta quindi confermato quanto già previsto ad oggi e cioè l'inefficacia, a far tempo dal 01.01.2013, dei vecchi PRG.
La norma (comma 1-quater), in ossequio a quanto stabilito dall'art. 9, comma 1, del d.p.r. n. 380 del 2001, che riconosce in capo alle Regioni la possibilità di prevedere norme più restrittive rispetto a quella generale statale stabilita per i Comuni sprovvisti di strumenti urbanistici, definisce quindi puntualmente gli interventi assentibili nelle more dell'approvazione del PGT, che sono:
nelle zone A-B-C-D, come individuate dal previgente PRG, esclusivamente interventi sull'esistente: manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria e restauro/risanamento conservativo (no ristrutturazione, no nuova costruzione);
nelle zone E-F, come individuate dal previgente PRG, gli interventi consentiti dal previgente PRG e da altri strumenti attuativi già consolidati (ad esempio, Piani Particolareggiati e Piani di Recupero);
gli interventi in esecuzione di piani attuativi approvati entro la data di entrata in vigore del collegato stesso e la cui convenzione, stipulata entro il medesimo termine, sia in corso di validità.
Inoltre, rimane preclusa la possibilità di qualsiasi procedura di variante urbanistica e, per i Comuni che non hanno adottato il PGT entro il 30.09.2011, di dar corso all'approvazione di piani attuativi del PRG.
Infine la norma (comma 1-quinquies), statuisce che nei Comuni che alla data del 31.12.2012 non hanno approvato il PGT, dal 01.01.2013 e fino all'approvazione del PGT, non sono attivabili gli interventi in deroga previsti dal c.d. "piano casa regionale" (artt. 3-4-5-6, l.r. n. 4 del 2012), fatte salve le istanze di permesso di costruire e le denunce di inizio attività presentate entro il 31.12.2012; questa disposizione, per i Comuni terremotati e in dissesto finanziario, troverà applicazione dal 01.01.2014.
Milano, 21.12.2012
L'Assessore al Territorio e Urbanistica, Nazzareno Giovannelli
Il Direttore Vicario, Gian Angelo Bravo (link a www.territorio.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Normativa nazionale – modifiche alle procedure inerenti gestione e manutenzione degli impianti termici civili (ANCE Bergamo, circolare 21.12.2012 n. 293).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Normativa nazionale – pubblicato il D.M. 22.11.2012 recante modifica delle Linee Guida nazionali per la certificazione energetica (ANCE Bergamo, circolare 21.12.2012 n. 292).

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, Nuova modalità di versamento al Fondo Aree Verdi.
Si segnala alle Amministrazioni interessate, che i versamenti al Fondo Aree Verdi (ex art. 43 legge 12/2005) dovranno avvenire unicamente a mezzo di contabilità speciale, presso la tesoreria Provinciale dello Stato - Sezione di Milano - Codice Ente (beneficiario): 30268.
Ulteriori istruzioni sulla compilazione del versamento sono riportate nelle pagine di questo sito dedicate al Fondo Aree Verdi.
Per un rapido accesso clicca qui.
(20.12.2012 - link a www.regione.lombardia.it).

CONVEGNI

EDILIZIA PRIVATA: Si segnala n. 1 convegno gratuito organizzato da ANCE Bergamo, itinerante nella provincia di Bergamo, che si terrà in tre pomeriggi distinti sul tema "LA GESTIONE DELLE TERRE E ROCCE DA SCAVO alla luce delle novità introdotte dal D.M. 161/2012" e, precisamente il 30.01.2013 + 06.02.2013 + 13.02.2013.
Maggiori dettagli e la locandina/scheda di partecipazione possono essere letti cliccando qui.

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, Necessita aggiornare il costo di costruzione entro il 31.12.2012 il cui effetto sarà efficace a decorrere dall'01.01.2013: ecco il fac-simile di determinazione (file 1 - file 2).
ATTENZIONE: se non si adotta la determinazione di aggiornamento entro la suddetta scadenza per tutto il 2013 si dovrà applicare il medesimo costo di costruzione vigente nell'anno 2012 (cfr. art. 48, comma 2, della L.R. n. 12/2005).
ALCUNE CONSIDERAZIONI: lo scorso 06.11.2012 l'ISTAT ha pubblicato la nuova rilevazione relativa al 3° trimestre 2012 per cui -ad oggi- il dato ufficiale ISTAT è quello relativo alla variazione del mese di agosto 2012, mentre quello di settembre 2012 è ufficioso e, come tale, non utilizzabile (N.B.: per controllare il dato in tempo reale cliccare qui).
Pertanto, poiché il dato ufficioso di settembre 2012 sarà ufficiale solamente col prossimo aggiornamento trimestrale che sarà pubblicato l'anno prossimo,
si può già sin d'ora adottare la determinazione di aggiornamento del costo di costruzione per l'anno 2013 senza aspettare gli ultimi giorni del mese corrente col rischio di dimenticarsene (e, quindi, perdere soldi per le casse comunali !!).
Inoltre, poiché trattasi di attività vincolata, la competenza è gestionale e non della Giunta Comunale (siccome lette alcune delibere facilmente trovabili nel web ... ci dite cosa c'è di politico da deliberare??).
18.12.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 21.12.2012, "“Linee guida dematerializzazione per gli enti locali lombardi” in attuazione dell’agenda digitale lombarda" (decreto D.U.O. 13.12.2012 n. 12125).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 21.12.2012, "Protocollo operativo per la gestione dei casi di inquinamento diffuso delle acque sotterranee" (deliberazione G.R. 13.12.2012 n. 4501).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 21.12.2012, "Costituzione del tavolo delle aree regionali protette (l.r. 86/1983, art. 6, commi 3 e 4)" (decreto D.U.O. 10.12.2012 n. 11638).

AMBIENTE-ECOLOGIA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 dell'11.12.2012, "Direzione centrale Programmazione integrata – Ulteriori precisazioni circa l’iniziativa FRISL 2012- 2014 G) «Centri di raccolta comunali o intercomunali dei rifiuti urbani e assimilati (d.m. 08.04.2008 e s.m.i.)» ex l.r. 33/1991 (Fondo Ricostituzione Infrastrutture Sociali Lombardia)" (circolare regionale 05.12.2012 n. 9).

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 18.12.2012 n. 294, suppl. ord. n. 209, "Determinazione della popolazione legale della Repubblica in base al 15° censimento generale della popolazione e delle abitazioni del 09.10.2011, ai sensi dell’articolo 50, comma 5, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122" (D.P.R. 06.11.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ENTI LOCALI - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 18.12.2012 n. 294, suppl. ord. n. 208/L, "Testo del decreto-legge 18.10.2012, n. 179, coordinato con la legge di conversione 17.12.2012, n. 221, recante: «Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese»".

ATTI AMMINISTRATIVI: G.U. 18.12.2012 n. 294 "Regole tecniche per l’identificazione, anche in via telematica, del titolare della casella di posta elettronica certificata, ai sensi dell’articolo 65, comma 1, lettera c -bis ), del Codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 07.03.2005 n. 82 e successive modificazioni" (D.P.C.M. 27.09.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI: G.U. 18.12.2012 n. 294 "Separati certificati di firma, ai sensi dell’articolo 28, comma 3-bis), del Codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 07.03.2005, n. 82" (D.P.C.M. 06.09.2012).

CORTE DEI CONTI

SEGRETARI COMUNALI: Retribuzione di risultato del Segretario e art. 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010.
La Corte dei Conti, sezione regionale Veneto, con il parere 22.11.2012 n. 972, affronta il tema dell'assoggettamento o meno alle limitazioni poste dall'art. 9, comma 2-bis, del d.l. 78/2010 delle risorse destinate a finanziare la retribuzione di risultato del Segretario, ai sensi dell'art. 42 del CCNL del 16.05.2001.
Di seguito le considerazioni preliminari e, poi, conclusive della sezione.
Secondo la vincolante ricostruzione interpretativa offerta dalle Sezioni Riunite con la deliberazione n. 51/CONTR/2011, confermata anche dal Ministero dell'Interno-Ragioneria Generale dello Stato con circolare n. 12 del 15.04.2011:
- "Le risorse con riferimento alle quali opera il contenimento, dunque, sarebbero quelle di alimentazione dei fondi, ovvero, le risorse potenzialmente destinabili alla generalità dei dipendenti dell'ente attraverso lo svolgimento della contrattazione integrativa. Ne resterebbero, di conseguenza, esclusi, gli importi diretti a remunerare prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati o individuabili (e, segnatamente, le risorse per le attività di progettazione e per l'avvocatura interna), che alimentano il fondo in senso solo figurativo, non essendo destinati a finanziare incentivi spettanti alla generalità del personale dell'amministrazione pubblica";
- "L'identificazione, ai soli fini dell'applicazione del limite di spesa di cui al comma 2-bis, tra fondi della contrattazione integrativa e salario accessorio, peraltro, trova conforto nella previsione contenuta nell'ultimo periodo di tale comma: la riduzione, automatica e proporzionale, dell'ammontare complessivo degli importi destinati al trattamento accessorio del personale dell'ente, in conseguenza della riduzione del numero dei dipendenti in servizio ivi prevista, infatti, non può che avere ad oggetto le risorse che, confluendo nei fondi unici di amministrazione, attraverso i meccanismi 'distributivi' propri della contrattazione decentrata, sono ripartite tra la generalità dei dipendenti e che, nell'ottica del contingentamento e della razionalizzazione della relativa spesa, a fronte della riduzione dell'organico complessivo, devono subire una correlativa diminuzione. Tale rilievo consente di superare le inevitabili perplessità ingenerate dalla formulazione della prima parte del comma in esame -che, nel contemplare genericamente le 'risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale', e non contenendo più il termine 'fondo' o 'fondi', che compariva, invece, in precedenti ed analoghe disposizioni (art. 1, comma 189, della L. 266/2005 ed art. 67 del D.L. 112/2008), sembrerebbe riferirsi a tutti gli importi che, anche senza passare per la contrattazione decentrata, alimentano il salario accessorio- e di restringere il campo alle componenti del trattamento accessorio finanziate dai fondi e non direttamente dal bilancio dell'ente (sul punto, Sez. Lombardia, deliberazione n. 59/2012/PAR)";
- "In quest'ottica interpretativa, occorre stabilire se le risorse di cui al citata art. 42 del CCNL del 2001, destinate alla corresponsione, in favore del Segretario comunale, della indennità di risultato, siano indentificabili con quelle di cui all'art. 9, comma 2-bis, del D.L. 78/2010. Posto che l'indennità in questione costituisce certamente una componente del trattamento accessorio del Segretario, deve rilevarsi, tuttavia, che le risorse, all'uopo, stanziate dall'ente (definite dalla disposizione contrattuale come 'aggiuntive') non confluiscono in un fondo unico di amministrazione e non contribuiscono in alcun modo ad alimentare il trattamento accessorio della generalità dei dipendenti, risultando 'dedicate' al solo Segretario. Le risorse in questione, in sostanza, si collocano al di fuori della contrattazione integrativa, non concorrendo in alcun modo ad alimentarla, neppure in modo figurativo, e gravano direttamente sul bilancio dell'ente. Tali elementi, interpretati alla luce delle indicazioni (peraltro vincolanti) offerte dalle SS.RR., inducono ad escludere dal campo di applicazione della norma limitatrice le risorse destinate alla retribuzione di risultato del Segretario comunale";
- la spesa in questione è comunque rilevante ai fini del contenimento complessivo della spesa di personale ai sensi dell'art. 1, comma 557, della legge n. 296/2006 ed in particolare di quanto ivi previsto alla lettera c);
- "... la stessa disposizione contrattuale che disciplina la retribuzione in esame, pone, quale limite allo stanziamento delle relative risorse, proprio 'la capacità di spesa' del singolo ente; concetto, quest'ultimo, che, può riferirsi, più in generale, anche a quegli elementi (vincoli e limiti economici e finanziari imposti dall'ordinamento), condizionanti, in concreto, l'autonomia di spesa";
- "Infine, si rammenta che il trattamento economico complessivo spettante al singolo dipendente, comprensivo, per espressa previsione normativa, anche del 'trattamento accessorio' (e, quindi, nel caso del segretario, dell'indennità di risultato di cui all'art. 42 cit.), è soggetto alla riduzione prevista dal comma 1 dell'art. 9 del D.L. 78/2010" (tratto da www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni negli enti non soggetti al patto di stabilità.
La Corte dei Conti, sezione regionale Molise, con il parere 21.11.2012 n. 134 risponde ad un ente in ordine alla possibilità di trasformare una posizione dotazionale a tempo pieno in part-time al fine procedere alla copertura mediante concorso pubblico (previo espletamento delle prescritte procedure di mobilità); posto che si renderà vacante (collocamento a riposo a breve) dell'unico dipendente in servizio.
La sezione, richiamata la normativa e le interpretazioni delle Sezioni Riunite e delle Autonomie (rispettivamente delibere SS.RR. n. 3/CONTR/2011, n. 11/CONTR/2012 e Sez. Aut. n. 6/AUT/2012), rammenta all'ente che le condizioni per poter procedere ad una eventuale assunzione sono:
- rispetto dell'art. 1, comma 562, della legge 296/2006;
- limite delle cessazioni di rapporti di lavoro a tempo indeterminato intervenute nell'anno precedente;
- incidenza della spesa di personale non superiore al 50% della spesa corrente;
- ai fini della trasformazione, osservanza delle norme legislative e contrattuali che disciplinano il part-time (tratto da www.publika.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Responsabilità istruttoria e affidamento di consulenze.
La dirigenza pubblica trentina è stata scossa dalla sentenza 10.02.2012 n. 1 della Corte dei conti, sezione giurisdizionale Trento, con la quale un dirigente generale della Provincia è stato condannato per aver affidato, a due professionisti esterni, una consulenza reputata illegittima.
La decisione
L’alto burocrate, ritenendo inadeguato il personale della propria struttura, ha esternalizzato l’attività di controllo avente ad oggetto “l’esperimento […] della fase di controllo sulle dichiarazioni di spesa rese dai beneficiari finali delle risorse”.
Nella sentenza è stato puntualizzato che i provvedimenti (deliberazioni della Giunta provinciale n. 1550/2004 e n. 1102/2005) erano giustificati “dal numero di ore occorrenti per lo svolgimento dell’incarico e dalla impossibilità di reperire all’interno della struttura provinciale le figure professionali idonee ad espletarlo. Detta circostanza era stata indicata […] con […] precedente nota […] al Dipartimento Organizzazione, personale e affari generali, che avrebbe espresso un generico orientamento positivo alla soluzione contrattuale proposta in via temporanea”.
Il contenuto delle prestazioni acquisite dai professionisti (nella specie, revisori contabili) consisteva “[…] nella verifica della coincidenza delle dichiarazioni con documenti contabili regolarmente quietanzati e nell’ammissibilità delle spese secondo la normativa vigente, nonché nella segnalazione all’Ufficio […] di qualsiasi irregolarità rilevata nel corso della verifica”; la Procura attrice, quindi, ha sostenuto che quella che, impropriamente, era stata qualificata come consulenza era, in realtà, “[…] un’attività di mero controllo di dati attestati con dichiarazioni sostitutive di atto notorio, ovvero una vera e propria prestazione di attività lavorativa, effettuata non per fronteggiare temporanee esigenze ma per periodi in realtà collegati senza soluzione di continuità in un arco temporale che va dal luglio 2004 al dicembre 2008”.
Secondo la magistratura contabile, dunque, non si era in presenza di attività complessa, legittimante un incarico esterno, ma di una tipologia di controllo interno, demandato in via esclusiva alle stesse amministrazioni ai sensi del Dlgs n. 286/1999; e trattavasi, per giunta, di un compito “più legato ad un’attività di riscontro formale, che non ad un controllo sostanziale dei costi ammissibili”.
Le argomentazioni formulate dalla Procura l’hanno portata anche ad escludere che le prestazioni oggetto di contestazione potessero essere caratterizzate dal requisito, normativamente previsto, dell’alta professionalità.
Il convenuto, da parte sua, ha sostenuto che la decisione di ricorrere alla consulenza era stata adottata dalla Giunta provinciale; che il personale del Dipartimento, e degli uffici in cui questo si articolava, non era in grado di svolgere i prescritti controlli nei tempi ritenuti necessari; che l’attività esternalizzata implicava compiti ad alto contenuto specialistico.
Il Collegio, in primo luogo, ha concentrato l’attenzione sulle caratteristiche dell’attività affidata ai due professionisti; e, dopo aver esaminato il quadro normativo comunitario, nazionale e provinciale, ha precisato che “trattandosi di dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà ai sensi dell’art. 47 del Dpr 445/2000, sono, quindi, sottoposte ad idonei controlli a campione al fine di verificarne la veridicità”, operazione, quest’ultima, consistente nella verifica della perfetta conformità tra spese dichiarate e correlativa documentazione contabile.
Sulla base di una tale valutazione, ha concluso che “l’oggetto degli incarichi conferiti rientrava nell’ambito dei controlli di cui all’art. 25 del decreto del Presidente della Giunta provinciale 27.12.2000, n. 33-51/Leg e degli artt. 46 e ss. del decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445, attività di competenza dell’amministrazione a norma del citato art. 71 del Dpr 445/2000, ed ordinariamente svolta da qualifiche non particolarmente elevate”.
Quanto alla presunta difficoltà e complessità dell’attività di controllo affidata ai due professionisti esterni, la sezione trentina ha contraddetto le tesi difensive, traendo spunto, oltretutto, dalla documentazione prodotta dal medesimo convenuto; dalla quale è emerso che il bando di concorso, pubblicato per reperire personale esperto in attività di revisione e gestione contabile, non prevedeva specifici requisiti di ingresso.
L’organo giudicante, infatti, ha affermato che “la selezione presupponeva un generico diploma di laurea -trattandosi comunque di concorso per l’assunzione di funzionari- non orientato a particolari indirizzi o attività. Inoltre, si desume dalle prove orali dello specifico indirizzo del concorso -più genericamente rivolto a soddisfare le ‘necessità di coordinamento e di accompagnamento delle azioni a cofinanziamento del Fondo sociale europeo’- che esso non richiedeva un particolare grado di specializzazione”.
Anche uno dei due incaricati ha confermato la natura “generica” dei compiti affidati, avendo affermato che “I soggetti beneficiari del Fse esibiscono alla Provincia delle dichiarazioni sostitutive di atto notorio in cui dichiarano i costi sostenuti in un determinato arco di tempo. La nostra funzione è quella di controllare l’esistenza dei documenti in originale e i relativi attestati di pagamento, quindi, dobbiamo accertare che le spese siano state documentate e pagate. Nell’esaminare la documentazione ci si attiene ai criteri per la formazione degli strumenti di programmazione settoriale”. Il professionista ha, inoltre, aggiunto che “Di fronte a difficoltà interpretative nell’applicazione dei criteri la sottoscritta chiede il parere all’Ufficio competente della Provincia”.
Adempimenti istruttori e conferimento di incarico
La sezione giudicante, quindi, considerati gli elementi di fatto accertati (attività di ordinaria competenza dell’amministrazione, non particolare complessità delle prestazioni, non necessità di competenze specialistiche di elevato profilo), ha esaminato l’attività istruttoria, posta a fondamento dei provvedimenti di conferimento degli incarichi, per verificare se fosse stata supportata “da atti ricognitivi idonei a dimostrare l’assoluta indisponibilità di personale interno per effettuare i controlli in questione”. Circostanza, quest’ultima, imprescindibile per la legittimità delle consulenze.
Il Collegio, al proposito, ha rilevato alcune discrasie che, inevitabilmente, hanno condizionato la decisione finale.
Dalla documentazione relativa alla deliberazione della Giunta provinciale n. 1550/2004 è emerso che il convenuto ha chiesto al Dirigente generale del dipartimento Organizzazione, personale e affari generali l’autorizzazione a ricorrere ad incarichi esterni, per lo svolgimento di compiti istituzionali che avrebbero comportato un’ingente attività lavorativa (pari a 1.200 ore), finalizzata alla verifica di 200 dichiarazioni di spesa (calcolando, quindi, per ciascuna pratica, un tempo medio di lavoro di 6 ore), sul presupposto della mancanza, all’interno della struttura diretta, di personale idoneo a svolgere la suddetta attività.
La risposta del dirigente generale competente si è limitata a richiamare i vincoli posti dalla normativa vigente, rimettendo, all’istante, la valutazione dei presupposti per il conferimento; pur non costituendo un assenso, “la nota viene citata nelle premesse della deliberazione di Giunta provinciale n. 1550/2004, che vi ha attribuito, incongruamente, il netto significato di parere positivo”.
Il giudice contabile ha inoltre evidenziato una peculiare discrasia temporale, nel procedimento di conferimento dell’incarico, rilevando che “la procedura presenta una curiosa distorsione cronologica, in quanto il dirigente del dipartimento ha chiesto di attivare consulenze prima della richiesta ufficiale da parte del direttore dell’ufficio interessato; il che contrasta con quanto disposto dall’art. 31 della citata L.P. n. 7/97 […]”.
Neppure l’esame della seconda deliberazione della Giunta provinciale (n. 1102/2005) è riuscito a scalfire la convinzione che l’istruttoria sia stata condotta in modo superficiale. Nella sentenza, coerentemente, si legge ”che, nella specie, non risulta sufficientemente sondata la possibilità di procurarsi all’interno dell’amministrazione le figure professionali idonee allo svolgimento dell’incarico, presupposto indefettibile del relativo affidamento […]” .
L’analisi effettuata dal giudice contabile si è successivamente orientata verso profili squisitamente organizzativi, riguardanti, in particolare, le modalità di gestione delle risorse assegnate alla struttura del convenuto, il raffronto costi/benefici in rapporto alla duplice opzione dell’utilizzo di risorse interne/esterne, l’eventuale necessità di ricorrere allo strumento della formazione.
Considerato, infatti, che le deliberazioni con cui erano stati conferiti gli incarichi esterni risultavano sprovviste del parere che il dirigente generale avrebbe dovuto redigere, ai sensi dell’art. 5 della Lp n. 7/1997, sono stati acquisiti gli organici, di fatto e di diritto, del Dipartimento e dell’Ufficio coinvolti nella vicenda contabile, relativi al biennio 2004-2005.
Nei due anni presi in considerazione, lasso di tempo nel corso del quale l’esternalizzazione oggetto di giudizio si è consolidata, è emerso che al Dipartimento, a capo del quale era preposto il convenuto, erano assegnati 461 dipendenti; secondo la spontanea comunicazione della direttrice dell’Ufficio di Supporto dipartimentale, circa 70 unità erano in possesso dei requisiti per poter svolgere i controlli affidati ai professionisti.
Il convenuto ha motivato l’affidamento esterno, sostenendo che l’Ufficio competente a svolgere i controlli, quando è stato incardinato nel proprio Dipartimento, aveva subito una significativa riduzione d’organico rispetto alla dotazione che aveva in precedenza (passando da 34 a 17 unità). Ed è stato, altresì, precisato che solo nove di queste unità avrebbero potuto essere impiegate nell’attività di controllo delle dichiarazioni trasmesse dai beneficiari dei contributi; ciò non sarebbe stato possibile, perché i nove funzionari erano impegnati nel raggiungimento di differenti obiettivi di lavoro.
La sezione territoriale, nel valutare gli obiettivi assegnati al personale potenzialmente idoneo all’espletamento dei controlli, “e cercando di comprendere il linguaggio criptico con cui gli obiettivi stessi sono descritti”, ha osservato che “quasi tutti i dipendenti segnalati appaiono impegnati in concorsi, raccordi, monitoraggi, coordinamenti, partecipazioni ed attività che appaiono per lo più di supporto ad altre: per di più, è dato conoscere le occupazioni svolte da solo una parte del personale, poiché degli altri dipendenti in servizio presso l’Ufficio […] (nel numero complessivo di 34, secondo la documentazione trasmessa in esito ad ordinanza istruttoria) si conoscono solo le qualifiche professionali”.
L’organo giudicante, inoltre, ha constatato che l’attività dei consulenti ha comportato 3.600 ore di lavoro, retribuite, nell’arco di quattro anni e mezzo, con una complessiva spesa di 242.990 euro. Applicando i medesimi parametri numerici, all’attività svolta all’interno dell’amministrazione, il giudice ha concluso che “l’impegno lavorativo di un impiegato pubblico è computabile in 36 ore settimanali, detta attività avrebbe comportato l’utilizzazione di un solo dipendente per 100 settimane lavorative totali, equivalenti a circa 23 settimane all’anno. Non è, quindi, neppure lontanamente ipotizzabile che gli oltre 70 funzionari in servizio presso il Dipartimento […] (ai quali si devono aggiungere quelli assegnati all’Ufficio […]) negli anni 2004-2005, dichiarati astrattamente idonei a svolgere i controlli sulle dichiarazioni sostitutive di atto notorio, fossero assolutamente e totalmente indisponibili allo svolgimento di tale attività, anche considerando che ad essa avrebbero potuto essere preposte più unità di personale non pienamente utilizzato in altre mansioni: il che non è in assoluto precluso dall’eventuale conseguimento degli obiettivi assegnati. Più in particolare, considerando anche solo i dipendenti dell’Ufficio […] indicati dalla difesa, si osserva che il fatto che quasi tutti gli obiettivi siano stati comunque conseguiti non esclude automaticamente che i singoli dipendenti ad essi preposti fossero assolutamente indisponibili ad effettuare anche i controlli sulle dichiarazioni sostitutive, ovviamente previa formazione, ove necessaria”.
Infine, in merito al fatto che gli stessi consulenti, in caso di dubbi interpretativi, chiedevano pareri all’Ufficio competente della Provincia, è stato sottolineato che la dichiarata circostanza “non lascia residuare alcun dubbio sul fatto che l’attività in questione non vantasse, neppure di fatto, non solo l’elevato contenuto specialistico proprio dell’attività di consulenza, ma neppure quello del rapporto di collaborazione, e che rientrasse invece nell’ambito dell’ordinaria attività di amministrazione. Ne è riprova il fatto che ‘l’Ufficio competente della Provincia’ veniva interpellato dai professionisti ‘di fronte a difficoltà interpretative’, e quindi avrebbe potuto formare, con piena soddisfazione anche degli interessi erariali, dipendenti provinciali idonei ai controlli invece affidati all’esterno, tanto più che essi implicavano un dispendio di tempo assai limitato, in proporzione non solo all’intera compagine del personale provinciale, ma anche a quella in dotazione al Dipartimento […] e perfino allo stesso Ufficio […]”.
La difesa, tra le varie giustificazioni proposte, ha anche sollevato la problematica del presunto ruolo marginale del convenuto in relazione al meccanismo causale del danno: in buona sostanza, è stato evidenziato come il dirigente generale abbia posto in essere un comportamento meramente attuativo di atti rientranti nella competenza della Giunta provinciale e adottati dall’organo collegiale.
Il giudice contabile, però, ha dissentito da un tale punto di vista, imputando al convenuto la responsabilità della carente attività istruttoria, attività che si pone quale indefettibile presupposto dei provvedimenti di incarico adottati dalla Giunta provinciale, e che rientra nella esclusiva competenza del dirigente generale, ai sensi dell’art. 16 della legge provinciale n. 7/1997.
La condotta del dirigente generale avrebbe, dunque, tratto in inganno l’organo collegiale, determinandolo a deliberare gli incarichi esterni, sul duplice errato presupposto dell’impossibilità di utilizzare personale interno e della conseguente necessità di avvalersi di prestazioni esterne ad alto contenuto professionale.
Conclusioni
L’accertamento della responsabilità del convenuto suona, senza dubbio, come un campanello d’allarme che non può essere ignorato. Da un lato, infatti, è palpabile la sensazione che la responsabilità sia stata dichiarata più per carenze istruttorie che non per la sostanziale illegittimità della consulenza in sé; il che, per certi versi, potrebbe apparire difficilmente accettabile. Non è da escludere, infatti, che la stessa fattispecie, qualora fosse stata motivata in modo diverso e più coerente, avrebbe potuto essere decisa in senso opposto o, quanto meno, addebitando una misura di risarcimento più mite.
Da altro punto di vista, inoltre, sarebbe auspicabile che la magistratura contabile, nel valutare le singole fattispecie, non entrasse nel merito dell’organizzazione degli uffici pubblici. Non spetta, di certo, al giudice, ritornando al caso in esame, stabilire come deve essere impiegato il personale o quante unità debbano essere utilizzate, e per quanto tempo, nello svolgimento delle attività istituzionali, escluse, ovviamente, le ipotesi di modalità di svolgimento irrazionali o arbitrarie.
Gli amministratori, dal canto loro, dovranno prestare più attenzione alla fase istruttoria, che dovrà essere caratterizzata dalla compatibilità, coerente e razionale, tra presupposti e decisione finale, e all’adeguato bilanciamento tra risorse umane assegnate e obiettivi da realizzare. In tal senso, notevole importanza deve essere attribuita, nell’ambito delle organizzazioni pubbliche, ai processi di riorganizzazione, alle competenze del personale e alle modalità di impiego in rapporto ai compiti da svolgere (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com).

NEWS

ATTI AMMINISTRATIVI: Dirigenti, determinazioni doc. Obbligatoria l'attestazione di regolarità amministrativa. Le novità del dl 174 che non necessitano dell'approvazione del regolamento sui controlli.
Anche le determinazioni adottate dai dirigenti devono contenere l'attestazione di regolarità amministrativa; i pareri di regolarità devono essere contenuti nei testi delle deliberazioni; i responsabili dei settori finanziari devono attestare che i provvedimenti non determinano alterazioni negli equilibri finanziari degli enti e le attribuzioni dei revisori sul terreno dei pareri sono accresciute in misura assai rilevante.
Sono queste le principali novità immediatamente operative contenute nel dl n. 174/2012 sul versante istituzionale, novità che non hanno bisogno della adozione del regolamento sui controlli interni per diventare operative. Tutte queste misure vanno nella direzione dell'ampliamento immediato delle forme di monitoraggio e verifica delle attività delle amministrazioni locali, così da prevenire il maturare di condizioni di deficit.
I pareri di regolarità tecnica resi dai responsabili dei servizi sono necessari da sempre per le deliberazioni adottate dalla giunta e dal consiglio; con le nuove regole essi diventano necessari anche sugli altri atti amministrativi, in primo luogo quindi sulle determinazioni adottate dai dirigenti o, nei comuni che ne sono sprovvisti, dai responsabili, dai decreti e dalle ordinanze adottate dai sindaci. Questa estensione è contenuta nel nuovo testo dell'articolo 147-bis del dlgs n. 267/2000, Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, che prevede che tutti gli atti siano accompagnati dal parere di regolarità amministrativa. Siamo in presenza di una estensione dell'ambito di applicazione, che è finalizzato al rafforzamento delle verifiche sulla legittimità dei provvedimenti amministrativi. Occorre evidenziare che la scelta si traduce spesso in un aggravamento del procedimento che ha un rilievo essenzialmente formale: infatti sulle determinazioni il parere di regolarità tecnica deve essere rilasciato dallo stesso dirigente o responsabile che adotta la determinazione e, quindi, dà atto della legittimità, opportunità, congruità ecc. del provvedimento da lui adottato.
Un'altra importante novità è la imposizione del vincolo a che i pareri di regolarità tecnica e contabile sulle proposte di deliberazione siano contenuti nel testo del provvedimento. In questo modo il legislatore vuole rendere subito evidente le valutazioni sui singoli atti, di modo che risulti immediatamente il giudizio formulato dai dirigenti o dai responsabili. Il legislatore vuole quindi evitare che tali giudizi siano contenuti nel frontespizio delle delibere, il che determinava comunque un effetto di loro minore evidenza. Appare quanto mai utile che essi siano inseriti nella premesse della deliberazione, cioè nella parte in cui si illustrano le ragioni che sono alla base della scelta contenuta nel provvedimento.
Altra importante novità è il rafforzamento delle competenze del dirigente o responsabile finanziario. Non si deve limitare a verificare la copertura degli oneri nel bilancio dell'ente e la correttezza della imputazione; il suo giudizio si deve estendere alla attestazione che l'atto non determini il maturare di condizioni di squilibrio nella gestione delle risorse. Ovviamente tra le condizioni di squilibrio si deve prevedere anche l'eventuale mancato rispetto del patto di Stabilità. È del tutto evidente che in questo modo l'ambito delle attività dei dirigenti e/o responsabili dei settori finanziari si espande in misura assai significativa e rilevante. E che ciò possa determinare un ampliamento dei compiti esercitati da questi soggetti è del tutto evidente. È altrettanto evidente che la scelta legislativa determina un rilevante ampliamento della loro responsabilità: non possono infatti limitare alla verifica del rispetto della copertura degli oneri e della correttezza della imputazione. La «crescita» del loro ruolo determina, in modo direttamente correlato, un aumento della loro responsabilità.
I revisori dei conti si devono esprimere su un arco molto più ampio di atti. In precedenza essi dovevano esprimersi sulle proposte di bilancio, sui documenti allegati e sulle variazioni. Adesso sono chiamati a dare, tra l'altro, un giudizio su tutti i documenti di programmazione economica e finanziaria, sulla verifica della permanenza degli equilibri, sulle scelte compiute dall'ente in materia di gestione dei servizi, sulle proposte di indebitamento, a partire dai mutui, sull'eventuale ricorso a forme di finanza innovativa, sul riconoscimento dei debiti fuori bilancio, sulle transazioni a cui l'ente intende aderire, nonché sui regolamenti finanziari, ivi compresi quello di economato, patrimoniali, tributari e delle altre entrate proprie dell'ente (articolo ItaliaOggi del 21.12.2012).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Se il sindaco e i consiglieri sono proprietari di parte dei terreni. Demanio senza conflitti. Obbligo di astensione per gli amministratori.
Sussiste l'obbligo di astensione, ai sensi dall'art. 78, comma 2, del dlgs n. 267/2000, per il sindaco e i consiglieri comunali di un comune che ha deliberato la richiesta di «sclassificazione» dal regime demaniale civico dei terreni soggetti a uso civico ricompresi nel centro abitato e nell'area industriale dell'ente, in quanto risultano avere «irreversibilmente perso la conformazione fisica o la destinazione funzionale di terreni agrari, ovvero boschivi o pascolativi» (art. 18-bis, comma 1, lett. a), considerato che detti amministratori risultano proprietari di parte dei terreni?
L'obbligo di astensione trova fondamento nei principi di legalità, imparzialità e trasparenza che devono caratterizzare l'azione amministrativa ai sensi dell'art. 97 della Costituzione.
In particolare, l'art. 78, comma 2, del dlgs n. 267/2000 dispone che: «Gli amministratori di cui all'art. 77, comma 2, devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado.
L'obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministrazione o di parenti o affini fino al quarto grado
».
Una costante giurisprudenza ritiene che l'obbligo di astensione, per conflitto di interessi da parte dei soggetti appartenenti ad organi collegiali, sussista in tutti i casi in cui i soggetti tenuti alla sua osservanza siano portatori di interessi personali che possano trovarsi in posizione di conflittualità o anche solo di divergenza rispetto a quello, generale, affidato alle cure dell'organo di cui fanno parte (ex multis Tar Puglia-Lecce, sez. I, 18.07.2009, n. 1884; Consiglio di stato, sez. V, 13.06.2008, n. 2970).
Con specifico riferimento all'approvazione di provvedimenti normativi o di carattere generale, la giurisprudenza ha affermato più volte che il dovere di astensione degli amministratori locali costituisce principio generale che, in quanto tale, non ammette deroghe o eccezioni e ricorre ogni qualvolta sussista una correlazione diretta fra la posizione dell'amministratore e l'oggetto della deliberazione, anche se la votazione potrebbe non avere altro apprezzabile esito e la scelta fosse in concreto la più utile e la più opportuna per l'interesse pubblico (Consiglio di stato, sez. IV, 26.05.2003, n. 2826; idem 04.12.2003, n. 7050; idem 12.12.2000, n. 6596).
Pertanto, il dovere di astensione sussiste in tutti i casi in cui gli amministratori versino in situazioni, anche potenzialmente, idonee a porre in pericolo la loro assoluta imparzialità e serenità di giudizio. Ciò al fine di evitare che, partecipando alla discussione e all'approvazione del provvedimento, essi possano condizionare nel complesso la formazione della volontà dell'assemblea concorrendo a determinare un assetto complessivo non coerente con la volontà che sarebbe scaturita senza la loro presenza (Consiglio di stato, sez. IV, 21.06.2007, n. 3385).
La fattispecie in esame pare doversi ricondurre nell'ambito applicativo dell'art. 78, comma 2, del dlgs n. 267/2000, avendo ad oggetto l'approvazione di un provvedimento di carattere generale (l'istanza di sclassificazione dal regime demaniale civico si riferisce a tutto il centro abitato e a tutta l'area industriale) e ricorrendo quella «correlazione immediata e diretta» fra il contenuto della deliberazione e gli interessi personali dei componenti il consiglio comunale.
In tale ipotesi, per evitare che un possibile conflitto di interessi possa inficiare la legittimità della deliberazione, la giurisprudenza ha ritenuto che una votazione frazionata, cui di volta in volta si astengono gli amministratori interessati, seguita dall'approvazione del provvedimento nel suo complesso, rappresenti una soluzione ragionevole e realistica (Tar Veneto, sez. I, 08.06.2006, n. 1719).
Per la richiamata giurisprudenza è ammissibile che il consiglio comunale proceda a deliberazioni e votazioni sui singoli terreni interessati; in queste votazioni disgiunte i consiglieri interessati si devono astenere, dovendo risultare le suddette votazioni separate dalla votazione finale. Tuttavia, l'approvazione della istanza di «sclassificazione» non può esaurirsi in singole votazioni frazionate riferite ai singoli terreni, ma deve necessariamente comprendere anche una fase conclusiva comportante l'esame, la discussione, la votazione e l'approvazione del provvedimento nel suo complesso.
I consiglieri che si sono astenuti su singoli punti del provvedimento, per una loro correlazione diretta ed immediata con lo stesso, potranno, invece, prendere parte all'approvazione finale.
La ratio dell'art. 78 del dlgs n. 267/2000, costituita dall'esigenza di evitare situazioni di conflitto di interesse dei consiglieri comunali, deve ritenersi sufficientemente garantita in quanto il consigliere «interessato», per quanto riguarda la scelta pianificatoria relativa ai suoi interessi, non è più in condizione di influire, almeno direttamente, sulla stessa in sede di votazione finale, posto che in ordine alla questione si è già formato il consenso senza la sua partecipazione (Tar Lazio sez. II-bis sent. n. 6506/2002; Tar Veneto sez. I sent. n. 4159/2003) (articolo ItaliaOggi del 21.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - VARI: LA LEGGE DI STABILITÀ IN SINTESI.
FISCO
TOBIN TAX. La tassa sulle transazioni finanziarie scatterà da marzo con una nuova veste (esentando la finanza etica). L'aliquota per i mercati regolamentati sarà dello 0,12% (ma 0,1% dal 2014) e per quelli non regolamentati, su cui sarà applicata da luglio, dello 0,22% (0,2% dal 2014). Per i derivati invece l'imposta è fissa e sarà al massimo di 200 euro. Colpito anche il trading più speculativo, con un'aliquota dello 0,02% sulle negoziazioni ad alta frequenza (high frequency trading).
IMU. Il gettito dell'imposta municipale propria passa ai Comuni, che incasseranno subito 7,6 miliardi di euro nel 2013-2014. A queste risorse si aggiungono quelle del Fondo di solidarietà comunale, pari a 8,9 miliardi nel biennio. Allo Stato resterà però il gettito Imu su capannoni industriali e opifici, con un incasso di 8,9 miliardi nel 2013-14. Su questi immobili a uso produttivo i Comuni potranno aumentare l'aliquota standard dello 0,76%, portandola fino a un massimo di 1,06%.
TARES. La nuova tassa su rifiuti e servizi sostituisce la Tarsu e arriverà dall'anno prossimo. La tariffa si pagherà in più rate e la prima è prevista ad aprile.
SANATORIA MINI-DEBITI. Sono cancellati tutti i piccoli debiti con il Fisco, fino a un importo di 2 mila euro, che risalgono a prima dell'anno 2000.
IRPEF REGIONI. Slitta di un anno, al gennaio del 2014, la possibilità per le Regioni di rimodulare l'addizionale Irpef, misura prevista dalla manovra estiva del 2011.
CARTELLE PAZZE. Novità per le cartelle esattoriali errate, con misure per accelerare l'annullamento di questi avvisi di pagamento inviati erroneamente dal Fisco.
IMPOSTA BOLLO. Nel 2013 aumenta a 4.500 euro, dai precedenti 1.200 euro, il tetto per l'imposta di bollo pagata dalle società sui prodotti finanziari.
ASSICURAZIONI. Fissato tetto al credito d'imposta delle imprese assicurative, commisurato all'ammontare delle riserve tecniche presenti in bilancio.
LAVORO
PRECARI. Salvi i precari della pubblica amministrazione con contratto in scadenza, che resteranno così al lavoro fino al prossimo 31 luglio. Nei concorsi pubblici, inoltre, ai precari potrà essere riservata una quota fino al 40% dei posti: ne beneficeranno i lavoratori con tre anni di servizio con contratto a tempo determinato o collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co) nell'amministrazione che emana il bando. Il reclutamento dovrà svolgersi per titoli ed esami.
AMMORTIZZATORI SOCIALI. Aumentano le risorse per finanziare la cassa integrazione in deroga, con 900 milioni che si aggiungono agli 800 milioni già previsti.
RICONGIUNZIONI. Le ricongiunzioni previdenziali tornano a essere gratuite, ma soltanto per i lavoratori passati all'Inps dal pubblico impiego prima del luglio 2010.
BUSTE PAGA PESANTI. Per i lavoratori colpiti dal terremoto in Emilia Romagna è prevista la restituzione dei contributi previdenziali, distribuita in rate mensili.
FAMIGLIE
SFRATTI. Arriva una nuova proroga per il blocco degli sfratti. Il termine è rinviato a fine giugno 2013, con un possibile ulteriore rinvio di altri sei mesi.
FOTOVOLTAICO. Prorogato al 30.06.2013 il termine per realizzare gli impianti fotovoltaici su edifici pubblici e aree della pubblica amministrazione.
ABS E PNEUMATICI. Cancellato l'Abs obbligatorio per le moto e salta l'obbligo di montare pneumatici termici sulle auto (e non le catene) in caso di forti nevicate.
SISMA EMILIA. Risorse per sostenere le imprese che hanno subito danni indiretti, con l'accesso ai mutui garantiti dallo Stato per pagare tasse e contributi.
ENTI LOCALI
PATTO STABILITÀ. Salgono a 1,4 mld le risorse per Comuni e Province. Un miliardo arriverà da un allentamento del patto di stabilità interno, 400 mln da minori tagli per i Comuni.
PROVINCE. Congelato per un anno il riordino delle Province. Anche nel 2013 non ci saranno elezioni e, se necessario, arriverà un commissario straordinario.
COMUNI. Rinvio di sei mesi per l'approvazione dei bilanci dei Comuni. Il termine per la delibere sul bilancio degli enti locali è spostato infatti al 30 giugno 2013.
RIFIUTI ROMA. Sarà nominato un supercommissario per la gestione dei rifiuti a Roma e provincia. L'incarico potrà durare sei mesi, con la possibilità di proroga.
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
CONGEDI A ORE. Arrivano i congedi parentali «su base oraria». Le modalità per beneficiarne saranno definite dalla contrattazione collettiva di settore.
TFR PUBBLICO IMPIEGO. Cancellata la trattenuta del 2,5% sul Tfr per i dipendenti pubblici, con il ripristino del trattamento di fine servizio (Tfs).
UNIVERSITÀ. Per gli atenei arrivano nuove risorse per 100 milioni di euro. Andranno ad aumentare la dotazione del Fondo per il finanziamento ordinario delle università.
POLICLINICI NON STATALI. I policlinici delle università non statali avranno nel 2013 un contributo di 52,5 milioni. La fondazione Gaslini riceve invece 5 milioni.
FANNULLONI SANITÀ. Verifica straordinaria sul personale del settore sanitario. Se saranno scovati dei 'fannulloni', dovranno essere ricollocati alle proprie mansioni.
GDF. Da ottobre per diventare generale di divisione e generale di corpo d'armata della Guardia di finanza servirà un anno in più di permanenza nel grado precedente.
SICUREZZA. Nel comparto sicurezza si potranno fare assunzioni di personale per arrivare a una spesa annua massima di 70 milioni per il 2013 e 120 milioni dal 2014.
BENI MAFIA. Rafforzamento per l'Agenzia per l'amministrazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata. I beni mobili sotto sequestro potranno essere venduti.
POSTE. Rinvio di un anno per i tagli al parco auto di Poste italiane, obbligata a ridurre le vetture usate dai postini e quelle date come benefit ai dipendenti.
INPS-INAIL. Slitta al 31 luglio la scadenza dei consigli di indirizzo e vigilanza (Civ) di Inps e Inail, in attesa del riordino previdenziale con la nascita del super-Inps.
FINANZIAMENTI
MONTI-BOND. Cambiano i Monti-bond, le obbligazioni sottoscritte dal ministero dell'Economia di cui beneficerà Banca Mps. Il termine slitta ancora al primo marzo del 2013.
FONDO TAGLIA-TASSE. Non andranno al fondo taglia-tasse le risorse derivanti dalla minore spesa per interessi sul debito pubblico, legata al calo dello spread Btp-Bund.
EXPO 2015. L'Expo 2015 non subirà i tagli lineari del 10%. A supporto della società di gestione arriverà il personale della struttura per la gestione liquidatoria di Torino 2006.
BEI. L'Italia parteciperà all'aumento di capitale della Banca europea per gli investimenti con un contributo di 1,617 miliardi, da pagare in un'unica tranche nel 2013.
AEROSPAZIO. Arrivano 8,43 miliardi di euro in 16 anni per sostenere le imprese del settore aerospaziale. Un intervento di cui beneficerà in particolare Finmeccanica.
NON-AUTOSUFFICIENZE. Stanziati 115 milioni di euro per sostenere i malati di Sla (sclerosi laterale amiotrofica) e aiutare le persone non-autosufficienti.
TAV. Nuove risorse per 2,25 miliardi di euro per la Tav Torino-Lione. All'alta velocità ferroviaria sono destinati 150 milioni di euro all'anno dal 2015 al 2029.
EDITORIA
EDITORIA. Per il prossimo anno stanziati 45 milioni di euro per il settore editoriale e 15 milioni per il sostegno a radio e televisioni locali.
TV-STAMPA. Prorogato di un anno il divieto di incroci proprietari tra stampa e televisioni. Lo stop resta in vigore fino al 31.12.del 2013.
GIOCHI
SALE POKER. Scattano a gennaio le gare per aprire sale da poker. È stata eliminata infatti la proroga di sei mesi per l'apertura di sale dedicate al gioco d'azzardo.
MULTE GIOCHI. Rinvio al 30.06.2013 per le multe previste per gli spot radio-televisivi e la pubblicità sulla stampa per ragazzi che pubblicizzano i giochi con vincite in denaro (articolo ItaliaOggi del 21.12.2012 - tratto da www.corteconti.it).

INCARICHI PROGETTUALI: Appalti senza ribassi selvaggi. Nuovi parametri per i servizi di ingegneria e architettura. È in dirittura d'arrivo il provvedimento per la liquidazione dei compensi professionali.
È finita l'era delle liberalizzazioni selvagge nei bandi per la pubblica amministrazione. L'era in cui cioè, con l'eliminazione delle tariffe, le gare per i servizi di ingegneria e architettura venivano aggiudicate a prezzi stracciati con ribassi anche del 90% rispetto al prezzo iniziale.

È in dirittura d'arrivo, infatti, un nuovo provvedimento che dopo la definizione dei parametri (dm 01/08/2012) per la liquidazione dei corrispettivi in caso di contenzioso, si occuperà di comporre il mosaico complessivo di riforma delle professioni: si tratta di un decreto interministeriale (giustizia-infrastrutture) che definisce i parametri da utilizzare per la determinazione dell'importo da porre a base di gara nell'ambito dei contratti pubblici dei servizi di ingegneria e architettura.
Il contesto generale. Un testo dall'elaborazione complessa (il ministero sta finendo le consultazioni con le categorie interessate per inviarlo al Consiglio di stato) ma necessario, dopo che il decreto legge sulle liberalizzazioni (1/12) aveva di fatto cancellato ogni riferimento tariffario, privando le stazioni appaltanti di regole per calcolare gli importi e per determinare, di conseguenza, le corrette procedure per l'affidamento. Un'assenza di regole denunciata a gran voce dalle categorie professionali che, tra le altre cose, ha alimentato, soprattutto in questi mesi, un'eccessiva discrezionalità delle stazioni appaltanti.
Anche se l'assenza di riferimenti tariffari per i servizi di ingegneria e di architettura non è uno scenario nuovo per il settore già colpito da modifiche significative nel 2006 con l'eliminazione delle tariffe minime obbligatorie, introdotta dalle lenzuolate Bersani. Questa abolizione pur con alcune eccezioni (giacché il ricorso alle tariffe non era vietato del tutto se utilizzate come parametri di riferimento) non contemplava comunque più l'obbligo per le stazioni appaltanti di applicare tariffe fisse o minime con il risultato di avere ribassi delle offerte nelle gare pubbliche anche del 90% del loro valore iniziale.
Comunque per sanare tale criticità il governo era intervenuto con il decreto sviluppo stabilendo che per la determinazione dei corrispettivi da porre a base di gara nelle procedure di affidamento di contratti pubblici dei servizi tecnici si sarebbero applicati i parametri individuati appunto con un decreto interministeriale che avrebbe anche definito «le classificazioni delle prestazioni professionali relative ai predetti servizi». Il tutto con un paletto preciso: «I parametri individuati non possono condurre alla determinazione di un importo a base di gara superiore a quello derivante dall'applicazione delle tariffe professionali vigenti prima dell'entrata in vigore del presente decreto».
I punti principali del testo. La battaglia dei periti industriali che hanno sostenuto assieme al Pat, il lavoro dei tecnici del ministero per la stesura del testo, è stata orientata soprattutto a eliminare gli aspetti eccessivamente discrezionali. Così è saltata, in primo luogo, la possibilità per le pubbliche amministrazioni di aumentare o diminuire gli importi a base di gara del 60% in maniera completamente discrezionale come invece è avvenuto nel decreto sui parametri per le liquidazioni giudiziali dei compensi dei professionisti (dm 140/12). Allo stesso modo quel parametro indicato nel testo con la lettera «G», che nel calcolo degli importi a base di gara servirà a definire la «complessità della prestazione», vedrà diminuire la sua portata discrezionale.
Il decreto, infatti, non fissa più (come nelle versioni circolate in precedenza) una forbice tra due valori (ridotto e elevato), ma quozienti fissi e non derogabili stabiliti a seconda della categoria e della destinazione funzionale dell'opera. Il provvedimento richiama nella valutazione del compenso quanto stabilito nel decreto relativo ai parametri giudiziali prevedendo anche la classificazione dei servizi professionali, tenendo conto della categoria dell'opera e del grado di complessità.
Torna poi la liquidazione forfettaria delle spese, in sostanza l'importo delle spese e degli oneri accessori, invece si legge sul dm, è determinato «forfettariamente» secondo percentuali standard degli oneri sostenuti dal professionista che varieranno tra il 10 e il 25% a seconda del valore dell'opera.
Il commento. «L'offerta economica calcolata su basi false», commenta il presidente del Cnpi Giuseppe Jogna, «era tristemente diventata l'unica variabile nelle aggiudicazioni, e abbiamo assistito a corse al ribasso per firmare contratti un po' usa e getta. Ma non solo, perché nonostante l'evidente abnormità dei ribassi, le stazioni appaltanti, forse perseguendo un miope criterio di risparmio, non hanno quasi mai dato applicazione al concetto di offerta anomala.
Uno scenario quasi da Far west che sull'onda delle selvagge liberalizzazioni ha assimilato le attività professionali a quelle dell'impresa dove prevale il minor costo anche a scapito della qualità dei servizi. Ecco perché ben venga questo decreto che sono convinto risolleverà l'alto livello qualitativo che, da sempre, ha caratterizzato gli studi di progettazione nel nostro paese» (articolo ItaliaOggi del 21.12.2012 - tratto da www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Le liti stradali non sono assimilabili a quelle tributarie. Lo ha detto la Consulta. Sindaci, multe non impugnabili. Decadono se ricorrono contro le multe del proprio vigile.
Costa caro al primo cittadino proporre ricorso al giudice di pace contro una multa personale elevata dal suo comando di polizia municipale. Il radicamento e la prosecuzione della lite costituiscono infatti potenziali cause di decadenza dall'incarico in conformità all'art. 63 del Tuel.
Lo ha evidenziato la Corte Costituzionale con l'ordinanza 06.12.2012 n. 276.
È singolare la vicenda del sindaco di Azzano Decimo che dopo essere incappato nei rigori dell'autovelox dei vigili del suo comune ha proposto ricorso contro la multa davanti al giudice di pace di Pordenone.
Un attento cittadino di diverso orientamento politico ha quindi promosso con successo un giudizio davanti al tribunale al fine di accertare l'incompatibilità sopravvenuta del primo cittadino ai sensi dell'art. 63 del dlgs 267/2000. Contro questa decisione l'interessato con la fascia tricolore ha quindi proposto censure alla corte d'appello di Trieste evidenziando, tra l'altro, la progressiva limitazione dell'ambito di applicazione di questo istituto e la potenziale assimilazione del contenzioso stradale con le liti tributarie specificamente escluse dall'incompatibilità. I giudici della città della scienza hanno allora sollevato questione di legittimità costituzionale proprio su quest'ultima questione evidenziando che l'art. 63 del Tuel è potenzialmente carente laddove non comprende anche le cause di opposizione ex legge 689/1981 tra quelle che non determinano la decadenza come quelle fiscali.
A parere della Consulta però la lite tributaria non è assolutamente assimilabile a quella stradale. La giurisprudenza di legittimità, specifica l'ordinanza, «ha annoverato il procedimento di cui alla legge n. 689 del 1981 tra quelli civili a cognizione ordinaria tendente all'accertamento negativo della pretesa sanzionatoria da parte dell'autorità competente e proponibili al giudice di pace ovvero al tribunale». In pratica la speciale natura della giurisdizione tributaria «implica una ontologica eterogeneità rispetto alla natura di giudizio civile a cognizione ordinaria attribuita alla opposizione ex lege n. 689/1981, determinando di conseguenza l'incomparabilità delle situazioni poste a raffronto».
In buona sostanza se un sindaco intende resistere contro una multa stradale accertata dai suoi operatori ha le armi spuntate. Questa condizione però secondo la Corte costituzionale non incide necessariamente in maniera sfavorevole sull'elettorato passivo del primo cittadino. L'amministratore locale, conclude infatti l'ordinanza, ha piena facoltà di eliminare le cause di incompatibilità mediante un scelta personale «che lungi dall'essere normativamente coartata consente al medesimo interessato (che si trova in un contesto di inconciliabilità tra la permanenza nella carica e la prosecuzione della lite) di essere arbitro di se stesso e di preservare il valore costituzionale che egli ritiene prevalente come cittadino e come eletto a cariche pubbliche» (articolo ItaliaOggi del 21.12.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Regolamento sprint per i controlli.
Tempi stretti per l'approvazione del regolamento che dovrà definire gli strumenti e le modalità di controllo interno di cui al comma 1, lett. d), dell'art. 3 del dl 174 convertito nella legge 213/2012.

Chi si augurava che con la conversione del decreto legge in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali sarebbe slittato almeno di due mesi il termine del 10.01.2013 è rimasto deluso e oramai restano pochi giorni per l'adozione di un regolamento complesso che presuppone anche una chiara visione organizzativa e di funzionamento effettivo dei «nuovi» sistemi di controllo interni agli enti locali.
Con la conversione del dl 174 è stata concessa una proroga temporale di uno o due anni ai comuni con popolazione inferiore ai 100 mila abitanti (a seconda della dimensione demografica, rispettivamente, superiore a 50 mila o a 15 mila abitanti) solo per la tipologia dei controlli sulle partecipate, compreso il bilancio consolidato, strategico, sulla qualità dei servizi erogati e sulla soddisfazione degli utenti interni ed esterni.
Immediata operatività per tutti gli enti locali, invece, del controllo di gestione, del controllo strategico, del controllo costante degli equilibri finanziari, sia in termini di competenza sia di residui nonché della gestione di cassa, anche ai fini del rispetto del patto di stabilità. Gli enti avevano tre mesi dal 10.10.2012, per l'adozione con delibera di Consiglio di un apposito regolamento da inviare alla Corte dei conti e al prefetto, pena lo scioglimento del Consiglio ai sensi dell'art. 141 Tuel.
Ma oltre al regolamento la norma richiede la piena ed effettiva operatività degli stessi controlli; non basta, cioè, la stesura ed approvazione del regolamento.
Sicuramente la complessità della tipologia dei controlli in questione richiede uno sforzo organizzativo degli enti che passa attraverso la rivisitazione del regolamento degli uffici e dei servizi per la valutazione della «collocazione» di tali controlli, la verifica del sistema informativo contabile che deve garantire la gestione di informazioni utili (soprattutto in termini di novità) per il controllo di gestione, e quindi la contabilità economica ed analitica, gli indicatori, il sistema di reporting, e il controllo strategico e relativi indicatori di output ed outcome.
Il tempo è obiettivamente troppo breve per l'introduzione o il potenziamento di un serio ed efficace sistema di controlli.
Tuttavia per non vanificare lo sforzo legislativo utile per la collettività, sarebbe opportuno che gli enti adottassero da subito (in assenza di qualche proroga) una delibera di giunta con cui prendere atto di tale obbligo legislativo e dare istruzioni operative e organizzative secondo un percorso prestabilito, riservandosi quanto prima di sottoporre il regolamento al consiglio per la sua approvazione, ben sapendo che anche i regolamenti di Contabilità e dell'organizzazione degli uffici e dei servizi devono essere rivisti e aggiornati (articolo ItaliaOggi del 21.12.2012 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni culturali. Autorizzazioni paesaggistiche. Interventi più facili nelle zone protette.
Meno oneri per gli interventi nelle zone tutelate. Il ministero dei Beni culturali, in linea con quanto previsto dal decreto legge semplificazioni (Dl 5/2012), ha messo a punto un Dpr che chiarisce e in qualche maniera amplia le attività che si possono realizzare nelle zone protette ricorrendo alle modalità "veloci", indicate nel Dpr 139/2010, per ottenere l'autorizzazione paesaggistica. Si tratta di un abbattimento dei tempi (da 120 a 60 giorni) e della presentazione ridotta di documentazione (è sufficiente la certificazione di un tecnico mentre la relazione paesaggistica è in formato "mini").

Di queste semplificazioni già potevano usufruire 39 interventi indicati nel Dpr 139. Ora con il nuovo decreto, che è stato presentato ieri al preconsiglio e sarà esaminato dal prossimo Consiglio dei ministri, la corsia veloce viene estesa, per effetto di chiarimenti che i tecnici del ministero hanno messo a punto circa l'applicazione delle norme già esistenti, ad ambiti nuovi. Si tratta sempre di interventi di lieve entità, che, almeno in teoria, dovrebbero non impattare troppo sul paesaggio.
Per esempio, con il nuovo decreto viene specificato che si può ricorrere alla procedura dell'autorizzazione semplificata anche quando si tratta di attività in aree sottoposte a vincolo di bellezza individua (come ville e giardini) o nei nuclei e centri storici. Fattispecie che finora erano escluse dall'autorizzazione paesaggistica semplificata. Come contropartita, gli interventi di lieve entità che insistono su tali zone presuppongono una relazione paesaggistica che, seppure, semplificata, richiede qualche dettaglio in più rispetto a quella "base". Devono, invece, ricorrere alla procedura ordinaria gli interventi realizzati che prevedono un aumento di volume fino a 100 metri cubi e la demolizione e ricostruzione di manufatti.
Tra le altre modifiche introdotte alle regole dettate con il Dpr 139, è stato reso libero –dunque, non soggetto all'autorizzazione paesaggistica semplificata e tantomeno a quella ordinaria– il taglio selettivo della vegetazione che cresce in prossimità dei fiumi (articolo Il Sole 24 Ore del 20.12.2012).

APPALTIAppalti in lotti. È una facoltà. I pareri parlamentari sulla direttiva.
Facoltà e non obbligo di suddivisione in lotti degli appalti; per le concessioni affidate senza gara obbligo di appaltare a terzi tutti i lavori; più elasticità nelle variazioni del prezzo contrattuale.
Sono questi alcuni dei contenuti dei pareri emessi dalle commissioni parlamentari sulle proposte di direttive europee su appalti e concessioni. La Commissione ambiente della camera, su uno dei punti più controversi (suddivisione in lotti degli interventi di grandi dimensioni) ha chiesto di rendere facoltativa e non vincolante la suddivisione degli appalti in lotti separati, al fine di evitare il rischio di determinare un aggravio dei costi, un prolungamento dei tempi di esecuzione e un incremento del contenzioso.
Per gli affidamenti a terzi da parte dei concessionari di lavori pubblici (tema che da ultimo ha visto il governo Monti seguire la linea di un maggiore ricorso agli affidamenti a terzi con l'obbligo di affidare almeno il 60% a partire dal 01.01.2014), il parere votato il 14 dicembre chiede di valutare «l'opportunità di prevedere la facoltà per le amministrazioni aggiudicatrici di imporre al concessionario che una percentuale minima pari al 30% venga affidata a terzi, con particolare riferimento ai rapporti concessori di lunga durata». Per le concessioni affidate o prorogate senza gara, invece, si suggerisce l'obbligo di affidamento del 100% dei lavori a terzi.
Infine la camera chiede che sia elevata dal 5 al 15% la percentuale di variazione del prezzo a partire dalla quale si deve ricorrere a una nuova procedura di aggiudicazione, favorendo quindi una maggiore elasticità sul mantenimento del contratto originario. Nel parere approvato il 18 dicembre dalla Commissione lavori pubblici del senato, emerge l'apprezzamento per la promozione della partecipazione delle piccole e medie imprese «anche attraverso l'abolizione dei limiti di fatturato per l'accesso agli appalti».
Per quel che riguarda invece l'obbligo di creare organi nazionali di vigilanza (articoli 93 e seguenti delle proposte) la Commissione suggerisce «in relazione alle attuali ristrettezze di bilancio, di individuare gli organi in questione tra le realtà già esistenti nel panorama pubblico italiano»; ove peraltro opera da più di dieci anni l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (articolo ItaliaOggi del 20.12.2012 - tratto da www.corteconti.it).

VARIPROFESSIONI/ Via libera definitivo al ddl. Le associazioni potranno rilasciare gli attestati di competenza. Professionisti anche senza albo. Standard di qualità per le attività non regolamentate.
È arrivato il riconoscimento per le professioni non regolamentate.

È stato infatti approvato ieri dalla commissione Attività produttive della Camera, riunita in sede legislativa, il disegno di legge n. 1934-B che regolamenta le associazioni senza un albo di riferimento.
Che ora diventa quindi legge dello stato, al termine di un iter durato due anni e mezzo. A questo punto, il consumatore che vorrà usufruire di una prestazione da parte di un professionista non iscritto a un ordine, potrà consultare l'elenco delle associazioni professionali pubblicato sul sito del ministero dello sviluppo economico, a cui sono affidati, tra l'altro, i compiti di vigilanza sulla corretta attuazione della legge. Ma vediamo nel dettaglio cosa prevede questa riforma attesa da decenni dalle libere associazioni.
Elenco e pubblicità. L'elenco delle associazioni professionali è pubblicato dal ministero dello sviluppo economico sul proprio sito internet. A loro volta, le associazioni pubblicano online sul proprio portale tutti gli elementi informativi, impegnandosi a rispettare criteri di trasparenza, correttezza, veridicità. Nel dettaglio, le associazioni devono assicurare la piena conoscibilità dei seguenti elementi: atto costitutivo e statuto, precisa identificazione delle attività professionali, composizione degli organismi deliberativi e titolari delle cariche sociali, struttura organizzativa, eventuali requisiti per la partecipazione all'associazione. Al ministero dello sviluppo economico il compito di vigilare sulla corretta attuazione della legge.
Le attestazioni. Le associazioni professionali possono rilasciare ai propri iscritti, previe le necessarie verifiche, delle attestazioni, che però non rappresentano requisito necessario per l'esercizio dell'attività, su molteplici aspetti (regolare iscrizione del professionista, requisiti e standard qualitativi, possesso della polizza assicurativa), al fine di tutelare i consumatori e di garantire la trasparenza del mercato dei servizi professionali.
Per i settori di competenza, le medesime associazioni possono promuovere la costituzione di organismi di certificazione della conformità a norme tecniche Uni, accreditati dall'organismo unico nazionale di accreditamento (Accredia), che possono rilasciare, su richiesta del singolo professionista anche non iscritto ad alcuna associazione, il certificato di conformità alla norma tecnica Uni definita per la singola professione (articolo ItaliaOggi del 20.12.2012).

ATTI AMMINISTRATIVIRicorsi al tar sugli appalti. Contributo unificato, vale l'importo della gara.
Nei ricorsi al Tar sugli appalti il contributo unificato si calcola in base all'importo a base di gara. La precisazione arriva da un emendamento al ddl Stabilità nella parte in cui disciplina il balzello da pagare prima di iniziare una causa.

Il ddl stabilità ha, in particolare, aumentato il contributo per i processi al Tar e al Consiglio di Stato in materia di appalti, sostituendo all'importo fisso di Euro 4 mila una scaletta a seconda del valore della causa: euro 2.000 quando il valore della controversia è pari o inferiore ad euro 200.000; euro 4.000 per le controversie di importo compreso tra 200.000 e 1.000.000 euro; euro 6.000 per quelle di valore superiore a 1.000.000 euro. L'emendamento precisa che si applica la soglia massima (6 mila euro) in altri due casi.
Il primo è quello delle cause di valore indeterminabile; il secondo caso è quello della omessa dichiarazione del valore della lite.
A proposito del valore della lite l'emendamento precisa come debba essere calcolata per i processi amministrativi. Quando le controversie amministrative riguardano i provvedimenti concernenti le procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture il valore della lite è pari all'importo posto a base d'asta individuato dalle stazioni appaltanti negli atti di gara. Il valore non considera i ribassi: c'è quindi la possibilità di un'incidenza negativa nel caso di ribasso che comporta un'offerta compresa nello scaglione più basso del contributo unificato rispetto a quello da applicare per l'importo base.
Altra precisazione contenuta nell'emendamento riguarda i provvedimenti adottati dalle Autorità amministrative indipendenti e quindi le multe applicate dalle authority: il valore della lite è pari alla somma delle sanzioni irrogate.
Altri emendamenti riguardano l'abbandono delle tariffe degli avvocati e l'adeguamento al decreto sui parametri (140/2012) per la liquidazione delle spese da parte dei giudici alla fine di una sentenza: il decreto va usato anche per la liquidazione a favore delle amministrazioni che si difendono nel giudizio civile e in quello tributario con propri funzionari (resta ferma la decurtazione del 20%).
Ciò significa che anche le amministrazioni subiranno la riduzione delle spese rimborsate, considerato che i nuovi parametri sono di regola più bassi delle vecchie tariffe forensi (articolo ItaliaOggi del 19.12.2012).

ATTI AMMINISTRATIVISpecifiche in Gazzetta per la firma digitale.
In G.U. n. 294 di ieri sono stati pubblicati due decreti, a firma del ministro per la pubblica amministrazione, che attuano alcune norme contenute nel Codice dell'amministrazione digitale.
Il primo (D.P.C.M. 06.09.2012) definisce le modalità tecniche con cui inserire nel certificato qualificato di firma le informazioni relative a specifiche qualifiche del titolare della firma digitale, riconosciute da ordini o da collegi professionali, da amministrazioni pubbliche o da enti pubblici e privati.
Il secondo (D.P.C.M. 27.09.2012) fissa le regole tecniche mediante le quali il gestore della casella di posta elettronica certificata (PEC-ID) tramite la quale possono essere presentate, in via telematica, istanze e dichiarazioni alle pubbliche amministrazioni, deve identificare il titolare della medesima casella (articolo ItaliaOggi del 19.12.2012).

CONDOMINIOIn Gazzetta la legge 220/2012: cosa cambia per le comproprietà dei fabbricati. Nuovo condominio da giugno. Il 17/06/2013 la data fissata per l'avvio della riforma.
La riforma del condominio partirà il 17.06.2013. È stata, infatti, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 293 del 17.12.2012 la legge n. 220 dell'11/12/2012 sulla riforma della disciplina delle comproprietà dei fabbricati.
La legge prevede, infatti, una vacatio di sei mesi, che serviranno a studiare le novità e a prepararsi alla applicazione delle nuove disposizioni.
Le novità toccano il condominio a tutto campo: quorum delle assemblee più snello per prendere le decisioni e evitare ingessature, l'amministratore diventa manager e professionista qualificato e trasparente, più libertà per i singoli condomini (nel distacco dall'impianto riscaldamento, per gli impianti radio-tv e pannelli solari.
Cambiano le modalità di convocazione dell'assemblea e i quorum costitutivi e deliberativi, sia in prima sia n seconda convocazione, con un limite alla raccolta di deleghe: l'obiettivo è quello di rendere più snella la gestione e più facili le scelte.
Cambia la disciplina dell'amministratore, che diventa un ruolo professionale e richiede un titolo di studio almeno di istruzione secondaria di secondo grado, ma soprattutto una formazione specifica e un aggiornamento periodico.
Peraltro è prevista una deroga ai requisiti professionali sia per gli amministratori che hanno svolto l'incarico per un anno nell'ultimo triennio (soggetti all'aggiornamento periodico) sia per il singolo condomino che svolge l'attività (esonerato anche da obblighi di aggiornamento).
L'amministratore ha maggiori obblighi di trasparenza e deve aprire un conto corrente bancario dedicato al singolo condomino, mettendo a disposizione i movimenti bancari al controllo dei partecipanti. Si codifica, poi, la regola già prevista da alcune sentenze per cui la funzione amministrativa può essere svolta da una società. Si svecchia la disciplina consentendo il sito internet condominiale e, come richiesto dal garante della privacy, si dettaglia la maggioranza per l'installazione di telecamere per la videosorveglianza condominiale.
Viene concesso più spazio al singolo condomino per distaccarsi dall'impianto di riscaldamento centralizzato, installare impianti di ricezione radiotelevisiva e pannelli solari.
Certo se impianti radio-tv e pannelli solari incidono su parti comuni il condominio potrà dare prescrizioni.
Quanto all'impianto di riscaldamento, il distacco non è completamente libero, in quanto è concesso solo se non si fruisce del calore per problemi tecnici prolungati per un'intera stagione e comunque con obbligo di partecipare alle spese di manutenzione straordinaria della centrale termica.
Inoltre il regolamento non può vietare di tenere animali domestici. Quanto alle spese condominiali, la riforma sceglie il pugno duro contro i morosi, nei cui confronti l'amministratore deve agire entro sei mesi. Inoltre i dati personali dei morosi possono essere comunicati ai creditori del condominio, tenuti ad agire contro gli inadempienti prima di rivalersi sui partecipanti in regola (articolo ItaliaOggi del 18.12.2012).

GIURISPRUDENZA

INCARICHI PROFESSIONALI: Gare senza by-pass. Accordi tra atenei e p.a. illegittimi. La Corte di giustizia Ue sugli incarichi in affido diretto.
Illegittimi gli accordi di collaborazione stipulati fra amministrazioni e università per affidare in via diretta e senza gara, incarichi per servizi di ingegneria e di consulenza; gli accordi previsti dalla legge 241/90 non possono essere utilizzati per eludere l'obbligo di affidare a terzi con gara contratti a titolo oneroso, e sono legittimi soltanto se prevedono una effettiva cooperazione fra i due enti, senza prevedere un compenso.
È quanto si afferma nella sentenza 19.12.2012 (causa C 159/11) della Corte di giustizia Ue che vede come parti in causa da un lato l'Asl di Lecce e dall'altro lato l' Ordine degli ingegneri della provincia di Lecce e il Consiglio nazionale degli ingegneri, l'Oice e il Consiglio nazionale degli architetti.
La vicenda prende le mosse da un affidamento, per importo soggetto alla normativa comunitaria, riguardante servizi di studio e valutazione della vulnerabilità sismica di strutture ospedaliere, disposto dalla Asl Lecce a favore dell'università del Salento. Dopo la sentenza di primo grado del Tar Puglia, che aveva dichiarato illegittimo l'affidamento diretto dell'incarico all'Università, per omesso ricorso alle procedure di evidenza pubblica, il Consiglio di stato aveva rimesso la questione alla Corte di giustizia in via pregiudiziale sulla legittimità degli accordi ex art. 15 della legge 241/1990.
La Corte Ue accoglie in toto le conclusioni dell'Avvocato generale e afferma la violazione delle norme delle direttive appalti in quanto l'accordo non costituisce una forma di cooperazione in comune di attività fra due amministrazioni aggiudicatrici (così come prevede la legge 241/1990), bensì un vero e proprio contratto di consulenza per servizi a fronte del pagamento di un compenso per il quale occorreva procedere con gara, ammettendo tutti gli operatori economici interessati ad acquisire la commessa. L'accordo di collaborazione, peraltro, non può essere neanche qualificato come affidamento in house dal momento che non esiste «controllo analogo» fra Asl e Università, essendo enti totalmente distinti.
È quindi contraria alle direttive «una normativa nazionale che autorizzi la stipulazione, senza previa gara, di un contratto mediante il quale taluni enti pubblici istituiscono tra loro una cooperazione, nel caso in cui (e la verifica spetta al giudice nazionale) tale contratto non abbia il fine di garantire l'adempimento di una funzione di servizio pubblico comune agli enti medesimi, non sia retto unicamente da considerazioni e esigenze connesse al perseguimento di obiettivi d'interesse pubblico, o sia tale da porre un prestatore privato in situazione privilegiata rispetto ai concorrenti».
Per i giudici l'illegittimità dell'accordo va letta in relazione al fatto che il contratto «potrebbe condurre a favorire imprese private qualora tra i collaboratori esterni altamente qualificati cui, in base al contratto l'università può ricorrere per la realizzazione di talune prestazioni, fossero inclusi prestatori privati» (articolo ItaliaOggi del 20.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Sentenza della Corte di giustizia. Gare d'appalto obbligatorie per le consulenze.
L'INDICAZIONE/ Non è rilevante che l'amministrazione aggiudicatrice non persegua un fine di lucro.

Un'amministrazione pubblica è tenuta procedere a gare d'appalto anche nei casi di contratti di consulenza conclusi con un'altra amministrazione aggiudicatrice che non persegue fini di lucro. Poco importa, poi, che la remunerazione prevista nel contratto sia limitata al rimborso spese.
È la conclusione raggiunta dalla Corte di giustizia dell'Unione europea nella sentenza 19.12.2012 (causa C 159/11) che chiarisce l'applicazione della normativa Ue in materia di appalti.
È stato il Consiglio di Stato a sottoporre alla Corte di giustizia un quesito pregiudiziale sulla direttiva 2004/18 relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi (recepita in Italia con decreto legislativo 12.04.2006 n. 163).
Ai giudici amministrativi si erano rivolti associazioni e ordini professionali di ingegneri e architetti che contestavano la legittimità del provvedimento di attribuzione, da parte dell'Azienda sanitaria locale di Lecce, di uno studio sulla vulnerabilità sismica delle strutture ospedaliere all'Università del Salento senza gara a evidenza pubblica. Il contratto prevedeva una remunerazione limitata al rimborso spese. Una circostanza che -secondo la Asl- consentiva di escludere la necessità di una gara e di sottrarre il contratto al perimetro della normativa Ue. Una conclusione non condivisa dalla Corte di giustizia.
Prima di tutto, precisa Lussemburgo, la direttiva 2004/18 non prevede un'esclusione delle gare di appalto nei casi in cui la remunerazione è basata sul rimborso delle spese. Non solo. Le eccezioni all'applicazione delle normativa Ue in materia di appalti pubblici sono limitate e riguardano unicamente il caso di un contratto di appalto stipulato da un ente pubblico a vantaggio di un altro ente pubblico sul quale il primo esercita un controllo. Una situazione che non ricorre nel caso dei rapporti tra azienda sanitaria e Università. Né è applicabile l'altra eccezione stabilita nella direttiva fondata sulla circostanza che il contratto concluso dai due enti pubblici serva «a garantire l'adempimento di una funzione di servizio pubblico comune». Le attività commissionate, infatti, avevano sì un fondamento scientifico ma «non assomigliavano ad attività di ricerca scientifica».
C'è poi un ulteriore elemento che ha fatto sorgere perplessità alla Corte di giustizia. Il contratto di consulenza, infatti, prevedeva la possibilità per l'Università di ricorrere a prestatori di servizi privati per lo svolgimento di alcune attività. Questa possibilità –chiarisce la Corte– può condurre a favorire alcune imprese private con il ricorso a collaboratori esterni qualificati. Di qui la necessità di una gara per evitare che un prestatore privato sia poi in una situazione privilegiata rispetto ai concorrenti (articolo Il Sole 24 Ore del 20.12.2012).

APPALTI: In materia di affidamenti in economia, l’art. 125 d.lgs. n. 163/2006 impone il rispetto del principio di trasparenza, di cui costituisce espressione la pubblicità delle sedute di gara, che costituisce, secondo la giurisprudenza, un principio applicabile anche alle procedure negoziate nei settori ordinari.
L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha chiarito che i principi di pubblicità e trasparenza che governano la disciplina comunitaria e nazionale in materia di appalti pubblici si estendono anche alle procedure negoziate, con o senza previa predisposizione di bando di gara, e persino agli affidamenti in economia nella forma del cottimo fiduciario, in relazione sia ai settori ordinari che ai settori speciali di rilevanza comunitaria.
Inoltre, anche quando il criterio è quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa, si applica la pubblicità delle sedute per le attività preliminari, diverse dalla valutazione vera e propria delle offerte tecniche.

In materia di affidamenti in economia, l’art. 125 d.lgs. n. 163/2006 impone il rispetto del principio di trasparenza, di cui costituisce espressione la pubblicità delle sedute di gara (Cons. St., ad. plen., 28.07.2011, n. 13), che costituisce, secondo la giurisprudenza, un principio applicabile anche alle procedure negoziate nei settori ordinari (Cons. St., sez. V, 04.03.2008 n. 901; Cons. St., sez. III, 03.03.2011 n. 1369).
L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha chiarito che i principi di pubblicità e trasparenza che governano la disciplina comunitaria e nazionale in materia di appalti pubblici si estendono anche alle procedure negoziate, con o senza previa predisposizione di bando di gara, e persino agli affidamenti in economia nella forma del cottimo fiduciario, in relazione sia ai settori ordinari che ai settori speciali di rilevanza comunitaria (Cons. St., ad. plen., 31.07.2012, n. 31).
Inoltre, anche quando il criterio è quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa, si applica la pubblicità delle sedute per le attività preliminari, diverse dalla valutazione vera e propria delle offerte tecniche (Cons. St., ad. plen., 28.07.2011, n. 13; Id., 31.07.2012, n. 31) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.12.2012 n. 6478 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAIl "preavviso di rigetto" costituisce un istituto di carattere generale che si inscrive nel sistema delle garanzie di partecipazione procedimentale che impongono l’obbligo all’amministrazione intenzionata ad adottare un provvedimento negativo di informarne l’interessato, esponendo i motivi che si oppongono ad una decisione allo stesso favorevole, al fine di fornirgli la possibilità di intervenire nel procedimento mediante l’apporto di eventuali elementi integrativi dell’istruttoria.
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Proprio in materia di esplicazione di poteri di natura squisitamente discrezionale, come nel caso di specie, in cui la Soprintendenza deve effettuare una ponderata comparazione del progetto presentato con i valori storico-architettonici e paesaggistici tutelati, può essere maggiormente utile l’apporto partecipativo del privato interessato al procedimento amministrativo, per porre in luce aspetti magari sottovalutati dall’autorità responsabile del procedimento o non risultanti chiari a sufficienza dall’esame delle elaborazioni progettuali allegate all’istanza, sia a vantaggio degli interessi del privato medesimo che della corretta esplicazione del potere nel pubblico interesse.
La giurisprudenza amministrativa si è, infatti, costantemente espressa nel senso dell’illegittimità del provvedimento di diniego di rilascio di un’autorizzazione paesaggistica che, in violazione dell’art. 10-bis della l. n. 241/1990, non sia stato preceduto dalla comunicazione del c.d. preavviso di rigetto al richiedente; né, al riguardo, potrebbe ricevere applicazione il meccanismo sanante contemplato dall’art. 21-octies, comma 2, ultimo inciso, l. n. 241/1990, atteso che la natura discrezionale e non vincolata del potere che l’amministrazione investita dell’istanza respinta ha esercitato è tale da indurre a ritenere che l’apporto partecipativo dell’interessato avrebbe potuto orientare in modo differente gli esiti del procedimento ed il contenuto della determinazione amministrativa da assumere.

In relazione al primo motivo dedotto, infatti, relativo alla violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990 e dell’art. 146, comma 8, del d.lgs. n. 42/2004, deve, innanzitutto, ritenersi che il "preavviso di rigetto" costituisca un istituto di carattere generale che si inscrive nel sistema delle garanzie di partecipazione procedimentale che impongono l’obbligo all’amministrazione intenzionata ad adottare un provvedimento negativo di informarne l’interessato, esponendo i motivi che si oppongono ad una decisione allo stesso favorevole, al fine di fornirgli la possibilità di intervenire nel procedimento mediante l’apporto di eventuali elementi integrativi dell’istruttoria.
Dalla documentazione versata in atti risulta pacificamente che tale possibilità sia stata negata alla società ricorrente.
Deve, in proposito, osservarsi che, proprio in materia di esplicazione di poteri di natura squisitamente discrezionale, come nel caso di specie, in cui la Soprintendenza deve effettuare una ponderata comparazione del progetto presentato con i valori storico-architettonici e paesaggistici tutelati, può essere maggiormente utile l’apporto partecipativo del privato interessato al procedimento amministrativo, per porre in luce aspetti magari sottovalutati dall’autorità responsabile del procedimento o non risultanti chiari a sufficienza dall’esame delle elaborazioni progettuali allegate all’istanza, sia a vantaggio degli interessi del privato medesimo che della corretta esplicazione del potere nel pubblico interesse.
La giurisprudenza amministrativa si è, infatti, costantemente espressa nel senso dell’illegittimità del provvedimento di diniego di rilascio di un’autorizzazione paesaggistica che, in violazione dell’art. 10-bis della l. n. 241/1990, non sia stato preceduto dalla comunicazione del c.d. preavviso di rigetto al richiedente; né, al riguardo, potrebbe ricevere applicazione il meccanismo sanante contemplato dall’art. 21-octies, comma 2, ultimo inciso, l. n. 241/1990, atteso che la natura discrezionale e non vincolata del potere che l’amministrazione investita dell’istanza respinta ha esercitato è tale da indurre a ritenere che l’apporto partecipativo dell’interessato avrebbe potuto orientare in modo differente gli esiti del procedimento ed il contenuto della determinazione amministrativa da assumere.
Nella fattispecie in questione, in particolare, il ricorrente ha lamentato che la violazione del contraddittorio procedimentale non gli avrebbe permesso di evidenziare all’amministrazione le concrete ragioni dell’asserita compatibilità del progetto presentato, che non sarebbe stato completamente e correttamente interpretato dall’amministrazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 18.12.2012 n. 3117 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl sottoporre la realizzazione di una stazione radio base di potenza inferiore ai 20 W al procedimento edilizio proprio del permesso di costruire rappresenta una violazione dell’art. 4 del d.lgs. 259/2003 e dell’art. 1 della legge n. 241/1990 e cioè di quelle norme che impongono la semplificazione dei procedimenti preordinati all’esercizio dell’attività di radiocomunicazione.
Come chiarito dal Consiglio di Stato, la realizzazione di impianti di telecomunicazione è subordinata soltanto all’autorizzazione prevista dall’art. 87 del d.lgs. n. 259/2003, ….non occorrendo perciò il permesso di costruire di cui agli artt. 3 e 10 del DPR n. 380/2001.
In ogni caso, gli impianti di telefonia mobile “non possono essere assimilati alle normali costruzioni edilizie” e vanno comunque qualificati come opere di infrastrutturazione del territorio, realizzabili in qualsiasi zona del territorio comunale ai sensi dell’art. 16 del D.P.R. 280/2001.

Con riferimento alla prima censura dedotta, il Collegio non ravvisa ragione alcuna di discostarsi dal costante orientamento giurisprudenziale, anche di questo Tribunale, in ragione del quale il sottoporre la realizzazione di una stazione radio base di potenza inferiore ai 20 W al procedimento edilizio proprio del permesso di costruire rappresenta una violazione dell’art. 4 del d.lgs. 259/2003 e dell’art. 1 della legge n. 241/1990 e cioè di quelle norme che impongono la semplificazione dei procedimenti preordinati all’esercizio dell’attività di radiocomunicazione.
Deve pertanto ritenersi fondato il ricorso, nella parte in cui ha dedotto l’illegittimità della sottoposizione della realizzazione dell’impianto in questione alla disciplina edilizia propria degli interventi di ristrutturazione, con conseguente esclusione della possibilità di fare ricorso all’istituto della D.I.A. edilizia. Come chiarito dal Consiglio di Stato nella sentenza della sez. VI, n. 2436 del 28.04.2010, la realizzazione di impianti di telecomunicazione è subordinata soltanto all’autorizzazione prevista dall’art. 87 del d.lgs. n. 259/2003, ….non occorrendo perciò il permesso di costruire di cui agli artt. 3 e 10 del DPR n. 380/2001.
In ogni caso, gli impianti di telefonia mobile “non possono essere assimilati alle normali costruzioni edilizie” (in senso conforme cfr. TAR Palermo, sentenza 4557 del 15.07.2010) e vanno comunque qualificati come opere di infrastrutturazione del territorio, realizzabili in qualsiasi zona del territorio comunale ai sensi dell’art. 16 del D.P.R. 280/2001 (cfr. Cons. Stato, VI, sentenza 4056 del 19.06.2009).
Conseguentemente il provvedimento impugnato, che si fonda sulla mera collocazione dell’impianto in zona “A” del territorio comunale, appare privo di un’idonea motivazione, anche nella parte in cui richiama la deliberazione della giunta comunale n. 25009 dell’08.09.1999, la quale prescriveva un divieto generalizzato di installazione di tralicci in zona A. Non solo, infatti, tale previsione non ha natura regolamentare e, quindi, non può avere un valore di parametro di riferimento laddove la legge prescrive, per l’eventuale limitazione nella collocazione di impianti di radiofonia, l’espressa esistenza di un divieto puntuale, ma ha anche un contenuto generico e generalmente applicabile a tutte le fattispecie che la rende incompatibile con la disciplina specifica della materia, la quale consente la limitazione all’istallazione solo laddove ciò risulti motivato da specifici motivi che ne impongono la collocazione in un diverso e specifico punto della zona in questione.
Pertanto, fermo restando l’obbligo del rispetto dei limiti delle emissioni, peraltro garantito, nel caso di specie, dal parere positivo dell’ARPA, la realizzazione della SRB è stata illegittimamente denegata in ragione di un, non ravvisabile alla luce di quanto sin qui detto, contrasto del progetto con l’allora vigente normativa urbanistica, di fatto non esistente (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 18.12.2012 n. 1979 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una tettoia può costituire una vera e propria costruzione in relazione alle dimensioni ed ai materiali utilizzati e come tale, può essere soggetta al permesso di costruire.
Al riguardo si deve ricordare che gli interventi consistenti nella installazione di tettoie o di altre strutture che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito, possono ritenersi sottratti al regime del permesso di costruire soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) dell'immobile cui accedono.
Tali strutture non possono viceversa ritenersi installabili senza permesso di costruire, o D.I.A “alternativa” ai sensi dell'art. 22 del d.P.R. n. 380/2001, allorquando le loro dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite; quando quindi per la loro consistenza dimensionale non possono più ritenersi assorbite, ovvero ricomprese in ragione della accessorietà, nell'edificio principale o della parte dello stesso cui accedono.
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Per l'identificazione della nozione di volume tecnico assumono valore tre ordini di parametri:
- il primo, positivo, di tipo funzionale, per cui il manufatto deve avere un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione;
- il secondo ed il terzo, negativi, ricollegati da un lato all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel senso che tali costruzioni non devono poter essere ubicate all'interno della parte abitativa, e dall'altro ad un rapporto di necessaria proporzionalità fra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti: ne deriva che tale nozione può essere applicata solo alle opere edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti serventi di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa.

Contrariamente a quanto dedotto da parte ricorrente, infatti, la realizzazione di una tettoia può costituire una vera e propria costruzione in relazione alle dimensioni ed ai materiali utilizzati e come tale, può essere soggetta al permesso di costruire (TAR Toscana, sez. III, 17.07.2003, n. 2850; TAR Veneto, Sez. II, 10.02.2003, n. 1216).
Al riguardo si deve ricordare che, per giurisprudenza costante di questo Tribunale (TAR Campania Napoli, sez. IV, n. 897 del 18.02.2003, n. 12962 del 20.10.2003, n. 4107 del 16.07.2002), gli interventi consistenti nella installazione di tettoie o di altre strutture che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito, possono ritenersi sottratti al regime del permesso di costruire soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) dell'immobile cui accedono.
Tali strutture non possono viceversa ritenersi installabili senza permesso di costruire, o D.I.A “alternativa” ai sensi dell'art. 22 del d.P.R. n. 380/2001, allorquando le loro dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite; quando quindi per la loro consistenza dimensionale non possono più ritenersi assorbite, ovvero ricomprese in ragione della accessorietà, nell'edificio principale o della parte dello stesso cui accedono (in termini Consiglio di Stato, Sez. V, 13.03.2001, n. 1442, sez. II, 05.02.1997, n. 336, TAR Lazio, Sez. II n. 1055 del 15.02.2002, TAR Parma n. 114 del 06.03.2003).
Nel caso in esame la dimensione della tettoia di cui trattasi è visibilmente idonea a modificare la sagoma ed il prospetto dell'edificio, con conseguente alterazione dell'edificio cui accede, e dagli atti del giudizio non risulta per essa presentata D.I.A “alternativa”, ai sensi dell'art. 22, comma 3, del DPR n. 380/2001, né richiesto permesso di costruire, con conseguente legittimità dell'ordine di demolizione emanato. Né la “tettoia” di cui trattasi potrebbe comunque essere considerata un “volume tecnico”.
Per l'identificazione della nozione di volume tecnico assumono infatti valore tre ordini di parametri: il primo, positivo, di tipo funzionale, per cui il manufatto deve avere un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione; il secondo ed il terzo, negativi, ricollegati da un lato all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel senso che tali costruzioni non devono poter essere ubicate all'interno della parte abitativa, e dall'altro ad un rapporto di necessaria proporzionalità fra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti: ne deriva che tale nozione può essere applicata solo alle opere edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti serventi di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa (TAR Campania Napoli, sez. IV, 09.09.2009, n. 4903; TAR Campania Napoli, sez. II, 11.09.2009, n. 4949) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 14.12.2012 n. 5214 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Si è ritenuto, talvolta, che non sussista l'obbligo della comunicazione dell'avvio del procedimento qualora non vi sia alcuna utilità all'azione amministrativa che scaturisca dalla comunicazione stessa; l'obbligo sarebbe sancito in funzione dell'arricchimento che deriva all'azione amministrativa, sul piano del merito e della legittimità, dalla partecipazione del destinatario al provvedimento, e, qualora questo non sussista, tale comunicazione sarebbe superflua e quindi l'obbligo non sussiste.
Analogamente, si è ritenuto che l'omissione della comunicazione di inizio del procedimento comporti l'illegittimità dell'atto conclusivo soltanto nel caso in cui il soggetto non avvisato possa poi provare che, ove avesse potuto tempestivamente partecipare al procedimento stesso, avrebbe potuto presentare osservazioni ed opposizioni che avrebbero avuto la ragionevole possibilità di avere un'incidenza causale nel provvedimento finale.

È ormai orientamento consolidato della giurisprudenza amministrativa quello secondo cui le norme in materia di partecipazione al procedimento non vanno applicate necessariamente e formalmente a qualunque ipotesi di azione amministrativa.
Così, ad esempio, attribuendosi valore decisivo al profilo funzionale della partecipazione procedimentale, si è ritenuto, talvolta, che non sussista l'obbligo della comunicazione dell'avvio del procedimento qualora non vi sia alcuna utilità all'azione amministrativa che scaturisca dalla comunicazione stessa; l'obbligo sarebbe sancito in funzione dell'arricchimento che deriva all'azione amministrativa, sul piano del merito e della legittimità, dalla partecipazione del destinatario al provvedimento, e, qualora questo non sussista, tale comunicazione sarebbe superflua e quindi l'obbligo non sussiste (TAR Lazio, Sez. III, 17.06.1998, n. 1405).
Analogamente, si è ritenuto che l'omissione della comunicazione di inizio del procedimento comporti l'illegittimità dell'atto conclusivo soltanto nel caso in cui il soggetto non avvisato possa poi provare che, ove avesse potuto tempestivamente partecipare al procedimento stesso, avrebbe potuto presentare osservazioni ed opposizioni che avrebbero avuto la ragionevole possibilità di avere un'incidenza causale nel provvedimento finale (TAR Puglia, Sez. I, 15.09.1997, n. 546) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 14.12.2012 n. 5213 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Un'area edificatoria, già utilizzata a fini edilizi, è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione.
Il calcolo della volumetria realizzabile su di un lotto edificabile deve essere operato detraendo dalla cubatura richiesta quella relativa al fabbricato preesistente, in modo da determinare se residui un'ulteriore volumetria assentibile, a nulla rilevando il fatto che questa possa insistere su particelle che erano catastalmente divise; tale computo assume rilievo non certo al fine di determinare una qualche incidenza sulle volumetrie eseguite in conformità della normativa vigente all’epoca in cui il relativo progetto è stato assentito (come affermato dalla difesa del ricorrente, infatti, la modifica dell’indice di fabbricabilità successiva non può certo determinare l’annullamento del titolo edilizio rilasciato in conformità della disciplina urbanistica applicabile ratione temporis), ma incide in maniera decisiva sull’assentibilità degli interventi ulteriori e, nella fattispecie, la volumetria prevista dal P.R.G. per il lotto de quo era stata già ampiamente superata.
Si evidenzia, inoltre, che i suddetti indici di fabbricabilità non possono in alcun modo essere derogati, salve ipotesi eccezionali riconducibili ad una legislazione di condono, in quanto, come più volte ribadito, notoriamente diretti a concorrere alla regolamentazione dell'uso del territorio comunale in modo conforme, coerente ed adeguato ai connessi interessi pubblici, così come apprezzati dall'amministrazione comunale attraverso le scelte pianificatorie operate.

Il Collegio, conformemente alla consolidata giurisprudenza, rileva, altresì, che un'area edificatoria, già utilizzata a fini edilizi, è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione (Cons. St., sez. V, 28.05.2012, n. 3120).
La stessa giurisprudenza ha anche chiarito che il calcolo della volumetria realizzabile su di un lotto edificabile deve essere operato detraendo dalla cubatura richiesta quella relativa al fabbricato preesistente, in modo da determinare se residui un'ulteriore volumetria assentibile, a nulla rilevando il fatto che questa possa insistere su particelle che erano catastalmente divise (Cons. St., sez. V, 26.09.2008, n. 4647; id. 12.05.2008, n. 2177; id. 23.08.2005, n. 4385; id. 29.06.1979, n. 442); tale computo assume rilievo non certo al fine di determinare una qualche incidenza sulle volumetrie eseguite in conformità della normativa vigente all’epoca in cui il relativo progetto è stato assentito (come affermato dalla difesa del ricorrente, infatti, la modifica dell’indice di fabbricabilità successiva non può certo determinare l’annullamento del titolo edilizio rilasciato in conformità della disciplina urbanistica applicabile ratione temporis), ma incide in maniera decisiva sull’assentibilità degli interventi ulteriori e, nella fattispecie, la volumetria prevista dal P.R.G. per il lotto de quo era stata già ampiamente superata.
Si evidenzia, inoltre, che i suddetti indici di fabbricabilità non possono in alcun modo essere derogati, salve ipotesi eccezionali riconducibili ad una legislazione di condono, in quanto, come più volte ribadito, notoriamente diretti a concorrere alla regolamentazione dell'uso del territorio comunale in modo conforme, coerente ed adeguato ai connessi interessi pubblici, così come apprezzati dall'amministrazione comunale attraverso le scelte pianificatorie operate (Cons. St., sez. V, 28.05.2012, n. 3120) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 14.12.2012 n. 5209 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il rilascio del permesso di costruire in sanatoria consegue necessariamente ad un'istanza dell'interessato, mentre al Comune compete, ai sensi dell'art. 27 del D.P.R. 380/2001, l'esercizio della vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale e, pertanto, una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso di costruire l'amministrazione comunale deve disporne senz'altro la demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità delle stesse.
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L'ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto, affrancato dalla ponderazione discrezionale del confliggente interesse al mantenimento in loco della res, dove la repressione dell'abuso corrisponde per definizione all'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi illecitamente alterato; pertanto, essa è da ritenersi sorretta da adeguata e sufficiente motivazione, consistente nella compiuta descrizione delle opere abusive e nella constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio.
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Correttamente l’amministrazione ha notificato l’ordinanza gravata anche alla società proprietaria dell’immobile in quanto la sanzione demolitoria, avendo natura reale, ben può colpire anche il proprietario non responsabile dell’abuso edilizio il quale va esente dall’ulteriore sanzione dell'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive e della relativa area di sedime solo ove provi inequivocabilmente la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offerti dall'ordinamento.
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La validità ovvero l'efficacia dell'ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se, da un lato, la presentazione della domanda di sanatoria determina inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione, all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera astrattamente suscettibile di sanatoria, dall'altro, occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza; all'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione del sopravvenuto venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata; di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia.

Considerato:
- che il ricorso è infondato;
- che il rilascio del permesso di costruire in sanatoria consegue necessariamente ad un'istanza dell'interessato, mentre al Comune compete, ai sensi dell'art. 27 del D.P.R. 380/2001, l'esercizio della vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale e, pertanto, una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso di costruire l'amministrazione comunale deve disporne senz'altro la demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità delle stesse;
- che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa di parte ricorrente, nella fattispecie, trova applicazione l’art. 31 e non l’art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, essendo stata contestata non già una parziale difformità dell’opera eseguita rispetto al progetto assentito bensì l’edificazione, in assenza di alcun titolo edilizio, di un intero piano in sopraelevazione al fabbricato esistente; ciò a prescindere dalla circostanza che parte ricorrente si è limitata ad asserire che la demolizione potrebbe recare pregiudizio alla parte conforme del manufatto, senza fornire neanche un principio di prova;
- che l’ordinanza di demolizione gravata è sorretta da un adeguato substrato motivazionale e non presenta alcuna carenza istruttoria;
- che, in particolare, per giurisprudenza costante, l'ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto, affrancato dalla ponderazione discrezionale del confliggente interesse al mantenimento in loco della res, dove la repressione dell'abuso corrisponde per definizione all'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi illecitamente alterato; pertanto, essa è da ritenersi sorretta da adeguata e sufficiente motivazione, consistente nella compiuta descrizione delle opere abusive e nella constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio (cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 08.10.2009, n. 5203);
- che, nella fattispecie, è stata sanzionata la realizzazione di un intero piano edificato in sopraelevazione, avente una superficie di circa 150 mq.; trattandosi, dunque, di un intervento di nuova costruzione per il quale era necessario il permesso di costruire, doverosamente l’amministrazione ha adottato l’ordinanza di demolizione impugnata;
- che correttamente l’amministrazione ha notificato l’ordinanza gravata anche alla società proprietaria dell’immobile in quanto la sanzione demolitoria, avendo natura reale, ben può colpire anche il proprietario non responsabile dell’abuso edilizio il quale va esente dall’ulteriore sanzione dell'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive e della relativa area di sedime solo ove provi inequivocabilmente la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offerti dall'ordinamento;
- che, nella fattispecie, proprio la notificazione dell’ordinanza di demolizione anche alla società proprietaria dell’immobile rende certa la conoscenza, da parte di quest’ultima, dell’abuso;
- che la circostanza che la società ricorrente abbia presentato un’istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 non determina alcuna incidenza nella fattispecie;
- che, infatti, come chiarito dalla consolidata giurisprudenza condivisa dal Collegio (in termini, Cons. St., sez. IV, 19.02.2008, n. 849; TAR, Campania, Napoli, sez. II, 14.09.2009, n. 4961) la validità ovvero l'efficacia dell'ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se, da un lato, la presentazione della domanda di sanatoria determina inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione, all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera astrattamente suscettibile di sanatoria, dall'altro, occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza; all'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione del sopravvenuto venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata; di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 14.12.2012 n. 5208 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nel caso in cui il provvedimento sia motivato per relationem, l'art. 3 della legge generale sul procedimento amministrativo non obbliga l'amministrazione ad accludere al provvedimento gli atti cui lo stesso rinvia, risultando sufficiente che tali atti siano resi disponibili, rimettendo dunque la concreta disponibilità all'attivazione dell'interessato, a mezzo del diritto di accesso.
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La comunicazione di cui all'art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 riveste natura di atto endoprocedimentale, non immediatamente lesivo della sfera giuridica del destinatario e, quindi, non autonomamente impugnabile.

La consolidata giurisprudenza, infatti, ha evidenziato che nel caso in cui il provvedimento sia motivato per relationem, l'art. 3 della legge generale sul procedimento amministrativo non obbliga l'amministrazione ad accludere al provvedimento gli atti cui lo stesso rinvia, risultando sufficiente che tali atti siano resi disponibili, rimettendo dunque la concreta disponibilità all'attivazione dell'interessato, a mezzo del diritto di accesso (cfr., TAR Lombardia Milano, sez. IV, 02.07.2009, n. 4258; TAR Lombardia Milano, sez. III, 29.04.2009, n. 3595).
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Per costante giurisprudenza, la comunicazione di cui all'art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 riveste natura di atto endoprocedimentale, non immediatamente lesivo della sfera giuridica del destinatario e, quindi, non autonomamente impugnabile (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. IV, 12.09.2007 n. 4828) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 14.12.2012 n. 5203 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La legittimazione ad impugnare un provvedimento amministrativo deve essere direttamente correlata alla situazione giuridica sostanziale che si assume lesa dal provvedimento e postula l'esistenza di un interesse attuale e concreto all'annullamento dell'atto; altrimenti l'impugnativa verrebbe degradata al rango di azione popolare a tutela dell'oggettiva legittimità dell'azione amministrativa, con conseguente ampliamento della legittimazione attiva al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, in insanabile contrasto con il carattere di giurisdizione soggettiva che la normativa legislativa e quella costituzionale hanno attribuito al vigente sistema di giustizia amministrativa (nella specie la legittimazione al ricorso è stata negata al proprietario del fondo limitrofo a quello espropriato, che aveva fondato l'impugnativa sulla supposta natura pertinenziale del bene oggetto dell'intervento ablativo rispetto al bene di sua proprietà e sulla sua qualità di cittadino, come tale portatore di un interesse ad agire indipendentemente da un interesse protetto).
Con riguardo a tale profilo, tuttavia, rimarca il Collegio che l’appello è comunque assolutamente infondato nel merito non essendo sufficiente la qualità di cittadino di un comune a gravare atti specifici e di portata generale dell’amministrazione comunale quali l’affidamento del servizio di riscossione (ex multis: “la legittimazione ad impugnare un provvedimento amministrativo deve essere direttamente correlata alla situazione giuridica sostanziale che si assume lesa dal provvedimento e postula l'esistenza di un interesse attuale e concreto all'annullamento dell'atto; altrimenti l'impugnativa verrebbe degradata al rango di azione popolare a tutela dell'oggettiva legittimità dell'azione amministrativa, con conseguente ampliamento della legittimazione attiva al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, in insanabile contrasto con il carattere di giurisdizione soggettiva che la normativa legislativa e quella costituzionale hanno attribuito al vigente sistema di giustizia amministrativa” -nella specie la legittimazione al ricorso è stata negata al proprietario del fondo limitrofo a quello espropriato, che aveva fondato l'impugnativa sulla supposta natura pertinenziale del bene oggetto dell'intervento ablativo rispetto al bene di sua proprietà e sulla sua qualità di cittadino, come tale portatore di un interesse ad agire indipendentemente da un interesse protetto-“.- Cons. Stato Sez. IV, 28-08-2001, n. 4544-).
Né l’incremento dei costi della procedura di riscossione asseritamente ascrivibile ad Equitalia (e laddove non è neppure dimostrato in cosa consisterebbe detto incremento e perché, ove il servizio fosse stato affidato ad altro soggetto vi sarebbe stato un decremento dei costi) può fondare detto interesse tenuto conto che il vigente sistema giuridico non configura fattispecie generali di azioni popolari
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.12.2012 n. 6411 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda avente ad oggetto il pagamento del corrispettivo della concessione del diritto di superficie, ai sensi dell'art. 10, della legge 18.04.1962, n. 167, come sostituito dall'art. 35, della legge 22.10.1971, n. 865, su aree comprese nei piani per l'edilizia economica e popolare e, in particolare, la quantificazione di tale corrispettivo , nonché l'individuazione del soggetto debitore, allorché non siano in contestazione questioni relative al rapporto di concessione e in ordine alla determinazione del predetto corrispettivo non sussista alcun potere discrezionale della P.A..
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda avente ad oggetto la determinazione e il pagamento del corrispettivo della concessione del diritto di superficie in relazione ad aree comprese nei piani per l'edilizia economica e popolare e, in particolare, la quantificazione di tale corrispettivo che si assuma inferiore a quello determinato dal Comune, atteso che in siffatte ipotesi non vengono in contestazione questioni relative al rapporto di concessione e che, fra l'altro, in ordine alla quantificazione del predetto corrispettivo non sussiste alcun potere discrezionale della P.A..
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda avente ad oggetto il pagamento del corrispettivo della concessione del diritto di superficie -per la costruzione di case e dei relativi servizi urbani e sociali-, ai sensi dell'art. 10 l. 18.04.1962, n. 167, come sostituito dall'art. 35 l. 22.10.1971, n. 865, su aree comprese nei piani per l'edilizia economica e popolare e, in particolare, la quantificazione di tale corrispettivo che si assuma inferiore a quello determinato dal Comune in sede di convenzione -stipulata ai sensi della norma citata-.
La controversia avente ad oggetto la determinazione del corrispettivo dovuto dal privato per il trasferimento del diritto di proprietà e la cessione del diritto di superficie, nell'ambito di convenzione stipulata ai sensi della normativa che regola le espropriazioni e la successiva assegnazione delle aree da destinare ad edilizia economica e popolare (art. 10 della legge 18.04.1962, n. 167, come sostituito dall'art. 35 della legge 22.10.1971, n. 865, e succ. modificazioni e innovazioni), spetta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi degli artt. 5 della legge 06.12.1971, n. 1034 e 11 della legge 07.08.1990, n. 241, laddove sia messa in discussione la legittimità delle autoritative manifestazioni di volontà della P.A. nell'adozione del provvedimento concessorio cui la convenzione accede, della quale sia contestato "ex ante" il contenuto con riguardo alla determinazione del corrispettivo dovuto dal concessionario, e non siano messe in discussione "ex post" solo la misura del corrispettivo (da stabilirsi in base alle pattuizioni ivi contenute) o l'effettività dell'obbligazione di pagamento.

Con riguardo a tale profilo, e con specifico riferimento alla controversia per cui è causa, il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi dal consolidato orientamento della Corte regolatrice della giurisdizione secondo il quale “rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda avente ad oggetto il pagamento del corrispettivo della concessione del diritto di superficie, ai sensi dell'art. 10, della legge 18.04.1962, n. 167, come sostituito dall'art. 35, della legge 22.10.1971, n. 865, su aree comprese nei piani per l'edilizia economica e popolare e, in particolare, la quantificazione di tale corrispettivo , nonché l'individuazione del soggetto debitore, allorché non siano in contestazione questioni relative al rapporto di concessione e in ordine alla determinazione del predetto corrispettivo non sussista alcun potere discrezionale della P.A.” (Cass. civ. Sez. Unite, 10-08-2011, n. 17142).
Si è detto in particolare, da parte di questo Consiglio di Stato in passato, che “rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda avente ad oggetto la determinazione e il pagamento del corrispettivo della concessione del diritto di superficie in relazione ad aree comprese nei piani per l'edilizia economica e popolare e, in particolare, la quantificazione di tale corrispettivo che si assuma inferiore a quello determinato dal Comune, atteso che in siffatte ipotesi non vengono in contestazione questioni relative al rapporto di concessione e che, fra l'altro, in ordine alla quantificazione del predetto corrispettivo non sussiste alcun potere discrezionale della P.A.” (Cons. Stato Sez. VI, 20-07-2010, n. 4660).
Tale giurisprudenza è pienamente condivisa dai giudici di merito (ex multis: “rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda avente ad oggetto il pagamento del corrispettivo della concessione del diritto di superficie -per la costruzione di case e dei relativi servizi urbani e sociali-, ai sensi dell'art. 10 l. 18.04.1962, n. 167, come sostituito dall'art. 35 l. 22.10.1971, n. 865, su aree comprese nei piani per l'edilizia economica e popolare e, in particolare, la quantificazione di tale corrispettivo che si assuma inferiore a quello determinato dal Comune in sede di convenzione -stipulata ai sensi della norma citata-“ TAR Puglia Lecce Sez. I, 14-07-2011, n. 1343).
E’ stato specificato, sul punto, conclusivamente, che “la controversia avente ad oggetto la determinazione del corrispettivo dovuto dal privato per il trasferimento del diritto di proprietà e la cessione del diritto di superficie, nell'ambito di convenzione stipulata ai sensi della normativa che regola le espropriazioni e la successiva assegnazione delle aree da destinare ad edilizia economica e popolare (art. 10 della legge 18.04.1962, n. 167, come sostituito dall'art. 35 della legge 22.10.1971, n. 865, e succ. modificazioni e innovazioni), spetta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi degli artt. 5 della legge 06.12.1971, n. 1034 e 11 della legge 07.08.1990, n. 241, laddove sia messa in discussione la legittimità delle autoritative manifestazioni di volontà della P.A. nell'adozione del provvedimento concessorio cui la convenzione accede, della quale sia contestato "ex ante" il contenuto con riguardo alla determinazione del corrispettivo dovuto dal concessionario, e non siano messe in discussione "ex post" solo la misura del corrispettivo (da stabilirsi in base alle pattuizioni ivi contenute) o l'effettività dell'obbligazione di pagamento” (Cass. civ. Sez. Unite, 30-03-2009, n. 7573)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.12.2012 n. 6411 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nelle gare indette per l'aggiudicazione di un appalto pubblico è infatti legittima l'esclusione del concorrente anche se per il reato da lui commesso si sono verificate le condizioni per l’estinzione ove i relativi presupposti, pur operando ope legis, non siano stati accertati con una pronuncia del giudice dell'esecuzione su istanza dell'interessato.
Né può convenirsi con l’appellante che la mera irregolarità delle dichiarazioni effettuate potesse legittimare l’esclusione del concorrente perché il soggetto dichiarante non era in concreto carente dei requisiti previsti dal citato art. 38, dovendosi ritenere estinto di diritto il reato di bancarotta fraudolenta in data 03.12.2008 per il decorso di cinque anni senza ulteriori condanne a carico del medesimo soggetto per reati della stessa indole.
Nelle gare indette per l'aggiudicazione di un appalto pubblico è infatti legittima l'esclusione del concorrente anche se per il reato da lui commesso si sono verificate le condizioni per l’estinzione ove i relativi presupposti, pur operando ope legis, non siano stati accertati con una pronuncia del giudice dell'esecuzione su istanza dell'interessato (Consiglio Stato, sez. V, 31.03.2011, n. 1968) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.12.2012 n. 6393 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel centro storico mega-antenne ko.
No alla mega-antenna per telefoni cellulari nel centro storico, dove l'impianto di quasi 20 metri stonerebbe senz'altro, a pochi metri da un luogo di culto o di interesse storico. Il Consiglio comunale con delibera ad hoc può ben impedire la realizzazione della stazione radio base.

È quanto emerge dalla sentenza 12.12.2012 n. 1984, pubblicata dalla II Sez. del TAR Puglia-Lecce.
Vittoria dunque dell'amministrazione locale di un piccolo paese del Salento. E ciò benché, una volta tanto, non è stata la Soprintendenza a bloccare i lavori: l'amministrazione competente per i beni architettonici e il paesaggio si chiama fuori, chiarendo che la zona interessata non risulta soggetta a vincolo.
Ma attenzione, la legge parla chiaro: «I comuni possono adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici». E la giurisprudenza interpreta la normativa nel senso che l'ente locale ha senz'altro facoltà di disciplinare, con un suo regolamento, l'individuazione di siti del territorio comunale dove è vietata l'installazione di impianti come quello «incriminato».
La regolamentazione può avvenire attraverso regole ispirate a canoni di ragionevolezza, mediante scelte motivate e a presidio di rilevanti interessi di natura pubblica senza che la facoltà di regolamentazione si traduca in un divieto generalizzato di installazione in identificate zone urbanistiche. Insomma: è meglio che il colosso delle comunicazioni si cerchi un'altra location (articolo ItaliaOggi del 20.12.2012).

INCARICHI PROFESSIONALICASSAZIONE/ Legali negligenti. Avvocati, limata la responsabilità.
Per l'avvocato negligente scatta la responsabilità professionale soltanto se il cliente che si ritiene danneggiato riesce a dimostrare che il ricorso dichiarato improcedibile per l'imperizia del professionista, ove fosse stato esaminato nel merito, sarebbe stato accolto anche solo in parte. La perdita di chance risulta risarcibile unicamente quando risulta verificabile in termini di ragionevole probabilità.

È quanto emerge dalla sentenza 10.12.2012 n. 22376 della III Sez. civile della Corte di Cassazione.
Errore processuale. Bocciato il ricorso del politico condannato per responsabilità contabile: il danno all'erario consiste nell'avere concesso a prezzi inferiori a quelli di mercato gli appartamenti di un prestigioso immobile pubblico, con gli inquilini scelti con criteri discrezionali. L'errore degli avvocati, invece, consiste nella declaratoria di improcedibilità dell'appello emessa dalla sezioni riunite della Corte dei conti laddove non è stata richiesta la fissazione dell'udienza entro un anno dalla notifica delle conclusioni del procuratore generale.
Risulta tuttavia confermata la valutazione della Corte d'appello: in caso di errore processuale da parte del difensore l'obbligo risarcitorio a carico del legale soltanto se c'è una ragionevole possibilità di un esito favorevole all'impugnazione, anche soltanto in parte, laddove il ricorso fosse stato ammissibile. E nel caso specifico il politico non offre alcun elemento che possa indurre il giudice a ritenere che, qualora il ricorso fosse stato esaminato nel merito, vi sarebbero state fondate probabilità di ottenere una riduzione dell'importo liquidato a titolo di danno erariale.
Presunzione ed eziologia. La perdita di chance , ragionano infatti gli «ermellini», può risolversi in una mera entità astratta e non è di per sé risarcibile: lo diventa soltanto quando risulta altamente probabile che la perdita sia riconducibile in termini di nesso causale alla condotta del terzo.
La lesione di un diritto deve tradursi in un pregiudizio concreto: per far scattare l'obbligazione risarcitoria a carico dell'avvocato, insomma, serve la prova anche presuntiva dell'esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile. Spese di giudizio compensate (articolo ItaliaOggi del 20.12.2012 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Comune, ad esito della reiezione della domanda di condono, è tenuto a riattivare il procedimento sanzionatorio sulla base del nuovo accertamento dell’abusività non sanabile dell’opera.
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La misura dell'area da acquisire, indicata nell'ordinanza di demolizione, deve reputarsi meramente indicativa, in quanto la corretta determinazione potrà avvenire soltanto dopo il rituale accertamento, da parte del Comune, dell'inottemperanza all'ingiunzione, allorché sarà avviato il sub procedimento specificamente finalizzato alla precisa individuazione delle aree da acquisirsi gratuitamente in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione.

Orbene, come più volte evidenziato dalla giurisprudenza amministrativa, il Comune, ad esito della reiezione della domanda di condono, è tenuto a riattivare il procedimento sanzionatorio sulla base del nuovo accertamento dell’abusività non sanabile dell’opera (TAR Campania, Napoli, VII, 08.04.2011, n. 2003; TAR Sicilia, Palermo, II, 26.06.2007, n. 1704).
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Con la terza censura gli istanti, in riferimento alla parte del provvedimento impugnato riferita all’area da acquisire al patrimonio comunale in caso di inottemperanza, lamentano la mancata precisazione, da parte dell’Ente, circa le ragioni per cui la superficie è stata determinata nella misura massima possibile.
Il rilievo non è condivisibile.
La riportata misura dell'area da acquisire deve reputarsi meramente indicativa, in quanto la corretta determinazione potrà avvenire soltanto dopo il rituale accertamento, da parte del Comune, dell'inottemperanza all'ingiunzione, allorché sarà avviato il sub procedimento specificamente finalizzato alla precisa individuazione delle aree da acquisirsi gratuitamente in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione (TAR Campania, Napoli, VIII, 09.02.2012, n. 696)
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 07.12.2012 n. 1999 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOve non esista una specifica norma di legge che preveda l’obbligo della P.A. di provvedere, non può dubitarsi che l’obbligo di pronunciarsi sulle istanze dei privati sussista ogni qual volta esigenze di giustizia sostanziale impongano l’adozione di un provvedimento espresso e, quindi, tutte le volte in cui, in ossequio ai principi, di portata generale, di affidamento, chiarezza e leale collaborazione tra P.A. e privato, nonché correttezza e buona amministrazione di cui all’art. 97 Cost., sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni dell’amministrazione.
Solo in presenza di un obbligo di provvedere l’inerzia dell’amministrazione assume rilevanza giuridica sub specie di silenzio-rifiuto.
E, ove non esista una specifica norma di legge che preveda l’obbligo della P.A. di provvedere, non può dubitarsi che l’obbligo di pronunciarsi sulle istanze dei privati sussista ogni qual volta esigenze di giustizia sostanziale impongano l’adozione di un provvedimento espresso e, quindi, tutte le volte in cui, in ossequio ai principi, di portata generale, di affidamento, chiarezza e leale collaborazione tra P.A. e privato, nonché correttezza e buona amministrazione di cui all’art. 97 Cost., sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni dell’amministrazione (cfr., ex multis, Cons. di Stato, sez. IV, 27.04.2012, n. 2468).
Chiarito in questi termini come sul piano sostanziale il giudizio sul silenzio si colleghi al dovere delle amministrazioni pubbliche, preposte alla cura dell’interesse pubblico, di concludere il procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso, con riguardo alla fattispecie in esame il Collegio osserva che alla istanza del ricorrente protocollata dall’ente comunale con il n. 348 in data 05.01.2012, il cui contenuto è stato più innanzi riportato, il Comune deve fornire un riscontro formale, atteso che non è configurabile una diversa tutela dell’interesse del privato al rispetto del principio di cui all’art. 2 della legge n. 241/1990, come sostituito dalla legge n. 80/2005, secondo cui “ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad una istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, la Pubblica Amministrazione ha il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso”.
Ne consegue che il Comune aveva il dovere di iniziare e concludere il procedimento entro il termine previsto dalla legge (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 07.12.2012 n. 1994 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’installazione di un’apparecchiatura bancomat è da ritenere assimilabile a quella di un impianto tecnologico.
L’installazione di un’apparecchiatura bancomat è da ritenere assimilabile, in applicazione di un criterio analogico collegato ad parametro di equivalenza della natura dell’impianto in questione da seguire necessariamente in una interpretazione dinamica ed evolutiva delle disposizioni normative e di pianificazione urbanistica adottate in un periodo temporale nel quale erano inesistenti i più moderni apparati tecnologici ad ausilio di edifici e attrezzature preesistenti, a quella di un impianto tecnologico.
Va sul punto chiarito che rispetto agli altri impianti tecnologici di tradizionale accezione, quali le centrali termiche, le cabine elettriche ed altri, gli sportelli bancomat non erano ancora di ampia diffusione negli anni in cui il comune di Firenze si è dotato delle proprie norme di pianificazione urbanistica con le delibere approvative delle n.t.a., donde allo spazio necessario alla loro installazione non può essere dato rilievo urbanistico-edilizio diverso da quello di volume tecnico rientrante in tutto nella previsione dell’art. 9, comma, 7, del d.l. 154 del 1996 e dall’art. 3 e 9 delle n.t.a. della delibera n. 604/93.
L’art. 3, nel punto “Su”, indica fra le superfici da escludere dal computo della superficie utile lorda i locali strettamente necessari per gli impianti tecnologici, dandone un’elencazione che è da ritenere non esaustiva, ma esemplificativa come è dato desumere dalla locuzione “e simili”; analogamente come accade nella definizione di volume tecnico -al punto “vt” del medesimo art. 3- nella quale all’elencazione della tipologia degli impianti tecnici segue un ecc., che conferma il carattere meramente esemplificativo dell’elencazione stessa.
Non contrasta con tale interpretazione, ma anzi alle prime semmai va adeguata nella logica evolutiva cui prima si accennava, la lettura dell’art. 9, lett. a), ultimo capoverso e b) delle n.t.a. che contengono, ad avviso del Collegio, un’elencazione anch’essa non tassativa da comparare in ogni caso con quella dell’art. 3 citato.
L’apparecchiatura bancomat, del resto, è un impianto tecnologico installato a esclusiva e migliore erogazione e fruizione dei servizi bancari nell’ambito dei locali dell’azienda bancaria e il piccolo spazio ricavato nella specie per la sua allocazione (dalle foto allegate è dato evincere che seppure l’installazione all’esterno dei locali della Banca ha richiesto l’ampliamento di un’apertura nel muro di cinta esterno prima chiusa da un cancelletto, lo spazio ricavato è stato occupato dall’apparecchiatura senza creazione di un vano interno chiuso calpestabile accessibile ai clienti dalla strada) condivide quindi la funzione servente dell’impianto stesso, non potendo in alcun modo essere diversamente utilizzato come vano in relazione ad altri impieghi apprezzabili e quindi computabili dal punto di vista urbanistico-edilizio. Da ciò consegue che non può ritenersi la realizzazione di tale vano in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti.
Sull’irrilevanza sotto il profilo urbanistico–edilizio si era espressa la C.E.I. che aveva ritenuto, alla luce dell’art. 1, comma 8, della legge 431 del 1985 non soggetto all’autorizzazione ex art. 7 della legge 1497 del 1939 e lo stesso Assessore, nel comunicare tale parere, aveva dato indicazioni coerenti rispetto all’ulteriore procedura da seguire a mezzo DIA, donde la fondatezza anche del vizio di contraddittorietà dedotto nel secondo motivo.
L’illegittimità del provvedimento di inibizione impugnato con il primo ricorso, trae seco, per illegittimità derivata, l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione impugnata, per gli stessi motivi, con il secondo ricorso (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 07.12.2012 n. 1990 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare di appalto, si può vincere anche via fax.
E' efficace la modalità di comunicazione tramite via fax del provvedimento di aggiudicazione definitiva di una gara; è quanto affermato dal TAR Toscana, Sez. I, con la sentenza 06.12.2012 n. 1942.
La vicenda presa in esame dai giudici amministrativi riguarda una SPA che era ricorsa contro una società pubblica toscana (si trattava di una società per azioni a totale partecipazione pubblica - la proprietà è dei 20 Comuni di una nota provincia Toscana) che nel caso in esame rappresentava la stazione appaltante, per chiedere l’annullamento del provvedimento di aggiudicazione definitiva della gara avente ad oggetto i lavori di costruzione di un edificio composto da un considerevole numero di alloggi ; in particolare tra le varie motivazioni del ricorso si contestava alla ditta aggiudicataria il fatto che nel progetto tecnico presentato in sede di offerta mancasse la documentazione relativa alla sua offerta migliorativa di cui sarebbe stata prevista, dalla legge di gara, la produzione a pena di esclusione.
Il TAR nell’analizzare il ricorso evidenzia, tuttavia, che il provvedimento di aggiudicazione definitiva è stato comunicato tramite fax, e risulta ricevuto dalla ricorrente, il 14.02.2012 mentre il ricorso della SPA è stato notificato il 10.04.2012, tardivamente rispetto alla conoscenza del provvedimento gravato.
Il codice degli appalti sulla comunicazione dei provvedimenti
L’art. 77, comma 1, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, afferma che tutte le comunicazioni e tutti gli scambi di informazioni tra stazioni appaltanti e operatori economici possono avvenire, a scelta delle stazioni appaltanti, mediante posta, mediante fax, per via elettronica ai sensi dei commi 5 e 6, per telefono nei casi e alle condizioni di cui al comma 7, o mediante una combinazione di tali mezzi. Il mezzo o i mezzi di comunicazione prescelti devono essere indicati nel bando o, ove manchi il bando, nell'invito alla procedura. La lettura contestuale dei commi che compongono l’articolo consente di affermare che l’utilizzo del fax costituisce modalità "ordinaria" di scambio delle comunicazione tra le stazioni appaltante e le imprese partecipanti alle gare.
L’orientamento della giurisprudenza
Secondo costante giurisprudenza, l'invio tramite fax del provvedimento amministrativo rappresenta uno strumento idoneo, in assenza di espresse prescrizioni che dispongano altrimenti, a determinare la piena conoscenza del provvedimento stesso, in quanto il fax costituisce un sistema basato su linee di trasmissione di dati e su apparecchiature che consentono di documentare sia la partenza del messaggio dall'apparato trasmittente sia -attraverso il c.d rapporto di trasmissione- la ricezione del messaggio in quello ricevente, sicuramente atto a garantire l'effettività della comunicazione.
Quindi, posto che gli accorgimenti tecnici che caratterizzano il sistema garantiscono in via generale una sufficiente certezza circa la ricezione del messaggio, ne consegue non solo l'idoneità del mezzo a far decorrere termini perentori, ma anche la presunzione circa l'avvenuta ricezione, senza che colui che dimostra di aver inviato il messaggio debba fornire alcuna ulteriore prova, salva l'eventuale prova contraria concernente la funzionalità dell'apparecchio ricevente fornita, secondo l'ordinaria regola processualistica, da chi afferma la mancata ricezione del messaggio.
La presunzione di conoscenza che consegue all’invio della comunicazione a mezzo fax all’indirizzo corretto (accompagnata dal rapporto di ricezione) non ha quindi natura assoluta.
Può essere fornita la prova contraria, che può solo concernere la funzionalità dell'apparecchio ricevente; essa non può che essere fornita da chi afferma la mancata ricezione del messaggio (es. Cons. di Stato VI, 04.06.2007, n. 2951, che fa riferimento a Cons. Stat, V, 24.04.2002, n. 2202).
Dunque, nel momento in cui il fax viene trasmesso, e ciò risulti debitamente documentato dal c.d. rapporto di trasmissione, si forma una presunzione della sua ricezione in capo al destinatario, il quale può vincerla solo opponendo la mancata funzionalità dell'apparecchio ricevente.
È evidente che di tale mancata funzionalità deve essere offerta prova rigorosa non potendo evidentemente darsi campo e giustificazione a circostanze impeditive opposte in modo generico e non seriamente documentate.
In applicazione di quanto precede è evidente che il principio secondo cui la comunicazione mediante telefax rappresenta strumento idoneo, in carenza di espresse previsioni che dispongano altrimenti, a determinare la piena conoscenza di un atto o documento non può essere vanificato da semplici dichiarazioni del soggetto destinatario che opponga tout court di non avere ricevuto il fax.
Le conclusioni del TAR
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana definitivamente pronunciando sul ricorso, lo dichiara irricevibile e condanna la SPA ricorrente al pagamento delle spese processuali a favore della stazione appaltante intimata (commento tratto da www.ispoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La regola generale, che non richiede la puntuale motivazione delle nuove destinazioni urbanistiche conferite dallo strumento urbanistico, subisce delle eccezioni in alcune situazioni specifiche, in cui il principio della tutela dell'affidamento impone che lo strumento urbanistico dia conto del modo in cui sia stata effettuata la ponderazione degli interessi pubblici e siano state operate le scelte di pianificazione; in particolare, detto affidamento si verifica nei casi di:
a) superamento degli standard minimi di cui al D.M. 02.04.1968, con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
b) lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, o dalle aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di permesso di costruire o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione;
c) modificazione in “zona agricola” della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo

In ordine al punto A) va osservato che la regola generale, che non richiede la puntuale motivazione delle nuove destinazioni urbanistiche conferite dallo strumento urbanistico, subisce delle eccezioni in alcune situazioni specifiche, in cui il principio della tutela dell'affidamento impone che lo strumento urbanistico dia conto del modo in cui sia stata effettuata la ponderazione degli interessi pubblici e siano state operate le scelte di pianificazione; in particolare, detto affidamento si verifica nei casi di:
a) superamento degli standard minimi di cui al D.M. 02.04.1968, con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
b) lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, o dalle aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di permesso di costruire o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione;
c) modificazione in “zona agricola” della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (Tar Lazio, sez. II-bis, 02.03.2011, n.1950; TAR Toscana, sez. I, 27.04.2011, n. 730)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 29.11.2012 n. 9903 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La funzione della destinazione agricola non è solo quella di valorizzare l'attività agricola vera e propria ma anche quella di garantire ai cittadini l'equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando loro quella quota di valori naturalistici necessaria a compensare gli effetti dell'espansione dell'aggregato urbano.
Circa il punto B) si rileva:
- che la presenza di edificazione spontanea circostante non è un fatto tale da determinare un affidamento, dovendosi aver riguardo solamente a una vera e propria interclusione derivante da edificazione legittima (TAR Lazio n. 1950/2011 e TAR Toscana n. 730/2011 cit.);
- che la funzione della destinazione agricola non è solo quella di valorizzare l'attività agricola vera e propria ma anche quella di garantire ai cittadini l'equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando loro quella quota di valori naturalistici necessaria a compensare gli effetti dell'espansione dell'aggregato urbano (Cons. Stato, sez. IV, 13.10.2010, n. 7478);
- che l’argomento della disparità di trattamento non è conferente in linea di principio, in quanto ogni fondo -essendo differenziato dagli altri- costituisce oggetto di autonoma considerazione da parte dell'Amministrazione (TAR Lazio, sez. II-bis, 18.04.2011, n. 3347), fatta eccezione per i rari casi di fondi limitrofi che si trovino in situazioni assolutamente identiche sotto ogni profilo
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 29.11.2012 n. 9903 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Turbativa d'asta, no al reato se l'interferenza e' solo virtuale.
L'attività di elusione del rispetto di una procedura concorrenziale regolata, attraverso la rappresentazione di un costo dell'opera tale da consentirne l'affidamento diretto, non integra -in assenza dell'espletamento della gara - il reato di turbativa d'asta, previsto dall'art. 353 c.p., ma, nel concorso delle condizioni di legge, può integrare il reato di cui all'art. 353-bis c.p. o quello di abuso d'ufficio (In motivazione la Corte -in una fattispecie nella quale nessuna gara era mai stata bandita, né era stato avviato alcun procedimento diretto a porre in competizione più soggetti per l'aggiudicazione dell'appalto- ha precisato che nella nozione di 'atto equipollente', menzionata all'art. 353-bis c.p., rientra qualunque provvedimento alternativo al bando di gara, adottato per la scelta del contraente, ivi inclusi quelli statuenti l'affidamento diretto).
Interessante decisione della Corte di Cassazione che, con la sentenza in esame, affronta, per la prima volta dall’entrata in vigore della nuova fattispecie di cui all'art. 353-bis c.p. (introdotta con la L. 13.08.2010, n. 136), la questione inerente la configurabilità del reato volto a sanzionare le turbative del "procedimento amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando o di altro atto equipollente al fine di condizionare le modalità di scelta del contraente". La Corte, con una decisione che si distingue per il particole rigore esegetico, risolve una particolare fattispecie concreta nella quale l’ipotesi accusatoria consisteva nella ritenuta configurabilità del reato di turbativa d’asta (art. 353 c.p.) in assenza, peraltro, dello svolgimento di una gara.
I giudici di legittimità, nell’escludere che la turbativa d’asta “virtuale” sia riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 353 c.p., precisano che tale condotta possa, alternativamente, integrare –nel ricorrere dei relativi presupposti– o la nuova fattispecie di cui all’art. 353-bis c.p. o, tutt’al più, la tradizionale fattispecie dell’abuso innominato d’ufficio, di cui al’art. 323 c.p.
Il fatto
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte di occuparsi della questione vedeva indagato, per i reati di cui agli artt. 319-319 bis e 353 cpv. c.p. il comandante della polizia municipale di un cittadina cui era stato addebitato -in concorso, rispettivamente, con il dirigente del servizio lavori pubblici del Comune, con il responsabile dell'unità operativa viabilità del servizio lavori pubblici del Comune e con un imprenditore, socio di una S.a.s.– di aver consentito a quest'ultimo, in cambio della promessa esecuzione di lavori di ristrutturazione presso la propria abitazione, di aggiudicarsi la gara per l'effettuazione di opere edili necessarie all'installazione di un misuratore di velocità, procedendo, a seguito di una delibera di Giunta comunale, all'adozione, quale responsabile unico del procedimento (RUP) relativo alla gara, della determina con cui disponeva l'affidamento diretto delle opere alla S.a.s. per un importo fatto rientrare artificiosamente nel tetto della somma stabilita per l'utilizzo di tale procedura, di contro al reale maggiore importo dei lavori. In sede cautelare di merito, il comandante della polizia municipale otteneva dal Tribunale
Della libertà l’annullamento dell'ordinanza del GIP impositiva della misura in riferimento al delitto di corruzione (ritenuto insussistente) e disponeva, in relazione al delitto ex art. 353 c.p., la sostituzione degli arresti domiciliari con la misura dell'obbligo di dimora, ritenendo in particolare sussistere un grave quadro indiziario in ordine al delitto di turbata libertà degli incanti per come risultante dalle risultanze intercettive di conversazioni intercorse fra i vari soggetti coinvolti nell'operazione, ivi incluso, in qualche caso, lo stesso indagato.
Il ricorso
Contro l’ordinanza a lui parzialmente favorevole, proponeva ricorso per cassazione l’indagato censurandola per violazione di legge. In particolare, ad avviso della difesa, l’ipotizzato delitto di turbativa d’asta non sarebbe configurabile per una serie di ragioni:
a) la determina adottata dall'indagato non è contraria alla legge, in quanto la normativa applicabile (art. 125 D.Lgs. 163 del 2006) non vieta il frazionamento delle voci di spesa (quale operato nella specie), ma solo il frazionamento delle prestazioni;
b) l’indagato avrebbe adottato la determina, aggiungendo l'irrilevante requisito dell'urgenza, e dopo aver richiesto una nuova valutazione dell'addetto alla ragioneria, sulla base alla deliberazione della Giunta, senza alcuna previa partecipazione ai prospettati accordi collusivi con l'impresa, senza alcun interesse personale al riguardo e nella convinzione che l’impresa assegnataria dei lavori non avrebbe ricevuto eventuali incrementi di compenso a seguito di (non consentite) perizie di variante (onde, al più, avrebbe potuto essergli imputata una mera negligenza);
c) infine, e soprattutto, nessuna gara era stata bandita né vi era stata alcuna individuazione dei soggetti potenzialmente idonei a concorrere.
La decisione della Cassazione
La tesi è stata accolta dagli Ermellini che hanno, infatti, disposto l’annullamento dell’ordinanza del Tribunale del riesame, dichiarando, altresì, inammissibile il ricorso medio tempore proposto dalla Pubblica Accusa che aveva censurato la ritenuta non configurabilità del delitto di corruzione.
Di estremo interesse, come anticipato le argomentazioni offerte dalla Corte a sostegno della decisione che possono essere di seguito sinteticamente così riassunte.
La Corte, anzitutto, si pronuncia sul primo punto di censura, ritenendolo infondato. In sostanza, secondo gli Ermellini, il rilievo secondo il quale la determina adottata dall'indagato non sarebbe contraria alla legge poiché l’art. 125 D.Lgs. 163 del 2006 non vieterebbe il frazionamento delle voci di spesa, quale operato nella specie, ma solo il frazionamento delle prestazioni, non coglie nel segno, posto che, nella ricostruzione dei giudici di merito, la riconduzione del preventivo dei lavori, al netto di IVA, sotto la soglia di € 40.000,00, sarebbe frutto di una manipolazione che ha artatamente lasciato fuori alcune parti dell'opera.
Fondate, invece, sono le argomentazioni poste a sostegno della ritenuta in configurabilità del reato di turbativa d’asta. Bene osserva la Corte come, nonostante la varietà dei modi e dei momenti in cui la condotta illecita può estrinsecarsi e la collocazione in secondo piano degli stessi profili strettamente formali della competizione, non può essere eliminato il dato essenziale che contraddistingue il reato di turbativa d’asta (art. 353 c.p.) secondo cui, ai fini dell'applicabilità della norma de qua una gara comunque ci deve essere.
Chiarissimo, in tal senso, il passaggio argomentativo della sentenza in cui si afferma apertis verbisse non c'è gara, non c'è partecipazione plurale, e non si possono quindi dispiegare quelle attività a protezione delle quali la norma è predisposta”. Il che equivale a dire, in altri termini, che non è mai configurabile il reato di turbativa d’asta “virtuale”, in quanto la turbativa deve sempre, e comunque, riguardare una gara che, ove non espletata, ne esclude in nuce l’ipotizzabilità. Orbene, come lucidamente esposto dalla Corte, nella vicenda in esame è pacifico che nessuna gara risultava essere stata bandita, né risultava essere stato avviato alcun procedimento diretto a porre in competizione più soggetti per l'aggiudicazione dell'appalto. Ne consegue, dunque, che la fattispecie di cui all'art. 353 c.p. non è configurabile nel caso in esame.
Il secondo punto, affrontato dalla Corte, riguarda invece il tema della possibile qualificazione giuridica diversa del reato in esame, ciò che spiega la ragione per la quale la Corte abbia proceduto all’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata. In relazione a tale punto, la Cassazione ritiene che nel caso di specie si profili invece un'attività di elusione del rispetto di una regolata procedura concorrenziale, attraverso la rappresentazione di un costo dell'opera tale da consentirne l'affidamento diretto. Questa condotta (che, a giudizio degli Ermellini, non ha influito sullo svolgimento di alcuna gara) avrebbe comunque riguardato il procedimento di scelta del contraente.
Sotto tale profilo, dunque, la stessa “potrebbe” (ed il condizionale è d’obbligo nel caso di specie, attesa la natura della fattispecie “riconfigurata”, ciò che impone più di una riflessione sul piano sia dell’elemento oggettivo che soggettivo) rientrare nella nuova fattispecie dell'art. 353-bis c.p., introdotta con la L. 13.08.2010, n. 136, che ha, appunto, voluto sanzionare le turbative del "procedimento amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando o di altro atto equipollente al fine di condizionare le modalità di scelta del contraente". Secondo i giudici di Piazza Cavour, in base alla lettera ed alla ratio della nuova previsione normativa, non c'è dubbio che nella nozione di 'atto equipollente' ivi menzionata rientra qualunque provvedimento alternativo al bando di gara, adottato per la scelta del contraente, ivi inclusi, quindi, quelli statuenti l'affidamento diretto.
Alla stregua di tali considerazioni, dunque, la Corte ha disposto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata, al fine di rinnovare il giudizio in relazione alla indicata diversa ipotesi di reato (ovvero, in ulteriore subordine, a quella residuale di cui all'art. 323 cp.), previo, ovviamente, il necessario e pieno rispetto delle facoltà difensive da esercitarsi, in ossequio ai principi di cui all'art. 6 CEDU.
Sentenza, dunque da condividere, ma con riserva. Ed invero, sembra esservi un errore di prospettiva, perché le condotte indicate nell'art. 353-bis c.p. sono coerenti con l'aggressione esterna del privato, non con quella interna del pubblico ufficiale (tanto è vero che nell'art. 353-bis c.p. manca un secondo comma come quello presente nell'art. 353 c.p.). Sarebbe più logico allora -se si vogliono coltivare pregiudizi processuali- la contestazione dell'abuso d'ufficio, come del resto pure ipotizzato dalla Cassazione (commento tratto da www.ispoa.it - Corte di Cassazione penale, sentenza 12.11.2012 n. 43800).

INCARICHI PROFESSIONALI: Compensi ai professionisti a geometrie variabili.
Laddove l'attività giudiziale del difensore della parte vittoriosa è terminata prima del 23/08/2012 la liquidazione delle spese va effettuata in base alla vecchie tariffe forensi. Diversamente, quando l'opera difensiva si conclude dopo l'entrata in vigore del decreto del ministero della Giustizia 140/12, scatta l'applicazione dei nuovi parametri. E nella fissazione dell'importo non si può non tenere conto che la controversia ha natura seriale.
È quanto emerge dalla sentenza 05.11.2012 n. 18920 della Sez. lavoro della Corte di Cassazione, con cui i giudici di legittimità tornano sul tema dei compensi agli avvocati.
Nel caso concreto la Suprema corte si pronuncia su di una controversia che vede contrapposti i ragionieri contro la cassa previdenziale di categoria: si tratta di una lite piuttosto frequente negli ultimi tempi e dall'esito analogo ed è impossibile non considerarlo ai fini della «concreta fissazione» del compenso (da tempo i professionisti contabili risultano garantiti dal principio del «pro rata» nel calcolo della quota retributiva della pensione).
Quanto alla dicotomia fra vecchie tariffe e nuovi parametri, va sempre applicato il criterio secondo cui i compensi degli avvocati vanno liquidati secondo il sistema in vigore al momento in cui si esaurisce la prestazione professionale (o cessa l'incarico), «secondo una unitarietà da rapportarsi ai singoli gradi in cui si è svolto il giudizio e dunque all'epoca della pronuncia che li definisce»: è quindi esclusa l'applicazione del decreto ministeriale 140/12 a prestazioni già rese nei momenti precedenti, così come indicati dagli «ermellini».
La conseguenze sono tutt'altro che trascurabili per le tasche dei professionisti. Le tariffe forensi si applicano soltanto quando l'attività giudiziale dell'avvocato della parte vittoriosa è terminata prima del 23/08/2012 con riferimento ai singoli gradi di giudizio; se invece la conclusione dell'attività difensiva, con il compimento dell'opera professionale da parte dell'avvocato, avviene dopo l'entrata in vigore dei nuovi parametri ministeriali, la liquidazione giudiziale delle spese di soccombenza avviene in base al dm 140/12, anche se alcune attività sono state svolte nel vigore delle vecchie tariffe. Esattamente come accade nel caso specifico risolto dai giudici di legittimità (articolo ItaliaOggi del 20.12.2012).

EDILIZIA PRIVATAAlcuni dei casi di gratuità, come gli interventi di restauro, manutenzione, risanamento conservativo, le ristrutturazioni senza nuovi volumi, le opere interne e gli ampliamenti di modesta entità, sono espressione di un principio, ricavabile del resto già dall’articolo 1 L. 10/1977 e costituente l’applicazione inversa della regola ivi enunciata, della gratuità della concessione per opere che non comportino nessun nuovo carico urbanistico per il comune.
Questo Consiglio ha già fatto applicazione del principio in sede consultiva con il parere n. 240 del 31.03.1982 della II Sezione, ritenendo applicabile l’esenzione di cui all’alinea “g”, relativo alle opere da realizzare in seguito a pubbliche calamità al caso, non espressamente previsto, della ricostruzione delle case distrutte; sul rilievo appunto che l’onerosità della concessione trova la sua ragion d’essere come corrispettivo delle spese che la collettività si addossa, con vantaggio del concessionario, in conseguenza della concessione edilizia, e che tale presupposto manca nel caso di ricostruzione di ciò che la calamità abbia distrutto.
Lo stesso va affermato, evidentemente, per il caso di costruzione in sostituzione di un edificio espropriato e distrutto per realizzare un’opera pubblica, per un volume non maggiore del precedente e nel territorio dello stesso comune.

Venendo alla questione principale, la legge 28.01.1977 n. 10 sull’edificabilità dei suoli, dopo avere all’articolo 1 enunciato la regola che «Ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi» (agli oneri, s’intende, che le nuove costruzioni fanno gravare sulla collettività), e avere istituito all’articolo 3 il contributo per la concessione edilizia, commisurato all’incidenza delle spese di urbanizzazione nonché al costo di costruzione e meglio specificato poi negli articoli 5 e 6, nell’articolo 9 elenca i casi di concessione gratuita.
Alcuni dei casi di gratuità, come gli interventi di restauro, manutenzione, risanamento conservativo, le ristrutturazioni senza nuovi volumi, le opere interne e gli ampliamenti di modesta entità, sono espressione di un principio, ricavabile del resto già dall’articolo 1 e costituente l’applicazione inversa della regola ivi enunciata, della gratuità della concessione per opere che non comportino nessun nuovo carico urbanistico per il comune.
Questo Consiglio ha già fatto applicazione del principio in sede consultiva con il parere n. 240 del 31.03.1982 della II Sezione, ritenendo applicabile l’esenzione di cui all’alinea “g”, relativo alle opere da realizzare in seguito a pubbliche calamità al caso, non espressamente previsto, della ricostruzione delle case distrutte; sul rilievo appunto che l’onerosità della concessione trova la sua ragion d’essere come corrispettivo delle spese che la collettività si addossa, con vantaggio del concessionario, in conseguenza della concessione edilizia, e che tale presupposto manca nel caso di ricostruzione di ciò che la calamità abbia distrutto.
Lo stesso va affermato, evidentemente, per il caso di costruzione in sostituzione di un edificio espropriato e distrutto per realizzare un’opera pubblica, per un volume non maggiore del precedente e nel territorio dello stesso comune (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.01.2004 n. 174 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALaddove l’obbligo contributivo sia stato già assolto in sede di intervento originario, l’eventuale ricostruzione dell’edificio dovuta a causa accidentale che ne abbia determinato la rovina, non comporta automaticamente l’assoggettamento dell’opera al pagamento di un nuovo contributo a titolo di quota di urbanizzazione.
Non essendovi propriamente (nuova) attività di trasformazione del territorio, già oggetto di edificazione, la ricostruzione dell’immobile distrutto non comporta, ex se, l’esigenza di far partecipare il privato all’urbanizzazione dell’area.
Resta salvo, ovviamente, il potere dell’amministrazione di imporre l’obbligo contributivo in caso di aumento del carico urbanistico conseguente alla ricostruzione dell’immobile, nel caso in cui l’attività di ricostruzione abbia comportato aumento della superficie o della volumetria o mutamento di destinazione d’uso, e cioè modifiche strutturali o funzionali capaci di incidere anche sull’assetto urbanistico dell’area.
La pubblica amministrazione, peraltro, laddove ritenga si sia determinato un incremento del carico urbanistico come conseguenza della realizzazione dell’intervento di ricostruzione che non abbia comportato nuova trasformazione del territorio, ha l’onere di motivare la propria determinazione con particolare riferimento all’esigenza di apprestare nuove infrastrutture a seguito delle modifiche intervenute.

Va precisato che, contrariamente a quanto ritenuto dalla ricorrente, l’intervento previsto comporta la ricostruzione dell’edificio principale preesistente, in massima parte distrutto a seguito di incendio, ed il suo rialzamento secondo quanto previsto dal regolamento urbanistico, la mancata ricostruzione di altri corpi di fabbrica; ne conseguono modifiche alla sagoma, planimetriche e volumetriche rispetto all’insieme delle costruzioni preesistenti.
Pertanto, l’intervento non può essere qualificato come ristrutturazione edilizia, ma va correttamente definiti come nuova edificazione.
Ciò nondimeno, non si tratta, automaticamente, di intervento soggetto al pagamento degli oneri di urbanizzazione.
Vero è che l’art. 19, comma 1, l.r.t. 14.10.1999 n. 52 ricollega l’obbligo del contributo di concessione a due diverse ipotesi, tra loro alternative, la prima delle quali è quella che l’intervento comporti nuova edificazione.
Ciò non toglie, tuttavia, che il legislatore regionale abbia inteso connettere l’obbligo contributivo all’esigenza di sottoporre qualsiasi nuova costruzione, in quanto diretta all’edificazione di un’area libera, alla partecipazione del privato alle spese di urbanizzazione primaria e secondaria che sarebbero state indotte dall’intervento realizzando in un’area priva delle necessarie strutture urbanistiche o che ne fosse già provvista.
In un caso o nell’altro, il principio sotteso all’obbligo contributivo è rinvenibile nell’esigenza che ai costi ricadenti sulla collettività per l’urbanizzazione dell’area, della quale il privato si avvale nel momento in cui decide di edificare, egli debba necessariamente contribuire in rapporto a quanto costruito.
Il contributo di urbanizzazione è infatti determinato nella misura corrispondente all’entità e qualità delle opere di urbanizzazione necessarie, il che ha portato ad affermarne la natura di corrispettivo, a differenza del contributo per il rilascio della concessione che costituisce una prestazione di natura tributaria (Tar Campania, Napoli, IV, 18.12.2001 n. 5500).
Peraltro, la quota di urbanizzazione è stata anche qualificata come tassa, in quanto essenzialmente corrispettivo di una prestazione resa o da rendere da parte dell’amministrazione o avente natura di corrispettivo di diritto pubblico (Tar Lombardia, Milano, II, 06.11.2002 n. 4267).
Si tratta, comunque, di una forma di partecipazione alle spese pubbliche con caratteri atipici, ma sempre collegata all’attività di trasformazione del territorio (C.S., V, 06.05.1997 n. 462).
Ne consegue che, laddove l’obbligo contributivo sia stato già assolto in sede di intervento originario, l’eventuale ricostruzione dell’edificio dovuta a causa accidentale che ne abbia determinato la rovina, non comporta automaticamente l’assoggettamento dell’opera al pagamento di un nuovo contributo a titolo di quota di urbanizzazione.
Non essendovi propriamente (nuova) attività di trasformazione del territorio, già oggetto di edificazione, la ricostruzione dell’immobile distrutto non comporta, ex se, l’esigenza di far partecipare il privato all’urbanizzazione dell’area.
Resta salvo, ovviamente, il potere dell’amministrazione di imporre l’obbligo contributivo in caso di aumento del carico urbanistico conseguente alla ricostruzione dell’immobile, nel caso in cui l’attività di ricostruzione abbia comportato aumento della superficie o della volumetria o mutamento di destinazione d’uso, e cioè modifiche strutturali o funzionali capaci di incidere anche sull’assetto urbanistico dell’area.
La pubblica amministrazione, peraltro, laddove ritenga si sia determinato un incremento del carico urbanistico come conseguenza della realizzazione dell’intervento di ricostruzione che non abbia comportato nuova trasformazione del territorio, ha l’onere di motivare la propria determinazione con particolare riferimento all’esigenza di apprestare nuove infrastrutture a seguito delle modifiche intervenute (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 29.12.2003 n. 6289 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia edilizia vige la regola generale dell’onerosità della concessione, essendo le ipotesi di gratuità della concessione contemplate in norme di carattere derogatorio ed eccezionale, e –come tali– di stretta interpretazione.
Analogo richiamo al regime di onerosità della concessione edilizia in sanatoria è contenuto nell'art. 37 L. 28.02.1985 n. 47, il cui primo comma stabilisce che il versamento dell’oblazione (allo Stato) non esime i concessionari dalla corresponsione al Comune del contributo previsto dall’art. 3 legge n. 10/1977, “ove dovuto”: ne consegue che anche detto inciso risulta disposizione di stretta interpretazione.
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In sede di rilascio di concessione in sanatoria, si giustifica la richiesta di pagamento di oneri di urbanizzazione quando si sia verificata, in dipendenza della realizzazione dell’intervento edilizio abusivo, una variazione in aumento del carico urbanistico: e la controversa ingiunzione di pagamento riguarda, per l’appunto, una fattispecie di condono edilizio per cambio di destinazione d’uso (da fienile a residenziale: cfr. quarto e sesto capoverso delle premesse), comportante all’evidenza un aumento di carico urbanistico nelle zone agricole interessate.

Innanzitutto, giova premettere che è principio pacifico in giurisprudenza, quello per cui in materia edilizia vige la regola generale dell’onerosità della concessione, essendo le ipotesi di gratuità della concessione contemplate in norme di carattere derogatorio ed eccezionale, e –come tali– di stretta interpretazione (cfr. Corte Cost. 23.06.1988, n. 714, TAR Trieste, 19.06.1993, n. 236, TAR Lazio, Latina, 01.08.1994, n. 752): sotto questo profilo si rivela, pertanto, esatta l’osservazione in tal senso svolta dal Comune, nella propria memoria conclusiva.
Analogo richiamo al regime di onerosità della concessione edilizia in sanatoria è contenuto nell'art. 37 L. 28.02.1985 n. 47 (cfr. TAR Toscana, Sez. I, 30.09.1993, n. 822), il cui primo comma stabilisce che il versamento dell’oblazione (allo Stato) non esime i concessionari dalla corresponsione al Comune del contributo previsto dall’art. 3 legge n. 10/1977, “ove dovuto”: ne consegue che anche detto inciso risulta disposizione di stretta interpretazione.
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Sotto altro profilo, la conclusione cui è pervenuto il Collegio risulta, altresì, avvalorata (vertendosi in ambito di giurisdizione esclusiva) da un concorrente ordine di motivazioni, consistente nel costante orientamento manifestato dal Giudice amministrativo, nel senso che, in sede di rilascio di concessione in sanatoria, si giustifica la richiesta di pagamento di oneri di urbanizzazione quando si sia verificata, in dipendenza della realizzazione dell’intervento edilizio abusivo, una variazione in aumento del carico urbanistico (cfr. Cons. Stato. Sez. V, 15.09.1997, n. 959; per questo TRGA: 25.05.1992, n. 198 e 04.07.1990, n. 320; da ultimo: TAR Emilia-Romagna, Sez. II, n. 157 del 2001): e la controversa ingiunzione di pagamento riguarda, per l’appunto, una fattispecie di condono edilizio per cambio di destinazione d’uso (da fienile a residenziale: cfr. quarto e sesto capoverso delle premesse), comportante all’evidenza un aumento di carico urbanistico nelle zone agricole interessate (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 02.07.2002 n. 214 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 18.12.2012

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UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, Necessita aggiornare il costo di costruzione entro il 31.12.2012 il cui effetto sarà efficace a decorrere dall'01.01.2013: ecco il fac-simile di determinazione (file 1 - file 2).
ATTENZIONE: se non si adotta la determinazione di aggiornamento entro la suddetta scadenza per tutto il 2013 si dovrà applicare il medesimo costo di costruzione vigente nell'anno 2012 (cfr. art. 48, comma 2, della L.R. n. 12/2005).
ALCUNE CONSIDERAZIONI: lo scorso 06.11.2012 l'ISTAT ha pubblicato la nuova rilevazione relativa al 3° trimestre 2012 per cui -ad oggi- il dato ufficiale ISTAT è quello relativo alla variazione del mese di agosto 2012, mentre quello di settembre 2012 è ufficioso e, come tale, non utilizzabile (N.B.: per controllare il dato in tempo reale cliccare qui).
Pertanto, poiché il dato ufficioso di settembre 2012 sarà ufficiale solamente col prossimo aggiornamento trimestrale che sarà pubblicato l'anno prossimo,
si può già sin d'ora adottare la determinazione di aggiornamento del costo di costruzione per l'anno 2013 senza aspettare gli ultimi giorni del mese corrente col rischio di dimenticarsene (e, quindi, perdere soldi per le casse comunali !!).
Inoltre, poiché trattasi di attività vincolata, la competenza è gestionale e non della Giunta Comunale (siccome lette alcune delibere facilmente trovabili nel web ... ci dite cosa c'è di politico da deliberare??).
18.12.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Niente incentivo per il taglio del verde.
Le attività di taglio del verde, sostituzione infissi e sostituzione di apparati termoidraulici sono assimilabili, anche in virtù degli importi modesti, ai lavori in economia, e non giustificano l'erogazione degli incentivi alla progettazione previsti dall'articolo 92 del Dlgs 163/2006.

Con il parere 13.11.2012 n. 293, la sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Toscana, richiamando propri precedenti orientamenti (parere 18.10.2011 n. 213) chiarisce che l'attività di progettazione, utile per l'erogazione del compenso incentivante, deve essere finalizzata alla realizzazione di lavori o opere pubbliche.
Anche l'espletamento di funzioni da parte del responsabile unico del procedimento in caso di progettazione di strumenti urbanistici deve essere finalizzata, per ottenere l'incentivo, alla realizzazione di opera pubblica. Con un altro parere (parere 27.11.2012 n. 389) la stessa Sezione sostiene infatti che l'atto tipo regolamento urbanistico non può essere assimilato, per il suo contenuto intrinseco, a un progetto di lavori, e dunque non si possono applicare le disposizioni dell'articolo 92, finalizzate alla realizzazione dell'opera pubblica progettata.
Secondo il codice dei contratti, infatti, una somma non superiore al 2% dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro (compresi gli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione) è ripartita, «per ogni singola opera o lavoro», con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e tra i loro collaboratori.
In base al sesto comma dell'articolo 92, l'incentivo alla progettazione va ripartito tra i dipendenti della Pa aggiudicatrice che lo abbiano redatto e dunque è evidente che il riferimento normativo presupponga una procedura a evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un'opera di pubblico interesse (articolo Il Sole 24 Ore del 17.12.2012 - tratto da www.corteconti.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

CONDOMINIO: G.U. 17.12.2012 n. 293 "Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici" (Legge 11.12.2012 n. 220).

APPALTI: G.U. 14.12.2012 n. 291 "Decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 25.06.2012 recante modalità di certificazione del credito, anche in forma telematica, di somme dovute per somministrazioni, forniture e appalti, da parte delle regioni, degli enti locali e degli enti del Servizio sanitario nazionale, di cui all’articolo 9, commi 3-bis e 3-ter del decreto-legge 29.11.2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28.01.2009, n. 2 e successive modificazioni e integrazioni – modalità applicative" (Ragioneria Generale dello Stato, circolare 27.11.2012 n. 36).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 13.12.2012 n. 290 "Modifica del decreto 26.06.2009, recante: «Linee guida nazionali per la certificazione energetica degli edifici»" (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 22.11.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.U.E. 11.12.2012 n. L 337/31 "REGOLAMENTO (UE) N. 1179/2012 DELLA COMMISSIONE del 10.12.2012 recante i criteri che determinano quando i rottami di vetro cessano di essere considerati rifiuti ai sensi della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio" (link a http://eur-lex.europa.eu).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: Parcheggi «Tognoli».
Domanda.
Ho letto di recente che è stata modificata la disciplina che regolamenta la possibilità di trasferire i parcheggi pertinenziali. Potreste darmi qualche delucidazione?
Risposta.
È vero. L'art. 10 del dl «Semplificazione e Sviluppo» n. 5/2012 (conv. dalla legge n. 35/2012) ha sostituito l'art. 9, 5° comma , della Legge «Tognoli» n. 122/1989. L'art. 9, comma 5, ora stabilisce che, fermo restando l'art. 41-sexies, legge n. 1150/1942 e l'immodificabilità dell'esclusiva destinazione a parcheggio, la proprietà dei parcheggi realizzati a norma del 1° comma può essere trasferita, anche in deroga a quanto previsto nel titolo edilizio e nei successivi atti convenzionali, solo con contestuale destinazione del parcheggio trasferito a pertinenza di altra unità immobiliare sita nello stesso comune mentre i parcheggi realizzati ai sensi del 4° comma del medesimo art. 9 continuano a non poter essere ceduti separatamente dall'unità immobiliare alla quale sono legati da vincolo pertinenziale a pena di nullità dei relativi atti di cessione, a eccezione di espressa previsione contenuta nella convenzione stipulata con il comune, ovvero quando quest'ultimo abbia autorizzato l'atto di cessione.
La modifica riguarda solo i parcheggi di cui all'art. 9, 1° comma, legge n. 122/1989 ai sensi del quale: «Proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere realizzati, a uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica e ambientale e i poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e ai Ministeri dell'ambiente e per i beni culturali e ambientali da esercitare motivatamente nel termine di 90 giorni. I parcheggi stessi ove i piani del traffico non siano stati redatti, potranno comunque essere realizzati nel rispetto delle indicazioni di cui al periodo precedente».
Il 4° comma dell'art. 9 stabilisce invece che i comuni, previa determinazione dei criteri di cessione del diritto di superficie e su richiesta dei privati interessati o di imprese di costruzione o di società anche cooperative, possono prevedere, nell'ambito del programma urbano dei parcheggi, la realizzazione di parcheggi da destinare a pertinenza di immobili privati su aree comunali o nel sottosuolo delle stesse. (_). La costituzione del diritto di superficie è subordinata alla stipula di una convenzione nella quale siano previsti la durata della concessione del diritto di superficie per un periodo non superiore a novanta anni e altri elementi tra i quali le sanzioni previste per gli eventuali inadempimenti.
Prima della recente modifica normativa, anche i parcheggi di cui al 1° comma dell'art. 9 (quelli, cioè, su proprietà privata) non potevano essere ceduti separatamente dall'unità immobiliare alla quale erano legati da vincolo pertinenziale, a pena di nullità dei relativi atti di cessione, preclusione tuttora prevista per i parcheggi realizzati su area comunale di cui al 4° comma dell'art. 9 della legge n. 122/1989 (articolo ItaliaOggi Sette del 17.12.2012).

NEWS

CONDOMINIO: Il sottotetto è condominiale. La struttura deve poter essere usata come vano autonomo. La riforma aggiorna l'elenco (non tassativo) delle parti destinate a uso collettivo.
I sottotetti si presumono parte comune dell'edificio condominiale se oggettivamente destinati all'uso collettivo da parte dei condomini.
È uno degli effetti della riforma del condominio, che ha introdotto novità in merito alle parti comuni del caseggiato. Infatti, è stato aggiornato l'elenco dei beni che, in base all'art. 1117 c.c., si presumono in comproprietà di tutti i condomini, il quale tiene conto anche dell'evoluzione tecnologica intervenuta dal 1942 a oggi.
In primo luogo appare evidente la volontà del legislatore di utilizzare un linguaggio più comprensibile: così viene precisato che i beni elencati sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell'edificio («anche se aventi diritto a godimento periodico», con un implicito riferimento alle ipotesi della c.d. multiproprietà immobiliare), espressione certamente più semplice e attuale rispetto a quella precedente («proprietari dei diversi piani o porzioni di piani di un edificio»).
A conferma di ciò, la successiva precisazione secondo cui le parti elencate sono condominiali «se non risulta il contrario dal titolo», mentre la precedente (e ancora attuale) versione dell'art. 1117 c.c. disponeva, con una forma un po' più arcaica, «se il contrario non risulta dal titolo» .
Rimane quindi confermato che per stabilire quali siano le parti comuni dell'edificio condominiale bisogna in primo luogo esaminare le clausole dei rogiti di acquisto (e, successivamente, il regolamento, l'atto di successione ereditaria, le vicende di fatto che abbiano portato a un eventuale acquisto per usucapione, o la destinazione oggettiva del bene). In ogni caso viene confermato che si tratta comunque, è bene precisarlo subito, di un elenco dei beni comuni non tassativo, ma esemplificativo, di parti che, come detto, si presumono condominiali, con la conseguenza che un bene o un impianto, pur non indicato nell'art. 1117 c.c., può, a determinate condizioni, essere ugualmente qualificato come condominiale.
Ciò trova conferma nel fatto prima dell'elenco dei beni di cui ai numeri 1, 2 e 3 della predetta disposizione del codice civile, nella stessa norma viene anticipata l'espressione «tutte le parti dell'edificio necessarie all'uso comune» (mentre nell'originario testo dell'art. 1117 c.c. detta espressione era contenuta soltanto al termine dell'elencazione dei beni comuni di cui al n. 1): la modifica evidenziata tende dunque a evidenziare il carattere esemplificativo e non esaustivo dell'elencazione in questione. Del resto, di fronte alle molteplici varietà delle ipotesi che possono presentarsi nella realtà condominiale, non è certo possibile un elenco completo e quindi anche la legge di riforma si limita soltanto a fornire all'interprete una chiave per individuare quali beni, in un caseggiato in condominio, debbano presumersi di proprietà comune.
Nel passare all'elenco delle parti condominiali, la novità è rappresentata dall'inclusione in esse dei pilastri, delle travi portanti e delle facciate: tali indicazioni sono indiscutibili, se si considera che i muri perimetrali delimitano esternamente il caseggiato, mentre i pilastri e le travi in conglomerato cementizio sono elementi dell'intelaiatura portante dell'edificio condominiale. Vengono ricompresi nell'elenco dei beni comuni anche le aree destinate a parcheggio e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all'uso comune. Si tratta quindi dei sottotetti che abbiano dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l'utilizzazione come vano autonomo (mentre sono generalmente di proprietà esclusiva quelli che costituiscono una camera d'aria e hanno la mera funzione di isolare e proteggere l'appartamento dell'ultimo piano dal caldo, dal freddo e dall'umidità).
Per quanto riguarda le altre novità introdotte dalla riforma della disciplina condominiale in tema di parti comuni, merita di essere precisato che è stata modificata la dicitura di alcuni beni comuni (gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l'energia elettrica, per il riscaldamento (anziché gli acquedotti, le fognature, i canali di scarico, gli impianti per l'acqua, per il gas, per l'energia elettrica, per il riscaldamento e simili) e che sono stati aggiunti altri impianti, ovvero quelli per il condizionamento dell'aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo anche da satellite o via cavo. Da notare che, in caso di impianti unitari, si dovrà far rientrare l'impianto tra le parti comuni fino al punto di utenza, salve le normative di settore in materia di reti pubbliche, in grado, queste ultime, di costituire unilateralmente vincoli sull'edificio aventi effetti analoghi alle servitù (articolo ItaliaOggi Sette del 17.12.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Pubblicato in Guue il regolamento n. 1179/12 con le norme per l'end of waste. Il riutilizzo del vetro ora è doc. Regole Ue per i produttori di materie prime secondarie.
Nuove regole certe per i produttori di materie prime secondarie. Dopo quelle relative ai rottami ferrosi, arrivano infatti dall'Ue le norme per riabilitare a veri e propri beni i rifiuti di vetro sottoposti a procedimenti di recupero.
Le nuove regole sull'«end of waste» sono recate dal
REGOLAMENTO (UE) N. 1179/2012 DELLA COMMISSIONE del 10.12.2012 in attuazione dell'articolo 6 della direttiva madre sui rifiuti (la 2008/98/Ce) e si applicano immediatamente in tutti gli Stati membri a partire dall'11.06.2013 senza necessità di essere veicolate da provvedimenti interni in quanto norme «self executing».
Con il provvedimento in parola (pubblicato sulla Guue dell'11.12.2012, n. L337) la Commissione Ue stabilisce tutte le condizioni indefettibili che i rottami di vetro devono soddisfare per uscire dalla disciplina dei rifiuti, ossia: tipologie di rifiuti processabili; operazioni di recupero da seguire; standard qualitativi minimi dei prodotti ottenuti; tipi di riutilizzi possibili; sistemi di gestione dei processi; certificazione di conformità.
Tipologie di rifiuti ammissibili. In base al nuovo regolamento, saranno utilizzabili per ottenere le materie prime in esame unicamente i rifiuti recuperabili provenienti dalla raccolta del vetro per imballaggio, il vetro piano, il vasellame privo di piombo. Sono invece esclusi i residui contenenti vetro provenienti da rifiuti solidi urbani indifferenziati o da strutture sanitarie ed i rifiuti pericolosi.
Trattamento. I rifiuti ammessi all'«end of waste» dovranno essere raccolti, separati dagli altri residui e trasformati fino a ottenere dei rottami di vetro riutilizzabili direttamente, attraverso la rifusione, nella produzione di sostanze di vetro od oggetti.
Qualità delle materie prime secondarie. I rottami ottenuti all'esito del trattamento dovranno soddisfare sia le specifiche norme di settore (in sostanza, quelle dell'industria del vetro) sia i limiti massimi di metalli, sostanze organiche (come carta, gomma plastica, tessuto, legno) ed inorganiche (come ceramica, roccia, porcellana, piroceramica) stabiliti dagli allegati tecnici al regolamento comunitario.
Ancora, i rottami dovranno altresì essere esenti dalle caratteristiche di pericolo previste dall'allegato III alla citata direttiva madre sui rifiuti e rispettare i parametri di concentrazione fissati sia dalla decisione 2000/532/Ce (recante l'elenco dei rifiuti) che dal regolamento Ce n. 850/2004 (relativo agli inquinanti organici persistenti).
Riutilizzi consentiti. Parte integrante delle condizioni da rispettare per poter gestire come veri e propri beni i rottami ottenuti all'esito del recupero è il rispetto della loro destinazione. Questa, come accennato, deve coincidere esclusivamente con il riutilizzo diretto delle materie prime ottenute nella produzione di sostanze od oggetti di vetro mediante la loro rifusione. In caso contrario, essi rottami torneranno quindi ad essere considerati rifiuti, con tutti i relativi obblighi gestionali connessi.
Controllo del procedimento. Procedimento di trattamento dei rifiuti e qualità dei rottami ottenuti dovranno essere sottoposti ad un sistema di gestione che permetta il controllo delle condizioni prescritte, sistema che dovrà altresì essere validato da un organismo accreditato dall'Ue almeno ogni tre anni.
Dichiarazione di conformità. Ogni partita di rottami di vetro dovrà infine essere accompagnata da un dichiarazione di conformità che la identifichi e ne attesti la rispondenza ai requisiti tecnici stabiliti dal nuovo regolamento Ue.
Tale onere sarà a carico del «produttore» dei rottami (ossia del detentore che li cede per la prima volta dalla loro creazione ad altro soggetto) oppure, in caso di materiali extra Ue, dall'«importatore» (quale persona fisica o giuridica stabilita nell'Unione che li introduce nel territorio doganale comunitario).
L'«end of waste» Ue. Alla base della nuova disciplina, come accennato, vi è la citata direttiva 2008/98/Ce, il cui articolo 6 conferisce alla Commissione Ue il potere stabilire norme tecniche per il recupero di determinate categorie di rifiuti.
Tali regole, una volta adottate, diventano vincolanti e scavalcano quelle eventualmente stabilite dai singoli Stati membri, legittimando i soggetti che le osservano a gestire come veri e propri beni i residui che derivano dai processi regolamentati.
Il nuovo regolamento Ue n. 1179/2012 sui rottami di vetro segue l'analogo regolamento 333/2011/Ue relativo all'end of waste di rottami di ferro, acciaio ed alluminio già in vigore dal 09.10.2011.
Se l'Esecutivo Ue seguirà la scaletta di priorità prevista dallo stesso articolo 6 della direttiva 2008/98/Ce, tra i prossimi criteri in arrivo dovranno esserci quelli relativi al recupero di rifiuti di carta, tessuto e pneumatici fuori uso (articolo ItaliaOggi Sette del 17.12.2012).

APPALTI SERVIZI: Servizi locali. L'adeguamento ai parametri europei previsto dal Dl sviluppo riguarda anche il settore idrico.
Affidamenti da giustificare. Le ragioni della scelta vanno esplicitate in una relazione pubblica.

Gli enti locali devono verificare la coerenza con i parametri comunitari degli affidamenti dei servizi alle società partecipate e, se rilevano criticità, devono adottare misure di adeguamento.
La legge di conversione del Dl sviluppo (Dl 179/2012) delinea un nuovo quadro di riferimento essenziale per i servizi pubblici locali di rilevanza economica, definendo nell'articolo 34 un percorso finalizzato a garantire la massima trasparenza (sia a fini di concorrenza, sia per gli utenti) sui modelli gestionali scelti dagli enti locali.
La relazione illustrativa
I Comuni e gli enti di governo degli ambiti territoriali ottimali (individuati dal comma 23 come i soggetti competenti all'affidamento per i servizi a rete, come la gestione del ciclo integrato dei rifiuti) devono esplicitare in una relazione illustrativa le ragioni dell'affidamento e la sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento europeo per il modello prescelto (comma 20).
Il documento, che deve essere pubblicato sul sito internet dell'ente affidante, ha come contenuti essenziali anche l'individuazione degli obblighi di servizio pubblico e delle relative compensazioni, che dovranno essere esplicitate tenendo conto dei parametri della disciplina comunitaria sugli aiuti di Stato, compresa nel cosiddetto pacchetto Sieg (il nuovo pacchetto di norme sugli aiuti di Stato per i servizi di interesse economico generale).
Per gli affidamenti in house, la relazione dovrà evidenziare analiticamente i dati quantitativi che esplicitano la prevalenza dell'attività svolta dalla società a favore dell'ente locale e della sua comunità, e gli elementi compositivi del controllo analogo, come ad esempio le clausole convenzionali che garantiscono agli enti soci di intervenire nei processi decisionali strategici, gli strumenti specifici, l'oggetto sociale delimitato.
Il controllo
Se la società è partecipata da più enti locali, detentori anche di quote molto limitate, le clausole statutarie devono consentire agli enti di esercitare congiuntamente il controllo analogo, come chiarito dalla Corte di giustizia Ue, sezione III, con la sentenza del 29.11.2012, sulla causa C-183/11.
L'eventuale rilevazione, da parte dell'ente affidante, di elementi non conformi ai requisiti comunitari nel presunto rapporto in house, determina l'obbligatoria adozione di misure (comma 21) che sanciscano soprattutto il controllo analogo, come l'inclusione nello statuto di regole specifiche, la costituzione di organismi di verifica, la regolamentazione dettagliata delle attività di checking delle prestazioni e della qualità nei contratti di servizio.
Società miste
La situazione può risultare più critica per le società miste, perché i parametri del partenariato pubblico-privato di tipo istituzionale definiti dall'ordinamento comunitario prevedono la selezione a evidenza pubblica del socio privato e la contestuale attribuzione a questo di specifici compiti operativi.
Le società a partecipazione congiunta pubblico-privata "vecchio modello" (nelle quali il socio sia stato individuato con gara, ma per le quali l'affidamento sia avvenuto in forma diretta) non possono proseguire nella gestione. Gli enti dovranno dunque riacquistare temporaneamente le quote (liquidando il socio privato), per indire poi una nuova gara «a doppio oggetto». Un percorso analogo deve essere seguito per le società miste nelle quali il socio privato sia stato scelto, a suo tempo, senza gara.
L'affidamento diretto di servizi pubblici da parte di amministrazioni locali a società da esse non partecipate comporta invece un nuovo affidamento con gara, entro termini molto brevi.
Mancato adeguamento
La mancata formazione e pubblicizzazione della relazione illustrativa e l'eventuale mancato adeguamento ai parametri comunitari comportano la cessazione degli affidamenti "impropri" in corso al 31.12.2013. La stessa data comporta la cessazione degli affidamenti per i quali il contratto di servizio non preveda scadenza e non sia stato inserito nello strumento pattizio, nel frattempo, un termine preciso.
La nuova disciplina non si applica al servizio di distribuzione del gas naturale, a quello di distribuzione dell'energia e a quello di gestione delle farmacie (articolo 34, comma 25): curiosamente, non è escluso il servizio idrico, per il quale, di conseguenza, gli enti di governo dell'ambito devono dimostrare la coerenza dei modelli gestionali attuali con i requisiti comunitari (ed eventualmente adeguarli, pena la scadenza delle gestioni esistenti a fine 2013).
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Le nuove regole
01 | La procedura
I servizi pubblici locali di rilevanza economica devono essere affidati in base a una relazione, pubblicata sul sito internet dell'ente affidante, che dà conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico
02 | La scadenza
Gli affidamenti in corso non conformi ai requisiti previsti dalla normativa europea devono essere adeguati entro il 31.12.2013 pubblicando, entro la stessa data, la relazione. Per gli affidamenti in cui non è prevista una data di scadenza, gli enti devono inserire nel contratto di servizio o negli altri atti che regolano il rapporto un termine di scadenza dell'affidamento. In mancanza di adempimento a questi obblighi, l'affidamento cessa al 31.12.2013
I punti-chiave
01 | LA DECISIONE
Il giudice del lavoro di Padova ha annullato il provvedimento con cui un Comune aveva messo in disponibilità un proprio dipendente: un titolare di posizione organizzativa che, dopo la mancata conferma dell'incarico, era stato spostato in un altro settore e poi dichiarato in esubero
02 | LA MOTIVAZIONE
Il giudice ha rilevato che nella comunicazione ai soggetti sindacali è mancata completamente l'indicazione dei criteri in base ai quali è stata effettuata la scelta dei dipendenti da collocare in esubero. Quindi, secondo il giudice, il dipendente non è stato individuato in modo oggettivo ma mirato (articolo Il Sole 24 Ore del 17.12.2012 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: In sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, ai sensi dell’art. 32 della legge 28.02.2985 n. 47, l’obbligo di acquisire il parere da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste anche per le opere realizzate anteriormente all’imposizione del vincolo stesso.
Sulla questione s’è pronunciata l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con decisione n. 20 del 22.07.1999, costantemente richiamata dalla successiva giurisprudenza, nel senso che in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, ai sensi dell’art. 32 della legge 28.02.2985 n. 47, l’obbligo di acquisire il parere da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste anche per le opere realizzate anteriormente all’imposizione del vincolo stesso.
A tale conclusione l’Adunanza Plenaria è pervenuta nella considerazione che “in mancanza di indicazioni univoche desumibili dal dato normativo” alla questione di cui sopra non può che darsi una soluzione “alla stregua dei principi generali in materia di azione amministrativa, tenuto conto della valenza attribuita dall’ordinamento agli interessi coinvolti nell’applicazione della disposizione legislativa di cui si tratta” e, conseguentemente, “la Pubblica Amministrazione, sulla quale incombe più pressante l’obbligo di osservare la legge, deve necessariamente tener conto, nel momento in cui provvede, della norma vigente e delle qualificazioni giuridiche che essa impone”.
In tale ottica l’obbligo di pronuncia da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste a prescindere dall’epoca d’introduzione del vincolo stesso in quanto risponde alla esigenza di vagliare l’attuale compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente non ostando a tale conclusione la considerazione che siffatta soluzione esporrebbe il singolo caso, in violazione del principio di certezza del diritto e di non disparità di trattamento, alla variabile alea dei tempi di decisione sull’istanza, l’Adunanza plenaria ha osservato “per un verso, che addurre inconvenienti non è un buon argomento ermeneutico e, per altro verso, che, ad ogni modo, l’ordinamento appresta idonei strumenti di sollecitazione e, del caso, di sostituzione dell’amministrazione inerte”.
Alla stregua delle considerazioni che precedono deve ritenersi manifestamente infondata la questione di legittimità dell’art. 32 della l. n. 47/1985 in relazione agli articoli 3 e 97 della Costituzione, nonché, dell’art. 25, comma 2, della Costituzione, non costituendo il ripetuto art. 32 fattispecie costitutiva di illecito penale (Cons. St., Sez. VI n. 4765/2003).
In tale prospettiva è stata esclusa un’interpretazione della normativa di sanatoria nel senso che dette leggi costituirebbero espressione dell’intenzione del legislatore della sanatoria di procedere ad un condono “a tappeto” di tutte le opere già eseguite al momento dell’entrata in vigore della legislazione condonistica, avendo invece la giurisprudenza chiarito che “la salvezza delle opere abusive decretata dalla normativa clemenziale, lungi dal basarsi in via automatica sul referente temporale, può essere ricavata solo dall’espressa volontà incarnata dal diritto positivo. Non va, infatti, dimenticato che la specialità della normativa sul condono edilizio, attesa la sua natura derogatoria ed eccezionale, ne impone una lettura di stretta interpretazione” Cons. Stato Sez. VI 22/08/2003 n. 4765.
Pertanto, nel compiere il giudizio di compatibilità, l’Amministrazione non può non tener conto delle prescrizioni recate dal vincolo sopravvenuto dovendo invece verificare -alla data di concreto esercizio della potestà amministrativa- se la costruzione (antecedente o meno all'imposizione del vincolo) sia compatibile con i valori paesaggistici, cui corrispondono interessi pubblici primari, di natura culturale ed ambientale.
Ed in tale ottica i provvedimenti volti ad esprimere parere favorevole alla sanatoria sulla base di una valutazione di compatibilità paesaggistica formulata in termini del tutto assiomatici –consistenti nella mera affermazione di una non meglio specificata compatibilità delle opere abusive con il contesto ambientale– è ritenuta indicativa dell'assenza di una compiuta valutazione circa la compatibilità delle opere realizzate con i valori paesaggistici tutelati (come sarebbe stato indispensabile per la sanatoria di opere che, anche perché contrastanti con la disciplina urbanistico edilizia, avrebbero potuto essere ammesse a sanatoria solo sulla base di un compiuto apprezzamento di ordine estetico e funzionale, che attestasse in modo congruo -e con adeguata rappresentazione della situazione di fatto- l'assenza di qualsiasi compromissione dei predetti valori paesaggistici); in tal modo l’autorità subdelegata tradendo la delicata funzione affidatale, risultando l’assiomatico giudizio di compatibilità sintomatico di eccesso di potere per la sostanziale assenza di motivazione del parere (cfr. da ultimo, Cons. St., sez. VI, 23.02.2011, n. 1127 e 08.05.2012 n. 2649).
Tale vizio, peraltro, è stato ritenuto dalla giurisprudenza, con riferimento ai provvedimenti in esame, come particolarmente grave e di per sé sufficiente a giustificare l'annullamento del nulla osta comunale: in considerazione della tendenziale irreversibiltà dell'alterazione dello stato dei luoghi, un'adeguata gestione dei vincoli paesistici impone che l'autorizzazione paesistica sia congruamente motivata, esponendo le ragioni di effettiva compatibilità degli abusi realizzati con gli specifici valori paesistici dei luoghi, con la conseguenza che il difetto di motivazione dell'autorizzazione giustifica per ciò solo il suo annullamento in sede di controllo (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 05.12.2012 n. 10167 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: L'art. 192, comma 3, Dlgs. 03.04.2006, n. 152, norma speciale sopravvenuta rispetto all'art. 107, comma 5, Dlgs. 18.08.2000, n. 267, attribuisce espressamente al sindaco la competenza a disporre, con ordinanza, le operazioni necessarie alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti previste dal comma 2.
Tale previsione, sulla base degli ordinari criteri preposti alla soluzione delle antinomie normative, ovvero in base al criterio specialistico e al criterio cronologico, prevale sul disposto dell'art. 107, comma 5, Dlgs. n. 267 del 2000.
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Nei confronti del curatore fallimentare non è configurabile alcun obbligo ripristinatorio in ordine all'abbandono dei rifiuti in assenza dell’accertamento univoco di un’autonoma responsabilità del medesimo, conseguente alla presupposta ricognizione di comportamenti commissivi, ovvero meramente omissivi, che abbiano dato luogo al fatto antigiuridico.
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In definitiva, applicando le disposizioni contenute nell’art. 192 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152, discende che il provvedimento impugnato è illegittimo e va annullato per incompetenza e nella parte in cui ha posto obblighi ed oneri direttamente in capo al fallimento, quando invece, qualora il Comune proceda all'esecuzione d'ufficio, per recuperare le somme anticipate, ha a disposizione il solo rimedio dell’insinuazione del relativo credito nel passivo fallimentare.

... per l'annullamento dell’ordinanza n. 20 del 12.01.2012, notificata il 18.01.2012 al curatore, con cui il Dirigente del Coordinamento Ambiente del Comune di Verona ha disposto ed ordinato al fallimento ricorrente l'esecuzione d'ufficio delle azioni necessarie alla pulizia totale dei sito industriale sito in Verona denominato ex Tiberghien, come richiesto con precedente ordinanza dell'agosto 2010.
...
Infatti, come chiarito dalla giurisprudenza (cfr. ex pluribus Consiglio di Stato, Sez. V, 25.08.2008, n. 4061; Tar Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 26.01.2011, n. 61) anche di questo Tribunale (cfr. Tar Veneto, Sez. III, 20.10.2009, n. 2623; id. 14.01.2009, n. 40) l'art. 192, comma 3, Dlgs. 03.04.2006, n. 152, norma speciale sopravvenuta rispetto all'art. 107, comma 5, Dlgs. 18.08.2000, n. 267, attribuisce espressamente al sindaco la competenza a disporre, con ordinanza, le operazioni necessarie alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti previste dal comma 2.
Tale previsione, sulla base degli ordinari criteri preposti alla soluzione delle antinomie normative, ovvero in base al criterio specialistico e al criterio cronologico, prevale sul disposto dell'art. 107, comma 5, Dlgs. n. 267 del 2000.
Tale rilievo comporta pertanto di per sé l’annullamento dell’ordinanza impugnata, fermo restando che la questione andrà rimessa al Sindaco, che è l’organo individuato come competente dalla norma ad adottare tale tipo di ordinanze.
Nel caso di specie, atteso che si è di fronte ad un vizio di incompetenza di tipo infrasoggettivo, che è quello che si verifica nell'ambito dello stesso ente, poiché l'Amministrazione è evocata in giudizio nella sua unitarietà indipendentemente dallo specifico riferimento soggettivo all'organo che ha emanato l'atto impugnato, non vi è pericolo che una pronuncia di merito sugli altri motivi di ricorso possa, in violazione del principio del contraddittorio, dettare regole di condotta nei confronti di soggetti rimasti estranei al giudizio, e pertanto il rilevato vizio di incompetenza non assume carattere assorbente delle ulteriori censure (cfr. Tar Veneto, Sez. III, 28.04.2008, n. 1136; Tar Lombardia, Brescia, 01.06.2001, n. 398) e possono pertanto essere esaminati ulteriori motivi di ricorso al fine di orientare la successiva attività dell'Amministrazione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 30.08.2004, n. 5654).
Ciò premesso va rilevato che è fondata anche la censura contenuta nel primo motivo con la quale il fallimento lamenta che la curatela fallimentare non può essere legittimamente destinataria di ordinanze afferenti le operazioni di rimozione rifiuti il cui abbandono sia riconducibile unicamente alla responsabilità dell’impresa fallita e al quale è estraneo il fallimento.
Infatti la giurisprudenza ha chiarito che nei confronti del curatore fallimentare non è configurabile alcun obbligo ripristinatorio in ordine all'abbandono dei rifiuti in assenza dell’accertamento univoco di un’autonoma responsabilità del medesimo, conseguente alla presupposta ricognizione di comportamenti commissivi, ovvero meramente omissivi, che abbiano dato luogo al fatto antigiuridico (cfr. Tar Toscana, Sez. II, 19.03.2010, n. 700; Tar Campania , Salerno, Sez. I, 18.10.2010, n. 11823; Tar Calabria, Catanzaro, Sez. II, 09.09.2010, n. 2556; Tar Toscana, Sez. II, 17.04.2009, n. 663; Consiglio di Stato, Sez. V, 25.01.2005, n. 136; Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 10.05.2005, n. 1159; Tar Lazio, Latina, 12.03.2005, n. 304; Consiglio di Stato, Sez. V, 29.07.2003, n. 4328; Tar Toscana, Sezione II, 01.08.2001, n. 1318).
In definitiva, applicando le disposizioni contenute nell’art. 192 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152, discende che, ferma restando la validità del provvedimento impugnato nella parte in cui dispone obblighi in capo all’altro comproprietario del compendio immobiliare, il provvedimento impugnato è illegittimo e va annullato per incompetenza e nella parte in cui ha posto obblighi ed oneri direttamente in capo al fallimento, quando invece, qualora il Comune proceda all'esecuzione d'ufficio, per recuperare le somme anticipate, ha a disposizione il solo rimedio dell’insinuazione del relativo credito nel passivo fallimentare (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 04.12.2012 n. 1498 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico impiego. Giudice di Padova. Per gli esuberi criteri oggettivi e predeterminati.
I dipendenti e i dirigenti pubblici da collocare in esubero devono essere scelti sulla base di criteri oggettivi e predeterminati che le singole amministrazioni si devono dare, così da evitare ogni forma di arbitrarietà.

È questo il principio affermato dal giudice del lavoro di Padova nell'ordinanza 30.11.2012 n. 2685/2012.
Si tratta della prima pronuncia della giurisprudenza sull'applicazione delle nuove regole sulle eccedenze di personale introdotte dalla legge di stabilità del 2012. Questi principi si applicano anche alle eccedenze che si registreranno nella Pa sulla base del decreto legge 95/2012; ma in questo caso i criteri sono predeterminati direttamente dalla legge, senza lasciare margini di discrezionalità significativi alle singole amministrazioni.
Nel dettaglio l'ordinanza ha annullato il provvedimento con cui un Comune aveva messo in disponibilità un proprio dipendente che era in precedenza titolare di posizione organizzativa e, a seguito della mancata conferma in tale incarico, era stato collocato in un altro settore. Dopo di che, pur in presenza di un altro dipendente della stessa categoria nel settore, era stato dichiarato in esubero. A questo fine era stato utilizzato l'articolo 33 del decreto legislativo 165/2001 modificato dalla legge di stabilità 2012, che prevede la possibilità per le Pa di collocare in esubero personale in soprannumero o comunque nel caso di eccedenze di personale, in relazione alle esigenze funzionali o alla situazione finanziaria.
Alla base dell'ordinanza vi è la constatazione che mancano completamente nella comunicazione ai soggetti sindacali i criteri in base ai quali è stata effettuata la scelta dei dipendenti da collocare in esubero. Infatti, in tale documento, si legge nell'ordinanza, «non è indicato alcun criterio di comparazione tra le posizioni lavorative dei dipendenti della categoria sia nella stessa area, che di altre aree; nemmeno si estende la valutazione a dipendenti di categoria inferiore, cosa ammissibile, dovendosi adottare una misura che è prodromica alla cessazione del rapporto. Non viene indicato in ogni caso alcun criterio generale di individuazione della posizione da sopprimere».
Di qui si arriva alla conclusione che «l'individuazione del ricorrente come dipendente da collocare in disponibilità abbia carattere mirato, tutto il contrario della oggettività che deve presiedere alla procedura di collocamento in disponibilità». E siamo in presenza di conseguenze assai pesanti e che meritano un intervento immediato perché «il collocamento in disponibilità comporta non solo una riduzione stipendiale, venendo riconosciuto solo l'80% dello stipendio e della indennità integrativa speciale, con esclusione di qualsiasi altro emolumento, ma anche l'esclusione dal contesto lavorativo, particolarmente stigmatizzante perché riferita a un solo dipendente».
Si deve inoltre aggiungere l'elevata dose di rischio di risoluzione del rapporto di lavoro, cioè del licenziamento, nel caso in cui il dipendente non sia assunto da un'altra Pa entro il termine massimo di due anni dal collocamento in disponibilità (articolo Il Sole 24 Ore del 17.12.2012 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150 (nel testo modificato dalla legge dall’art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765), non ha introdotto un'azione popolare, che consentirebbe a qualsiasi cittadino di impugnare il provvedimento che prevede la realizzazione di un'opera per far valere comunque l'osservanza delle prescrizioni che regolano l'edificazione. Piuttosto, la norma ha riconosciuto una posizione qualificata e differenziata solo in favore dei proprietari di immobili siti nella zona in cui la costruzione è permessa e a coloro che si trovano in una situazione di "stabile collegamento" con la zona medesima.
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Il Collegio è consapevole dell’esistenza di orientamenti giurisprudenziali difformi.
Secondo una tesi più liberale, la legittimazione a impugnare una concessione edilizia non postulerebbe necessariamente l'adiacenza fra gli immobili, essendo sufficiente la semplice prossimità, senza che sia necessario dimostrare ulteriormente la sussistenza di un interesse qualificato alla tutela giurisdizionale.
Per una concezione più restrittiva (cui aderisce il collegio), invece, ai fini dell'impugnazione di una concessione edilizia la condizione della “vicinitas” andrebbe valutata alla stregua di un giudizio che tenga conto della natura e delle dimensioni dell'opera realizzata, della sua destinazione, delle sue implicazioni urbanistiche ed anche delle conseguenze prodotte dal nuovo insediamento sulla qualità della vita di coloro che per residenza, attività lavorativa e simili, sono in durevole rapporto con la zona in cui sorge la nuova opera.

La sentenza impugnata ha dichiarato inammissibile il ricorso di primo grado per non avere il ricorrente fornito la prova della propria legittimazione attiva.
La decisione si fonda sul presupposto -del tutto condivisibile, in quanto conforme a una costante giurisprudenza- che l’art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150 (nel testo modificato dalla legge dall’art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765), non abbia introdotto un'azione popolare, che consentirebbe a qualsiasi cittadino di impugnare il provvedimento che prevede la realizzazione di un'opera per far valere comunque l'osservanza delle prescrizioni che regolano l'edificazione. Piuttosto, la norma ha riconosciuto una posizione qualificata e differenziata solo in favore dei proprietari di immobili siti nella zona in cui la costruzione è permessa e a coloro che si trovano in una situazione di "stabile collegamento" con la zona medesima.
In via preliminare, l’appello insiste molto –come è naturale– sulla legittimazione ad agire, che emergerebbe da un complesso di documenti depositati nel giudizio di primo grado (una planimetria di piano; una visura catastale; l’autorizzazione al commercio rilasciata al legale rappresentante della Società appellante; il contratto di affitto d’azienda), dei quali il Tribunale regionale avrebbe potuto comunque chiedere l’integrazione. Sostiene poi la tesi della sufficienza, ai fini della legittimazione, del solo elemento della “vicinitas”.
In relazione a tale requisito, il Collegio è consapevole dell’esistenza di orientamenti giurisprudenziali difformi (per un esame dettagliato della questione si veda Cons. Stato, Sez. VI, 20.10.2010, n. 7591).
Secondo una tesi più liberale, la legittimazione a impugnare una concessione edilizia non postulerebbe necessariamente l'adiacenza fra gli immobili, essendo sufficiente la semplice prossimità, senza che sia necessario dimostrare ulteriormente la sussistenza di un interesse qualificato alla tutela giurisdizionale (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 16.03.2010 , n. 1535).
Per una concezione più restrittiva, invece, ai fini dell'impugnazione di una concessione edilizia la condizione della “vicinitas” andrebbe valutata alla stregua di un giudizio che tenga conto della natura e delle dimensioni dell'opera realizzata, della sua destinazione, delle sue implicazioni urbanistiche ed anche delle conseguenze prodotte dal nuovo insediamento sulla qualità della vita di coloro che per residenza, attività lavorativa e simili, sono in durevole rapporto con la zona in cui sorge la nuova opera (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 31.05.2007, n. 2849).
Nel caso di specie, peraltro, la Sezione ritiene di non avere motivo di discostarsi da una propria precedente decisione (23.09.2011, n. 5353), resa su una controversia avente sostanzialmente il medesimo oggetto di quella attuale (rilascio dell’autorizzazione per la realizzazione di un edificio commerciale in Vasto) e intercorrente tra parti delle quali, come emerge dalla documentazione in atti:
- la Società appellante (Modulo Quattro s.r.l.) aveva la stessa sede sociale, analogo oggetto sociale, proprietà e amministrazione largamente sovrapponibili a quella della Società odierna appellante; in particolare il signor Giovanni Cirotti, titolare dell’autorizzazione al commercio depositata in primo grado, appare comproprietario e amministratore (insieme con altri soggetti) di entrambe le società.
- la Società appellata (Immobiliare “C” di Cerella Natalia Gabriella) era l’originaria proprietaria dell’area in discussione, dante causa dell’odierna Società appellata.
Aderendo per implicito alla tesi più restrittiva fra quelle prima ricordate, la sentenza citata ha ritenuto mancante la legittimazione dell’appellante, che non sarebbe riuscita a offrire prova o indizio di prova dello sviamento della clientela e della conseguente futura diminuzione di profitto, in ragione dell’identità, quanto meno parziale, dei generi merceologici trattati nelle due strutture commerciali in argomento (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.11.2012 n. 6081 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una tettoia è soggetta a concessione edilizia poiché, pur potendo avere carattere pertinenziale rispetto all'immobile cui accede, incide sull'assetto edilizio preesistente.
La realizzazione di una tettoia è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, nella misura in cui realizza <<l'inserimento di nuovi elementi ed impianti>>, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R. laddove comporti una modifica della sagoma o del prospetto del fabbricato cui inerisce.
La tettoia realizzata sul terrazzo di un fabbricato, in quanto struttura stabilmente ancorata al pavimento e destinata a soddisfare non una esigenza temporanea e contingente, ma prolungata nel tempo, è priva del carattere della precarietà ed amovibilità ed è quindi assoggettata al regime del permesso di costruire, dal momento che comporta una rilevante modifica dell’assetto edilizio preesistente.

Sul punto si richiama quella giurisprudenza secondo cui la realizzazione di una tettoia è soggetta a concessione edilizia poiché, pur potendo avere carattere pertinenziale rispetto all'immobile cui accede, incide sull'assetto edilizio preesistente (TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 16.07.2002, n. 4107; TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 08.07.2002, n. 1936; TAR Campania Napoli, sez. III, 09.09.2008, n. 10059; TAR Campania Napoli, sez. VI, 04.08.2008, n. 9725; TAR Lombardia Brescia, sez. I, 25.05.2010 ).
In tal senso peraltro vengono in rilievo specifici precedenti di questa sezione secondo cui “la realizzazione di una tettoia è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, nella misura in cui realizza <<l'inserimento di nuovi elementi ed impianti>>, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R. laddove comporti una modifica della sagoma o del prospetto del fabbricato cui inerisce” (TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 17.02.2010, n. 968; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n. 9605) ed ancora “la tettoia realizzata sul terrazzo di un fabbricato, in quanto struttura stabilmente ancorata al pavimento e destinata a soddisfare non una esigenza temporanea e contingente, ma prolungata nel tempo, è priva del carattere della precarietà ed amovibilità ed è quindi assoggettata al regime del permesso di costruire, dal momento che comporta una rilevante modifica dell’assetto edilizio preesistente” (TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 21.12.2007, n. 16493)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 27.11.2012 n. 4831 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I provvedimenti che irrogano sanzioni previste dalla legge in materia edilizia non necessitino di alcuna specifica motivazione in ordine all’interesse pubblico a disporre il ripristino della situazione conforme a legge, né il Comune ha discrezionalità nello stabilire le sanzioni derivanti dall’inosservanza della normativa urbanistica e di tutela ambientale.
In ordine al profilo specifico del passaggio di un notevole lasso di tempo dalla realizzazione dell’abuso parte ricorrente richiama un filone giurisprudenziale secondo cui la repressione dell'abuso edilizio, disposta a distanza di tempo ragguardevole, richiede una puntuale motivazione sull'interesse pubblico al ripristino dei luoghi.
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La giurisprudenza più recente si è espressa nel senso che il provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare e non potendo l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi.
Al riguardo il Collegio rileva come di affidamento meritevole di tutela si possa parlare solo ove il privato, il quale abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota la propria posizione all’Amministrazione, venga indotto da un provvedimento della stessa Amministrazione a ritenere come legittimo il suo operato non già nel caso, come quello di specie, in cui si commetta un illecito a tutta insaputa della stessa.
Inoltre, l’abuso edilizio rappresenta un illecito permanente integrato dalla violazione dell’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei luoghi, di talché ogni provvedimento repressivo dell’Amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un illecito ormai esaurito, bensì interviene su una situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento.

Quanto alla mancata indicazione della sussistenza di un interesse pubblico alla rimozione, il Collegio evidenzia come, in generale, i provvedimenti che irrogano sanzioni previste dalla legge in materia edilizia non necessitino di alcuna specifica motivazione in ordine all’interesse pubblico a disporre il ripristino della situazione conforme a legge (Consiglio Stato, sez. V, 30.11.2000, n. 6357), né il Comune ha discrezionalità nello stabilire le sanzioni derivanti dall’inosservanza della normativa urbanistica e di tutela ambientale.
In ordine al profilo specifico del passaggio di un notevole lasso di tempo dalla realizzazione dell’abuso parte ricorrente richiama un filone giurisprudenziale secondo cui la repressione dell'abuso edilizio, disposta a distanza di tempo ragguardevole, richiede una puntuale motivazione sull'interesse pubblico al ripristino dei luoghi (per tutti Consiglio Stato, Sez. V, 29.05.2006, n. 3270; Consiglio Stato, Sez. V, 25.06.2002, n. 3443).,
In punto di fatto, il Collegio rileva come non sussiste la prova della risalenza del manufatto ed, in ogni caso, il periodo di 4 anni indicato da parte ricorrente non appare comunque al Collegio tale da integrare gli estremi del passaggio di un notevole lasso di tempo ai fini della possibile applicazione di quel filone giurisprudenziale richiamato, dalla parte ricorrente, basato sull’ingenerarsi di una condizione di affidamento da parte del privato.
In punto di diritto, il Collegio ritiene, con argomentazione dirimente, di non dover comunque seguire l’orientamento giurisprudenziale suggerito dal ricorrente, a cui pure alcune volte questa sezione ha aderito (cfr. TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n. 9620 del; TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 05.05.2009, n. 2357), a fronte dell’orientamento giurisprudenziale prevalente ormai volto in senso contrario e della rilevanza delle argomentazioni che depongono in tal senso.
La giurisprudenza più recente si è espressa, difatti, nel senso che il provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (Cons. Stato Sez. IV, 27.10.2011, n. 5758; Cons. Stato Sez. IV, 20.07.2011, n. 4403; Cons. Stato Sez. V, 27.04.2011, dalla n. 2497 alla n. 2527; Cons. Stato Sez. V, 11.01.2011, n. 79; TAR Lombardia Milano Sez. II, 08.09.2011, n. 2183; TAR Lazio Roma Sez. I-quater, 23.06.2011, n. 5582; TAR Campania Napoli Sez. III, 16.06.2011, n. 3211; TAR Campania Napoli Sez. VIII, 09.06.2011, n. 3029; Cons. Stato Sez. V, 09.02.2010, n. 628) e non potendo l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (Cons. Stato Sez. VI, 11.05.2011, n. 2781).
Al riguardo il Collegio rileva come di affidamento meritevole di tutela si possa parlare solo ove il privato, il quale abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota la propria posizione all’Amministrazione, venga indotto da un provvedimento della stessa Amministrazione a ritenere come legittimo il suo operato non già nel caso, come quello di specie, in cui si commetta un illecito a tutta insaputa della stessa (Cons. Stato Sez. IV, 15.09.2009, n. 5509).
Inoltre, l’abuso edilizio rappresenta un illecito permanente integrato dalla violazione dell’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei luoghi, di talché ogni provvedimento repressivo dell’Amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un illecito ormai esaurito, bensì interviene su una situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento (TAR Brescia, Sez. I, 22.02.2010, n. 860)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 27.11.2012 n. 4831 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: a) la valutazione delle offerte tecniche deve precedere la valutazione delle offerte economiche;
b) le offerte economiche devono essere contenute in buste separate dagli altri elementi (documentazione e offerte tecniche) e debitamente sigillate:
c) la commissione non può aprire le buste delle offerte economiche prima di aver completato la valutazione delle offerte tecniche;
d) nell’offerta tecnica non deve essere inclusa né l’intera offerta economica, né elementi consistenti dell’offerta economica o elementi che comunque consentano di ricostruirla:
e) nell’offerta tecnica possono essere inclusi singoli elementi economici che siano resi necessari dagli elementi qualitativi da fornire, purché siano elementi economici che non fanno parte dell’offerta economica, quali i prezzi a base di gara, i prezzi di listini ufficiali, i costi o prezzi di mercato, ovvero siano elementi isolati e del tutto marginali dell’offerta economica che non consentano in alcun modo di ricostruire la complessiva offerta economica.

In aggiunta, osserva il Collegio che lo stesso codice appalti, nell’indicare gli elementi che compongono l’offerta tecnica, indica voci che presentano elementi di tipo quantitativo- economico, quali il contenimento dei consumi energetici, il costo di utilizzazione e manutenzione, la redditività (art. 83, comma 1, lett. e), f), g), d.lgs. n. 163/2006).
A sua volta il regolamento attuativo del codice appalti prescrive che le offerte tecniche siano esaminate in seduta segreta e che solo successivamente, in seduta pubblica, siano esaminate le offerte economiche (art. 120 d.P.R. n. 207/2010).
Questo al precipuo fine di evitare che in sede di valutazione delle offerte tecniche la commissione possa essere influenzata da elementi di natura economica.
Come si vede, nessuna disposizione né di legge né di regolamento pone un divieto assoluto di elementi di tipo economico nell’offerta tecnica.
Peraltro copiosa giurisprudenza ritiene vietata la commistione tra offerta tecnica ed economica, al fine di prevenire il suddetto pericolo che gli elementi economici influiscano sulla previa valutazione dell’offerta tecnica, in violazione del principio sotteso alle norme vigenti, di segretezza dell’offerta economica fino al completamento della valutazione delle offerte tecniche.
Ma anche la giurisprudenza (invocata dall’appellante) non si spinge ad affermare il divieto assoluto di indicare elementi economici all’interno dell’offerta tecnica, nel modo rigoroso preteso dall’appellante.
La giurisprudenza si è occupata di casi in cui in modo palese e vistoso risultava violato il principio di segretezza dell’offerta economica fino al completamento della fase di valutazione delle offerte tecniche:
- in alcuni casi l’offerta tecnica era corredata del computo estimativo contenente l’intera offerta economica (Cons. St., sez. V, 09.06.2009 n. 2575) ovvero una percentuale di essa pari a circa il 10% (Cons. St., sez. V, 08.09.2010 n. 6509);
- in alcuni casi l’offerta economica non era stata inserita in apposita busta sigillata (Cons. St., sez. V, 23.01.2007 n. 196; Cons. St., sez. VI, 17.07.2001 n. 3962);
- in un caso l’offerta economica era stata erroneamente inserita nella busta contenente la documentazione amministrativa, che è quella che viene aperta per prima, prima ancora della busta contenente l’offerta tecnica, sicché palesemente l’offerta economica era divenuta nota prima di quella tecnica (Cons. St., sez. VI, 12.12.2002 n. 6795);
- in alcuni la commissione aveva aperto la busta con l’offerta economica prima di quella con l’offerta tecnica (Cons. St., sez. VI, 10.07.2002 n. 3848; Id., sez. V, 31.12.1998 n. 1996; Id., sez. VI, 03.06.1997 n. 839);
- in alcuni era stata la lex specialis a prevedere, nell’ambito dell’offerta tecnica, elementi economici (Cons. St., sez. V, 25.05.2009 n. 3217), talora incidenti in percentuale rilevante, pari o superiore al 10%, rispetto alla complessiva offerta economica (Cons. St., sez. V, 28.09.2012 n. 5121).
Alla luce delle norme vigenti, come interpretate dalla giurisprudenza, e considerato il difetto espresso di una norma primaria o regolamentare che vieti in modo assoluto l’indicazione di elementi economici nell’offerta tecnica, si deve ritenere che dal quadro normativo si desumano i seguenti principi:
a) la valutazione delle offerte tecniche deve precedere la valutazione delle offerte economiche;
b) le offerte economiche devono essere contenute in buste separate dagli altri elementi (documentazione e offerte tecniche) e debitamente sigillate:
c) la commissione non può aprire le buste delle offerte economiche prima di aver completato la valutazione delle offerte tecniche;
d) nell’offerta tecnica non deve essere inclusa né l’intera offerta economica, né elementi consistenti dell’offerta economica o elementi che comunque consentano di ricostruirla:
e) nell’offerta tecnica possono essere inclusi singoli elementi economici che siano resi necessari dagli elementi qualitativi da fornire, purché siano elementi economici che non fanno parte dell’offerta economica, quali i prezzi a base di gara, i prezzi di listini ufficiali, i costi o prezzi di mercato, ovvero siano elementi isolati e del tutto marginali dell’offerta economica che non consentano in alcun modo di ricostruire la complessiva offerta economica (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 22.11.2012 n. 5928 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’elemento decisivo, ai fini della qualificazione di un intervento come ristrutturazione edilizia, è costituito non tanto dal dato formale del coinvolgimento delle strutture portanti o delle pareti perimetrali dell’immobile, quanto da quello sostanziale del conseguimento di un maggior “peso” urbanistico sul territorio (a causa di aumenti di volume, di modifiche di sagoma o di incrementi del complessivo carico urbanistico rispetto al preesistente).
Innanzi tutto, non è meritevole di positiva delibazione il primo motivo, col quale la società appellante reitera la propria domanda principale di integrale restituzione del contributo concessorio versato, censurando la sentenza gravata nella parte in cui –condividendo sul punto la tesi del Comune– è stata riaffermata la qualificazione in termini di ristrutturazione edilizia dell’intervento di cui alla concessione nr. 1079 del 1999 ed alle successive varianti.
Si assume in sostanza che, malgrado l’espressa qualificazione di “ristrutturazione” che la stessa società dante causa dell’odierna istante diede dell’intervento all’atto della richiesta del titolo abilitativo, lo stesso rientrerebbe in realtà nella tipologia del restauro o risanamento conservativo, e in quanto tale dovrebbe andare esente da contributi; ciò sulla scorta dell’apprezzamento dell’effettiva portata dell’intervento stesso, che si sarebbe risolto in una mera modifica della destinazione d’uso degli edifici, non coinvolgente le strutture portanti, né i muri perimetrali, ma recante semplici opere di finitura, di spostamento di divisori interni e di aggiunta di elementi pertinenziali.
Al contrario, l’Amministrazione appellata ritiene che dal semplice esame dei grafici di progetto emergerebbero le evidentissime modifiche rispetto allo stato dei luoghi preesistenti, tali da consentire di escludere del tutto che potesse trattarsi di restauro o risanamento conservativo.
Al riguardo, giova preliminarmente richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale, che individua il tratto differenziale tra le due tipologie di interventi de quibus nella presenza o meno di modifiche strutturali incidenti sulla sagoma e sul volume dell’edificio (cfr. ex multis Cass. pen., sez. III, 21.04.2006, nr. 16048; Cons. Stato, sez. IV, 09.10.2007, nr. 5273), ovvero nella presenza o meno di un incremento del complessivo carico urbanistico derivante dall’edificio (cfr. Cons. Stato, sez. V, 28.06.2004, nr. 4794; id., 12.11.2002, nr. 6240).
Alla stregua di tali indirizzi, dai quali la Sezione non ravvisa ragione per discostarsi, appare evidente che l’elemento decisivo, ai fini della qualificazione di un intervento come ristrutturazione edilizia, è costituito non tanto dal dato formale del coinvolgimento delle strutture portanti o delle pareti perimetrali dell’immobile, quanto da quello sostanziale del conseguimento di un maggior “peso” urbanistico sul territorio (a causa di aumenti di volume, di modifiche di sagoma o di incrementi del complessivo carico urbanistico rispetto al preesistente) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.11.2012 n. 5818 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’esistenza di una garanzia fideiussoria non comporta in alcun modo per l’Amministrazione comunale il dovere di chiedere l’adempimento al fideiussore prima di poter irrogare le sanzioni per omesso o ritardato pagamento dei contributi concessori; tale dovere non può farsi discendere neanche dal richiamo all’art. 1227 cod. civ., che è disposizione riferibile alle sole obbligazioni di natura risarcitoria, e non anche a quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura sanzionatoria, come è quella in esame.
Infondato è anche il terzo mezzo, col quale la appellante assume l’erroneità della reiezione della doglianza con la quale si denunciava l’illegittimo esercizio del potere sanzionatorio, non avendo il Comune previamente escusso la polizza fideiussoria che garantiva l’obbligazione del concessionario in relazione ai costi di costruzione.
Al riguardo, la Sezione ritiene di non doversi discostare dal consolidato indirizzo secondo cui l’esistenza di una garanzia fideiussoria non comporta in alcun modo per l’Amministrazione comunale il dovere di chiedere l’adempimento al fideiussore prima di poter irrogare le sanzioni per omesso o ritardato pagamento dei contributi concessori; tale dovere non può farsi discendere neanche dal richiamo all’art. 1227 cod. civ., che è disposizione riferibile alle sole obbligazioni di natura risarcitoria, e non anche a quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura sanzionatoria, come è quella in esame (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.07.2012, nr. 4320; Cons. Stato, sez. V, 24.03.2005, nr. 1250; id., 11.11.2005, nr. 6345; id., 16.07.2007, nr. 4025).
A diverse conclusioni potrebbe forse pervenirsi in presenza di inadempimenti a loro volta imputabili al Comune, idonei a configurare a carico di esso una responsabilità da “contatto sociale qualificato” ovvero di natura precontrattuale: ma trattasi di evenienza nemmeno prospettata dall’odierna appellante, e che pertanto non è necessario qui approfondire
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.11.2012 n. 5818 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La determinazione degli oneri concessori costituisce il risultato di un calcolo materiale, operato sulla base di parametri rigorosamente stabiliti dalla legge, dalla disciplina regolamentare e dalle disposizioni applicative degli enti territoriali competenti, senza che in proposito residui alcun margine di discrezionalità in capo alla p.a., a carico della quale pertanto non è configurabile alcuno specifico onere motivazionale.
Con l’ultimo mezzo, viene reiterata la censura relativa alla carenza di motivazione a base del calcolo dei costi di costruzione pretesi dal Comune per le varianti in corso d’opera.
Secondo la appellante, insufficiente sarebbe il richiamo del primo giudice al carattere non autoritativo e in qualche modo automatico del calcolo dei contributi concessori, ben diversi potendo essere gli effetti a seconda di quali siano la modalità e i criteri di calcolo applicati dall’Amministrazione comunale: donde il dovere di quest’ultima di esplicitare con congrua motivazione i parametri e criteri di calcolo applicati.
La doglianza è infondata, dovendosi ribadire il consolidato orientamento secondo cui la determinazione degli oneri concessori costituisce il risultato di un calcolo materiale, operato sulla base di parametri rigorosamente stabiliti dalla legge, dalla disciplina regolamentare e dalle disposizioni applicative degli enti territoriali competenti, senza che in proposito residui alcun margine di discrezionalità in capo alla p.a., a carico della quale pertanto non è configurabile alcuno specifico onere motivazionale (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. V, 09.02.2001, nr. 584).
Ne discende che, ove non persuasa della correttezza del calcolo operato dal Comune, sarebbe spettato alla società appellante indicare come e perché l’applicazione dei parametri suindicati portava a un risultato diverso da quello ritenuto dall’Amministrazione (ciò che, per vero, la stessa società ha fatto –e con parziale successo– con riguardo agli oneri di urbanizzazione), non potendo invece limitarsi a lamentare genericamente un difetto di motivazione sul punto
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.11.2012 n. 5818 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini dell'osservanza delle disposizioni in materia di distanze tra edifici, non rileva l'eventuale carattere abusivo delle opere realizzate sul fondo confinante. Ciò, in quanto le disposizioni sulle distanze tra le costruzioni sono preordinate non solo alla tutela degli interessi dei proprietari frontisti, ma, in una più ampia prospettiva, anche alla salvaguardia di esigenze generali, tra cui la salubrità e la sicurezza pubblica.
Pertanto, l'interesse pubblico primario tutelato dalle norme urbanistiche sulle distanze impone di prendere in considerazione la situazione di fatto quale si presenta in concreto in sede di rilascio di un nuovo titolo edilizio, a nulla rilevando che taluno dei fabbricati preesistenti, in relazione al quale va calcolata la distanza, presenti connotati di abusività.

Contrariamente alla tesi propugnata da parte ricorrente, ai fini dell'osservanza delle disposizioni in materia di distanze tra edifici, non rileva l'eventuale carattere abusivo delle opere realizzate sul fondo confinante. Ciò, in quanto le disposizioni sulle distanze tra le costruzioni sono preordinate non solo alla tutela degli interessi dei proprietari frontisti, ma, in una più ampia prospettiva, anche alla salvaguardia di esigenze generali, tra cui la salubrità e la sicurezza pubblica.
Pertanto, l'interesse pubblico primario tutelato dalle norme urbanistiche sulle distanze impone di prendere in considerazione la situazione di fatto quale si presenta in concreto in sede di rilascio di un nuovo titolo edilizio, a nulla rilevando che taluno dei fabbricati preesistenti, in relazione al quale va calcolata la distanza, presenti connotati di abusività (cfr. Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 12.11.2008, n. 930; TAR Campania, Napoli, sez. III, 12.07.2005, n. 9499; sez. II, 02.12.2009, n. 8326) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 30.10.2012 n. 4328 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: L’adozione del provvedimento di annullamento d’ufficio presuppone, unitamente al riscontro dell’originaria illegittimità dell’atto, la valutazione della rispondenza della sua rimozione a un interesse pubblico non solo attuale e concreto, ma anche prevalente rispetto ad altri interessi militanti in favore della sua conservazione, e, tra questi, in particolare, rispetto all’interesse del privato che ha riposto affidamento nella legittimità e stabilità dell’atto medesimo, tanto più quando un simile affidamento si sia consolidato per effetto del decorso di un rilevante arco temporale.
Di qui la necessità che l’amministrazione espliciti in sede motivazionale la compiuta valutazione comparativa tra interessi confliggenti; impegno motivazionale tanto più intenso, quanto maggiore sia l’arco temporale trascorso dall’adozione dell’atto da annullare e solido appaia, pertanto, l’affidamento ingenerato nel privato.
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Il provvedimento di annullamento di ufficio di una concessione edilizia, quale atto discrezionale, deve essere adeguatamente motivato in ordine all’esistenza dell’interesse pubblico, specifico e concreto, che giustifica il ricorso all’autotutela anche in ordine alla prevalenza del predetto interesse pubblico su quello antagonista del privato.
Anche nell’ipotesi di annullamento di una concessione edilizia va, cioè, riconosciuta piena operatività ai principi generali che condizionano il legittimo esercizio del potere di autotutela. Potere che è espressione della discrezionalità dell’amministrazione e che, nell’adozione di un provvedimento espresso, postula la valutazione di elementi ulteriori rispetto al mero ripristino della legalità violata.
In omaggio all’orientamento tradizionale che trova il suo fondamento nei valori di rango costituzionale di buon andamento e dell’imparzialità dell’azione amministrativa, è, infatti, doveroso rimettere la verifica di legittimità dell’atto di autotutela ad un apprezzamento concreto, condotto sulla base dell’effettiva e specifica situazione creatasi a seguito del rilascio dell’atto autorizzativo.
Tuttavia, in determinate ipotesi l’interesse pubblico all’eliminazione dell’atto illegittimo è da considerarsi in re ipsa. Tra queste è annoverabile l’ipotesi di annullamento d’ufficio di titolo edilizio illegittimo:
a) a fronte dell’esigenza di garantire e tutelare l’equilibrato sviluppo del territorio e l’osservanza della vigente disciplina urbanistica, rispetto alla quale l’opera da realizzare si ponga in aperto e permanente contrasto;
b) a fronte di falsa, infedele, erronea o inesatta rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà da parte dell’interessato, risultata rilevante o decisiva ai fini del provvedimento autorizzativo, non potendo l’interessato vantare il proprio legittimo affidamento nella persistenza di un titolo ottenuto attraverso l’induzione in errore dell’amministrazione procedente;
c) a fronte dell’esigenza di salvaguardare i caratteri e i pregi ambientali e paesaggistici dei luoghi attinti dagli interventi assentiti.
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L’annullamento d’ufficio di un permesso di costruire in contrasto con i vincoli paesaggistici gravanti sulla zona non presuppone una peculiare comparazione tra l’interesse pubblico all’eliminazione degli atti viziati e il confliggente interesse privato alla conservazione degli stessi, stante l’evidente sussistenza dell’interesse di rango costituzionale (art. 9 Cost.) alla tutela dell’ambiente e la sua preminenza su qualunque altro interesse pubblico o privato.
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Non è sufficiente a giustificare l'esercizio del potere di autotutela la pura e semplice finalità di ripristinare la legalità violata, occorrendo dar conto della sussistenza di un interesse pubblico attuale e concreto alla rimozione del titolo edilizio e della comparazione tra tale interesse e l'entità del sacrificio imposto all'interesse privato, tanto più quando il beneficiario dell’atto autorizzativo, in ragione del tempo decorso, abbia maturato un legittimo affidamento in merito alla realizzazione delle opere, ovvero quando sia riscontrabile la realizzazione di una significativa parte delle opere assentite.

Infondato si rivela anche il profilo di doglianza in base al quale il Comune di Cusano Mutri non avrebbe adeguatamente ponderato e motivato circa la prevalenza dell’interesse pubblico al ritiro del titolo abilitativo edilizio annullato rispetto all’affidamento privato nella sua conservazione, consolidatosi nell’arco temporale trascorso tra il rilascio del predetto titolo e la sua rimozione in autotutela.

Al riguardo, occorre premettere, in via di principio, che l’adozione del provvedimento di annullamento d’ufficio presuppone, unitamente al riscontro dell’originaria illegittimità dell’atto, la valutazione della rispondenza della sua rimozione a un interesse pubblico non solo attuale e concreto, ma anche prevalente rispetto ad altri interessi militanti in favore della sua conservazione, e, tra questi, in particolare, rispetto all’interesse del privato che ha riposto affidamento nella legittimità e stabilità dell’atto medesimo, tanto più quando un simile affidamento si sia consolidato per effetto del decorso di un rilevante arco temporale. Di qui la necessità che l’amministrazione espliciti in sede motivazionale la compiuta valutazione comparativa tra interessi confliggenti; impegno motivazionale tanto più intenso, quanto maggiore sia l’arco temporale trascorso dall’adozione dell’atto da annullare e solido appaia, pertanto, l’affidamento ingenerato nel privato.
Venendo, dunque, alla fattispecie in esame, il Collegio non ignora il costante orientamento giurisprudenziale (Cons. Stato, sez. V, 12.11.2003, n. 7218; sez. IV, 31.10.2006, n. 6465; TAR Campania, Napoli, sez. VII, 22.06.2007, n. 6238; sez. III, 11.09.2007, n. 7483; sez. VIII, 30.07.2008, n. 9586; 01.10.2008, n. 12321; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 19.01.2007, n. 170; sez. II, 08.06.2007, n. 1652; TAR Liguria, sez. I, 11.12.2007, n. 2050; TAR Basilicata, sez. I, 19.01.2008, n. 15), secondo cui “il provvedimento di annullamento di ufficio di una concessione edilizia, quale atto discrezionale, deve essere adeguatamente motivato in ordine all’esistenza dell’interesse pubblico, specifico e concreto, che giustifica il ricorso all’autotutela anche in ordine alla prevalenza del predetto interesse pubblico su quello antagonista del privato”. Anche nell’ipotesi di annullamento di una concessione edilizia va, cioè, riconosciuta piena operatività ai principi generali che condizionano il legittimo esercizio del potere di autotutela. Potere che è espressione della discrezionalità dell’amministrazione e che, nell’adozione di un provvedimento espresso, postula la valutazione di elementi ulteriori rispetto al mero ripristino della legalità violata. In omaggio all’orientamento tradizionale che trova il suo fondamento nei valori di rango costituzionale di buon andamento e dell’imparzialità dell’azione amministrativa, è, infatti, doveroso rimettere la verifica di legittimità dell’atto di autotutela ad un apprezzamento concreto, condotto sulla base dell’effettiva e specifica situazione creatasi a seguito del rilascio dell’atto autorizzativo.
Ciò premesso in via di principio, il Collegio nemmeno ignora l’indirizzo, altrettanto consolidato, in base al quale, in determinate ipotesi, l’interesse pubblico all’eliminazione dell’atto illegittimo è da considerarsi in re ipsa.
Tra queste è annoverabile l’ipotesi di annullamento d’ufficio di titolo edilizio illegittimo:
a) a fronte dell’esigenza di garantire e tutelare l’equilibrato sviluppo del territorio e l’osservanza della vigente disciplina urbanistica, rispetto alla quale l’opera da realizzare si ponga in aperto e permanente contrasto (Cons. Stato, sez. V, 28.11.2005, n. 6630; sez. IV, 26.10.2007, n. 5601; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 15.06.2005, n. 1110);
b) a fronte di falsa, infedele, erronea o inesatta rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà da parte dell’interessato, risultata rilevante o decisiva ai fini del provvedimento autorizzativo, non potendo l’interessato vantare il proprio legittimo affidamento nella persistenza di un titolo ottenuto attraverso l’induzione in errore dell’amministrazione procedente (Cons. Stato, sez. V, 12.10.2004, n. 6554; sez. IV, 24.12.2008, n. 6554; TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 03.11.2003, n. 2366; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 21.02.2005, n. 686; TAR Liguria-Genova, sez. I, 07.07.2005, n. 1027; 17.11.2006, n. 1550; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 13.02.2006, n. 2026; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 05.02.2008, n. 129; TAR Basilicata, Potenza, sez. I, 04.03.2004, n. 115; 10.05.2005, n. 299; 10.04.2006, n. 238; 18.10.2008, n. 643);
c) a fronte dell’esigenza di salvaguardare i caratteri e i pregi ambientali e paesaggistici dei luoghi attinti dagli interventi assentiti.

a) Sotto il primo profilo, rileva la circostanza oggettiva e dirimente non solo dell’insussistenza della superficie minima edificabile (cfr. retro, sub n. 8), ma, soprattutto, dell’accertata violazione delle distanze legali (cfr. retro, sub n. 3-7), ossia di una violazione di norme inderogabili, che, in quanto tale, implicava una iniziativa in autotutela sostanzialmente vincolata dell’amministrazione comunale, e non imponeva, quindi, una specifica motivazione né una espressa comparazione tra l'interesse pubblico alla rimozione e quello del privato alla conservazione dell'atto illegittimo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2002, n. 3929; 26.05.2006, n. 3201).
b) Sotto il secondo profilo, occorre rimarcare che –come acclarato retro, sub n. 3-7– il progetto assentito col permesso di costruire n. 619 del 29.02.2008 non ha correttamente riportato le distanze dell’erigendo manufatto previsto dal fabbricato e dalle strade pubbliche confinanti, così inducendo in errore l’amministrazione resistente circa l’osservanza delle stesse (“la rappresentazione non conforme dello stato dei luoghi sui grafici del progetto presentato è approvato –recita, appunto, il provvedimento del 10.06.2011, prot. n. 4295– ha indotto in errore questo ente nel rilasciare il citato permesso di costruire”).
c) Sotto il terzo profilo, giova rammentare che l’annullamento d’ufficio di un permesso di costruire in contrasto con i vincoli paesaggistici gravanti sulla zona non presuppone una peculiare comparazione tra l’interesse pubblico all’eliminazione degli atti viziati e il confliggente interesse privato alla conservazione degli stessi, stante l’evidente sussistenza dell’interesse di rango costituzionale (art. 9 Cost.) alla tutela dell’ambiente e la sua preminenza su qualunque altro interesse pubblico o privato (cfr. Cons. stato, sez. VI, 20.01.2000, n. 278; TAR Lazio, Roma, sez. II, 04.01.2005, n. 48; TAR Campania, Napoli, sez. III, 10.04.2007, n. 3193).
Nel caso in esame, l’annullato permesso di costruire n. 619 del 29.02.2008, ancorché non in immediato contrasto con norme di tutela paesaggistica, ha, comunque, illegittimamente assentito opere ricadenti in area assoggettata a vincolo ambientale (cfr. retro, in narrativa, sub n. 2.1) ed è risultato, così, suscettibile di inficiare, sia pure indirettamente, i valori da quest’ultimo tutelati.
La motivazione allestita dall’amministrazione resistente risulta, peraltro, proporzionata al tempo decorso tra il momento di emissione del titolo abilitativo e quello del suo successivo annullamento, che si appalesa non irragionevole.
Ebbene, –come evidenziato retro, sub n. 11.1– il Collegio ha presente l’incontrastato indirizzo giurisprudenziale, accreditato dall’art. 21-nonies, comma 1, della l. n. 241/1990, secondo cui non è sufficiente a giustificare l'esercizio del potere di autotutela la pura e semplice finalità di ripristinare la legalità violata, occorrendo dar conto della sussistenza di un interesse pubblico attuale e concreto alla rimozione del titolo edilizio e della comparazione tra tale interesse e l'entità del sacrificio imposto all'interesse privato (cfr. Cons. Stato, sez. V, 01.03.2003, n. 1150), tanto più quando il beneficiario dell’atto autorizzativo, in ragione del tempo decorso, abbia maturato un legittimo affidamento in merito alla realizzazione delle opere (cfr. Cons. Stato, sez. V, 19.01.2003, n. 899), ovvero quando sia riscontrabile la realizzazione di una significativa parte delle opere assentite (cfr. Cons. Stato, sez. V, 12.11.2003, n. 7218).
Ma, nel caso di specie, il tempo non eccessivo di reazione in autotutela rende concretamente insuscettibile di accoglimento la doglianza in esame.
In particolare:
- il permesso di costruire annullato risale al 29.02.2008;
- le misure inibitorie della prosecuzione dei lavori iniziati risalgono al 13.02.2009 (prot. n. 1205) ed al 23.02.2009 (prot. n. 1454);
- l’annullamento d’ufficio è stato disposto con provvedimenti del 04.02.2011 (prot. n. 872) e del 102011 (prot. n. 4295).
Fino all’adozione delle cennate misure inibitorie del 13.02.2009 (prot. n. 1205) e del 23.02.2009 (prot. n. 1454) (dovendosi già a queste ultime ricollegare il dies ad quem: cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.10.2007, n. 5601), risulta, dunque, trascorso circa un anno dal rilascio del permesso di costruire n. 619 del 29.02.2008.
Un periodo da ritenersi –come detto– non irragionevole (cfr. TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 07.07.2004, n. 1469, che ritiene congruo un periodo di circa un anno), tenuto conto anche degli svariati precedenti giurisprudenziali che, in genere, attribuiscono rilevanza a intervalli temporali più consistenti (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. IV, 09.02.2004, n. 1968: circa 16 mesi; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 24.04.2006, n. 422: oltre 2 anni; 24.07.2007, n. 1023: 6 anni; TAR Lazio, Roma, sez. II, 31.10.2007, n. 10834: oltre 2 anni; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 21.02.2006, n. 426; 04.01.2008, n. 1: 14 anni).
A ciò si aggiunga che non risulta compiutamente dimostrato dai ricorrenti –ed è, anzi, smentito dalla documentazione fotografica allegata alla relazione tecnica dai medesimi depositata in giudizio il 22.03.2011– lo stato avanzato di esecuzione dei lavori assentiti col titolo abilitativo edilizio annullato (in genere, la giurisprudenza postula un più intenso impegno motivazionale, allorquando le opere assentite con atto poi annullato d’ufficio siano state ultimate o abbiano raggiunto uno stato significativo e/o avanzato: cfr. Cons. Stato, sez. V, 19.02.2003, n. 899; 12.11.2003, n. 7218; sez. IV, 26.10.2007, n. 5601; TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 07.02.2002, n. 359; sez. III, 19.01.2007, n. 170; sez. II, 08.06.2007, n. 1652; TAR Lazio, Roma, sez. II, 31.10.2007, n. 10834; TAR Basilicata, Potenza, sez. I, 19.01.2008, n. 15) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 30.10.2012 n. 4328 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 17.12.2012

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NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: DURC. Trasmissione tramite PEC dei certificati emessi dall'INAIL alle stazioni appaltanti e alle amministrazioni procedenti (INAIL, nota 10.12.2012 n. 8798 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 14.12.2012, "Determinazione, per l’anno 2013 dei canoni da porre a base d’asta per l’affidamento dei lavori di sistemazione idraulica mediante escavazione di materiale inerte dagli alvei dei corsi d’acqua" (decreto D.G. 10.12.2012 n. 11607).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 12.12.2012, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 30.11.2012, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 05.12.2012 n. 121).

VARI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 12.12.2012, "Aggiornamento e pubblicazione degli importi dovuti alla Regione Lombardia per l’anno 2013 a titolo di canoni di utenza di acqua pubblica in applicazione dell’articolo 6 della l.r. 29.06.2009, n. 10" (decreto D.S. 04.12.2012 n. 11293).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L. Spallino, Legge Regione Lombardia n. 12/2005: la commissione licenzia una mini modifica all'articolo 25.
Nella saga delle proposte di modifiche all'articolo 25 della legge regionale n. 12/2005 della Lombardia, si inserisce l’emendamento approvato nella giornata del 13 dicembre in Commissione Bilancio. Il testo è ben lontano dal progetto di legge 26.10.2012 della Giunta regionale, il cui articolo 8 prevedeva che nei Comuni in cui è stato adottato il PGT entro il 31.12.2012, si continuino -fino al 31.07.2013- ad attuare le previsioni dei Piani regolatori urbanistici generali (PRUG). Il Consiglio regionale si terrà mercoledì 19 dicembre.
L'emendamento all'articolo 25 della L.R., a firma del gruppo della Lega Nord, dispone che alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) sono apportate le seguenti modifiche: ... (link a http://studiospallino.blogspot.it).

EDILIZIA PRIVATA: R. Micalizzi, DIA e oneri di urbanizzazione sopravvenuti (Urbanistica e appalti n. 12/2012).

EDILIZIA PRIVATA: A. Scarcella, La demolizione del manufatto abusivo tra acquisizione gratuita e notifica dell’inottemperanza (Urbanistica e appalti n. 11/2012).

INCARICHI PROFESSIONALI: C. Mucio, Legittimità dell’affidamento del patrocinio legale senza gara (Urbanistica e appalti n. 11/2012).

EDILIZIA PRIVATA: F. Notaro, M. Mazzaro e C. Turturici, Le nuove istanze di prevenzione incendi (tratto da www.ispoa.it).

APPALTI: L. Bellagamba, La “plenaria” del Consiglio di Stato sul rapporto fra il criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa e la competenza alla verifica dell’anomalia delle offerte (link a www.linobellagamba.it).

EDILIZIA PRIVATA: G. Apollonio, L’illegittimità del permesso di costruire nel reato ex art. 44, lett. b), d.p.r. 380/2001 (link a www.diritto.it).

APPALTI: S. Tarullo, L’art. 243-bis del Codice dei contratti pubblici e le incertezze di una disciplina tra effettività della tutela giurisdizionale e sovraccarico fiscale (Sommario: 1. La funzione del preavviso di ricorso e la sua concreta efficacia. - 2. La procedura di autotutela postula un’amministrazione pubblica “ideale” e collaborativa. - 3. Le perplessità sul versante processuale accrescono le difficoltà per le imprese ricorrenti. - 4. L’inerzia amministrativa e la sua (inutile) contestazione in sede giurisdizionale. - 5. La disciplina fiscale ed i dubbi sull’effettività della tutela giurisdizionale) (link a www.giustizia-amministrativa.it).

QUESITI & PARERI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Il compenso per la progettazione.
DOMANDA:
Le NTA del vigente PRG locale danno la possibilità al Promotore privato di proporre al Comune Piani Particolareggiati di iniziativa pubblica ora PUA (piani di iniziativa pubblica) – di cui alla LRV n. 11/2004. Il Comune può farli propri dopo le necessarie verifiche ed eventuali modificazioni ed approvarli come strumenti di iniziativa pubblica. Tutto questo avviene attraverso una stretta collaborazione tra l’Ufficio Tecnico e il Promotore. Il che vuol dire che il progetto mediato ed elaborato con la partecipazione di entrambi (Privato/Comune) una volta confezionato viene sottoposto all’adozione e all’approvazione dell’Amministrazione comunale.
Ora questo Comune intende approvare un Regolamento per gli incentivi di cui all’art. 92 del D.Lgs. n.163/2006 al fine di poterli riconoscere in occasione della stesura dei suddetti piani urbanistici generali P.A.T. (Piano di Assetto del Territorio) e P.I. (Piano degli Interventi) e loro varianti, nonché in occasione della redazione di P.U.A. (Piani Urbanistici Attuativi di iniziativa pubblica) e progetti complessi redatti anche a seguito di accordi pubblico/privati ex. art. 6 della LR del Veneto n. 11/2004.
Si chiede se: nel caso in cui i PUA in oggetto siano redatti da professionisti esterni incaricati dal privato, si possa riconoscere ugualmente al RUP interno (e ai suoi collaborato che hanno partecipato, siano essi tecnici e/o amministrativi) l’incentivo di cui all’art. 92, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006; e quale percentuale è possibile riconoscere al RUP e ai collaboratori.
Inoltre se sia possibile addebitare il finanziamento degli incentivi al soggetto promotore privato del PUA di iniziativa pubblica, progetti complessi e/o redatti a seguito di accordi pubblico/privati. Nel caso di risposta negativa: se la Struttura Tecnica comunale può far partecipare il RUP e il suo staff alla progettazione dello strumento urbanistico pubblico insieme ai professionisti esterni incaricati dal privato, riconoscendo l’incentivo in argomento con spese a carico del soggetto promotore.
RISPOSTA:
La sistematica proposta nel quesito di fare partecipare il RUP al compenso incentivante previsto dall’art. 92 del codice dei contratti pubblici in relazione alle attività progettuali e di pianificazione svolte da un promotore privato avvalendosi di professionisti esterni, desta perplessità risultando di dubbia ammissibilità e fondamento giuridico.
Si ricorda infatti che l’attività che deve svolgere il “promotore” assume natura essenzialmente privatistica e non può essere ricondotta all’ipotesi di cui al comma 1 di tale articolo che si riferisce esclusivamente alle opere o lavori pubblici, né all’ipotesi di cui al comma 2 che presuppone la redazione di un atto di pianificazione all’interno della PA.
Si deve ricordare la riguardo innanzitutto l’orientamento restrittivo assunto dalla la Corte dei Conti con il parere n. 290/2012 con cui ha ritenuto che anche la previsione di cui al comma 6 del’art. 92 del codice dei contratti pubblici, laddove dispone che “Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto” sia da intendersi comunque riferita ad atti di pianificazione solo di “oo.pp.” (ad es. variante necessaria per la localizzazione di un’opera) (Corte conti, sez. contr. Toscana, 18.10.2011, n. 213) e non ad atti di pianificazione generale.
Inoltre va anche ricordato che la stessa Corte dei Conti ove abbia ammesso la riconoscibilità del compenso al RUP lo ha fatto solo nei limiti in cui vi sia stata una progettazione svolta all’interno, (proprio in considerazione della finalità essenziale delle norma che si fonda sul presupposto di favorire lo sviluppo di progettualità interne la Corte ha infatti affermato che “la norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente (come riconosciuto, in più occasioni, dalla giurisprudenza contabile, in sede consultiva. Per tutte: Corte conti, sez. contr. Lombardia, 30.05.2012, n. 259; 06.03.2012, n. 57; Sez. contr. Puglia, 16.01.2012, n. 1; Sez. contr. Toscana, 18.10.2011, n. 213), anche se in contrario (V. AVCP determinazione n. 43/2000) è stato pure rilevato che l’opera del RUP di coordinamento e sorveglianza e direzione permane in tutta sua rilevanza anche in presenza di affidamenti esterni".
Si è tuttavia osservato che anche in caso di affidamento (solo in parte) esterno della progettazione rimane comunque nella discrezionalità della PA di stabilire i criteri di ripartizione correttamente applicabili e la cui definizione dovrebbe indurre, al più, solo ad un moderato riconoscimento del compenso al RUP, considerata la rilevanza e la conseguente responsabilità dell’attività svolta ma anche i doveri d’ufficio del dipendente ed il fatto che un eventuale affidamento all’esterno della progettazione e direzione lavori sminuisce senz’altro di molto lo scopo della norma che è proprio quello di favorire lo sviluppo delle professionalità progettuali interne e non di riconoscere comunque un compenso incentivante a tutte le figure che, come il RUP, in qualche modo devono svolgere attività in rapporto alla progettazione (v. anche la sentenza n. 46/2007 (12.12.2006 – 13.03.2007) con cui la Sez. Basilicata della Corte ha censurato, ritenendolo causa di responsabilità patrimoniale, la liquidazione del compenso incentivante di cui all’art. 18 della l. n. 109/1994 (ora sostituito dall’art. 92, comma 5, del codice dei contratti pubblici) a dipendente interno che aveva svolto il ruolo di RUP, laddove effettuato in presenza di contestuale e rilevante affidamento all’esterno della progettazione.
In particolare la Corte, pur ammettendo nel caso di specie, la possibilità del ricorso a professionisti esterni per dimostrata carenza di adeguate professionalità interne, ha rilevato che “la registrata opzione gestionale dell'attività progettuale, tuttavia, si pone oggettivamente in stridente contrasto con le finalità premiali esaltate dal riconoscimento e dalla previsione di incentivi economici in favore di chi, all'interno dell'Amministrazione comunale, si carica di significativi e qualificati oneri professionali, giusta quanto descritto nel corpo dell'art. 18 della legge n. 109/1994”.
Ed infatti in quella ipotesi “il responsabile di settore, o di area, titolare del potere di determinazione e di liquidazione dei compensi dovuti a soggetti che, a diverso titolo, avevano concorso alla fase di progettazione, ben poteva -e doveva- sensibilmente ridurre, se non eliminare del tutto, la quota del c.d. “premio incentivante” peraltro attribuita a sé medesimo; e ciò ancor più in considerazione dell'elevato apporto, qualitativo e quantitativo, recato nella stessa fase progettuale dai numerosi professionisti esterni all'uopo incaricati, ed il cui contributo nella definizione delle ipotesi progettuali è stato sì determinante da collocare su un piano di assoluta secondarietà quello conferito ……” allo stesso responsabile interno.
Pertanto ad avviso del Collegio occorre “… giungere serenamente ad affermare che, in presenza della utilizzazione di qualificate ed importanti professionalità esterne nella definizione della fase progettuale dell'opera pubblica, normativamente ed operativamente giustificate dalla carenza di idonee risorse tecniche rinvenibili all'interno dell'Ente comunale committente ed appaltante, assolutamente ingiustificato si rivela il ricorso allo strumento economico premiante di cui all'art. 18 della legge n. 109 del 1994: la scelta di avvalersi di significative e rilevanti forme di collaborazione esterna, per potersi informare a corretti principi di efficienza ed efficacia dell'azione amministrativa, non può tollerare alcuna forma di coesistenza con soluzioni normative ed operative che invece privilegiano ed esaltano, in chiave di “premialità economica e retributiva”, la piena valorizzazione delle professionalità interne”.
Né sembra ammissibile ipotizzare che l’eventuale compenso incentivante per il RUP venga messo a carico del promotore privato il che contraddirebbe infatti le stesse disposizioni di ordine finanziario di cui al comma 7 del cit. art. 92 e porrebbe seri dubbi di trasparenza ed autonomia di tale soggetto che, pur dovendo svolgere istituzionalmente funzioni essenzialmente rivolte a favore della PA, verrebbe pagato dal soggetto privato interessato (13.12.2012 - tratto da www.ancirisponde.ancitel.it).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONEComune di Reggello - richiesta di parere formulata dal Sindaco contenente tre quesiti in tema di incentivi alla progettazione di cui ai commi 5 e 6 dell’art. 92 del codice dei contratti e in tema di limite alla spesa per incarichi.
Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla Sezione, con nota in data 08.11.2012 prot. n. 18449/1.13.9, richiesta di parere formulata dal Sindaco del Comune di Reggello in materia di incentivi alla progettazione di cui all’art. 92 del D.Lgs. 163/2006.
In particolare, ai fini della corretta applicazione delle norme in materia di incentivi al personale, formula tre quesiti:
1. se, con riguardo al parere n. 213/2011 della Sezione Toscana, ai sensi dell’art. 92, comma 6, del codice dei contratti (D.Lgs. 163/2006), si possa procedere con l’erogazione degli incentivi nel caso di redazione di singole varianti al Piano Strutturale o al Regolamento urbanistico;
2. se, con riguardo al parere n. 213/2011 della Sezione Toscana, ai sensi dell’art. 92, comma 5, del codice dei contratti (D.Lgs. 163/2006), si possa applicare l’incentivo medesimo anche nel caso in cui l’attività da retribuire sia prodromica alla realizzazione di un lavoro pubblico, intendendo per tale anche la realizzazione di lavori di ordinaria o straordinaria manutenzione di immobili comunali o lavori di sistemazione della segnaletica stradale;
3. se, dovendo conferire un incarico ad un professionista esterno per redigere un nuovo piano strutturale e conseguente regolamento urbanistico, il relativo incarico debba ricomprendersi nei servizi di architettura ed ingegneria di cui all’allegato 2b del D.Lgs. 163/2006 e se, indipendentemente dalla qualificazione giuridica, siffatto incarico debba rientrare o meno nel taglio di cui all’art. 7, comma 6, del DL 78/2010 convertito dalla L. 122/2010. A questo proposito rappresenta che al suo interno manca una figura professionale che possa svolgere questa prestazione.

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Nel merito del primo quesito, l’art. 92, comma 6, del D.Lgs. 163/2006 (codice degli appalti) recita: “Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, (…) tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
La Sezione si è già espressa sull’argomento, con parere 18.10.2011 n. 213 (come ricordato dall’ente richiedente) e ancor più di recente con il parere 27.11.2012 n. 389, nella quale ha chiarito che, a parere del collegio, “
un atto regolamentare non può essere assimilato, per il suo contenuto intrinseco, ad un progetto di lavori comunque denominato mentre l’art. 90 del D.lgs. n. 163/2006 sia alla rubrica che al c.1, fa riferimento esclusivamente ai lavori pubblici, e l’art. 92, c1, presuppone l’attività di progettazione nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione dell’opera pubblica progettata. A fortiori, lo stesso comma 6 dell’art. 92 prevede che l’incentivo alla progettazione venga ripartito <tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto ”e, dunque, è di palmare evidenza come il riferimento normativo e la conseguente voluntas legis sia ascrivibile solo alla materia dei lavori pubblici, presupponendosi una procedura ad evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un’opera di pubblico interesse>” riprendendo anche un parere di altra sezione della Corte dei conti (parere 30.08.2012 n. 290 Piemonte), che, in riferimento alla disciplina normativa di cui trattasi, recita: “La norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente”.
In merito al secondo quesito, l’art. 92, comma 5, del D.Lgs. 163/2006 (codice degli appalti) recita: “Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, (…) è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare(…)”.
Anche in questo caso la Sezione si è già espressa su un caso analogo, oltre che con parere 18.10.2011 n. 213 già citato, anche con il parere 13.11.2012 n. 293, con il quale si è espressa ritenendo che
determinati voci (in quella circostanza: taglio del verde, sostituzione infissi, sostituzione apparati termoidraulici) non parevano riconducibili alle opere o lavori pubblici per le quali la legge prescrive la facoltà di erogazione degli incentivi di cui trattasi. Anche nel caso di specie, i lavori di ordinaria o straordinaria manutenzioni di edifici o di sistemazione della segnaletica stradale non paiono rientrare nelle fattispecie che prevedono la facoltà di incentivare il personale interno.
In merito al terzo quesito, come ricordato dall’ente richiedente
questa Sezione, con deliberazione n. 301/2009, chiariva che gli incarichi relativi ai servizi di architettura e ingegneria, quali incarichi di progettazione, direzione lavori, collaudi, (D.Lgs. 163/2006) fossero (si vedano anche le deliberazioni: Piemonte 3/2008; Abruzzo 262/2008, Toscana 198/2009 e 10/2009) esclusi dalla disciplina generale degli incarichi esterni (art. 7 D.Lgs 165/2001) sul presupposto (chiarito nella deliberazione n. 198/2009 della Toscana) che la natura della spesa cui si riferiscono gli incarichi in tema di lavori pubblici è diversa rispetto a quella delle altre collaborazioni esterne: spesa in conto capitale, la prima, di parte corrente, la seconda. Il presupposto della loro esclusione è legato al loro inquadramento nell’ambito di una specifica opera o lavoro da realizzare, mentre gli incarichi di consulenza legati alla realizzazione di un piano urbanistico o similari, non avendo alcuna connessione diretta con un’opera pubblica, sono da considerarsi rientranti nel concetto di incarico esterno e, di conseguenza, nella disciplina, di cui all’art. 7, comma 6, del D.Lgs. 165/2001.
Discorso a parte va fatto in riferimento alla spesa e ai limiti derivanti, in particolare dall’art. 6, comma 7, del DL 78/2010, convertito dalla L. 122/2010. Su quesito del tutto analogo la Sezione si è già espressa con deliberazione n. 183 del 06.07.2011, con le conclusioni che si riportano: “Aldilà della individuazione della fattispecie in esame quale incarico esterno e per giunta relativo ad un adempimento obbligatorio per legge e inquadrabile nell’ambito della normativa di cui all’art. 7 D.Lgs. 165/2001, il cui corretto inquadramento spetta all’ente richiedente nell’ambito nell’esercizio della sua autonomia, già le Sezioni Riunite della Corte dei conti, nell’adunanza del 15.02.2005, avevano precisato, in riferimento alla disciplina di cui all’art. 1, comma 42, della L. 311/2004 poi in parte superata dall’art. 1, comma 173, della L. 266/2005, che gli incarichi per la “resa di servizi o adempimenti obbligatori di legge” non rientrassero nella disciplina legislativa sul conferimento di incarichi esterni. Dello stesso avviso è stata anche la Sezione centrale di controllo di legittimità su atti del Governo e delle Amministrazioni dello Stato che, con deliberazione n. 20 adottata nell’adunanza del 12.11.2009, ha escluso tali fattispecie dalla normativa in materia di conferimento di incarichi esterni, ai fini del nuovo controllo preventivo di legittimità introdotto per gli atti dello stato e delle sue articolazioni periferiche.
Ai fini della risoluzione della richiesta in esame, resta da valutare se possa estendersi la medesima interpretazione anche alla norma di cui all’art. 6, comma 7, della L. 122/2010 e cioè se anche in riferimento a questa norma e al conseguente limite di spesa imposto, possa concludersi per l’esclusione degli incarichi consistenti nella resa di servizi o adempimenti obbligatori per legge.
A tal proposito, è già stato osservato da altra sezione che la disciplina di cui all’art. 6, comma 7, citato, si riferisce alla spesa per studi ed incarichi di consulenza, mentre la disciplina di cui all’art. 7 del D.Lgs. 165/2001 e di altre norme in materia di incarichi esterni abbracciano una dizione comprensiva anche di incarichi di ricerca e di collaborazione coordinata e continuativa; in tale circostanza (deliberazione Sezione Lombardia n. 6 del 10.01.2011) si è concluso con il ritenere prevalente l’interpretazione letterale più restrittiva della norma di cui all’art. 6, comma 7, e quindi non coincidente con le altre normative, pur riconoscendo la possibilità di ritenere assimilabili le due terminologie utilizzate, confermando la difficoltà nell’interpretazione delle norme in questione.
L’interpretazione che farebbe rientrare nella limitazione di spesa anche gli incarichi obbligatori per legge finirebbe con il limitare fortemente, se non addirittura impedire, a determinati enti locali di dar corso ai medesimi nelle ipotesi, non rare, in cui l’importo di riferimento per il calcolo del limite di spesa per incarichi (spesa sostenuta per incarichi nell’anno 2009) fosse nullo o talmente basso (ricordando che la riduzione da operare è dell’80%) da non consentire il conferimento di incarichi esterni nell’anno 2011, ciò rappresenterebbe un’irragionevole limitazione imposta dalla norma di cui all’art. 6, comma 7, della L. 122/2010 che ostacolerebbe di fatto lo svolgimento di servizi o adempimenti obbligatori per legge.
La Sezione ritiene, pertanto, di escludere dai limiti di spesa imposti dalla legge 122 citata quegli incarichi che risultano obbligatori per legge.”
Questa Sezione ritiene, pertanto, tuttora valide le argomentazioni di cui ai precedenti pareri espressi sia da questa sezione che da altre sezioni regionali di controllo (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 12.12.2012 n. 459).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni ex art. 110 TUEL.
La Corte dei Conti, sezione regionale Lombardia, con il parere 27.11.2012 n. 508, risponde ad un Comune con più di 1000 abitanti che chiede, a fronte di un contratto ex art. 110 TUEL in scadenza al 31.12.2012, se sia corretto, in alternativa:
- procedere con una assunzione a tempo indeterminato e parziale;
- ricorrere a contratto ex art. 110, comma 2, TUEL in deroga ai limiti posti dall'art. 9, comma 28, d.l. 78/2010.
La sezione, dapprima, ricostruisce il quadro normativo ed interpretativo relativo al reclutamento ex art. 110, commi 1 e 2, del TUEL e rammenta all'ente che -nel programmare i reclutamenti dall'anno 2013- deve tenere conto del futuro assoggettamento alla disciplina del patto di stabilità interno e, pertanto, tenuto alla riduzione della spesa di personale ex art. 1, comma 557, legge n. 296/2006 nonché al contenimento nella percentuale massima del 50% il rapporto tra spesa del personale e spesa corrente (art. 76, comma 7, d.l. 112/2008).
Quindi, evidenzia che:
- l'ipotesi dell'assunzione a tempo indeterminato e parziale è consentita purché avvenga nel rispetto dei limiti al turn over contemplati dal vigente art. 76, comma 7, d.l. 112/2008, ovvero entro il 40% della spesa per cessazioni intervenute nel precedente esercizio;
- la stipulazione, invece, di un nuovo contratto ex art. 110, comma 2, TUEL è valutabile solo se compatibile con il limite posto dall'art. 9, comma 28, del d.l. 78/2010;
- la suddetta norma è cogente ed i margini di sua derogabilità sono solo quelli delineati dalle Sezioni Riunite con la deliberazione n. 11/CONTR/2012 (tratto da www.publika.it).

SEGRETARI COMUNALI: Niente straordinario elettorale per i segretari comunali.
I segretari comunali e provinciali non possono partecipare alla erogazione dello straordinario elettorale; la remunerazione degli incarichi dirigenziali con la retribuzione di posizione spettante ai dirigenti/titolari di posizione organizzativa è inibita; la maggiorazione della retribuzione di posizione non motivata adeguatamente e la sua fissazione nella misura massima esclusivamente in presenza del conferimento di incarichi aggiuntivi sono da considerare illegittime; la attribuzione di una indennità di risultato per gli incarichi aggiuntivi e la liquidazione della stessa nella misura massima in assenza di una adeguata valutazione sono vietate.
Sono queste le principali indicazioni contenute nella sentenza 19.10.2012 n. 1627 della Corte dei Conti della Campania.
La sentenza si deve segnalare, in particolare, per l'importanza delle indicazioni dettate in materia di aumento della retribuzione di posizione, di criteri di valutazione ai fini della erogazione della indennità di risultato e per la sottolineatura del ruolo complessivo di garante della legittimità che il segretario comunale svolge e che non deve tradursi nella finalizzazione per esigenze di tipo personale.
LO STRAORDINARIO
La erogazione della indennità di straordinario elettorale è da considerare vietata sulla base delle previsioni di cui all'articolo 41, comma 6, del CCNL 17.05.2006, che dispone la onnicomprensività della retribuzione di posizione, ivi compreso lo straordinario. Sia l'Aran, già dal 2001, che il ministero dell'Interno hanno chiarito che tale divieto si estende anche ai compensi trasferiti all'ente per lo straordinario elettorale. Data la gravità della violazione, la sentenza ritiene che maturino le condizioni per la configurazione del "dolo contrattuale", in quanto risulta un vantaggio indebito per lo stesso segretario.
Occorre aggiungere che, con riferimento ad un anno, il segretario è stato inserito tra i beneficiari anche se non era tra i componenti l'ufficio elettorale; per questa illegittimità la sua responsabilità matura al 50% insieme a quella del funzionario che lo ha inserito.
LA RETRIBUZIONE DI POSIZIONE
Le condizioni per la maggiorazione della retribuzione di posizione sono state definite dal contratto nazionale integrativo firmato dalla ex Agenzia per la gestione dell'albo dei segretari e dalle organizzazioni sindacali in data 23.01.2003.
Prima della sottoscrizione di tale intesa si potevano consentire remunerazioni del conferimento di incarichi ulteriori con metodi diversi, quali la retribuzione di posizione spettante all'eventuale titolare di posizione organizzativa; dopo la stipula di tale accordo ciò non è in alcun modo consentito. Il non avere applicato questa discipline viene definito dalla Corte dei Conti come "una condotta di assoluta gravità": sia nei confronti del segretario sia nei confronti del sindaco che ha disposto la erogazione di tale trattamento, matura la colpa grave, mentre la sentenza non rileva il manifestarsi del dolo.
Viene inoltre contestata la legittimità della maggiorazione della retribuzione di posizione nella misura massima in assenza di qualsivoglia motivazione: la semplice "menzione dei criteri e parametri valutativi stabiliti nel contratto integrativo di comparto si connota, pertanto, come mera clausola di stile, funzionale alla correttezza formale dell'atto, risultando nella sostanza palesemente elusa la logica sottesa alla disciplina contrattuale". L'attribuzione di incarichi aggiuntivi è solamente una delle componenti che concorrono alla maggiorazione.
L'INDENNITA' DI RISULTATO
La sentenza censura infine il riconoscimento della indennità di risultato per il conferimento di incarichi aggiuntivi. E' quindi illegittimo il riconoscimento al segretario di una specifica indennità di risultato per gli incarichi aggiuntivi, compenso che nel caso specifico si sommava a quello previsto per il suo ruolo di segretario. Siamo in presenza di una violazione assai grave in quanto è "patente la violazione di norme dal contenuto chiaro ed inequivocabile" e la erogazione di tali somme è priva "di qualsivoglia titolo giustificativo", tanto più che si sono applicate le norme dettate da un contratto che non riguarda i segretari, cioè dal CCNL del personale degli enti locali.
La sentenza censura la erogazione della indennità di valutazione nella misura massima, il 10% della retribuzione, in assenza di una valutazione operata sulla base dei criteri di carattere generale previsti per tutte le valutazioni dal Dlgs n. 286/1999 (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.corteconti.it).

NEWS

PUBBLICO IMPIEGOLEGGE DI STABILITÀ/ Torna la buonuscita nella p.a.. Stop al tfr. Chiuse di diritto le controversie pendenti. Un emendamento fa salvi gli effetti del decreto legge 185/2012.
Torna la vecchia e cara buonuscita per i dipendenti pubblici. A chi abbia percepito la prestazione in base al regime di trattamento di fine rapporto (tfr, che aveva sostitutivo le vecchie regole del Tfs), il trattamento sarà riliquidato entro il 31.10.2013. Chiuse di diritto tutte le liti pendenti; nessun recupero di eventuali somme erogate in eccedenza ai lavoratori dipendenti.

La novità, prevista dal dl n. 185/2012, è salvata da un emendamento introdotto al ddl Stabilità.
Torna la buonuscita. Il decreto legge n. 78/2010, con effetto dal 01.01.2011, aveva stabilito il cambio di regole per il calcolo della buonuscita dei dipendenti pubblici al fine di equipararle a quelle dei dipendenti del settore privato. Sulla base di tanto, dal 2011, tutti i lavoratori dipendenti, pubblici e privati, ricevevano la prestazione di fine rapporto lavoro calcolata secondo le regole del codice civile.
Poi è arrivata la marcia indietro per i dipendenti pubblici, fissata dal decreto legge n. 185/2012 in vigore dal 31 ottobre, in conseguenza della sentenza della corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il permanere della ritenuta del 2,5% a carico dei lavoratori, una volta cambiate le regole di calcolo del trattamento di fine servizio. Il dl n. 185/2012 ha stabilito la riliquidazione d'ufficio, entro un anno, di tutti i Tfs liquidati in base alle nuove, e adesso abrogate, regole, ma senza procedere al recupero delle eventuali somme erogate in eccedenza al dipendente.
Con il dietrofront, inoltre, è stata disposta anche l'estinzione di diritto di tutti i processi pendenti, nonché l'inefficacia di tutte le sentenze emesse (tranne quelle passate in giudicato) in materia di restituzione del contributo previdenziale obbligatorio nella misura del 2,5% della retribuzione. Le novità, come accennato, sono raccolte in un emendamento al ddl Stabilità, il quale fissa inoltre, l'estinzione di diritto di tutti i processi pendenti aventi ad oggetto la restituzione del contributo previdenziale obbligatorio e fa salvi gli atti e i provvedimenti prodotti sulla base delle disposizioni del decreto legge n. 185/2012 che non verrà convertito in legge.
Testo unico maternità. Oltre alle imprenditrici agricole anche le pescatrici autonome della piccola pesca marittima e delle acque interne avranno diritto all'indennità di maternità. La novità, anch'essa prevista da un emendamento al disegno di legge Stabilità, arriva da una modifica al Testo unico maternità (decreto legislativo n. 151/2001). L'indennità verrà corrisposta per i due mesi antecedenti la data del parto e per i tre successivi, in misura pari all'80% della misura giornaliera del salario convenzionale.
Sempre in tema di maternità, infine, una modifica all'articolo 32 del Tu autorizza la contrattazione collettiva a stabilire le modalità di fruizione del congedo parentale su base oraria, nonché i criteri di calcolo della base oraria e l'equiparazione di un determinato monte ore alla singola giornata lavorativa (articolo ItaliaOggi del 15.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALII controlli negli enti locali. Riforma sprint sui conti dei Comuni. Da adottare entro il 10 gennaio i regolamenti locali con i nuovi compiti per revisori e segretari.
IL RISCHIO/ A tutti i vertici amministrativi competenze più pesanti ma non accompagnate da tutele efficaci.

Quella scritta nel decreto legge sui «costi della politica» è una riforma profonda dei controlli negli enti locali. Una riforma, però, nata dall'emergenza, varata per decreto legge e ritoccata in Parlamento nel corso di un dibattito già scaldato dal clima pre-elettorale.
Le novità che ne sono uscite sono parecchie, hanno tempi di attuazione spesso strettissimi, ma l'efficacia e la praticabilità degli equilibri che disegnano fra le diverse professionalità che lavorano in Comuni e Province sono tutte da verificare nelle prove sul campo. Tutti i settori di vertice dell'amministrazione locale vengono investiti di nuovi compiti, che questa Guida prova a spiegare profilo per profilo, all'interno però di un ridisegno che non sceglie se puntare sui controlli interni o esterni, e non sembra preoccuparsi troppo dell'armonia fra le musiche che i diversi orchestrali devono suonare.
L'ampliamento dei compiti più deciso è forse quello riservato ai revisori dei conti che, dopo l'avvio delle nuove regole di nomina più attente all'indipendenza dalla politica, sono ora chiamati a entrare sempre più nel merito di tutte le scelte gestionali, comprese quelle che riguardano le modalità di svolgimento dei servizi, in economia o tramite società esterne. Non si è colta, però, l'occasione di ricreare i collegi negli enti fra 5mila e 15mila abitanti, cancellati nel 2006 in uno dei primi, malintesi, tagli ai «costi della politica»; anzi, nel primo passaggio parlamentare una mano aveva messo a rischio nei Comuni inseriti in Unioni il ruolo di più di mille professionisti, cancellati da un emendamento poi caduto prima del l'approvazione definitiva.
Nel decreto originario, invece, il Governo aveva pensato di affidare la presidenza dei collegi negli enti sopra i 60mila abitanti a dipendenti ministeriali, con uno slancio centralista anch'esso cancellato per evidenti problemi di costituzionalità.
La stessa incertezza fra spinta ai controlli centrali e delega all'autonomia locale si nota nelle nuove regole sui responsabili dei servizi finanziari. La loro centralità nella gestione dell'ente diventa sempre più marcata, i loro pareri diventano obbligatori su tutti gli atti che possano incidere anche in modo indiretto su equilibri e patrimonio, e cresce la loro influenza sulla politica che può discostarsi dalle loro indicazioni solo con motivazioni adeguate e documentate. Un ruolo, quello del ragioniere-capo rafforzato dalla riforma, che vede crescere responsabilità e rischi di conflitto con la politica, ma non le tutele: anche in questo caso, dopo un iniziale impeto eccessivamente centralista (secondo il quale la revoca dell'incarico del ragioniere sarebbe stata possibile solo con l'assenso di Viminale ed Economia) si è tornati indietro e non si è più prevista alcuna tutela aggiuntiva.
Riflessioni simili possono essere svolte per i segretari generali, che oltre a vedersi ribadito il compito di primi attori nei controlli di regolarità amministrativa sono chiamati a essere i primi interlocutori della Corte dei conti con le relazioni semestrali sull'andamento della gestione e sull'efficacia dei controlli esterni. E il fatto che la Corte, controllore esterno per eccellenza, debba giudicare il funzionamento delle verifiche interne denuncia in modo palese le sovrapposizioni fra i due sistemi tra cui la riforma non sceglie.
Riassumendo: l'agenda di revisori, segretari, ragionieri e magistrati cresce sensibilmente e solo l'attuazione potrà verificare l'efficacia e la praticabilità della convivenza fra attori così pesanti. Un'attuazione che ha tempi strettissimi, e che impegna tutti gli enti locali, dal piccolo Comune alla grande città, a riscrivere i regolamenti e redistribuire i compiti in pochissime settimane. Le regole vanno adeguate entro il 10 gennaio, poi la macchina deve partire (articolo Il Sole 24 Ore 14.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIGestioni associate, l'unione è da preferire alla convenzione.
Convenzione o unione per gestire in forma associata le funzioni fondamentali? È una delle domande che gli amministratori dei piccoli comuni si pongono più spesso in questi giorni. Entro fine anno, infatti, occorrerà dimostrare allo Stato di avere già messo insieme almeno un terzo del «core business», ovvero almeno tre delle nove funzioni fondamentali individuate dall'art. 19 del dl 95/2012. Per gli enti inadempienti, potrà scattare il potere sostitutivo dello Stato ex art. 8 della l. 131/2003, previa diffida da parte del prefetto.

Apparentemente, la convezione è la scelta più comoda. Si tratta di un semplice contratto di diritto pubblico (art. 30 del Tuel), mediante il quale si può prevedere o la costituzione di uffici comuni, che operano con personale distaccato, o la delega di funzioni ad un comune capofila. Di norma, si opta per quest'ultima soluzione, che però rischia di appesantire il bilancio del capofila, sul quale si scaricano anche le quote di spesa riferite agli altri comuni convenzionati. La questione si pone soprattutto in relazione al Patto di stabilità interno, che dal prossimo anno (salvo proroghe) si applicherà a tutti i comuni con più di 1.000 abitanti e quindi a molti di quelli interessati dall'obbligo di dare vita alle gestioni associate.
Un recente parere (n. 26/2012) della Corte dei conti, sezione regionale di controllo per l'Emilia-Romagna ha affermato, infatti, che il capofila, nel determinare il proprio saldo finanziario obiettivo, non può considerare unicamente la propria quota di spesa relativa alla gestione dei servizi associati, ma deve farsi carico anche delle quote di spesa riferita agli altri comuni. Eventuali ritardi nei rimborsi da parte di questi ultimi, inoltre, potrebbero causare anche problemi (di Patto, per le spese in conto capitale, ma soprattutto) di cassa al capo convenzione.
Simili difficoltà non si pongono, invece, in caso di costituzione di un'unione di comuni (ovvero di trasformazione di un'unione esistente). L'unione, infatti, costituisce un ente locale a sé stante, con un proprio bilancio separato ed autonomo. I comuni che ne fanno parte sono posti sullo stesso piano, dovendo tutti finanziare la propria quota di spese. Alle unioni, inoltre, competono gli introiti derivanti dalle tasse, dalle tariffe e dai contributi sui servizi ad esse affidati.
C'è quindi la possibilità di far convergere (almeno in parte) su tali soggetti le entrate e le spese, evitando complessi passaggi di risorse fra un ente e l'altro e dribblando (legittimamente) i vincoli del Patto. Quest'ultimo, infatti, si applicherà (dal 2014) alle sole unioni «speciali» che i comuni al di sotto dei 1.000 abitanti possono costituire (in alternativa agli altri due modelli) per gestire in forma associata tutte le loro funzioni (la relativa disciplina contenuta nell'art. 16 del dl 138/2011). Al momento, invece, non è prevista l'estensione del Patto alle unioni «classiche» (art. 32 del Tuel), il che rappresenta un ulteriore motivo per optare per questo modello, anziché per quello della convenzione.
La scelta dell'unione, infine, è anche vantaggiosa rispetto alla gestione delle risorse umane. L'allargamento della platea degli enti soggetti al Patto ha come conseguenza anche l'assoggettamento dei comuni con più di 1000 abitanti a più restrittivi obblighi di contenimento della spesa di personale ed a maggiori limiti alla possibilità di effettuare nuove assunzioni (con applicazione del turn-over al 40% della spesa delle cessazioni intervenute nell'anno precedente, anziché di quello «per teste», che consente un nuovo ingresso per ogni uscita).
Le unioni «classiche», invece, continueranno ad essere soggette al più favorevole regime previsto per gli enti non soggetti al Patto (cfr Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Toscana, parere n. 7/2012) (articolo ItaliaOggi del 14.12.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIControlli interni subito al via. Entro il 10 gennaio gli enti devono varare il regolamento.  Le amministrazioni inadempienti rischiano la diffida del prefetto e lo scioglimento.
Entro il 10 gennaio i consigli comunali, provinciali, delle unioni dei comuni e delle superstiti comunità montane devono approvare il regolamento consiliare sui controlli interni. Le amministrazioni inadempienti saranno diffidate dal prefetto e, se entro i due mesi successivi non avranno adottato tale testo, saranno sciolte.

Con queste disposizioni contenute nel dl n. 174/2012, per come convertito dalla legge 213, vengono significativamente accresciuti i controlli interni negli enti locali. La norma ne ha previsti ben sei: regolarità amministrativa e contabile, di gestione, sugli equilibri finanziari, strategico, sulle società partecipate e non quotate e sulla qualità dei servizi erogati. Le prime tre forme sono obbligatorie da subito per tutte le amministrazioni locali, le altre tre sono da subito obbligatorie solamente per gli enti locali che hanno più di 100 mila abitanti, lo diventeranno dal 1/1/2014 per quelli con popolazione superiore a 50 mila abitanti e dal 01/01/2015 per quelli superiori a 15 mila abitanti.
Tutte le forme di controllo interno vanno disciplinate all'interno dello specifico regolamento, tranne quella sugli equilibri di bilancio, che deve essere inserita nel regolamento di contabilità. Per esplicita previsione legislativa la competenza alla adozione del regolamento appartiene al consiglio, nonostante per molti aspetti siamo in presenza di misure aventi una natura organizzativa. Se il regolamento non viene approvato il legislatore dispone lo scioglimento degli organi di governo. E inoltre sono stabilite la irrogazione delle stesse sanzioni previste per gli amministratori e i revisori dei conti responsabili dei dissesti e una specifica multa.
Quanto alle forme di verifica sulla adozione e sulla applicazione del regolamento, si deve ricordare che un copia deve essere inviata al prefetto e alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti e che le province ed i comuni con popolazione superiore a 15 mila abitanti devono semestralmente trasmettere alla stessa una relazione sulla gestione e sull'andamento dei controlli interni.
Nel regolamento, occorre scegliere per tutte le forme di controllo interno la struttura che è chiamata a esercitarlo, la periodicità e la utilizzazione del report. Per i controlli di regolarità amministrativa e contabile il responsabile è individuato direttamente dal legislatore nel segretario; per quello strategico nel direttore generale o, nel caso in cui questa figura non sia presente, nel segretario; quello sugli equilibri finanziari deve fare capo necessariamente al dirigente economico finanziario. Invece deve essere il regolamento ad individuare il responsabile delle altre tre forme di controllo interno, cioè quello di gestione, quello sulle società partecipate non quotate e quello di qualità sui servizi erogati. Per tutte le forme di controllo deve essere il regolamento a individuare la struttura competente, cioè i soggetti che affiancano il responsabile.
Da sottolineare che il legislatore prevede necessariamente il coinvolgimento del segretario, del direttore generale se presente, dei dirigenti e degli organismi di controllo. Occorre inoltre fissare la cadenza periodica con cui dovranno essere svolte le varie forme di controllo e, quindi, con cui saranno prodotti i report; in tale scelta è opportuno tenere presente il vincolo della relazione semestrale, che deve dare conto anche degli esiti delle verifiche interne, da rendere alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti da parte delle province e dei comuni con più di 15 mila abitanti.
Va ricordato che, tranne il controllo preventivo di regolarità amministrativa e contabile, tutte le forme di controllo interno si concretizzano nella realizzazione di una relazione. Altro aspetto comune è la disciplina delle modalità di utilizzazione dei report. Essi vanno trasmessi, sulla base del vincolo dettato dal legislatore, alla giunta ed al consiglio dell'ente: il regolamento può dettare specifiche regole, come ad esempio la necessità che i suoi esiti siano necessariamente esaminati dagli organi di governo, anche individuandone le modalità e la tempistica.
La verifica di regolarità amministrativa e contabile si suddivide in 2 parti: quella preventiva, che si esercita tramite i pareri di regolarità tecnica e contabile e quella successiva. Per questa seconda forma è necessario disciplinare le modalità con cui vengono scelte le determinazioni, i contratti e gli altri atti amministrativi da sottoporre a verifica. Si può usare la tecnica della scelta a campione, ma si può anche prevedere (in alternativa o a integrazione) che alcuni atti siano comunque sottoposti a tale verifica, ad esempio quelli di importo rilevante. Occorre inoltre disciplinare il contenuto della direttiva che il segretario può impartire ai dirigenti attraverso il report.
Per il controllo di gestione la disciplina deve riguardare soprattutto i contenuti e le modalità di rilevazione delle informazioni.
Per quello sugli equilibri della gestione finanziaria la regolamentazione deve avere come oggetto soprattutto la definizione delle modalità di intervento e coinvolgimento del collegio dei revisori dei conti. Ad esempio essi possono svolgere tanto ruoli attivi, quanto esser chiamati alla verifica degli esiti. E ancora è necessario prevedere le modalità di effettuazione delle verifiche sulle società, così da evitare il maturare di improvvise condizioni di deficit: per cui appare utile stabilire un nesso diretto con le verifiche sulle società.
Per il controllo strategico le scelte di maggiore rilievo sono quelle legate alla definizione del suo contenuto, che per molti versi comprende gli esiti di tutte le forme di controllo interno. Per cui appare necessario che si stabiliscano forme di interrelazione con tutte le altre forme di verifica. Appare inoltre opportuno che esso comprenda anche la relazione sulle performance di cui al dlgs n. 150/2009, cd legge Brunetta.
Il monitoraggio della gestione delle società non partecipate deve essere esattamente puntualizzato nei contenuti ed occorre inoltre disciplinare le modalità di interrelazione con i controlli strategico e sulla qualità dei servizi erogati.
Infine, si deve definire il contenuto del controllo sulla qualità dei servizi erogati. Esso deve fare riferimento sia a quelli gestiti dall'ente che a quelli gestiti dalle società partecipate che a quelli gestiti da soggetti aggiudicatari. Appare necessario che esso comprenda anche gli esiti della customer satisfaction prevista dalla legge Brunetta tra gli elementi caratterizzanti le performance organizzative (articolo ItaliaOggi del 14.12.2012).

CONSIGLIERI COMUNALI:  OSSERVATORIO VIMINALE/ Ammessa la consultazione dell'anagrafe degli stranieri residenti. Diritto di accesso a 360°. Il consigliere può visionare ogni documento.
Può un consigliere comunale avere accesso agli elenchi anagrafici di tutti gli stranieri residenti con relativi indirizzi?

L'art. 43, comma 2, del dlgs n. 267/2000 prevede che «i consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge». Il diritto di accesso dei consiglieri comunali agli atti amministrativi dell'ente locale è stato definito dal Consiglio di stato (sent. n. 4471/2005) «diritto soggettivo pubblico funzionalizzato», come tale strumentale al controllo politico-amministrativo sull'ente nell'interesse della collettività.
In considerazione di ciò, il diritto dei consiglieri comunali di ottenere, dai competenti uffici comunali, tutte le informazioni utili all'espletamento del loro mandato non incontra neppure alcuna limitazione derivante dalla loro eventuale natura riservata. Infatti, tale limite all'accesso, operante in base alla disciplina posta in via generale dagli articoli 22 e seguenti della legge n. 241/1990, non è previsto dall'art. 43, comma 2, del Tuel, che opera quale norma speciale e, anzi, risulta implicitamente escluso in quanto il consigliere è vincolato al segreto d'ufficio (cfr. Consiglio di stato, sez. V, n. 6963/2010 e n. 2716/2004).
In merito a ciò la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, nel parere dell'11.01.2011, ha affermato che «gli uffici comunali non possono limitare in alcun caso il diritto di accesso del consigliere comunale, ancorché possa sussistere il pericolo di divulgazione di dati di cui il medesimo entri in possesso. La responsabilità di aver messo in condizione il consigliere comunale di conoscere dati sensibili cede di fronte al diritto di accesso incondizionato del medesimo, ma può essere invocata dal terzo eventualmente danneggiato solo nei confronti di chi (consigliere comunale) del suo diritto ha fatto un uso contra legem».
Inoltre, nel parere del 06.04.2011 ha precisato che «l'eventuale segretezza che pure opera nei confronti del consigliere comunale non è quella legata alla natura dell'atto, ma al suo comportamento che non può essere divulgativo del contenuto degli atti ai quali ha avuto accesso, stante il vincolo previsto in capo al consigliere comunale dall'art. 43 all'osservanza del segreto d'ufficio nelle ipotesi specificamente determinate dalla legge, nonché al divieto di divulgazione dei dati personali ai sensi del dlgs n. 196/2003».
In definitiva, gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi, da un lato, nel fatto che esso deve avvenire in modo da comportare il minore aggravio possibile per gli uffici comunali, dall'altro, nel fatto che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche o meramente emulative, fermo restando che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso (Consiglio di stato, sez. V, n. 6963/2010).
Deve essere, pertanto, sottolineata la peculiarità del diritto di accesso del consigliere comunale, di più ampia astensione rispetto a quello disciplinato dalla legge n. 241/1990, in quanto strumento di verifica e controllo del comportamento degli organi istituzionali decisionali dell'ente locale, non per finalità personali, ma per la tutela degli interessi pubblici, configurandosi come espressione del principio democratico dell'autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività (C.d.S., sez. V, 08.09.1994, n. 976).
Con specifico riferimento al caso in esame, la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, con il parere reso in data 20.12.2011, ha ritenuto sussistere «il diritto del consigliere comunale di accedere agli elenchi e alle cancellazioni anagrafiche richieste al fine di esercitare le prerogative connesse all'esercizio del proprio mandato politico», non rilevando in tal senso «il fatto che le informazioni richieste concernano dati riservati trattati dal sindaco nell'esercizio delle funzioni di ufficiale di governo».
Alla luce di quanto affermato in precedenza, si ritiene che ai sensi dell'art. 43, comma 2, del Tuel al consigliere comunale non si possa negare l'accesso a nessun atto o documento in ragione della sua eventuale segretezza o riservatezza, ferma restando la necessità che i dati in tal modo acquisiti siano utilizzati esclusivamente per le finalità strettamente connesse con l'espletamento del mandato (articolo ItaliaOggi del 14.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI SERVIZIPer gli affidamenti in house salta il limite di 200mila euro.
Anche la gestione dei rifiuti rientra tra i «servizi a rete», per i quali tutte le attività di organizzazione e gestione devono essere trasferiti agli ambiti territoriali ottimali previsti dalla manovra-bis del Ferragosto 2011 (articolo 3-bis del Dl 138/2011). Scompare del tutto il limite dei 200mila euro annui per gli affidamenti in house, che sarebbe dovuto entrare in vigore a inizio 2014 e avrebbe lasciato sopravvivere gli affidamenti di valore superiore fino alla fine dello stesso anno secondo le previsioni del decreto legge sulla revisione di spesa.

La versione definitiva del decreto «Sviluppo-bis», che ha ottenuto ieri l'ultimo disco verde dalla Camera, porta molte novità al mondo dei servizi pubblici locali e delle società partecipate.
Oltre alla scomparsa del limite dei 200mila euro all'in-house (si veda anche Il Sole 24 Ore del 7 dicembre), che riporta integralmente la disciplina degli affidamenti nel'ambito delle regole Ue sull'in house, il ritocco di maggior peso è quello sugli ambiti territoriali previsti dalla manovra-bis dello scorso anno, ma accolti con più di un'incertezza da parte delle Regioni che in qualche caso non ne hanno completato il disegno o l'attuazione.
Ora i ritardatari devono affrettarsi perché agli ambiti, secondo la legge di conversione approvata ieri, vanno trasferiti subito tutti i compiti relativi a «scelta della forma di gestione, di determinazione delle tariffe all'utenza per quanto di competenza, di affidamento della gestione e relativo controllo». Insomma, esce dai singoli enti locali l'intera organizzazione dei servizi pubblici a rete, famiglia nella quale il decreto Sviluppo-bis fa rientrare anche la raccolta e smaltimento di rifiuti urbani superando così i dubbi interpretativi sollevati da molti operatori.
In nome della concorrenza, o di quel che ne rimane dopo la sentenza 199/2012 della Corte costituzionale che ha cancellato le "liberalizzazioni" dell'anno scorso, si prevede poi che la disciplina del Codice appalti si applichi anche ai servizi di illuminazione votiva.
In ogni caso, chi sceglie la strada dell'in house dovrà motivare in una relazione, da pubblicare sul sito Internet, le ragioni della scelta. Una semplificazione interviene poi sul fronte dei micro-pagamenti pubblici alle imprese, che devono essere effettuati in forma elettronica se il creditore lo richiede (articolo Il Sole 24 Ore del 14.12.2012).

APPALTIBanca dati sugli appalti, partenza dal 1° aprile.
Parte il conto alla rovescia per l'avvio della banca dati appalti gestita dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici. L'obbligo per le stazioni appaltanti di servirsi del portale battezzato «Avcpass» per la verifica dei requisiti di costruttori, progettisti e fornitori di beni e servizi scatterà il 01.04.2013 e sarà limitato alle gare di importo superiore a un milione di euro.

Dal primo gennaio il sistema partirà in forma sperimentale. Lo slittamento di tre mesi rispetto al termine previsto dal Dlgs 163/2006 (articolo 6-bis) servirà per permettere a enti e imprese di prendere confidenza con la nuova procedura di gestione delle gare, evitando di mandare in tilt il mercato. Una volta diventato operativo il servizio costituirà una vera e propria rivoluzione per il settore degli appalti, in cui operano circa 40mila amministrazioni, con oltre 1,2 milioni di gare bandite ogni anno.
Lo scopo di Avcpass è di dare alle amministrazioni la possibilità di verificare in via telematica e in un colpo solo tutti i requisiti di chi parteciperà alle gare: dalla regolarità contributiva (Inarcassa, Inail) alla documentazione antimafia (ministero dell'Interno), dalla certificazione di qualità (Accredia) a quella di regolarità fiscale rilasciata dall'Agenzia delle Entrate.
Perché tutto ciò si tramuti in realtà bisognerà però attendere ancora. Per ora la possibilità di accesso diretto ai dati telematici da parte dell'Autorità funziona solo con Inarcassa, in tutti gli altri casi sarà comunque l'Autorità a "mediare" tre le Pa, verificando la sussistenza dei requisiti e dandone comunicazione, ancora in forma cartacea, agli enti interessati.
Lo schema di delibera con le indicazioni operative per stazioni appaltanti e imprese è stato posta ieri in consultazione. Associazioni e amministrazioni coinvolti nell'operazione avranno a disposizione pochissimo tempo per far pervenire le proprie valutazioni utilizzando il modulo scaricabile dal sito dell'Autorità. Il termine ultimo scade lunedì 17 dicembre. Poi, dopo aver incassato il parere del Garante della privacy sulla gestione dei dati sensibili forniti dalle imprese Via Ripetta darà l'ok definitivo al documento.
Confermate le anticipazioni pubblicate sull'ultimo numero del settimanale Edilizia e Territorio. Dopo la fase sperimentale il sistema diventerà obbligatorio per i bandi al di sopra di un milione dal primo aprile 2013. Nel terzo trimestre il sistema diventerà vincolante i bandi oltre 150mila euro. Infine da ottobre non ci saranno sconti: il servizio sarà obbligatorio per tutti i bandi da 40mila euro in su, pena la nullità della gara (articolo Il Sole 24 Ore del 14.12.2012).

APPALTIDECRETO CRESCITA/ Più flessibile la qualificazione delle imprese di costruzioni. Appalti, una mini-rivoluzione. Credito d'imposta per partenariati e Anagrafe unica.
Credito di imposta ed esenzione dal pagamento del canone di concessione per i Ppp (partenariati pubblico-privati) oltre i 500 milioni; creazione dell'anagrafe unica delle stazioni appaltanti presso l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici; più flessibile la qualificazione delle imprese di costruzioni.
Sono queste alcune delle principali novità contenute nel decreto-legge 179/2012 come approvato dalla camera ieri, anche se alcune modifiche chieste da più parti, come l'esclusione degli appalti dalla «responsabilità fiscale» e l'ampliamento fino a 100 milioni dei crediti di imposta non sono passate.
Anagrafe unica delle stazioni appaltanti
Le stazioni appaltanti di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture saranno tenute a richiedere l'iscrizione all'Anagrafe Unica presso la Banca dati nazionale dei Contratti pubblici istituita presso l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (e a tenere aggiornati i dati immessi). Sarà l'Autorità a stabilire, poi, con una propria delibera, le modalità operative e di funzionamento della Anagrafe. L'inadempimento agli obblighi di iscrizione e successivo aggiornamento è previsto che dia luogo alla nullità degli atti adottati e alla responsabilità amministrativa e contabile dei funzionari responsabili.
Defiscalizzazione per nuove infrastrutture
Sarà possibile la defiscalizzazione a favore del soggetto realizzatore in partenariato pubblico-privato di nuove opere pubbliche infrastrutturali (con progetto approvato entro il 31.12.2015 e di importo superiore a 500 milioni di euro) per le quali non siano previsti contributi pubblici a fondo perduto e per le quali sia certa la non sostenibilità del piano economico finanziario. Si tratterà di un credito di imposta a valere sull'Ires e sull'Irap direttamente generate dalla costruzione e gestione dell'opera, nel limite del 50% del costo dell'investimento. Per le stessa tipologia di opere, e sempre in caso di non sostenibilità del piano economico, è anche prevista l'esenzione dal pagamento del canone di concessione nella misura necessaria al raggiungimento dell'equilibrio del piano economico-finanziario.
Contratti di rete
Alle aggregazioni di imprese che si basano sui contratti di rete si prevede che siano applicabili le disposizioni dell'articolo 37 del Codice dei contratti pubblici che, a sua volta, detta le regole per la costituzione e il funzionamento dei raggruppamenti temporanei di imprese e dei consorzi ordinari di concorrenti. Ciò dovrebbe significare che le imprese che hanno sottoscritto il contratto di rete dovranno configurare la propria «aggregazione» secondo le regole proprie di queste due tipologie di soggetti raggruppati, quanto meno, quindi, secondo lo schema del mandato con rappresentanza.
Qualificazione delle imprese
Fino al 31.12.2015 sarà possibile dimostrare il requisito della cifra di affari realizzata in lavori (richiesta nelle gare oltre i 20 milioni di euro) avendo riguardo a un periodo di attività riferito ai migliori cinque anni del decennio antecedente la data di pubblicazione del bando. Si proroga di un anno il termine (oggi stabilito al 31.12.2012) fino al quale, ai fini della verifica di congruità tra cifra d'affari in lavori, costo delle attrezzature e costo del personale dell'impresa (in sede di revisione triennale dell'attestazione Soa), è ammessa la tolleranza del 50% (invece che del 25%) e si procede alla riduzione della cifra d'affari in misura pari al 50%.
Conferenze di servizi
Per il superamento del dissenso nelle conferenze di servizi, si prevede che i partecipanti formulino soluzioni anche volte a modificare il progetto originario e non si limitino a esprimere dissenso, con la previsione aggiuntiva di una ulteriore riunione di mediazione e di una ulteriore riunione per definire comunque i punti di dissenso. Se non si trova ancora una soluzione, è prevista l'adozione comunque di un Dpcm con la decisione finale, con la partecipazione dei presidenti delle regioni o delle province autonome interessate.
Svincolo garanzie
La quota dell'importo della garanzia non svincolabile in corso di esecuzione del contratto passa dal 25 al 20% dell'iniziale importo garantito, consentendo quindi alle imprese di avere un livello minore di impegni. Per le opere in esercizio da oltre un anno, si prevede anche prima del collaudo e a determinate condizioni, lo svincolo automatico delle garanzie di buona esecuzione prestate a favore dell'ente aggiudicatore, senza necessità di alcun benestare, ferma restando una quota massima del 20% da svincolare all'emissione del certificato di collaudo (articolo ItaliaOggi del 13.12.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATANella casella e-mail c'è il Durc. Al via la consegna con posta elettronica certificata. In una nota Inail le indicazioni per le richieste. Si parte con le stazioni appaltanti.
Adesso il Durc viaggia anche per posta elettronica. Da stamattina, infatti, si può chiedere all'Inail di ricevere il documento unico di regolarità contributiva per posta elettronica certificata (Pec), firmato digitalmente. Le operazioni si effettuano tutte su internet (www.sportellounicoprevidenziale.it), ma per ora sono abilitati unicamente le stazioni appaltanti e le amministrazioni procedenti in relazioni a imprese non edili.
Lo spiega, tra l'altro, l'Inail nella nota 10.12.2012 n. 8798 di prot..
Il Durc via Pec. Il nuovo canale di consegna del Durc riceve operatività da stamattina (12 dicembre). Infatti, da oggi è disponibile la nuova versione dell'applicativo telematico www.sportellounicoprevidenziale.it che consente di richiedere all'Inail il recapito tramite Pec del Durc firmato digitalmente. Il servizio, precisa l'Inail, sarà operativo per le richieste effettuate a partire dal oggi (sono esclusi, quindi, i Durc ancora da ricevere).
In sede di prima applicazione, spiega l'Inail, i Durc trasmessi via Pec sono soltanto quelli richiesti dalle stazioni appaltanti e dalle amministrazioni procedenti; per gli altri soggetti, l'Inail fa riserva di successive istruzioni. Per richiedere il recapito del Durc tramite Pec da parte dell'Inail è indispensabili il possesso di alcune condizioni (si veda tabella).
Istruzioni operative. Per utilizzare il nuovo servizio di recapito tramite Pec, i soggetti che sono in possesso di un'utenza come «stazione appaltante/amministrazione procedente» (Sa/Ap) devono verificare nel proprio profilo anagrafico all'interno di sportellounicoprevidenziale:
● che la struttura di appartenenza sia correttamente e puntualmente identificata e, cioè, che sia specificato, oltre alla denominazione dell'ente, sia dipartimento/direzione che settore/ufficio/sede
● che l'indirizzo di Pec della struttura di appartenenza sia inserito e sia corretto.
A tal fine, per aggiornare eventualmente i dati, dopo l'accesso al sito, l'utente Sa/Ap deve seguire il percorso «gestione anagrafiche», «stazioni appaltanti/amministrazioni procedenti», inserire il dato e-mail Pec mancante o modificare quello presente e, quindi, confermare l'operazione. In mancanza degli aggiornamenti, qualora vi siano più Sa/Ap facenti capo a uno stesso ente/amministrazione, il Durc verrà recapitato all'indirizzo Pec che risulta registrato.
Nel caso in cui la singola Sa/Ap non sia dotata di un proprio indirizzo Pec, deve indicare quello della struttura ad essa gerarchicamente sovraordinata, fermo restando che, in tal caso, sarà onere di quest'ultima struttura trasmettere il Durc ricevuto dallo a quella (Sa/Ap) che ha effettuato la richiesta.
Come effettuare la richiesta. Per ricevere il Durc tramite Pec, in fase di compilazione della richiesta, l'utente Sa/Ap, dopo aver verificato che il campo «e-mail Pec» è correttamente valorizzato, deve compilare la sezione (tab) «Impresa» nel seguente modo:
alla sezione «sede operativa», va selezionata la casella «sede operativa coincidente con la sede legale»;
alla sezione «recapito corrispondenza», va selezionata la casella «Pec».
A conclusione della richiesta, nella sezione «inoltro», va selezionato «Inail» come ente emittente. L'Inail sottolinea che è opportuno verificare a video, prima della conferma e dell'inoltro della pratica, l'esattezza dell'indirizzo Pec al quale il Durc sarà recapitato.
Infine, l'Inail ricorda che per ogni ulteriore informazione o per segnalare problemi in ordine alla richiesta o al rilascio del Durc via Pec deve essere utilizzata esclusivamente l'apposita funzione di assistenza disponibile sul sito di «sportellounicoprevidenziale» (link «assistenza» posto sul toolbar in alto alla homepage) (articolo ItaliaOggi del 12.12.2012).

PUBBLICO IMPIEGO: Decreto enti locali. Cancellata la salvaguardia degli incarichi. Per i ragionieri dei Comuni nuovi compiti e meno tutele.
Una correzione di qua e un ritocco di là, alla fine i responsabili finanziari degli enti locali incontrano nella legge di conversione del decreto sui costi della politica solo un deciso ampliamento dei loro compiti, ma nessuna tutela aggiuntiva.
Nel maxiemendamento del Governo, infatti, si è persa per strada la clausola di salvaguardia che mirava a metterli al riparo da revoche "ingiustificate" dell'incarico, magari dettate dal fatto che il loro ruolo rafforzato nelle verifiche intralciasse troppo i programmi politici dell'amministrazione. Una novità, quest'ultima, che fa storcere il naso ai diretti interessati, e che denuncia ulteriormente i problemi dettati dalla nuova architettura dei controlli negli equilibri spesso delicati degli organismi di vertice degli enti locali.
La prima versione della clausola, scritta nel testo originario del decreto legge 174/2012 approvata dal Governo, in un afflato centralista di problematica attuazione, metteva addirittura i responsabili finanziari di Comuni e Province sotto la tutela del Governo. Si prevedeva infatti che l'incarico di responsabile del servizio finanziario potesse essere revocato dal sindaco o dal presidente della Provincia solo «in caso di gravi irregolarità» riscontrate nell'esercizio delle sue funzioni; per avere effetto, però, l'ordinanza di revoca avrebbe dovuto passare un doppio vaglio centrale, da parte del ministero dell'Interno e della Ragioneria generale dello Stato. Una tutela, questa, che aveva fatto sollevare più di un dubbio sulla sua costituzionalità, perché re-introduceva un controllo centrale su enti che in base al Titolo V della Costituzione sono equiordinati allo Stato.
Proprio su questo aspetto avevano agito gli emendamenti nel primo passaggio parlamentare, che avevano sostituito la tutela da parte di Viminale ed Economia con quella garantita dal giudizio dell'organo interno di revisione, che avrebbe dovuto avallare o meno la decisione del sindaco di mettere alla porta il ragioniere capo.
La polemica, però, era scoppiata anche su un piano più politico: i segretari generali, anch'essi investiti di nuovi compiti nella macchina dei controlli interni, avevano raccolto in pochi giorni oltre mille firme in fondo a una petizione per chiedere tutele analoghe, mentre i sindaci si erano detti contrari alla blindatura di un incarico che non può prescindere da una base collaborativa e fiduciaria.
Risultato finale: i ragionieri-capo dovranno dare pareri su tutti gli atti che possano incidere su equilibri di bilancio e patrimonio, ma potranno essere revocati senza troppi problemi (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAVa confermata la motivazione già resa da questo TAR nell’ordinanza cautelare, con riferimento al legittimo affidamento che la ricorrente –dopo il lungo lasso di tempo trascorso dal completamento dei lavori– ormai riponeva in ordine al mantenimento dell’opera.
Quest’ultima, in effetti, risulta compiuta nel 1994, laddove solo 14 anni dopo (ossia nel 2008, allorché per la prima volta fu adottata un’ordinanza di ripristino, sia pure successivamente revocata) l’amministrazione è intervenuta per sanzionare la difformità dal titolo: il tempo così trascorso è tale, nella sua oggettiva consistenza, da consolidare l’aspettativa della proprietaria in ordine all’insussistenza di alcuna ragione di pubblico interesse alla rimozione del manufatto.

Va, anzitutto, confermata la motivazione già resa da questo TAR nell’ordinanza cautelare, con riferimento al legittimo affidamento che la ricorrente –dopo il lungo lasso di tempo trascorso dal completamento dei lavori– ormai riponeva in ordine al mantenimento dell’opera. Quest’ultima, in effetti, risulta compiuta nel 1994, laddove solo 14 anni dopo (ossia nel 2008, allorché per la prima volta fu adottata un’ordinanza di ripristino, sia pure successivamente revocata) l’amministrazione è intervenuta per sanzionare la difformità dal titolo: il tempo così trascorso è tale, nella sua oggettiva consistenza, da consolidare l’aspettativa della proprietaria in ordine all’insussistenza di alcuna ragione di pubblico interesse alla rimozione del manufatto (cfr., per precedenti analoghi della Sezione, TAR Piemonte, sez. II, sentt. n. 967 e 1142 del 2012).
Né, del resto, alcuna ragione in tal senso è stata esplicitata dall’ordinanza impugnata: questa, dunque, si mostra carente lungo il profilo della motivazione, in quanto non ha esplicitato le ragioni di pubblico interesse –evidentemente diverse dal mero ripristino della legalità– che conducevano, nella specie, al sacrificio della posizione consolidata in capo al privato proprietario (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 13.12.2012 n. 1355 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIAttesa la natura ampiamente discrezionale del provvedimento di revoca dell'incarico di assessore, la relativa motivazione può basarsi sulle più ampie valutazioni di opportunità politico-amministrativa, rimesse in via esclusiva al vertice dell'ente, in quanto aventi ad oggetto un incarico fiduciario; pertanto, la motivazione dell'atto di revoca può anche rimandare esclusivamente a valutazioni di opportunità politica e il sindaco ha solo l'onere formale di comunicare al Consiglio comunale la decisione di revocare un assessore, visto che è soltanto quest'ultimo organo che potrebbe opporsi, con una mozione di sfiducia, all'atto di revoca.
Non avendo carattere sanzionatorio e potendo rispondere anche ad esigenze di carattere generale come il riequilibrio dei rapporti interni alla maggioranza consiliare o di quelli con l’opposizione o come la necessità di migliorare l’efficienza di specifici settori dell’Amministrazione locale, tale tipo di provvedimento -che proprio per la sua natura non deve necessariamente “specificare i singoli comportamenti addebitati all’interessato”- risulta difficilmente sindacabile in sede di legittimità se non per profili formali, quali la violazione di specifiche disposizioni normative o la evidente abnormità del provvedimento sindacale o il suo carattere discriminatorio.

Come affermato dalla più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato e come già evidenziato dal Collegio nell’ordinanza di rigetto dell’istanza cautelare, “attesa la natura ampiamente discrezionale del provvedimento di revoca dell'incarico di assessore, la relativa motivazione può basarsi sulle più ampie valutazioni di opportunità politico-amministrativa, rimesse in via esclusiva al vertice dell'ente, in quanto aventi ad oggetto un incarico fiduciario; pertanto, la motivazione dell'atto di revoca può anche rimandare esclusivamente a valutazioni di opportunità politica e il sindaco ha solo l'onere formale di comunicare al Consiglio comunale la decisione di revocare un assessore, visto che è soltanto quest'ultimo organo che potrebbe opporsi, con una mozione di sfiducia, all'atto di revoca” (cfr. ex multis, Cons. St., Sez. V, 23.02.2012 n. 1053; Cons. St., Sez. V, 10.07.2012, n. 4057).
Non avendo carattere sanzionatorio e potendo rispondere anche ad esigenze di carattere generale come il riequilibrio dei rapporti interni alla maggioranza consiliare o di quelli con l’opposizione o come la necessità di migliorare l’efficienza di specifici settori dell’Amministrazione locale (Cons. St. Sez. V, 27.04.2010 n. 2357), tale tipo di provvedimento -che proprio per la sua natura non deve necessariamente “specificare i singoli comportamenti addebitati all’interessato” (TAR Lombardia, Brescia, Sez. II; 28.10.2010 n. 4466; TAR Molise, Sez. I, 12.10.2012 n. 547)- risulta difficilmente sindacabile in sede di legittimità se non per profili formali, quali la violazione di specifiche disposizioni normative o la evidente abnormità del provvedimento sindacale o il suo carattere discriminatorio, circostanze che non ricorrono nel caso di specie (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 13.12.2012 n. 1354 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa destinazione d’uso:
- caratterizza funzionalmente l’immobile ed è segnata dagli strumenti urbanistici di pianificazione o di attuazione della pianificazione, nell’ambito delle categorie generali di uso urbanistico previste dalle norme vigenti;
- non si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il soggetto utilizzatore, ma con la destinazione impressa dal titolo abilitativo, e ciò in quanto la nozione di “uso” urbanisticamente rilevante è ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile – quale individuata nel titolo edilizio – senza che essa possa essere influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori;
- solo in caso di assenza o indeterminatezza del titolo edilizio è ritraibile dalla classificazione catastale attribuita in sede di primo accatastamento o da altri documenti probanti.
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Il mutamento di destinazione d’uso senza opere assume rilievo solo se si sostanzia in un mutamento urbanistico-edilizio ovvero solo se sconvolge l’assetto dell’area in cui è ricaduto l’intervento edilizio.
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Il mutamento di destinazione d’uso è ammesso solo se compatibile con la caratterizzazione urbanistica impressa all’area in cui è ubicato l’immobile.

Ritenuto, peraltro, pacifico che la destinazione d’uso:
- caratterizza funzionalmente l’immobile ed è segnata dagli strumenti urbanistici di pianificazione o di attuazione della pianificazione, nell’ambito delle categorie generali di uso urbanistico previste dalle norme vigenti;
- secondo un costante orientamento giurisprudenziale, non si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il soggetto utilizzatore, ma con la destinazione impressa dal titolo abilitativo (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 09.02.2001 n. 583; TAR Liguria, Sez. I, 25.01.2005 n. 85), e ciò in quanto la nozione di “uso” urbanisticamente rilevante è ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile – quale individuata nel titolo edilizio – senza che essa possa essere influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori (tra le altre, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 07.05.1992 n. 219 e TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, sentenza 07.09.2012 n. 537);
- solo in caso di assenza o indeterminatezza del titolo edilizio è ritraibile dalla classificazione catastale attribuita in sede di primo accatastamento o da altri documenti probanti;
Ritenuto che, per costante orientamento giurisprudenziale (ex multis Cons. Stato, sez. V, 23.2.2000 n. 949, TAR Liguria, sez. I, 28.01.2004 n. 102, TAR Veneto, Sez. III, 13.11.2001 n. 3699, Cass. Penale, Sez. III, 01.10.1997 n. 3104 e, più di recente, TAR Lazio, sez. II, 07.10.2005 n. 8002, TAR Abruzzo, sede l'Aquila, 02.04.2009 n. 236 e TAR Lazio, Roma, I-quater, 24.05.2011, n. 4622), il mutamento di destinazione d’uso senza opere assume rilievo solo se si sostanzia in un mutamento urbanistico-edilizio ovvero solo se sconvolge l’assetto dell’area in cui è ricaduto l’intervento edilizio;
Ritenuto, in ogni caso, che il mutamento di destinazione d’uso è ammesso solo se compatibile con la caratterizzazione urbanistica impressa all’area in cui è ubicato l’immobile (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 13.12.2012 n. 1346 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAOve una concessione edilizia o permesso di costruire sia stato legittimante assentito, ma in fase di realizzazione del relativo progetto il privato destinatario ponga in essere delle difformità dal medesimo,… siffatti abusi devono essere sanzionati attivando il procedimento sanzionatorio definito dal T.U di cui al D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (artt. 31 ss.), ma giammai possono legittimante costituire motivo di annullamento in autotutela della concessione edilizia legittimamente assentita.
Presupposto indefettibile del legittimo esercizio del potere di autotutela c.d. decisoria culminante nell’adozione di provvedimenti di secondo grado di annullamento di precedenti provvedimenti, è, infatti, ai sensi dell’art. 21-nonies della L. n. 241/1990 ricettivo di un radicato costrutto pretorio di origine giurisprudenziale, l’esistenza e l’acclaramento di un vizio di legittimità originario che affligga il provvedimento oggetto dell’autotutela decisoria. Laddove, invece, il provvedimento sia e rimanga all’attualità del tutto legittimo, l’eventuale contegno del privato che sostanzi una difformità esecutiva rispetto al contenuto delle facoltà concesse con il provvedimento, può rilevare unicamente ai fini del’adozione di misure sanzionatorie repressive, non potendo, invece, infirmare ex post la legittimità del provvedimento e correlativamente legittimare il ricorso dal potere di annullamento in autotutela.

Come evidenziato dalla costante giurisprudenza anche di questo Tribunale “ove una concessione edilizia o permesso di costruire sia stato legittimante assentito, ma in fase di realizzazione del relativo progetto il privato destinatario ponga in essere delle difformità dal medesimo,… siffatti abusi” devono “essere sanzionati attivando il procedimento sanzionatorio definito dal T.U di cui al D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (artt. 31 ss.), ma giammai possono legittimante costituire motivo di annullamento in autotutela della concessione edilizia legittimamente assentita.
Presupposto indefettibile del legittimo esercizio del potere di autotutela c.d. decisoria culminante nell’adozione di provvedimenti di secondo grado di annullamento di precedenti provvedimenti, è, infatti, ai sensi dell’art. 21-nonies della L. n. 241/1990 ricettivo di un radicato costrutto pretorio di origine giurisprudenziale, l’esistenza e l’acclaramento di un vizio di legittimità originario che affligga il provvedimento oggetto dell’autotutela decisoria. Laddove, invece, il provvedimento sia e rimanga all’attualità del tutto legittimo, l’eventuale contegno del privato che sostanzi una difformità esecutiva rispetto al contenuto delle facoltà concesse con il provvedimento, può rilevare unicamente ai fini del’adozione di misure sanzionatorie repressive, non potendo, invece, infirmare ex post la legittimità del provvedimento e correlativamente legittimare il ricorso dal potere di annullamento in autotutela
” (TAR Piemonte, Sez. I, 7.05.2010 n. 2356).
Nel caso in questione proprio dalla realizzazione di opere in difformità dal permesso rilasciato l’Amministrazione ha fatto scaturire la revoca del titolo stesso.
Né può essere condivisa la tesi della difesa del Comune relativa al fatto che il provvedimento impugnato, (pur disponendo la “revoca” del permesso di costruire) avrebbe, in realtà, inteso “esprimere il concetto dell’inutilizzabilità del titolo edilizio -ottenuto per la demolizione e ricostruzione solo parziale dell’immobile- al fine di operare un intervento interamente sostitutivo”.
Come già ricordato e come osservato anche dalla ricorrente, la successiva realizzazione di opere in difformità da quanto autorizzato non può, in verità incidere sulla legittimità del titolo originario, ma solo comportare l’eventuale applicazione delle sanzioni previste dal DPR n. 380/2001 (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 13.12.2012 n. 1340 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I gazebo non proprio precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico.
Ancora, i gazebo non proprio precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico (cfr. Cons. Stato, V, 01.12.2003, n. 7822) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.12.2012 n. 6382 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nel caso di previsioni inequivoche della lex specialis non si può far ricorso al meccanismo della integrazione documentale o dei chiarimenti di cui all'art. 46 del d.lgs. 12.04., n. 163.
Il ricorso al meccanismo della integrazione documentale o dei chiarimenti di cui all'art. 46 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici), anche in base alla costante interpretazione datane dalla giurisprudenza, non può essere utilizzato dalle stazioni appaltanti, pena la violazione del principio della par condicio competitorum, per colmare eventuali carenze documentali o inadempienze dei concorrenti nei casi in cui, come nel caso di specie, si è in presenza di previsioni della lex specialis dalla portata inequivoca rimaste inadempiute (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.12.2012 n. 6373 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

LAVORI PUBBLICIIl Collegio è ben a conoscenza del costante orientamento giurisprudenziale secondo cui le soluzioni progettuali diverse rispetto alle indicazioni del preliminare debbono essere evidenziate in modo tale da consentire anzitutto l'espressione di un giudizio di puntuale, quanto dimostrabile, di rispondenza funzionale del progetto definitivo e, poi, di miglioramento dello stesso rispetto a parametri chiari, certi e significativi.
Al fine di valutare tale conformità delle varianti proposte debbono essere considerate le indicazioni della progettazione preliminare, posto che “la previsione esplicita della possibilità di presentare varianti progettuali in sede di offerta è oggi generalizzata dall'art. 76 del codice degli appalti per qualsivoglia appalto, come derivante dalle direttive comunitarie 2004/17 e 2004/18; detta norma demanda all'Amministrazione di indicare nel bando se le varianti sono ammesse e quali sono i "requisiti minimi" ai quali attenersi; la possibilità di proporre variazioni migliorative significa che il progetto proposto dalla stazione appaltante può subire modifiche, purché non si alterino i caratteri essenziali (i cd. "requisiti minimi") delle prestazioni richieste dalla "lex specialis" per non ledere la "par condicio"”.
Pertanto, debbono considerarsi “ammissibili le varianti migliorative riguardanti le modalità esecutive dell'opera o del servizio, purché non si traducano in una diversa ideazione dell'oggetto del contratto, che si ponga come del tutto alternativo rispetto a quello voluto dall'amministrazione appaltante; è stato poi ritenuto essenziale che la proposta tecnica sia migliorativa rispetto al progetto proposto, che l'offerente dia contezza delle ragioni che giustificano l'adattamento proposto e le variazioni alle singole prescrizioni progettuali, che si dia la prova che la variante garantisca l'efficienza del progetto e le esigenze della pubblica amministrazione sottese alla prescrizione variante; è stato infine evidenziato che sussiste un ampio margine di discrezionalità della commissione giudicatrice nel valutare le varianti migliorative”.

Invero, il Collegio è ben a conoscenza del costante orientamento giurisprudenziale secondo cui le soluzioni progettuali diverse rispetto alle indicazioni del preliminare debbono essere evidenziate in modo tale da consentire anzitutto l'espressione di un giudizio di puntuale, quanto dimostrabile, di rispondenza funzionale del progetto definitivo e, poi, di miglioramento dello stesso rispetto a parametri chiari, certi e significativi (Cons. Stato Sez. IV, Sent., 07.09.2010, n. 6485).
Al fine di valutare tale conformità delle varianti proposte debbono essere considerate le indicazioni della progettazione preliminare, posto che “la previsione esplicita della possibilità di presentare varianti progettuali in sede di offerta è oggi generalizzata dall'art. 76 del codice degli appalti per qualsivoglia appalto, come derivante dalle direttive comunitarie 2004/17 e 2004/18; detta norma demanda all'Amministrazione di indicare nel bando se le varianti sono ammesse e quali sono i "requisiti minimi" ai quali attenersi; la possibilità di proporre variazioni migliorative significa che il progetto proposto dalla stazione appaltante può subire modifiche, purché non si alterino i caratteri essenziali (i cd. "requisiti minimi") delle prestazioni richieste dalla "lex specialis" per non ledere la "par condicio"” (così Cons. Stato Sez. V, Sent., 17.09.2012, n. 4916).
Pertanto, debbono considerarsi “ammissibili le varianti migliorative riguardanti le modalità esecutive dell'opera o del servizio, purché non si traducano in una diversa ideazione dell'oggetto del contratto, che si ponga come del tutto alternativo rispetto a quello voluto dall'amministrazione appaltante; è stato poi ritenuto essenziale che la proposta tecnica sia migliorativa rispetto al progetto proposto, che l'offerente dia contezza delle ragioni che giustificano l'adattamento proposto e le variazioni alle singole prescrizioni progettuali, che si dia la prova che la variante garantisca l'efficienza del progetto e le esigenze della pubblica amministrazione sottese alla prescrizione variante; è stato infine evidenziato che sussiste un ampio margine di discrezionalità della commissione giudicatrice nel valutare le varianti migliorative (C.d.S., sez. V, 19.02.2003, n. 923; 09.02.2001, n. 578; sez. IV, 02.04.1997, n. 309)” (così Cons. Stato Sez. V, 10.09.2012, n. 4772) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 10.12.2012 n. 1929 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe convenzioni di lottizzazione di cui alla L. 06/08/1967 n. 765 non costituiscono atti di pianificazione generale bensì strumenti urbanistici di tipo attuativo del P.R.G., rivestendo la natura degli accordi sostitutivi del provvedimento disciplinati dall'art. 11 della L. 07/08/1990 n. 241, il cui comma 5 prevede che le relative controversie rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche se afferiscono alla fase esecutiva del rapporto.
E’ noto che, come ormai riconosciuto dalla giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione, le convenzioni di lottizzazione di cui alla L. 06/08/1967 n. 765 non costituiscono atti di pianificazione generale bensì strumenti urbanistici di tipo attuativo del P.R.G., rivestendo la natura degli accordi sostitutivi del provvedimento disciplinati dall'art. 11 della L. 07/08/1990 n. 241, il cui comma 5 prevede che le relative controversie rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche se afferiscono alla fase esecutiva del rapporto (Cfr. Corte di Cassazione, Sezioni unite civili – 15/12/2000 n. 1262; 11/12/2001 n. 15641; 07/02/2002 n. 1763; TAR Toscana, sez. I – 18/01/2005 n. 153) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 10.12.2012 n. 1925 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Mediante il raggruppamento, le singole imprese assumono il mero impegno (reciproco) di costituirsi in associazione nel caso di aggiudicazione della gara per l’esecuzione dell’appalto, senza l’insorgenza di ulteriori e specifici obblighi (nella specie riferibili alla messa a disposizione di mezzi tecnici e/o finanziari) esorbitanti l’assunzione delle responsabilità di cui sopra.
Ne deriva che l’impresa che intenda avvalersi dei requisiti di un’altra, deve necessariamente darne atto in sede di presentazione dell’offerta, e ciò in quanto l’Amministrazione deve poter verificare ab initio la sussistenza in capo ad ogni partecipante dei requisiti richiesti dal bando.
Né può ritenersi che l’Amministrazione sia obbligatoriamente chiamata ad effettuare indagini ulteriori rispetto alla verifica dei contenuti esplicitati nelle domande presentate, al fine specifico di accertare se i requisiti di cui la singola impresa risulti carente siano rinvenibili in altro soggetto del raggruppamento.
Oltre a non essere previsti dalla normativa di settore, infatti, tali indagini risulterebbero comunque inconducenti in quanto, come già precisato, mediante il raggruppamento le singole imprese assumono il mero impegno di costituirsi in associazione nel caso di aggiudicazione della gara ai fini della esecuzione dell’appalto, e non di certo l’obbligo di mettere a disposizione di altri soggetti i propri mezzi tecnici e/o finanziari.
Di qui la necessità che l’impresa manifesti espressamente la volontà di avvalersi dei requisiti di un’altra già in sede di presentazione dell’offerta.
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La costituzione di un raggruppamento in funzione dell’aggiudicazione di un appalto non presuppone per le partecipanti obblighi ulteriori rispetto all’impegno di costituirsi in associazione e eseguire le opere secondo le percentuali rispettivamente assunte.
Ne consegue che l’estensione e l’ampliamento, solo eventuale, degli obblighi intercorrenti tra le imprese del costituendo R.T.I., deve avvenire con apposito atto formale che consenta all’impresa ausiliata di esigere la messa a disposizione del requisito di cui è carente, facoltà che in base al mero vincolo associativo invece non avrebbe.
La costituzione di un raggruppamento in funzione dell’aggiudicazione di un appalto, infatti, non presuppone per le partecipanti obblighi ulteriori rispetto all’impegno di costituirsi in associazione e eseguire le opere secondo le percentuali rispettivamente assunte.
Ne consegue che l’estensione e l’ampliamento, solo eventuale, degli obblighi intercorrenti tra le imprese del costituendo R.T.I., deve avvenire con apposito atto formale che consenta all’impresa ausiliata di esigere la messa a disposizione del requisito di cui è carente, facoltà che in base al mero vincolo associativo invece non avrebbe.

Quanto al primo profilo, il Comune sostiene che l’istituto opererebbe ex se, a prescindere da un’apposita dichiarazione o manifestazione di volontà, dovendosi privilegiare l’aspetto sostanziale del rapporto, ovvero l’effettiva disponibilità del requisito da parte della società ausiliata. Assume, pertanto, che la mera partecipazione di Sima Impianti s.r.l. al raggruppamento rendeva immediatamente apprezzabile la possibilità dell’avvalimento in capo a Monfenera. Inoltre, la sussistenza di un vincolo associativo tra le due, derivante dalla partecipazione al medesimo raggruppamento, rendeva ininfluente ogni formalizzazione, dovendosi desumere la disponibilità del requisito in ragione della mera sussistenza del vincolo associativo.
L’assunto non è condivisibile .
Ed invero, pur non essendo nella specie applicabili ratione temporis gli obblighi formali richiesti dal sopravvenuto art. 49 del D.lgs. n. 163/2006, ciò non di meno resta escluso che l’istituto possa operare automaticamente, per la semplice sussistenza di un vincolo associativo scaturente dall’A.T.I.
Infatti, mediante il raggruppamento, le singole imprese assumono il mero impegno (reciproco) di costituirsi in associazione nel caso di aggiudicazione della gara per l’esecuzione dell’appalto, senza l’insorgenza di ulteriori e specifici obblighi (nella specie riferibili alla messa a disposizione di mezzi tecnici e/o finanziari) esorbitanti l’assunzione delle responsabilità di cui sopra.
Ne deriva che l’impresa che intenda avvalersi dei requisiti di un’altra, deve necessariamente darne atto in sede di presentazione dell’offerta, e ciò in quanto l’Amministrazione deve poter verificare ab initio la sussistenza in capo ad ogni partecipante dei requisiti richiesti dal bando.
Né può ritenersi che l’Amministrazione sia obbligatoriamente chiamata ad effettuare indagini ulteriori rispetto alla verifica dei contenuti esplicitati nelle domande presentate, al fine specifico di accertare se i requisiti di cui la singola impresa risulti carente siano rinvenibili in altro soggetto del raggruppamento.
Oltre a non essere previsti dalla normativa di settore, infatti, tali indagini risulterebbero comunque inconducenti in quanto, come già precisato, mediante il raggruppamento le singole imprese assumono il mero impegno di costituirsi in associazione nel caso di aggiudicazione della gara ai fini della esecuzione dell’appalto, e non di certo l’obbligo di mettere a disposizione di altri soggetti i propri mezzi tecnici e/o finanziari.
Di qui la necessità che l’impresa manifesti espressamente la volontà di avvalersi dei requisiti di un’altra già in sede di presentazione dell’offerta.
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Quanto al secondo profilo, il Comune sostiene che non sarebbe stata necessaria alcuna formalizzazione dell’avvalimento, dovendosi attribuire prevalenza al dato sostanziale dell’effettiva disponibilità del requisito in capo a Monfenera, in forza del vincolo associativo esistente con Sima Impianti.
L’assunto non può essere condiviso per le ragioni sopra già esposte
La costituzione di un raggruppamento in funzione dell’aggiudicazione di un appalto, infatti, non presuppone per le partecipanti obblighi ulteriori rispetto all’impegno di costituirsi in associazione e eseguire le opere secondo le percentuali rispettivamente assunte.
Ne consegue che l’estensione e l’ampliamento, solo eventuale, degli obblighi intercorrenti tra le imprese del costituendo R.T.I., deve avvenire con apposito atto formale che consenta all’impresa ausiliata di esigere la messa a disposizione del requisito di cui è carente, facoltà che in base al mero vincolo associativo invece non avrebbe.
Nella specie, tale necessaria formalizzazione è assente, atteso che l’ausiliaria (Sima Impianti srl) si è limitata a sottoscrivere per adesione le controdeduzioni formulate dall’ausiliata (Monfenera) nel corso del procedimento e nulla più.
E tale atto, all’evidenza, non è sufficiente a garantire alla capogruppo ed all’Amministrazione l’effettiva disponibilità del requisito, non determinando l’insorgenza di alcun ulteriore e specifico vincolo tra le società.
Correttamente, quindi, il primo giudice ha rilevato l’omessa adeguata formalizzazione dell’avvalimento, come autonoma causa ostativa all’operatività dell’istituto.
Del resto, l’art. 47 della Direttiva 2004/18/CE, riferibile al regime previgente all’entrata in vigore del Codice dei contratti, dispone che “un operatore economico può, se del caso e per un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi. In tal caso deve dimostrare all’amministrazione aggiudicatrice che disporrà dei mezzi necessari, ad esempio mediante presentazione dell’impegno a tal fine di questi soggetti
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.12.2012 n. 6257 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: a) il ricorso alla trattativa privata (procedura negoziata), nel micro ordinamento di settore (nazionale comunitario), è vicenda assolutamente eccezionale perché lesiva dei valori fondamentali (costituzionali e internazionali) della libertà di impresa, del libero mercato, della trasparenza, della imparzialità dell’azione amministrativa e della buona amministrazione;
b) le disposizioni che consentono il ricorso a tale procedura di affidamento di appalti (e quelle assimilabili: ad es. varianti, atti aggiuntivi ecc.), devono essere interpretate restrittivamente, introducendo ipotesi tassative che costituiscono momento patologico del rapporto contrattuale risolvendosi in affidamenti diretti senza le garanzie delle procedura competitiva;
c) i presupposti applicativi di tale straordinaria procedura devono essere dimostrati in modo rigoroso dalla stazione appaltante e dall’impresa beneficiaria;
d) la portata dell’obbligo di motivazione si declina, coerentemente, nel senso che è la scelta della p.a. di procedere a trattativa che và adeguatamente motivata in ordine alla sussistenza dei presupposti specifici legali che di volta in volta la giustificano, mentre, qualora l’amministrazione si orienti per la procedura competitiva, non occorre addurre alcuna giustificazione, rientrando ciò nelle normali opzioni che l’ordinamento considera di per sé preferibili, anche quando si verifichino in astratto i presupposti per aggiudicare l’affare mediante procedura negoziata;
e) la stazione appaltante, anche in extremis, se rileva che la stipula comporta la violazione di norme imperative deve immediatamente interrompere la trattativa privata avviata e annullare gli atti della procedura fin lì posta in essere; l’ordinamento, invero, esige il ritorno alla legalità, anche attraverso l’esercizio dei poteri di autotutela da parte dell’amministrazione, mentre non prende in considerazione favorevole -sotto il profilo di possibili pretese risarcitorie- la posizione di coloro che, coinvolti nella trattativa privata o nella gara finalizzate alla stipula del contratto che si rilevi contra legem, abbiano consapevolmente e colposamente aderito all’iniziativa illegittima dell’amministrazione: in tali casi non è configurabile una ipotesi di responsabilità precontrattuale derivante da mancata stipula del contratto con la conseguente impossibilità di accogliere la domanda di risarcimento del danno.

In diritto è sufficiente osservare (sulla scorta di consolidati principi giurisprudenziali, cfr. Corte giust. CE, sez. II, 02.10.2008, n. C-157/06; grande sezione, 08.04.2008, n. C-337/05; Cons. St., sez. V, 02.11.2011, n. 5837; sez. VI, 03.02.2011, n. 780; sez. V, 24.04.2009, n. 2600; sez. IV, 10.06.2004, n. 3721), che:
a) il ricorso alla trattativa privata (procedura negoziata), nel micro ordinamento di settore (nazionale comunitario), è vicenda assolutamente eccezionale perché lesiva dei valori fondamentali (costituzionali e internazionali) della libertà di impresa, del libero mercato, della trasparenza, della imparzialità dell’azione amministrativa e della buona amministrazione;
b) le disposizioni che consentono il ricorso a tale procedura di affidamento di appalti (e quelle assimilabili: ad es. varianti, atti aggiuntivi ecc.), devono essere interpretate restrittivamente, introducendo ipotesi tassative che costituiscono momento patologico del rapporto contrattuale risolvendosi in affidamenti diretti senza le garanzie delle procedura competitiva;
c) i presupposti applicativi di tale straordinaria procedura devono essere dimostrati in modo rigoroso dalla stazione appaltante e dall’impresa beneficiaria;
d) la portata dell’obbligo di motivazione si declina, coerentemente, nel senso che è la scelta della p.a. di procedere a trattativa che và adeguatamente motivata in ordine alla sussistenza dei presupposti specifici legali che di volta in volta la giustificano, mentre, qualora l’amministrazione si orienti per la procedura competitiva, non occorre addurre alcuna giustificazione, rientrando ciò nelle normali opzioni che l’ordinamento considera di per sé preferibili, anche quando si verifichino in astratto i presupposti per aggiudicare l’affare mediante procedura negoziata;
e) la stazione appaltante, anche in extremis, se rileva che la stipula comporta la violazione di norme imperative deve immediatamente interrompere la trattativa privata avviata e annullare gli atti della procedura fin lì posta in essere; l’ordinamento, invero, esige il ritorno alla legalità, anche attraverso l’esercizio dei poteri di autotutela da parte dell’amministrazione, mentre non prende in considerazione favorevole -sotto il profilo di possibili pretese risarcitorie- la posizione di coloro che, coinvolti nella trattativa privata o nella gara finalizzate alla stipula del contratto che si rilevi contra legem, abbiano consapevolmente e colposamente aderito all’iniziativa illegittima dell’amministrazione: in tali casi non è configurabile una ipotesi di responsabilità precontrattuale derivante da mancata stipula del contratto con la conseguente impossibilità di accogliere la domanda di risarcimento del danno (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.12.2012 n. 6256 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAnche dopo la modifica apportata all'art. 83, comma 4, d.lgs. n. 163 cit., deve ritenersi legittimo l'operato della Commissione giudicatrice che, prima della apertura delle buste, specifica in subcriteri i punteggi da assegnare con i criteri principali prefissati dal bando ovvero integra questi ultimi ovvero fissa gli opportuni e adeguati criteri per la modulazione del punteggio da assegnare ad ogni singolo elemento nei limiti del punteggio massimo stabilito nei documenti di gara, peraltro sempre con l'unico, fondamentale ed imprescindibile limite costituito dal divieto di introdurre nuovi e diversi parametri di valutazione.
Come affermato nella sentenza del Cons. Stato Sez. V, 03.07.2012, n. 3888, esiste un consolidato ed indiscusso principio che vieta la modifica (ivi compresa l’integrazione) dei criteri di valutazione delle offerte da parte della commissione giudicatrice.
Infatti, si legge nella sentenza Cons. Stato Sez. III, 23.12.2011, n. 6804, “anche dopo la modifica apportata all'art. 83, comma 4, d.lgs. n. 163 cit., deve ritenersi legittimo l'operato della Commissione giudicatrice che, prima della apertura delle buste, specifica in subcriteri i punteggi da assegnare con i criteri principali prefissati dal bando ovvero integra questi ultimi ovvero fissa gli opportuni e adeguati criteri per la modulazione del punteggio da assegnare ad ogni singolo elemento nei limiti del punteggio massimo stabilito nei documenti di gara, peraltro sempre con l'unico, fondamentale ed imprescindibile limite costituito dal divieto di introdurre nuovi e diversi parametri di valutazione" (in tal senso Cons. St. VI, 17.05.2010, n. 3052 e V, 15.02.2010, n.810).
Nel caso di specie la lex specialis prevedeva, quale criterio di attribuzione del punteggio, la valutazione della lunghezza del periodo di manutenzione. L’ulteriore previsione di valorizzare anche le modalità della manutenzione non pare configurarsi né come specificazione, né come integrazione del criterio individuato, ma assume le vesti, al contrario, di un inammissibile, diverso criterio di valutazione (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 06.12.2012 n. 1884 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla segnalazione all'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici e sulla comunicazione di avvio del procedimento di iscrizione di dati nel casellario informatico.
La segnalazione all'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici va fatta dalle stazioni appaltanti non solo nel caso di riscontrato difetto dei requisiti di ordine speciale in sede di controllo a campione, ma anche in caso di riscontrato difetto dei requisiti di ordine generale.
La soluzione a cui è pervenuta in via esegetica la giurisprudenza amministrativa, in applicazione dell'art. 27, d.P.R. n. 34/2000, trova conferma nel nuovo regolamento di esecuzione del codice dei contratti pubblici, che, nell'indicare i dati da iscrivere nel casellario informatico, sia per le imprese qualificate con il sistema SOA, sia per le altre imprese, menziona i provvedimenti di esclusione dalle gare, ai sensi delle vigenti d.P.R. n. 207/2010. Pertanto, la segnalazione da parte della stazione appaltante e la iscrizione nel casellario informatico erano, nel caso di specie, legittime, anche se l'esclusione era avvenuta per difetto di un requisito generale.
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L'avvio del procedimento di iscrizione di dati nel casellario informatico presso l'Autorità deve essere notiziato all'interessato, anche quando la trasmissione di atti al casellario, da parte delle stazioni appaltanti, è dovuta in adempimento di disposizioni di legge, attese le conseguenze rilevanti che derivano da tale iscrizione e l'indubbio interesse del soggetto all'esattezza delle iscrizioni. Piuttosto, in alcuni casi, si può ritenere che vi siano equipollenti dell'autonomo avviso di avvio del procedimento. Così, quanto ai provvedimenti di esclusione, posto che la loro comunicazione dalla stazione appaltante all'Osservatorio è dovuta per legge, senza margini di opinabilità o apprezzamento, si può ritenere che la comunicazione del provvedimento di esclusione al concorrente costituisca anche equipollente dell'avviso di avvio del procedimento di iscrizione nel casellario informatico, che consegue ex lege. In termini più generali, quando la legge prescrive in via automatica la segnalazione di determinati dati all'Osservatorio, senza alcuna possibilità di valutazione discrezionale in ordine al se della comunicazione e al contenuto della stessa, si possono, come regola generale, individuare equipollenti dell'avviso di avvio del procedimento di iscrizione.
Diverso discorso va svolto per dati la cui comunicazione non è automatica e dovuta, ma frutto di valutazioni da parte della stazione appaltante, su dati opinabili: ad es. nel caso di segnalazione di episodi di grave negligenza o grave inadempimento, e nel caso di false dichiarazioni. Infatti in tali casi la stazione appaltante, per effettuare la segnalazione, deve valutare se vi è o meno grave negligenza, grave inadempimento, falsità della dichiarazione. Sicché, l'interessato non può sapere ex ante se e quando tale valutazione verrà svolta in senso affermativo, e se vi sarà o meno segnalazione all'Osservatorio. Pertanto, dell'avvio del procedimento di iscrizione nel casellario va dato avviso all'interessato, salvo a individuare caso per caso equipollenti idonei allo scopo (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.12.2012 n. 6210 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione dell'istanza di condono successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse; e ciò in quanto il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, ex se comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, dal momento che, in caso di diniego del richiesto accertamento di conformità, l'Amministrazione comunale dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi.
Questa Sezione ha più volte chiarito che la presentazione dell'istanza di condono successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione, produce l'effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse; e ciò in quanto il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, ex se comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, dal momento che, in caso di diniego del richiesto accertamento di conformità, l'Amministrazione comunale dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi (Cfr. fra le più recenti, Consiglio di Stato, sez. IV, 16.04.2012, n. 2185; 16.09.2011, n. 5228) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.11.2012 n. 6097 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Vanno configurati come conformativi i vincoli che incidono su di una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione dell’intera zona in cui i beni medesimi ricadono in dipendenza delle sue caratteristiche intrinseche, ovvero del rapporto -per lo più spaziale- con un’opera pubblica; viceversa, si configurano quali vincoli preordinati all’espropriazione, ovvero aventi carattere sostanzialmente espropriativo, quelli segnatamente incidenti su beni determinati ed imposti in funzione non già di una generale destinazione di zona ma ai fini della localizzazione di un'opera pubblica, ovvero tali da implicare uno svuotamento incisivo della proprietà.
In tale contesto la giurisprudenza riconosce invero natura conformativa –con la conseguenza dell’inapplicabilità in tale evenienza dell’istituto della decadenza di cui all’art. 2 della L. 1187 del 1968 e, ora, dell’art. 9 del T.U. 327 del 2001- alle destinazioni a “parco urbano”, “verde pubblico”, “verde urbano” o “verde attrezzato”, posto che, usualmente, tale destinazione non impedisce ogni possibilità di utilizzazione dei terreni da parte dei proprietari.
Ciò, peraltro, avviene allorquando le previsioni dello strumento urbanistico lasciano ferma la possibilità di realizzare, anche su iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, attrezzature per il gioco dei bambini o per lo svago, chioschi ed altri simili strutture.
Se viceversa, la disciplina delle N.T.A. consente di eseguire tali interventi ad esclusiva iniziativa pubblica il vincolo non può che rivestire la configurazione espropriativa.

Come è ben noto, in conformità ai criteri individuati da Corte Cost., 20.05.1999 n. 179, vanno configurati come conformativi i vincoli che incidono su di una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione dell’intera zona in cui i beni medesimi ricadono in dipendenza delle sue caratteristiche intrinseche, ovvero del rapporto -per lo più spaziale- con un’opera pubblica; viceversa, si configurano quali vincoli preordinati all’espropriazione, ovvero aventi carattere sostanzialmente espropriativo, quelli segnatamente incidenti su beni determinati ed imposti in funzione non già di una generale destinazione di zona ma ai fini della localizzazione di un'opera pubblica, ovvero tali da implicare uno svuotamento incisivo della proprietà (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 23.09.2008 n. 4606).
In tale contesto la giurisprudenza riconosce invero natura conformativa –con la conseguenza dell’inapplicabilità in tale evenienza dell’istituto della decadenza di cui all’art. 2 della L. 1187 del 1968 e, ora, dell’art. 9 del T.U. 327 del 2001- alle destinazioni a “parco urbano”, “verde pubblico”, “verde urbano” o “verde attrezzato” (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sezione IV, 19.01.2012 n. 243), posto che, usualmente, tale destinazione non impedisce ogni possibilità di utilizzazione dei terreni da parte dei proprietari.
Ciò, peraltro, avviene allorquando le previsioni dello strumento urbanistico lasciano ferma la possibilità di realizzare, anche su iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, attrezzature per il gioco dei bambini o per lo svago, chioschi ed altri simili strutture.
Se viceversa, la disciplina delle N.T.A. consente di eseguire tali interventi ad esclusiva iniziativa pubblica il vincolo non può che rivestire la configurazione espropriativa (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.11.2012 n. 6094 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria per opere ricadenti in zone sottoposte a vincolo, previsto dall'art. 32 della citata legge n. 47 del 1985, l'esistenza del vincolo stesso va valutata al momento in cui deve essere presa in considerazione la domanda di condono, a prescindere dall'epoca della sua introduzione e, quindi, anche per le opere eseguite anteriormente all'apposizione del vincolo in questione.
Infatti, la disposizione di portata generale di cui all'art. 32, comma 1, relativa ai vincoli che appongono limiti all'edificazione, non reca alcuna deroga ai principi generali sull'azione amministrativa, sempre improntati all'art. 97 Cost.. Pertanto essa deve essere interpretata nel senso che l'obbligo di pronuncia da parte dell'autorità preposta alla tutela sussiste in relazione alla esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, rimanendo irrilevante il tempo in cui il vincolo è stato introdotto. Tale valutazione corrisponde all’esigenza di vagliare l'attuale compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente.

Come ha affermato più volte la Sezione, in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria per opere ricadenti in zone sottoposte a vincolo, previsto dall'art. 32 della citata legge n. 47 del 1985, l'esistenza del vincolo stesso va valutata al momento in cui deve essere presa in considerazione la domanda di condono, a prescindere dall'epoca della sua introduzione e, quindi, anche per le opere eseguite anteriormente all'apposizione del vincolo in questione (cfr., per tutte, 30.06.2010, n. 4178; 04.05.2012 n. 2576; 18.09.2012, n. 4945).
Infatti, la disposizione di portata generale di cui all'art. 32, comma 1, relativa ai vincoli che appongono limiti all'edificazione, non reca alcuna deroga ai principi generali sull'azione amministrativa, sempre improntati all'art. 97 Cost.. Pertanto essa deve essere interpretata nel senso che l'obbligo di pronuncia da parte dell'autorità preposta alla tutela sussiste in relazione alla esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, rimanendo irrilevante il tempo in cui il vincolo è stato introdotto. Tale valutazione corrisponde all’esigenza di vagliare l'attuale compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 22.07.1999 n. 20).
Su questi presupposti, nel caso di specie, il parere negativo era adeguatamente motivato e dunque legittimo, in quanto costituisce sufficiente motivazione del diniego di sanatoria di opere realizzate in zone vincolate l'indicazione delle ragioni assunte a fondamento della valutazione di compatibilità dell'intervento edilizio con le esigenze di tutela paesistica poste a base del relativo vincolo; in tal senso anche una motivazione scarna e sintetica, laddove rilevi gli estremi logici dell'incompatibilità, va considerata soddisfacente (cfr. Cons. Stato, Sez. IV 30.06.2005, n. 3542; Id. Sez. IV, 18.09.2012, n. 4945) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.11.2012 n. 6082 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAL'impugnazione “deve pur sempre ancorarsi a specifici vizi ravvisati con riferimento alle determinazioni adottate dall’Amministrazione in ordine al regime dei suoli in proprietà del ricorrente, e non può fondarsi sul generico interesse a una migliore pianificazione del proprio suolo, che in quanto tale non si differenzia dall’eguale interesse che quisque de populo potrebbe nutrire”, sicché “l’utilità comunque rappresentata dal possibile vantaggio che astrattamente il ricorrente potrebbe ottenere per effetto della riedizione dell’attività amministrativa non è ex se indicativa della titolarità di una posizione di interesse giuridicamente qualificata e differenziata, idonea a legittimare la tutela giurisdizionale”.
In particolare, nella sentenza n. 133/2011, in relazione ad un vizio procedimentale (l’individuazione dell’autorità competente al rilascio del parere V.A.S.) il Consiglio di Stato ha rilevato che, per riconoscere la sussistenza dell’interesse a ricorrere, occorreva che fosse dimostrato se e in quale misura le doglianze relative alla fase di V.A.S. incidessero sul “regime” riservato ai suoli di sua proprietà (ossia se <<le “determinazioni lesive” fondanti l’interesse a ricorrere siano effettivamente “condizionate”, ossia causalmente riconducibili in modo decisivo, alle preliminari conclusioni raggiunte in sede di V.A.S.>>).

Il Collegio è chiamato, in via preliminare, a verificare la sussistenza dell’interesse al ricorso in relazione a tale motivo, con il quale vengono dedotti vizi di legittimità della procedura di formazione dell’atto tali da implicarne, ove accolti, l’integrale annullamento.
Infatti, occorre rilevare che, secondo un meno recente orientamento, si riteneva che:
- l’interesse all’impugnazione di un piano urbanistico non è riferibile esclusivamente all’immediato vantaggio conseguibile sul piano della destinazione urbanistica dell’area di proprietà del ricorrente per effetto dell’annullamento in parte qua dell’atto impugnato, potendosi fondare ricorso anche sul vantaggio indiretto ed eventuale ipotizzabile a seguito della rinnovazione della procedura conseguente all’annullamento dell’intero atto di pianificazione urbanistica.
- in simile prospettiva si considerava sufficiente a fondare un interesse a ricorrere avverso un atto di pianificazione urbanistica anche il solo interesse strumentale all’annullamento in vista dei possibili ed auspicati vantaggi desumibili dal rinnovo della procedura (cfr. Cons. St., Sez. V, 15.11.2001 n. 5839).
Peraltro, più recentemente si è venuto consolidando presso il Consiglio di Stato, un più restrittivo orientamento secondo il quale:
- in tema di procedure di pianificazione urbanistica, dove “non paiono direttamente trasferibili le ricostruzioni sulla natura dell’interesse strumentale svolte nell’ambito delle questioni riguardanti gli atti di una procedura concorsuale o selettiva. Si tratta di situazioni profondamente differenti, in quanto, in queste ultime fattispecie, il ricorrente mira al perseguimento di un’utilità (aggiudicazione dell’appalto o posizionamento utile in graduatoria) che l’Amministrazione ha attribuito ad altro soggetto o ad altri soggetti specificamente individuati, nell’ambito di una procedura competitiva la cui ripetizione è ex se suscettibile di formare oggetto di un interesse giuridicamente qualificato e differenziato, mentre tali considerazioni non possono estendersi alle pianificazione urbanistica che, nel caso in specie, potrebbe anche non essere ripetuta” (cfr. Cons. St., Sez. IV, 12.10.2010 n. 7439 e 13.07.2010, n. 4542);
- l’impugnazione “deve pur sempre ancorarsi a specifici vizi ravvisati con riferimento alle determinazioni adottate dall’Amministrazione in ordine al regime dei suoli in proprietà del ricorrente, e non può fondarsi sul generico interesse a una migliore pianificazione del proprio suolo, che in quanto tale non si differenzia dall’eguale interesse che quisque de populo potrebbe nutrire”, sicché “l’utilità comunque rappresentata dal possibile vantaggio che astrattamente il ricorrente potrebbe ottenere per effetto della riedizione dell’attività amministrativa non è ex se indicativa della titolarità di una posizione di interesse giuridicamente qualificata e differenziata, idonea a legittimare la tutela giurisdizionale” (cfr. Sez. IV 12.01.2011 n. 133 e precedenti ivi richiamati).
In particolare, nella cit. sentenza n. 133 del 2011, in relazione ad un vizio procedimentale (l’individuazione dell’autorità competente al rilascio del parere V.A.S.) il Consiglio di Stato ha rilevato che, per riconoscere la sussistenza dell’interesse a ricorrere, occorreva che fosse dimostrato se e in quale misura le doglianze relative alla fase di V.A.S. incidessero sul “regime” riservato ai suoli di sua proprietà (ossia se <<le “determinazioni lesive” fondanti l’interesse a ricorrere siano effettivamente “condizionate”, ossia causalmente riconducibili in modo decisivo, alle preliminari conclusioni raggiunte in sede di V.A.S.>>)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.11.2012 n. 1859 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte di pianificazione urbanistica appartengono alla sfera degli apprezzamenti di merito dell'Amministrazione. La valutazione dell'idoneità delle aree a soddisfare, con riferimento alle possibili destinazioni, specifici interessi urbanistici, rientra nei limiti dell'esercizio del potere discrezionale dell'Amministrazione, non sindacabile neppure sotto il profilo di eccesso di potere, a meno che non siano riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità.
Ne deriva che, in ordine a tali scelte, non sono ipotizzabili censure di disparità di trattamento basate sulla comparazione con la destinazione impressa ad immobili adiacenti, dovendo tali scelte obbedire solo al superiore criterio di razionalità nella definizione delle linee dell'assetto territoriale, nell'interesse pubblico alla sicurezza delle persone e dell'ambiente, e non anche ai criteri di proporzionalità distributiva degli oneri e dei vincoli.
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Le osservazioni presentate in occasione dell'adozione di un nuovo strumento di pianificazione del territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento di formazione dello strumento medesimo.
Conseguentemente in capo all'Amministrazione a ciò competente non sussiste un obbligo puntuale di motivazione -oltre a quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano stesso- in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione delle singole aree, tranne i casi di affidamenti qualificati scaturenti da convenzioni urbanistiche già sottoscritte, di superamento degli standards minimi di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444, di giudicato conseguente ad annullamento di un diniego di rilascio di un titolo edilizio o di un silenzio rifiuto su una domanda di concessione, ovvero di sopravvenuta inedificabilità di un'area non ancora edificata e interclusa da altre aree legittimamente edificate.

Deve ricordarsi come, secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato, le scelte di pianificazione urbanistica appartengono alla sfera degli apprezzamenti di merito dell'Amministrazione. La valutazione dell'idoneità delle aree a soddisfare, con riferimento alle possibili destinazioni, specifici interessi urbanistici, rientra nei limiti dell'esercizio del potere discrezionale dell'Amministrazione, non sindacabile neppure sotto il profilo di eccesso di potere, a meno che non siano riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità.
Ne deriva che, in ordine a tali scelte, non sono ipotizzabili censure di disparità di trattamento basate sulla comparazione con la destinazione impressa ad immobili adiacenti, dovendo tali scelte obbedire solo al superiore criterio di razionalità nella definizione delle linee dell'assetto territoriale, nell'interesse pubblico alla sicurezza delle persone e dell'ambiente, e non anche ai criteri di proporzionalità distributiva degli oneri e dei vincoli (cfr., relativamente ad impugnazioni volte a contestare, in chiave comparativa, una ingiustificata diversità delle destinazioni di zona, Cons. Stato, III, 17.09.2010, n. 2536; IV, 21.04.2010, n. 2264; 18.06.2009, n. 4024; 07.07.2008, n. 3358, TAR Lombardia sez. II, 06.02.2009 n. 1158).
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Secondo pacifico orientamento giurisprudenziale (cfr. da ultimo Cons. St.. Sez. IV, 11.09.2012 n. 4806) le osservazioni presentate in occasione dell'adozione di un nuovo strumento di pianificazione del territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento di formazione dello strumento medesimo.
Conseguentemente in capo all'Amministrazione a ciò competente non sussiste un obbligo puntuale di motivazione -oltre a quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano stesso- in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione delle singole aree, tranne i casi di affidamenti qualificati scaturenti da convenzioni urbanistiche già sottoscritte, di superamento degli standards minimi di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444, di giudicato conseguente ad annullamento di un diniego di rilascio di un titolo edilizio o di un silenzio rifiuto su una domanda di concessione, ovvero di sopravvenuta inedificabilità di un'area non ancora edificata e interclusa da altre aree legittimamente edificate
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.11.2012 n. 1859 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell'articolo 1, n. 3 e 4 della legge 29.06.1939 n. 1497, come poi trasfuso del testo unico n. 490 del 1999 e nel codice n. 42 del 2004, le determinazioni dell'amministrazione in tema di delimitazione dei confini di una zona da sottoporre a vincolo paesaggistico quale bellezza di insieme costituisce tipica espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile in sede di giudizio di legittimità solo sotto il profilo della manifesta arbitrarietà ed illogicità della scelta operata.
E’ del tutto evidente che il principio in questione trovi applicazione (per palese identità di ratio) anche nelle ipotesi in cui le valutazioni tecnico-discrezionali non siano state operate nella fase –per così dire– ‘genetica’ dell’apposizione del vincolo, bensì nella fase –per così dire– ‘funzionale’ della sua concreta gestione (al cui ambito deve essere ricondotta la richiesta di riduzione del vincolo all’origine dei fatti di causa).
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L'avvenuta edificazione di un'area o le sue condizioni di degrado non costituiscono ragione sufficiente per recedere dall'intento di proteggere i valori estetici o paesaggistici ad essa legati, poiché l'imposizione del vincolo costituisce il presupposto per l'imposizione al proprietario delle cautele e delle opere necessarie alla conservazione del bene e per la cessazione degli usi incompatibili con la conservazione dell'integrità dello stesso.
Siccome la qualificazione di rilevanza paesaggistico-ambientale di un sito non è determinata dal suo grado di degrado o di inquinamento -ché, allora, in tutti i casi di degrado ambientale sarebbe preclusa ogni ulteriore protezione del paesaggio riconosciuto meritevole di tutela- ne consegue che l’imposizione (o il mantenimento) del relativo vincolo –ovvero l’emanazione di atti preclusivi di ulteriori modifiche dello stato dei luoghi- serve piuttosto a prevenire l’aggravamento della situazione ed a perseguirne il possibile recupero.

Ora, sotto il profilo generale, il Collegio ritiene che la vicenda di causa debba essere esaminata facendo applicazione del principio (dal quale non si rinvengono ragioni per discostarsi) secondo cui, ai sensi dell'articolo 1, n. 3 e 4 della legge 29.06.1939 n. 1497, come poi trasfuso del testo unico n. 490 del 1999 e nel codice n. 42 del 2004, le determinazioni dell'amministrazione in tema di delimitazione dei confini di una zona da sottoporre a vincolo paesaggistico quale bellezza di insieme costituisce tipica espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile in sede di giudizio di legittimità solo sotto il profilo della manifesta arbitrarietà ed illogicità della scelta operata (in tal senso: Cons. Stato, IV, 20.03.2006, n. 1470).
E’ del tutto evidente che il principio in questione trovi applicazione (per palese identità di ratio) anche nelle ipotesi in cui le valutazioni tecnico-discrezionali non siano state operate nella fase –per così dire– ‘genetica’ dell’apposizione del vincolo, bensì nella fase –per così dire– ‘funzionale’ della sua concreta gestione (al cui ambito deve essere ricondotta la richiesta di riduzione del vincolo all’origine dei fatti di causa).
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Quanto al terzo aspetto, il Collegio ritiene di richiamare il consolidato (e qui condiviso) orientamento, già sopra richiamato, secondo cui l'avvenuta edificazione di un'area o le sue condizioni di degrado non costituiscono ragione sufficiente per recedere dall'intento di proteggere i valori estetici o paesaggistici ad essa legati, poiché l'imposizione del vincolo costituisce il presupposto per l'imposizione al proprietario delle cautele e delle opere necessarie alla conservazione del bene e per la cessazione degli usi incompatibili con la conservazione dell'integrità dello stesso (cfr. Cons. Stato, VI, 11.06.2012, n. 3401).
Si è condivisibilmente osservato al riguardo che, siccome la qualificazione di rilevanza paesaggistico-ambientale di un sito non è determinata dal suo grado di degrado o di inquinamento -ché, allora, in tutti i casi di degrado ambientale sarebbe preclusa ogni ulteriore protezione del paesaggio riconosciuto meritevole di tutela- ne consegue che l’imposizione (o il mantenimento) del relativo vincolo –ovvero l’emanazione di atti preclusivi di ulteriori modifiche dello stato dei luoghi- serve piuttosto a prevenire l’aggravamento della situazione ed a perseguirne il possibile recupero (Cons. Stato, VI, 27.04.2010, n. 2377)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.11.2012 n. 5989 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La funzione dell’autorizzazione di cui all’art. 146 d.lgs. n. 42 del 2004 (è) quella di verificare la compatibilità dell’opera che si intende realizzare con l’esigenza di conservazione dei valori protetti dal vincolo.
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L'annullamento dell'autorizzazione paesistica disposto in sede ministeriale ex art. 159 d.lgs. n. 42 del 2004, non è soggetto all'obbligo di comunicazione preventiva del "preavviso" di rigetto ex art. 10-bis, legge n. 241/1990, come introdotto dalla legge 11.02.2005, n. 11, in quanto costituisce esercizio, entro un termine decadenziale, di un potere che integra una fase ulteriore, di secondo grado, del medesimo procedimento svolto, in prima battuta, davanti all’Amministrazione comunale.
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Il procedimento di cogestione del vincolo da parte della Soprintendenza è connotato da particolare celerità e l'adempimento procedimentale di cui all'art. 10-bis citato è in contraddizione con la logica di tale sub procedimento, dai tempi stretti e perentori. Per effetto dell’adempimento stesso, il termine già breve dato alla Soprintendenza per il controllo di legittimità ad essa demandato verrebbe ulteriormente ridotto, vanificandone la celerità in danno dello stesso interessato, dato che la comunicazione interrompe il termine per la conclusione del procedimento.
La legge prevede il preavviso solo "nei procedimenti ad istanza di parte" e non trova applicazione per questa sequenza di secondo grado che è avviata d'ufficio e che, pur configurando un secondo tratto di un'unica vicenda amministrativa di cogestione del vincolo, segue la cesura procedimentale del già avvenuto rilascio del provvedimento di base che conclude la fase ad istanza di parte (mentre la fase soprintendentizia concreta una sequenza officiosa, avviata con la trasmissione degli atti da parte del Comune).

In particolare, come esattamente rileva la motivazione del provvedimento impugnato in primo grado, “la funzione dell’autorizzazione di cui all’art. 146 d.lgs. n. 42 del 2004 (è) quella di verificare la compatibilità dell’opera che si intende realizzare con l’esigenza di conservazione dei valori protetti dal vincolo”.
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L'annullamento dell'autorizzazione paesistica disposto in sede ministeriale ex art. 159 d.lgs. n. 42 del 2004, non è infatti soggetto all'obbligo di comunicazione preventiva del "preavviso" di rigetto ex art. 10-bis, legge n. 241 citata, come introdotto dalla legge 11.02.2005, n. 11, in quanto costituisce esercizio, entro un termine decadenziale, di un potere che integra una fase ulteriore, di secondo grado, del medesimo procedimento svolto, in prima battuta, davanti all’Amministrazione comunale.
Come ha già rilevato questo Consiglio di Stato (sez. VI, 20.12.2011, n. 6275), il procedimento di cogestione del vincolo da parte della Soprintendenza è connotato da particolare celerità e l'adempimento procedimentale di cui all'art. 10-bis citato è in contraddizione con la logica di tale sub procedimento, dai tempi stretti e perentori. Per effetto dell’adempimento stesso, il termine già breve dato alla Soprintendenza per il controllo di legittimità ad essa demandato verrebbe ulteriormente ridotto, vanificandone la celerità in danno dello stesso interessato, dato che la comunicazione interrompe il termine per la conclusione del procedimento. La legge prevede il preavviso solo "nei procedimenti ad istanza di parte" e non trova applicazione per questa sequenza di secondo grado che è avviata d'ufficio e che, pur configurando un secondo tratto di un'unica vicenda amministrativa di cogestione del vincolo, segue la cesura procedimentale del già avvenuto rilascio del provvedimento di base che conclude la fase ad istanza di parte (mentre la fase soprintendentizia concreta una sequenza officiosa, avviata con la trasmissione degli atti da parte del Comune)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.11.2012 n. 5977 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quei volumi destinati esclusivamente agli impianti necessari per l’utilizzo dell’abitazione e che non possono essere ubicati al suo interno -nel caso di specie impianti di areazione e termo–idrici, l’impianto dell’ascensore e del montacarichi- devono essere considerati volumi tecnici, quindi non computabili nella volumetria generale, a differenza di quanto si deve affermare per le soffitte, gli stenditoi e i locali di sgombero o le mansarde dotate di rilevante altezza media rispetto al piano di gronda.
Inoltre la rilevanza urbanistica deve essere rinvenuta nell’altezza interna, nella praticabilità del solaio, nelle modalità di accesso e nell’esistenza o meno di finestre, con la conseguenza, ad esempio, che un locale sottotetto con vani distinti e comunicanti con il piano sottostante con una scala interna deve essere ritenuto abitabile e dunque computabile ai fini della volumetria.

Il Collegio ritiene che il sottotetto non sia da considerarsi rilevante, viste le sue caratteristiche, che non sono contestate, e tenendo conto delle affermazioni espresse dalla giurisprudenza.
Quei volumi destinati esclusivamente agli impianti necessari per l’utilizzo dell’abitazione e che non possono essere ubicati al suo interno -nel caso di specie impianti di areazione e termo–idrici, l’impianto dell’ascensore e del montacarichi- devono essere considerati volumi tecnici, quindi non computabili nella volumetria generale, a differenza di quanto si deve affermare per le soffitte, gli stenditoi e i locali di sgombero o le mansarde dotate di rilevante altezza media rispetto al piano di gronda (Cons. Stato, V, 04.03.2008 n. 918).
Inoltre la rilevanza urbanistica, ha ancora affermato la giurisprudenza, deve essere rinvenuta nell’altezza interna, nella praticabilità del solaio, nelle modalità di accesso e nell’esistenza o meno di finestre (Cons. Stato, IV, 30.05.2005 n. 2767), con la conseguenza, ad esempio, che un locale sottotetto con vani distinti e comunicanti con il piano sottostante con una scala interna deve essere ritenuto abitabile e dunque computabile ai fini della volumetria (Cons. Stato,V, 31.01.2006 n. 354).
Nel caso di specie il sottotetto è privo di scale ed anche di finestre o di luci, né l’ipotetica abusiva futura realizzazione di scale, come affermato nella sentenza impugnata, può essere utile per quanto meno delineare la concretezza di un peso urbanistico (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.11.2012 n. 5965 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio ritiene di condividere l’orientamento maggioritario che esclude la regola pretoria della "sanatoria giurisprudenziale".
E, infatti, nel senso di una rigorosa applicazione del canone della doppia conformità militano argomenti interpretativi sia di carattere letterale che logico-sistematico.
L'art. 36, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 espressamente stabilisce che, "in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire , o in difformità da esso, fino alla scadenza dei termini di cui agli artt. 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda".
Il tenore letterale della norma è inequivoco nel riferire il requisito della conformità urbanistico-edilizia dell'opera abusiva "sia" al momento della sua realizzazione "sia" al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Orbene, a fronte di siffatto dettato normativo, non appare condivisibile l'approccio ermeneutico elaborato dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 2835/2009 secondo il quale il canone della doppia conformità sarebbe preordinato a garantire il richiedente dalla possibile variazione in peius della disciplina urbanistico-edilizia, a seguito di adozione di strumenti che riducano o escludano il diritto di edificare sussistente al momento dell'istanza, mentre non potrebbe ritenersi diretto a disciplinare l'ipotesi inversa dello ius superveniens favorevole, rispetto al momento ultimativo della proposizione dell'istanza.
E, infatti, una simile interpretazione abroga l'inciso "sia al momento della realizzazione dello stesso" (e cioè dell'immobile abusivo), mentre il legislatore, con l'espressione "sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda", ha inteso chiaramente individuare l'intero arco temporale lungo il quale si è protratto l'abuso edilizio commesso, senza che il relativo responsabile si sia attivato per regolarizzarlo.
Il Collegio evidenzia inoltre che l'istituto dell'accertamento di conformità è stato introdotto, nell'ambito di una revisione complessiva del regime sanzionatorio degli illeciti edilizi, orientata nel senso di una maggiore severità, con l'intento di consentire la sanatoria dei soli abusi meramente formali, cioè di quelle costruzioni per le quali, sussistendo ogni altro requisito di legge e regolamento, manchi solo il necessario titolo abilitativo. Tale interpretazione è vieppiù rafforzata dalla considerazione che alla sanabilità degli abusi sostanziali è dedicato il diverso istituto del condono edilizio nei limiti, in specie temporali, in cui quest'ultimo sia applicabile alla fattispecie concreta considerata.
Tanto premesso, se si accedesse alla tesi prospettata dall’Amministrazione resistente e dal controinteressati, ne conseguirebbe l'introduzione nell'ordinamento di una sorta di condono atipico, affrancato dai richiamati limiti temporali, condono mediante il quale il responsabile di un abuso sostanziale potrebbe trovarsi a beneficiare degli effetti indirettamente sananti di un più favorevole ius superveniens, anziché di un'apposita disciplina legislativa condonistica.
Alla luce delle suesposte considerazioni il Collegio ritiene, quindi, che l'art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, in quanto norma circoscritta alle ipotesi di abusi meramente formali e derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è suscettibile né di applicazione analogica né di un'interpretazione riduttiva, secondo la quale, in evidente contrasto col suo tenore letterale, per assentire la sanatoria sarebbe sufficiente la conformità delle opere con lo strumento urbanistico vigente all'epoca in cui sia proposta l'istanza di accertamento. A contrario, stante l'evidenziata portata speciale e derogatoria della norma in esame, la sanabilità da essa prevista postula sempre la conformità urbanistico-edilizia dell'intervento sine titulo alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione sia alla data della presentazione della domanda.
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Non appare condivisibile l'argomento secondo il quale bisognerebbe accogliere l'istanza di sanatoria per tutti quei manufatti che potrebbero essere realizzati sulla base della disciplina urbanistica vigente al momento della proposizione della predetta istanza, sebbene non conformi alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione, al fine di evitare uno spreco di attività inutili, sia dell'amministrazione sia del privato.
Ad avviso del Collegio, infatti, merita di essere condiviso quell'orientamento della giurisprudenza secondo il quale il punto di equilibrio fra efficienza e legalità, è stato individuato dal legislatore nel consentire la sanatoria dei cosiddetti abusi formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio vigente sia al momento dell'istanza di sanatoria, che all'epoca della loro realizzazione.

Il Collegio ritiene di non aderire alla tesi sostenuta dal’Amministrazione resistente e dal controinteressato, sebbene pregevolmente argomentata e supportata da un autorevole orientamento giurisprudenziale (cfr. Cons. Stato, VI, 06.02.2003, n. 592; Cons. Stato, VI, 12.11.2008, n. 5646; Cons. Stato, VI, 07.05.2009, n. 2835), e di condividere, invece, l’orientamento maggioritario che esclude la regola pretoria della "sanatoria giurisprudenziale" (cfr. Cons. Stato, IV, 26.04.2006, n. 2306; Cons. Stato, 17.09.2007, n. 4838; Cons. Stato, V, 25.02.2009, n. 1126; Cons. Stato, IV, 02.11.2009, n. 6784; TAR Veneto, II, 22.11.2010, n. 6091; TAR Sicilia, Catania, I, 09.01.2009, n. 5; TAR Campania, Napoli, VIII, 10.09.2010, n. 17398).
E, infatti, nel senso di una rigorosa applicazione del canone della doppia conformità militano argomenti interpretativi sia di carattere letterale che logico-sistematico.
L'art. 36, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 espressamente stabilisce che, "in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire , o in difformità da esso, fino alla scadenza dei termini di cui agli artt. 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda".
Il tenore letterale della norma è inequivoco nel riferire il requisito della conformità urbanistico-edilizia dell'opera abusiva "sia" al momento della sua realizzazione "sia" al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Orbene, a fronte di siffatto dettato normativo, non appare condivisibile l'approccio ermeneutico elaborato dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 2835/2009 secondo il quale il canone della doppia conformità sarebbe preordinato a garantire il richiedente dalla possibile variazione in peius della disciplina urbanistico-edilizia, a seguito di adozione di strumenti che riducano o escludano il diritto di edificare sussistente al momento dell'istanza, mentre non potrebbe ritenersi diretto a disciplinare l'ipotesi inversa dello ius superveniens favorevole, rispetto al momento ultimativo della proposizione dell'istanza.
E, infatti, una simile interpretazione abroga l'inciso "sia al momento della realizzazione dello stesso" (e cioè dell'immobile abusivo), mentre il legislatore, con l'espressione "sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda", ha inteso chiaramente individuare l'intero arco temporale lungo il quale si è protratto l'abuso edilizio commesso, senza che il relativo responsabile si sia attivato per regolarizzarlo.
Il Collegio evidenzia inoltre che l'istituto dell'accertamento di conformità è stato introdotto, nell'ambito di una revisione complessiva del regime sanzionatorio degli illeciti edilizi, orientata nel senso di una maggiore severità, con l'intento di consentire la sanatoria dei soli abusi meramente formali, cioè di quelle costruzioni per le quali, sussistendo ogni altro requisito di legge e regolamento, manchi solo il necessario titolo abilitativo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 29.05.2006, n. 3267). Tale interpretazione è vieppiù rafforzata dalla considerazione che alla sanabilità degli abusi sostanziali è dedicato il diverso istituto del condono edilizio nei limiti, in specie temporali, in cui quest'ultimo sia applicabile alla fattispecie concreta considerata.
Tanto premesso, se si accedesse alla tesi prospettata dall’Amministrazione resistente e dal controinteressati, ne conseguirebbe l'introduzione nell'ordinamento di una sorta di condono atipico, affrancato dai richiamati limiti temporali, condono mediante il quale il responsabile di un abuso sostanziale potrebbe trovarsi a beneficiare degli effetti indirettamente sananti di un più favorevole ius superveniens, anziché di un'apposita disciplina legislativa condonistica (cfr. in termini TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 10.9.2010, n. 17398).
Alla luce delle suesposte considerazioni il Collegio ritiene, quindi, che l'art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, in quanto norma circoscritta alle ipotesi di abusi meramente formali e derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è suscettibile né di applicazione analogica né di un'interpretazione riduttiva, secondo la quale, in evidente contrasto col suo tenore letterale, per assentire la sanatoria sarebbe sufficiente la conformità delle opere con lo strumento urbanistico vigente all'epoca in cui sia proposta l'istanza di accertamento. A contrario, stante l'evidenziata portata speciale e derogatoria della norma in esame, la sanabilità da essa prevista postula sempre la conformità urbanistico-edilizia dell'intervento sine titulo alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione sia alla data della presentazione della domanda (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838; Cons. Stato, sez. IV, 02.11.2009, n. 6784).
Né, infine, appare condivisibile l'argomento secondo il quale bisognerebbe accogliere l'istanza di sanatoria per tutti quei manufatti che potrebbero essere realizzati sulla base della disciplina urbanistica vigente al momento della proposizione della predetta istanza, sebbene non conformi alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione, al fine di evitare uno spreco di attività inutili, sia dell'amministrazione sia del privato.
Ad avviso del Collegio, infatti, merita di essere condiviso quell'orientamento della giurisprudenza secondo il quale il punto di equilibrio fra efficienza e legalità, è stato individuato dal legislatore nel consentire la sanatoria dei cosiddetti abusi formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio vigente sia al momento dell'istanza di sanatoria, che all'epoca della loro realizzazione (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 10.09.2010, n. 17398; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09.01.2009, n. 5) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 26.11.2012 n. 4796 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di difformità totale.
L'espressione «organismo edilizio» indica sia una sola unità immobiliare, sia una pluralità di porzioni volumetriche e la difformità totale può riconnettersi sia alla costruzione di un corpo autonomo, sia all'effettuazione di modificazioni con opere anche soltanto interne tali da comportare un intervento che abbia rilevanza urbanistica in quanto incidente sull’assetto del territorio attraverso l'aumento del c.d. «carico urbanistico». Difformità totale può aversi, inoltre, anche nel caso di mutamento della destinazione d'uso di un immobile o di parte di esso, realizzato attraverso opere implicanti una totale modificazione rispetto al previsto.
Inoltre, il riferimento alla «autonoma utilizzabilità» non impone che il corpo difforme sia fisicamente separato dall'organismo edilizio complessivamente autorizzato, ma ben può riguardare anche opere realizzate con una difformità quantitativa tale da acquistare una sostanziale autonomia rispetto al progetto approvato.
Dunque, la difformità totale si verifica allorché si costruisca «aliud pro alio» quando, cioè, i lavori eseguiti tendano a realizzare opere non rientranti tra quelle consentite, che abbiano una loro autonomia e novità, oltre che sul piano costruttivo, anche su quello della valutazione economico-sociale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.11.2012 n. 45821 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Tettoia a copertura di un terrazzo.
Va esclusa la natura di pertinenza della tettoia di copertura di un terrazzo in quanto priva del requisito della individualità fisica e strutturale propria, appunto, della pertinenza e costituendo tale manufatto parte integrante dell'edificio sul quale viene realizzato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.11.2012 n. 45819 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza di demolizione costituisce un provvedimento dovuto e rigorosamente vincolato in quanto volto a sanzionare opere costruite senza il prescritto titolo edilizio, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario sicché non abbisogna della preliminare comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge 241/1990.
Presupposto per l’adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
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In sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive su area vincolata non è necessario acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia vigente e non costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio. Ed ancora, in sede di emanazione di ordinanza di demolizione delle opere edilizie abusive su area vincolata non è necessario acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia vigente ... e in quanto non vi è alcun obbligo di far luogo ad accertamenti di danni ambientali, ovvero di applicazione di sanzioni pecuniarie alternative.
A seguito dell'entrata in vigore della l. 28.01.1977 n. 10, la quale ha previsto la vincolante obbligatorietà dell'ordine di demolizione degli edifici abusivi, non è più necessaria l'acquisizione del parere della Commissione edilizia comunale ai sensi dell'art. 32, comma 3, l. 17.08.1942 n. 1150, il quale era giustificato, nel previgente ordinamento, appunto dalla natura discrezionale di detto ordine.

In ordine al terzo motivo di ricorso, non merita positiva delibazione la doglianza con la quale viene sollevata l’illegittimità del provvedimento per la mancata comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge 241/1990, giacché l’ordinanza in questione costituisce un provvedimento dovuto e rigorosamente vincolato in quanto volto a sanzionare opere costruite senza il prescritto titolo edilizio, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario, tanto più che l’interessato non ha rappresentato neppure in sede di ricorso, argomentazioni idonee a determinare un diverso esito del procedimento (si veda, tra le molte, TAR Liguria, Genova, sez. I, 08.06.2009 n. 11289).
Parimenti infondata è la censura di carenza di motivazione (quarto motivo) sotto l’ulteriore profilo dell’interesse pubblico alla demolizione. Come costantemente affermato dalla giurisprudenza di questo Tribunale che questo Collegio condivide “…presupposto per l’adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi” (fra molte, TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 1999).
Va pure respinta la censura di violazione dell’art. 82 della legge 616/1997 e della legge regionale 10/1982, articolata con il terzo motivo di doglianza, con la quale il ricorrente ha censurato la mancata acquisizione del parere della Commissione Edilizia Integrata.
Infatti, come costantemente ribadito in giurisprudenza, “... in sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive su area vincolata non è necessario acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia vigente e non costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio” (così, da ultimo, TAR Liguria, Genova, sez. I, 21.09.2011, n. 1393, nello stesso senso vedi pure TAR Campania, Napoli, sez. VI, 05.03.2012, secondo cui “…in sede di emanazione di ordinanza di demolizione delle opere edilizie abusive su area vincolata non è necessario acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia vigente ... e in quanto non vi è alcun obbligo di far luogo ad accertamenti di danni ambientali, ovvero di applicazione di sanzioni pecuniarie alternative”).
Va infine respinta la censura di violazione dell’art. 32 della legge 1150/1942 e dell’art. 15 della legge 10/1977, articolata con il sesto motivo di doglianza, con la quale il ricorrente ha censurato la mancata acquisizione del parere della Commissione Edilizia Comunale.
Infatti, a seguito dell'entrata in vigore della l. 28.01.1977 n. 10, la quale ha previsto la vincolante obbligatorietà dell'ordine di demolizione degli edifici abusivi, non è più necessaria l'acquisizione del parere della Commissione edilizia comunale ai sensi dell'art. 32, comma 3, l. 17.08.1942 n. 1150, il quale era giustificato, nel previgente ordinamento, appunto dalla natura discrezionale di detto ordine (cfr., TAR Campania Napoli, sez. VI, 24.09.2009, n. 5071 e sez. III, 05.06.2008, n. 5255, TAR Lazio Roma, sez. II, 11.09.2009, n. 8644) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 22.11.2012 n. 4735 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le strutture alberghiere in generale devono essere annoverate tra gli "edifici ed impianti … di interesse pubblico" e, quindi, essere ricomprese nell'ambito di applicazione dell'art. 14 del DPR 06.06.2001 n. 380 (permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali) "trattandosi di un servizio offerto alla collettività, caratterizzato da una pubblica fruibilità, con la correlativa possibilità di concessioni in deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici in vigore".
Nel caso in cui il territorio interessato possieda una spiccata vocazione turistica, la riconduzione all'interesse pubblico dell'edificio alberghiero non concerne affatto un'interpretazione estensiva perché le strutture alberghiere offrono un servizio alla collettività che è caratterizzato da una pubblica fruibilità e che soddisfa un'importante e rilevante esigenza della collettività.

In linea generale si deve ricordare che l'art. 14 del DPR 06.06.2001 n. 380 prevede testualmente che "Il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali è rilasciato esclusivamente per edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico, previa deliberazione del consiglio comunale, nel rispetto comunque delle disposizioni contenute nel decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, e delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia".
Al riguardo la Sezione ha da tempo affrontato, e risolto, la più generale questione dell'applicazione della predetta deroga, affermando in particolare che le strutture alberghiere in generale devono essere annoverate tra gli "edifici ed impianti … di interesse pubblico" e quindi essere ricomprese nell'ambito di applicazione dell'anzidetta previsione "trattandosi di un servizio offerto alla collettività, caratterizzato da una pubblica fruibilità, con la correlativa possibilità di concessioni in deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici in vigore" (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 29.10.2002 n. 5913; Consiglio Stato, sez. IV, 28.10.1999, n. 1641).
Nel caso in cui il territorio interessato possieda una spiccata vocazione turistica, la riconduzione all'interesse pubblico dell'edificio alberghiero non concerne affatto un'interpretazione estensiva perché le strutture alberghiere offrono un servizio alla collettività che è caratterizzato da una pubblica fruibilità e che soddisfa un'importante e rilevante esigenza della collettività.
In definitiva del tutto legittimamente l’Amministrazione Comunale ha ritenuto possibile inserire le strutture alberghiere, tra gli edifici ed impianti pubblici di interesse pubblico che danno titolo alla possibilità di rilasciare il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali ex art. 14 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.11.2012 n. 5904 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ordinanze contingibili e urgenti. Vana l'ordinanza del sindaco senza pericoli gravi per l'incolumità o l'ordine pubblico.
Illegittima, per difetto dei presupposti previsti dagli artt. 50 e 54, D.Lgs. n. 267/2000, un'ordinanza contingibile e urgente con la quale il Sindaco ha ingiunto la rimozione di una sbarra di impedimento di transito installata su un'area privata, asseritamente di uso pubblico, nel caso in cui il provvedimento extra ordinem sia sostanzialmente diretto a evitare la limitazione dell'uso pubblico, senza alcuna prospettazione in merito alla sussistenza di pericoli gravi per l'ordine pubblico ovvero per la pubblica incolumità.
Il deducente ha impugnato l’ordinanza con cui il Sindaco del Comune di residenza aveva lui ingiunto l’immediata rimozione di una sbarra di impedimento al traffico posizionata dallo stesso su una strada ritenuta di proprietà privata e non di uso pubblico.
Segnatamente, ha esposto di aver collocato il contestato paletto per impedire ai proprietari confinanti di usufruire sine titulo del passaggio sul proprio appezzamento.
Insorto avverso la predetta ordinanza, il ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione degli artt. 50 e 54, T.U.E.L. a cagione dell’inesistenza dei presupposi ex lege previsti per l’adozione del menzionato provvedimento sindacale.
In particolare, ha precisato non solo la circostanza per cui la strada interessata non era destinata all’uso pubblico, ma anche -e soprattutto- che la confinante avrebbe potuto raggiungere la propria masseria attraverso l’esistente strada comunale.
Parallelamente, ha spiegato domanda risarcitoria al fine di conseguire il ristoro dei danni derivati dalla mancata, libera tutela della proprietà privata.
La civica P.A., da par sua, ha opposto che l’impugnata ordinanza sindacale era stata adottata sulla base del motivo per cui lo sbarramento realizzato dal ricorrente aveva determinato la limitazione dell’esercizio di una via pubblica, rispetto alla quale la rimozione di detta limitazione avrebbe rivestito “carattere di urgenza e indifferibilità".
Il TAR de l’Aquila, in primis, ha evidenziato che il contestato provvedimento era stato adottato sulla base di una presunta limitazione dell’esercizio pubblico di un bene demaniale, senza alcuna ulteriore prospettazione di pericoli gravi per l’ordine pubblico ovvero per la pubblica incolumità che, invero, l’impugnata ordinanza contingibile e urgente avrebbe dovuto scongiurare.
Dunque, a opinione del giudicante, è risultata palese l’incongruità dello strumento adottato rispetto allo scopo che esplicitamente il provvedimento intendeva perseguire.
In realtà, ha precisato che, in linea di principio, l’ordinanza contingibile e urgente costituisce strumento extra ordinem utilizzabile, nei casi previsti dalla legge e resi espliciti dal testo motivazionale del provvedimento, ove non sia possibile ottenere lo stesso effetto con gli altri mezzi a disposizione dell’ordinamento.
Orbene, avuto riguardo alla vicenda, il TAR abruzzese ha rilevato che, ove la strada fosse stata effettivamente di uso pubblico, il Comune avrebbe potuto utilizzare gli strumenti propri dell’autotutela possessoria, nel rispetto delle garanzie procedimentali e delle competenze ordinarie e non il diverso strumento dell’ordinanza contingibile e urgente in assenza di pericoli gravi all’ordine e alla sicurezza pubblici.
Sicché, ha concluso ritenendo che proprio la circostanza per cui la strada era di uso pubblico, avrebbe consentito interventi più puntuali e non “eccentrici” per la tutela dell’interesse alla sua pubblica fruizione.
Né siffatta motivazione avrebbe potuto recuperarsi ex post dall’assunto opposto dalla P.A. in corso di causa, secondo cui l’interruzione del passaggio di quel tratto di strada, destinato al pubblico uso e liberamente transitabile dalla collettività, avrebbe rappresentato un pericolo grave che minacciava l’incolumità dei cittadini, limitando il transito ai mezzi di pubblica sicurezza, di pronto intervento e di chiunque avesse voluto esercitare un servizio per la collettività.
In realtà, il Collegio ha osservato che l’esame dello stato dei luoghi ha rivelato che la strada in questione era accessibile e utilizzabile unicamente dai proprietari dei fondi interessati dal tracciato, circostanza, quest’ultima, che ha fatto retrocedere la controversia a questione meramente civilistica.
Alla stregua di siffatte considerazioni, il TAR de l’Aquila ha dichiarato l’assoluta inutilizzabilità dello strumento extra ordinem per ottenere l’effetto inteso e, così, l’illegittimità dell’emanata ordinanza.
Al contempo, ha respinto la domanda risarcitoria formulata dal ricorrente in quanto ritenuta priva di idonea allegazione e prova circa i danni asseritamente patiti per effetto dell’impugnato provvedimento demolitorio (comemnto tratto da www.ispoa.it - TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 20.11.2012 n. 789 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In sede di risarcimento del danno derivante da procedimento amministrativo illegittimo, il privato danneggiato può limitarsi ad invocare l’illegittimità dell’atto quale indice presuntivo della colpa, perché resta ognora a carico dell’Amministrazione l’onere di dimostrare che si è trattato di un errore scusabile derivante da contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma o dalla complessità dei fatti, ovvero ancora dal comportamento delle parti del procedimento.
Quanto al profilo (generale) dell’ascrizione della colpa, è agevole osservare, in consonanza con la prevalente giurisprudenza di questo Consiglio, che, in sede di risarcimento del danno derivante da procedimento amministrativo illegittimo, il privato danneggiato può limitarsi ad invocare l’illegittimità dell’atto quale indice presuntivo della colpa, perché resta ognora a carico dell’Amministrazione l’onere di dimostrare che si è trattato di un errore scusabile derivante da contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma o dalla complessità dei fatti, ovvero ancora dal comportamento delle parti del procedimento (cfr. tra le tante sez. V, n. 4527 del 2009 e n. 3815 del 2011) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.11.2012 n. 5761 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La procedura di cui all’art. 5 del DPR 447/1998 (norma che nella Regione Lombardia è integrata dall’art. 97 della legge regionale 12/2005 sul governo del territorio), è volta a favorire, in maniera semplificata, l’insediamento o la riorganizzazione di attività produttive, da intendersi in senso ampio, per cui nelle stesse sono comprese anche quelle agricole, commerciali, artigiane, turistiche, alberghiere e finanziarie; in pratica pressoché tutte le attività d’impresa di cui all’art. 2082 del codice civile.
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La perentorietà del termine di 60 giorni (ex art. 5, comma 2, del DPR 447/1998) non solo non è prevista espressamente dalla norma, ma neppure sembra rispondere ai principi dell’ordinamento, in forza dei quali (cfr. l’art. 2 della legge 241/1990), i termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi sono di regola ordinatori, soprattutto allorché si tratta di complessi procedimenti che vedono la partecipazione di una pluralità di soggetti, a garanzia del contemperamento di tutti gli interessi, pubblici o privati, coinvolti.

La procedura di cui all’art. 5 del DPR 447/1998 (norma che nella Regione Lombardia è integrata dall’art. 97 della legge regionale 12/2005 sul governo del territorio), è volta a favorire, in maniera semplificata, l’insediamento o la riorganizzazione di attività produttive, da intendersi in senso ampio, per cui nelle stesse sono comprese anche quelle agricole, commerciali (come nel caso di specie, trattandosi dell’insediamento di un ristorante con l’insegna “McDrive”), artigiane, turistiche, alberghiere e finanziarie; in pratica pressoché tutte le attività d’impresa di cui all’art. 2082 del codice civile (cfr. art. 1, comma 1-bis del DPR 447/1998; in giurisprudenza si veda TAR Puglia, Lecce, sez. I, 24.03.2005, n. 1601, che ha ammesso la legittimità della variante di cui è causa, anche se nella zona esistono impianti produttivi preesistenti dello stesso genere o di genere diverso, con evidente favore per l’applicazione del menzionato art. 5).
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Nel quarto mezzo è denunciata in primo luogo la presunta violazione dell’art. 5, comma 2, del DPR 447/1998, in quanto il Consiglio Comunale non si è pronunciato sulla proposta di variante risultante dalla Conferenza di Servizi entro il termine previsto dalla citata disposizione normativa (sessanta giorni), termine che i ricorrenti asseriscono essere perentorio.
La doglianza non merita condivisione, in quanto la perentorietà del citato termine di sessanta giorni non solo non è prevista espressamente dalla norma, ma neppure sembra rispondere ai principi dell’ordinamento, in forza dei quali (cfr. l’art. 2 della legge 241/1990), i termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi sono di regola ordinatori, soprattutto allorché si tratta di complessi procedimenti che vedono la partecipazione di una pluralità di soggetti, a garanzia del contemperamento di tutti gli interessi, pubblici o privati, coinvolti (si consenta di rinviare, sul punto, alle sentenze del Consiglio di Stato, sez. IV, 12.06.2012, n. 2264 e del TAR Lombardia, Milano, sez. I, 13.06.2012, n. 1633 e sez. II, 20.12.2010, n. 7614)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.11.2012 n. 2750 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Tornare a tempo pieno è un diritto soggettivo del dipendente pubblico.
Con sentenza 14.11.2012 il TRIBUNALE di Bergamo ha condannato il Sindaco pro-tempore di un comune bergamasco:
1) a disporre l'immediata trasformazione del rapporto di lavoro del dipendente S.A. da tempo parziale a tempo pieno;
2) a corrispondere allo stesso dipendente la differenza fra il trattamento economico contrattuale a tempo pieno e quello a tempo parziale, dal 01.01.2011 sino alla data della sentenza, oltre interessi e rivalutazione;
3) al rimborso delle spese di lite liquidate in complessivi 1.550 euro oltre gli accessori di legge.

EDILIZIA PRIVATA: Secondo un preciso orientamento la legittimazione ad impugnare va riconosciuta ai proprietari di fondi confinanti con l’area interessata ad un intervento edilizio in ragione della semplice “vicinitas”, trovandosi, il terzo in una situazione di stabile collegamento con la zona interessata dall’edificazione, senza che sia necessario dimostrare ulteriormente la sussistenza di un interesse qualificato alla tutela giurisdizionale, giacchè tale situazione vale a differenziare una posizione di interesse qualificato rispetto al “quisque de populo”.
Questo arresto giurisprudenziale è stato per il vero più volte integrato e temperato da statuizioni che mettono la vicinitas in più stretta correlazione con la legitimatio ad causam intesa come l’interesse ad agire affermandosi che la legittimazione attiva sussiste ogni qual volta in il progettato intervento urbansitico-edilizio pur concernente un’area non di appartenenza del ricorrente, incida negativamente sul bene di proprietà o in godimento del vicino sì da comprometterne la fruizione o il valore.
Così, si è detto, occorre che dall’approvazione e dall’esecuzione delle scelte urbanistiche derivi al ricorrente un pregiudizio certo e concreto in relazione ai molteplici aspetti e ai vari interessi costitutivi della sua sfera giuridica.
In tali sensi, questa Sezione pur non obliterando il principio della “vicinitas” tout court, ha avuto cura di sottolineare, ai fini del radicamento delle condizioni legittimanti l’azione, la necessità che per i vicini si verifichi uno specifico vulnus alla loro sfera giuridica sub specie della sussistenza di un detrimento economico-patrimoniale comunque derivante per il bene.

La problematica relativa alla legittimazione dei vicini ad impugnare atti riguardanti il regime urbanistico-edilizio di aree confinanti è stata ed è tuttora oggetto di ampio dibattito giurisprudenziale, sulla quale si è più volte soffermata significativamente anche la giurisprudenza di questa Sezione.
Secondo un preciso orientamento la legittimazione ad impugnare va riconosciuta ai proprietari di fondi confinanti con l’area interessata ad un intervento edilizio in ragione della semplice “vicinitas”, trovandosi, il terzo in una situazione di stabile collegamento con la zona interessata dall’edificazione, senza che sia necessario dimostrare ulteriormente la sussistenza di un interesse qualificato alla tutela giurisdizionale, giacchè tale situazione vale a differenziare una posizione di interesse qualificato rispetto al “quisque de populo” (Cons. Stato Sez. VI 26.07.2001 n. 4123; idem 15.06.2010 n. 3744; Cons. Stato Sez. V 07.05.2008 n. 2086; Cons. Stato Sez. IV 17.09.2012 n. 4926; idem 30.11.2009 n. 7491; 16.03.2010 n. 1535; 20.05.2004 n. 3263).
Questo arresto giurisprudenziale è stato per il vero più volte integrato e temperato da statuizioni che mettono la vicinitas in più stretta correlazione con la legitimatio ad causam intesa come l’interesse ad agire affermandosi che la legittimazione attiva sussiste ogni qual volta in il progettato intervento urbansitico-edilizio pur concernente un’area non di appartenenza del ricorrente, incida negativamente sul bene di proprietà o in godimento del vicino sì da comprometterne la fruizione o il valore.
Così, si è detto, occorre che dall’approvazione e dall’esecuzione delle scelte urbanistiche derivi al ricorrente un pregiudizio certo e concreto in relazione ai molteplici aspetti e ai vari interessi costitutivi della sua sfera giuridica (Cons. Stato Sez. IV 24.12.2007 n. 6619; 22.06.2006 n. 3947; idem 10.06.2004 n. 3755; 05.09.2003 n. 4980; 09.11.2010 n. 8364).
In tali sensi, questa Sezione pur non obliterando il principio della “vicinitas” tout court, ha avuto cura di sottolineare, ai fini del radicamento delle condizioni legittimanti l’azione, la necessità che per i vicini si verifichi uno specifico vulnus alla loro sfera giuridica sub specie della sussistenza di un detrimento economico-patrimoniale comunque derivante per il bene (in tal senso decisione n. 8364/2010 già citata).
A fronte dei suindicati “paletti” interpretativi che hanno meritevolmente delimitato la portata della nozione di “vicinitas” quale fattore legittimante l’azione, ritiene pur sempre il Collegio che il caso de quo possa farsi ragionevolmente rientrare nell’ambito della opzione esegetica posta a fondamento del riconoscimento della legitimatio ad agendum.
Se è vero infatti che ai fini dell’impugnativa la verifica del vulnus alla propria posizione va effettuata alla stregua di un giudizio che tenga conto della natura e delle dimensioni dell’opera in progettazione, della sua destinazione, delle sue implicazioni urbanistiche, e delle conseguenze prodotte dal nuovo insediamento sulla qualità della vita di coloro che per residenza sono in durevole rapporto con l’area interessata (Cons. Stato sez. IV 31.05.2007 n. 2849; idem 12.05.2009 n. 2908), nella specie non può negarsi l’esistenza di un interesse differenziato e qualificato anche sulla scorta della considerazione per cui in relazione alla prevista ubicazione in situ di un compendio edilizio di un certa consistenza (14 villette a due piani, quattro ville a due piani e due condomini a tre piani) una cosa è avere di fronte la propria residenza un parco a verde e altra cosa ancora essere fronteggiati da un insediamento residenziale con tutti i consequenziali riflessi i tema di spazi occupati da opere infrastrutturali strumentali all’edificazione, di aumento del carico urbanistico e connesso aumento del traffico veicolare e pedonale, etc..
Invero al di là della possibile incidenza della nuova destinazione urbanistica sul valore dei beni immobili di cui sono titolari i Branzoli, non si può in primo luogo escludere per costoro un pregiudizio in tema di sottrazione di visuale, luce ed aria; in ogni caso, appare configurabile nella fattispecie una lesione a godere della veduta (nella specie un parco a verde ) che è stata considerata dalla giurisprudenza amministrativa posizione giuridica suscettibile di pregiudizio e restaurabile patrimonialmente (Cons. Stato Sez. V 27.03.1081 n. 113; Sez. VI 15.06.2010 n. 3744 già citata).
Rebus sic stantibus, avuto riguardo alle circostanze di fatto che connotano la vicenda e alla luce dei parametri giurisprudenziali fissati in subjecta materia, nel caso di che trattasi appaiono riscontrabili le condizioni legittimanti la proposizione della domanda giudiziale sia sotto il profilo di posizione qualificata (vicinitas) sia sotto l’aspetto del requisito dell’interesse a ricorrere ex art.100 c.p.c. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.11.2012 n. 5715 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: I bandi di gara d'appalto e per gli affidamenti dei servizi pubblici possono prevedere requisiti di capacità più rigorosi di quelli indicati dalla legge, purché non discriminatori od abnormi rispetto alle regole proprie del settore.
Pertanto, rientra nel potere discrezionale dell'amministrazione aggiudicatrice la fissazione di requisiti di partecipazione alla gara anche superiori a quelli previsti dalla legge che rappresentano un minimum che può essere incrementato, sotto l'aspetto qualitativo e quantitativo, dall'amministrazione in relazione alle peculiari caratteristiche del servizio da appaltare.

Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale (C. St., V. n. 3809/2011; C.d.S., sez. V, 19.11.2009, n. 7247; 06.04.2009, n. 2138; 15.12.2005, n. 7139; sez. IV, 12.06.2007, n. 3103, 22.10.2004, n. 6972; sez. VI, 23.07.2008, n. 3655; 10.01.2007, n. 37), i bandi di gara d'appalto e per gli affidamenti dei servizi pubblici possono prevedere requisiti di capacità più rigorosi di quelli indicati dalla legge, purché non discriminatori od abnormi rispetto alle regole proprie del settore.
Pertanto, rientra nel potere discrezionale dell'amministrazione aggiudicatrice la fissazione di requisiti di partecipazione alla gara anche superiori a quelli previsti dalla legge che rappresentano un minimum che può essere incrementato, sotto l'aspetto qualitativo e quantitativo, dall'amministrazione in relazione alle peculiari caratteristiche del servizio da appaltare.
La già citata giurisprudenza (C. St., V. n. 3809/2011) ritiene di conseguenza che le scelte così operate dall'amministrazione impingono nel merito dell'azione amministrativa e si sottraggono al sindacato del giudice amministrativo, salvo che non siano manifestamente irragionevoli, irrazionali, arbitrarie o sproporzionate, con riguardo alla specificità dell'oggetto ed all'esigenza di non restringere, oltre lo stretto indispensabile, la platea dei potenziali concorrenti e di non precostituire situazioni di privilegio.
La richiamata giurisprudenza, che il collegio condivide, ritiene altresì che i bandi di gara, quali atti generali, rivolti ad un numero imprecisato di destinatari, si sottraggono all'obbligo di motivazione, così che il sindacato sulla scelta dell'amministrazione di fissare requisiti di partecipazione, ulteriori e più stringenti rispetto a quelli fissati dalla legge, non può che riguardare il corretto esercizio del potere amministrativo sotto il profilo della ragionevolezza, razionalità, logicità e non arbitrarietà in relazione all'oggetto del contratto e all'interesse pubblico perseguito (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 13.11.2012 n. 679 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell'art. 32, comma 27, lettera d), del decreto-legge 30.09.2003, n. 269, convertito dalla legge 24.11.2003 n. 326, sono sanabili le opere abusive realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli (tra cui quello idrogeologico, ambientale e paesistico) purché ricorrano "congiuntamente" determinate condizioni:
a)- che si tratti di opere realizzate prima dell'imposizione del vincolo: in proposito la Corte Costituzionale (ordinanza n. 150 del 2009) ha negato che debba trattarsi solo dei vincoli che comportino l'inedificabilità assoluta;
b)- che, pur realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni urbanistiche;
c)- che siano opere di minore rilevanza, corrispondenti alle tipologie di illecito di cui ai nn. 4, 5 e 6 dell'allegato 1 del d.l. n. 269 del 2003 (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria) senza quindi aumento di superficie;
d)- che vi sia il previo parere favorevole dell'autorità preposta al vincolo.

Va rilevato che il diniego di condono si fonda sul disposto di cui all’art. 27, lettera d), del decreto-legge 30.09.2003, n. 269, convertito dalla legge 24.11.2003, n. 326.
La citata disposizione stabilisce che: "Fermo restando quanto previsto dagli articoli 32 e 33 della legge 28.02.1985, n. 47, non sono condonabili le opere che siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.
Il Collegio ritiene utile, preliminarmente, porre in evidenza, in merito alle disposizioni applicate che, come ha riconosciuto la Corte costituzionale (sentenza n. 196 del 2004), l'oggetto fondamentale dell'art. 32, commi 25-27, del d.l. n. 269 del 2003, convertito nella legge n. 326 del 2003, è la previsione e la disciplina di un nuovo condono edilizio esteso all'intero territorio nazionale, di carattere temporaneo ed eccezionale rispetto all'istituto a carattere generale e permanente del "permesso di costruire in sanatoria", disciplinato dagli artt. 36 e 45 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), ancorato a presupposti in parte diversi e comunque sottoposto a condizioni assai più restrittive.
La giurisprudenza ordinaria e amministrativa ormai consolidata, dalla quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, (ex multis, Cass. Penale, Sezione III, n. 24647 del 2009 e C.d.S., Sez. VI, n. 1200 del 2010, Tar Puglia, Bari, Sezione III, 25.05.2011, n. 805 - Tar Bari Puglia sez. III 15.12.2011 n. 1884 - Tar Campania, Napoli, sez. VII, 15.02.2010 n. 940; Tar Liguria, Genova, sez. I, 01.02.2010 n. 199; Tar Trentino Alto Adige, Trento, sez. I, 07.01.2010 n. 4), ha riconosciuto che, ai sensi del suddetto art. 32, comma 27, lettera d), sono sanabili le opere abusive realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli (tra cui quello idrogeologico, ambientale e paesistico) purché ricorrano "congiuntamente" determinate condizioni:
a)- che si tratti di opere realizzate prima dell'imposizione del vincolo: in proposito la Corte Costituzionale (ordinanza n. 150 del 2009) ha negato che debba trattarsi solo dei vincoli che comportino l'inedificabilità assoluta;
b)- che, pur realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni urbanistiche;
c)- che siano opere di minore rilevanza, corrispondenti alle tipologie di illecito di cui ai nn. 4, 5 e 6 dell'allegato 1 del d.l. n. 269 del 2003 (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria) senza quindi aumento di superficie;
d)- che vi sia il previo parere favorevole dell'autorità preposta al vincolo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.11.2012 n. 2733 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: A seguito della decadenza di vincolo preordinato ad esproprio e alla inerzia dell’ente territoriale nell’attribuire al terreno una nuova destinazione, il proprietario non resta senza tutela ma può promuovere gli interventi sostitutivi oppure attivare la procedura di messa in mora e tipizzazione giurisdizionale del silenzio davanti al giudice amministrativo.
Tale obbligo di ripianificazione sussiste soltanto in relazione alla decadenza dei vincoli espropriativi e non anche in caso di vincoli conformativi.
Non hanno carattere espropriativo, ma soltanto conformativo, e perciò non sono soggetti a decadenza e all’obbligo di indennizzo -né emerge l’obbligo di ritipizzazione e l’inadempimento all’obbligo di provvedere (che non sussiste)- tutti i vincoli di inedificabilità imposti dal piano regolatore, a qualsivoglia titolo, per ragioni lato sensu ambientali.
Tra tali ipotesi, rientrano il vincolo di inedificabilità (c.d. di rispetto) a tutela di una strada esistente, il vincolo di verde attrezzato, il vincolo di inedificabilità per un parco e per una zona agricola di pregio, la destinazione a verde e così via.
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In relazione al verde attrezzato, si ritiene generalmente che le “Norme Tecniche di attuazione”, che consentono l’intervento diretto dei privati per il verde costituiscano disposizioni che hanno natura tipicamente conformativa.
La zonizzazione del territorio, con i vincoli di generalità e in modo obiettivo su intere categorie di beni, è connaturata normalmente alla pianificazione urbanistica, per cui non può essere ex se considerata di natura ablatoria.
La possibilità che il diritto di proprietà subisca alcune limitazioni in ragione dell’interesse pubblico costituisce d’altronde un rischio fisiologico connesso al diritto stesso secondo il giudice delle leggi.
La previsione di una tipologia a “verde pubblico” non configura un vincolo preordinato ad esproprio né una inedificabilità assoluta, in quanto si tratta di prescrizione normalmente diretta a regolare concretamente l’attività edilizia, che attiene ad una potestà conformativa propria dello strumento urbanistico generale, la cui validità è a tempo indeterminato, come stabilito dall’art. 11 l. 17.08.1942, n. 1150.
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Sono conformativi e al di fuori della schema ablatorio-espropriativo (non comportano indennizzo, non decadono al quinquennio e quindi non sussiste un dovere di ritipizzazione) i vincoli che importano una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, che non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di ablazione del bene.

Va in via logica chiarito che la controversia resta limitata alla natura dei vincoli –se conformativi o espropriativi– decaduti per quinquennio, in quanto solo in caso di decadenza di vincoli espropriativi, ricorre l’obbligo del Comune di procedere alla riqualificazione urbanistica dell’area, risultando illegittimo il silenzio serbato sulla istanza-diffida dell’interessato.
E’ noto che a seguito della decadenza di vincolo preordinato ad esproprio e alla inerzia dell’ente territoriale nell’attribuire al terreno una nuova destinazione, il proprietario non resta senza tutela ma può promuovere gli interventi sostitutivi oppure attivare la procedura di messa in mora e tipizzazione giurisdizionale del silenzio davanti al giudice amministrativo (così Cassazione civile sezioni unite, 06.05.2009, n. 10362).
La giurisprudenza di questo Consesso ha già avuto modo di affermare come tale obbligo di ripianificazione sussista soltanto in relazione alla decadenza dei vincoli espropriativi e non anche in caso di vincoli conformativi (tra tante, Consiglio Stato, IV, 27.06.2012, n. 3804).
Si è altresì sostenuto che non hanno carattere espropriativo, ma soltanto conformativo, e perciò non sono soggetti a decadenza e all’obbligo di indennizzo -né emerge l’obbligo di ritipizzazione e l’inadempimento all’obbligo di provvedere (che non sussiste)- tutti i vincoli di inedificabilità imposti dal piano regolatore, a qualsivoglia titolo, per ragioni lato sensu ambientali.
Tra tali ipotesi, rientrano il vincolo di inedificabilità (c.d. di rispetto) a tutela di una strada esistente, il vincolo di verde attrezzato, il vincolo di inedificabilità per un parco e per una zona agricola di pregio, la destinazione a verde e così via (tra tante, Consiglio di Stato, IV, 23.12.2010, n. 9372).
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In relazione al verde attrezzato, si ritiene generalmente che le “Norme Tecniche di attuazione”, che consentono l’intervento diretto dei privati per il verde costituiscano disposizioni che hanno natura tipicamente conformativa (Corte Costituzionale n. 20.05.1999, n. 179; da ultimo Consiglio Stato, IV, 13.07.2011, n. 4242 e 19.01.2012, n. 244).
La zonizzazione del territorio, con i vincoli di generalità e in modo obiettivo su intere categorie di beni, è connaturata normalmente alla pianificazione urbanistica, per cui non può essere ex se considerata di natura ablatoria.
La possibilità che il diritto di proprietà subisca alcune limitazioni in ragione dell’interesse pubblico costituisce d’altronde un rischio fisiologico connesso al diritto stesso secondo il giudice delle leggi (n. 179 del 1999 su menzionata).
La previsione di una tipologia a “verde pubblico” non configura un vincolo preordinato ad esproprio né una inedificabilità assoluta, in quanto si tratta di prescrizione normalmente diretta a regolare concretamente l’attività edilizia, che attiene ad una potestà conformativa propria dello strumento urbanistico generale, la cui validità è a tempo indeterminato, come stabilito dall’art. 11 l. 17.08.1942, n. 1150 (tra tante Consiglio Stato, IV, 10.06.2010, n. 3700).
Sotto l’altro profilo evidenziato, non può aderirsi alla tesi di parte appellante secondo cui l’area in questione permetterebbe la realizzazione di opere soltanto ad iniziativa pubblica.
Al contrario, i richiamati articoli 69 e 71 NTA prevedono l’acquisizione da parte del Comune, ma anche interventi esecutivi diretti di iniziativa pubblica mediante progetti esecutivi approvati dall’amministrazione comunale.
In generale, inoltre, e ciò vale per tutte le destinazioni per le quali il primo giudice ha escluso la natura espropriativa dei vincoli, deve osservarsi che l’attività di realizzazione poteva avvenire sia in via ordinaria che attraverso gli strumenti urbanistici esecutivi di iniziativa privata (“progetti esecutivi approvati dall’Amministrazione comunale”).
Sono conformativi e al di fuori della schema ablatorio-espropriativo (non comportano indennizzo, non decadono al quinquennio e quindi non sussiste un dovere di ritipizzazione) i vincoli che importano una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, che non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di ablazione del bene (così, Consiglio Stato, IV, 22.06.2011, n. 3797)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.11.2012 n. 5666 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Aree protette: l'Ente gestore può "contraddirsi".
I beni ambientali protetti possono essere oggetto di una valutazione graduata alla tipologia ed al dettaglio dell’intervento, il quale, anche se ad una prima verifica generale mostra di coordinarsi con le esigenze di protezione dell’area stessa, nella successiva fase di realizzazione, può rivelare aspetti specifici che lo rendono inopportuno, o comunque, non conforme alle esigenze di tutela individuate dalla norma.

La questione affrontata dalla VI Sez. del Consiglio di Stato, con la sentenza 07.11.2012 n. 5630, ripercorre nella sostanza il principio sopra descritto, evidenziando come, in presenza di un parere favorevole reso dall’Ente Parco circa un piano di lottizzazione per la realizzazione dell’insediamento residenziale, turistico e commerciale, possa poi seguire una provvedimento negativo, reso nel procedimento relativo alla richiesta dei previsti titoli abilitativi al Comune competente.
Secondo i Giudici amministrativi l’oggetto della valutazione propria del nulla–osta richiesto all’Ente Parco, di cui all’art. 13 l. n. 394 del 1991 (legge quadro sulle aree protette) è costituito, oltreché dall’impatto dell’opera sul contesto ambientale oggetto di tutela, da tutti gli aspetti di protezione del territorio, anche relativi alla disciplina di natura urbanistica ed edilizia recepita.
Osserva il Consiglio di Stato che i particolari dell’intervento edificatorio conseguente al piano di lottizzazione sono apprezzabili nella loro effettiva entità e consistenza solo alla luce del maggior grado di dettaglio e livello di approfondimento connotanti gli elaborati progettuali e plani-volumetrici allegati alla richiesta del permesso di costruire.
Di converso il parere positivo, originariamente reso dall’Ente, espresso sul piano di lottizzazione, si basa su una valutazione di principio attorno alla compatibilità dell’intervento con il contesto vincolato in cui viene a collocarsi, nonché attorno all’incidenza della sua percezione visiva sulle caratteristiche del sito, resa possibile sulla base degli elaborati di massima da allegare a corredo del piano di lottizzazione.
Tali indicazioni escludono, conseguentemente, che la vicenda possa essere connotata da contraddittorietà, essendo invece legittima la determinazione dell’Ente Parco che, evidenziando dal dettaglio dei documenti successivamente presentati dall’impresa affidataria delle aree lottizzate le altezze e le distanze non conformi al regolamento edilizio tipo al quale rinvia quello comunale ed il Piano del Parco, ha conseguentemente escluso di dover emanare il necessario nulla–osta (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Alla stregua della disciplina introdotta dal dm 24.10.2007, e pur nel quadro normativo precedente all’entrata in vigore del decreto legge n. 70 del 13/05/2011 (la cui modifica all’art. 38, co. 2, del d.lgs. n. 163 del 2006 non è applicabile alla procedura in questione, bandita anteriormente), la presenza di un DURC negativo alla data di presentazione della domanda di partecipazione alla gara, obbliga la stazione appaltante ad escludere dalla procedura l'impresa interessata, senza che si possano effettuare apprezzamenti in ordine alla gravità degli adempimenti ed alla definitività dell'accertamento previdenziale (cfr. Cons. St., sez. V, 30/06/2011, n. 3912).
Sicché la verifica della regolarità contributiva delle imprese partecipanti a procedure di gara per l’aggiudicazione di appalti con la pubblica amministrazione è demandata agli istituti di previdenza, le cui certificazioni si impongono alle stazioni appaltanti, che non possono sindacarne il contenuto.

Orbene, in materia di accertamento della regolarità contributiva per la partecipazione ad una gara pubblica, prima del decreto ministeriale 24/10/2007, il mero fatto che il DURC non fosse regolare non costituiva di per sé prova di una grave violazione contributiva definitivamente accertata, posto che era ostativo alla dichiarazione di regolarità contributiva qualsiasi inadempimento, a prescindere da qualsivoglia soglia di gravità.
In particolare, prima del citato decreto ministeriale e del regolamento attuativo del codice dei contratti pubblici, l'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 creava una differenza tra la regolarità contributiva richiesta al partecipante alla gara e la regolarità richiesta all'aggiudicatario al fine della stipula del contratto, tant’è che il concorrente poteva essere escluso solo in presenza di gravi violazioni definitivamente accertate, sicché le violazioni non gravi e quelle non definitivamente accertate non erano causa di esclusione, mentre, al fine della stipula del contratto, l'aggiudicatario doveva presentare la certificazione di regolarità ai sensi dell'art. 2 del decreto legge n. 210 del 2002.
Sennonché, il decreto ministeriale 24/10/2007, emanato in attuazione dell’art. 1, co. 1176, della legge n. 296 del 2006, definisce le modalità di rilascio ed i contenuti analitici del documento unico di regolarità contributiva, nonché le tipologie di pregresse irregolarità di natura previdenziale ed in materia di tutela delle condizioni di lavoro da non considerare ostative al rilascio del documento medesimo.
La nuova disciplina, come si evince dal preambolo, si riferisce a tutti gli utilizzi del DURC, ivi compreso quello relativo alla normativa sugli appalti di lavori, servizi e forniture pubbliche.
L’art. 5 del citato decreto ministeriale precisa che la regolarità contributiva è attestata dagli istituti previdenziali quando vi sia correntezza degli adempimenti periodici, corrispondenza tra versamenti effettuati e versamenti accertati come dovuti ed inesistenza di inadempienze in atto, fatte salve le richieste di rateizzazione munite di parere favorevole, le sospensioni dei pagamenti a seguito di disposizioni legislative e le istanza di compensazione con credito documentato. L’art. 8 precisa altresì che il DURC è rilasciato anche qualora vi siano crediti iscritti a ruolo per i quali sia stata disposta la sospensione della cartella amministrativa a seguito di ricorso amministrativo o giudiziario nonché, relativamente ai crediti non ancora iscritti a ruolo, in pendenza di contenzioso amministrativo o giudiziario, sino alla decisione della vertenza, fatta salva l'ipotesi in cui l'autorità giudiziaria abbia adottato un provvedimento esecutivo che consente l'iscrizione a ruolo.
Inoltre, ai soli fini della partecipazione a gare di appalto, l’art. 8, co. 3, del decreto ministeriale definisce la gravità della irregolarità prevedendo che non osta al rilascio del DURC uno scostamento tra le somme dovute e quelle versate, con riferimento a ciascun istituto previdenziale, inferiore o pari al 5%, con riferimento a ciascun periodo di paga o di contribuzione o, comunque, uno scostamento inferiore ad euro 100,00, fermo restando l'obbligo di versamento del predetto importo entro i trenta giorni successivi al rilascio del DURC.
In definitiva è stata normativamente regolata, in maniera esaustiva, la nozione di violazione grave definitivamente accertata prevista dall’art. 38, co. 1, lett. i), del codice dei contratti pubblici.
Ne consegue che, alla stregua della disciplina introdotta dal ripetuto decreto ministeriale, e pur nel quadro normativo precedente all’entrata in vigore del decreto legge n. 70 del 13/05/2011 (la cui modifica all’art. 38, co. 2, del d.lgs. n. 163 del 2006 non è applicabile alla procedura in questione, bandita anteriormente), la presenza di un DURC negativo alla data di presentazione della domanda di partecipazione alla gara, obbliga la stazione appaltante ad escludere dalla procedura l'impresa interessata, senza che si possano effettuare apprezzamenti in ordine alla gravità degli adempimenti ed alla definitività dell'accertamento previdenziale (cfr. Cons. St., sez. V, 30/06/2011, n. 3912).
Sicché la verifica della regolarità contributiva delle imprese partecipanti a procedure di gara per l’aggiudicazione di appalti con la pubblica amministrazione è demandata agli istituti di previdenza, le cui certificazioni si impongono alle stazioni appaltanti, che non possono sindacarne il contenuto (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 31.10.2012 n. 4336 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Comune commissariato se non paga l'avvocato.
Comune commissariato se non paga all'avvocato le spese di lite del decreto ingiuntivo che il legale, in qualità di procuratore antistatario, ha ottenuto per conto del cliente e che nel frattempo è divenuto esecutivo. L'ente è obbligato a conformarsi al giudicato e non può trincerarsi dietro il mero atto di liquidazione emesso, che di per sé non prova affatto l'avvenuto pagamento delle spettanze al professionista.

È quanto emerge dalla sentenza 26.10.2012 n. 4274, pubblicata dal TAR Campania-Napoli, Sez. IV.
Accolto il ricorso del legale per l'ottemperanza. Sono passati ormai quasi tre anni da quando il titolo in forma esecutiva è stato rinotificato all'amministrazione dopo che il provvedimento monitorio risulta divenuto definitivo per non essere stata proposta opposizione.
Il Comune ha riconosciuto il relativo debito fuori bilancio ed emesso l'atto di liquidazione, ma questo non dimostra che ha pagato. Ora dovrà farlo entro 60 giorni e, se non provvede, lo farà a spese dell'ente locale il commissario ad acta nominato dal giudice: il direttore della Ragioneria territoriale dello Stato, con facoltà di delega a un funzionario dell'ufficio. Unico neo per l'avvocato: i conteggi sono sbagliati, la somma proposta va depurata di quanto indicato come spese dell'atto di precetto.
Nel giudizio di ottemperanza, infatti, le ulteriori somme richieste in relazione a spese diritti e onorari successivi al decreto ingiuntivo sono dovute soltanto in relazione alla pubblicazione, all'esame ed alla notifica del medesimo, alle spese relative ad atti accessori, quali le spese di registrazione (se versate), di esame, copia e notificazione, in quanto hanno titolo nello stesso provvedimento giudiziale. Le spese, diritti e onorari accessorie successive al decreto ingiuntivo azionato sono quindi dovute, nei limiti delle voci indicate, ma in quanto funzionali all'introduzione del giudizio di ottemperanza sono liquidate, in modo omnicomprensivo, nell'ambito delle spese di lite del giudizio di esecuzione del giudicato.
Al Comune, dunque, non resta che pagare anche le spese di giudizio. Le spese per l'eventuale funzione commissariale andranno poste a carico del Comune intimato e sono liquidate fin da subito nella misura complessiva di euro 300,00. Il commissario ad acta potrà esigere la suddetta somma all'esito dello svolgimento della funzione commissariale, sulla base di adeguata documentazione fornita all'ente debitore (articolo ItaliaOggi del 13.12.2012).

EDILIZIA PRIVATAIl cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione di opere edilizie non costituisce una attività del tutto libera e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione di ogni previsione urbanistica che disciplini l'uso nel territorio nel singolo comune. Una diversa soluzione, non solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio, con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica.
Nel caso di specie, il capannone di proprietà della ricorrente è stato in concreto adibito ad un uso (commerciale) incompatibile con l’assetto urbanistico (agricolo) di zona, e dunque correttamente esso è stato sanzionato con l’ordine di ripristino.
Come giustamente ha osservato la difesa comunale, la tesi di parte ricorrente, se portata alle sue estreme conseguenze, condurrebbe alla inammissibile conclusione per cui chiunque, pagando una semplice sanzione pecuniaria, sarebbe legittimato a stravolgere le linee di pianificazione dettate dall’amministrazione, mutando a suo piacimento la destinazione di un determinato sito.
Al riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che il cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione di opere edilizie non costituisce una attività del tutto libera e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione di ogni previsione urbanistica che disciplini l'uso nel territorio nel singolo comune. Una diversa soluzione, non solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio, con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica (Consiglio di Stato sez. I, 25.05.2012 n. 759; in senso conforme Cons. Stato, sez. V, 10.07.2003, n. 4102; 03.01.1998, n. 24; Cons. Stato, V, 28.05.2010, n. 3420) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 19.10.2012 n. 1110 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi - Ius superveniens - Ammissione di un diverso inquadramento giuridico - Legittimità - Sussiste.
Il diritto del candidato vincitore ad assumere l’inquadramento previsto dal bando di concorso, espletato dall’amministrazione per il reclutamento di nuovi dipendenti, è subordinato alla permanenza, al momento dell’adozione del provvedimento di nomina, dell’assetto organizzativo degli uffici in forza del quale il bando era stato emesso. Il mutamento del quadro normativo e contrattuale di riferimento in ordine allo stato giuridico del personale, intervenuto successivamente, vincola l’amministrazione al rispetto del nuovo contesto organizzativo.

Concorsi: legittimo un inquadramento diverso da quello previsto nel bando.
L'approfondimento
In massima l’importante e innovativo principio sancito dalle sezioni unite civili della Corte di Cassazione che, con la sentenza 02.10.2012 n. 16728, hanno rigettato il ricorso presentato da una candidata di un concorso, utilmente collocata in graduatoria, avverso la decisione della Corte d’appello che aveva dichiarato legittimo l’operato della PA di assegnare alla ricorrente un inquadramento giuridico diverso da quello indicato nel bando a fronte del mutato quadro normativo di riferimento.
Il fatto
Nel caso di specie, una candidata, che aveva vinto il concorso da dirigente presso una PA, era stata assunta come funzionaria, in quanto, al momento della nomina, l’organico degli uffici previsto dal bando era stato soppresso.
Dopo la pubblicazione del bando di concorso, e nelle more della sua esecuzione, era entrata in vigore la legge di riforma dello stato giuridico del personale dell’amministrazione interessata che aveva modificato l’inquadramento del personale da assumere attraverso l’espletamento della selezione concorsuale.
L’intervenuto mutamento del quadro normativo di riferimento, infatti, aveva comportato il cambiamento della classificazione del personale, attraverso la soppressione dei ruoli oggetto del concorso e corrispondenti alla qualifica dirigenziale (ex VIII fascia funzionale) e il conseguente inquadramento dei vincitori nella categoria professionale D di nuova istituzione, determinata in sede di contrattazione collettiva.
L’interessata aveva presentato ricorso avverso l’atto di assegnazione al giudice del lavoro, il quale lo aveva rigettato. La ricorrente aveva allora presentato ricorso in appello.
Il giudice di secondo grado aveva rilevato che, a fronte del mutato quadro normativo di riferimento, l’inquadramento dirigenziale originariamente riconosciuto per il profilo professionale oggetto di concorso, e posto a fondamento della pretesa della ricorrente, non poteva essere ricondotto all’interno del ruolo unico della dirigenza previsto dalla normativa sopravvenuta.
Inoltre, nel caso di specie, non poteva essere neppure invocato il regime derogatorio previsto in via transitoria, in quanto la norma sopravvenuta escludeva “i concorsi già banditi”, rispetto ai quali l’eccezione era rappresentata dalla possibilità di evitare il generale divieto di assunzione dalla medesima stabilito.
La Corte d’appello aveva escluso che esistesse affinità sostanziale o coincidenza di mansioni tra la “vecchia” dirigenza, nella quale veniva ricompreso il profilo in esame avente rilevanza meramente professionale, dalla “nuova” dirigenza dotata di più ampi ed autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane e di controllo, con correlativa responsabilità per la gestione e per i risultati conseguiti.
Le attività proprie dei dirigenti tecnici, oggetto della selezione precedentemente inquadrate nell’ottava fascia funzionale, in quanto aventi contenuto professionale di carattere prettamente tecnico, alla luce del nuovo inquadramento giuridico risultavano correttamente inserite nella categoria apicale del personale non dirigenziale (cat. D), al pari di altre figure professionali (ingegneri, geologi, avvocati ecc.).
Tali argomentazioni avevano indotto la Corte d’appello a ritenere corretto l’operato dell’amministrazione e conseguentemente infondato il ricorso dell’interessata.
La ricorrente ha così presentato ricorso alla Corte di cassazione, denunciando la violazione dei principi civilistici in materia contrattuale, in quanto l’assunzione sarebbe stata effettuata in difetto della disciplina della lex specialis del concorso, non sarebbe stata rispondente ai canoni buona fede, correttezza e parità di trattamento e che non sarebbe stato possibile modificare, da parte della PA, la proposta contrattuale in base a norme sopravvenute.
Norme, peraltro, che introducendo nuovi criteri di classificazione del personale, non avrebbero consentito la modifica in peius delle condizioni contrattuali stabilite dal bando di concorso, atteso che né la legge, né altro atto normativo, né provvedimento amministrativo di autotutela successivo avrebbe potuto modificare l’offerta del contratto di lavoro ivi stabilita.
La questione di fondo
La problematica sottoposta all’attenzione della Corte di cassazione ha riguardato la disamina delle conseguenze che possono prodursi nei confronti del vincitore di un concorso nel caso in cui, successivamente all’emanazione del bando e prima della conclusione delle operazioni concorsuali, cambi il quadro normativo di riferimento e la posizione funzionale, in cui il vincitore avrebbe dovuto essere collocato, venga soppressa per l’introduzione di una nuova disciplina del rapporto di lavoro.
I giudici di legittimità hanno preliminarmente ricordato che il bando di concorso, essendo preordinato alla stipulazione del contratto, costituisce, ove contenga gli elementi del contratto alla cui conclusione è diretto, un’offerta al pubblico, ai sensi dell’art. 1336 c.c., la quale è revocabile solo finché non sia intervenuta l’accettazione da parte degli interessati.
Tale offerta si perfeziona con l’accettazione del candidato che sia utilmente inserito nella graduatoria degli idonei.
La PA, nell’ambito del pubblico impiego privatizzato, non esercita più poteri di supremazia speciale ed opera, anzi, con la capacità del datore di lavoro privato, nell’ambito di un rapporto di lavoro paritario. In particolare, per l’assunzione di nuovo personale, il bando indica il contratto di lavoro che l’amministrazione intende concludere, nonché il tipo e le modalità della procedura concorsuale, partecipando agli interessati l’intento di giungere alle assunzioni.
In tal senso, il bando riveste la duplice natura giuridica di provvedimento amministrativo, in quanto rappresenta un atto del procedimento di evidenza pubblica di cui regola il successivo svolgimento, e di atto negoziale per gli aspetti sostanziali, in ragione della proposta di assunzione condizionata negli effetti all’espletamento della procedura concorsuale ed all’approvazione della graduatoria (Cass., sez. un., sentenza n. 23327/2009; Cass., sez. Lavoro, sentenza n. 1399/2009).
In generale, è possibile affermare che anche nel pubblico impiego privatizzato, l’espletamento della procedura concorsuale, con la compilazione della graduatoria finale e la sua approvazione, fa sorgere nel candidato utilmente collocato il diritto soggettivo all’assunzione secondo le modalità fissate dal bando di concorso.
Nel caso di specie, tuttavia, successivamente all’emanazione del bando e prima della conclusione delle operazioni concorsuali, è cambiato il quadro normativo e la posizione funzionale, in cui il vincitore avrebbe dovuto essere collocato, è stata soppressa.
Secondo la Corte, è legittimo il diverso inquadramento del vincitore del concorso nel caso in cui, a seguito di riorganizzazione interna e prima del formale provvedimento di nomina, sia soppressa la qualifica funzionale per cui il candidato ha partecipato.
Il diritto del vincitore all’inquadramento nel livello previsto dal bando di concorso è, infatti, subordinato al mantenimento dell’organizzazione interna, in quanto l’intervenuta soppressione dell’area di attività per cui il concorrente ha partecipato alla selezione esime l’ente dal rispetto degli obblighi che scaturivano dall’avviso (Cass. sez. Lavoro, sentenza n. 9384/2006).
In questi casi, secondo le sezioni riunite, l’obbligo di assunzione nei limiti fissati dal nuovo assetto organizzativo non impone la valutazione, alla luce dei principi di buona fede e di correttezza, i quali non operano come fonti autonome e ulteriori di diritti se non nei limiti della previsione contrattuale.
Tale interpretazione risulta, altresì, conforme all’art. 97 della Costituzione, secondo cui la PA, nell’organizzare i suoi uffici è tenuta a conformare la propria azione ai principi di imparzialità, efficienza e legalità.
Sussiste, pertanto, un potere-dovere dell’ente pubblico di annullare i provvedimenti che abbiano disposto eventuali inquadramenti illegittimi.
Tale obbligo, secondo la Cassazione, nel caso di ius superveniens, impone all’amministrazione -ove non abbia ritenuto di ricorrere alla revoca o all’annullamento della procedura concorsuale, intervenuta prima della nomina dei vincitori- di adottare il provvedimento di inquadramento del vincitore del concorso sulla base della norma (di natura legislativa o collettiva) vigente al momento dell’adozione dell’atto.
Pertanto, il diritto del candidato vincitore ad ottenere l’inquadramento previsto dal bando di concorso espletato dalla PA per il reclutamento dei propri dipendenti, resta subordinato alla permanenza, al momento dell’adozione del provvedimento di nomina, dell’assetto organizzativo degli uffici in forza del quale il bando era stato emesso.
A tal proposito, la Corte di cassazione, sulla base del mutato quadro che ha riformato il rapporto di impiego del personale dell’amministrazione interessata, ha ritenuto corretta la decisione dell’ente di non inquadrare nel ruolo dirigenziale i lavoratori assunti successivamente all’entrata in vigore della legge e la conseguente assegnazione alla categoria D/l della ricorrente a seguito dell’abolizione della qualifica per la quale era stato bandito il concorso, ciò in ragione del carattere comunque apicale della categoria assegnata.
A ulteriore giustificazione della ritenuta validità del comportamento tenuto dall’amministrazione, la suprema Corte ha chiarito che in tale situazione non era ulteriormente possibile l’inquadramento previsto dal bando e l’unica soluzione possibile al fine di adempiere al suo obbligo di assunzione non poteva che essere quella di inserire il vincitore del concorso nella qualifica non dirigenziale di livello apicale, non potendo creare un’ulteriore qualifica, facoltà quest’ultima spettante alla contrattazione collettiva.
È conseguentemente nullo l’atto in deroga, anche in melius, alle disposizioni del contratto collettivo, dovendosi escludere che la PA possa intervenire con atti autoritativi nelle materie a essa demandate (Cass., sez. un., sentenza n. 21744/2009).
La riqualificazione del personale è frutto di una trattativa sindacale procedimentalizzata dalla legge, il cui esito non è censurabile in sede giudiziale, in quanto non è consentito al giudice valutare la razionalità del regolamento di interessi realizzato dalle parti sociali con la contrattazione collettiva (Cass., sez. Lavoro, sentenze n. 13869/2011 e n. 9313/2011).
L’unica alternativa che poteva essere adottata dall’amministrazione, a fronte del mutamento del quadro normativo e sindacale di riferimento, era quella di revocare o modificare il bando di concorso in considerazione della nuova situazione.
Una volta scelta la soluzione di mantenere fermo il concorso, non era possibile procedere in modo diverso.
Conclusioni
La Corte di cassazione ha sancito, con una pronuncia innovativa, che è legittima la decisione di una PA di modificare l’inquadramento del vincitore di un concorso rispetto a quello originariamente previsto dal bando a seguito di norme entrate in vigore dopo la pubblicazione dell’atto di selezione.
Il diritto del candidato vincitore a essere assunto nell’inquadramento previsto dal bando di concorso, espletato da un ente pubblico, è infatti subordinato alla permanenza, al momento dell’adozione del provvedimento di nomina, dell’assetto organizzativo degli uffici in forza del quale il bando era stato emesso.
Pertanto, l’eventuale mutamento del quadro normativo e contrattuale di riferimento, in ordine allo stato giuridico del personale, intervenuto successivamente alla pubblicazione del bando di concorso, vincola l’amministrazione al rispetto del nuovo contesto organizzativo (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com).

ESPROPRIAZIONEINDENNITA' DI ESPROPRIO.
Nei giudizi aventi ad oggetto la determinazione dell’indennità di espropriazione, relativi a procedimenti in cui la dichiarazione di pubblica utilità sia stata emessa prima del 30.06.2003, data di entrata in vigore del D.P.R. 08.06.2001 n. 327, una volta venuto meno -a seguito della sentenza n. 348 del 2007 della Corte costituzionale- il criterio di indennizzo di cui all’art. 5-bis D.L. 11.07.1992 n. 333, conv., con modif., nella L. 08.08.1992 n. 359, trova applicazione il criterio del valore venale del bene previsto dall’art. 39 L. 25.06.1865 n. 2359, e non si applica l’art. 2, comma 89, lett. a), L. 24.12.2007 n. 244 che, avendo introdotto modifiche all’art. 37, commi 1 e 2, D.P.R. 08.06.2001 n. 327, segue la disciplina transitoria prevista dall’art. 57 D.P.R. cit., ed è quindi inapplicabile nei procedimenti espropriativi in cui la dichiarazione di pubblica utilità sia stata emessa prima del 30.06.2003, mentre la norma intertemporale di cui all’art. 2, comma 90, L. n. 244 cit. prevede la retroattività della nuova disciplina di determinazione dell’indennità espropriativa solo per i procedimenti espropriativi in corso, e non anche per i giudizi.
La sentenza in rassegna, occupandosi della controversia insorta in ordine alla determinazione dell’indennità d’esproprio di un fondo, avente in parte destinazione edificabile e in parte destinazione non edificabile, si è collocata, con riferimento alla prima, nel solco dell’orientamento espresso da Cass. n. 11480 del 2008, n. 28341 del 2008 e n. 13479 del 2012, a mente del quale nei giudizi aventi ad oggetto la determinazione dell’indennità di espropriazione, relativi a procedimenti in cui la dichiarazione di pubblica utilità sia stata emessa prima del 30.06.2003, data di entrata in vigore del D.P.R. 08.06.2001 n. 327, una volta venuto meno -a seguito della sentenza n. 348 del 2007 della Corte costituzionale- il criterio di indennizzo di cui all’art. 5-bis D.L. 11.07.1992 n. 333, conv., con modif., nella L. 08.08.1992 n. 359, trova applicazione il criterio del valore venale del bene previsto dall’art. 39 L. 25.06.1865 n. 2359, e non si applica l’art. 2, comma 89, lett. a), L. 24.12.2007 n. 244 che, avendo introdotto modifiche all’art. 37, commi 1 e 2, D.P.R. 08.06.2001 n. 327, segue la disciplina transitoria prevista dall’art. 57 D.P.R. cit., ed è quindi inapplicabile nei procedimenti espropriativi in cui la dichiarazione di pubblica utilità sia stata emessa prima del 30.06.2003, mentre la norma intertemporale di cui all’art. 2, comma 90, L. n. 244 cit. prevede la retroattività della nuova disciplina di determinazione dell’indennità espropriativa solo per i procedimenti espropriativi in corso, e non anche per i giudizi.
Con riferimento alla parte di suolo non edificabile, la Corte è giunta alla stessa conclusione, valorizzando l’orientamento confermato da Cass. n. 2998 del 2012, secondo il quale, qualora l’espropriato contesti, seppur limitatamente al presupposto della natura agricola o non edificatoria del terreno, la stima operata dalla corte di appello con il criterio del VAM (valore agricolo medio) previsto dagli artt. 16 della L. n. 865 del 1971 e 5-bis, comma 4, della L. n. 359 del 1992 e dichiarato incostituzionale dalla sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale n. 181 del 2011, la stima dell’indennità dev’essere effettuata applicando il criterio generale del valore venale pieno, potendo l’interessato anche dimostrare che il fondo è suscettibile di uno sfruttamento ulteriore e diverso da quello agricolo, pur senza raggiungere il livello dell’edificatorietà e che, quindi, ha una valutazione di mercato che rispecchia possibilità di utilizzazione intermedie tra l’agricola e l’edificatoria (ad esempio, parcheggi, depositi, attività sportive e ricreative, chioschi per la vendita di prodotti) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 21.09.2012 n. 16103 - tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2012).

EDILIZIA PRIVATAABUSIVO INIZIO LAVORI IN ZONA SISMICA E PERMANENZA DEL REATO.
La contravvenzione di cui agli artt. 94, comma 1, e 95 del D.P.R. n. 380 del 2001 (inizio dei lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della Regione) permane sino a quando chi intraprende un lavoro edile in zona sismica termina il lavoro ovvero ottiene la relativa autorizzazione.
Il tema su cui la Corte viene chiamata a pronunciarsi nel caso in esame concerne l’individuazione della natura giuridica dei reati in materia antisismica e, più specificamente, del reato consistente nell’iniziare dei lavori in zona sismica senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della Regione.
La vicenda processuale vedeva imputato del reato di cui agli artt. 94, comma 1 e 95 del D.P.R. n. 380 del 2001 il proprietario di un immobile, cui era stato contestato di avere realizzato la sopraelevazione di un fabbricato e la costruzione di n. 3 piccoli manufatti, senza avere ottenuto la preventiva autorizzazione necessaria per le opere da eseguirsi in zona sismica. Avverso tale sentenza proponeva ricorso il difensore, il quale -per quanto qui di interesse- eccepiva la prescrizione del reato sul presupposto, in sostanza, che il reato fosse da considerarsi istantaneo e non permanente.
La prospettazione difensiva è stata però disattesa dai giudici di legittimità, che hanno dichiarato inammissibile il ricorso affermando il principio secondo cui la contravvenzione oggetto di contestazione ha natura di reato permanente, sicché la stessa permane sino a quando chi intraprende un lavoro edile in zona sismica termina il lavoro ovvero ottiene la relativa autorizzazione. Nelle more il contravventore, secondo gli Ermellini, esegue e prosegue lavori non autorizzati in relazione ai quali l’ufficio tecnico regionale non ha verificato la conformità alle norme tecniche di sicurezza stabilite per le zone sismiche.
La soluzione offerta dalla Cassazione non è però del tutto pacifica nella giurisprudenza di legittimità. Ed infatti, seppur autorevolmente sostenuta nel passato dalle Sezioni Unite (che, in particolare, sotto la vigenza dell’abrogata L. n. 64/1974 ritennero che i reati consistenti nell’omissione della presentazione della denuncia dei lavori, e dell’avviso di inizio dei lavori, avessero natura di reati istantanei: Cass. pen., Sez. Un., 14.07.1999, n. 18, in CED Cass., n. 213933), la stessa è stata convincentemente contrastata dalla più recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui i reati previsti dagli artt. 93 e 94 del D.P.R. n. 380/2001, sanzionati dall’art. 95, avrebbero invece natura di reati permanenti, in quanto il primo (art. 93) permane sino a quando chi intraprende l’intervento edilizio in zona sismica non presenta la relativa denuncia con l’allegato progetto ovvero non termina l’intervento e, il secondo (art. 94), permane sino a quando chi intraprende l’intervento edilizio in zona sismica lo termina ovvero ottiene la relativa autorizzazione (Cass. pen., sez. 3, 05.12.2007, n. 3069/2008, in CED Cass., n. 238629).
Poiché la loro natura istantanea è sta anche di recente affermata dalla Suprema Corte (v., ad es.: Cass. pen., sez. III, 26.05.2001, n. 23656, in CED Cass., n. 250487), sarebbe auspicabile che su tale questione intervengano nuovamente le Sezioni Unite penali per fornire un contributo esegetico risolutivo, eliminando i dubbi sorti in giurisprudenza (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.09.2012 n. 36037 - tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2012).

EDILIZIA PRIVATAREATO PAESAGGISTICO E PRINCIPIO DI OFFENSIVITA'.
Il reato di cui all’art. 181, comma 1, D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, è reato di pericolo e, pertanto, per la  configurabilità dell’illecito, non è necessario un effettivo pregiudizio per l’ambiente, potendo escludersi dal novero delle condotte penalmente rilevanti soltanto quelle che si prospettano inidonee, pure in astratto, a compromettere i valori del paesaggio e l’aspetto esteriore degli edifici; il principio di offensività deve, infatti, essere inteso in termini non di concreto apprezzamento di un danno ambientate, bensì dell’attitudine della condotta a porre in pericolo il bene protetto.
La Suprema Corte è intervenuta, con la sentenza in commento, su un tema assai discusso nella giurisprudenza di legittimità, vertente sulla natura giuridica del reato paesaggistico e sul conseguente riflesso del medesimo sul principio di offensività.
La vicenda processuale vedeva imputato il proprietario di un immobile cui era stato addebitato il reato di cui all’art. 181 del D.Lgs. n. 42 del 2004, per avere realizzato, in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, in assenza dell’autorizzazione dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, una tettoia in legno di circa 20 mq, sul lastrico solare di un manufatto preesistente.
Contro la sentenza di condanna presentava ricorso per cassazione la difesa dell’imputato, sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione, in particolare eccependo, per quanto qui di interesse, la incongrua valutazione della necessità del permesso di costruire per la realizzazione del manufatto in oggetto, attesa la natura pertinenziale di tale struttura.
Tesi, questa, che è stata ritenuta infondata dalla Cassazione che ha dichiarato inammissibile il ricorso. In particolare, gli Ermellini, nell’affermare il principio di cui in massima, hanno richiamato quella giurisprudenza secondo cui nelle zone paesisticamente vincolate è inibita -in assenza dell’autorizzazione già prevista dalla L. n. 1497 del 1939, art. 7 le cui procedure di rilascio sono state innovate dalla L. n. 431 del 1985, art. 7 e sono attualmente disciplinate dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 146- ogni modificazione dell’assetto del territorio, attuata attraverso lavori di qualsiasi genere, non soltanto edilizi (con le deroghe eventualmente individuate dal piano paesaggistico, del D.Lgs. n. 42 del 2004, ex art. 143, comma 5, lett. b, nonché ad eccezione degli interventi previsti dal successivo art. 149).
La fattispecie incriminatrice e` rivolta a tutelare, dunque, sia l’ambiente sia, strumentalmente e mediatamente, l’interesse a che la p.a. preposta al controllo venga posta in condizioni di esercitare efficacemente e tempestivamente detta funzione: la salvaguardia del bene ambientale, in tal modo, viene anticipata mediante la previsione di adempimenti formali finalizzati alla protezione finale del bene sostanziale ed anche a tali adempimenti è apprestata tutela penale.
La Corte costituzionale, ricordano i giudici di legittimità, ha precisato (sentenza n. 247 del 1997) che anche per i reati ascritti alla categoria di quelli formali e di pericolo presunto od astratto è sempre devoluto al sindacato del giudice penale l’accertamento in concreto dell’offensività specifica della singola condotta, dal momento che, ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta e si verte in tema di reato impossibile, ex art. 49 c.p. (sentenza n. 360 del 1995).
Nella fattispecie in esame, pertanto, a fronte dell’esecuzione di opere oggettivamente non irrilevanti ed astrattamente idonee a compromettere l’ambiente, sussiste per la Corte un’effettiva messa in pericolo del paesaggio, oggettivamente insita nella minaccia ad esso portata e valutabile come tale ex ante, nonché una violazione dell’interesse dalla p.a. ad una corretta informazione preventiva ed all’esercizio di un efficace e sollecito controllo (in precedenza, nel senso che il reato de quo non viene integrato da qualsiasi opera o attività compiuta senza il preventivo rilascio dell’autorizzazione da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, atteso che anche in presenza di un reato formale e di pericolo presunto è riservata al giudice la verifica dell’offensività specifica della condotta tenuta, con valutazione ex ante e che perciò deve essere diretta ad accertare non già se vi sia stato un danno al paesaggio ed all’ambiente, bensì se il tipo di intervento fosse astrattamente idoneo a ledere il bene giuridico tutelato: Cass. pen., sez. III, 20.03.2003, n. 12850, in CED Cass., n. 224366) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.09.2012 n. 35801 - tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2012).

EDILIZIA PRIVATAESCLUSIONE DELLA RESPONSABILITA' ‘‘DI POSIZIONE’’ DEL PROPRIETARIO PER I LAVORI ABUSIVI.
Il semplice fatto di essere proprietario o comproprietario del terreno (o comunque della superficie) sul quale vengono svolti lavori edili illeciti, pur potendo costituire un indizio grave, non è sufficiente da solo ad affermare la responsabilità penale, nemmeno qualora il soggetto che riveste tali qualità sia a conoscenza che altri eseguano opere abusive sul suo fondo, essendo necessario, a tal fine, rinvenire altri elementi in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che egli abbia in qualche modo concorso, anche solo moralmente, con il committente o l’esecutore dei lavori abusivi.
La Corte Suprema ritorna con la sentenza in esame sul tema dell’individuazione degli elementi in presenza dei quali può ritenersi sussistere la responsabilità del proprietario di un manufatto su cui siano stati eseguiti lavori abusivi.
La vicenda processuale vedeva imputato il proprietario di un immobile cui era stato addebitato il reato di cui all’art. 44, lett. c), del D.P.R. n. 380 del 2001 per avere realizzato, in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, in assenza del prescritto permesso di costruire, un fabbricato in duplice elevazione, ciascuna avente superficie di mt. 17 x 8,50 circa.
Contro la sentenza di condanna presentava ricorso per cassazione l’imputato sotto i profili della violazione di legge e della illogicità della motivazione, in particolare, per quanto di interesse in questa sede, eccependo la carenza assoluta di prova in ordine alla riconducibilità dell’attività di edificazione abusiva alla persona dell’imputato.
La tesi non è stata però accolta dalla Cassazione che ha, invece, dichiarato inammissibile il ricorso.
Riguardo alla ritenuta responsabilità per l’esecuzione della costruzione abusiva, la giurisprudenza ormai assolutamente prevalente è, invero, orientata nel senso che non può essere attribuito ad un soggetto, per il solo fatto di essere proprietario di un’area, un dovere di controllo dalla cui violazione derivi una responsabilità penale per costruzione abusiva.
Occorre considerare, in sostanza, la situazione concreta in cui si è svolta l’attività incriminata, tenendo conto non soltanto della piena disponibilità, giuridica e di fatto, della superficie edificata e dell’interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione (principio del ‘‘cui prodest’’) bensì pure una serie di elementi sintomatici:
a) rapporti di parentela o di affinità tra l’esecutore dell’opera abusiva ed il proprietario;
b) l’eventuale presenza in loco di quest’ultimo durante l’effettuazione dei lavori;
c) lo svolgimento di attività di materiale vigilanza sull’esecuzione dei lavori;
d) la richiesta di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria;
e) il regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari;
f) in definitiva, tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione, anche morale, all’esecuzione delle opere, tenendo presente pure la destinazione finale della stessa.
Alla stregua di tali principi, nella fattispecie in esame, i giudici hanno ricondotto all’imputato l’attività di edificazione illecita in oggetto sui rilievi che egli era proprietario del fondo su cui sono state realizzate le opere abusive, ne aveva la disponibilità giuridica e di fatto, era presente in cantiere al momento dell’accertamento degli abusi e non ha prospettato né dimostrato che la costruzione sia avvenuta con il suo dissenso ovvero a sua insaputa (v., nello stesso senso: Cass. pen., sez. III, 25.10.2002, n. 35855, in CED Cass., n. 222511; difforme, però, da ultimo: Cass. pen., sez. IV, 08.05.2009, n. 19714, in questa Rivista 2009, 1390, con nota critica di Scarcella Obbligo giuridico di impedire l’evento e responsabilità del proprietario ex art. 41 Cost.) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.09.2012 n. 35797 - tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2012).

EDILIZIA PRIVATARELAZIONE DI ACCOMPAGNAMENTO ALLA DIA, NATURA DI ‘‘CERTIFICATO’’ E FALSITA` DEL PROGETTISTA.
La relazione di accompagnamento alla DIA edilizia (che costituisce parte integrante ed essenziale della dichiarazione stessa di inizio dell’attività) ha natura di ‘‘certificato’’ per quanto riguarda sia la descrizione dello stato attuale dei luoghi, sia la ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull’area o sull’immobile interessati dall’intervento, sia la rappresentazione delle opere che si intende realizzare e l’attestazione della conformità delle stesse agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio.
Interessante questione quella oggetto di esame da parte della Corte di Cassazione con la sentenza in esame. Il tema è quello della natura giuridica della cd. relazione di accompagnamento alla DIA edilizia, su cui è sorto un contrasto nella giurisprudenza di legittimità.
La vicenda processuale vedeva imputato del delitto di cui agli artt. 81 cpv. e 481 c.p. un geometra progettista, cui era stato addebitato di aver, in relazione ad un intervento edilizio di ricostruzione di un manufatto:
a) asseverato falsamente, in una DIA presentata al Comune, che gli eseguendi lavori avrebbero riguardato la manutenzione straordinaria di un fabbricato che però era già semidemolito nel 2002 e che tale intervento non si poneva in contrasto con gli strumenti urbanistici, che invece non consentivano nuove costruzioni in area classificata come agricola;
b) in una successiva domanda di permesso di costruire per ristrutturazione, attestato falsamente l’esistenza del medesimo edificio ormai ridotto allo stato di rudere. Avverso tale sentenza aveva proposto ricorso per cassazione il geometra, il quale deduceva -per quanto di interesse in questa sede-, l’inconfigurabilità del reato di cui all’art. 481 c.p., riferito alla DIA, poiché la relazione ad essa allegata non avrebbe natura di ‘‘certificato’’, in quanto ‘‘non è destinata a provare la oggettiva verità di ciò che in essa è stato affermato e, per la parte progettuale, essa manifesta una semplice intenzione e non registra una realtà oggettiva’’.
La tesi è stata però respinta dalla Cassazione, che ha dichiarato il ricorso inammissibile.
In particolare, la Corte si mostra assolutamente consapevole dell’esistenza del contrasto, precisando come tesi non convergenti sono state espresse quanto alla parte progettuale detta relazione allegata alla DIA edilizia. In relazione a tale parte del documento si è sostenuto, infatti, che essa rifletterebbe non una realtà oggettiva ma una semplice intenzione dell’interessato di realizzare le opere in essa descritte ed ancora inesistenti e, per quanto riguarda l’eventuale attestazione dell’assenza di vincoli, solamente un giudizio espresso dal dichiarante, come tale non necessariamente fondato su dati di fatto certi e sicuri (v., tra le tante: Cass. pen., sez. V, 24.02.2010, n. 7408, in CED Cass., n. 246094).
A divergenti conclusioni è pervenuta, invece, la stessa Sezione III (v., sul punto, Cass. pen., sez. III, 08.06.2011, n. 23072, inedita) - ove, in adesione alle argomentazioni svolte da una precedente decisione (Cass. pen., sez. III, 19.01.2009, n. 1818, in CED Cass., n. 242478), è stato evidenziato che, dalla lettura coordinata e sistematica della normativa di riferimento (D.P.R. n. 380 del 2001, art. 23, commi 1 e 6, e art. 29, comma 3), emerge un ‘‘sostanziale affidamento’’ riposto dall’ordinamento sulla relazione tecnica che accompagna il progetto e sulla sua veridicità, atteso che ‘‘quella relazione si sostituisce, in via ordinaria, ai controlli dell’ente territoriale ed offre le garanzie di legalità e correttezza dell’intervento’’.
In tale prospettiva la relazione del tecnico abilitato, per la Cassazione, costituisce un atto non solo idoneo ad integrare la dichiarazione di inizio dell’attività, ma anche dotato di piena autonomia e di valore pubblicistico, assumendo valore sostitutivo dei titolo edilizio abilitante e quindi certificativo.
La Corte, in adesione a tale ultimo orientamento, delinea la DIA, come atto fidefaciente a prescindere dal controllo della p.a. e riconnesso alla delega di potestà pubblica ad un soggetto qualificato; ne consegue, dunque, che la relazione asseverativa del progettista, sulla quale si fonda l’eliminazione dell’intermediazione del potere autorizzatorio) dell’attività del privato da parte della pubblica amministrazione, assume valore sostitutivo del provvedimento amministrativo e quindi ‘‘certificativo’’ (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.09.2012 n. 35795 - tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2012).

EDILIZIA PRIVATATOTALE DIFFORMITA' E ‘‘SUPERFICIE COPERTA’’ PER IMPIANTO INDUSTRIALE.
Il concetto di superficie coperta, con riferimento alla realizzazione di impianti industriali, non deve essere inteso in senso tecnico-costruttivo, bensì in quello più lato urbanistico-edilizio, quale superficie direttamente impegnata da un impianto fisso anche tenendo conto della superficie occupata per il suo funzionamento, in quanto detta superficie viene sottratta ad ogni altra possibilità di utilizzazione.
Interessante questione quella affrontata dalla Cassazione con la sentenza in commento, in cui i giudici di legittimità sono chiamati a risolvere un problema tecnico-giuridico particolare: come deve intendersi il concetto di superficie ‘‘coperta’’ ove il titolo abilitativo consenta al richiedente la realizzazione di interventi edilizi per una determinata estensione.
La vicenda processuale vedeva indagati del reato di cui all’art. all’art. 44, lett. b), D.P.R. 06.06.2001, n. 380, due soggetti cui era contestata, la realizzazione in corso d’opera, nella rispettiva qualità, la prima di amministratore delegato di una s.r.l., ed il secondo, di progettista e direttore dei lavori, opere edilizie per la costruzione di un parco elettroeolico costituito da 16 generatori su un’estensione complessiva di terreno di ha 01.14.43 in totale difformità dei permessi di costruire n. 173/2002 rilasciato il 29.10.2007 dal Comune di XXX e n. 197 rilasciato l’11.10.2007 dal Comune di YYY.
Secondo l’ipotesi accusatoria che aveva portato il GIP a disporre il sequestro di alcuni aerogeneratori e delle aree su cui gli stessi insistono, facenti parte di un parco eolico in corso di realizzazione, in sintesi, i citati permessi di costruire prevedevano che per la realizzazione del parco venisse utilizzata un’area complessiva di circa ha 91.61.83, mentre nel caso in esame era stata utilizzata un’area di ha 01.14.43. Gli impianti inoltre occupavano una superficie di gran lunga superiore al limite dei 40% di quella totale, come stabilito dall’art. 11.5 del Piano Regolatore Territoriale del Consorzio Industriale del CASIC, approvato dalla Regione Autonoma della S.; non sarebbero poi state osservate le distanze minime, stabilite dall’art. 51, punto 2.2 della deliberazione della Giunta Regionale n. 28/56 del 26.07.2007, delle turbine degli impianti eolici dai confini delle T., nonché dai confini delle strade provinciali; infine, non era stata chiesta preventivamente la valutazione di impatto ambientale per la realizzazione di impianti eolici.
Impugnato il provvedimento davanti al Tribunale del riesame, i giudici della cautela hanno -per quanto qui di interesse- ritenuto insussistente la violazione delle previsioni dei permessi di costruire, con riferimento alle dimensioni della superficie destinata alla realizzazione del Parco Eolico, osservando che i provvedimenti citati facevano riferimento al negozio costitutivo del diritto di superficie, così come condizionato alla successiva verifica della effettiva estensione sulla quale sarebbe stato esercitato il diritto. Il Tribunale ha, sul punto, rilevato che la superficie occupata da ogni singolo impianto, da rapportarsi alla base dei tralicci che sorreggono la struttura, e` pari a circa mq 151, sicché risulterebbe rispettato il rapporto massimo del 40%, tenuto conto della superficie del lotto pari a 625 mq destinata ad ogni singolo impianto.
Tale rapporto secondo l’ordinanza risulterebbe rispettato anche se si dovesse configurare come superficie occupata quella sorvolata dalle pale, risultante inferiore a mq 250.
Proponeva ricorso per cassazione per violazione di legge il P.M., contestandosi, sul punto, il criterio in base al quale il Tribunale ha calcolato la superficie occupata dai singoli aerogeneratori, dovendosi tener conto -secondo l’Accusa- non solo della superficie occupata dai tralicci che sostengono le pale, ma anche del diametro di queste ultime, che è di 80 metri, e, in particolare, della superficie occupata in conseguenza del movimento rotatorio di 360 gradi che le stesse effettuano seguendo la direzione del vento, con la conseguenza che rapportata la superficie occupata a quella dei singoli lotti risulta occupato il 98% della superficie su cui insiste ogni singolo aerogeneratore.
La tesi è stata accolta dalla Cassazione che ha annullato il provvedimento di dissequestro del Tribunale del riesame.
Sulla questione, in particolare, i giudici di legittimità hanno affermato che, ai fini della determinazione della superficie occupata da ogni singolo impianto, deve tenersi conto della proiezione della parte aerea sull’area sottostante. Ai fini di tale valutazione, infatti, non può non tenersi conto del movimento rotatorio dell’Impianto stesso.
Il concetto di superficie coperta, con riferimento alla realizzazione di impianti industriali, infatti, per la Corte, non deve essere inteso in senso tecnico-costruttivo, bensì in quello più lato urbanistico-edilizio, quale superficie direttamente impegnata da un impianto fisso anche tenendo conto della superficie occupata per il suo funzionamento, in quanto detta superficie viene sottratta ad ogni altra possibilità di utilizzazione (sulla questione non constano precedenti) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.08.2012 n. 33365 - tratto da Urbanistica e appalti n. 11/2012).

EDILIZIA PRIVATARISTRUTTURAZIONE EDILIZIA ED INDIVIDUAZIONE DEI TITOLI ABILITATIVI.
Sono realizzabili con denuncia d’inizio attività gli interventi di ristrutturazione edilizia di portata minore, ovvero che comportano una semplice modifica dell’ordine in cui sono disposte le diverse parti dell’immobile, e con conservazione della consistenza urbanistica iniziale, classificabili diversamente dagli interventi di ristrutturazione edilizia descritti dall’art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R. n. 380 del 2001, che portano ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente con aumento delle unità immobiliari, o modifiche del volume, sagoma, prospetti o superfici, e per i quali e` necessario il preventivo permesso di costruire.
Questione ricorrente quella oggetto di esame da parte della Suprema Corte nella sentenza in esame. Gli Ermellini, infatti, sono stati chiamati nuovamente a pronunciarsi sul tema della individuazione di quale sia il titolo abilitativo richiesto nel caso in cui gli interventi da eseguirsi sull’unità immobiliare siano qualificabili come di ‘‘ristrutturazione edilizia’’.
La vicenda processuale vedeva imputati tre soggetti i quali erano stati condannati per avere, la prima, quale proprietaria e committente, il secondo, quale direttore dei lavori, ed il terzo, quale legale rappresentante della ditta esecutrice dei lavori, eseguito, senza permesso di costruire e senza autorizzazione paesaggistica, la ristrutturazione di alcuni annessi agricoli. In particolare, dagli atti dibattimentali era emerso che la committente, quale legale rappresentante del ‘‘Borghetto di C.’’ che svolge attività agricola e turistica, aveva chiesto di eseguire lavori edilizi, ottenendo la concessione n. 239/2004 e la variante n. 128/2006, nonché autorizzazione paesaggistica. Nel corso di un sopralluogo era stato però constatato che altri fabbricati (oltre quelli oggetto dei provvedimenti sopra indicati) erano stati oggetto di lavori di ristrutturazione. E per taluni dei predetti lavori, che necessitavano indiscutibilmente di permesso di costruire, questo non era stato rilasciato neppure in sanatoria.
A prescindere dal fatto che detti lavori, come sostenuto dalla difesa, fossero in astratto assentibili, gli imputati avrebbero dovuto astenersi dall’eseguirli fino a quando non fossero stati rilasciati i permessi di costruire e le autorizzazioni paesaggistiche.
L’esistenza poi dei vincoli paesaggistici non era stata oggetto di specifica ed argomentata contestazione; né i provvedimenti del Comune erano stati mai contestati davanti al Giudice amministrativo. Censuravano la sentenza di condanna gli imputati, sostenendo, per quanto qui di interesse, che i giudici di merito fossero pervenuti alla condanna ritenendo pacifico che vi fosse stato un mutamento della destinazione d’uso, con conseguente necessità di permesso di costruire.
Tale assunto però, a giudizio della difesa, era smentito dalle risultanze processuali, avendo i testi parlato di probabilità. Lo stato dei lavori, al momento del sopralluogo, non consentiva in alcun modo di desumere la natura e la destinazione delle opere al momento della ultimazione. Trattandosi di lavori di ristrutturazione senza mutamento della destinazione d’uso e non essendovi prova dell’esistenza del vincolo ambientale, non era dunque necessario per i ricorrenti il permesso di costruire ma una DIA (la cui mancanza era sanzionabile solo in via amministrativa).
La prospettazione difensiva non ha però avuto fortuna davanti ai giudici della Suprema Corte. Ed infatti, i giudici di Piazza Cavour hanno convenuto sul fatto che l’opera realizzata e di cui alla contestazione costituisse ‘‘nuova costruzione’’.
Hanno, in particolare rilevato che, a prescindere dalla riconoscibilità o meno della modifica della destinazione d’uso, risultava provato che si trattava di «ristrutturazioni che hanno determinato modifiche prospettiche e aumenti di volumi e superfici utili», per cui, a norma del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, comma 1, lett. c), occorreva permesso di costruire, pacificamente non conseguito.
Corretta, quindi, era stata l’applicazione, da parte dei giudici di merito, del principio di diritto, più volte affermato dalla Cassazione, secondo cui sono realizzabili con denuncia di inizio attività gli interventi di ristrutturazione edilizia di portata minore, ovvero che comportano una semplice modifica dell’ordine in cui sono disposte le diverse parti dell’immobile, e con conservazione della consistenza urbanistica iniziale, classificabili diversamente dagli interventi di ristrutturazione edilizia descritti dall’art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R. n. 380 del 2001, che portano ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente con aumento delle unità immobiliari, o modifiche del volume, sagoma, prospetti o superfici, e per i quali è necessario il preventivo permesso di costruire (v., in termini: Cass. pen., sez. III, 23.01.2007, n. 1893, in Ced Cass., n. 235871) (Corte di Cassazione, Sez. Sez. III penale, sentenza 26.07.2012 n. 30479 - tratto da Urbanistica e appalti n. 11/2012).

EDILIZIA PRIVATAINESTENSIBILE L’EFFETTO ESTINTIVO DELLA SANATORIA AI REATI ANTISIMICI O IN TEMA DI CEMENTO ARMATO.
L’estinzione delle contravvenzioni a seguito di rilascio di concessione in sanatoria ex D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36 opera solo in ordine al reato urbanistico per il quale la concessione stessa è prevista: con la ulteriore conseguenza che, se con il reato urbanistico concorrono altri reati di diversa natura, come la violazione della normativa antisismica o della normativa sulle opere in cemento armato, tali ultimi reati non possono ritenersi estinti, per la diversa oggettività giuridica.
La Corte Suprema ritorna con la sentenza in esame sul tema della delimitazione dell’effetto estintivo del permesso di costruire in sanatoria, ribadendo il proprio tradizionale orientamento giurisprudenziale secondo cui la sanatoria estingue i soli reati urbanistici e non anche quelli in materia antisismica o in materia di violazioni sul cemento armato. La vicenda processuale segue ad una sentenza di condanna emessa nei confronti di due soggetti, imputati di violazione della normativa edilizia ed antisismica (D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 83, 84, 93, 94 e 95), in relazione ad alcune opere edilizie realizzate all’interno di un capannone industriale.
Gli stessi proponevano ricorso per cassazione, lamentando l’erroneità della decisione per non avere il Tribunale tenuto conto che nei confronti degli stessi era intervenuta sentenza di proscioglimento per estinzione del reato urbanistico a seguito di rilascio di concessione in sanatoria: con la conseguenza che l’affermazione contenuta nella sentenza, secondo la quale era stata ritenuta la mancanza del permesso in sanatoria era da ritenersi errata, poiché all’intervenuto rilascio della concessione in sanatoria sarebbe dovuta conseguire l’estinzione degli altri reati.
La tesi non ha però avuto seguito nella valutazione dei giudici di legittimità che hanno mantenuto ferma la tradizionale giurisprudenza secondo cui il rilascio in sanatoria del permesso di costruire non determina l’estinzione dei reati relativi alle opere in conglomerato cementizio, o in materia antisismica, atteso che le disposizioni dell’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 estinguono i soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche, fra le quali non possono essere ricomprese le disposizioni aventi oggettività giuridica diversa rispetto alla tutela urbanistica del territorio (v., tra le tante: Cass. pen., sez. III, 21.03.2002, n. 11511, in Ced Cass., n. 221439) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.07.2012 n. 29131 - tratto da Urbanistica e appalti n. 11/2012).

VARISentenze a impatto sui privati. Il giudicato del Tar eseguibile non solo verso la p.a.. Il Tribunale amministrativo regionale della Puglia allarga i confini del processo.
Sentenze del Tar esecutive anche contro i privati. Il giudicato amministrativo può essere eseguito non solo contro una pubblica amministrazione, ma anche nei confronti di parti private coinvolte nel processo.
Il processo amministrativo allarga i suoi confini: il giudizio di ottemperanza può essere attivato anche nei confronti dei privati, essendo necessario riconoscere al giudice amministrativo la possibilità di garantire l'attuazione del giudicato senza distinzioni date dalla natura soggettiva della parte condannata.

È quanto ha stabilito il TAR Puglia–Bari, Sez. II, con la sentenza 11.07.2012 n. 1410.
Nel caso concreto un lavoratore si è rivolto al giudice amministrativo al fine di ottenere la liquidazione di alcuni compensi per attività svolte in favore di una società in origine pubblica, poi privatizzata. La condanna generica emanata dal tribunale amministrativo non è bastata al lavoratore, che ha dovuto rivolgersi allo stesso plesso giurisdizionale per chiedere l'ottemperanza della decisione precedentemente emessa.
La sopravvenuta privatizzazione della società condannata, però, ha comportato la declaratoria di inammissibilità del secondo ricorso per difetto di giurisdizione. Secondo il giudice amministrativo la giurisdizione sarebbe spettata al giudice ordinario. Tutto da rifare quindi.
Il tribunale civile, dal canto suo, ha negato, in contrasto alla pronuncia del Tar, la pretesa del lavoratore. Tuttavia, altro colpo di scena, la Corte di appello, in sede di gravame, si è ritenuta, così come il Tar, priva di giurisdizione.
La lite è quindi transitata innanzi la Suprema corte la quale, facendo ordine una volta per tutte sul farraginoso iter processuale, ha rimesso la questione al Tar, ritenuto l'unico giudice deputato a statuire sulla vicenda.
Il Tar, per la terza volta investito della vicenda, ha rigettato l'eccezione di inammissibilità del ricorso per intervenuta decadenza proposta dalla società. Al contempo, però, ha dovuto individuare il mezzo alternativo alla (decaduta) azione di cognizione per la liquidazione della condanna generica.
La soluzione cui è pervenuto il giudice amministrativo è stata quella di riqualificare la domanda, convertendola nel ricorso per l'ottemperanza del giudicato, il tutto -qui l'interesse della pronuncia- nonostante la natura privata della parte resistente.
In passato, infatti, la giurisprudenza amministrativa si è dimostrata piuttosto ostile all'esperibilità del giudizio contro i privati, ritenendolo attivabile solo in presenza di soggetti pubblici.
La sentenza, invece, ribalta l'orientamento negativo, dando contezza degli argomenti che militano per la tesi positiva, alcuni dei quali già si erano fatti avanti nella giurisprudenza del Consiglio di stato seppur con riferimento a questioni nelle quali, dal punto di vista soggettivo, vi era stata una mera successione fra enti (da pubblico a privato) nella titolarità di un determinato rapporto.
L'argomento principale a sostegno dell'ammissibilità del rimedio esecutorio ha carattere testuale, e risiede nel codice del processo amministrativo (dlgs 104/2010), ove all'articolo 112 si afferma che «i provvedimenti del giudice amministrativo devono essere eseguiti dalla pubblica amministrazione e dalle altre parti».
Secondo il Tar Puglia, detta disposizione avrebbe tre precise funzioni: anzitutto, codificare l'obbligo di esecuzione delle sentenze amministrative, facendo da «pendant» (per il giudicato amministrativo) con la antica disposizione contenuta nell'articolo 4 della legge 2248/1865, all. E, nella parte in cui pone l'obbligo per le amministrazioni di conformarsi al giudicato dei tribunali (ordinari); inoltre, osserva il Tar Puglia, la disposizione estenderebbe la declaratoria dell'obbligo di esecuzione delle decisioni anche alle «altre parti» (in ipotesi, anche private) che hanno partecipato al processo nel quale il giudicato si è formato; da ultimo, attraverso la lettura combinata con il secondo comma dell'articolo 112 c.p.a. tale da costruire un ponte logico tra le due norme, ritenere proponibile il giudizio di ottemperanza anche nei confronti di quei soggetti diversi dalla pubblica amministrazione, che sono comunque tenuti, giusto il disposto del primo comma, ad eseguire i «provvedimenti del giudice amministrativo».
Ci sono poi argomenti di principio: in particolare, così interpretato, il giudizio di ottemperanza sarebbe in grado di garantire quel principio di effettività della tutela (soprattutto nell'ambito della giurisdizione esclusiva) tanto enfatizzato dal nuovo codice di rito, principio che risulterebbe sensibilmente compresso laddove fossero paralizzati i poteri di intervento esecutivo del giudice amministrativo per il fatto che la mancata esecuzione del giudicato sia imputabile alla parte privata.
Infine, non deve dimenticarsi, come il giudice amministrativo non coincida con il «giudice dell'amministrazione», ma con il giudice dell'interesse legittimo (oltre che, in particolari materie, del diritto soggettivo) dal che non può che risultare costituzionalmente conforme l'attribuzione del compito di garantire l'attuazione del giudicato (ormai vero e proprio «diritto» della parte vincente, peraltro gestibile con i poteri della giurisdizione di merito ex articolo 134 c.p.a.), anche nei casi in cui l'obbligo di esecuzione gravi su una parte privata (articolo ItaliaOggi del 13.12.2012 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 14 del DPR 06.06.2001 n. 380, che i ricorrenti assumono violato, stabilisce testualmente che “Il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali è rilasciato esclusivamente per edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico, previa deliberazione del consiglio comunale, nel rispetto comunque delle disposizioni contenute nel decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, e delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia”.
A
i fini dell’applicazione della predetta deroga, la questione della riconducibilità delle strutture alberghiere tra gli “edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico” è stata già affrontata e risolta dalla giurisprudenza amministrativa nel senso di ritenerle comprese nell’ambito di applicazione dell’anzidetta previsione “trattandosi di un servizio offerto alla collettività e caratterizzato da una pubblica fruibilità, con la correlativa possibilità di concessioni in deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici in vigore”.
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Laddove il territorio interessato possieda una vocazione turistica prevalente, la riconduzione all'interesse pubblico dell'edificio alberghiero non richiede affatto un'interpretazione estensiva ed è anzi compatibile con una lettura restrittiva rispetto a diverse attività economiche che non presentino le medesime caratteristiche di rilevanza urbanistica e culturale, ma che solo possano accampare il loro peso economico.

Sostengono ancora i ricorrenti che nel caso di specie l’amministrazione intimata avrebbe fatto illegittimo uso dell’istituto della concessione edilizia in deroga, non sussistendo, nella specie, i presupposti di interesse pubblico che avrebbero potuto legittimare il rilascio di un titolo edilizio in contrasto con la normativa urbanistica comunale.
L’art. 14 del DPR 06.06.2001 n. 380, che i ricorrenti assumono violato, stabilisce testualmente che “Il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali è rilasciato esclusivamente per edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico, previa deliberazione del consiglio comunale, nel rispetto comunque delle disposizioni contenute nel decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, e delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia”.
Osserva il Collegio che ai fini dell’applicazione della predetta deroga, la questione della riconducibilità delle strutture alberghiere tra gli “edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico” è stata già affrontata e risolta dalla giurisprudenza amministrativa nel senso di ritenerle comprese nell’ambito di applicazione dell’anzidetta previsione “trattandosi di un servizio offerto alla collettività e caratterizzato da una pubblica fruibilità, con la correlativa possibilità di concessioni in deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici in vigore” (Cons. Stato, Sez. IV, 29.10.2002 n. 5913).
Inoltre, nel caso di specie, con la delibera n. 31 del 19.07.2004, di approvazione della concessione della deroga recante l’elevazione dell’indice di edificabilità da 0,4 mc/mq a 0,95 mc/mq, il Consiglio comunale ha espressamente evidenziato, in termini affatto irragionevoli, ulteriori profili di interesse pubblico dell’opera, rilevando che la struttura alberghiera in questione è funzionale allo sviluppo economico del Comune di Sant’Anna Arresi con particolare riferimento all’incremento del settore turistico ed alle ricadute occupazionali dell’indotto; nonché con riguardo alla sviluppo ed alla valorizzazione dell’intera area.
In proposito la giurisprudenza ha altresì precisato che “laddove il territorio interessato possieda una vocazione turistica prevalente, la riconduzione all'interesse pubblico dell'edificio alberghiero non richiede affatto un'interpretazione estensiva ed è anzi compatibile con una lettura restrittiva rispetto a diverse attività economiche che non presentino le medesime caratteristiche di rilevanza urbanistica e culturale, ma che solo possano accampare il loro peso economico” (Consiglio Stato, sez. IV, 28.10.1999, n. 1641) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 22.07.2009 n. 1375 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACirca l’ammissibilità del rilascio di concessioni o permessi di costruire in deroga, la giurisprudenza amministrativa aveva inizialmente interpretato l’espressione “impianti di interesse pubblico”, di cui all’art. 41-quater della L. 17.08.1942, n. 1150 (trasfuso nell’attuale art. 14 del T.U. sull’edilizia, approvato con D.P.R. 06.06.2001, n. 380), ad essi riconducendo solo interventi corrispondenti a compiti assunti direttamente dalla pubblica Amministrazione.
Successivamente si è, peraltro, registrata un’evoluzione, poi consolidatasi nel diritto vivente,nel senso di ritenere applicabile la stessa norma anche a strutture dove venga offerto un servizio alla collettività, caratterizzate da una pubblica fruibilità.
E’ stato considerato, infatti, che l'art. 16 della legge 06.08.1967, n. 765 preveda la possibilità di esercizio di un potere di deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici per manufatti sia pubblici (cioè gestiti da enti pubblici) che di interesse pubblico (ossia gestiti da soggetti indifferentemente pubblici o privati, aventi peraltro l’identica missione di soddisfare esigenze della collettività di tipo economico, bancario-assicurativo, culturale, industriale, igienico, religioso o turistico-alberghiero).
In particolare, questa nuovo indirizzo della giurisprudenza ha riguardato le strutture alberghiere, ritenute a pieno titolo ricomprese tra gli impianti di interesse pubblico, per i quali è consentito il rilascio di concessione edilizia in deroga.
Questo peculiare interesse pubblico, in particolare, ha trovato base e ragione nello sviluppo del turismo e della cultura.

Passando alle considerazioni del Collegio, va premesso che, circa l’ammissibilità del rilascio di concessioni o permessi di costruire in deroga, la giurisprudenza amministrativa aveva inizialmente interpretato l’espressione “impianti di interesse pubblico”, di cui all’art. 41-quater della L. 17.08.1942, n. 1150 (trasfuso nell’attuale art. 14 del T.U. sull’edilizia, approvato con D.P.R. 06.06.2001, n. 380), ad essi riconducendo solo interventi corrispondenti a compiti assunti direttamente dalla pubblica Amministrazione (vd., ad es.: Cons. St., V, 11.12.1992, n. 1428; IV, 25.11.1988, n. 774).
Successivamente si è, peraltro, registrata un’evoluzione, poi consolidatasi nel diritto vivente,nel senso di ritenere applicabile la stessa norma anche a strutture dove venga offerto un servizio alla collettività, caratterizzate da una pubblica fruibilità.
E’ stato considerato, infatti, che l'art. 16 della legge 06.08.1967, n. 765 preveda la possibilità di esercizio di un potere di deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici per manufatti sia pubblici (cioè gestiti da enti pubblici) che di interesse pubblico (ossia gestiti da soggetti indifferentemente pubblici o privati, aventi peraltro l’identica missione di soddisfare esigenze della collettività di tipo economico, bancario-assicurativo, culturale, industriale, igienico, religioso o turistico-alberghiero).
In particolare, questa nuovo indirizzo della giurisprudenza ha riguardato le strutture alberghiere, ritenute a pieno titolo ricomprese tra gli impianti di interesse pubblico, per i quali è consentito il rilascio di concessione edilizia in deroga (vd.: Cons. St., V, 11.01.2006, n. 46; IV, 12.01.2005, n. 7031; IV, 29.10.2002, n. 5913; IV, 28.10.1999, n. 1641; V, 15.07.1998, n. 1044).
Questo peculiare interesse pubblico, in particolare, ha trovato base e ragione nello sviluppo del turismo e della cultura (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 18.06.2009 n. 194 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa regola generale della decadenza del titolo edilizio in contrasto col nuovo piano regolatore trova la sua ratio nell’esigenza che le sopravvenute previsioni urbanistiche devono trovare indefettibile applicazione (salva la possibilità per l’interessato di impugnarle), in quanto volte –per definizione– ad un più razionale assetto del territorio, per soddisfare gli interessi pubblici e privati coinvolti.
Infatti, quando un nuovo piano determina le aree destinate all’edificazione e soddisfa gli standard eliminando la natura edificatoria di alcune aree determinate nel piano precedente, vi sarebbe l’alterazione delle previsioni urbanistiche e un irrazionale assetto del territorio (con la violazione della normativa sugli standard) se fossero edificate sia le aree indicate nel nuovo piano, sia quelle indicate nel piano precedente, ma destinate a servizi in quello successivo.
Per contemperare gli opposti interessi, l’art. 15, comma 4, del testo unico (così come il precedente art. 31 della legge n. 1150 del 1942) ha previsto una eccezione alla regola generale, che si ha quando i lavori precedentemente assentiti –pur contrastando col piano sopravvenuto in vigore– possano continuare ad essere realizzati se già cominciati nel vigore del piano precedente (e se siano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio).
In assenza del dato obiettivo dell’inizio dei lavori nel vigore del piano in base al quale è stato emesso il titolo edilizio, la legge dispone che va dichiarata la sua decadenza, con un atto dovuto di natura ricognitiva, avente effetti ex tunc.
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La pronuncia di decadenza è espressione di un potere vincolato, ha natura ricognitiva con effetti ex tunc e va emanata anche a notevole distanza di tempo, proprio perché accerta il venir meno degli effetti del titolo edilizio difforme dal piano sopravvenuto.
La pronuncia di decadenza –per il suo carattere di atto dovuto– deve basarsi su una motivazione che evidenzi l’effettiva sussistenza dei suoi presupposti di fatto (cioè il mancato inizio dei lavori e l’entrata in vigore del piano regolatore incompatibile col titolo in precedenza rilasciato): la prevalenza dell’interesse pubblico alla attuazione del piano sopravvenuto è imposta dall’art. 15, comma 4, del testo unico n. 380 del 2001, che determina la pronuncia di decadenza in presenza dei relativi presupposti oggettivi.

Va premesso che, per l’art. 31, comma 11, della legge n. 1150 del 1942, “l’entrata in vigore di nuove previsioni urbanistiche comporta la decadenza delle licenze in contrasto con le previsioni stesse, salvo che i relativi lavori siano stati iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio”.
Tale disposizione è stata trasfusa nell’art. 15, comma 4, del testo unico n. 380 del 2001 (vigente alla data di emanazione dell’atto impugnato in primo grado), per il quale “il permesso decade con l'entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio”.
La regola generale della decadenza del titolo edilizio in contrasto col nuovo piano regolatore trova la sua ratio nell’esigenza che le sopravvenute previsioni urbanistiche devono trovare indefettibile applicazione (salva la possibilità per l’interessato di impugnarle), in quanto volte –per definizione– ad un più razionale assetto del territorio, per soddisfare gli interessi pubblici e privati coinvolti.
Infatti, quando un nuovo piano determina le aree destinate all’edificazione e soddisfa gli standard eliminando la natura edificatoria di alcune aree determinate nel piano precedente, vi sarebbe l’alterazione delle previsioni urbanistiche e un irrazionale assetto del territorio (con la violazione della normativa sugli standard) se fossero edificate sia le aree indicate nel nuovo piano, sia quelle indicate nel piano precedente, ma destinate a servizi in quello successivo.
Per contemperare gli opposti interessi, l’art. 15, comma 4, del testo unico (così come il precedente art. 31 della legge n. 1150 del 1942) ha previsto una eccezione alla regola generale, che si ha quando i lavori precedentemente assentiti –pur contrastando col piano sopravvenuto in vigore– possano continuare ad essere realizzati se già cominciati nel vigore del piano precedente (e se siano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio).
In assenza del dato obiettivo dell’inizio dei lavori nel vigore del piano in base al quale è stato emesso il titolo edilizio, la legge dispone che va dichiarata la sua decadenza, con un atto dovuto di natura ricognitiva, avente effetti ex tunc (cfr. Sez. V, 09.09.1985, n. 288).
Ciò premesso, ritiene la Sezione che del tutto legittimamente l’Amministrazione comunale ha dichiarato la decadenza della concessione edilizia del 12.03.1992 (ritenuta sussistente dalla sentenza del TAR n. 10860 del 2004).
E’ decisivo considerare che l’interessato (ovvero la sua dante causa) –pur a seguito dell’entrata in vigore del nuovo piano regolatore- non ha mai formulato alcuna istanza di proroga, volta a far accertare dall’Amministrazione la sussistenza di circostanze tali da giustificare il mancato inizio dei lavori.
Per l’art. 15, comma 2, del testo unico n. 380 del 2001 (riproduttivo di un principio desumibile dall’art. 31 della legge n. 1150 del 1942), il termine per l’inizio e quello di compimento dei lavori “possono essere prorogati, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso”.
Per il legislatore, tali “fatti sopravvenuti” (che possono consistere nel factum principis o in altri casi di forza maggiore) non hanno un rilievo automatico, ma possono costituire oggetto di valutazione in sede amministrativa quando l’interessato proponga una domanda di proroga, il cui accoglimento è indefettibile perché non vi sia la pronuncia di decadenza.
Nella specie, non risulta che l’interessato abbia mai proposto una istanza di proroga del termine di inizio dei lavori, né prima né dopo l’entrata in vigore del nuovo piano regolatore e nemmeno dopo la pubblicazione della sentenza del TAR n. 18860 del 2004.
In assenza dell’atto di proroga, con l’atto impugnato in primo grado il Comune non poteva che prendere atto della circostanza obiettiva del mancato inizio dei lavori, risalente alla data di entrata in vigore del nuovo piano e successivamente perdurante.
Sono conseguentemente irrilevanti le circostanze che -ad avviso dell’appellante– avrebbero dovuto comportare il riconoscimento della sussistenza di un factum principis.
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Per quanto riguarda il notevole decorso del tempo intercorso tra il rilascio della concessione edilizia e la pronuncia di decadenza e la sussistenza di un legittimo affidamento, rilevano le precedenti considerazioni sull’ambito di applicazione dell’art. 15, comma 4, del testo unico n. 380 del 2001, per il quale l’entrata in vigore di un nuovo piano regolatore comporta la pronuncia di decadenza del titolo edilizio basato sul piano precedente, quando i relativi lavori non siano cominciati.
La pronuncia di decadenza è espressione di un potere vincolato, ha natura ricognitiva con effetti ex tunc e va emanata anche a notevole distanza di tempo, proprio perché accerta il venir meno degli effetti del titolo edilizio difforme dal piano sopravvenuto.
Inoltre, non sussiste il dedotto difetto di motivazione sulla mancata indicazione della prevalenza degli interessi pubblici, poiché la pronuncia di decadenza –per il suo carattere di atto dovuto– deve basarsi su una motivazione che evidenzi l’effettiva sussistenza dei suoi presupposti di fatto (cioè il mancato inizio dei lavori e l’entrata in vigore del piano regolatore incompatibile col titolo in precedenza rilasciato): la prevalenza dell’interesse pubblico alla attuazione del piano sopravvenuto è imposta dall’art. 15, comma 4, del testo unico n. 380 del 2001, che determina la pronuncia di decadenza in presenza dei relativi presupposti oggettivi
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.08.2007 n. 4423 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIACirca i presupposti di gravità e urgenza fissati dall’art. 9 della legge 447/1995 questa Sezione ha già formulato l’opinione che il potere-dovere di intervento del sindaco sorga direttamente con il superamento dei limiti di emissione e immissione previsti dal DPCM 14.12.1997, anche in assenza di un pericolo imminente per la salute delle persone, mentre la maggiore o minore attualità del pericolo è rilevante principalmente per la scelta delle misure da imporre in concreto.
Le misure a disposizione dell’amministrazione spaziano dall’ordine di bonifica (sempre ammissibile) alla chiusura dell’attività (ammissibile solo in presenza di particolari ragioni di pubblico interesse).

Circa i presupposti di gravità e urgenza fissati dall’art. 9 della legge 447/1995 questa Sezione ha già formulato l’opinione che il potere-dovere di intervento del sindaco sorga direttamente con il superamento dei limiti di emissione e immissione previsti dal DPCM 14.12.1997, anche in assenza di un pericolo imminente per la salute delle persone, mentre la maggiore o minore attualità del pericolo è rilevante principalmente per la scelta delle misure da imporre in concreto (v. TAR Brescia 20.11.2006 n. 1467 punti 17 e 18). Le misure a disposizione dell’amministrazione spaziano dall’ordine di bonifica (sempre ammissibile) alla chiusura dell’attività (ammissibile solo in presenza di particolari ragioni di pubblico interesse).
Nel caso in esame il Comune ha quindi agito correttamente sulla base dei verbali dell’ARPA e ha fatto un uso equilibrato dei propri poteri imponendo la riduzione delle immissioni senza incidere sulla prosecuzione dell’attività aziendale.
Lasciando alla ricorrente la possibilità di conseguire tale riduzione attraverso un intervento edilizio di schermatura (i cui costi non sono proibitivi) il Comune si è poi attenuto a un’interpretazione rigorosa del principio di proporzionalità, in quanto ha fissato l’obiettivo di pubblico interesse senza sovrapporsi alle valutazioni del privato circa i mezzi meno onerosi per conseguirlo.
Queste considerazioni non possono peraltro estendersi alle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate ai sensi dell’art. 10 della legge 447/1995, dal momento che sotto tale profilo la vicenda ricade nella giurisdizione ordinaria (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 26.06.2007 n. 578 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATASussiste la praticabilità, sotto il profilo edilizio, di una deroga ex art. 14 del DPR 380/2001 circa la realizzazione di una barriera antirumore a distanza non regolamentare dal confine.
Pur essendo stata abbandonata l’originaria qualificazione della barriera antirumore come recinzione, sostituita da quella più appropriata di nuova edificazione, non è stato correttamente impostato il problema dei presupposti per la deroga ex art. 14 del DPR 380/2001, in relazione non più all’altezza ma alla distanza dal confine.
La tesi della ricorrente secondo cui su questo punto avrebbe dovuto pronunciarsi il consiglio comunale è condivisibile, in quanto la predetta norma collega la deroga all’esame dello stesso organo avente competenza sul PRG, introducendo un’ipotesi di variante singolare. A questo aspetto formale si aggiunge quello più importante di diritto sostanziale che riguarda la possibilità di definire la barriera antirumore come opera di interesse pubblico.
Per inciso si osserva che se la prospettazione della ricorrente fosse palesemente infondata il Comune avrebbe potuto evitare di sottoporre la questione della deroga al consiglio comunale, in quanto gli uffici preposti alla materia edilizia possono fare da filtro nei confronti delle istanze che non hanno alcuna possibilità di essere accolte.
Nel caso in esame, tuttavia, l’opera per cui è chiesta la deroga svolge una funzione del tutto coerente con l’interesse pubblico al rispetto dei limiti di rumorosità vigenti nella zona. Si tratta di un obiettivo fissato direttamente dalla legge che il Comune ha ribadito attraverso due ordinanze rimettendo la soluzione tecnica alla stessa ricorrente senza individuare in astratto una specifica modalità di abbattimento delle immissioni sonore.
In sostanza, la posizione del Comune può essere divisa in due parti. Nelle premesse il Comune (come si è visto sopra al punto 9) effettua un corretto bilanciamento degli interessi coinvolti, in quanto non utilizza il problema dell’inquinamento acustico per espellere un’attività produttiva da una zona dove la stessa è insediata da molto tempo. Passando alle conclusioni, tuttavia, il Comune ritiene che la presenza di un interesse privato escluda quello pubblico, e in questo modo incorre in un vizio logico perché abbandona la proporzione tra il fine (abbattimento della rumorosità) e il mezzo (limiti all’attività dei privati).
È quindi necessario cancellare la decisione negativa del Comune e affermare coerentemente con le premesse la praticabilità sotto il profilo edilizio di una deroga ex art. 14 del DPR 380/2001
(TAR Lombardia-Brescia, sentenza 26.06.2007 n. 578 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAA seguito dell'entrata in vigore del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, il provvedimento autorizzatorio decade ove nel termine triennale, non prorogato, l'opera non risulti completata, senza che tale decadenza debba essere dichiarata con provvedimento espresso, con la conseguente illegittimità dei lavori proseguiti oltre detto termine.
La non necessità di provvedimenti caducatori da parte della Pubblica Amministrazione è ora introdotta dal TU 380/2001, art. 15, comma 2, che prevede espressamente come, decorsi i termini fissati, il permesso di costruire decada di diritto per la parte non eseguita; la norma supera la diatriba e rende non di attualità la copiosa giurisprudenza citata dallo indagato che non tiene conto della novazione legislativa.

Allo scopo di evitare che una edificazione, autorizzata in un dato momento, venga realizzata quando la situazione fattuale e normativa è mutata, il lavori devono essere iniziati ed ultimati nel termine prescritto nel permesso di costruire.
In esito al mancato rispetto del termine, il provvedimento autorizzatorio decade per la parte di edificazione non ultimata. Tale decadenza, secondo alcuni, deve essere necessariamente dichiarata con espresso provvedimento che ha natura costitutiva; secondo altri, l'effetto caducatorio opera di diritto anche in assenza di una dichiarazione formale che, se esistente, ha carattere dichiarativo.
La non necessità di provvedimenti da parte della Pubblica Amministrazione è ora introdotta dal TU 380/2001, art. 15, comma 2, che prevede espressamente come, decorsi i termini fissati, il permesso di costruire decada di diritto per la parte non eseguita; la norma supera la diatriba e rende non di attualità la copiosa giurisprudenza citata dallo indagato che non tiene conto della novazione legislativa.
Ora, nel caso concreto, è circostanza indiscussa che il termine per la ultimazione dei lavori fosse decorso; il ricorrente segnala -e documenta- che l'evento non gli è addebitabile in quanto dipeso da un fatto indipendente dalla sua volontà (interruzione dei lavori a causa della citata ordinanza del Corpo Forestale impugnata al TAR con procedimento ancora pendente).
Pertanto, è applicabile al caso la previsione del TU 380/2001, art. 15, comma 2, secondo la quale il termine triennale può essere prorogato per fatti intervenuti dopo l'inizio dei lavori, ritardanti la loro esecuzione, che non siano imputabili al titolare del permesso di costruire. Nella ipotesi che ci occupa, è stata tempestivamente, prima della scadenza del termine, proposta la richiesta di proroga sulla quale non si è ancora pronunciata la competente autorità; non è questa la sede per valutare se sussistano, o meno, i requisiti per il prolungamento del termine e, quindi, i relativi motivi di ricorso sono inconferenti. Stante la ricordata decadenza ope legis del permesso di costruire, l'indagato, in attesa delle determinazioni della Pubblica Amministrazione sulla proroga, non ha titolo autorizzatorio per continuare la edificazione.
L'atto del 02.08.2006 qualificato come "variante", per il suo contenuto intrinseco, può essere considerato un nuovo permesso di costruire, ma inficiato la palese illegittimità in quanto non tiene conto del vincolo di inedificabilità introdotto con la L. n. 353 del 2000 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.03.2007 n. 12316).

EDILIZIA PRIVATACon più recenti pronunce, questo Consiglio ha ritenuto ammissibili le deroghe al vigente PRG, qualificando le strutture alberghiere come entità di interesse pubblico, trattandosi di un servizio offerto alla collettività e caratterizzato da una pubblica fruibilità, con la correlativa possibilità di concessioni in deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici in vigore.
D’altra parte, l’art. 16 della legge n. 765/1967, prevede un potere di deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici per manufatti sia pubblici (cioè gestiti da enti pubblici) che di interesse pubblico (ossia gestiti da titolari indifferentemente pubblici o privati, ma destinati a soddisfare comunque esigenze della collettività di tipo economico, bancario-assicurativo, culturale, industriale, igienico, religioso o turistico-alberghiero).
Ed in tal senso depongono la circ. min. n. 3210/1967, l’art. 8 della legge n. 217/1983, e l’art. 5 della legge reg. Lombardia n. 39/1988, mentre la più consolidata giurisprudenza ha costantemente riconosciuto il carattere pubblicistico degli interessi coinvolti nella gestione del servizio alberghiero in genere, benché gestito da soggetti privati, in ragione appunto della sua generalizzata fruibilità collettiva.
Infatti, da lungo tempo l’ordinamento ha disciplinato le attività alberghiere, considerandole strettamente collegate, in particolare, agli interessi della sicurezza e della salute pubblica, nonché dello sviluppo turistico: cfr. R.D.L. 02.01.1936, n. 276 (conv., con modif., nella legge 24.07.1936, n. 1692), relativo al c.d. vincolo alberghiero, e R.D.L. 21.10.1937, n. 2180 (conv., con modif., nella legge 25.03.1950, n. 228), concernente la dichiarazione di pubblica utilità della costruzione di nuovi alberghi e dell’ampliamento o trasformazione di quelli già esistenti in Comuni di spiccata rilevanza turistica.

In passato, questo Consiglio si era orientato negativamente (cfr. Sez. IV, 25.11.1988, n. 774), ma con più recenti pronunce (cfr. Sez. V, 15.07.1998, n. 1044) ha ritenuto ammissibili le deroghe in questione, qualificando le strutture alberghiere come entità di interesse pubblico, trattandosi di un servizio offerto alla collettività e caratterizzato da una pubblica fruibilità, con la correlativa possibilità di concessioni in deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici in vigore.
D’altra parte, l’art. 16 della legge n. 765/1967, prevede un potere di deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici per manufatti sia pubblici (cioè gestiti da enti pubblici) che di interesse pubblico (ossia gestiti da titolari indifferentemente pubblici o privati, ma destinati a soddisfare comunque esigenze della collettività di tipo economico, bancario-assicurativo, culturale, industriale, igienico, religioso o turistico-alberghiero).
Ed in tal senso depongono la circ. min. n. 3210/1967, l’art. 8 della legge n. 217/1983, e l’art. 5 della legge reg. Lombardia n. 39/1988, mentre la più consolidata giurisprudenza ha costantemente riconosciuto (come si è detto) il carattere pubblicistico degli interessi coinvolti nella gestione del servizio alberghiero in genere, benché gestito da soggetti privati, in ragione appunto della sua generalizzata fruibilità collettiva.
Infatti, da lungo tempo l’ordinamento ha disciplinato le attività alberghiere, considerandole strettamente collegate, in particolare, agli interessi della sicurezza e della salute pubblica, nonché dello sviluppo turistico: cfr. R.D.L. 02.01.1936, n. 276 (conv., con modif., nella legge 24.07.1936, n. 1692), relativo al c.d. vincolo alberghiero, e R.D.L. 21.10.1937, n. 2180 (conv., con modif., nella legge 25.03.1950, n. 228), concernente la dichiarazione di pubblica utilità della costruzione di nuovi alberghi e dell’ampliamento o trasformazione di quelli già esistenti in Comuni di spiccata rilevanza turistica (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.10.2002 n. 5913 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO ALL'11.12.2012

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IN EVIDENZA

ATTENZIONE:
a decorrere da ieri 10.12.2012 la gestione amministrativa e tecnica della Procedura Abilitativa Semplificata (PAS) e delle comunicazioni di attività ad edilizia libera (CEL) sul territorio della Lombardia avviene esclusivamente in modalità telematica circa il rilascio dei titoli abilitativi per la costruzione, installazione ed esercizio di impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili.

EDILIZIA PRIVATA: Linee guida per l’autorizzazione di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili.

     Dette linee guida sono volte ad armonizzare l’esercizio delle funzioni amministrative per autorizzare gli impianti di produzione di energia da fonti energetiche rinnovabili, funzioni conferite alle Province lombarde con legge regionale n. 26 del 12.12.2003 (articolo 28, comma 1, lettera e-bis).

     Regione Lombardia ha da tempo avviato un percorso volto alla promozione e incentivazione delle fonti rinnovabili attraverso la definizione di specifiche azioni all’interno del Piano d’Azione per l’Energia, mancava però un sistema di regole semplificato e condiviso con gli enti locali preposti al rilascio dell’autorizzazione ai sensi del d.lgs. 387/2003.

     Per saperne di più clicca qui.

Allegato: DGR 18.04.2012 n. 3298 "Linee guida per l’autorizzazione di impianti di produzione di energia elettrica da fonti energetiche rinnovabili (FER) mediante recepimento della normativa nazionale in materia".

ENERGIA ELETTRICA DA FONTI RINNOVABILI: LE NOVITÀ SUI TITOLI ABILITATIVI DI COMPETENZA COMUNALE PER LA COSTRUZIONE, INSTALLAZIONE ED ESERCIZIO DEGLI IMPIANTI DI PRODUZIONE

     A decorrere dal 10.12.2012, sul territorio della Lombardia, la presentazione e la gestione amministrativa e tecnica della comunicazione di inizio lavori per attività in edilizia libera (CEL) e dell’istanza di procedura abilitativa semplificata (PAS) per la costruzione, installazione ed esercizio di impianti di produzione di energia elettrica alimentati da Fonti Energetiche Rinnovabili (FER) dovranno avvenire esclusivamente in modalità telematica.
     Gli applicativi realizzati per la gestione in modalità telematica sono:
- FERCEL per la comunicazione di inizio lavori per attività in edilizia libera
- FERPAS per l’istanza di procedura abilitativa semplificata.
     FERCEL e FERPAS saranno disponibili, sempre a decorrere dal 10.12.2012, sulla piattaforma MUTA - Modello Unico Trasmissione Atti, raggiungibile in modalità totalmente gratuita da parte di chiunque, all’indirizzo internet http://www.muta.servizirl.it.
     L’entrata in vigore delle procedure FERCEL e FERPAS (di competenza comunale) è stata approvata con decreto 21.11.2012 n. 10545, che sarà pubblicato sul Bollettino Ufficiale Regione Lombardia (BURL) del 10.12.2012 (cliccare qui per leggere il testo siccome pubblicato).

La modulistica
     La modulistica disponibile negli applicativi FERCEL e FERPAS è stata approvata con decreto 20.11.2012 n. 10484 che sarà pubblicato sul BURL del 10.12.2012 (cliccare qui per leggere il il testo siccome pubblicato).
     La modulistica:
- fornisce al compilatore della richiesta -cittadino, libero professionista, azienda del settore- un facsimile di istanza e della documentazione da allegare
- fornisce ai Comuni lombardi un unico modello di raccolta dati, unificando in tal modo la richiesta su tutto il territorio lombardo.

La piattaforma MUTA
     L’accesso alla piattaforma MUTA prevede l’autenticazione degli utilizzatori e la loro profilazione (identificazione della tipologia di utente che utilizza la piattaforma: cittadino, impresa, intermediario, funzionario comunale, ecc…).
     L’accesso con profilo cittadino/impresa e intermediario rende disponibile l’ambiente di compilazione, invio, verifica dello stato d’avanzamento e conclusione dell’iter di ciascuna modulistica compilata.
     L’accesso con profilo ente aggiunge ulteriori privilegi tipici delle funzioni di istruttoria per gli enti coinvolti (richiesta integrazioni, espressione pareri, determinazione esito finale, ecc…).
     Le istruzioni per l’esecuzione di ogni singolo passo delle procedure sono contenute nella documentazione disponibile alla voce “assistenza” contestualmente al servizio applicativo di MUTA.
     L’informatizzazione delle procedure risolve il debito informativo che le regioni hanno, in materia di dati relativi alle fonti di energia rinnovabili, verso i Ministeri delle Sviluppo Economico e dell’Ambiente. La normativa impone alle regioni il trasferimento delle informazioni richieste secondo tracciati predefiniti. Il Registro FER , all’interno del Sistema Informativo Regionale SIRENA (Sistema Informativo Regionale ENergia Ambiente), sarà a sua volta alimentato direttamente dalla piattaforma MUTA.
     Le imprese ICT, distributrici di pacchetti integrati per la gestione di procedimenti SUAP, possono naturalmente aggiungere analoghi applicativi, purché nel rispetto dei tracciati predefiniti.
     L’utilizzo della piattaforma MUTA e degli applicativi dedicati ha i seguenti vantaggi:
- Realizza la dematerializzazione della documentazione
- Permette l’archiviazione digitale e la conservazione sostitutiva
- Consente un controllo formale e logico dei dati, riducendo la possibilità di errori
- Guida i cittadini ed i professionisti intermediari nella compilazione della modulistica
- Supporta i Comuni nella gestione dell’istruttoria
- Consente il monitoraggio delle istanze sul territorio
     L’attivazione delle procedure informatiche FERCEL e FERPAS attua quanto previsto dalle Linee guida regionali approvate con Delibera di Giunta regionale n. 3298 del 18.04.2012.

Materiali di approfondimento
Slides di presentazione delle Linee Guida FER

Per informazioni:
rinnovabili@regione.lombardia.it (per quesiti normativi, procedurali e tecnici)
assistenza-fer@lispa.it (per quesiti informatici) (testo tratto da e link a www.ors.regione.lombardia.it).

11.12.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 10.12.2012, "Approvazione della procedura informatizzata per la presentazione della comunicazione di inizio lavori per attività in edilizia libera (CEL) e per la presentazione dell’istanza di procedura abilitativa semplificata (PAS) previste dal punto 3 dell’allegato 1 della d.g.r. 3298/2012 ed entrata in vigore delle procedure FERCEL e FERPAS per il rilascio dei titoli abilitativi per la costruzione, installazione ed esercizio di impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili di cui ai punti 1.1, 3.2 e 3.4 dell’allegato 1 della d.g.r. 3298/2012" (decreto D.U.O. 21.11.2012 n. 10545).

CORTE  DEI CONTI

ENTI LOCALI: Corte dei conti. Gli obblighi. Sulle partecipate esame continuo dell'ente socio.
RESPONSABILITÀ/ Nel caso di deficit ripetuti il Comune deve verificare se la società è ancora sostenuta da ragioni di convenienza.

L'ente locale deve controllare le società partecipate per garantire il principio di sana gestione e per esercitare i propri poteri di socio. Il tutto anche prima dell'entrata in vigore dei nuovi controlli dettati dal decreto enti locali, che nel caso delle partecipate scatteranno l'anno prossimo solo nelle città con più di 100mila abitanti per arrivare nel 2015 ad abbracciare tutti gli enti sopra i 15mila residenti.
La Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per il Veneto, con il parere n. 903/2012 ha preso in esame gli elementi che costituiscono la struttura essenziale del monitoraggio sull'andamento degli organismi societari.
L'attività deve anzitutto concretizzarsi con una verifica costante della permanenza dei presupposti valutativi che hanno determinato la scelta partecipativa iniziale, nonché con tempestivi interventi correttivi in relazione a eventuali mutamenti che intercorrano, nel corso della vita della società, negli elementi originariamente valutati.
Il monitoraggio consente di prevenire fenomeni patologici e ricadute negative sul bilancio dell'ente locale socio.
Secondo la Corte dei conti del Veneto, la necessità di effettuare una seria indagine sui costi e ricavi e sulla stessa pertinenza dell'oggetto sociale alle finalità dell'amministrazione, non può prescindere da un'azione preventiva di verifica e controllo, da parte del Comune o della Provincia, in merito alle attività svolte dalla società.
In questa prospettiva, l'intera durata della partecipazione deve essere accompagnata dal diligente esercizio di quei compiti di vigilanza (ad esempio sul corretto funzionamento degli organi societari, sull'adempimento degli obblighi scaturenti dalla convenzione di servizio, sul rispetto degli standard di qualità ivi previsti), di indirizzo (attraverso la determinazione degli obiettivi di fondo e delle scelte strategiche) e di controllo (sotto l'aspetto dell'analisi economico finanziaria dei documenti di bilancio e della verifica dell'effettivo valore della partecipazione detenuta) che la natura pubblica del servizio e la qualità di socio comportano.
Proprio questo aspetto responsabilizza gli amministratori degli enti locali, che devono agire esercitando i propri poteri di soci, anche operando scelte drastiche (come l'azione di responsabilità ex articolo 2393 del Codice civile) in caso di gestioni connotate da risultati fortemente negativi.
Quando il quadro deficitario di bilancio sia reiterato, questa situazione impone all'ente di valutare la permanenza di quelle condizioni di natura tecnica o di convenienza economica, nonché di sostenibilità politico-sociale che giustificarono (o che comunque avrebbero dovuto giustificare), a monte, la scelta di svolgere il servizio e di farlo attraverso moduli privatistici.
Il sistema dei controlli sulle società partecipate è quindi finalizzato a consentire anche un efficace supporto agli organi di governo nell'esercizio delle attività di loro competenza oltre che ad ottimizzare le azioni di corporate governance (articolo Il Sole 24 Ore del 10.12.2012 - tratto da www.corteconti.it).

NEWS

CONDOMINIO: Condomini, gestione in chiaro. L'amministratore deve garantire trasparenza finanziaria. Dalla tenuta dei registri al conto corrente: i nuovi obblighi introdotti dalla riforma.
L'amministratore condominiale fa il pieno di competenze. Sono, infatti, numerosi gli obblighi, nuovi, rimodulati o semplicemente codificati, addossati a questa figura dalla legge di riforma della disciplina condominiale.
Eccoli in sintesi.
Obblighi di comunicazione ai condomini e di affissione delle generalità in un luogo di pubblico accesso. In caso di nomina e per ogni successivo mandato, c'è l'obbligo per l'amministratore di comunicare ai condomini i propri dati anagrafici e professionali, il proprio codice fiscale e, qualora si tratti di società, la denominazione e la sede legale della stessa, l'indirizzo dei locali in cui si trovano i registri di cui ai numeri 6) e 7) dell'art. 1130 c.c. (registro dell'anagrafe condominiale, registro dei verbali dell'assemblea, registro di nomina e revoca dell'amministratore, registro di contabilità), nonché dei giorni e delle ore nelle quali ciascun condomino interessato può accedere a detti locali ed estrarre copia (firmata dall'amministratore) dei predetti documenti (previa richiesta a quest'ultimo e con rimborso della spesa). È poi evidente come sia di pubblico interesse poter risalire con immediatezza al nominativo e al recapito del soggetto chiamato per legge a rappresentare il condominio nei rapporti con i terzi. Ebbene, d'ora in avanti anche l'amministratore avrà l'obbligo di esporre in uno spazio accessibile ai terzi una targhetta con le proprie generalità.
Obbligo di stipulare apposita polizza assicurativa per la responsabilità professionale e di comunicarne gli estremi ai condomini. L'amministratore, al momento dell'accettazione della nomina, se previsto dall'assemblea, deve anche presentare ai condomini una polizza individuale di responsabilità civile per gli atti compiuti nell'esercizio del mandato. L'amministratore è tenuto ad adeguare i massimali della polizza se nel periodo del suo incarico l'assemblea abbia deliberato lavori straordinari. Tale adeguamento non deve essere però inferiore all'importo di spesa deliberato e deve essere effettuato contestualmente all'inizio dei lavori.
Obbligo di aprire un conto corrente condominiale e di far transitare esclusivamente su quest'ultimo le entrate e le uscite condominiali. Anche questa disposizione risponde a un'esigenza di elementare trasparenza nell'amministrazione delle somme di denaro di proprietà altrui. A detto conto corrente, che potrà essere sia bancario sia postale, avranno ovviamente diritto di accesso tutti i condomini. L'accesso dovrà comunque essere intermediato dall'amministratore.
Obbligo di consegna della documentazione condominiale o di singoli condomini alla cessazione dell'incarico. Viene ulteriormente ribadito, anche in sede normativa, l'obbligo dell'amministratore di passaggio delle consegne alla cessazione dell'incarico. Detto obbligo potrà essere assolto mediante consegna della documentazione condominiale o di singoli condomini sia a questi ultimi sia al nuovo amministratore designato dall'assemblea. Viene poi ulteriormente specificato che l'amministratore dimissionario resta comunque tenuto ad adottare eventuali interventi urgenti nell'interesse delle parti comuni anche dopo la cessazione dell'incarico, qualora non possa utilmente attivarsi il nuovo amministratore (ad esempio, perché non ancora nominato dall'assemblea), senza diritto a ulteriore compenso.
Obbligo di riscuotere le somme dovute dai condomini. Viene poi introdotto l'obbligo dell'amministratore di riscuotere quanto dovuto dai condomini alle casse comuni entro il termine di sei mesi dalla chiusura dell'esercizio contabile nel quale è compreso il credito vantato. L'intervento dell'assemblea, lungi dal costituire una condizione per il recupero forzoso dei crediti condominiali, può invece sollevare l'amministratore da detto obbligo normativo. Detto obbligo va correlato a quanto specificamente previsto in tema di morosità condominiale dall'art. 63 disp. att. c.c.
Obbligo di specificare l'ammontare del compenso al momento della nomina. Per evitare possibili contenziosi in materia, la legge di riforma ha previsto di obbligare l'amministratore a dichiarare espressamente, a pena di nullità della nomina stessa, l'ammontare del compenso richiesto sia in occasione della prima nomina sia per i successivi rinnovi del mandato biennale. Solitamente sarà la deliberazione assembleare di nomina a specificare l'ammontare del compenso richiesto dall'amministratore e accettato dall'assemblea.
Obblighi contabili. L'art. 1130-bis c.c. prevede un rendiconto condominiale annuale che dovrà predisposto dall'amministratore e contenere una serie di specifiche voci contabili indispensabili alla ricostruzione e al controllo della gestione dell'amministratore da parte di ogni condomino. In particolare, si prevedono come elementi imprescindibili del rendiconto: il registro di contabilità, il riepilogo finanziario e una relazione accompagnatoria, esplicativa della gestione annuale, con l'indicazione anche dei rapporti in corso e delle questioni pendenti (articolo ItaliaOggi Sette del 10.12.2012).

APPALTI: Contratti d'appalto, alcune accortezze per evitare errori. Le clausole che impongono un periodo di prova possono influenzare il calcolo del reddito.
Solo l'accettazione rende certo il ricavo degli appalti. Le clausole contrattuali che impongono dopo l'accettazione un periodo di prova possono avere influenza nel calcolo del reddito imponibile. Se già normalmente l'individuazione del periodo di competenza crea non pochi problemi ai contribuenti, gli stessi sono addirittura amplificati nel caso in cui oggetto dei rapporti è un contratto di appalto.
Sul punto vi sono alcune prese di posizioni della prassi che possono fornire un aiuto al fine di evitare errori.
La risoluzione n. 133/E del 26.09.2005 dell'agenzia delle entrate ha analizzato una ipotesi di appalto di opere pubbliche in cui una società che aveva per oggetto l'esecuzione di lavori edili e stradali in appalto con committenti sia pubblici che privati e sia italiani che esteri. Punto fondamentale (anche se non unico) dell'istanza era quello di individuare il momento in cui i lavori svolti potevano considerarsi ultimati così da individuare la competenza fiscale dei proventi e degli oneri in forza di quanto richiesto dall'art. 109, comma 2, lett. b), del Tuir. Lo stesso prevede che «i corrispettivi delle prestazioni di servizi si considerano conseguiti, e le spese di acquisizione dei servizi si considerano sostenute, alla data in cui le prestazioni sono ultimate, ovvero, per quelle dipendenti da contratti di locazione, mutuo, assicurazione e altri contratti da cui derivano corrispettivi periodici, alla data di maturazione dei corrispettivi».
Nel caso di specie ci si riferiva al momento in cui potranno considerarsi ultimate le opere nel caso di appalti pubblici disciplinati dalla cosiddetta legge Merloni (legge 11.02.1994, n. 109) le cui previsioni sono state ritenute decisive al fine di individuare la soluzione del caso concreto.
In particolare l'articolo 28 prevede che, entro sei mesi dall'ultimazione dei lavori, l'amministrazione pubblica committente faccia collaudare l'opera secondo le modalità previste dal regolamento di attuazione il quale detta una disciplina molto dettagliata del procedimento di collaudo. L'art. 199 prevede che l'organo di collaudo nel caso di risultato positivo debba emettere il certificato di collaudo che però ha carattere provvisorio e diviene definitivo solo decorsi due anni dalla sua emissione (o in altro termine stabilito dal capitolato). Qualora invece il collaudatore non ritenga collaudabile l'opera eseguita dall'appaltatore, il certificato di collaudo provvisorio non è emesso.
Secondo l'agenzia però «è possibile affermare che la “consegna”, nell'accezione giuridica del termine, e accettazione dell'opera, siano ricollegabili alla conclusione del procedimento relativo all'emissione del certificato di collaudo provvisorio, e in particolare al momento in cui, in esito alla procedura, sorge il diritto alla liquidazione del corrispettivo e resta a carico dell'appaltatore solo la garanzia per vizi e difformità dell'opera, cessando tutte altre garanzie tipiche del contratto, mentre il rischio per il perimento dell'opera si trasferisce in capo al committente».
In tal modo vi è un'anticipazione rispetto alla definitiva conclusione della commessa ma in effetti la soluzione pare conforme al reale volontà che può desumersi dalla lettura della regole fiscale.
Secondo l'agenzia la procedura di collaudo è unica e si esaurisce con la deliberazione sull'ammissibilità del certificato di collaudo provvisorio da parte della stazione appaltante. Tanto è vero che il collaudo definitivo può anche essere omesso e può anche essere parificato (in qualche modo) a quanto previsto dall'art. 1667 del codice civile che fissa (anch'esso) in due anni dalla data della consegna e accettazione dell'opera, il termine di prescrizione dell'azione del committente nei confronti dell'appaltatore nel caso di difformità e vizi dell'opera, specificando che essa vale solo con riferimento alle difformità e vizi non conosciuti e non riconoscibili e purché denunciati a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla scoperta.
Nella conclusione della risoluzione n. 133/E si afferma che «ai fini dell'applicazione dell'art. 93, comma 5, del Tuir, l'opera si debba considerare ultimata al momento in cui risulta avvenuta la sua “consegna” al committente nei termini sopra indicati, a conclusione del procedimento relativo all'emissione del certificato di collaudo provvisorio disciplinato dal dpr n. 554 del 1999. In tale momento sussistono tutti gli elementi (ultimazione dei lavori, consegna delle opere, certezza e determinabilità dei ricavi) per far partecipare alla determinazione del reddito il corrispettivo pattuito per l'opera completata» (articolo ItaliaOggi Sette del 10.12.2012).

PUBBLICO IMPIEGO: Attività di vendita. Irrilevante il compenso.
No al doppio lavoro per i dipendenti Pa.
Il dipendente pubblico non può esercitare attività di vendita anche se collabora soltanto al commercio come commesso, presso il negozio di una parente, con o senza compenso, e persino in modo discontinuo è soggetto a licenziamento.

In questo senso si è espressa la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza n. 20857/2012.
Il caso è relativo a una lavoratrice che, a volte durante il normale orario di lavoro e talora durante l'assenza per malattia, collaborava alla vendita nella struttura della sorella.
Accertato il fatto, la Regione l'ha licenziata, accusandola di aver violato il divieto assoluto di cumulo di impieghi e di incarichi lavorativi in costanza di rapporto di lavoro subordinato con datore pubblico.
L'impiegata ha fatto ricorso prima al tribunale e poi alla corte d'appello, ma ha perso in entrambi i giudizi. Si è rivolta, quindi, alla Cassazione, sostenendo che la sentenza di secondo grado non aveva tenuto presente che lei aveva prestato attività in modo non continuativo e non remunerato, sostando, per qualche ora nel negozio della sorella. Poi ha portato a sostegno la giurisprudenza secondo cui è lecita la partecipazione in società agricole a conduzione familiare, qualora l'impegno sia modesto, non abituale o continuato.
La Cassazione ha messo in evidenza come i giudici di merito abbiano rilevato che la dipendente pubblica si era trovata nel negozio sia in orario lavorativo che extralavorativo e che essi, correttamente, non hanno valutato rilevante l'attribuzione o meno di compenso per l'attività di vendita.
I giudici di legittimità sottolineano, quindi, che il legislatore (articolo 60 del Testo Unico 3/1957 sulle incompatibilità, richiamato dall'articolo 53, comma 1, del Dlgs 165/2001) considera illecito l'esercizio, da parte dell'impiegato pubblico, di commercio, industria o professione, senza far riferimento alla retribuzione e che la contrattazione collettiva pone il divieto di attendere ad occupazioni estranee al servizio. Proprio nella lineare interpretazione di queste regole spicca il profilo giuridico di originalità e di maggiore interesse di questa sentenza: il divieto di vendere è, per il dipendente pubblico, assoluto, a prescindere del fatto che la prestazione sia remunerata o continuativa (articolo Il Sole 24 Ore del 10.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Il subprocedimento di giustificazione dell'offerta anomala non è volto a consentire aggiustamenti dell'offerta in itinere, ma mira piuttosto a verificare la serietà di un'offerta consapevole già formulata ed immutabile, con conseguente inammissibilità di quelle giustificazioni che, nel tentativo di far apparire seria un'offerta che invece non è stata adeguatamente meditata, risultano tardivamente finalizzate ad un'allocazione dei costi diversi rispetto a quella originariamente indicata.
Né, per le stesse ragioni , deve ritenersi consentita l'immotivata rimodulazione di voci di costo al solo scopo di far “quadrare i conti”, al fine cioè di assicurare che il prezzo complessivo offerto resti immutato, superando le contestazioni della stazione appaltante su alcune voci di costo.
Del resto, nel giudizio di congruità dell'offerta, esplicazione paradigmatica di valutazioni tecniche e perciò sindacabile solo in caso di illogicità manifesta o di erroneità fattuale, non si fa questione soltanto della generica capienza dell'offerta, ma anche della sua serietà e tale non può essere considerata quell'offerta in relazione alla quale si registri una trasmigrazione dei costi da una voce all'altra.
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Non può essere condiviso l’assunto secondo cui sarebbe possibile un aggiustamento delle singole voci di costo, nel caso in cui questo si fondi su sopravvenienze di fatto o normative che determinano una riduzione dei costi, in questo caso ammettendo l’impresa a dimostrare la possibilità di compensazione tra voci sopravvalutate e voci sottovalutate .
Invero, presupposto indefettibile di tale assunto non può che essere la serietà e la consapevolezza dell’offerta presentata, che deve essere sempre rapportata ad una valutazione obiettiva del rapporto costi–benefici, e non artificialmente predisposta al fine di precostituirsi un margine di azione da utilizzare in sede di giustificazioni ed in vista dell’aggiudicazione.
Ciò significa che la compensazione di eventuali costi sovra e sottodimensionati in sede di offerta e riferibili alla medesima categoria potrebbe avvenire solo allorquando, in presenza di un’offerta necessariamente ancorata al rigido parametro costi–benefici, per ragioni indipendenti dalla volontà dell’offerente si vengano a creare situazioni attive e passive potenzialmente idonee a divenir oggetto di compensazione.

Come la Sezione ha già avuto modo di precisare, infatti, il subprocedimento di giustificazione dell'offerta anomala non è volto a consentire aggiustamenti dell'offerta in itinere, ma mira piuttosto a verificare la serietà di un'offerta consapevole già formulata ed immutabile, con conseguente inammissibilità di quelle giustificazioni che, nel tentativo di far apparire seria un'offerta che invece non è stata adeguatamente meditata, risultano tardivamente finalizzate ad un'allocazione dei costi diversi rispetto a quella originariamente indicata.
Né, per le stesse ragioni , deve ritenersi consentita l'immotivata rimodulazione di voci di costo al solo scopo di far “quadrare i conti”, al fine cioè di assicurare che il prezzo complessivo offerto resti immutato, superando le contestazioni della stazione appaltante su alcune voci di costo.
Del resto, nel giudizio di congruità dell'offerta, esplicazione paradigmatica di valutazioni tecniche e perciò sindacabile solo in caso di illogicità manifesta o di erroneità fattuale, non si fa questione soltanto della generica capienza dell'offerta, ma anche della sua serietà e tale non può essere considerata quell'offerta in relazione alla quale si registri una trasmigrazione dei costi da una voce all'altra (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 12.09.2011 n. 5098).
Né può esser condiviso l’assunto dell’appellante, secondo cui sarebbe possibile un aggiustamento delle singole voci di costo, nel caso in cui questo si fondi su sopravvenienze di fatto o normative che determinano una riduzione dei costi, in questo caso ammettendo l’impresa a dimostrare la possibilità di compensazione tra voci sopravvalutate e voci sottovalutate .
Invero, presupposto indefettibile di tale assunto non può che essere la serietà e la consapevolezza dell’offerta presentata, che deve essere sempre rapportata ad una valutazione obiettiva del rapporto costi–benefici, e non artificialmente predisposta al fine di precostituirsi un margine di azione da utilizzare in sede di giustificazioni ed in vista dell’aggiudicazione.
Ciò significa che la compensazione di eventuali costi sovra e sottodimensionati in sede di offerta e riferibili alla medesima categoria potrebbe avvenire solo allorquando, in presenza di un’offerta necessariamente ancorata al rigido parametro costi–benefici, per ragioni indipendenti dalla volontà dell’offerente si vengano a creare situazioni attive e passive potenzialmente idonee a divenir oggetto di compensazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.11.2012 n. 6117 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare su contratti pubblici aperte a soggetti senza scopo di lucro.
I soggetti senza scopo di lucro possono partecipare alle procedure per l'affidamento di contratti pubblici, così hanno stabilito i giudici della terza sezione del Consiglio di Stato. L'assenza dello scopo di lucro, spiegano i giudici di Palazzo Spada, non impedisce la qualificazione di un soggetto come imprenditore e non ne giustifica l'esclusione dalla partecipazione alle gare a priori.
E' orientamento giurisprudenziale ormai consolidato che i soggetti senza scopo di lucro possono partecipare alle procedure per l'affidamento di contratti pubblici alla condizione che esercitino anche attività d'impresa funzionale ai loro scopi ed in linea con la relativa disciplina statutaria, giacché l'assenza di fini di lucro non esclude che tali soggetti possano esercitare un'attività economica e che, dunque, siano ritenuti "operatori economici", potendo soddisfare i necessari requisiti per essere qualificati come "imprenditori", "fornitori" o "prestatori di servizi".
L'assenza dello scopo di lucro non impedisce la qualificazione di un soggetto come imprenditore e non ne giustifica l'esclusione dalla partecipazione alle gare a priori e senza ulteriori analisi, atteso che la normativa comunitaria, segnatamente la direttiva 2004/18/CE, osta all'esclusione di concorrenti dall'aggiudicazione di appalti pubblici per il solo motivo che essi non abbiano la forma giuridica corrispondente ad una determinata categoria di persone giuridiche, non avendo inteso restringere la nozione di "operatore economico che offre servizi sul mercato" unicamente agli operatori che sia dotati di un'organizzazione d'impresa né introdurre limitazioni a monte in ragione dell'organizzazione interna dell'operatore stesso, bensì mirando all'apertura alla concorrenza nella misura più ampia possibile sia nell'interesse comunitario alla libera circolazione dei prodotti e dei servizi, sia dell'interesse della stessa stazione appaltante.
Pertanto, deve ritenersi consentita la partecipazione ad appalti pubblici a soggetti i quali, autorizzati dalla normativa nazionale ad offrire servizi sul mercato, "non perseguono un preminente scopo di lucro, non dispongono di una struttura organizzativa di un'impresa e non assicurano una presenza regolare sul mercato …"; con la conseguenza che la normativa nazionale dev'essere interpretata in senso a ciò conforme e, all'occorrenza, disapplicata.
Inoltre, le onlus possono essere ammesse alle gare pubbliche quali "imprese sociali", a cui il d.lgs. 24.03.2006 n. 155 ha riconosciuto la legittimazione ad esercitare in via stabile e principale un'attività economica organizzata per la produzione e lo scambio di beni o di servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità d'interesse generale, anche se non lucrativa.
Pertanto, in questa occasione, non v'è dubbio sulla qualificazione di Croce Bianca come "operatore economico", essendo iscritta proprio in quanto tale alla Camera di commercio, industria, artigianato ed agricoltura di Milano, né alcuna disposizione del rispettivo statuto osta (a differenza che per la Croce Rossa Italiana,) alla stipula contratti o, comunque, allo svolgimento dell'attività imprenditoriale perfettamente in linea con le finalità istituzionali, qual è il trasporto sanitario (commento tratto da www. documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 20.11.2012 n. 5882 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI: Tar Calabria. In discussione la possibilità di porre limiti. Sindaco sempre in giudizio anche senza lo Statuto.
L'ORIENTAMENTO/ I giudici calabresi negano che l'autonomia possa fissare condizioni alla presenza in giudizio del rappresentante legale.

Non è necessaria la delibera di Giunta per autorizzare il sindaco a rappresentare in giudizio il Comune, anche a prescindere da eventuali limiti statutari.
A chiarire il quadro interviene la sentenza 16.11.2012 n. 671 del TAR Calabria-Reggio Calabria.
La sentenza accoglie la tesi difensiva del Comune in cui si evidenziava che ai fini della rappresentanza in giudizio dell'ente, l'autorizzazione alla lite da parte della Giunta Comunale non costituisce più, in linea generale, un atto necessario ai fini dell'agire o del resistere in giudizio.
I giudici del Tar rilevano che nel nuovo ordinamento delle autonomie locali, in un sistema in cui il sindaco trae direttamente la propria investitura dal corpo elettorale e costituisce egli stesso la fonte di legittimazione degli Assessori che compongono la Giunta l'autorizzazione da parte di quest'ultima non ha più ragion d'essere.
La sentenza del Tar Calabria quindi riprende le motivazioni della sentenza anche essa recente del Tar Salerno 1674/2012 e del Consiglio di Stato 5277/2012 perché nel nuovo ordinamento delle autonomie locali il sindaco ha assunto un ruolo politico ed amministrativo centrale, in quanto titolare di funzioni di direzione e di coordinamento dell'esecutivo comunale; l'autorizzazione del Consiglio prima e poi della Giunta, se trovava ragione in un assetto in cui il sindaco era eletto dal Consiglio e la Giunta costituiva espressione del Consiglio stesso, non ha più ragion d'essere in un sistema in cui il sindaco trae direttamente la propria investitura dal corpo elettorale e costituisce egli stesso la fonte di legittimazione degli assessori, a cui l'articolo 48 del Tuel affida il compito di collaborare con il capo dell'amministrazione municipale.
La sentenza comunque è degna di nota in quanto non sembra prevedere margini per eventuali limiti statutari superando l'orientamento del Tar Salerno e del Consiglio di Stato. Queste pronunce prevedevano la possibilità di eccezioni alla non necessità di una preventiva delibera nei casi in cui l'autonomia statutaria dell'ente, disciplinando i modi di esercizio della rappresentanza legale dell'ente (anche in giudizio ex articolo 6, comma 2, del Dlgs 267/2000) preveda l'autorizzazione della Giunta, oppure richieda una preventiva determinazione del competente dirigente, oppure ancora postula l'uno o l'altro intervento in relazione alla natura o all'oggetto della controversia (articolo Il Sole 24 Ore del 10.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI SERVIZI: Le cause di esclusione sono tassative anche per concessioni di servizi.
Il principio di tassatività delle cause di esclusione ex art. 46, c. 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006, si applica anche alle procedure aventi ad oggetto l'affidamento di una concessione di servizio pubblico: è questo il principio fissato dai giudici del Tribunale amministrativo di Bari nella sentenza in rassegna. I giudici pugliesi spiegano, più diffusamente, che il principio di tassatività delle cause di esclusione disposto dall'art. 46, c. 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006, c.d. Codice dei contratti pubblici (introdotto con il D.L. n. 70 del 2011 ed applicabile ratione temporis alla presente controversia) si applica anche alle procedure aventi ad oggetto l'affidamento di una concessione di servizio pubblico.
La tassatività delle ipotesi di esclusione, infatti, assurge ormai a principio generale relativo ai contratti pubblici e costituisce specificazione del principio di proporzionalità, talché la sua estensione alla materia delle concessioni di pubblico servizio trova esplicito fondamento nell'art. 30, c. 3, del Codice. Diversamente opinando, secondo gli stessi giudici, si giungerebbe ad un'ingiustificata divaricazione del regime da seguire nella gare per l'affidamento di appalti ed in quelle per l'affidamento di concessioni di servizi, non essendo peraltro sempre netto il confine tra le due categorie.
Pertanto, nella circostanza in pronuncia, è illegittima, per violazione dell'art. 46, c. 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006, la clausola della lex specialis di gara che imponga, a pena di esclusione, la presentazione della certificazione di qualità, in originale o in copia autentica, trattandosi di adempimento formale non essenziale e non previsto da alcuna norma di legge o regolamento (commento tratto da www. documentazione.ancitel.it - TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 09.11.2012 n. 1907 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Per il servizio di smaltimento rifiuti non più necessaria iscrizione Albo Naz. Gestori Ambientali.
La richiesta in una gara per l'affidamento del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti dell'iscrizione all'Albo Nazionale Gestori Ambientali, non più prevista dalla legge, viola i principi della par condicio e dei canoni di ragionevolezza e proporzionalità.
Così hanno stabilito i giudici del Tribunale amministrativo di Bari nella pronuncia in commento. Secondo l'originaria formulazione dell'art. 212 del D.Lgs. n. 152/2006, spiegano i giudici pugliesi, le iscrizioni all'Albo Nazionale Gestori Ambientali per specifiche categorie e classi di attività erano effettuate secondo la disciplina dell'art. 8 del D.M. n. 406 del 1998. Di recente, l'art. 25 del D.Lgs. n. 205/2010 ha modificato in molti punti l'art. 212 del D.Lgs. n. 152 del 2006 e ne ha, tra l'altro, abrogato il c. 20, che prevedeva l'iscrizione all'Albo per le imprese che effettuassero attività di raccolta e trasporto di rifiuti sottoposti a procedure autorizzatorie semplificate ed effettivamente avviati al riciclaggio ed al recupero, attività che corrispondeva alle categorie 2 e 3 dell'Albo.
Ne consegue che le categorie 2 e 3 individuate dal D.M. n. 406 del 1998, non essendo più compatibili con la nuova formulazione dell'art. 212 del D.Lgs. n. 152 del 2006, devono ritenersi abrogate. Pertanto, nel caso di specie, la lex specialis di gara non poteva legittimamente richiedere ai concorrenti la dimostrazione di un requisito non più conseguibile, a seguito della soppressione della categ. 3 e delle relative classi di attività.
La richiesta di un'iscrizione all'Albo non più prevista dalla legge, e dunque preclusa agli operatori economici che ne fossero privi, configura di per sé la violazione del principio della par condicio e dei canoni di ragionevolezza e proporzionalità, in quanto determina una irrazionale restrizione della possibilità di partecipare alla gara d'appalto, favorendo quegli operatori che tale iscrizione avessero ottenuto anni addietro, prima della modifica legislativa (commento tratto da www. documentazione.ancitel.it - TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 09.11.2012 n. 1903 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAESCLUSIONE DEL P.D.C. PER LE OPERE INTERNE NON COMPORTANTI AUMENTO VOLUMETRICO.
E` da escludersi che integri ‘‘aumento volumetrico’’, il quale richiede il permesso di costruzione, ogni diversa distribuzione in vani, per numero e ampiezza, dell’identica superficie totale calpestatale, salvo, beninteso il caso della realizzazione di ‘‘unità immobiliari’’ autonome.
Particolare interesse è destinata a suscitare la decisione in argomento, in cui la Cassazione si sofferma ad analizzare il tema della rilevanza penale della categoria edilizia delle cosiddette ‘‘opere interne’’. La vicenda processuale vedeva imputato il proprietario di un immobile, cui era stato contestato il reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b) e c), del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, per aver eseguito, senza permesso di costruzione, lavori in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, in particolare consistiti nella realizzazione, all’interno dei preesistenti manufatti, di un bagno e di una cucina, nel primo corpo di fabbrica, e di sette stanze (ciascuna da trenta metri quadrati) nel secondo corpo di fabbrica.
I giudici di merito avevano osservato che la preesistenza dell’edificio non esentava l’imputato dal permesso di costruzione, in quanto questi aveva creato all’interno degli immobili ‘‘stanze e strutture chiuse ex novo’’, così ponendo in essere ‘‘un intervento di nuova costruzione’’; nella specie, sostenevano i giudici di merito, le opere avevano comportato l’aumento della volumetria. Contro la sentenza di condanna proponeva ricorso per cassazione, a mezzo del difensore, l’imputato, sostenendo, per quanto qui di interesse, che non sarebbe stato realizzato alcun ‘‘aumento volumetrico degli immobili’’, asserendo l’irrilevanza della realizzazione ‘‘all’interno delle costruzioni di più ambienti rispetto a quelli preesistenti’’.
Le c.d. ‘‘opere interne’’, secondo la difesa, non sono sottoposte a concessione o autorizzazione amministrativa: nella specie, la superficie utile era rimasta inalterata, sicché le opere realizzate rientrerebbero nella ‘‘manutenzione straordinaria’’, nel ‘‘restauro o risanamento conservativo’’ o, tutt’al più , nella ristrutturazione cd. ‘‘leggera’’, per la quale è sufficiente la sola denunzia di inizio dei lavori.
La tesi è stata accolta dagli Ermellini che hanno, infatti, annullato la sentenza di condanna dell’imputato. Osserva la Cassazione, come la condotta del ricorrente si sarebbe esaurita in interventi, di vario tipo, tutti all’interno dei fabbricati e le opere realizzate non avrebbero comportato alcun ampliamento del perimetro esterno dei manufatti, ne´ la elevazione delle rispettive altezze.
Quanto all’aumento volumetrico, l’assunto relativo (al di là del rilevo dell’omessa quantificazione della cubatura realizzata in eccedenza) era smentito dal fatto che, secondo la stessa Corte di merito, la ‘‘superficie iniziale’’ della costruzione era rimasta, in esito ai lavori eseguiti, affatto ‘‘inalterata’’. Per tale ragione, dunque, la Corte afferma l’importante principio secondo cui da è da escludersi che integri ‘‘aumento volumetrico’’, il quale richiede il permesso di costruzione, ogni diversa distribuzione in vani, per numero e ampiezza, della identica superficie totale calpestatale, salvo, beninteso il caso della realizzazione di ‘‘unità immobiliari’’ autonome, da escludersi nel caso esaminato.
Nel senso che le cosiddette ‘‘opere interne’’, pur non essendo più previste nel D.P.R. 06.06.2001, n. 380, come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti, rientrano però negli interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle superfici ovvero mutamento di destinazione d’uso, v. Cass. pen., sez. III, 21.12.2011, n. 47438, in CED Cass., n. 251637) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.10.2012 n. 37713 - tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2012).

EDILIZIA PRIVATA: La PA ha l’obbligo di pronunciarsi sempre su denunce di abuso edilizio.
La questione oggetto della controversia sottoposta ai giudici del Consiglio di Stato, in questa pronuncia, si riferisce alla legittimità del silenzio dell’amministrazione comunale su una richiesta che ne sollecita i poteri repressivi nei confronti di un intervento edilizio, ritenuto abusivo perché lesivo delle prerogative della proprietà confinante.
Con la decisione impugnata il TAR si era espresso negativamente sul dovere dell’amministrazione di pronunziarsi, facendo riferimento al presupposto sostanziale per ottenere la repressione dell’abuso, costituito dalla effettiva lesione delle prerogative dominicali del soggetto che sollecita l’esercizio dei poteri repressivi in questione. Alla luce della giurisprudenza del Consiglio di Stato, i giudici di Palazzo Spada hanno accolto il ricorso e ribadendo che la causa verte esclusivamente sulla sussistenza di un obbligo del Comune di pronunziarsi sulla domanda, e non sul merito della controversia (la regolarità o meno dell’intervento edilizio), spiegano che, in circostanze come questa, in via generale, “l'obbligo giuridico di provvedere -ai sensi dell'art. 2 della legge 07.08.1990, n. 241, come modificato dall’art. 7 della legge 18.06.2009, n. 69- sussiste in tutte quelle fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongano l'adozione di un provvedimento e quindi, tutte quelle volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell'Amministrazione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 03.06.2010, n. 3487).
In particolare, poi, il proprietario confinante con l’immobile, nel quale si assuma essere stato realizzato un abuso edilizio, ha comunque un interesse alla definizione dei procedimenti relativi all’immobile medesimo entro il termine previsto dalla legge, tenendo conto dell’interesse sostanziale che, in relazione alla vicinanza, egli può nutrire in ordine all’esercizio dei poteri repressivi e ripristinatori da parte dell’organo competente (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 20.07.2006, n. 4609; Id., IV Sez., 07.07.2008, n. 3384)
” (Cons. di Stato, sez. IV, n. 2468/2012).
Ciò considerato, secondo gli stessi giudici la decisione del TAR opera una commistione tra le due distinte questioni giuridiche (pronunzia o meno sull’istanza ed esercizio o meno dei poteri repressivi), obliterando che oggetto del ricorso era solo la prima. E con riferimento a questa sussistevano gli elementi legittimanti minimali per ottenere la pronunzia del Comune, costituiti dalla incontestata proprietà da parte istante e dallo stato dei luoghi esposto dal ricorrente.
Come già affermato in fattispecie analoghe (Cons. di Stato n. 2468/2012, cit.), resta poi irrilevante la prospettiva di un esperimento dell’azione possessoria in sede civile, ben potendo la tutela (rimozione del presunto abuso), non conseguita in sede civile, essere realizzarsi mediante il richiesto esercizio dei poteri pubblicistici in materia edilizia (commento tratto da www. documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.10.2012 n. 5347 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI: I Comuni non possono limitare l'orario delle sale giochi.
Nella pronuncia in commento il Tribunale amministrativo di Brescia svolge un’interessante disamina sui poteri comunali in tema di sale giochi.
I giudici lombardi spiegano, innanzitutto, che la gestione di sale giochi è un’attività lecita, svolta sotto il rigoroso controllo delle autorità di pubblica sicurezza, nell’ambito del gioco lecito affidato alla cura dell’AAMS, con entrate significative per l’erario. Come tutte le attività lecite anche la gestione di sale giochi è tutelata dalla libertà costituzionale di iniziativa economica (v. art. 41 Cost.).
In tale protezione è compresa, come ineludibile corollario, la libertà dell’imprenditore di organizzarsi nel modo ritenuto più efficace per massimizzare la resa del proprio investimento. Sul piano costituzionale sono legittime le limitazioni all’attività delle sale giochi motivate da ragioni di pubblica sicurezza, ma in questa materia le funzioni sono attribuite alle autorità statali e non ammettono duplicazione a livello comunale. Sono poi ammissibili altre limitazioni, parimenti richiamate nell’art. 41 Cost., che tutelano profili di utilità sociale.
Queste ultime limitazioni (come precisato nel comma 3 dell’art. 41 Cost.) devono trovare un fondamento legislativo: alle singole amministrazioni locali non è consentito di impostare una propria autonoma politica di contenimento o allontanamento delle attività imprenditoriali collegate al gioco. Un fondamento legislativo non può essere individuato nella norma sul potere di regolazione degli orari delle attività commerciali e degli esercizi pubblici (v. art. 50, comma 7, del Dlgs. 18.08.2000 n. 267), perché manca nella legge nazionale un riconoscimento espresso della possibilità di estendere il suddetto potere alla sfera della pubblica sicurezza e a quella sanitaria. Per quanto riguarda specificamente quest’ultima si deve quindi escludere che lo strumento della regolazione degli orari possa essere utilizzato dai comuni per prevenire e combattere la ludopatia attraverso la limitazione delle occasioni di gioco.
La regolazione degli orari persegue in realtà scopi più ristretti, di omogeneizzazione dei tempi di offerta dei servizi sul territorio, e si tratta di un obiettivo ormai in contrasto con i principi dell’ordinamento dopo che sono stati aboliti i limiti di orario per le attività commerciali e per gli esercizi pubblici. Si rinvia in proposito al percorso di liberalizzazione che si è affermato progressivamente a partire dal Dlgs. 31.03.1998 n. 114 (art. 1, comma 3, lett. a-c, art. 12-13), passando per il DL 04.07.2006 n. 223 (art. 3) e per il DL 06.07.2011 n. 98 (art. 35, comma 6), arrivando infine al DL 06.12.2011 n. 201 (art. 31).
La giurisprudenza costituzionale (v. C.Cost. 10.11.2011 n. 300) consente alle leggi regionali di introdurre limiti all’attività delle sale giochi per tutelare i soggetti più fragili, purché questa tutela non si sovrapponga a quella attinente alla pubblica sicurezza. Se ne può dedurre che nei risvolti delle materie affidate alla legislazione regionale e alle cure amministrative degli enti locali, e più specificamente nell’ambito della disciplina urbanistica e della viabilità, possono essere individuati anche poteri di regolamentazione delle sale giochi con finalità di contenimento del “vizio del gioco”.
Tuttavia questi poteri possono essere esercitati solo in coerenza con i principi delle suddette materie, ossia sul piano urbanistico imponendo (ragionevoli) distanze minime tra le sale giochi e i siti sensibili (scuole, centri giovanili, strutture socio-assistenziali), e sul piano della viabilità tramite l’imposizione di una dotazione minima di parcheggi o mediante altre soluzioni che risolvano eventuali problemi di congestione del traffico. Per il resto valgono le regole generali che per l’intero spazio economico comunitario tutelano ogni iniziativa economica sotto il profilo della prestazione di servizi (v. art. 56 TFUE) o sotto il profilo della libertà di stabilimento (v. art. 49 TFUE).
L’applicabilità di tali principi alle attività imprenditoriali collegate al gioco e alle scommesse è affermata dalla giurisprudenza comunitaria, che ammette la possibilità di restrizioni a tutela dei consumatori nonché per la prevenzione delle frodi e dell’induzione dei cittadini a un eccesso di spesa, ma “esclusivamente a condizione che le suddette restrizioni, fondate su tali ragioni e sulla necessità di prevenire turbative all’ordine sociale, siano idonee a garantire la realizzazione dei detti obiettivi, nel senso che tali restrizioni devono contribuire a limitare le attività di scommessa in modo coerente e sistematico” (v. C.Giust. Grande Sezione 08.09.2010 C-316/07, Stoß, punto 88).
Osservata dalla prospettiva comunitaria la limitazione degli orari delle sale giochi è quindi un tassello che deve inserirsi in una complessiva regia nazionale rivolta al contenimento del gioco e incentrata sulla tutela di interessi in definitiva riconducibili all’ordine pubblico, profili che fuoriescono evidentemente dalla sfera di attribuzioni dei comuni.
Nel caso in esame, concludono i giudici amministrativi lombardi, risulta chiaro al contrario che una drastica limitazione degli orari di apertura delle sale giochi opererebbe esclusivamente come uno strumento espulsivo per alcune attività già insediate sul territorio comunale, tra cui quella del ricorrente, senza alcun beneficio sistemico, in quanto vi sarebbe semplicemente un incremento del pendolarismo dei giocatori verso altri comuni (commento tratto da www. documentazione.ancitel.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 09.10.2012 n. 1673 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Le lacune del verbale invalidano la gara solo se determinanti.
La sezione romana del Tar Lazio si pronuncia sull'annotazione nei verbali di gara dell'orario di apertura e di chiusura dei lavori.
In materia di gare pubbliche di appalto, spiegano i giudici capitolini, l'indicazione della durata delle operazioni verbalizzate (e, quindi, dell'orario di inizio e di chiusura della seduta collegiale) in alcuni casi può essere considerato un elemento essenziale (ad esempio, per i verbali delle commissioni di concorso, perché tale dato può essere necessario per controllare la ponderatezza delle relative determinazioni); in altri casi, cioè nelle ipotesi in cui si evince altrimenti che la valutazione sia stata attenta e ponderata può risultare, invece, superflua.
In sostanza, concludono gli stessi giudici, le lacune del verbale possano causare l'invalidità dell'atto verbalizzato solo nel caso in cui esse riguardino aspetti dell'azione amministrativa la cui conoscenza risulti necessaria per poterne verificare la correttezza; mentre quelle che riguardano aspetti diversi e non determinanti danno luogo a mere irregolarità formali non idonee a comportare l'illegittimità dell'atto che tali omissioni presenti (commento tratto da www. documentazione.ancitel.it - TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis, sentenza 21.09.2012 n. 8015 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGOVIOLAZIONI DI LEGGE INSUFFICIENTI A CONFIGURARE L’ABUSO D’UFFICIO DEL FUNZIONARIO.
In materia di edilizia, anche le opere eseguite dai Comuni sono soggette all’obbligo di conformarsi alle disposizioni urbanistiche vigenti e ai relativi controlli salvo restando che, per effetto dell’art. 7 del D.P.R. n. 380 del 2001 e della contestuale abrogazione del D.L. n. 398 del 1993 e successive modifiche, per dette opere non è richiesto il previo rilascio del permesso di costruire.
Interessante la questione giuridica analizzata dalla Suprema Corte con la sentenza in esame. I giudici di legittimità , infatti, si soffermano ad analizzare il tema dell’attività edilizia ‘‘comunale’’, ossia di quegli interventi edilizi eseguiti dagli Enti locali, rispondendo negativamente al quesito sull’esigenza che tali interventi siano assistiti da titolo abilitativo.
La vicenda processuale vedeva imputati del reato di abuso d’ufficio in concorso (artt. 110 e 323 c.p.), il responsabile dell’ufficio tecnico di un Comune ed il tecnico comunale in servizio presso quell’ufficio, per aver gli stessi intenzionalmente procurato un ingiusto vantaggio patrimoniale ad un privato, autorizzando illegittimamente la realizzazione di una strada di collegamento tra l’edificio abitato dalla stessa ed l’attigua strada provinciale, nonché l’utilizzazione, per detta realizzazione, di rifiuti non pericolosi costituiti da detriti e terra di riporto provenienti da favori di riqualificazione della locale piazza.
Avverso tale sentenza hanno proposto separati ricorsi i difensori, i quali hanno eccepito la insussistenza del reato di abuso di ufficio e, comunque, la carenza di efficacia causale dei comportamenti rispettivamente posti in essere.
La tesi è stata accolta dalla Cassazione che ha annullato la sentenza di condanna, pur ritenendo che nei comportamenti degli imputati fossero sicuramente riscontrabili violazioni di legge. Anzitutto, profili di illegittimità presenta -per la Corte- la procedura autorizzatoria rilasciata dal responsabile dell’ufficio tecnico comunale su istanza del sindaco pro-tempore.
A tal proposito, la Corte ricorda che in materia edilizia, anche le opere eseguite dai Comuni sono soggette all’obbligo di conformarsi alle disposizioni urbanistico-edilizie vigenti, fermo restando che (a norma del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 7, lett. c), per dette opere, non è richiesto il previo rilascio del permesso di costruire purché esse siano assistite dalla validazione dei progetto ai sensi del D.P.R. n. 554 del 1999, art. 47 (Cass. pen., sez. III, 09.05.2008, n. 18900, in CED Cass., n. 239918).
La relativa procedura, precisa la Corte, è rivolta a verificare ‘‘la conformità del progetto esecutivo alla normativa vigente’’ e riguarda fra l’altro:
a) resistenza delle indagini geologiche e geotecniche nell’area di intervento e fra congruenza dei risultati di tali Indagini con le scelte progettuali;
b) resistenza delle dichiarazioni in merito al rispetto delle prescrizioni normative e tecniche comunque applicabili al progetto;
c) l’acquisizione di tutte le approvazioni ed autorizzazioni di legge necessarie ad assicurare l’immediata cantierabilità del progetto. Nella vicenda in esame, invece, precisano i giudici, illegittimamente risulta adottato un provvedimento autorizzatorio senza il rispetto delle condizioni di ‘‘validazione’’ previste dal D.P.R. n. 554 del 1999, art. 47 (prima fra tutte la necessità dell’autorizzazione paesaggistica).
La Corte, pur riscontrando l’esistenza di comportamenti illegittimi, ha tuttavia escluso la sussistenza dell’ingiusto vantaggio per il privato (condizione della configurabilità dell’art. 323 c.p.), poiché a fronte di un oggettivo diritto all’attuazione della predisposta sistemazione urbanistica della zona, il vantaggio conseguito dal privato non poteva qualificarsi come ‘‘ingiusto’’, cioè come non spettante in base alla normativa regolante la materia, risultando irrilevante, ai fini della configurazione dell’esistenza di un diritto sostanziale, l’eventuale decorso di termini di decadenza o di prescrizione delle azioni proponibili a tutela (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.09.2012 n. 36038 - tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2012).

APPALTIGare: l’institore non rende dichiarazione di possesso dei requisiti.
Secondo i giudici di Palazzo Spada la dichiarazione ex art. 38 del D.lgs 163/2006, va resa dai soli amministratori della società e non anche all'institore. Per l'esistenza e l'operatività del contratto di avvilimento, a detta degli stessi giudici, non sono necessari, in linea di principio, contenuti particolari e/o predeterminati, né specifiche tassative formalità, oltre a quelle specificate dall'art. 49 del D.lgs 163/2006. L'ambito di applicazione della dichiarazione ex art. 38 del D.lgs 163/2006, va riferito ai soli amministratori della società e non anche all'institore.
In ogni caso, quando il soggetto risulti in possesso di tutti i requisiti richiesti e la lex specialis non preveda espressamente la sanzione dell'esclusione a seguito della mancata osservanza delle puntuali prescrizioni sulle modalità e sull'oggetto delle dichiarazioni da fornire, l'omissione delle dichiarazioni stesse non produce alcun pregiudizio agli interessi presidiati dalla norma, ricorrendo al più un'ipotesi di falso innocuo, come tale inidoneo a legittimare l'esclusione del concorrente.
L'avvalimento previsto dal Codice degli appalti (D.lgs 163/2006) non è imperativamente disciplinato dalla legge nei suoi aspetti formali e nel suo contenuto sostanziale. L'art. 49 del D.lgs 163/2006, infatti, si limita a disporre che il concorrente, in tale ipotesi, deve semplicemente allegare "una dichiarazione…….attestante l'avvalimento dei requisiti necessari per la partecipazione alla gara, con specifica indicazione dei requisiti stessi e dell'impresa ausiliaria", nonché "una dichiarazione sottoscritta dall'impresa ausiliaria con cui quest'ultima si obbliga verso il concorrente e verso la stazione appaltante a mettere a disposizione per tutta la durata dell'appalto le risorse necessarie di cui è carente il concorrente."
Ne deriva che per l'esistenza e l'operatività del contratto di avvalimento non sono necessari, in linea di principio, contenuti particolari e/o predeterminati, né specifiche tassative formalità, oltre a quelle specificate dalla norma (commento tratto da www. documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.09.2012 n. 4970 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare: professionalità componenti Commissione non deve coprire ogni aspetto.
I giudici del consiglio di Stato affrontano, nella pronuncia in rassegna, il tema del requisito richiesto alla commissione giudicatrice dell'esperienza nello specifico settore oggetto dell'appalto, ex art. 84, c. 2, del d. lgs. n. 163/2006.
Il requisito dell'esperienza nello specifico settore oggetto dell'appalto, ex art. 84, c. 2, del d. lgs. n. 163/2006, chiariscono i giudici di Palazzo Spada, deve essere inteso in maniera coerente con la diversità delle competenze richieste in relazione al complesso della prestazione prevista, senza necessità che la specifica competenza dei componenti della commissione di gara debba coprire ogni aspetto della procedura (trattandosi di figure idonee a garantire la competenza giuridico-amministrativa sempre necessaria nello svolgimento di procedimenti di evidenza pubblica).
Pertanto, non è necessario, secondo gli stessi giudici, che l'esperienza professionale di ciascun componente della Commissione copra tutti i possibili ambiti oggetto di gara, in quanto è la Commissione, unitariamente considerata, che deve garantire quel grado di conoscenze tecniche richiesto nella specifica fattispecie, in ossequio al principio di buon andamento della P.A. (commento tratto da www. documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.09.2012 n. 4916 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASCAVO, SBANCAMENTO E LIVELLAMENTO DI TERRENI NECESSITANO DEL P.D.C..
In tema di reati urbanistici, le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidono sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio.
Questione ricorrente quella affrontata dalla Cassazione con la sentenza oggetto di esame. Il tema, sottoposto all’attenzione dei giudici di legittimità, attiene alla necessità o meno di munirsi di un titolo abilitativo edilizio nel caso in cui si intenda procedere all’esecuzione di opere di movimento terra per finalità edilizie e non per finalità agricole.
La vicenda processuale vedeva imputato il proprietario di un terreno cui era stato addebitato il reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 lett. b), per avere realizzato senza concessione opere di trasformazione edilizia del territorio, consistenti in spianamento e riporto di terreno con stoccaggio di attrezzature per l’attività edilizia. Censurava la sentenza di condanna la difesa dell’imputato, sostenendo che, nel caso in esame, si trattava di attività edilizia libera o, a tutto voler concedere, assoggettata a mera autorizzazione del D.P.R. n. 380 del 2001, ex art. 22.
La tesi non ha però convinto gli Ermellini che hanno respinto il ricorso. In particolare, condividendo il ragionamento del giudice di merito, la Corte ha sottolineato che, rispetto al rifacimento di una recinzione con paletti e rete metallica lungo il confine del terreno (recinzione a sua volta difforme rispetto all’autorizzazione concessa e poi adeguata a seguito di controlli successivi), lo spianamento del terreno adiacente non riguardava solo una porzione di superficie ristretta e funzionale all’esecuzione dei lavori di rifacimento della recinzione ma copriva la quasi totalità del terreno («giungendo ad interessare gran parte del fondo ed anche le aree non confinanti con la recinzione»).
Proprio per tale ragione i giudici di appello avevano ritenuto corretta la decisione del primo giudice individuando nella esistenza di lavori di scavo e spianamento ed, ancora, nella collocazione di un container di grandi dimensioni oltre a materiale edile una serie di opere incompatibili sia con la costruzione della recinzione in quanto di gran lunga sottodimensionata, sia con la destinazione agricola del terreno (nonostante l’attivazione di una porzione a piccolo orto).
I giudici di legittimità hanno, conclusivamente, affermato che in tema di trasformazione dei suoli, versandosi nella materia urbanistica, le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidenti sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio (v., da ultimo: Cass. pen., sez. III, 24.02.2009, n. 8064, in Ced Cass., n. 242741) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.07.2012 n. 29466 - tratto da Urbanistica e appalti n. 11/2012).

AGGIORNAMENTO AL 10.12.2012

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CONVEGNI ON-LINE

APPALTI: Seminario on-line - “Bando tipo”, standardizzazione e trasparenza nelle gare di appalti pubblici. Giovedì 13.12.2012.
Avcp e ForumPa hanno organizzato un webinar per illustrare le novità contenute nella determinazione n. 4 del 10 ottobre scorso sul "Bando tipo".
Il seminario, che prenderà in esame alcune delle cause di esclusione dalle gare, è gratuito, previa iscrizione
cliccando qui e si svolgerà giovedì 13.12.2012 dalle ore 12.30.
“Bando tipo”, standardizzazione e trasparenza nelle gare di appalti pubblici
Determinazione 10.10.2012 n. 4
Vedi anche le consultazioni on-line: Prime indicazioni sui bandi tipo: tassatività delle cause di esclusione e costo del lavoro (link a www.autoritalavoripubblici.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 10.12.2012, "Approvazione della modulistica per la presentazione della comunicazione di inizio lavori per attività in edilizia libera (CEL) e per la presentazione dell’istanza di procedura abilitativa semplificata (PAS) per il rilascio dei titoli abilitativi per la costruzione, installazione ed esercizio di impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili di cui ai punti 3.1 e 3.3 della d.g.r. 3298/2012" (decreto D.S. 20.11.2012 n. 10484).  

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: G.U. 07.12.2012 n. 286 "Testo del decreto-legge 10.10.2012, n. 174 coordinato con la legge di conversione 07.12.2012, n. 213 recante: «Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012»".

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 05.12.2012 n. 284 "Regolamento concernente modifiche al decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare 25.05.2012, n. 141 (SISTRI)" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 17.10.2012 n. 210).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Monitoraggio della l.r. n. 4 del 2012: on-line l'applicativo per i Comuni.
Regione ha messo a disposizione REDIL 2.0, l'applicativo web per monitorare l’attuazione della l.r. n. 4 del 2012 "Norme per la valorizzazione del patrimonio esistente e altre disposizioni in materia urbanistico-edilizia".
I Comuni hanno l'obbligo di dare notizia a Regione Lombardia dei provvedimenti assunti e degli interventi assentiti di riqualificazione urbanistica ed edilizia in attuazione degli articoli da 3 a 7 della l.r. n. 4 del 2012. Per adempiere a questo obbligo devono utilizzare il nuovo applicativo a disposizione per trasmettere i relativi dati.
Tutti i dettagli sono disponibili all'interno di Riqualificazione Urbana, sezione Monitoraggio (06.12.2012 - link a www.territorio.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Inserimento dei dati relativi agli impianti a fonte di energia rinnovabile nel Registro FER (Regione Lombardia, nota 06.12.2012 n. 24592 di prot.).
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Per l'allegato da compilare cliccare qui.

INCARICHI PROGETTUALI: Oggetto: liquidazione dei compensi professionali (Consiglio Nazionale degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori, circolare 05.12.2012 n. 1123 di prot.).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: J. Cortinovis, Impianti telecomunicazione e accatastamento: circolare Ag. del Territorio n. 6/2012 (07.12.2012 - link a http://studiospallino.blogspot.it).

EDILIZIA PRIVATA: L. Socal, L'obbligo di integrazione delle fonti rinnovabili negli edifici nuovi e ristrutturati ai sensi del Dlgs 28/2011 (Quaderni di legislazione tecnica n. 4/2012).

LAVORI PUBBLICI: E. De Falco, La contabilità dei lavori a corpo negli appalti di lavori pubblici (Quaderni di legislazione tecnica n. 4/2012).

APPALTI: A. Trevisani, Solidarietà passiva in materia di IVA e ritenute sui redditi di lavoro dipendente nei subappalti (tratto da www.ipsoa.it).

APPALTI: D. Galli e C. Guccione, La recente giurisprudenza sui contratti della pubblica amministrazione (tratto da www.ipsoa.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALICORTE CONTI/2 Dal Piemonte. Gestioni associate. La segreteria a sé.
I comuni non sono obbligati a gestire la segreteria comunale con le altre amministrazioni con cui hanno realizzato la gestione associata della funzione fondamentale «organizzazione generale dell'amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo».

È questa l'importante e innovativa indicazione contenuta nel parere 12.10.2012 n. 304 della sezione regionale di controllo della Corte dei conti del Piemonte.
Con tale pronuncia vengono significativamente ampliati i margini di autonomia attribuiti ai singoli comuni. Il parere consente inoltre la stipula di convenzioni tra comuni e unioni, se il segretario di tale ente è iscritto all'albo dei segretari. Possibilità questa che è invece esclusa espressamente dal recente parere n. 8/2012 della unità di missione del ministero dell'interno che ha preso il posto della disciolta Agenzia dei segretari comunali e provinciali. Il Viminale evidenzia le nette differenze che sussistono tra i comuni e le unioni, nonché la mancanza di un vincolo a che le unioni abbiano un segretario iscritto allo specifico albo.
La sezione regionale di controllo della Corte dei conti del Piemonte ci dice che il segretario «è un distinto organo monocratico, la cui attività e il cui ruolo e status è disciplinato espressamente in modo unitario dalla parte I, titolo IV, capo II del dlgs 18.08.2000, n. 267 (T.u. Enti locali).
Secondo l'art. 97, infatti, il comune ha un segretario titolare che svolge compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti. Il segretario dipende funzionalmente dal sindaco ex art. 99 del dlgs n. 267/2000. L'individuazione normativa della figura del segretario comunale nei termini indicati fa della sua attività una distinta e specifica funzione amministrativa fondamentale per l'ente».
Tale funzione certamente «deve essere necessariamente inquadrata nell'ambito della organizzazione generale dell'amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo, ma non esaurisce di per sé tale intera categoria, che, al contrario, ricomprende altre funzioni oggettivamente ed amministrativamente distinte». Per cui «è indubbio che la segreteria comunale, attenendo a una distinta e specifica funzione amministrativa fondamentale, possa essere oggetto di una gestione associata, tramite convenzione o tramite unione di comuni». Con ciò non si viola il divieto di spezzettare la gestione associata di una funzione fondamentale posto dal legislatore come vincolo alla gestione associata.
Sulla possibilità di stipulare convenzioni di segreteria tra comuni e unioni ha subito preso una posizione decisamente ostile la unità di missione del ministero dell'interno che ha preso il posto della disciolta Agenzia per la gestione dell'albo dei segretari comunali e provinciali con il recente parere n. 8. Leggiamo in questo documento che comuni e unioni sono «soggetti giuridici nettamente distinti, tra l'altro, per modalità di costituzione, finalità e funzioni svolte. Si consideri, inoltre, che la figura del segretario è prevista come obbligatoria esclusivamente per le province e i comuni (questi ultimi sia in forma singola che associata) a norma dell'art. 97 dello stesso dlgs 267/2000, non sussistendo, pertanto, alcuna correlazione tra le sedi di segreteria convenzionate e le unioni di comuni».
A sostegno del divieto della gestione associata della funzione di segretario tra un comune e una unione viene citata la deliberazione n. 114 del 02.05.2001 con la quale il cda nazionale dell'Agenzia autonoma per la gestione dell'albo dei segretari comunali e provinciali ha chiarito che «il segretario comunale e provinciale come figura professionale esercita le proprie attribuzioni solo presso i comuni e le province ovvero presso le convenzioni di segreteria_ ne consegue la non estensione alle unioni di comuni e alle comunità montane, poiché non compatibile, della obbligatorietà della figura del segretario iscritto all'apposito albo» (articolo ItaliaOggi del 07.12.2012).

UTILITA'

SICUREZZA LAVORORumore negli ambienti di lavoro: ecco un interessante manuale operativo su come intervenire in maniera efficace.
Il problema del rumore costituisce da sempre uno dei fattori che caratterizza in modo negativo l’ambiente di lavoro, provocando, spesso, anche danni alla salute dei lavoratori.
La Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro ha pubblicato il manuale operativo intitolato “Metodologie e interventi tecnici per la riduzione del rumore negli ambienti di lavoro”.
Scopo del documento è quello di mettere a disposizione degli operatori della sicurezza nei luoghi di lavoro (datori di lavoro, RLS, RSPP, consulenti della sicurezza) i vari interventi realizzati sul campo, utili per garantire il pieno controllo del rischio rumore in tutti i principali comparti produttivi.
Il documento tratta i seguenti aspetti:
● valutazione del rischio e strategie per la sua riduzione;
● prestazioni acustiche e criteri di progettazione e bonifica degli stabilimenti industriali;
● prestazioni acustiche e criteri di progettazione e bonifica per specifici luoghi di lavoro;
● criteri acustici di acquisto di macchine, attrezzature e impianti;
● bonifica acustica di macchine, attrezzature e impianti;
● collaudo acustico in opera degli interventi di controllo del rumore.
Oltre alla guida operativa sono state pubblicate interessanti schede di approfondimento su:
● propagazione del rumore;
● isolamento acustico;
● emissione acustica;
● schermatura di sorgenti sonore;
● misura e valutazione del livello di potenza sonora;
● criteri di collaudo (06.12.2012 - link a www.acca.it).

LAVORI PUBBLICIArrivano le linee guida per la gestione efficiente dell’illuminazione pubblica.
L’ENEA ha pubblicato le Linee guida sull’illuminazione pubblica, con l’obiettivo di promuovere l’efficienza energetica in un settore caratterizzato molto spesso da consumi di energia elettrica eccessivi e sproporzionati rispetto alla qualità del servizio offerto al cittadino.
Nell’ambito della pubblica illuminazione, i cosiddetti “sprechi energetici” sono stati quantificati mediamente intorno al 30% degli attuali consumi: ciò mette in evidenza le potenzialità dei processi di efficientamento energetico, sia in termini di riduzione dei consumi di energia elettrica e abbattimento delle emissioni di CO2 in atmosfera, sia in termini di costi economici delle bollette, oggi pesantemente gravanti sui bilanci comunali.
Pertanto, l’ENEA ritiene doveroso “intervenire ed investire nel settore” e a tal fine fornisce delle linee di indirizzo su come operare.
Il documento affronta in maniera dettagliata, oltre al quadro normativo attuale sulla pubblica illuminazione, le modalità di riqualificazione energetica del settore (06.12.2012 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATACome accedere alle detrazioni fiscali del 50%? Quali sono gli interventi agevolabili? Ce lo spiega il video dell’Agenzia delle Entrate.
Le spese di ristrutturazione edilizia beneficiano di uno sconto fiscale: in particolare il beneficio consiste in una detrazione dall’Irpef di una percentuale pari a:
50%, per le spese sostenute fino al 30.06.2013
36%, per le spese sostenute dal 01.07.2013
La detrazione va ripartita in 10 rate e si calcola su un importo massimo di spesa pari a:
96.000 euro, per le spese sostenute fino al 30.06.2013
48.000 euro, per le spese sostenute dal 01.07.2013
Ma come ottenere i vantaggi fiscali che spettano a chi effettua lavori per il recupero del patrimonio edilizio? E quali novità sono state introdotte in materia dal Decreto Legge n. 83/2012?
Innanzitutto ricordiamo, come al solito, ai lettori di BibLus-net la possibilità di accedere al portale web dedicato alle detrazioni fiscali, www.detrazione50.net, che contiene tutto quello che c'è da sapere sulle detrazioni, incluso un forum di discussione, in cui scambiarsi idee, informazioni e porre quesiti.
Quindi, proponiamo al lettori di BibLus-net il video dell’Agenzia delle Entrate che spiega in maniera semplice come accedere al beneficio fiscale e quali sono gli interventi incentivabili (06.12.2012 - link a www.acca.it).

QUESITI & PARERI

LAVORI PUBBLICI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Il concorso del contributo comunale entro limiti fissati per legge. I privati usano e pagano. Per la manutenzione delle strade vicinali.
Quesito
Qual è l'attuale disciplina dei consorzi per le strade vicinali a uso pubblico e la misura della partecipazione alle spese da parte dell'ente locale, posto che l'unica disposizione in vigore in materia sembrerebbe essere l'art. 14 della legge 12/02/1958, n. 126, sulla base del presupposto che il d.l. lgt. 01/09/1918, n. 1446 risulterebbe abrogato dal dl 22/12/2008, n. 200, convertito dalla legge 18/02/2009, n. 9?
Risposta
Dalla ricostruzione dei passaggi normativi che hanno interessato la disciplina in materia, emerge che il d.l. lgt. n. 1446/1918 era stato mantenuto in vigore dalla citata legge 18/02/2009 n. 9 fino al 15.12.2009.
Tuttavia, il decreto legislativo 01.12.2009, n. 179, ha sottratto all'effetto abrogativo le disposizione di cui al suddetto d.l. lgt. 01/09/1918, n. 1446 (art. 1, comma 2, all. 2); inoltre ha ritenuto indispensabile la permanenza in vigore dell'art. 14 della legge 12/02/1958, n. 126, relativamente all'obbligo della costituzione di consorzi per la manutenzione, sistemazione e ricostruzione delle strade vicinali di uso pubblico (art. 1, comma1, in combinato disposto con l'allegato 1 al dlgs n. 179/ 2009).
Ciò stante, la disciplina relativa alla manutenzione e riscossione delle strade vicinali, ed alla facoltà per gli utenti delle stesse di costituirsi in Consorzio, può essere tutt'ora ricondotta alle disposizioni di cui al d.l. lgt. 01/09/1918, n. 1446 e all'art. 14 della legge n. 126 del 1958.
Occorre, peraltro, distinguere se si tratti di strade vicinali soggette ad uso pubblico o esclusivamente ad uso privato.
Nel primo caso, infatti, quando il comune è titolare di un diritto reale di uso pubblico sulla strada vicinale, che è sempre di proprietà privata, la costituzione di consorzi per la manutenzione, sistemazione e ricostruzione di dette strade, ai sensi dell'art. 14 della legge n. 126 del 12/02/1958, è obbligatoria, mentre rimane facoltativa nel secondo caso.
Dalla sussistenza o meno del pubblico utilizzo deriva anche l'obbligo, per il comune, di concorrere alle spese; in applicazione, infatti, dell'art 3 del citato d.l. lgt. n. 1446 del 1918, che fissa i limiti di compartecipazione per le strade vicinali soggette al pubblico transito, il comune è tenuto a concorrere alle spese di manutenzione, sistemazione e ricostruzione nella misura variabile da un quinto sino alla metà della spesa, a seconda dell'importanza della strada.
Detti limiti, che riguardano il comune, sono inderogabili in quanto con tale disciplina, tenuto conto dello speciale regime giuridico di queste strade, il legislatore ha già contemperato a monte gli interessi pubblici e privati in gioco, demandando ai comuni solo la possibilità di scegliere in concreto l'ammontare della contribuzione all'interno dei limiti minimi e massimi consentiti, motivando esaurientemente tale scelta (in tal senso la Corte dei conti, sez. reg. di controllo per il Veneto n. 140/2008).
Pertanto, nella fattispecie prospettata, che riguarda i consorzi per le strade vicinali ad uso pubblico, nella ritenuta applicazione dell'art. 14 della legge n. 126/1958 –che rende obbligatoria la costituzione della forma associativa– e degli artt. 1 e 3 del d.d. lgt. n. 1446/1918, si deduce che gli oneri per la manutenzione e sistemazione delle strade vicinali gravano essenzialmente sui soggetti privati che le utilizzano, salvo il concorso del contributo comunale nei limiti e termini stabiliti dalla legge (articolo ItaliaOggi del 07.12.2012).

APPALTI: Appalti pubblici, quando la stazione appaltante si sostituisce all'appaltatore.
Domanda
L'Amministrazione Comunale, a seguito di appalto di lavori, ha ricevuto richiesta di pagamento della retribuzione da parte di operai della ditta appaltatrice che non ha corrisposto tali emolumenti ai propri dipendenti. Inoltre stessa richiesta è pervenuta da parte di operai che, si è accertato, hanno rapporto di lavoro con ditta subappaltatrice e risultano in "distacco" ex art. 30, D.Lgs. 10-09-2003, n. 276 (Legge Biagi) presso la ditta appaltatrice. Come deve operare legittimamente il Comune in tali casi?
Risposta
L'art. 5, comma 5, lett. r), D.Lgs. 12-04-2006, n. 163 stabilisce che: "Il regolamento, oltre alle materie per le quali è di volta in volta richiamato, detta le disposizioni di attuazione ed esecuzione del presente codice, quanto a: ... intervento sostitutivo della stazione appaltante in caso di inadempienza retributiva e contributiva dell'appaltatore".
L'art. 5, D.P.R. 05-10-2010, n. 207 stabilisce che: "1. Per i contratti relativi a lavori, servizi e forniture, in caso di ritardo nel pagamento delle retribuzioni dovute al personale dipendente dell'esecutore o del subappaltatore o dei soggetti titolari di subappalti e cottimi di cui all'articolo 118, comma 8, ultimo periodo, del codice impiegato nell'esecuzione del contratto, il responsabile del procedimento invita per iscritto il soggetto inadempiente, ed in ogni caso l'esecutore, a provvedervi entro i successivi quindici giorni. Decorso infruttuosamente il suddetto termine e ove non sia stata contestata formalmente e motivatamente la fondatezza della richiesta entro il termine sopra assegnato, i soggetti di cui all'articolo 3, comma 1, lettera b), possono pagare anche in corso d'opera direttamente ai lavoratori le retribuzioni arretrate detraendo il relativo importo dalle somme dovute all'esecutore del contratto ovvero dalle somme dovute al subappaltatore inadempiente nel caso in cui sia previsto il pagamento diretto ai sensi degli articoli 37, comma 11, ultimo periodo e 118, comma 3, primo periodo, del codice.
2. I pagamenti, di cui al comma 1, eseguiti dai soggetti di cui all'articolo 3, comma 1, lettera b), sono provati dalle quietanze predisposte a cura del responsabile del procedimento e sottoscritte dagli interessati.
3. Nel caso di formale contestazione delle richieste di cui al comma 1, il responsabile del procedimento provvede all'inoltro delle richieste e delle contestazioni alla direzione provinciale del lavoro per i necessari accertamenti
".
L'art. 4, D.P.R. 05-10-2010, n. 207 stabilisce che: "1. Per i contratti relativi a lavori, servizi e forniture, l'esecutore, il subappaltatore e i soggetti titolari di subappalti e cottimi di cui all'articolo 118, comma 8, ultimo periodo, del codice devono osservare le norme e prescrizioni dei contratti collettivi nazionali e di zona stipulati tra le parti sociali firmatarie di contratti collettivi nazionali comparativamente più rappresentative, delle leggi e dei regolamenti sulla tutela, sicurezza, salute, assicurazione assistenza, contribuzione e retribuzione dei lavoratori.
2. Nelle ipotesi previste dall'articolo 6, commi 3 e 4, in caso di ottenimento da parte del responsabile del procedimento del documento unico di regolarità contributiva che segnali un'inadempienza contributiva relativa a uno o più soggetti impiegati nell'esecuzione del contratto, il medesimo trattiene dal certificato di pagamento l'importo corrispondente all'inadempienza. Il pagamento di quanto dovuto per le inadempienze accertate mediante il documento unico di regolarità contributiva è disposto dai soggetti di cui all'articolo 3, comma 1, lettera b), direttamente agli enti previdenziali e assicurativi, compresa, nei lavori, la cassa edile.
3. In ogni caso sull'importo netto progressivo delle prestazioni è operata una ritenuta dello 0,50 per cento; le ritenute possono essere svincolate soltanto in sede di liquidazione finale, dopo l'approvazione da parte della stazione appaltante del certificato di collaudo o di verifica di conformità, previo rilascio del documento unico di regolarità contributiva
".
La stazione appaltante può (e, quindi, non è tenuta) pagare gli oneri retributivi a favore del personale, impiegato nell'esecuzione dei lavori, dall'appaltatore o dal subappaltatore inadempiente, secondo il meccanismo delineato dall'art. 5, D.P.R. 05-10-2010, n. 207; mentre è tenuta al pagamento di quelli contributivi ex art. 4.
Il Comune, in ottemperanza all'art. 4, D.P.R. cit., avrebbe dovuto operare la ritenuta dello 0,50% sull'importo netto progressivo da utilizzare, in caso di inadempienza dei soli oneri contributivi, a favore dei dipendenti impiegati nell'esecuzione dei lavori, siano essi dipendenti dell'appaltatore o del subappaltatore. Detta ritenuta ha la funzione di garantire la regolarità contributiva che verrà verificata in seguito a rilascio del certificato di collaudo o di verifica di conformità, attraverso il documento unico di regolarità contributiva.
Per quanto riguarda il personale legato da un rapporto di lavoro con la ditta subappaltatrice, ma in "distacco" ex art. 30, D.Lgs. 10-09-2003, n. 276 (Legge Biagi) presso la ditta appaltatrice (c.d. somministrazione di lavoro), si osserva quanto segue.
L'art. 23, D.Lgs. 10-09-2003, n. 276 stabilisce che: "L'utilizzatore è obbligato in solido con il somministratore a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali", ove per utilizzatore, nella fattispecie in esame, si intende l'appaltatore e per somministratore il subappaltatore. Pertanto, i trattamenti retributivi e contributivi nei confornti del personale impiegato sono dovuti in solido da entrambi. Tuttavia, deve ritenersi che anche la stazione appaltante sia tenuta nei confronti di questo personale somministrato, nei termini di cui alle disposizioni sopra evidenziate. Infatti, le obbligazioni di solidarietà nascono in capo al Comune sia nei confronti del personale dell'appaltatore, che di quello del subappaltatore. Trattandosi di una somministrazione di lavoro da parte del subappaltatore, il Comune sarà obbligato nei medesimi termini e limiti di cui nei confronti del personale del subappaltatore.
In particolare, per quanto attiene agli oneri retributivi, la stazione appaltante potrà operare il meccanismo di cui all'art. 5 nei limiti in cui il subappaltatore riceva direttamente il pagamento dal Comune stesso. Per quanto riguarda gli oneri contributivi, il Comune sarà tenuto ad effettuare le relative ritenute dello 0.50, ma anche in questo caso solo ove il pagamento avvenga in via diretta (cfr. art. 6, comma 5, D.P.R. 05-10-2010, n. 207).
Inoltre, poiché il subappaltatore può svolgere attività di somministrazione lavoro in quanto autorizzato ex art. 20, D.Lgs. 10-09-2003, n. 276, opera anche la garanzia di cui all'art. 5 comma 2, lett. c), D.Lgs. 10-09-2003, n. 276 secondo cui: "2. Per l'esercizio delle attività di cui all'articolo 20, oltre ai requisiti di cui al comma 1, è richiesta: ...c) a garanzia dei crediti dei lavoratori impiegati e dei corrispondenti crediti contributivi degli enti previdenziali, la disposizione, per i primi due anni, di un deposito cauzionale di 350.000 euro presso un istituto di credito avente sede o dipendenza nei territorio nazionale o di altro Stato membro della Unione europea; a decorrere dal terzo anno solare, la disposizione, in luogo della cauzione, di una fideiussione bancaria o assicurativa o rilasciata da intermediari iscritti nell'elenco speciale di cui all'articolo 107 del decreto legislativo 01.09.1993, n. 385, che svolgono in via prevalente o esclusiva attività di rilascio di garanzie, a ciò autorizzati dal Ministero dell'economia e delle finanze, non inferiore al 5 per cento del fatturato, al netto dell'imposta sul valore aggiunto, realizzato nell'anno precedente e comunque non inferiore a 350.000 euro. Sono esonerate dalla prestazione delle garanzie di cui alla presente lettera le società che abbiano assolto ad obblighi analoghi previsti per le stesse finalità dalla legislazione di altro Stato membro della Unione europea". La disposizione garantisce la stazione appaltante in caso di esborso di somme a favore del personale somministrato (06.12.2012 - tratto da www.ispoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Vetralla - Parere in merito al procedimento di sanatoria previsto dall'art. 46, comma 5, del d.P.R. 380/2001 (Regione Lazio, parere 04.12.2012 n. 34846 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Rocca di Papa - Parere in merito alla durata delle misure di salvaguardia. Art. 12 del D.P.R. 380/2001 e art. 36 della L.R. 38/1999 (Regione Lazio, parere 04.12.2012 n. 499081/2011 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Oriolo Romano - Parere in merito alla demolizione di opere abusive risalenti ad epoca remota e sulla possibilità di assentire un intervento in forma "impropria" (Regione Lazio, parere 04.12.2012 n. 455466/2011 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Genzano di Roma - Parere circa l'interpretazione ed applicazione dell'art. 15 della legge regionale 11.08.2008, n. 15 in tema di acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere realizzate abusivamente (Regione Lazio, parere 04.12.2012 n. 36106/2011 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Nepi - Parere in merito alla irrogabilità delle sanzioni edilizie in pendenza della definizione dell'istanza di accertamento di conformità urbanistica (Regione Lazio, parere 04.12.2012 n. 201747/2011 di prot.).

VARI: Prestito tra parenti stretti: come operare la restituzione in mancanza di scrittura privata?
Domanda
Si ipotizza il caso di due fratelli, uno dei quali per spirito di fratellanza, ha prestato negli ultimi 3/4 anni circa 100.000 euro al fratello, il quale ora sarebbe in grado di incominciare a restituire 40/50.000 euro. Per evitare problematiche, come si dovrebbe comportare il fratello che deve restituire la somma in oggetto, presupponendo che non è stata registrata nessuna scrittura privata?
Risposta
Si presume che il gentile lettore si riferisca ad un prestito personale tra parenti stretti; occorre preliminarmente evidenziare che è legalmente corretto e lecito ottenere dei prestiti tra parenti ed amici e/o conoscenti. La possibilità e liceità era implicita al sistema, ma anche dalla giurisprudenza di legittimità è arrivata una conferma formale ed autorevole: la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2404 del 2010, ha affermato che non costituiscono reato i finanziamenti mutui e prestiti fatti ad un amico e/o parente che sia una persona fisica a condizione che la erogazione sia occasionale e non diretta al pubblico indistinto.
In sostanza i prestiti tra persone fisiche che siano tra loro parenti o amici sono leciti solo quando non siano fatti in modo sistematico e professionale perché se così fosse violerebbero il D.Lgs. n. 385 del 1993 il quale prevede l'ipotesi del reato di esercizio abusivo del credito.
Sempre la Corte di Cassazione se da un lato afferma la possibilità del prestito tra parenti, nega non tanto il prestito tra coniugi cioè tra moglie e marito, ma il diritto alla restituzione. In pratica, con la sentenza n. 12551 del 2009, la Suprema Corte ha negato la restituzione del finanziamento in capo ad una moglie che aveva prestato una certa somma al marito motivando il tutto col fatto che i "prestiti tra coniugi" sono non tanto dei veri e propri finanziamenti ma piuttosto una forma di solidarietà reciproca o mutuo soccorso esistente tra coniugi in ambito familiare.
Occorre prestare attenzione alla normativa antiriciclaggio in quanto coloro che intendono effettuare transazioni commerciali tra soggetti, a prescindere che siano economici o meno, vi è tassativo divieto di superare, nell'utilizzo del contante o di assegni trasferibili, la soglia dei 999,99 euro per ogni singola operazione. In più, sono suscettibili di sanzione anche più pagamenti in momenti successivi a condizione che siano riconducibili a un'unica operazione. E ancora. Sono soggetti alla medesima limitazione anche i trasferimenti a titolo gratuito: un prestito tra parenti o amici, un lascito ereditario, una donazione eccetera. Da qui la regola per cui se il controvalore di una prestazione, di un lascito o di qualsivoglia attività sia pari o superiore ai 1000 euro, seppur valide le transazioni poste in essere, si verrà assoggettati a una sanzione amministrativa dall'1 al 40% dell'importo trasferito.
Nel caso in esame sarebbe opportuno l'utilizzo di una scrittura privata che avrebbe dovuto essere sottoscritta al momento del prestito di denaro; eventualmente si può pensare di retrodatarla ma di queste eventualità sarebbe opportuno consigliarsi con un legale di fiducia anche per una serie di aspetti personali che in questa sede è opportuno non trattare. Secondo autorevole dottrina, inoltre, i mutui bancari sono infatti agevolati dal fatto che, se durano oltre 18 mesi (in tal caso sono denominati «mutui a medio o lungo termine»), ogni imposta che normalmente sarebbe dovuta (e cioè le imposte di registro, ipotecaria e di bollo) è "assorbita" in un'unica imposta, detta appunto "imposta sostitutiva", dovuta di regola nella misura dello 0,25%, da calcolare sull'importo del mutuo erogato. Invece, per i mutui concessi da un privato, si debbono pagare (oltre che un bollo per ogni quattro facciate del contratto di mutuo):
a) l'imposta di registro nella misura del 3% sull'importo del capitale erogato (a meno che i contraenti intendano risparmiare violando l'obbligo di registrazione, ma con la conseguenza di pagare poi una sanzione se ad esempio vi sia una causa giudiziaria nella quale il contratto di mutuo debba essere esibito, come accade nel caso in cui il mutuatario non paghi le rate);
b) l'imposta di registro nella misura dello 0,50% sull'importo dell'eventuale garanzia concessa (ipoteca o fideiussione);
c) l'imposta ipotecaria nella misura del 2% sull'importo dell'eventuale garanzia concessa (15.11.2012 - tratto da www.ipsoa.it).

LAVORI PUBBLICI - URBANISTICAComune di Monterotondo - Parere in merito alla procedura da applicare al piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari di cui all'art. 58 del decreto legge 112/2008 che comporti variante urbanistica (Regione Lazio, parere 29.10.2012 n. 423230 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Anzio - Parere in merito alla possibilità di rilascio di un permesso di costruire sulla base di disposizioni non più vigenti (Regione Lazio, parere 29.10.2012 n. 544237/2011 di prot.).

NEWS

VARIIncandidabilità ampia. Fuori dalle assemblee anche chi patteggia. Cosa prevede lo schema di decreto sulle liste pulite appena varato.
Parlamentari e ministri incandidabili per gravi reati di mafia e per reati contro la pubblica amministrazione.
Lo prevede lo schema di decreto legislativo attuativo della legge 190/2012, approvato giovedì dal Consiglio dei ministri, precisando che starà fuori dalle assemblee e dai governi nazionali e locali anche chi patteggia.
Parlamentari e ministri. Sono incandidabili a deputato e senatore coloro che abbiano riportato condanne definitive alla pena della reclusione superiore a due anni per i delitti distrettuali e cioè quelli di maggiore allarme sociale (associazione mafiosa, sequestro di persona, gravi reati di droga e in materia ambientale, delitti con finalità di terrorismo). Lo stesso vale per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (peculato, concussione, corruzione, abuso d'ufficio, omissione atti d'ufficio).
Portano all'incandidabilità anche ulteriori delitti la cui pena edittale massima è superiore a tre anni di reclusione. Le disposizioni sull'incandidabilità dei parlamentari valgono anche per l'assunzione ed allo svolgimento di un incarico di governo. Prima di assumere le funzioni di presidente del Consiglio o di ministro, si dovrà dichiarare al presidente della Repubblica, di non trovarsi nella condizione ostativa. Viceministri, sottosegretario di Stato e commissario straordinari del Governo renderanno la dichiarazione al presidente del Consiglio.
Governi e consiglieri regionali. Riprese le norme in vigore aggiungendo quali cause ostative i reati distrettuali e ampliando il catalogo dei delitti contro la p.a. come modificato a seguito della legge n. 190/2012. L'elenco dei ricomprende le condanne definitive per i delitti di competenza delle procure distrettuali senza però il richiamo al limite della pena in concreto erogata (superiore a due anni), stabilita invece per l'incandidabilità dei parlamentari nazionali. Questa scelta si motiva per il fatto che attualmente la legge n. 55/1990 prevede l'incandidabilità per i gravi reati, indipendentemente dalla pena in concreto erogata.
Enti locali. Oltre a una ricognizione della normativa vigente in materia di incandidabilità negli enti locali, il decreto introduce ulteriori ipotesi di incandidabilità per delitti di grave allarme sociale, parificandole a quelle previste per il livello politico nazionale e regionale. Sono, dunque, ampliate le ipotesi di incandidabilità con il richiamo ai delitti distrettuali di grave allarme sociale e ai delitti contro la pubblica amministrazione
Durata. Per l'incandidabilità «politica» la durata è connessa al periodo di interdizione temporanea dai pubblici uffici stabilita, come pena accessoria, con la sentenza di condanna.Per la durata delle incandidabilità regionali e locali, l'incandidabilità è senza termine, ed eliminabile solo con la riabilitazione.
Patteggiamento. Tutte le ipotesi di incandidabilità operano anche nel caso di patteggiamento della pena. Questo vale solo per le sentenze pronunciate successivamente all'entrata in vigore del testo unico, con riferimento alle nuove incandidabilità: quindi per tutte quelle previste per deputati e senatori e per quelle che si aggiungono a livello regionale e locale (articolo ItaliaOggi dell'08.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOControlli double face sugli enti. Più poteri alla Corte conti. Verifiche interne scaglionate. Approvato in via definitiva il dl salva-enti con il giro di vite sulle spese delle regioni.
Più oneri sulla Corte dei conti e una tabella di marcia più «rilassata» (soprattutto in materia di bilancio consolidato e controlli sulle partecipate) per quanto riguarda i controlli interni.
Si muovono lungo queste due direttrici le novità introdotte nel corso dell'iter parlamentare al decreto legge n. 174/2012 (cosiddetto «salva-enti locali» o «costi della politica» come è stato ribattezzato visto che è stato emanato all'indomani degli scandali che hanno travolto le amministrazioni regionali di Lombardia e Lazio), approvato ieri in via definitiva dalla camera con 268 sì, un solo no e 153 astensioni (quelle di gran parte dei deputati del Pdl dopo che giovedì il partito guidato da Angelino Alfano ha deciso di uscire dalla maggioranza che sostiene il governo Monti).
Il dl 174, nel testo emendato dalla camera prima e poi dal senato, rafforza i poteri di controllo della Corte dei conti sui bilanci preventivi e sui rendiconti degli enti locali. Saranno posti ai raggi X il rispetto del Patto di stabilità interno, l'osservanza dei limiti di indebitamento e la sostenibilità finanziaria dell'ente. In caso di violazioni i sindaci o i presidenti dovranno adottare provvedimenti per rimuovere le irregolarità entro 60 giorni che dovranno essere trasmessi alla magistratura contabile. La Corte li esaminerà nei successivi 30. Se l'ente non provvede alla trasmissione o la verifica da parte della Corte darà esito negativo, le amministrazioni non potranno più spendere.
Le sezioni regionali della Corte dei conti verificheranno con cadenza semestrale le regolarità delle gestioni. I sindaci dei comuni con più di 15.000 abitanti e i presidenti di provincia dovranno trasmettere ogni sei mesi un referto sulla regolarità della gestione sulla base delle linee guida approvate dalla Corte conti. Il bilancio consolidato e il controllo della qualità dei servizi erogati partiranno dal 2013 solo negli enti con più di 100.000 abitanti. Dal 2014 l'asticella si abbasserà a 50.000 abitanti e solo nel 2015 a 15.000 abitanti. La stessa tempistica si applicherà ai controlli sulle partecipate non quotate e alla definizione di metodologie di controllo strategico finalizzate alla rilevazione dei risultati conseguiti rispetto agli obiettivi. La funzione di controllo strategico potrà essere esercitata in forma associata.
Nella parte dedicata alle regioni (i primi due articoli) il provvedimento, pur con un dietrofront rispetto al testo iniziale (che introduceva i controlli preventivi di legittimità da parte della Corte dei conti sugli atti dei governatori), introduce significative novità sottoponendo i preventivi e consuntivi regionali al controllo dei magistrati contabili che dovranno verificare la rispondenza col Patto di stabilità. La Corte dei conti passerà ai raggi X anche le partecipazioni in società controllate. Tra le novità introdotte al senato si segnala la chance, prevista per le regioni che abbiano adottato il piano di stabilizzazione finanziaria (per il momento solo la Campania), di chiedere entro il 15 dicembre un'anticipazione di cassa da destinare al pagamento della spesa corrente nei limiti di 50 milioni per il 2012 (si veda ItaliaOggi del 30 novembre).
Per gli enti locali in dissesto e che si trovino in condizione di grave indisponibilità di cassa è prevista la possibilità di chiedere un anticipo pari a 5/12 delle entrate per la durata di sei mesi. I comuni che accedono al fondo anti-dissesto potranno ricevere un contributo di 300 euro per abitante. Le province avranno 20 euro per abitante. Al fondo potranno accedere tutti i comuni (è stata soppressa la norma che riservava l'accesso al fondo solo ai comuni con più di 20.000 abitanti). I comuni sciolti per mafia e in cui sussistono squilibri strutturali di bilancio potranno chiedere un'anticipazione di 200 euro per abitante nel limite massimo di 20 milioni l'anno.
La stretta sui costi della politica regionale impone ai governatori di:
● ridurre le indennità di funzione dei consiglieri e degli assessori nonché l'assegno di fine mandato
● prevedere il divieto di cumulo di indennità o emolumenti
● pubblicizzare i redditi degli eletti
● definire gli importi dei contributi in favore dei gruppi consiliari
● erogare pensioni e vitalizi agli ex presidenti, assessori e consiglieri solo a chi abbia compiuto i 66 anni di età e abbiano ricoperto l'incarico per non meno di 10 anni anche non continuativi. I governatori dovranno adeguarsi a queste prescrizioni entro il 23 dicembre o entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge di conversione del dl 174 pena la perdita dell'80% dei trasferimenti non destinati a finanziare il Ssn e il Tpl (articolo ItaliaOggi dell'08.12.2012).

APPALTIDECRETO CRESCITA/ Le imprese pagano per i bandi. Costi di pubblicazione dell'ente rimborsati da chi vince. Il meccanismo entrerà in vigore il 1° gennaio prossimo.
Dal 01.01.2013 le spese per la pubblicazione sui quotidiani dei bandi e degli avvisi di gara saranno rimborsate alla stazione appaltante dall'affidatario del contratto; rimane sempre ferma la disciplina prevista nel Codice dei contratti pubblici che obbliga anche dopo il 1° gennaio le stazioni appaltanti a pubblicare i bandi e gli avvisi, oltre che sulla Gazzetta Ufficiale, sul proprio sito internet e su quello del ministero delle infrastrutture e dell'Osservatorio dell'Autorità, anche per estratto su quotidiani a diffusione nazionale e locale.
È questo il quadro che si ricava alla luce del comma 35 dell'articolo 34 del decreto legge 179/2012, introdotto con il maxi-emendamento predisposto dal governo e sul quale è stata votata ieri la fiducia.
La norma prende in considerazione soltanto l'onere di pubblicità sui quotidiani di bandi e avvisi di gara che fa capo alle stazioni appaltanti e che riguarda la pubblicazione per estratto, ai sensi dell'articolo 66, comma 7, del Codice dei contratti pubblici, su due quotidiani a diffusione nazionale e due a diffusione locale, se si tratta di contratti di rilevanza comunitaria (ai sensi dell'articolo 122, comma 5, del Codice, su un quotidiano a diffusione nazionale e locale, se il contratto è al di sotto delle soglie di applicazione della normativa comunitaria). In sostanza il nuovo comma 35 dell'articolo 34 del provvedimento stabilisce che a partire dai bandi e dagli avvisi pubblicati successivamente al 01.01.2013, le spese per la pubblicazione per estratto sui quotidiani previste dalle norme del Codice (i citati articoli 66, comma 7 e 122, comma 5) «sono rimborsate alla stazione appaltante dall'aggiudicatario, entro il termine di 60 giorni dall'aggiudicazione».
La norma ha due effetti, ma lascia aperto un dubbio interpretativo che dovrebbe essere in qualche modo risolto.
Il primo effetto è quello di confermare a chiare lettere che anche dal 1° gennaio 2013 le stazioni appaltanti sono comunque tenute alla pubblicazione sui quotidiani dei bandi e degli avvidi di gara per estratto. Da ultimo, e prima dell'approvazione della legge «anticorruzione», il dubbio poteva infatti esservi. Nel 2009, infatti, il comma 5 dell'articolo 32 della legge n. 69/2009 aveva stabilito che proprio a decorrere dal 1° gennaio 2013, le pubblicazioni effettuate in forma cartacea non avessero più «effetto di pubblicità legale, ferma restando la possibilità per le amministrazioni e gli enti pubblici, in via integrativa, di effettuare la pubblicità sui quotidiani a scopo di maggiore diffusione, nei limiti degli ordinari stanziamenti di bilancio». Con tutta probabilità, quindi, la pubblicazione sui quotidiani sarebbe sparita. Con la recente legge 06.11.2012, n. 190 («anticorruzione») il legislatore ha però previsto una disposizione «di salvezza» delle norme in materia di pubblicità contenute nel Codice dei contratti pubblici. In sostanza, quindi, l'aver fatte salve le due norme del Codice dei contratti pubblici (vedi ItaliaOggi del 30.11.2012, pag. 35) ha significato implicitamente abrogare la norma che avrebbe fato perdere efficacia legale alla pubblicità sui quotidiani a decorrere da inizio 2013. Appare evidente, adesso, che la disposizione del decreto legge sulla crescita, nel testo del maxi-emendamento, nel prendere atto della norma della legge 190/2012, non fa altro che confermare l'obbligo di pubblicità sui quotidiani occupandosi però di venire incontro alle difficoltà di bilancio delle stazioni appaltanti.
Il secondo effetto è, appunto, quello di sollevare le finanze delle amministrazioni che, seppure dovranno sopportare inizialmente le spese di pubblicazione, si vedranno rimborsare tali spese dall'aggiudicatario del contratto dopo due mesi dall'aggiudicazione. Una sorta di spending review sulle spalle delle imprese.
Il dubbio interpretativo riguarda il fatto che, dal tenore letterale della norma, non si desume se e come chi partecipa alla gara avrà contezza dei costi già sostenuti dalla stazione appaltante, il che farà una certa differenza soprattutto quando le gare sono al massimo ribasso.
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Le stazioni appaltanti dovranno iscriversi all'Anagrafe unica.
Le stazioni appaltanti dovranno iscriversi all'anagrafe unica istituita presso la Banca dati dei contratti pubblici, gestita dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, che dovrebbe essere attivata entro il 01.01.2013; in caso di inadempimento dell'obbligo di iscrizione scatta la nullità degli atti e la responsabilità amministrativa e contabile del funzionario responsabile.
È questa una delle principali novità contenuta nel testo del maxi-emendamento al decreto legge 179, presentato dal governo e sul quale l'aula del senato ha votato ieri la fiducia. Si tratta di una assolta novità l'istituzione presso l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture dell'anagrafe unica delle stazioni appaltanti alla quale obbligatoriamente ogni stazione appaltante dovrà iscriversi.
La norma precisa infatti che le stazioni appaltanti di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture saranno tenute a richiedere l'iscrizione all'anagrafe unica presso la banca dati nazionale dei Contratti pubblici istituita ai sensi dell'articolo 52-bis del codice dell'amministrazione digitale di cui al decreto legislativo 07.03.2005 n. 82. In sostanza ciò significa che prima dovrà essere attiva la banca dati nazionale dei contratti pubblici (che dovrebbe partire il 01.01.2013, quanto meno per gli affidamenti di rilievo superiore alla soglia comunitaria, stando ad alcune indiscrezioni filtrate nelle ultime settimane) e poi le amministrazioni potranno iscriversi.
Sarà l'Autorità di vigilanza presieduta da Sergio Santoro a dettare, poi, con una propria delibera, le modalità operative e di funzionamento della anagrafe. Gli obblighi per le amministrazioni non si esauriscono però nella mera iscrizione all'anagrafe, perché esse dovranno anche procedere, ogni anno, all'aggiornamento dei rispettivi dati identificativi. L'inadempimento di questi obblighi è previsto che dia luogo alla nullità degli atti adottati e alla responsabilità amministrativa e contabile dei funzionari responsabili.
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Nulla di fatto per le modifiche alla responsabilità solidale.
Nulla di fatto per la responsabilità solidale negli appalti: rimane la disciplina attuale; ammessi i contratti di rete nelle gare di appalto; salta all'ultimo momento l'estensione della disciplina sui crediti di imposta per le infrastrutture in PPP di importo superiore a 100 milioni e per quelle già aggiudicate. È quanto emerge dal testo del maxi-emendamento approvato dal senato che proprio per il settore delle infrastrutture in project financing compie alcuni significativi passi indietro.
Si parlava, con alcuni emendamenti dei relatori, di due modifiche alla disciplina sui crediti di imposta: la riduzione da 500 a 100 milioni della soglia minima di applicazione e della possibilità di utilizzarli anche per le opere aggiudicate. Le due modifiche sono però saltate e tutto invariato. Stessa sorte per la proposta di esclusione del settore degli appalti pubblici dalla disciplina sulla responsabilità solidale fiscale; anche in questo caso la norma non compare più nel testo finale.
Rappresenta invece una novità, peraltro presa dal disegno di legge semplificazioni-bis, riguarda i cosiddetti contratti di rete stipulati fra aggregazioni di imprese ai sensi dell'articolo 3, comma 4-ter, del decreto legge 10.02.2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.04.2009, n. 33.
La norma approvata ieri stabilisce che alle aggregazioni che si basano su questi contratti si applicano le disposizioni dell'articolo 37 del Codice dei contratti pubblici che, a sua volta, detta le regole per la costituzione e il funzionamento dei raggruppamenti temporanei di imprese e dei consorzi ordinari di concorrenti. Ciò dovrebbe significare che le imprese che hanno sottoscritto il contratto di rete dovranno configurare la propria «aggregazione» secondo le regole proprie di queste due tipologie di soggetti raggruppati, quanto meno, quindi, secondo lo schema del mandato con rappresentanza.
Infine per far fronte ai pagamenti per lavori e forniture già eseguiti, l'Anas potrà utilizzare le risorse dell'ex Fondo centrale di garanzia, nel limite di 400 milioni di euro (articolo ItaliaOggi del 07.12.2012).

PUBBLICO IMPIEGOCongedi parentali anche a ore. Nei ccnl le modalità per fruire dei permessi ai genitori. La novità nel decreto legge salva-infrazioni che è stato approvato ieri dal governo.
I congedi parentali potranno essere utilizzati anche a ore e non solo su base giornaliera. Sarà la contrattazione collettiva a definire le modalità di fruizione del congedo nonché i criteri di calcolo della base oraria e l'equiparazione di un determinato monte ore alla singola giornata lavorativa.
È una delle tante disposizioni contenute nel decreto legge salva-infrazioni, varato ieri dal consiglio dei ministri per provare a salvare, appunto, l'Italia dalle numerose procedure, aperte o possibili, da parte dell'Unione europea.
I temi affrontati dal decreto spaziano dal lavoro al fisco, dalla sanità all'ambiente. Sul fronte fiscale, si prevedono, tra l'altro, l'unificazione dei criteri del momento di effettuazione delle operazioni intraUe, lo stop alla fatturazione dei pagamenti anticipati e la ridefinizione degli adempimenti negli scambi intracomunitari. E ancora, lo stop per i comuni alla possibilità di ampliare l'oggetto dei contratti per la riscossione locale affidando ai concessionari nuovi ambiti di business senza indire gare, ma semplicemente rinegoziando i rapporti in essere.
Da segnalare, ancora le modifiche alla normativa del quadro RW sui beni all'estero: la previsione di una sanzione di 258 euro per chi presenta il quadro RW entro i 90 giorni successivi alla scadenza dei termini di Unico, riduzione dal 5 al 3% della sanzione minima per l'omessa dichiarazione degli investimenti esteri che raddoppia se i predetti investimenti sono situati in black list, completa scomparsa della sezione III del quadro relativo al monitoraggio fiscale.
Accordo Italia-San Marino. Via libera del governo anche alla Convenzione tra Italia e San Marino per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e per prevenire le frodi fiscali (si veda ItaliaOggi del 4 dicembre). Si tratta di un ulteriore tassello della già vasta rete di strumenti analoghi per evitare le doppie imposizioni stipulati dall'Italia. In particolare, l'accordo con San Marino permette di creare un valido quadro giuridico-economico di riferimento per gli operatori economici italiani, ed allo stesso tempo garantisce l'interesse generale dell'Amministrazione finanziaria italiana. La struttura della Convenzione ricalca gli schemi più recenti accolti sul piano internazionale dall'Ocse, con particolare riferimento allo scambio di informazioni fiscali ed al superamento del segreto bancario
Contributi agli uffici giudiziari. Il consiglio dei ministri ha approvato in via preliminare un provvedimento che introduce alcune modificazioni al procedimento per la concessione dei contributi alle spese di funzionamento degli uffici giudiziari in favore dei comuni presso i quali questi uffici hanno sede. Il meccanismo attuale di rimborso delle spese (disciplinato dalla legge n. 392 del 1941 e dal dpr n. 187 del 1998) prevede l'erogazione di un anticipo all'inizio di ogni esercizio finanziario, pari al 70% del contributo erogato nell'anno precedente, e un successivo saldo a consuntivo, entro il 30 settembre di ogni anno. Il nuovo intervento rende la spesa più facilmente controllabile da parte dell'amministrazione della giustizia e incentiva prassi virtuose di gestione dei flussi finanziari attraverso la destinazione dei risparmi ottenuti in favore degli enti locali interessati.
Piano dei conti integrato delle p.a. Il consiglio ha approvato un provvedimento che riguarda le modalità di adozione del piano dei conti integrato delle amministrazioni pubbliche. L'articolo 4 del decreto legislativo n. 91 del 31 maggio (disposizioni di attuazione dell'articolo 2 della legge 196 del 2009, in materia di adeguamento ed armonizzazione dei sistemi contabili) ha disposto che le amministrazioni pubbliche che utilizzano la contabilità finanziaria sono tenute ad adottare un comune piano dei conti integrato, costituito da conti che rilevano le entrate e le spese in termini di contabilità finanziaria e in termini di contabilità economico-patrimoniale e da conti economico-patrimoniali. Tale piano deve essere redatto dalle p.a. (a eccezione dei ministeri e degli enti territoriali) secondo comuni criteri di contabilizzazione indicati dal provvedimento. All'esito dell'adozione del piano dei conti integrato sarà effettuata una sperimentazione di due anni, che consentirà alle amministrazioni aderenti di verificare l'effettiva rispondenza del nuovo assetto contabile
Referendum. Si voterà il 10 e l'11.02.2013 nei territori che hanno chiesto il distacco dalla regione di appartenenza. Si tratta, in particolare, della provincia di Piacenza che ha chiesto il distacco dall'Emilia Romagna e l'aggregazione alla Lombardia, e dei comuni veneti di Arsiè, di Canale d'Agordo, di Cesiomaggiore, di Falcade, di Feltro, di Gosaldo e di Roccapietone (Belluno) che hanno invece chiesto il distacco dal Veneto per passare al Trentino-Alto Adige/Sudtirol (articolo ItaliaOggi del 07.12.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALIEnti associati, revisione doc. Collegi nelle unioni che svolgono funzioni fondamentali. Il maxiemendamento al dl 174 sui costi della politica ha corretto la formulazione.
Il nuovo assetto dell'organo di revisione economico-finanziaria, con la previsione di un collegio composto da tre membri chiamati a operare anche nei comuni associati, riguarda solo le unioni che esercitano in forma associata tutte le funzioni fondamentali comunali.
Il maxiemendamento al disegno di legge di conversione del dl 174/2012 approvato in settimana dal senato, infatti, corregge la formulazione del nuovo art. 234, comma 3-bis, del Tuel uscita dalla camera.
Il testo precedente disponeva che «Nelle unioni di comuni la revisione economico-finanziaria è svolta da un collegio di revisori composto da tre membri, che svolge le medesime funzioni anche per i comuni che fanno parte dell'unione».
Il riferimento, quindi, era a tutte le unioni e non solo a quelle costituite dai piccoli comuni per assolvere all'obbligo di gestione in forma associata delle funzioni fondamentali.
Dopo il passaggio a palazzo Madama, invece, la portata della novità è stata circoscritta alle sole unioni di comuni «totalitarie», siano esse speciali (ex art. 16 del dl 138/2011), ovvero classiche (ex art. 32 del Tuel).
Sebbene nulla vieti che anche i comuni di dimensioni medio-grandi associno la generalità del proprio «core business», è evidente che il legislatore mira soprattutto a quelli sotto i 5.000 abitanti (3.000 in montagna), i quali, entro la fine del 2013 (salvo proroghe) dovranno gestire in comunione tutte le nove funzioni fondamentali individuate dall'art. 19, comma 1, del dl 95/2012.
Anche i piccoli comuni, peraltro, potranno agevolmente aggirare la nuova norma, optando per il modello della convenzione (art. 30 del Tuel), anche solo per gestire alcune delle predette funzioni.
Ricordiamo, infatti, che l'art. 14, comma 29, del dl 78/2010 si limita a sancire il divieto di svolgere la medesima funzione mediante più di una forma associativa, mentre l'art. 32 del Tuel impedisce al singolo comune di far parte di più di un'unione. Nulla osta, invece, alla possibilità di aderire ad un'unione conferendo ad essa solo alcune funzioni e gestendo le altre mediate convenzione.
In tali casi, l'obbligo di passare dall'attuale revisore monocratico al collegio e di assegnare a quest'ultimo anche la vigilanza dei conti dei comuni associati non si applica.
È stata, invece, confermata la disposizione in base alla quale, all'atto della costituzione del nuovo collegio dei revisori delle unioni di comuni di cui all'articolo 234, comma 3-bis, del Tuel (ovvero, come detto, quelle «totalitarie») decadranno i revisori in carica nei comuni associati.
Per la scelta dei componenti occorre applicare il meccanismo dell'estrazione dalle liste regionali, previsto dall'art. 16, comma 25, del dl 138/2011. Gli elenchi sono stati recentemente approvati dal decreto del 27 novembre 2012 del ministero dell'interno, dipartimento per gli affari interni e territoriali.
In base a quanto disposto dal regolamento del Viminale n. 23 del 15.02.2012, occorrerà pescare da nominativi inseriti almeno in fascia 2, che include i soggetti iscritti da almeno cinque anni e che abbiano svolto almeno un incarico di revisore dei conti presso un ente locale per almeno tre anni.
È chiaro che, a seguito delle modifiche, si attenuano alcuni degli effetti che sarebbero conseguiti dalla riforma come approvata a Montecitorio, che avrebbe comportato una forte riduzione di posti per i professionisti che lavorano nella pa locale e una penalizzazione per quelli al primo incarico (articolo ItaliaOggi del 07.12.2012 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATATares, rischio di salto nel buio. Sono molte le perplessità dei comuni e degli operatori. A pochi giorni dall'effettiva entrata in vigore del tributo i nodi da sciogliere sono molti.
A pochi giorni dall'effettiva entrata in vigore del tributo comunale sui rifiuti e sui servizi (c.d. Tares) -come istituito ai sensi e per gli effetti dell'art. 14 del dl n. 201/2011 conv. con modif. in legge n. 214/2011- sono molteplici le perplessità dei comuni e degli operatori chiamati a dare attuazione al rinnovato istituto.
È indubbio che la Tares garantirà -per un verso- il superamento di un regime che, negli anni, per il coesistere di differenti strumenti (Tarsu; Tia1; Tia2), ha generato un panorama di riferimento, anche giurisprudenziale, del tutto diversificato e -sotto altro profilo- assicurerà la definitiva affermazione della natura «tributaria» del prelievo.
Peraltro, proprio con riguardo a tale ultimo profilo, va dato conto che le disposizioni normative già consentono tuttavia al tributo di «trasformarsi» in corrispettivo del servizio –e dunque in vera e propria tariffa– allorché venga data attuazione a quei sistemi di «misurazione puntuale della quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico» che la stessa Corte Costituzionale - con la nota sentenza n. 238/2009 relativa all'affermazione della natura tributaria del regime Tarsu/Tia - aveva indicato essere i principali motivi per cui, in ogni caso, dette entrate non potevano avere qualifica tariffaria al riguardo rilevando che «_ il fatto generatore dell'obbligo di pagamento è legato non all'effettiva produzione di rifiuti da parte del soggetto obbligato e alla effettiva fruizione del servizio di smaltimento, ma esclusivamente all'utilizzazione di superfici potenzialmente idonee a produrre rifiuti ed alla potenziale fruibilità del servizio di smaltimento».
Ma come detto in apertura sono molte le perplessità relative all'attuazione delle nuove previsioni, con molteplici richieste di revisioni della norma –di cui si sono fatti portavoce differenti centri di interesse– e che dovrebbero confluire in puntuali revisioni del sistema Tares a pochi giorni dall'attuazione di questa e soprattutto a pochi giorni dalla scadenza della prima rata di pagamento che la norma prevede avvenga già entro il prossimo gennaio.
A tale riguardo, senza volontà di affrontare compiutamente la delicata questione delle richieste di modifica, data la molteplicità dei profili trattati e il necessario approfondimento che ogni elemento richiederebbe, è comunque possibile valutare taluni profili della problematica ed in tale ottica approfondire due tematiche oggetto di distinti progetti di riforma.
In tale contesto una rilevante modificazione proposta è già contenuta in atti ufficiali, ossia nel progetto di legge di modifica al Codice dell'ambiente, attualmente in esame alla commissione ambiente della camera dei deputati.
All'art. 16 di tale progetto di legge è, infatti, contenuta una disposizione per la quale la possibilità di attuare un sistema tariffario (in luogo di quello tributario della Tares) non sarebbe riconnessa solo ed esclusivamente all'approntamento dei già indicati sistemi di misurazione puntuali della quantità di rifiuti conferiti ma anche all'ipotesi in cui i comuni abbiano comunque realizzato «sistemi di gestione caratterizzati dall'utilizzo di correttivi ai criteri di ripartizione del costo del servizio finalizzati ad attuare un effettivo modello di tariffa commisurata al servizio reso».
È indubbio che, data la genericità della previsione, la stessa non possa che essere apprezzata esclusivamente per l'effetto che questa sarebbe in grado di ingenerare.
Le conseguenze più immediate (e forse anche volute) sarebbero, infatti, quelle di sottrarre al regime di applicazione Tares una serie di fattispecie per le quali –pur non essendo attuati meccanismi di misurazione puntuali della quantità di rifiuti conferiti, come richiesto dalla Corte costituzionale e come originariamente previsto dalla stessa legg – potrebbero ugualmente valere i «correttivi» previsti dalla norma.
Quanto detto con la conseguente applicazione di un regime tariffario sia pure in assenza di parametri effettivi di riferimento e, dunque, con il rischio di determinare uno scenario di discrezionalità assoluta e totalmente incontrollato, collegato a variabili sostanzialmente indefinite e forse indefinibili.
E comunque in possibile contrasto con le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale.
A fronte di tali correttivi – imitati nella forma ma assolutamente dirompenti per gli effetti che potrebbero determinare– e al di là di ipotesi di mero rinvio dell'entrata in vigore delle previsioni di legge, rispetto a cui il dubbio maggiore risiede nella quota di contribuzione relativa ai servizi indivisibili che il Governo conta di ottenere già nel 2013, altri progetti di riforma riguardano direttamente l'art. 14 del dl n. 201/2011 conv. con modif. in legge n. 214/2011 istitutivo della Tares.
Tali ulteriori progetti di riforma affermano peraltro in modo congiunto l'esigenza di superare i preoccupanti profili connessi al mantenimento degli attuali livelli occupazionali.
Si deve infatti osservare che, a fronte dell'enunciazione chiara del Comune quale «soggetto attivo dell'obbligazione tributaria», molti Enti Locali avevano ipotizzato la necessità –anche nei confronti di propri gestori dei servizi– di riacquisire ogni funzione, con ogni conseguenza in ordine alla sorte dei dipendenti dei gestori e di riorganizzazione delle funzioni all'interno degli Enti locali medesimi.
In tale direzione –e premesso che in ogni caso i gestori hanno comunque titolo a poter continuare a gestire le attività strumentali e propedeutiche alla riscossione della Tares– i nuovi progetti di riforma si preoccupano di prevedere che i comuni possano affidare a detti soggetti gestori, non solo le già indicate attività strumentali, ma anche ogni funzione connessa alle fasi di gestione, accertamento e riscossione della Tares, con ciò assicurando i precedenti livelli occupazionali e garantendo una fase meno traumatica nel passaggio al nuovo regime (articolo ItaliaOggi del 07.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATATorna il potere sostitutivo di Palazzo Chigi sui vincoli.
NECESSARI TRE TENTATIVI/ Per superare l'obiezione della Corte costituzionale previste tre riunioni (in 90 giorni) tra Governo e enti territoriali per trovare l'intesa.

In attesa del debat public alla francese o della riforma radicale delle procedure per l'autorizzazione delle opere pubbliche sul territorio, a questo punto rinviate alla prossima legislatura, il Governo prova ad aggiustare –nel decreto legge sviluppo-bis approvato ieri dal Senato– la conferenza di servizi modello legge 241 in caso di motivato dissenso delle amministrazioni di tutela culturale e paesaggistica. Viene ripristinato il potere sostitutivo del Governo, cancellato da una recente sentenza della Consulta.
L'articolo 14-quater della legge 241/1990 (riformato dal decreto legge 78/2010) dava infatti la possibilità al Consiglio dei ministri (alla presenza del Governatore) di superare il dissenso motivato dell'amministrazione di tutela, dopo aver tentato un'intesa con la Regione interessata: la norma era stata però dichiarata incostituzionale dalla Consulta (sentenza 11.07.2012, n. 179) perché il termine di trenta giorni per fare l'intesa Governo-Regione era stato considerato troppo stringente.
La sentenza aveva di fatto azzerato il potere sostitutivo del Governo. Ora il maxiemendamento al decreto sviluppo prova a restituire al Governo il potere sostitutivo per superare il motivato dissenso regionale, allungando però a un massimo di 90 giorni i tempi dell'intervento governativo.
La procedura diventa molto più complessa, con l'obbligo di esperire almeno tre tentativi di accordo con la Regione interessata.
Il primo step prevede che sia indetta dalla Presidenza del Consiglio una riunione «entro trenta giorni dalla data di remissione della questione alla delibera del Consiglio dei ministri».
Alla riunione dovranno partecipare, oltre alla Regione o alla Provincia autonoma, anche gli enti locali e le amministarzioni interessate al progetto sotto esame, «attraverso un unico rappresentante legittimato, dall'organo competente, ad esprimere in modo vincolante la volontà dell'amministrazione sulle decisioni di competenza».
A rendere questo passaggio innovativo e l'intera procedura più graduale è anche il fatto che «i partecipanti debbono formulare le specifiche indicazioni necessarie alla individuazione di una soluzione condivisa, anche volta a modificare il progetto originario».
Se l'intesa non è raggiunta dopo questa prima riunione, entro trenta giorni, viene indetta sempre da Palazzo Chigi una seconda riunione che abbia le stesse modalità della prima, «per concordare interventi di mediazione, valutando anche le soluzioni progettuali alternative a quella originaria».
Se anche questa seconda riunione non arriva a una soluzione entro trenta giorni, nei successivi trenta vengono avviate nuove trattative, stavolta «finalizzate a risolvere e comunque a individuare i punti di dissenso». Se anche in questo caso l'intesa non è raggiunta, la deliberazione del Consiglio dei ministri per l'esercizio del potere sostitutivo «può essere comunque adotatta con la partecipazione dei presidenti delle Regioni o delle Province autonome interessate».
L'intervento sulla conferenza di servizi ha una sua importanza, anche se va detto che il potere sostitutivo della Presidenza del Consiglio è stato finora utilizzato in casi molto rari. È tuttavia un tentativo per rimettere in moto lo strumento. Ed è una delle poche norme significative per le infrastrutture, dopo la cancellazione degli interventi più importanti, come l'abbassamento della soglia di accesso al credito di imposta in favore del project financing e l'eliminazione per il settore dei lavori pubblici della responsabiità solidale fra appaltatore e subappaltatore per i mancati pagamenti di quest'ultimo relativi all'Iva e alle trattenute dei dipendenti (articolo Il Sole 24 Ore del 07.12.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI SERVIZIAffidamenti diretti «liberi». Per le partecipate salta il limite di 200mila euro annui.
IL QUADRO/ Il correttivo cancella il tetto introdotto a luglio anche per le strumentali Confermato il blocco ad assunzioni e stipendi.

Con la cancellazione del limite dei 200mila euro all'in house che sarebbe scattato a inizio 2014, inserita nel maxiemendamento governativo al decreto sviluppo-bis, gli affidamenti diretti di servizi pubblici a rilevanza economica perdono l'ultimo vincolo destinato ad avere un impatto generalizzato.
La novità, insomma, sembra segnare la parola fine alla storia dei tentativi di liberalizzazione avviati nel 2008, con la prima manovra della legislatura, e colpiti dai referendum del 2011 e dalla sentenza 199/2012 della Corte costituzionale.
L'addio al tetto di valore per gli affidamenti diretti (si veda anche Il Sole 24 Ore di ieri), che era stato reintrodotto a luglio nel decreto legge sulla revisione di spesa con un occhio particolare alle società strumentali, si spiega anche con il rischio-contenzioso che avrebbe accompagnato la sua applicazione. Un limite identico era contenuto nell'articolo 4 della manovra-bis del 2011 (Dl 138), cancellato per illegittimità dalla Corte costituzionale. E, in vista del 2014 sarebbe stata praticamente certa una nuova ondata di ricorsi alla Consulta da parte delle Regioni.
Con il via libera alla conversione in legge del decreto, comunque, tirano un sospiro di sollievo molti dei titolari attuali di affidamenti diretti (tra le strumentali, per esempio, società come Lazio Service), che sarebbero dovuti decadere a fine 2014, e cade l'ultimo limite «made in Italy» all'in house: la disciplina di riferimento rimane in pratica solo quella europea, che consente l'affidamento diretto a società interamente pubbliche che siano controllate dall'ente affidante e con lui svolgano la parte rilevante della propria attività.
Un ricordo pallido dell'ondata liberalizzatrice rivive in realtà in un altro correttivo contenuto nel maxiemendamento, che impone di dare conto, in una relazione, delle ragioni alla base della scelta dell'affidamento e dei contenuti del contratto di servizio. La relazione, però, va semplicemente pubblicata sul sito istituzionale dell'ente e non è sottoposta a pareri dell'Antitrust che sarebbero stati giudicati incostituzionali in seguito alla sentenza post-referendum della Consulta. Non sono fissate sanzioni per la mancata pubblicazione della relazione: la decadenza automatica è prevista al 31.12.2013 solo in caso di mancato adeguamento degli affidamenti non conformi alla disciplina Ue (per esempio: affidamento diretto a una società mista) o privi di data di scadenza.
Tutto questo pacchetto di regole esclude espressamente energia elettrica, farmacie comunali e gas naturale. A complicare la gestione c'è invece il trasferimento di tutti i compiti di scelta della forma di gestione dei servizi, tariffe e controlli agli ambiti territoriali ottimali previsti dal 2011 ma non ancora costituiti ovunque. Una regola, questa, che sottrae ai Comuni ogni compito diretto nell'organizzazione dei servizi pubblici.
Per gli affidamenti diretti alle società quotate, viene ribadita la decadenza a fine 2020 degli affidamenti diretti che non prevedono scadenza (lo prevedeva già il decreto originario) e si precisa che rientrano nella disciplina delle quotate tutte «le società emittenti strumenti finanziari quotati in mercati regolamentati». Queste regole, quindi, oltre alle aziende presenti nel listino di Borsa, dovrebbero estendersi anche alle società che emettono obbligazioni.
La precisazione è importante anche per definire i confini dell'estensione alle società partecipate delle regole di contenimento di spesa pubblica imposte agli enti locali controllanti. Il tema più spinoso, da questo punto di vista, è rappresentato dai blocchi alle assunzioni e dai tetti agli stipendi individuali, ribaditi nel caso delle società strumentali anche dal decreto legge sulla revisione di spesa. Il problema è legato al fatto che nelle aziende il personale è assunto con contratti di diritto privato, il cui congelamento per legge rischia di scatenare un contenzioso ad ampio raggio.
Proprio per questa ragione, in commissione era stato approvato un correttivo che chiedeva alle società di ridurre le spese di personale, rispettando anche il limite del 40% al turn over, senza bloccare gli stipendi individuali, ma il «non possumus» della Ragioneria lo ha escluso dal testo governativo (articolo Il Sole 24 Ore del 07.12.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTIAppalti, resta la responsabilità solidale.
Nessun alleggerimento per le aziende - Le reti di imprese potranno partecipare ai bandi
QUALIFICAZIONE/ I requisiti di fatturato per lavori oltre 20 milioni potranno essere dimostrati pescando tra i cinque migliori esercizi degli ultimi dieci anni.

Il mondo dell'edilizia deve dire addio ad alcune delle misure più attese. Il decreto sviluppo non porterà in dote l'abbassamento della soglia minima per l'ammissibilità del credito di imposta per le opere in project financing (che resta a 500 milioni) e non potrà neanche essere applicato alle opere già aggiudicate. Salta anche la norma più utile per le piccole e medie imprese dei lavori pubblici: non viene più escluso il settore degli appalti dalla responsabilità solidale tra appaltatore e subappaltatori quando questi ultimi non pagano l'Iva o i contributi dei lavoratori all'Inps e all'Inail. Scompare, infine, la possibilità per le imprese di autoprodurre il certificato di regolarità contributiva (Durc) in alcuni passaggi chiave del contratto.
L'edilizia incassa però alcune novità minori, annunciate da tempo dal Governo come capitoli delle semplificazioni: per esempio, l'ammissione delle reti di impresa al mercato degli appalti. Oppure l'istituzione dell'anagrafe unica delle stazioni appaltanti.
La prima norma era stata inserita, appunto, nel Ddl Semplificazioni bis appena sbarcato in Parlamento e ora recuperata nel maxiemendamento presentato dal Governo.
La seconda è una novità dell'ultimora. Prevede l'istituzione di un'anagrafe delle oltre 38mila stazioni appaltanti italiane presso l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici. Gli enti avranno l'obbligo di richiedere l'iscrizione presso la banca dati degli appalti che l'Autorità dovrà istituire entro il 01.01.2013, pena «la nullità degli atti adottati e la responsabilità amministrativa e contabile dei funzionari responsabili». Le modalità di iscrizione e di funzionamento dell'anagrafe saranno stabilite con una delibera della stessa autorità.
Le novità in materia di appalti non finiscono qui. Passa anche la norma che permette alle imprese qualificate a eseguire i lavori di maggiore dimensione (oltre 20 milioni) di dimostrare i requisiti di fatturato pescando tra i cinque migliori esercizi degli ultimi 10 anni.
Poi ci sono due norme anticrisi: la proroga a tutto il 2013 delle agevolazioni per la verifica triennale dei requisiti da parte delle Soa e l'aumento dal 75 all'80% della quota di cauzione svincolabile in corso di appalto. Per contro, a partire dal 01.01.2013 saranno le imprese a doversi accollare le spese di pubblicazione dei bandi di gara e degli avvisi di aggiudicazione sui quotidiani.
A rimborsare la Pa dei costi sostenuti dovrà essere l'aggiudicatario del contratto.
Infine, in materia di conferenza di servizi, nasce il contraddittorio lungo in caso di dissenso di una Regione o di una Provincia autonoma.
Se l'amministrazione locale dovesse mostrare la propria opposizione al progetto, il Governo programmerà una serie di tre incontri a distanza di 30 giorni l'uno dall'altro. E solo all'esito negativo di questi potrà procedere aggirando il veto (articolo Il Sole 24 Ore del 06.12.2012 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAL’impianto di ascensore –al pari di quelli serventi alle condotte idriche, termiche etc. dell’edificio principale– rientra fra i volumi tecnici o impianti tecnologici strumentali alle esigenze tecnico-funzionali dell’immobile.
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Circa la costruzione di un vano ascensore esterno al corpo di fabbrica, non può il Comune denegare il rilascio del permesso di costruire per il mancato rispetto delle distanze di cui all’art. 873 cod. cov., applicandosi in ogni caso l’ulteriore deroga di cui all’ultima parte del comma 2 dell’art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001.

Innanzi tutto, il Collegio reputa fondato il primo motivo di appello nella parte in cui si sostiene l’estraneità dell’ascensore oggetto della richiesta di permesso di costruire alla nozione di “costruzione” di cui all’art. 873 cod. civ., e quindi l’inapplicabilità ad esso delle disposizioni in tema di distanze dallo stesso poste.
Ed invero, alla stregua della giurisprudenza più recente l’impianto di ascensore –al pari di quelli serventi alle condotte idriche, termiche etc. dell’edificio principale– rientra fra i volumi tecnici o impianti tecnologici strumentali alle esigenze tecnico-funzionali dell’immobile (cfr. Cass. civ., sez. II, 03.02.2011, nr. 2566).
Ma, anche al di là di quanto sopra, appare condivisibile l’impostazione sviluppata nel secondo mezzo, secondo cui, nell’interpretazione dell’eccezione alla regola del rispetto delle distanze posta dall’ultima parte del comma 2 dell’art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001, non può prescindersi dal tener conto dell’inserimento della norma –come già rilevato- all’interno della disciplina volta all’eliminazione delle barriere architettoniche nell’interesse dei soggetti portatori di handicap.
Ciò rileva non solo e non tanto ai fini di un astratto bilanciamento di interessi, come quello cui ha proceduto il primo giudice (e al quale gli odierni appellanti, soprattutto col terzo mezzo, contrappongono un opposto bilanciamento), quanto soprattutto nell’accezione da dare a locuzioni ed espressioni tecniche impiegate dal legislatore, quali quella di “spazio o area di proprietà o di uso comune”, le quali non possono essere recepite in un’ottica strettamente civilistica, ma vanno calate nell’ambito della normativa tecnica esistente in subiecta materia.
Sotto tale profilo, soccorre il d.m. 14.06.1989, nr. 236, contenente la normativa regolamentare a suo tempo adottata in attuazione della legge 09.01.1989, nr. 13, e che ancora oggi costituisce il riferimento dell’art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001 (nel quale la predetta legge è confluita).
L’art. 2 del citato decreto contiene una serie di definizioni tecniche utili all’applicazione della normativa de qua e, in particolare, qualifica come “spazio esterno (...) l’insieme degli spazi aperti, anche se coperti, di pertinenza dell’edificio o di più edifici” (lett. F) e come “parti comuni dell’edificio (...) quelle unità ambientali che servono o che connettono funzionalmente più unità immobiliari” (lett. E).
Applicando tali coordinate interpretative all’ultima parte del comma 2 dell’art. 79, risulta chiaro come il legislatore, nel far riferimento a spazi o aree “di proprietà o di uso comune”, ha inteso richiamare non soltanto il dato giuridico dell’esistenza di una comproprietà o di una servitù di uso comune, ma anche il semplice dato materiale dell’esistenza di uno spazio comunque denominato, che per le sue caratteristiche si presti a essere impiegato dai residenti di entrambi gli immobili confinanti; ed è appena il caso di aggiungere che la definizione della lettera E non presuppone affatto che le “unità immobiliari” cui essa fa riferimento debbano necessariamente essere parte di un medesimo edificio (ché, anzi, dal combinato disposto di detta definizione con quella di cui alla successiva lettera F si ricava che uno spazio esterno comune può certamente interessare anche “più edifici”).
Con riguardo al caso di specie, se è vero che il cortile esistente fra i due immobili e nel quale dovrebbe insistere l’ascensore per cui è causa non risulta essere in comproprietà fra i due condomini, non risulta però contraddetto l’assunto degli appellanti secondo cui esso risulta de facto utilizzato materialmente e per la sua interezza dai residenti di entrambi gli immobili; per vero, il TAR si è limitato a rilevare l’esistenza di un confine catastale che dividerebbe a metà il cortile medesimo, senza però che questo risulti tagliato da muro o recinzioni (unico elemento che sarebbe idoneo a escluderne l’ “uso comune” nel senso sopra precisato).
Ne discende che non poteva il Comune denegare il rilascio del permesso di costruire per il mancato rispetto delle distanze di cui all’art. 873 cod. cov., applicandosi in ogni caso l’ulteriore deroga di cui all’ultima parte del comma 2 dell’art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001 (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.12.2012 n. 6253 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Diritto di accesso, legittimo il diniego se non sussiste l’attualità dell’interesse.
Con la sentenza 03.12.2012 n. 6162 la IV Sez. del Consiglio di Stato ha respinto l’appello proposto dal ricorrente, un maggiore dell’Aeronautica, per la riforma della sentenza pronunciata dal TAR Lazio in quanto non aveva riconosciuto il suo diritto ad accedere alla documentazione, relativa ad una procedura di avanzamento risalente al 1993 alla quale egli (allora Sottotenente) aveva partecipato. L’appello è stato ritenuto infondato confermando l’inattualità dell’interesse ad accedere rilevata dal giudice di merito.
In particolare, nell’occasione i giudici di Palazzo Spada, sulla scorta delle affermazioni rese da Adunanza Plenaria, 18.04.2006, ribadiscono che il diritto di accesso si presenta, come «posizione strumentale riconosciuta ad un soggetto che sia già titolare di una diversa situazione giuridicamente tutelata, (diritto soggettivo o interesse legittimo, e, nei casi ammessi, esponenzialità di interessi collettivi o diffusi) e che abbia, in collegamento a quest’ultima, un interesse diretto, concreto ed attuale ad acquisire mediante accesso uno o più documenti amministrativi». La strumentalità del diritto di accesso nega, a tutta evidenza, la sostenibilità di una pur sostenuta autonomia della posizione, laddove l’inerenza del documento alla posizione giuridica sostanziale preesistente fonda l’interesse concreto e differenziato della parte che richiede i documenti.
Ebbene, nel caso di specie, i documenti per i quali è stato negato l’accesso (oggetto di istanza, del dicembre 2011) sono relativi ad un procedimento del 1993, dunque –ad avviso del collegio- estremamente risalenti nel tempo. A fronte di tale elemento obiettivo, l’attualizzazione dell’interesse (collegato ad una odierna esigenza di tutela in giudizio di posizioni giuridiche sostanziali) appare, nell’istanza proposta, estremamente generico, in modo, cioè, da non evidenziare fondati profili di attualità (commento tratto da www.diritto.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime concessorio non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse.
In materia urbanistica, il presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione dell'opera in totale difformità della concessione o in assenza della medesima, con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è atto dovuto ed è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione. Di conseguenza, l'ordinanza di demolizione -in quanto atto vincolato- non richiede, in alcun caso, una specifica motivazione su puntuali ragioni di interesse pubblico o sulla comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti o sacrificati.
Non può ravvisarsi il lamentato difetto di motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione, in considerazione del fatto che, in presenza di immobile abusivo, la demolizione è atto dovuto che non necessita di particolari argomentazioni.
L'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione. Non può ammettersi alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può avere legittimato.
L'ingiunzione a demolire opere edilizie abusive non deve essere preceduta dal parere della Commissione edilizia comunale, da previe comunicazioni di avvio del procedimento nonché da motivazioni ulteriori rispetto al mero riferimento all'accertata abusività dell'opera, meno che mai affermativa della sussistenza dell'interesse pubblico attuale (alla rimozione dell'abuso), dato che quest'ultimo è in re ipsa.

La doglianza poi sulla assente esternazione dell’interesse pubblico non rileva (secondo mezzo), posto che L'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime concessorio non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse pubblico: TAR Campania Napoli, sez. IV, 08.07.2008, n. 7798)
In argomento, il Tribunale rileva come la motivazione sia esaustiva con il rimando alla analitica descrizione dell’intervento e con il congruo riferimento alla normativa di settore. Come afferma la giurisprudenza, "In materia urbanistica, il presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione dell'opera in totale difformità della concessione o in assenza della medesima, con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è atto dovuto ed è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione. Di conseguenza, l'ordinanza di demolizione -in quanto atto vincolato- non richiede, in alcun caso, una specifica motivazione su puntuali ragioni di interesse pubblico o sulla comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti o sacrificati": TAR Campania Napoli, sez. VIII, 15.05.2008, n. 4556. "Non può ravvisarsi il lamentato difetto di motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione, in considerazione del fatto che, in presenza di immobile abusivo, la demolizione è atto dovuto che non necessita di particolari argomentazioni": TAR Campania Napoli, sez. VI, 19.06.2008, n. 6016.
Pari sorte spetta alla doglianza relativa alla mancata ponderazione fra l’interesse pubblico e quello privato, rispetto alla demolizione. Come statuisce la giurisprudenza, "L'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione. Non può ammettersi alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può avere legittimato": Consiglio Stato, sez. IV, 31.08.2010, n. 3955.
Non occorreva, infine, il parere della CEC (IV° motivo), in presenza di valutazioni strettamente conformate a parametri giuridici: "L'ingiunzione a demolire opere edilizie abusive non deve essere preceduta dal parere della Commissione edilizia comunale, da previe comunicazioni di avvio del procedimento nonché da motivazioni ulteriori rispetto al mero riferimento all'accertata abusività dell'opera, meno che mai affermativa della sussistenza dell'interesse pubblico attuale (alla rimozione dell'abuso), dato che quest'ultimo è in re ipsa (Cfr. TAR Napoli, IV Sez., 25.05.2001 n. 2339, TAR Marche 20.04.2001 n. 553 e TAR Basilicata 17.07.2002 n. 518)”: Tar Basilicata-Potenza nr. 103 - 20 febbraio 2004) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 29.11.2012 n. 4868 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl Rup e' il "motore" della procedura selettiva.
Rientra tra i poteri del Rup la verifica dell’anomalia delle offerte anche nell’ambito di una procedura da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.

Questo il principio pronunciato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, sentenza 29.11.2012 n. 36, chiamata ad individuare il soggetto competente a procedere, nell’ambito di una gara di appalto, alla verifica di congruità delle offerte sospettate di anomalia.
Nel caso in esame, relativo ad una procedura aperta da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa per l’affidamento dei lavori di ristrutturazione e ampliamento di un edificio ospedaliero, il soggetto primo classificato aveva impugnato la sua esclusione, avvenuta a seguito del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta diretta personalmente dal RUP.
Giunta la questione in appello, la sezione VI del Consiglio di Stato (ordinanza 12.10.2012, n. 5270) rimetteva all’esame dell’Adunanza Plenaria la questione relativa all’individuazione del soggetto competente a procedere alla verifica delle offerte sospettate di anomalia.
Sul punto è stato rilevato infatti un contrasto giurisprudenziale.
Secondo una parte della giurisprudenza la commissione giudicatrice costituita ai sensi dell’art. 84 del D.Lgs. 163/2006, nell’ambito delle gare da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ha la competenza esclusiva in merito ad ogni attività avente carattere valutativo. “Da tale arresto discende, nelle decisioni che hanno esaminato specificamente la questione della competenza all’effettuazione della verifica, l’affermazione dell’illegittimità di una verifica che non coinvolga la commissione in modo concreto e sostanziale, venendo essa esclusa del tutto ovvero chiamata semplicemente a prendere atto delle conclusioni raggiunte dalla stazione appaltante o dal R.U.P.” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 10.09.2012, n. 4772; Cons. Stato, sez. III, 15.07.2011, n. 4332; Cons. Stato, sez. VI, 15.07.2010, n. 4584).
Giurisprudenza più recente prevede invece che spetti al Rup il potere di decidere se affidare la valutazione all’organo collegiale o provvedere personalmente alla verifica dell’anomalia (cons. Stato, sez. III, 16.03.2012, n. 1467).
L’Adunanza Plenaria rileva con la sentenza in esame che anche in un periodo precedente all’entrata in vigore dell’art. 121 del Dpr 207/2010, l’art. 88 del D.Lgs., 163/2006 (Codice dei contratti) così come modificato dal d.l. 01.07.2009, n. 78 (convertito con modificazioni nella legge 03.08.2009, n. 102) prevedeva in capo al Rup il potere di convocare la commissione o procedere autonomamente alla verifica dell’anomalia dell’offerta, sia in merito alle procedure da aggiudicare al prezzo più basso, sia per quelle basate sull’offerta economicamente più vantaggiosa.
In conclusione, il Rup assume anche in questa circostanza un ruolo centrale. Egli infatti decide se convocare la commissione o agire personalmente alla verifica dell’anomalia dell’offerta, essendo egli stesso, per volere del legislatore un soggetto caratterizzato da particolari competenze tecniche, idoneo quindi ad effettuare delle valutazioni ed assumere delle decisioni anche in questa fase, assumendo il ruolo di vero e proprio “motore” della procedura selettiva (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nelle zone soggette a vincoli di cui al D.Lgs. n. 42/2004 ogni intervento non rientrante tra quelli di cui all'art. 149 deve essere preceduto da specifica autorizzazione paesaggistica e, in assenza di quest'ultima, le opere senza titolo debbono essere ridotte in pristino ai sensi dell'art. 167 dello stesso decreto legislativo.
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In caso di ordine di demolizione non è richiesta una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto il presupposto per l'adozione dell'ordine de quo è costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in difformità dal titolo abilitativo o in sua assenza, con la conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con la descrizione delle opere abusive e il richiamo alla loro accertata abusività.
In materia di demolizione di immobili abusivi, attesa la natura vincolata del potere, non è configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto e, dunque, anche sotto tale profilo deve essere disattesa la censura con la quale il ricorrente lamenta il difetto di istruttoria in relazione all’esatta epoca di realizzazione del manufatto.

Com'è noto nelle zone soggette a vincoli di cui al D.Lgs. n. 42/2004 ogni intervento non rientrante tra quelli di cui all'art. 149 deve essere preceduto da specifica autorizzazione paesaggistica e, in assenza di quest'ultima, le opere senza titolo debbono essere ridotte in pristino ai sensi dell'art. 167 dello stesso decreto legislativo.
Allo stesso modo l'art. 27 del D.P.R. n. 380/2001 prevede che "il dirigente o il responsabile, quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla legge 18.04.1962, n. 167, e successive modificazioni ed integrazioni, nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi".
Nel caso di specie è incontestata la presenza di vincoli paesaggistici sull'area in questione così come l'insussistenza di un titolo per le opere realizzate e, pertanto, correttamente ne è stata ordinata demolizione con riduzione in pristino dello stato dei luoghi, ai sensi dell’art. 27 del DPR n. 380/2001 e dell’art. 167 del D.lgs. n. 4272004.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, peraltro, in caso di ordine di demolizione non è richiesta una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto il presupposto per l'adozione dell'ordine de quo è costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in difformità dal titolo abilitativo o in sua assenza, con la conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con la descrizione delle opere abusive e il richiamo alla loro accertata abusività (cfr. TAR Puglia, Lecce, III, 04.02.2012, n. 227; TAR Campania, Napoli, VIII, 09.02.2012, n. 693).
Deve, infine, osservarsi che in materia di demolizione di immobili abusivi, attesa la natura vincolata del potere, non è configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto e, dunque, anche sotto tale profilo deve essere disattesa la censura con la quale il ricorrente lamenta il difetto di istruttoria in relazione all’esatta epoca di realizzazione del manufatto (cfr. Consiglio di Stato, IV, 16.04.2012, n. 2185) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 26.11.2012 n. 4797 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha riportato la nozione di interventi di ripristino di edifici diruti ad organismi edilizi dotati di sole mura perimetrali e privi di copertura e non totalmente da ricostruire e ha condivisibilmente negato che essi possano essere classificati come restauro e risanamento conservativo.
A maggiore ragione si deve ritenere che, ove manchino del tutto le mura perimetrali come è nel caso di specie laddove rimangono solo delle impronte minimali sul terreno, la ricostruzione non possa rientrare nel novero degli interventi di restauro e risanamento conservativo.
Ne discende che la riconduzione dell’intervento richiesto va, pertanto, effettuata ai sensi del citato art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, ove la scelta tra le possibili opzioni è tra la nuova costruzione o la ristrutturazione edilizia e la sussumibilità nell’una o nell’altra categoria dipende anche dalla circostanza che la ricostruzione avvenga con la stessa volumetria e sagoma della preesistenza oltreché dalla ragionevole prossimità temporale della ricostruzione rispetto alla demolizione.
Peraltro, ai fini della qualificazione di un intervento ricostruttivo anche come ristrutturazione e non nuova edificazione, non è sufficiente che un anteriore fabbricato sia fisicamente individuabile in tutta la sua perimetrazione, essendo indispensabile a soddisfare il requisito della sua esistenza che non sia ridotto a spezzoni isolati, rovine, ruderi e macerie.

Il Collegio rileva che l’intervento richiesto ha ad oggetto il “restauro etico” di preesistenti locali posti al piano terra del Castello Lauritano, crollati molti anni fa, come dimostrato dalla documentazione fotografica allegata, e dei quali residuano solo delle tracce sul terreno.
Detti interventi non possono, pertanto, rientrare nell'ambito della categoria "del consolidamento statico e del restauro e risanamento conservativo" che, secondo la definizione dell’art. 3, lettera c), del D.P.R. n. 380/2001, sono quegli interventi edilizi rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio.
E, infatti, la giurisprudenza, anche di questo TAR, rammentata dall’Amministrazione resistente, ha riportato la nozione di interventi di ripristino di edifici diruti ad organismi edilizi dotati di sole mura perimetrali e privi di copertura e non totalmente da ricostruire (cfr. TAR Campania, Napoli, IV, 14.12.2006 n. 10553) e ha condivisibilmente negato che essi possano essere classificati come restauro e risanamento conservativo (cfr. TAR Campania, Napoli, IV, 23.12.2010, n. 28002; TAR Campania, Napoli, VIII, 04.03.2010, n. 1286; TAR Campania, Napoli, VI, 09.11.2009 n. 7049; TAR Lazio, Latina, 15.07.2009, n. 700).
A maggiore ragione si deve ritenere che, ove manchino del tutto le mura perimetrali come è nel caso di specie laddove rimangono solo delle impronte minimali sul terreno, la ricostruzione non possa rientrare nel novero degli interventi di restauro e risanamento conservativo.
Ne discende che la riconduzione dell’intervento richiesto va, pertanto, effettuata ai sensi del citato art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, ove la scelta tra le possibili opzioni è tra la nuova costruzione o la ristrutturazione edilizia e la sussumibilità nell’una o nell’altra categoria dipende anche dalla circostanza che la ricostruzione avvenga con la stessa volumetria e sagoma della preesistenza oltreché dalla ragionevole prossimità temporale della ricostruzione rispetto alla demolizione.
Peraltro, ai fini della qualificazione di un intervento ricostruttivo anche come ristrutturazione e non nuova edificazione, non è sufficiente che un anteriore fabbricato sia fisicamente individuabile in tutta la sua perimetrazione, essendo indispensabile a soddisfare il requisito della sua esistenza che non sia ridotto a spezzoni isolati, rovine, ruderi e macerie (cfr. Cassazione civile, sez. II, 27.10.2009, n. 22688; TAR Campania, Napoli,IV, 15.6.2011 n. 3184).
Alla stregua di tali considerazioni discende che correttamente l’Amministrazione comunale ha qualificato l’intervento sul piano urbanistico come “nuova costruzione piuttosto che ristrutturazione edilizia”, giacché all’esito di una rigorosa verifica sulla consistenza emergente dall’elemento fotografico, dal quale risulta la presenza di tracce di murature sul sedime che risalirebbero agli inizi del secolo scorso, la soluzione progettuale proposta non può qualificarsi come restauro del preesistente, presentando, peraltro, profili di notevole incertezza anche sull’effettiva consistenza delle ulteriori integrazioni aggiunte/aggiunte che si intendono effettuare, cospicue in termini di superfici e volumetria (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 26.11.2012 n. 4795 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all’autorità comunale, prima di emanare l’ordinanza di demolizione, di verificare la sanabilità ai sensi dell’art. 37 del d.P.R. n. 380 del 2001. Ciò si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l’abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dagli artt. 36 e 37 del d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all’esclusiva iniziativa della parte interessata l’attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato.
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Il provvedimento di demolizione, in quanto atto vincolato -al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia- non richiede una specifica motivazione, posto che ai fini dell’accertamento della sua legittimità sono indifferenti le ragioni in virtù delle quali l’amministrazione è giunta alle determinazioni finali, in quanto ciò che rileva e che può essere verificato senza preclusioni è se tali determinazioni, in presenza dei necessari presupposti, siano conformi o meno alle norme applicate; né una valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati.
L’ordinanza in questione costituisce un provvedimento dovuto e rigorosamente vincolato in quanto volto a sanzionare opere costruite in zona vincolata senza il prescritto titolo edilizio, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario.

In primo luogo, deve essere respinta la censura, con la quale il ricorrente sostiene che l’amministrazione avrebbe violato l’art. 37 del d.P.R. 380/2001, giacché, prima di ingiungere la demolizione, avrebbe dovuto valutare la sanabilità dell’opera, e eventualmente irrogare una sanzione meramente pecuniaria.
Infatti, in presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all’autorità comunale, prima di emanare l’ordinanza di demolizione, di verificare la sanabilità ai sensi dell’art. 37 del d.P.R. n. 380 del 2001. Ciò si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l’abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dagli artt. 36 e 37 del d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all’esclusiva iniziativa della parte interessata l’attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato (TAR Campania, Napoli, sez. IV, 06.07.2007 n. 6552).
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Né può essere accolta la censura di difetto di motivazione, atteso che il provvedimento di demolizione, in quanto atto vincolato -al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia- non richiede una specifica motivazione, posto che ai fini dell’accertamento della sua legittimità sono indifferenti le ragioni in virtù delle quali l’amministrazione è giunta alle determinazioni finali, in quanto ciò che rileva e che può essere verificato senza preclusioni è se tali determinazioni, in presenza dei necessari presupposti, siano conformi o meno alle norme applicate; né una valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati (ex multis Cons. Stato, sez. II, 07.11.2007; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 29.01.2009, n. 501).
Non merita positiva delibazione la seconda doglianza, con la quale viene sollevata l’illegittimità del provvedimento per la mancata comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge 241/1990 e per l’asserita violazione delle altre garanzie procedimentali, giacché l’ordinanza in questione costituisce un provvedimento dovuto e rigorosamente vincolato in quanto volto a sanzionare opere costruite in zona vincolata senza il prescritto titolo edilizio, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario, tanto più che l’interessato non ha rappresentato neppure in sede di ricorso, argomentazioni idonee a determinare un diverso esito del procedimento (si veda, tra le molte, TAR Liguria, Genova, sez. I, 08.06.2009 n. 11289)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 22.11.2012 n. 4736 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il proprietario di un terreno confinante con un'area oggetto di interventi edilizi ha il diritto di accedere ai relativi provvedimenti abilitativi, sia ai sensi dell'art. 25 l. 07.08.1990 n. 241, sia ai sensi dell'art. 31 l. 17.08.1942 n. 1150, come modificato dall'art. 10 l. 06.08.1967 n. 765, che, proprio tutelando l'interesse del terzo, prevede la possibilità per “chiunque” di prendere visione presso gli uffici comunali della concessione edilizia (all’epoca costituente il titolo edilizio abilitativo) e dei relativi atti di progetto e di ricorrere contro il rilascio della stessa ove in contrasto con le disposizioni di legge o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione.
Venendo al merito, come sostenuto in ricorso, costituisce giurisprudenza pacifica quella secondo cui il proprietario di un terreno confinante con un'area oggetto di interventi edilizi ha il diritto di accedere ai relativi provvedimenti abilitativi, sia ai sensi dell'art. 25 l. 07.08.1990 n. 241, sia ai sensi dell'art. 31 l. 17.08.1942 n. 1150, come modificato dall'art. 10 l. 06.08.1967 n. 765, che, proprio tutelando l'interesse del terzo, prevede la possibilità per “chiunque” di prendere visione presso gli uffici comunali della concessione edilizia (all’epoca costituente il titolo edilizio abilitativo) e dei relativi atti di progetto e di ricorrere contro il rilascio della stessa ove in contrasto con le disposizioni di legge o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione (cfr., ex multis, in tali sensi sostanziali, Cons. Stato, sezione quinta, sentenze 27.04.2012, n. 2460, 26.02.2010, n. 1134, 14.05.2010, n. 2966 e 07.09.2004, n. 5873; sezione quarta, 21.11.2006, n. 6790; Tar Campania, Napoli, questa sesta sezione, sentenze n. 2290 del 18.05.2012, 02.02.2012, n. 526, n. 16722 del 14.07.2010, n. 16700 del 27.07.2010; sezione quinta, 05.09.2008, n. 10048; Tar Puglia, Lecce, sezione terza, 25.03.2004, n. 2161; Tar Lazio, Latina, 11.12.2007, n. 1567) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 20.11.2012 n. 4666 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Presupposto per l’emanazione della ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo la ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con l’accertamento dell’abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso –che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato– ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
Osserva il Collegio che presupposto per l’emanazione della ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo la ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con l’accertamento dell’abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso –che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato– ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi (ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. IV, 04.02.2003, n. 617; 15.07.2003, n. 8246) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 20.11.2012 n. 4659 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Irrilevante nell'appalto l'offerta con il "vantaggio" del regime IVA esente.
Il maggior vantaggio che deriva dal fatto che una società opera in regime di esenzione IVA negli appalti pubblici non rappresenta una posizione di privilegio nella gara aggiudicata con il criterio della miglior offerta economica.

E' quanto affermato dal TAR Liguria, Sez. II, con la sentenza 15.11.2012 n. 1451.
La vicenda
Il contenzioso amministrativo nasce a seguito del fatto che una provincia ligure aveva avviato una procedura negoziata per l’affidamento dell’incarico di responsabile degli impianti elettrici del patrimonio dell’Ente. L’aggiudicazione della procedura sarebbe avvenuta secondo il criterio dell’offerta al prezzo più basso; in caso di parità delle offerte, la gara sarebbe stata aggiudicata al concorrente che aveva proposto “il minor ribasso relativo alla quota afferente l’onorario al netto delle spese” e, nel caso di ulteriore parità, si sarebbe proceduto all’esame dei curricula comparando le attività indicate svolte negli ultimi 5 anni, connesse all’oggetto dell’incarico.
Dopo l’esame delle offerte emergeva che due concorrenti avevano proposto l’identico importo; si procedeva, quindi, alla valutazione comparativa dei curricula dei due soggetti ed il servizio veniva conclusivamente affidato ad uno dei due concorrente il cui curriculum, era stato giudicato “incomparabilmente migliore” di quello del ricorrente.
Il concorrente secondo classificato si era rivolto al TAR della Liguria per chiedere l’annullamento degli atti conclusivi della procedura concorrenziale; il ricorrente sosteneva che la commissione non aveva tenuto in considerazione il fatto che il ricorrente beneficiava dell’esenzione dall’Iva, mentre il “vincitore” della procedura applicava l’ Iva del 20% (in quel momento l’aliquota IVA non era ancora aumentata) e , quindi, con un maggior onere per la Provincia.
L’analisi dei giudici amministrativi
I giudici amministrativi rilevano che nelle gare per l’affidamento di un servizio da aggiudicarsi con il criterio del prezzo più basso, devono essere comparati i prezzi netti offerti dai concorrenti, senza tener conto dei benefici fiscali di cui essi godano eventualmente, ovvero nella comparazione delle offerte economiche si deve considerare il regime tributario ad esse applicabile, conseguentemente valutandole in funzione del costo finale che comportano per l’amministrazione.
Il ricorrente è del parere che, in presenza di due offerte identiche, la stazione appaltante avrebbe dovuto aggiudicare la gara al concorrente che, beneficiando del regime di esenzione Iva, le avrebbe garantito un risparmio o una minore spesa pari all’importo dell’imposta da applicarsi ordinariamente sul costo del servizio.
Obiettivamente, osservano i giudici amministrativi, il bando di gara si limitava a fissare il criterio di aggiudicazione al prezzo più basso, senza specificare nulla in merito alla rilevanza che il regime fiscale applicabile ai singoli concorrenti avrebbe assunto ai fini della valutazione delle offerte economiche.
Sull’argomento i giudici del TAR ritengono di richiamare un importante orientamento della giurisprudenza del Consiglio di Stato; i magistrati di Palazzo Spada con la decisione n. 185 del 25.01.2008, hanno definito una controversia generata dall’esito di una procedura negoziata nella quale uno dei concorrenti non era soggetto all’Iva in quanto avente natura di Onlus; in tale sentenza è stato affermato che la stazione appaltante fosse chiamata a valutare il costo finale del servizio e, quindi, avesse correttamente aggiudicato l’appalto alla Onlus che, pur avendo offerto il terzo prezzo in ordine di graduatoria, aveva formulato, proprio in ragione della non applicazione dell’Iva sul costo del servizio, “l’offerta economicamente più vantaggiosa per l’amministrazione”.
Per converso, osserva il TAR della Liguria, vi è un’importante sentenza dello stesso CdS che , con la decisione n. 6487 del 22.11.2005, ha affermato il principio secondo cui “il valore degli appalti e, quindi, anche i prezzi proposti dalle imprese partecipanti alle gare” devono essere “sempre considerati al netto dell’Iva”, essendo evidente, tra l’altro, che “l’ipotetica valutazione degli oneri tributari, ai fini dell’individuazione dell’offerta più conveniente per la stazione appaltante (…….) innescherebbe ed incentiverebbe perversi meccanismi collusivi tra le amministrazioni e le imprese concorrenti (……) finalizzati all’elusione della normativa fiscale”.
Il Tribunale amministrativo della Liguria è favorevole a quest’ultima impostazione e ritiene di farne applicazione nella fattispecie controversa.
Per il TAR corrisponde al vero che, in tal modo, si corre il rischio di determinare oneri per la stazione appaltante complessivamente superiori a quelli che si avrebbero aggiudicando la gara al soggetto esente dall’Iva, ma il semplice interesse economico dell’amministrazione è necessariamente recessivo a fronte dei valori comunitari posti a presidio della libera concorrenza.
Il ricorso è , pertanto, infondato e deve essere respinto; tuttavia per la difficoltà della materia il TAR decide che le spese del grado giudizio vanno integralmente compensate fra le parti costituite (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rispetto al principio generale della non necessità di una particolare motivazione dell'ordine di demolizione è ammessa una deroga proprio per il caso in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso e il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato, ipotesi in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione sul pubblico interesse -tenuto conto anche alla entità e alla tipologia dell'abuso- evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.
Difatti, nel caso di specie, l’ordinanza con la quale è stata ingiunta alla parte ricorrente la demolizione dell’immobile, essendo intervenuta a più di 40 anni dalla costruzione del fabbricato in discorso non può essere sorretta esclusivamente dal richiamo al carattere abusivo dell’opera realizzata: in siffatte evenienze, l’amministrazione deve dare conto puntualmente delle ragioni di pubblico interesse che depongono per la demolizione del fabbricato (quali, ad esempio, il pericolo di crollo, desunto dalla fatiscenza dell’edificio, o il pregiudizio per l’igiene e la sanità pubblica connesso alla vetustà del fabbricato) giacché il decorso del tempo, oltre a produrre effetti che l’ordinamento riconosce e consacra dando vita a istituti ampiamente disciplinati in ogni settore del diritto, determina l’esigenza di rafforzare l’impalcatura motivazionale di un provvedimento di natura repressiva perché esige l’efficace rappresentazione del rinnovato interesse della amministrazione procedente a rimuovere situazione antigiuridiche.
Si aggiunga che tale esigenza si imponeva anche in considerazione del carattere incolpevole dell’affidamento della ricorrente (trattandosi di immobile acquistato dalla istante nel 1991, quindi dopo diversi anni dall’epoca alla quale si riferiscono gli abusi).

- invero, rispetto al principio generale della non necessità di una particolare motivazione dell'ordine di demolizione è ammessa una deroga proprio per il caso, quale quello di specie, in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso e il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato, ipotesi in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione sul pubblico interesse -tenuto conto anche alla entità e alla tipologia dell'abuso- evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato (Consiglio di Stato, Sez. IV, 12.04.2011 n. 2266; 06.06.2008 n. 2705; 14.05.2007 n. 2441; Sez. V, 29.05.2006 n. 3270; 04.03.2008 n. 883; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 04.05.2012 n. 2049; Sez. IV, 09.04.2010 n. 1890);
- difatti, l’ordinanza con la quale è stata ingiunta alla parte ricorrente la demolizione dell’immobile, essendo intervenuta a più di 40 anni dalla costruzione del fabbricato in discorso non può essere sorretta esclusivamente dal richiamo al carattere abusivo dell’opera realizzata: in siffatte evenienze, l’amministrazione deve dare conto puntualmente delle ragioni di pubblico interesse che depongono per la demolizione del fabbricato (quali, ad esempio, il pericolo di crollo, desunto dalla fatiscenza dell’edificio, o il pregiudizio per l’igiene e la sanità pubblica connesso alla vetustà del fabbricato) giacché il decorso del tempo, oltre a produrre effetti che l’ordinamento riconosce e consacra dando vita a istituti ampiamente disciplinati in ogni settore del diritto, determina l’esigenza di rafforzare l’impalcatura motivazionale di un provvedimento di natura repressiva perché esige l’efficace rappresentazione del rinnovato interesse della amministrazione procedente a rimuovere situazione antigiuridiche;
- si aggiunga che tale esigenza si imponeva anche in considerazione del carattere incolpevole dell’affidamento della ricorrente (trattandosi di immobile acquistato dalla istante nel 1991, quindi dopo diversi anni dall’epoca alla quale si riferiscono gli abusi);
- sicché, in applicazione di siffatti principi deve riconoscersi che, nel caso di specie, in cui l’accertamento dell’abuso edilizio è avvenuto dopo circa 40 anni dalla sua realizzazione, l’interesse all’intervento repressivo da parte dell’amministrazione può considerarsi cedevole rispetto all’interesse della ricorrente (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 13.11.2012 n. 4578 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il termine di cui all’art. 87, comma 9, del decreto legislativo n. 259 del 2003 (codice delle comunicazioni) ha natura perentoria.
Al suo spirare si forma dunque il silenzio-assenso con riferimento alla realizzazione dell’intervento richiesto e l’amministrazione comunale, qualora intenda successivamente opporsi al medesimo, può esercitare soltanto il potere di autotutela sulla base dei presupposti, dei criteri e del procedimento di cui all’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990.

Considerato che per giurisprudenza pacifica (cfr., ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VII, 07.08.2007, n. 7365) il termine di cui all’art. 87, comma 9, del decreto legislativo n. 259 del 2003 (codice delle comunicazioni) ha natura perentoria.
Al suo spirare si forma dunque il silenzio-assenso con riferimento alla realizzazione dell’intervento richiesto e l’amministrazione comunale, qualora intenda successivamente opporsi al medesimo, può esercitare soltanto il potere di autotutela sulla base dei presupposti, dei criteri e del procedimento di cui all’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990.
Parametri questi che nella specie non sono stati rispettati. Di qui l’illegittimità dell’operato del Comune intimato, il quale è dunque intervenuto una volta formatosi il silenzio-assenso e senza soprattutto esercitare il potere di autotutela nei limiti e nelle forme consentite dalla legge generale sul procedimento amministrativo (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 09.11.2012 n. 4530 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione dell'istanza di accertamento di conformità, successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di demolizione -o alla notifica del provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per gli abusi edilizi- produce l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione stessa, per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, provocato dall'istanza di sanatoria, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito od implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
Conseguentemente, il ricorso giurisdizionale avverso un provvedimento sanzionatorio proposto anteriormente all'istanza di concessione in sanatoria è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, “spostandosi” l'interesse del responsabile dell'abuso edilizio dall'annullamento del provvedimento sanzionatorio già adottato, all'eventuale annullamento del provvedimento (esplicito o implicito) di rigetto.

CONSIDERATO:
- quanto all’ordine di demolizione gravato, che, secondo consolidata giurisprudenza, la presentazione dell'istanza di accertamento di conformità, successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di demolizione -o alla notifica del provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per gli abusi edilizi- produce l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione stessa, per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, provocato dall'istanza di sanatoria, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito od implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.12.1997, n. 1377; TAR Sicilia, sez. II, 05.10.2001, n. 1392; TAR Toscana, sez. II, 25.10.1994, n. 350; TAR Campania, Sez. IV, 25.05.2001, n. 2340, 11.12.2002, n. 7994, 30.06.2003, n. 7902);
- che, pertanto, il ricorso giurisdizionale avverso un provvedimento sanzionatorio proposto anteriormente all'istanza di concessione in sanatoria è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, “spostandosi” l'interesse del responsabile dell'abuso edilizio dall'annullamento del provvedimento sanzionatorio già adottato, all'eventuale annullamento del provvedimento (esplicito o implicito) di rigetto (TAR Sicilia, Catania, Sez. II, 16.03.1991, n. 67, Palermo, Sez. II, 27.03.2002, n. 826; TAR Campania, Sez. IV, 24.09.2002, n. 5559, 22.02.2003, n. 1310) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 06.11.2012 n. 4430 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIGare, esecuzione del contratto "parcellizzata" senza subappalto.
Nel caso in cui il bando di gara per l'affidamento di un appalto di servizi preveda espressamente il divieto del ricorso al subappalto, deve ritenersi legittima l'aggiudicazione della medesima gara in favore di una ditta che è dotata di una struttura centrale e di numerose articolazioni sul territorio nazionale, che è in possesso dei requisiti richiesti dalla lex specialis e ha dichiarato di voler eseguire il contratto tramite propri centri logistici operativi.
La deducente, partecipante alla gara d’appalto indetta dal Comune per “l’affidamento del servizio di ripristino delle condizioni di sicurezza e viabilità delle strade comunali e aree di pertinenza interessate da incidenti stradali", ha gravato il provvedimento con cui è stata disposta l’aggiudicazione definitiva in favore della controinteressata, nonché tutti gli atti a esso connessi, ivi compreso il bando di gara.
Ha contestato, in un unico motivo di ricorso, la violazione delle disposizioni di cui al bando di gara, nonché degli artt. 34 e ss., D.Lgs. n. 163/2006 e dell’art. 97 Cost., contestualmente chiedendo la declaratoria di inefficacia del contratto eventualmente stipulato dalla P.A. con l’impresa affidataria o il subentro nel medesimo, in uno al risarcimento dei danni subiti e subendi.
Il Collegio di Cagliari, in via preliminare, ha osservato che la gara in parola prevedeva l’affidamento del servizio di ripristino delle condizioni di sicurezza delle strade comunali, il cui corrispettivo sarebbe consistito "unicamente (nel) diritto di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente il servizio".
Il concessionario, difatti, sarebbe stato delegato dal Comune a riscuotere, dalle compagnie assicuratrici dei soggetti responsabili di sinistri stradali, l’importo dovuto per gli interventi di bonifica delle sedi stradali e delle aree di pertinenza in cui fossero avvenuti gli incidenti.
Orbene, rispetto a siffatta procedura di gara, l’interessata ha rilevato che il bando di gara prevedeva, oltre al resto, che: "Gli operatori possono partecipare, ai sensi dell’art. 34, comma 1, lettere d) ed e), D.Lgs. n. 163/2006, oltre che singolarmente, anche in raggruppamento temporaneo di imprese, nel rispetto dell’art. 37 del medesimo decreto. Si precisa che tutti gli operatori che sono stati ammessi alla presente fase di gara dovranno partecipare o come operatori economici singoli o, qualora intendano partecipare in associazione temporanea d’imprese, potranno farlo esclusivamente associandosi con altri operatori che risultano titolari dei requisiti di ammissione previsti dall’art. 4 del presente bando … In caso di aggiudicazione i soggetti assegnatari dell’esecuzione del servizio non potranno essere diversi da quelli indicati in sede di gara".
Al contempo, ha precisato che lo stesso bando di gara non ammetteva “… né il subappalto, né la cessione, anche solo parziale, del contratto".
Alla stregua di siffatte previsioni, la ricorrente ha ritenuto che l’aggiudicataria, nel prevedere la delega per lo svolgimento dell’attività di bonifica ad alcuni centri logistici operativi, aveva sostanzialmente violato il menzionato divieto di subappalto e che, pertanto, avrebbe dovuto essere esclusa dalla procedura.
In virtù di tali doglianze, l’adito G.A. ha ritenuto di dover indagare la reale natura giuridica del rapporto intercorrente tra i predetti centri logistici operativi e la società aggiudicataria.
Sicché, dopo aver esaminato l’offerta tecnica presentata dalla controinteressata, il giudicante ha evidenziato che la medesima società era dotata di una struttura centrale e di numerose articolazioni sul territorio nazionale; al riguardo, ha rilevato che sul territorio nazionale vi era una rete di centri logistici operativi preposti alla materiale esecuzione delle opere di pulitura e bonifica stradale, che avrebbero operato utilizzando equipaggiamenti, mezzi, risorse e protocolli aziendali propri della ditta aggiudicataria.
Vi era, inoltre, una struttura di raccordo tra la sede centrale e i menzionati centri, costituita da una rete -a base provinciale o regionale- di referenti responsabili che si sarebbero occupati della vigilanza, del monitoraggio e del supporto ai centri.
Pertanto, sul piano della qualificazione di tali rapporti, il Collegio ha definito il subappalto come: “… il contratto con il quale l’appaltatore affida a un terzo la prestazione di un servizio o l’esecuzione di un’opera che egli si sia precedentemente impegnato a eseguire nei confronti di un soggetto committente, in forza di un precedente contratto di appalto con questi stipulato”.
Dunque, ha sottolineato che, nelle ipotesi di subappalto, l’originario appaltatore resta impegnato nei confronti del committente, atteso che al contratto di appalto preesistente ne accede un altro, in rapporto di accessorietà rispetto al primo, in relazione al quale tendenzialmente il committente rimane estraneo (ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 09.02.2006, n. 518).
In altre parole, ha precisato che la figura del subappalto ricorre nei casi in cui venga demandato a un soggetto terzo, economicamente e giuridicamente distinto dall’appaltatore, l’esecuzione totale o parziale dell’opera o del servizio appaltato, con organizzazione di mezzi e rischio a carico del subappaltatore.
Così, avuto riguardo alla vicenda, ha osservato che i centri logistici operativi dell’aggiudicataria avrebbero operato nell’ambito di un rapporto di rispetto delle direttive fornite, in relazione ai singoli interventi, dalla centrale operativa e avrebbero utilizzato mezzi, attrezzature e know how della controinteressata.
In considerazione delle predette argomentazioni, il TAR di Cagliari, ravvisando la mancanza di qualsivoglia profilo di autonomia e auto-organizzazione, idoneo a inquadrare il rapporto in parola negli schemi del subappalto, ha respinto il gravame e, per l’effetto, dichiarato legittima l’aggiudicazione dell’appalto in favore della controinteressata (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 02.11.2012 n. 909 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rilascio di autorizzazione unica alla costruzione di impianto fotovoltaico: il termine (regionale) è perentorio.
Non spetta al soggetto privato inoltrare autonomamente l'istanza di assoggettabilità a VIA all'ente provinciale competente, al fine di promuovere la conferenza di servizi istruttoria che delibera sulla stessa richiesta di autorizzazione.
A seguito della richiesta -ex articolo 12 del decreto legislativo n. 387 del 2003– di un’autorizzazione unica, nel giugno 2010, per la realizzazione di un impianto fotovoltaico destinato alla produzione di energia elettrica da fonte solare rinnovabile, nel marzo del 2011 (e quindi già con notevole ritardo rispetto ai termini di legge che decorrono dal momento della ricezione della richiesta di autorizzazione), l’Ufficio Industria Energetica della regione Puglia disponeva taluni adempimenti istruttori a carico della ditta richiedente, ai fini dell'avvio del procedimento e della convocazione della conferenza dei servizi. In assenza della richiesta documentazione integrativa, il medesimo Ufficio indiceva comunque una conferenza dei servizi istruttoria nel maggio 2011. Quest’ultima disponeva ulteriori adempimenti istruttori a carico della citata ditta, rimandando ad una data indeterminata ogni ulteriore decisione sulla istanza di autorizzazione unica.
Nel dichiarare l'illegittimità del comportamento silente dell'amministrazione regionale sull'istanza di autorizzazione unica presentata dalla ditta appellante, il Consiglio di Stato ha rilevato che l'articolo 2 della legge n. 241 del 1990, che racchiude uno dei principi fondamentali dell'ordinamento in tema di azione amministrativa, sancisce l'obbligo per l'amministrazione di concludere ogni procedimento con provvedimento espresso entro un termine certo, che è quello generale fissato dal comma 3 (attualmente di trenta giorni) o quello indicato da specifiche disposizioni di legge. Nel caso di specie, l’articolo 12, comma 4, del decreto legislativo n. 387 del 2003 (che è evidentemente una norma speciale), statuisce che il procedimento per il rilascio dell’autorizzazione unica si conclude nel termine massimo di cettontanta giorni dalla presentazione della richiesta. Tale termine, come chiarito di recente dalla Corte costituzionale, è di natura perentoria in quanto costituisce principio fondamentale in materia di produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia e risulta ispirato "alle regole della semplificazione amministrativa e della celerità garantendo, in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, la conclusione entro un termine definito del procedimento autorizzativo" (Corte costituzionale, sentenze n. 364 del 2006 e n. 282 del 2009).
Inoltre, nemmeno sulla base del regolamento disposto dalla stessa Regione nell'allegato A della delibera di Giunta n. 35/07, in materia di procedimento per il rilascio dell’autorizzazione unica, è possibile configurare un diverso quadro procedimentale. Infatti, l’articolo 2.3.2 di tale regolamento afferma che, a seguito dell’istanza presentata dal privato per l’ottenimento dell’autorizzazione unica, “il responsabile unico provvede ad inviare entro il termine massimo dei successivi sette giorni lavorativi, dalla data di ricevimento della domanda, una copia del progetto definitivo a ciascuno degli enti individuati dall‘Ufficio Industria Energetica, quali interessati al rilascio dei pareri prescritti dalla legge”, lasciando intendere che, conformemente alla normativa statale, tutti i pareri, compresi quelli ambientali, devono essere acquisiti all’interno dello stesso procedimento di competenza regionale. Così come non è espressamente indicato tra i requisiti necessari a promuovere la conferenza dei servizi, dettati dal punto 2.3.3. dell’Allegato A della predetta delibera n. 35/07, l’onere da parte del privato di inoltrare autonomamente l’istanza di assoggettabilità a VIA all’ente provinciale competente.
Di conseguenza, alla luce della normativa statale e regionale, applicabile ratione temporis, l’adempimento in parola risulta a carico dell’Assessorato all’Ecologia della regione Puglia, cioè all’amministrazione competente a dare impulso al procedimento per il rilascio dell’autorizzazione unica. Ne consegue che la mancata adozione di un provvedimento espresso sulla richiesta autorizzazione unica è del tutto ingiustificata e configura un sostanziale inadempimento, avuto riguardo al termine perentorio di centottanta giorni entro cui doveva concludersi il relativo procedimento.
Né, al riguardo, può assumere rilievo la circostanza che la conferenza dei servizi si sia pronunciata disponendo adempimenti istruttori a carico della ditta richiedente e rinviando a data indeterminata ogni ulteriore decisione sull'istanza, poiché il complessivo termine di centottanta giorni per la conclusione delle procedure autorizzative in materia di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili è perentorio -in quanto principio fondamentale in materia di produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia, secondo le richiamate sentenze della Corte costituzionale– e ad esso pertanto anche le Regioni, nell'esercizio delle proprie competenze legislative e amministrative, devono attenersi. Vi era quindi l'obbligo della regione Puglia di condurre il procedimento nel rispetto della normativa di settore, espressione dei principi di economicità, e di efficacia dell'azione amministrativa, nonché dei principi dell'ordinamento comunitario, concludendo lo stesso nel termine tassativamente prescritto.
Ne consegue l'erroneità della sentenza del TAR Puglia-Bari, nella parte in cui non ha rilevato l'illegittimità del comportamento silente serbato dalla Regione Puglia, la quale non ha provveduto sull'istanza della ditta ricorrente nel termine perentorio di centottanta giorni assegnatole. Il ricorso avverso la sentenza del TAR è stato pertanto giudicato fondato ed è stato accolto, per ciò che attiene all'azione proposta avverso il silenzio, ed all'amministrazione regionale è stato ordinato di provvedere sulla istanza di cui sopra con provvedimento espresso, entro e non oltre novanta giorni dalla notifica o dalla comunicazione in via amministrativa della sentenza del Consiglio di Stato (commento tratto da www.ispoa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.10.2012 n. 5413 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANATURA PRECARIA DI UN MANUFATTO E RAPPORTI CON IL RESTAURO E RISANAMENTO CONSERVATIVO.
La natura ‘‘precaria’’ di un manufatto, ai fini dell’esenzione dal permesso di costruire, non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all’opera dal costruttore, né dalla natura dei materiali utilizzati ovvero dalla più o meno facile rimovibilità della stessa, ma deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale di essa ad un uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente e sollecita eliminazione, non essendo sufficiente che si tratti eventualmente di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo (nella fattispecie la Corte ha escluso che fosse ravvisabile un’attività di conservazione, recupero o ricomposizione di spazi, bensì la realizzazione di un ‘‘edificio’’ al posto di una preesistente tettoia, con stravolgimento di elementi tipologici e formali e creazione ex novo di volumetria).
La Corte di cassazione si pronuncia nuovamente nel caso in esame sulla questione relativa alla nozione di ‘‘precarietà’’ di un manufatto, stavolta valutandone la compatibilità con la tesi, sostenuta dalla difesa dell’imputato, secondo cui la realizzazione di una tettoia sarebbe stata inquadrabile tra gli interventi di restauro o risanamento conservativo.
La vicenda processuale vedeva imputato il proprietario di un immobile cui era contestato il reato di cui all’art. 44, lett. c) del D.P.R. n. 380 del 2001, per avere realizzato, in assenza del prescritto permesso di costruire -in zona sottoposta a vincolo paesaggistico e ricadente nella perimetrazione di un parco- lavori edilizi consistiti nella chiusura, per una superficie di mt. 10 x 5, di una tettoia collegata con un capannone adibito a cantiere navale. Contro la sentenza di condanna proponeva ricorso per cassazione l’imputato sostenendo la incongruità del disconoscimento della precarietà delle opere di nuova realizzazione, che non sarebbero assoggettate, per tale loro caratteristica, al regime del permesso di costruire, aggiungendo, inoltre, che le stesse integrerebbero altresì un intervento di risanamento conservativo necessario ‘‘al fine di rendere possibile l’utilizzazione dell’aspiratore della polvere di cantiere’’.
La tesi è stata respinta dagli Ermellini che hanno dichiarato il ricorso manifestamente infondato e, per tale ragione, inammissibile.
In particolare, hanno precisato i giudici di legittimità , la natura ‘‘precaria’’ di un manufatto, ai fini dell’esenzione
dal permesso di costruire, non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all’opera dal costruttore, né dalla natura dei materiali utilizzati ovvero dalla più o meno facile rimovibilità della stessa, ma deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale di essa ad un uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nei tempo, con conseguente e sollecita eliminazione, non essendo sufficiente che si tratti eventualmente di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo.
Nella fattispecie in esame, è stato quindi escluso il preteso requisito della temporaneità, logicamente rilevando che la struttura arbitrariamente realizzata si connetteva ad un’attività d’impresa esercitata in via continuativa e senza predeterminazioni temporali.
Precisano, poi, i giudici che il D.P.R. n. 380 del 2001 (art. 3, comma 1, lett. c), identifica gli interventi di ‘‘restauro e risanamento conservativo’’ come quelli ‘‘rivolti a conservare l’organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che -nel rispetto degli elementi tipologici, formati e strutturati dell’organismo stesso- ne consentano destinazioni d’uso con esso compatibili’’. La finalità è di rinnovare l’organismo edilizio in modo sistematico e globale, ma essa deve essere attuata -poiché si tratta pur sempre di conservazione- nel rispetto dei suoi elementi essenziali ‘‘tipologici, formali e strutturali’’.
Nella fattispecie in esame, invece, non è stata ravvisata un’attività di conservazione, recupero o ricomposizione di spazi, secondo le modalità e con i limiti normativamente delineati, bensì la realizzazione di un ‘‘edificio’’ al posto di una preesistente tettoia, con stravolgimento di elementi tipologici e formali e creazione ex novo di volumetria.
In precedenza, nel senso che la ristrutturazione edilizia, poiché non vincolata al rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’edificio, differisce sia dalla manutenzione straordinaria, che non può comportare aumento della superficie utile o del numero delle unità immobiliari, o, ancora, modifica della sagoma o mutamento della destinazione d’uso, sia dal restauro e risanamento conservativo, che non può modificare in modo sostanziale l’assetto edilizio preesistente e consente soltanto variazioni d’uso ‘‘compatibili’’ con l’edificio conservato, si era pronunciata la stessa Corte (Cass. pen., sez. III, 28.05.2010, n. 20350, in CED Cass., n. 247178) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.09.2012 n. 36040 - tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2012).

EDILIZIA PRIVATA: Lavori di ristrutturazione, la Soprintendenza non può ''smentire'' sé stessa.
E' illegittimo l'ordine di sospensione di lavori di ristrutturazione fondato sul decreto impositivo di prescrizioni di tutela indiretta laddove si riscontri che la stessa Soprintendenza, emanante il predetto decreto, in precedenti provvedimenti, a seguito di una dettagliata istruttoria, aveva affermato l'insussistenza dei presupposti per l'apposizione di vincoli, diretti o indiretti, relativamente alla medesima area interessata dall'intervento di ristrutturazione. In tal modo, infatti, le determinazioni di sospendere i lavori di ristrutturazione e dare avvio al procedimento vincolistico risultano incomprensibilmente contraddittorie rispetto alle valutazioni anteriormente espresse dalla stessa amministrazione ed illegittime, con conseguente annullamento del decreto impositivo del vincolo indiretto.

Se, a fronte delle valutazioni già espresse, l'attivazione delle verifiche sul progetto rappresenta, da parte della Soprintendenza, un atto sostanzialmente dovuto, lo stesso non può dirsi, evidentemente, per l'ordine di sospensione dei lavori adottato successivamente,, privo di qualsivoglia indicazione circa le ragioni giustificative del ricorso a siffatta misura cautelare, ad eccezione dell'inciso "nelle more di ulteriore ed adeguata valutazione relativa alla tutela dei beni culturali": inciso inammissibilmente generico, per un verso, rispetto all'individuazione dei beni da tutelare e, perciò, incoerente; e, per altro verso, generico anche rispetto all'indicazione -sia pure di massima- dell'esistenza di profili di incompatibilità fra l'opera autorizzata dal Comune e i beni di interesse storico-artistico ubicati nella piazza, a maggior ragione se si considera che il Comune aveva fornito alla Soprintendenza i chiarimenti richiesti precisando come l'edificio ricostruito si sarebbe venuto a posizionare ad una distanza maggiore del manufatto originale dalla facciata del Santuario, aumentandone la visibilità.
Si aggiunga, a conferma dell'illegittimità dell'ordine di sospensione dei lavori, che l'inadeguatezza del suo contenuto si riflette sulla natura stessa del potere esercitato, enfatizzando la perplessità delle scelte operate dalla Soprintendenza.
Sul punto, sia sufficiente osservare come il riferimento all'art. 28, co. 2, del D.Lgs. n. 490 del 1999, contenuto nel Provv. del 26 giugno, non collimi con il rinvio all'art. 49 del medesimo D.Lgs. n. 490 del 1999 cit., dando luogo a una discrasia non meramente formale, posto che le due disposizioni riguardano i poteri cautelari riconosciuti all'amministrazione, rispettivamente, in materia di apposizione del vincolo diretto e del vincolo indiretto.
In questo senso, debbono dirsi altresì fondate le censure dedotte con il terzo e il quarto motivo di cui al ricorso introduttivo del giudizio, la già rilevata genericità dell'ordine di sospensione risultando aggravata dalla difficoltà di comprendere sul piano giuridico il titolo dell'iniziativa assunta dalla Soprintendenza.
In ogni caso, anche a voler ritenere equivoca la prova del denunciato sviamento di potere, il decreto impositivo del vincolo resta viziato sotto il profilo dell'inspiegata mutevolezza dei giudizi espressi dalle Soprintendenze provinciale e regionale relativamente alle caratteristiche del sito ed alle esigenze di tutela dei monumenti ivi allocati.
L'incompletezza dell'istruttoria e della motivazione del decreto 04.03.2003 emergono poi a maggior ragione ove si consideri che il provvedimento, sebbene occasionato dall'avvio dei lavori di demolizione e ricostruzione dell'ex cinema-teatro, omette qualsivoglia considerazione circa i potenziali aspetti pregiudizievoli derivanti dai lavori in questione, il cui "progetto guida" -comprensivo di localizzazione, dimensionamento, destinazione d'uso e definizione architettonica del nuovo fabbricato- era stato già esaminato e, lo si ribadisce, giudicato non incompatibile con la presenza nella piazza del Santuario.
Le considerazioni esposte evidenziano l'illegittimità del decreto impositivo del vincolo, con assorbimento dei rimanenti motivi di gravame.
L'acclarata inadeguatezza delle ragioni addotte a sostegno dell'imposizione del vincolo vizia, a monte, le misure cautelari impartite con le comunicazioni di avvio del procedimento, mentre è affetto da illegittimità derivata il provvedimento di approvazione del progetto rilasciato dalla Soprintendenza provinciale impugnato con il terzo atto di motivi aggiunti.
Al contempo, ne risulta assorbita in punto di interesse ogni questione relativa all'inserimento del monumento e del Santuario nell'elenco descrittivo di cui all'art. 5 del D.Lgs. n. 490 del 1999, giacché l'inserimento -che, com'è noto, ha natura dichiarativa, e non costitutiva- di per sé non è pregiudizievole della situazione soggettiva vantata dalla ricorrente (commento tratto da www.ispoa.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 06.09.2012 n. 1539 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAESTENSIONE DELLA RESPONSABILITA` PER VIOLAZIONI URBANISTICHE ALL’ASSUNTORE E AL DIRETTORE DEI LAVORI.
Anche nella materia più propriamente edilizio-urbanistica, soggetti non diretti destinatari del precetto penale (quali, in particolare, l’assuntore o il direttore dei lavori), possono essere chiamati a rispondere del reato urbanistico secondo le regole generali del concorso di persone nel reato, versandosi in una particolare ipotesi di reato cosiddetto ‘‘a soggettività ristretta’’.
Interessante questione quella oggetto di esame da parte della Corte di Cassazione. Il tema è quello dell’estensione della responsabilità penale delle violazioni urbanistico-edilizie a soggetti formalmente non qualificabili soggettivamente come autori del reato. La vicenda processuale vedeva imputati alcuni soggetti, in concorso, dei reati di violazione della legge urbanistica (art. 110 c.p. e D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 lett. c)), della legge edilizia ed antisismica (art. 110 c.p.; artt. 64, 65, 71 e 72; artt. 93, 94 e 95 citato D.P.R.) e violazione della legge paesaggistica (art. 110 c.p. e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181); gli stessi erano stati condannati -nelle rispettive qualità di proprietario committente, esecutore dei lavori e direttore di essi- alla pena ritenuta di giustizia.
Contro la sentenza di condanna ricorrevano per cassazione i tre imputati a mezzo del loro difensore fiduciario deducendo, con un primo motivo, nullità della sentenza per omessa motivazione in punto di conferma del giudizio di responsabilità a carico dell’esecutore dei lavori e del direttore di essi, evidenziando come costoro -sulla base delle dichiarazioni autoaccusatorie del committente- fossero del tutto estranei al reato e, comunque, ignari degli eventuali abusi commessi dal proprietario-committente.
La tesi dell’irresponsabilità non ha però avuto seguito da parte della Cassazione. In particolare, i giudici di legittimità, con riferimento alla figura dell’assuntore, hanno chiarito che questi può essere chiamato a rispondere del reato urbanistico secondo le regole generali del concorso di persone nel reato, versandosi in una particolare ipotesi di reato cd. ‘‘a soggettività ristretta". Ancor più evidente è stata ritenuta dagli Ermellini la responsabilità del soggetto incaricato della direzione dei lavori, stante la posizione di garanzia circa la regolare esecuzione dei lavori che ne caratterizza il ruolo in conformità al disposto di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 29.
Infine, la Cassazione ha ritenuto del tutto inconsistente l’affermazione dei ricorrenti secondo la quale l’assunzione di responsabilità da parte del proprietario committente esenterebbe da responsabilità gli altri soggetti coinvolti prevalendo su quelle iniziative che -secondo quanto previsto dal menzionato D.P.R. n. 380 del 2001, art. 29- l’assuntore ed il direttore lavori avrebbero dovuto porre in essere per sgravarsi da responsabilità: è infatti -ricorda la Corte- lo specifico ruolo riconosciuto dalle norme edilizio-urbanistiche a vincolare determinati soggetti, in assenza di quelle specifiche azioni ad essi demandate in modo cogente (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.07.2012 n. 29126 - tratto da Urbanistica e appalti n. 11/2012).

AGGIORNAMENTO AL 06.12.2012

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IN EVIDENZA

Il Governo fa, il Parlamento disfa ...
I RAGIONIERI COMUNALI NON SONO PIU' SOTTO "PROTEZIONE LEGISLATIVA" !!

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOEnti, ragionieri senza tutele. Dietrofront sull'inamovibilità del responsabile finanziario. Il senato ha votato la fiducia sul dl salva-enti che torna alla camera per l'ok definitivo.
Addio all'inamovibilità del ragioniere-capo.

È questa una delle novità più significative per gli enti locali introdotte (ndr: col maxiemendamento n. 1.900) nella legge di conversione del dl 174/2012 dopo il passaggio, completato ieri, nell'aula del senato. È stata eliminata, infatti, la previsione che subordinava la revoca del responsabile del servizio finanziario, oltre che all'accertamento di gravi irregolarità nell'esercizio delle funzioni assegnate, anche al parere obbligatorio dei revisori dei conti.
In precedenza (ndr: testo approvato in 1^ lettura alla Camera), la camera aveva cancellato la norma che richiedeva addirittura il parere conforme del Mef e che aveva causato una levata di scudi da parte dei sindaci per difendere il primato della politica e l'autonomia comunale. Al riguardo, quindi, tutto torna come prima, lasciando però nuovamente nudi i «guardiani dei conti» di fronte alle pressioni degli amministratori.
Con 194 sì, 58 no e 4 astenuti l'aula di palazzo Madama ha votato la fiducia sul testo (ndr: testo approvato in 2^ lettura dal Senato) che ora passa subito alla camera per un'approvazione lampo. E, stando a quanto emerso dalla Conferenza dei capigruppo, sembra scontato il ricorso alla fiducia anche a Montecitorio (il decreto arriverà in aula oggi pomeriggio e subito dovrebbe essere posta la fiducia che dovrebbe essere votata domani, mentre venerdì alle 12 sono previste le dichiarazioni di voto e il voto finale sul testo).
I ritocchi approvati a Palazzo Madama riguardano anche altri aspetti rilevanti del provvedimento, per quanto concerne, in particolare, i controlli interni, l'Imu degli enti non commerciali e le agevolazioni per le zone terremotate.
Sotto il primo profilo, è stata circoscritta la platea degli enti obbligati ad attivare il controllo strategico, quello sulla qualità dei servizi e quello sulle partecipate: l'obbligo (inizialmente esteso a tutte le amministrazioni con più di 10 mila abitanti) riguarderà fin da subito solo quelle oltre i 100 mila, soglia che scenderà a 50 mila nel 2014 per assestarsi a 15 mila dal 2015.
In materia di esenzione Imu degli enti non commerciali, è stata inserita una disposizione che dà piena copertura legislativa ai criteri identificati con il decreto del Mef del 19 novembre (pubblicato sulla G.U. 274/2012). Inoltre, è stato espressamente chiarito che l'esenzione prevista dall'art. 7, comma 1, lett. i), del dlgs 504/1992 non si applica alle fondazioni bancarie.
Per i comuni colpiti dal sisma del maggio scorso arrivano piccoli aiuti sul Patto di stabilità interno e un parziale allentamento della stretta sulle spese di personale. Quanto al Patto, oltre all'esclusione delle risorse presenti nelle contabilità speciali delle gestioni commissariali, è stata prevista anche una mini-esenzione per le spese finanziate da erogazioni liberali e donazioni da parte di cittadini privati e imprese, fino a un massimo di 10 milioni all'anno (9 per la regione Emilia-Romagna e mezzo milione ciascuna per Veneto e Lombardia, che verranno distribuiti dai rispettivi governatori). I suddetti comuni e le relative unioni potranno, inoltre, per gli anni 2012 e 2013, incrementare fino al 5% annuo il fondo delle risorse decentrate, per destinare gli stanziamenti integrativi a remunerare le prestazioni rese dal personale in relazione alla gestione dello stato di emergenza. Sempre nelle aree terremotate è stato prorogato al 31.05.2013 il termine per l'accatastamento dei fabbricati rurali.
Da segnalare, ancora, la previsione che allunga i tempi per la determinazione dei fabbisogni standard: le modifiche al catalogo delle funzioni fondamentali saranno prese in considerazione solo a partire dal primo anno successivo all'adeguamento dei certificati consuntivi.
Confermate, infine, le nuove misure a favore degli enti alle prese con pesanti criticità finanziarie (si veda ItaliaOggi del 30 novembre), con la possibilità anche per le regioni sotto piano di rientro dal deficit sanitario di attivare immediatamente anticipazioni di cassa fino a 50 milioni, con l'innalzamento da 100 a 300 euro della consistenza pro-capite massima di quelle assegnabili agli enti locali e con l'allungamento da 5 a 10 anni della durata massima del piano di riequilibrio finanziario pluriennale connesso al nuovo meccanismo di pre-dissesto.
Introdotte anche misure ad hoc per gli enti locali sciolti per mafia e che presentino anche squilibri strutturali di bilancio: una formulazione che sembra cucita addosso al comune di Reggio Calabria (articolo ItaliaOggi del 05.12.2012).

     Non c'è che dire: cari emuli dei "Fiorito", "Lusi" e "Belsito", parrebbe che vi sia stata ridata vita facile ... ma noi confidiamo nei colleghi "ragionieri-capo": tenete duro, non mollate la dritta via che lavorando insieme, giorno dopo giorno, possiamo contrastare quegli amministratori che anziché perseguire l'interesse collettivo perseguono l'interesse personale !!
06.12.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

URBANISTICA: Interventi normativi per l’attuazione della programmazione regionale e di modifica e integrazione di disposizioni legislative – Collegato ordinamentale 2013 (Progetto di Legge 28.11.2012 n. 0199).
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L'ultimo regalo della Giunta Formigoni in materia di P.G.T., dapprima proposto con dgr 26.10.2012 n. 4300 e confluito nel PdL n. 0195/2012, è stato stralciato dall'originario PdL in Commissione Bilancio e riproposto col suddetto nuovo PdL n. 0199/2012.
Nel caso di specie, il nuovo articolo (che qui interessa) è il n. 4 che di seguito si ripropone:

Art. 4 - (Modifiche alla l.r. 12/2005)
1. Alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) sono apportate le seguenti modifiche:
a) dopo l’articolo 25 è aggiunto il seguente:
Art. 25-bis (Disposizioni transitorie a far tempo dal 1° gennaio 2013)
1. In deroga a quanto previsto dall’articolo 25, comma 1, primo periodo, i comuni terremotati inclusi nell’elenco di cui al decreto del Ministero dell’economia e delle finanze 01.06.2012 e successive modificazioni e integrazioni, nonché quelli dichiarati in dissesto finanziario entro il 31.12.2012 continuano ad attuare le previsioni del vigente PRG fino al 31.12.2013, fermo restando quanto disposto dall’articolo 26, comma 3-quater. In caso di mancata adozione del PGT entro il 31.12.2013, si applicano le disposizioni di cui ai commi 4 e 5.
2. In deroga a quanto previsto dall’articolo 25, comma 1, primo periodo, nei comuni che entro il 31.12.2012 hanno adottato il PGT si attuano le previsioni del vigente PRG, fermo restando quanto disposto dagli articoli 13, comma 12, e 26, comma 3-quater. Dal 1° gennaio 2013 i medesimi comuni non possono in ogni caso dar corso a procedure di variante al vigente PRG comunque denominate.
3. In caso di mancata approvazione del PGT entro il 31.07.2013 da parte dei comuni di cui al comma 2, primo periodo, si applicano le disposizioni previste ai commi 4 e 5.
4. Nei comuni che entro il 31.12.2012 non hanno adottato il PGT, dal 1° gennaio 2013 e fino all’approvazione del PGT, fermo restando quanto disposto dall’articolo 13, comma 12, sono ammessi unicamente i seguenti interventi:
   a) nelle zone omogenee B, C e D individuate dal previgente PRG, interventi sugli edifici esistenti nelle sole tipologie di cui all’articolo 27, comma 1, lett. a), b) e c);
   b) nelle zone omogenee A, E e F individuate dal previgente PRG, gli interventi che erano consentiti dal PRG o da altro strumento urbanistico comunque denominato;
   c) gli interventi in esecuzione di piani attuativi approvati e convenzionati entro il 31.12.2012, con convenzione non scaduta.
5.
Ai comuni di cui al comma 4, dal 1° gennaio 2013 e fino all’approvazione del PGT, non è consentito applicare le disposizioni di cui agli articoli 3, 4, 5 e 6 della legge regionale 13.03.2012, n. 4 (Norme per la valorizzazione del patrimonio edilizio esistente e altre disposizioni in materia urbanistico-edilizia); sono fatte salve le istanze di permesso di costruire e le denunce di inizio attività presentate entro il 31.12.2012.”.

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI: Decreto del Ministro dell'Economia e delle Finanze 25.06.2012 recante “Modalità di certificazione del credito, anche in forma telematica, di somme dovute per somministrazioni, forniture e appalti, da parte delle Regioni, degli Enti locali e degli Enti del Servizio Sanitario Nazionale”, come modificato dal decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 19.10.2012 - Modalità applicative (Ragioneria Generale dello Stato, circolare 27.11.2012 n. 36).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Amendola, Scolmatori di piena e scarichi secondo la Corte europea di giustizia e la Corte di cassazione (link a www.industrieambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G. Amendola, Il nuovo statuto delle terre e rocce da scavo secondo il D.M. n. 161/2012 - Le definizioni del materiale da scavo – Il carattere “più favorevole” dell’attuale disciplina e la sua retroattività anche ai fini penali - L’art. 186 non ha natura di norma “temporanea”: rilievi critici sulla sentenza della S.C. n. 3577/2012 (link a www.lexambiente.it).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIACome sono disciplinati i rifiuti derivanti da attività di pulizia delle reti fognarie? (03.12.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: La disciplina dell’utilizzo delle terre e rocce da scavo ha trovato stesura definitiva nel D.M. n. 161/2012? (03.12.2012 - link a www.ambientelegale.it).

NEWS

SEGRETARI COMUNALI: Niente «premi» senza obiettivi.
Niente retribuzioni di risultato per i segretari se non sono stati formalizzati in via preventiva dall'amministrazione gli obiettivi necessari alla valutazione.

Lo spiega l'ex-Ages (agenzia dei segretari) nelle risposte ai quesiti 30.11.2012 n. 9/2012 e 30.11.2012 n. 10/2012.
In un altra nota (la 30.11.2012 n. 8/2012) l'ex-Ages afferma che non sono possibili le convenzioni fra Comuni singoli e Unioni (articolo Il Sole 24 Ore del 05.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

LAVORI PUBBLICIIn dirittura d'arrivo il decreto interministeriale che mette i paletti nelle gare pubbliche. Appalti, basta ribassi selvaggi. La prestazione professionale troverà il suo compenso.
Gare d'appalto con tariffe professionali certe. E con precisi paletti di discrezionalità sugli importi per le pubbliche amministrazioni. È finita dunque l'era in cui le stazioni appaltanti si presentavano alle gare offrendo progettazione ed esecuzione delle opere a prezzi stracciati (con ribassi anche del 90% rispetto al prezzo iniziale) svilendo anche il ruolo del professionista.

A sanare la situazione infatti ci penserà un decreto interministeriale giustizia-infrastrutture, a giorni in arrivo al Consiglio di stato, che definisce i parametri da utilizzare per la determinazione dell'importo da porre a base di gara nell'ambito dei contratti pubblici dei servizi di ingegneria e architettura.
Dopo la definizione dei parametri (dm 01/08/2012) per la liquidazione dei corrispettivi in caso di contenzioso, dunque, arriva un altro provvedimento a comporre lo scenario complessivo di riforma delle professioni che, tra i suoi capisaldi, ha visto appunto l'abolizione delle tariffe.
Il contesto generale. Si tratta di un testo atteso nel mondo delle professioni tecniche (ingegneri, architetti, geometri, periti industriali ecc.) e soprattutto necessario dopo che il decreto legge sulle liberalizzazioni (1/12) aveva di fatto cancellato ogni riferimento tariffario, privando le stazioni appaltanti di regole per calcolare gli importi e per determinare, di conseguenza, le procedure per l'affidamento degli incarichi di progettazione. Un'assenza di regole denunciata a gran voce dalle professioni tecniche che, tra le altre cose, ha alimentato negli ultimi anni un'eccessiva discrezionalità delle stazioni appaltanti. Soprattutto dopo le lenzuolate Bersani.
Per sanare tale criticità il governo era intervenuto con il decreto sviluppo stabilendo che per la determinazione dei corrispettivi da porre a base di gara nelle procedure di affidamento di contratti pubblici dei servizi tecnici si sarebbero applicati i parametri individuati appunto con un decreto interministeriale che avrebbe anche definito «le classificazioni delle prestazioni professionali relative ai predetti servizi». Il tutto con un paletto preciso: «I parametri individuati non possono condurre alla determinazione di un importo a base di gara superiore a quello derivante dall'applicazione delle tariffe professionali vigenti prima dell'entrata in vigore del presente decreto».
I punti principali del testo. La battaglia degli ordini sul provvedimento è stata soprattutto mirata a eliminare gli aspetti eccessivamente discrezionali del testo. Così è saltata, in primo luogo, la possibilità per le pubbliche amministrazioni di aumentare o diminuire gli importi a base di gara del 60% in maniera completamente discrezionale come era avvenuto fino ad ora. Allo stesso modo il parametro «G», che nel calcolo degli importi a base di gara servirà a definire la «complessità della prestazione», vedrà diminuire la sua portata discrezionale.
Il decreto, infatti, non fissa più (come nelle bozze precedenti) una forbice tra due valori (ridotto e elevato), ma quozienti fissi e non derogabili stabiliti a seconda della categoria e della destinazione funzionale dell'opera. Il provvedimento richiama nella valutazione del compenso quanto stabilito nel decreto relativo ai parametri giudiziali prevedendo anche la classificazione dei servizi professionali, tenendo conto della categoria dell'opera e del grado di complessità.
Torna poi la liquidazione forfettaria delle spese, in sostanza l'importo delle spese e degli oneri accessori, invece si legge sul dm, è determinato «forfettariamente» secondo percentuali standard degli oneri sostenuti dal professionista che varieranno tra il 10 e il 25% a seconda del valore dell'opera (articolo ItaliaOggi del 05.12.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTIPagamenti. Le novità del decreto legislativo 192/2012 sui ritardi si applicheranno ai contratti conclusi da inizio 2013.
Interessi al via senza sollecito. La decorrenza sarà automatica per tutte le transazioni commerciali.
NELLA RETE/ La disciplina riguarda i versamenti effettuati a titolo di corrispettivo tra imprese, professionisti e pubbliche amministrazioni.

Decorrenza automatica degli interessi di mora per i contratti conclusi dal 01.01.2013 e prova scritta di ogni patto derogatorio: così dispone il decreto legislativo 192/2012 di recepimento della direttiva 2011/7/Ue contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. I pagamenti effettuati oltre il termine dei 30 giorni dalla scadenza, ovvero entro il maggior termine stabilito contrattualmente non superiore comunque a 60 giorni salvo casi particolari, saranno quindi maggiorati di interessi moratori senza necessità di sollecito e preavviso di inadempimento da parte del creditore.
Dentro e fuori
La disciplina riguarda tutti i pagamenti effettuati a titolo di corrispettivo tra imprese ovvero tra queste e le pubbliche amministrazioni. Nella nozione di impresa rientrano anche i professionisti e cioè i soggetti che esercitano un'attività professionale indipendente. Sul punto, la direttiva comunitaria precisa come la sua operatività nei confronti delle professioni liberali non determina la loro assimilazione alle imprese per fini diversi da quelli sugli interessi di mora per ritardati pagamenti. Per espressa previsione di legge, restano inoltre esclusi solamente i debiti oggetto di procedure concorsuali nonché i pagamenti effettuati a titolo di risarcimento del danno. Si persegue in questo modo la finalità di contrastare le posizioni dominanti delle imprese sui propri fornitori e sulle imprese sub committenti, in particolare quando si tratta di micro, piccole e medie imprese. Così, come chiarisce la direttiva, si vuole contrastare i ritardi nei pagamenti che, limitando la liquidità delle imprese, ne complicano la gestione finanziaria obbligandole a ricorrere a finanziamenti esterni in un periodo di crisi strutturale del sistema.
I 30 e i 60 giorni
Il Dlgs 192/2012 estende a tutte le transazioni commerciali le regole imposte nel settore agricolo e agroalimentare dall'articolo 62 del Dl 1/2012, che dallo scorso 24 ottobre prevede la decorrenza automatica degli interessi di mora dal giorno successivo alla scadenza del termine di pagamento, fissato in 30 giorni per le merci deteriorabili e in 60 per tutte le altre a decorrere dall'ultimo giorno del mese di ricevimento della fattura. Quest'ultima disposizione costituisce una norma speciale rispetto alla regole generali applicabili ai ritardi nei pagamenti dei corrispettivi per merci o servizi resi.
Gli interessi moratori
Differenti sono anche le modalità per individuare i termini di decorrenza degli interessi moratori. Alla luce della normativa comunitaria, il creditore matura il diritto agli interessi dal giorno successivo alla data di scadenza o alla fine del periodo di pagamento stabilito nel contratto. Se data di scadenza o di pagamento non risultano invece contrattualizzati, gli interessi di mora decorrono comunque, senza che sia necessaria la costituzione in mora, dal giorno successivo alla scadenza del termine per il pagamento individuato in 30 giorni dalla data di ricevimento da parte del debitore della fattura o di una richiesta di pagamento di contenuto equivalente. Nel caso in cui non è certa la data di ricevimento della fattura o della richiesta di pagamento, i 30 giorni decorrono dalla data di ricevimento delle merci o dalla data di prestazione dei servizi. Invece se il debitore riceve la fattura o la richiesta di pagamento prima delle merci o della prestazione dei servizi, i 30 giorni decorrono dalla data di ricevimento delle merci o dalla prestazione dei servizi. I 30 giorni vanno infine calcolati a partire dalla data dell'accettazione o della verifica della conformità della merce o dei servizi alle previsioni contrattuali, se il debitore riceve la fattura o la richiesta di pagamento in epoca non successiva a questa data. Le imprese possono pattuire un termine superiore ai 30 giorni: tuttavia se si superano i 60 giorni, oltre alla necessità di una pattuizione espressa con clausola da provarsi per iscritto, non deve configurarsi un comportamento gravemente iniquo per il creditore.
La pubblica amministrazione
Nelle transazioni commerciali in cui debitore è una pubblica amministrazione il termine ordinario di pagamento è quello dei 30 giorni. Tuttavia le parti possono pattuire in modo espresso un termine per il pagamento superiore in ragione della natura o dell'oggetto del contratto o dalle circostanze esistenti al momento della sua conclusione. In ogni caso i maggiori termini pattuiti, a differenza di quanto previsto nei rapporti tra imprese, non possono superare i 60 giorni e la relativa clausola deve essere provata per iscritto. I termini sono invece automaticamente raddoppiati a 60 giorni per le imprese pubbliche tenute al rispetto dei requisiti di trasparenza delle relazioni finanziarie tra gli Stati membri e le loro imprese pubbliche e per gli enti pubblici che forniscono assistenza sanitaria (articolo Il Sole 24 Ore del 04.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI: Revisori dei conti. L'estensione procederà a tappe, mentre si prova ad ampliare i vincoli di assunzione alle in house.
Controlli progressivi sulle società. Esami nel 2013 per le città oltre 100mila abitanti, nel 2015 si arriverà a quelle sopra 15mila.

L'ultima versione del Dl enti locali prevede che nel 2013 il nuovo controllo ad hoc sulle partecipate si effettui solo nelle città con più di 100mila abitanti, per scendere a 50mila nel 2014 e a 15mila dal 2015.
Ma tutti gli enti, in realtà, sono già oggi chiamati a molte verifiche, a partire dalle dinamiche sul personale delle società. Regole che provano a cambiare ancora con gli emendamenti presentati venerdì scorso dai relatori al decreto «Sviluppo2», al centro di una navigazione parlamentare dagli esiti ancora incerti. I correttivi estendono prima di tutto alle società in house le regole del turn over, che consentono di assumere entro il tetto del 40% dei risparmi ottenuti con le cessazioni dell'anno precedente, e inoltre le mettono al sicuro dal blocco degli stipendi che rischierebbero con l'estensione tout court delle norme applicate agli enti locali: chi non supera i tetti di spesa, secondo il correttivo, sarà chiamato a garantire risparmi di spesa ma senza vietare a tutti qualsiasi incremento contrattuale. Un blocco del genere si scontrerebbe infatti con i contratti di diritto privato tipici del personale delle società, che non possono essere contraddetti da norme di legge. Lo stesso problema, però, si incontra nelle società strumentali, dove il blocco dei trattamenti economici sarà in vigore nel 2013/2014 e rischia di generare un forte contenzioso.
Le nuove regole sui controlli contenute nel decreto enti locali, che attende la fiducia domani al Senato per poi tornare alla Camera per la lettura definitiva, chiamano i revisori a verifiche puntuali anche sul mondo delle società. Questi controlli, in base al maxiemendamento governativo, scatteranno il prossimo anno solo nelle città sopra i 100mila abitanti, poi la soglia scenderà a 50mila nel 2014 e a 15mila dal 2015.
La prima disposizione rilevante, in questa prospettiva, è l'articolo 18, comma 2-bis, della legge 133/2008, che dispone l'assoggettamento delle società a partecipazione pubblica totale o di controllo, affidatarie senza gara di servizi (quindi tra queste non rientrano le società miste conformi ai parametri comunitari del partenariato pubblico-privato) ai divieti e alle limitazioni per le assunzioni di personale secondo il regime previsto per l'ente controllante.
La norma fa riferimento alle società individuate dal conto consolidato Istat, ma alcune interpretazioni (Corte dei conti, sez. Calabria, delibera 84/2012) evidenziano che la regola va vada intesa in via estensiva, comprendendo anche tutte le società non incluse nell'elenco. Rispetto a questa previsione, è evidente l'obbligo di vigilanza dell'ente socio sul rispetto dei vincoli alle assunzioni nella società, sancito come principio generale (Corte dei Conti. sez. Lombardia, delibera 7/2012).
Il controllo entra in gioco anche nella relazione tra amministrazioni e società affidatarie in house di servizi pubblici locali, regolata dall'articolo 3, commi 5 e 6 della legge 148/2011. Oltre all'estensione del Patto, ancora tutta da definire, la norma prevede che le società debbano assoggettarsi alle disposizioni che stabiliscono a carico degli enti locali divieti o limitazioni alle assunzioni di personale, contenimento degli oneri contrattuali e delle altre voci di natura retributiva o indennitarie e per le consulenze.
Il controllo risulta obbligato anche dall'articolo 76, comma 7 della legge 133/2008, in quanto le amministrazioni locali devono calcolare, ai fini della determinazione del rapporto tra spesa del personale e spesa corrente, anche la spesa delle società a partecipazione totale o di controllo, affidatarie di servizi senza gara.
Qualora, infatti, il rapporto superi il limite del 50% a causa degli eccessivi costi delle risorse umane delle partecipate, l'ente locale socio non può procedere ad assunzioni.
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L'evoluzione
01 | L'ESTENSIONE
Il provvedimento sugli enti locali prevede l'allestimento di nuovi controlli ad hoc sulle società partecipate, sui rapporti finanziari fra ente e società e sul rispetto delle regole di personale
02 | IL CORRETTIVO
Nel maxiemendamento che sarà sottoposto domani alla fiducia in Senato si prevede che questi controlli siano applicati nel 2013 nei Comuni con più di 100mila abitanti, nel 2014 in quelli superiori a 50mila abitanti e dal 2015 in quelli dai 15mila abitanti in su
03 | PERSONALE
I relatori dal decreto Sviluppo 2, intanto, hanno presentato venerdì una serie di emendamenti sul personale delle società in house: a queste viene estesa la regola del turn over, che consente di assumere solo entro il tetto del 40% dei risparmi conseguiti con le cessazioni dal servizio dell'anno precedente
04 | BLOCCO STIPENDI
Nel 2013/2014 è previsto per le società strumentali, ma rischia di creare contenzioso perché il personale è titolare di contratti di diritto privato. Per la stessa ragione, gli emendamenti presentati al decreto sviluppo escludono da questa misura le società in house, chiamate invece a garantire più flessibili «contenimenti» nella spesa di personale
05 | TETTI DI SPESA
L'altro limite da sottoporre a controllo riguarda l'impossibilità di spendere per il personale più del 50% della spesa corrente, nella somma di ente e società (articolo Il Sole 24 Ore del 03.12.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: L'attuazione. Disciplina da approvare entro poche settimane.
Verifiche, tocca ai regolamenti fissare calendario e modalità.

Tempi assai stretti per applicare le nuove regole sui controlli interni e sanzioni molto dure in caso di inosservanza. Tutti i Comuni e gli altri enti locali dovranno adottare entro il 10 gennaio, cioè entro i 90 giorni successivi alla emanazione del decreto legge 174/2012, il regolamento, dando immediata comunicazione sia al Prefetto sia alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti. Saranno avviate le procedure di scioglimento degli organi politici se entro due mesi dalla diffida da parte del Prefetto gli enti locali non lo avranno approvato.
È quanto prevede il testo del decreto enti locali, all'esame del Senato per la conversione in legge.
Sono competenti ad adottare il regolamento i consigli comunali e provinciali. La disciplina del controllo sugli equilibri finanziari deve essere inserita nell'ambito del regolamento di contabilità. Sono tenuti a dare vita al controllo strategico, a quello sulla gestione delle società partecipate e a quello sulla qualità dei servizi erogati da subito solo i Comuni con più di 100mila abitanti, dal 2014 con più di 50mila abitanti, dal 2015 con più di 15.000 abitanti. I controlli interni possono essere gestiti in forma associata. Le nuove forme di verifica, tranne il controllo di regolarità amministrativa e contabile per la parte preventiva all'adozione delle deliberazioni, hanno alcune caratteristiche unitarie: ognuno produce, come risultato finale, una relazione e non determina conseguenze sulla legittimità, né costituisce condizione di validità dei singoli atti.
Il regolamento deve, in primo luogo, individuare per ogni forma di controllo interno le modalità di effettuazione, le interrelazioni con le altre verifiche e il soggetto responsabile. Il decreto legge 174 assegna direttamente la responsabilità al segretario per i controlli di regolarità amministrativa e contabile e, ove non sia presente il direttore generale, per quello strategico; al dirigente o responsabile finanziario per quello sugli equilibri di bilancio e alla struttura preposta a tali rapporti quello sulle società non quotate partecipate. Il regolamento deve disciplinare le modalità di coinvolgimento dei segretari, dei direttori generali, dell'insieme dei dirigenti o responsabili, del collegio dei revisori e dell'organismo indipendente di valutazione. Deve inoltre disciplinare le modalità di utilizzazione di queste relazioni da parte degli organi di governo.
Il controllo di regolarità amministrativa e contabile va disciplinato in modo differenziato per le sue due fasi. La fase preventiva si concretizza nel rilascio dei pareri tecnico e di regolarità contabile sulle proposte di deliberazione. La fase successiva prevede la verifica delle determinazioni, dei contratti e in generale degli atti di gestione, anche a campione, con modalità che dovranno essere disciplinate dal regolamento. Per esempio si possono sottoporre a controllo solo i provvedimenti che dispongono spese di elevato valore. I suoi esiti vanno comunicati ai dirigenti e/o responsabili insieme alle direttive cui si devono conformare in caso di irregolarità. Sul controllo di gestione non vi sono novità di rilievo rispetto al decreto legislativo 267/2000: deve verificare l'efficacia, l'efficienza e l'economicità delle attività. Il regolamento deve individuare la struttura preposta, le modalità operative e l'utilizzazione dei suoi esiti, in particolare per misurare le performance. Il controllo strategico serve a verificare, tra l'altro, il grado di attuazione dei programmi, la qualità delle attività, i tempi di realizzazione, le procedure utilizzate. Il regolamento può unificare questo controllo con la relazione sulle performance prevista dalla legge Brunetta.
Il decreto legge 174/2012 ha poi introdotto tre forme di controllo interno. Il controllo sugli equilibri della gestione finanziaria ha come oggetto sia l'andamento della competenza e dei residui, sia il rispetto del patto. Si deve estendere anche agli effetti determinati dalle scelte compiute dai soggetti che per conto dell'ente gestiscono i servizi. Il controllo sulle società partecipate non quotate si deve incentrare sulla verifica del raggiungimento degli obiettivi prefissati dall'ente, sul rispetto degli standard di qualità e delle condizioni dettate nei contratti di servizio. Infine, la verifica della qualità dei servizi erogati e del giudizio da parte degli utenti va unificata con il decreto legislativo 150/2009, che impone a tutte le Pa di realizzare forme di customer satisfaction, tenendone conto per valutare le performance.
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I punti chiave
01 | I REGOLAMENTI
Gli enti devono approvare un regolamento consiliare per i controlli di regolarità amministrativa e contabile; di gestione; strategico; sulle società partecipate e sulla qualità dei servizi.
Nel regolamento di contabilità va inserita la disciplina del controllo sugli equilibri della gestione finanziaria
02 | I CONTROLLI
I controlli interni producono rapporti sull'attività svolta dall'ente. Il controllo di regolarità amministrativa e contabile produce pareri sulle proposte di delibera e verifica, anche a campione, su tutti gli atti di gestione.Il controllo di gestione misura le attività in termini di efficienza, efficacia ed economicità. Il controllo strategico riassume tutte le verifiche e unifica la relazione sulla performance.
Il controllo sugli equilibri della gestione finanziaria analizza la gestione e la condizione economica complessiva dell'ente, anche con riferimento alle scelte delle società partecipate. Il controllo sulle società verifica il grado di realizzazione degli obiettivi assegnati e del rispetto dei vincoli dettati nel contratto di servizio. Il controllo sulla qualità della gestione misura il grado di soddisfazione degli utenti (articolo Il Sole 24 Ore del 03.12.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI: Da definire meglio l'obbligo di pareri su Peg e servizi.
I CONFINI/ Interventi necessari sul piano delle opere pubbliche e sulle dismissioni, ma non sui piani esecutivi.

I revisori degli enti locali iniziano a misurarsi sulle modifiche del decreto enti locali che ha rivisto le loro funzioni scritte nell'articolo 239 del Tuel. Anzitutto è richiesto un parere dei revisori per gli «strumenti di programmazione economico-finanziaria». Nessun dubbio per i documenti, come il piano delle opere pubbliche o quello delle dismissioni, che devono essere approvati dal consiglio: qui il parere è dovuto.
Il discorso non è altrettanto chiaro, però, per il Peg. Si tratta di uno strumento di programmazione o di gestione? Quando si dovrebbe dare il parere? I pareri si fanno sugli atti, ma qui l'unica delibera è di Giunta, visto che il segretario o il dg semplicemente lo «predispongono». Si avrebbe perciò un parere sulla delibera di Giunta, quindi formulato dopo l'assunzione della decisione definitiva, e non se ne capisce l'utilità. L'organo di revisione di regola si rivolge al Consiglio e non ad altri soggetti, e solo quando c'è una norma che definisce il loro compito, l'oggetto e il destinatario del parere stesso. In sostanza, si ritiene che qui il parere non sia dovuto.
Occorre poi che i revisori si esprimano sulle «modalità di gestione dei servizi e proposte di costituzione o di partecipazione ad organismi esterni». La terminologia è generica. È indubbio che si debba dare un parere sulle delibere di Consiglio di costituzione e di partecipazione a organismi esterni, ma meno chiaro è il compito del collegio sulla gestione dei servizi. Su quali servizi? E quando va dato il parere? Da subito o all'affidamento? L'affidamento potrebbe anche non esserci, se il servizio è in economia. Il dubbio, quindi, è se vada fatto un "inventario" dei servizi erogati o no. In ogni caso, il parere dovrebbe essere dato solo se la delibera è di Consiglio.
Un parere deve essere dato anche sulle «proposte di ricorso all'indebitamento». In questo caso si pensa che il parere riguardi ogni singola operazione, e va formulato anche considerando la congruità e verificando il rispetto dei vincoli al debito. Il parere è dovuto anche in caso di fideiussioni e, comunque, per ogni tipologia di debito, leasing compreso. Le operazioni non rientranti nell'indebitamento si ritrovano comunque al punto successivo, dove si chiede di esprimersi sulle «proposte di utilizzo di strumenti di finanza innovativa», nelle quali si devono fare rientrare tutte le forme non tipizzate di natura finanziaria, dagli swap alle cartolarizzazioni. L'attenzione deve concentrarsi sia sulla convenienza sia sulla loro ammissibilità.
Sempre in argomento, un problema riguarda le operazioni di riduzione del debito, imposte dalla spending review. In questo caso non viene richiesto un parere, in quanto non si tratta di «ricorso all'indebitamento» ma di sua estinzione. In ogni caso occorre ricordare che l'articolo 239, comma 1-bis, richiede «un motivato giudizio di congruità, di coerenza e di attendibilità contabile delle previsioni di bilancio e dei programmi e progetti». Trattandosi di una variazione occorre perciò esprimersi sulla convenienza nella scelta dei mutui da estinguere. È richiesto, infine, di esprimersi sui debiti fuori bilancio e sulle transazioni. In merito la questione riguarda anzitutto la congruità della delibera, ma ci si dovrebbe interrogare anche sui motivi che hanno portato alla soccombenza.
Anche alla luce dei tanti nuovi compiti che attendono i professionisti, è importante che il maxiemendamento governativo al decreto enti locali cancelli il taglio ai revisori dei conti nei Comuni che fanno parte di Unioni. Il correttivo applica il nuovo assetto solo alle future Unioni dei Comuni fino a mille abitanti, dove gli enti svolgeranno in forma associata tutte le funzioni fondamentali (articolo Il Sole 24 Ore del 03.12.2012 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Anticorruzione. Dipendenti pubblici. Tagliola in tempo reale per gli incarichi esterni.
Cambiano le procedure e le modalità per l'affidamento degli incarichi ai dipendenti pubblici.

La legge 190/2012 (anticorruzione) interviene infatti sull'articolo 53 del decreto legislativo 165/2001 prevedendo ulteriori verifiche e nuovi adempimenti. Il lavoratore pubblico può essere destinatario di attività extra lavorative da parte di tre soggetti diversi. Innanzitutto, da parte della Pa di appartenenza, ma solo per compiti non compresi tra i doveri d'ufficio. La legge 190/2012 precisa che verranno individuate con appositi regolamenti alcuni tipi di attività comunque vietati.
A un dipendente pubblico possono essere, poi, affidati incarichi da parte di un'altra amministrazione o da privati, purché di natura saltuaria e sporadica e non in conflitto di interessi. È sempre richiesta la preventiva autorizzazione dell'ente di appartenenza: in caso di inosservanza, il dipendente incappa in una responsabilità disciplinare che si estende all'obbligo della restituzione del compenso eventualmente ricevuto all'ente di appartenenza. L'omissione del versamento costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla Corte dei conti.
Una volta effettuata la prestazione, al dipendente viene corrisposto il compenso pattuito. Scatta a questo punto tutto il sistema delle rendicontazioni che si conclude con l'adempimento dell'anagrafe delle prestazioni: in precedenza il soggetto pubblico o privato che aveva affidato un incarico al dipendente aveva tempo fino al 30 aprile dell'anno successivo per comunicare alla Pa di appartenenza l'ammontare dei compensi erogati; ora il termine è stato ridotto a soli 15 giorni dall'erogazione delle somme pattuite. Rimane invece fermo al 30 giugno dell'anno successivo il termine per inserire in «PerlaPa» i compensi relativi all'anno precedente contenuti nelle comunicazioni.
Confermato inoltre l'invio semestrale per gli incarichi di consulenza, anche se le informazioni sono trasmesse (alla Funzione pubblica) e pubblicate in tabelle riassuntive liberamente scaricabili in un formato «digitale standard aperto» che consenta di analizzare e rielaborare, anche a fini statistici, i dati informatici. Si attendono le indicazioni operative. Le amministrazioni inadempimenti saranno segnalate alla Corte dei conti.
Resta confermato il regime di maggior favore per i dipendenti part-time con prestazione lavorativa non superiore al 50% di quella a tempo pieno e per alcune particolari tipologie di incarichi, come la collaborazione a giornali e riviste, la partecipazione a convegni e seminari, l'attività di formazione diretta alla Pa e le attività per le quali è previsto il solo rimborso delle spese documentate (articolo Il Sole 24 Ore del 03.12.2012 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAIl termine di 30 giorni previsto dalla legge circa la presentazione della D.I.A., nella specie dai citati artt. 23, comma 6, T.U. 380/2001 e 42, comma 1, l.r. Lombardia 12/2005, si intende rispettato dall’amministrazione allorché entro lo stesso l’atto repressivo sia stato predisposto ed avviato alla notifica, in analogia con quanto vale per il rispetto dei termini processuali di decadenza, e ciò è nella specie avvenuto.
Nell’ordine, è infondato il primo motivo di ricorso, incentrato sul presunto carattere tardivo dell’intervento del Comune, che sulla d.i.a. presentata il 19.02.2007 ha adottato il provvedimento repressivo impugnato avviandolo alla notifica il 20.03.2007, ovvero il ventottesimo giorno successivo.
Così come ribadito da recente giurisprudenza –per tutte TAR Liguria sez. I 02.11.2011 n. 1511- il termine di trenta giorni previsto dalla legge, nella specie dai citati artt. 23, comma 6, T.U. 380/2001 e 42, comma 1, l.r. Lombardia 12/2005, si intende rispettato dall’amministrazione allorché entro lo stesso l’atto repressivo sia stato predisposto ed avviato alla notifica, in analogia con quanto vale per il rispetto dei termini processuali di decadenza, e ciò è nella specie avvenuto (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.11.2012 n. 1853 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della condonabilità di un manufatto abusivo è ininfluente l'epoca in cui è sorto il vincolo, purché questo sia ancora in essere alla data in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, sicché detta regola vale anche per le opere eseguite anteriormente all'apposizione del vincolo stesso.
Costituisce, dal pari, ius receptum che la già avventa urbanizzazione dell’area sulla quale insiste in manufatto oggetto dell’istanza di condono non ne impedisce la tutela, ma anzi la rende ancora più pressante e necessaria al fine di evitarne l’ulteriore degrado.

Ai fini della condonabilità di un manufatto abusivo è, infatti, ininfluente l'epoca in cui è sorto il vincolo, purché questo sia ancora in essere alla data in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, sicché detta regola vale anche per le opere eseguite anteriormente all'apposizione del vincolo stesso (per tutte, Cons .Stato, sez. IV, 18.09.2012, n. 4945).
Costituisce, dal pari, ius receptum che la già avventa urbanizzazione dell’area sulla quale insiste in manufatto oggetto dell’istanza di condono non ne impedisce la tutela, ma anzi la rende ancora più pressante e necessaria al fine di evitarne l’ulteriore degrado (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.11.2012 n. 5984 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento di diniego di condono, quando si limita ad una apodittica affermazione di principio di contrarietà alla normativa paesaggistica, è viziato da difetto di motivazione, atteso che l’obbligo di motivazione, imposto dall’art. 3 della legge n. 241 del 1990, presuppone adeguate argomentazioni volte a chiarire la non compatibilità dell’opera con le esigenze di tutela nel contesto ambientale, in modo da consentire all’interessato da un lato di rendersi conto degli impedimenti che si frappongono alla regolarizzazione ed al mantenimento dell'opera abusiva, dall’altro di confutare in giudizio, in maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la legittimità del provvedimento impugnato.
Considerato inoltre che per giurisprudenza pressoché costante (cfr. TAR Campania Salerno, sez. II, 22.09.2009, n. 4978; TAR Campania Napoli, sez. VI, 05.04.2012, n. 1640; TAR Toscana, sez. III, 09.04.2009, n. 605) il provvedimento di diniego di condono, quando si limita ad una apodittica affermazione di principio di contrarietà alla normativa paesaggistica, è viziato da difetto di motivazione, atteso che l’obbligo di motivazione, imposto dall’art. 3 della legge n. 241 del 1990, presuppone adeguate argomentazioni volte a chiarire la non compatibilità dell’opera con le esigenze di tutela nel contesto ambientale, in modo da consentire all’interessato da un lato di rendersi conto degli impedimenti che si frappongono alla regolarizzazione ed al mantenimento dell'opera abusiva, dall’altro di confutare in giudizio, in maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la legittimità del provvedimento impugnato (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 26.11.2012 n. 4801 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La notifica dell’ordinanza (di demolizione abuso edilizio) al proprietario consente a quest’ultimo di attivarsi a sua volta per la rimozione dell’illecito, in considerazione della valenza ripristinatoria e non meramente sanzionatoria dell’ingiunzione, fatti salvi i rapporti interni con il responsabile in ordine al risarcimento dei danni e al rimborso delle spese sostenute.
- Considerato che l’art. 31, comma 2, del d.P.R. 380/2001 dispone che “… il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione” e che pertanto correttamente l’ingiunzione è stata indirizzata sia al proprietario dell’area che al conduttore;
- Ritenuto, in particolare, che la notifica dell’ordinanza al proprietario consenta a quest’ultimo di attivarsi a sua volta per la rimozione dell’illecito, in considerazione della valenza ripristinatoria e non meramente sanzionatoria dell’ingiunzione, fatti salvi i rapporti interni con il responsabile in ordine al risarcimento dei danni e al rimborso delle spese sostenute (cfr., nel senso della legittimità della ingiunzione al proprietario dell’immobile, oltre che al responsabile dell’abuso, da ultimo, TAR Campania, Napoli, sez. VII, 17.09.2012, n. 3879, TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 12.04.2012, n. 369) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 22.11.2012 n. 4742 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti a cagione dell’insussistenza del titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, secondo l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario.
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● In caso di abuso edilizio l'ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione; l'abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l'adozione della misura repressiva in argomento. Ne consegue che, in presenza di un'opera abusiva, l'autorità amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna discrezionalità dell'amministrazione in relazione al provvedere.
● L'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto e all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi.
● Presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che, essendo l'ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con l'accertamento dell'abuso, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico alla sua rimozione e sussistendo l'eventuale obbligo di motivazione al riguardo solo se l'ordinanza stessa intervenga a distanza di tempo dall'ultimazione dell'opera avendo l'inerzia dell'amministrazione creato un qualche affidamento nel privato.

Infondata è la censura inerente l’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento: gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti a cagione dell’insussistenza del titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, secondo l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario (cfr. ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 23.02.2011 n.1048).
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E’ noto, infatti, che in caso di abuso edilizio “l'ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione; l'abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l'adozione della misura repressiva in argomento. Ne consegue che, in presenza di un'opera abusiva, l'autorità amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna discrezionalità dell'amministrazione in relazione al provvedere” (TAR Lazio Roma, sez. I, 19.07.2006, n. 6021); infatti “l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto e all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi” (TAR Marche Ancona, sez. I, 12.10.2006, n. 824) ed, ancora, “presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che, essendo l'ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con l'accertamento dell'abuso, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico alla sua rimozione e sussistendo l'eventuale obbligo di motivazione al riguardo solo se l'ordinanza stessa intervenga a distanza di tempo dall'ultimazione dell'opera avendo l'inerzia dell'amministrazione creato un qualche affidamento nel privato” (Consiglio di Stato, sez. V, 29.05.2006 n. 3270) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 22.11.2012 n. 4728 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Tra i presupposti del legittimo svolgimento dell’attività commerciale e, quindi, tra le condizioni richieste ai fini della formazione del titolo abilitante anche mediante la sola dichiarazione del privato (DIA, poi SCIA), va senz’altro annoverata la regolarità edilizia dell’immobile in cui l’attività viene ad essere svolta secondo il costante insegnamento della giurisprudenza, cui questa Sezione si è già in altre circostanze richiamata:
● la conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità, come si evince dagli art. 24, comma 3, d.P.R. n. 380/2001, e art. 35, comma 2, l. n. 47/1985, del resto, risponde ad un evidente principio di ragionevolezza escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi destinazione, un fabbricato in potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui protezione è preordinata la disciplina urbanistico-edilizia;
● non può revocarsi in dubbio che il legittimo esercizio di un'attività commerciale sia ancorato, sia in sede di rilascio del relativo titolo autorizzatorio, sia per l'intera durata del suo svolgimento, alla disponibilità giuridica e alla regolarità urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene posta in essere.

Invero, l’esercizio di un’attività commerciale può avvenire solo in presenza di un titolo abilitante, in passato denominato “licenza di commercio” e che attualmente, in attuazione dei principi di semplificazione dell’azione amministrativa, può formarsi in virtù della sola iniziativa del privato (denuncia di inizio attività DIA, segnalazione certificata di inizio attività SCIA), sempre che ricorrano condizioni e presupposti richiesti dalla legge (cfr. art. 19 l. n. 241/1990 recante la disciplina generale), risolvendosi essa, in mancanza di detti presupposti e condizioni, in attività commerciale abusiva.
Tra i presupposti del legittimo svolgimento dell’attività commerciale e, quindi, tra le condizioni richieste ai fini della formazione del titolo abilitante anche mediante la sola dichiarazione del privato (DIA, poi SCIA), va senz’altro annoverata la regolarità edilizia dell’immobile in cui l’attività viene ad essere svolta secondo il costante insegnamento della giurisprudenza, cui questa Sezione si è già in altre circostanze richiamata: «la conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità, come si evince dagli art. 24, comma 3, d.P.R. n. 380/2001, e art. 35, comma 2, l. n. 47/1985, del resto, risponde ad un evidente principio di ragionevolezza escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi destinazione, un fabbricato in potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui protezione è preordinata la disciplina urbanistico-edilizia (Consiglio Stato, sez. V, 30.04.2009, n. 2760, conforme, Id., sez. V, 16.08.2010 , n. 5701)»; «non può revocarsi in dubbio che il legittimo esercizio di un'attività commerciale sia ancorato, sia in sede di rilascio del relativo titolo autorizzatorio, sia per l'intera durata del suo svolgimento, alla disponibilità giuridica e alla regolarità urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene posta in essere (cfr. TAR Campania Napoli, sez. III, 09.09.2008, n. 10058; Id., 09.08.2007, n. 7435; Id., 27.01.2003, n. 423; Id., 22.11.2001, n. 5007)».
Nel caso di specie, l’irregolarità del cespite in cui l’attività avrebbe dovuta essere svolta è acclarata dall’avvenuta presentazione di una domanda di sanatoria edilizia straordinaria (cd. condono edilizio), rigettata dal Comune di Pozzuoli (cfr. motivazione del provvedimento impugnato) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 22.11.2012 n. 4724 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'esistenza di un sequestro penale non influisce sulla legittimità dell'ordinanza di demolizione, potendo il destinatario richiedere al giudice penale il dissequestro al fine di ottemperare alla misura repressivo ripristinatoria, così come l'eventuale rigetto dell'istanza di dissequestro neppure influisce sulla legittimità dell'ordinanza di demolizione, ma al più sull'acquisibilità del bene oggetto dell'istanza.
Riguardo all’ultimo motivo aggiunto, ritiene il Collegio che l'esistenza di un sequestro penale non influisce sulla legittimità dell'ordinanza di demolizione, potendo il destinatario richiedere al giudice penale il dissequestro al fine di ottemperare alla misura repressivo ripristinatoria, così come l'eventuale rigetto dell'istanza di dissequestro neppure influisce sulla legittimità dell'ordinanza di demolizione, ma al più sull'acquisibilità del bene oggetto dell'istanza (TAR Campania Sezione VIII 09.02.2012 n. 693; TAR Campania sez. VII 03.11.2010 n. 22291); nel caso di specie, il ricorrente non ha dimostrato, né allegato di avere richiesto il dissequestro e di non averlo ottenuto, in modo da dimostrare di aver fatto quanto nelle sue possibilità per eseguire l’ingiunzione (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 21.11.2012 n. 4700 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'equipollenza della spedizione postale alla presentazione diretta costituisce principio generale, desunto da numerose disposizioni di legge, inteso a sollevare il privato dal rischio di disfunzioni del servizio postale ed a consentirgli l'integrale disponibilità del termine; secondo tale principio, in mancanza di una regola diversa fissata nella lex specialis della procedura, il termine finale per la presentazione della domanda del privato alla pubblica amministrazione deve considerarsi osservato ove tale domanda sia inoltrata in tempo utile a mezzo raccomandata, rilevando in tal caso la data di spedizione e non quella di ricezione da parte della destinataria.
In merito a tale sindacato, ritiene il Collegio di aderire all’orientamento giurisprudenziale espresso proprio in un caso analogo, secondo cui “l'equipollenza della spedizione postale alla presentazione diretta costituisce principio generale, desunto da numerose disposizioni di legge, inteso a sollevare il privato dal rischio di disfunzioni del servizio postale ed a consentirgli l'integrale disponibilità del termine (Consiglio di Stato Sez. V, 10.02.2010 n. 655; Cassazione civile Sez. II, 05.05.2008 n. 11028; Corte dei Conti reg. Toscana, sez. giurisd., 19.04.1996 n. 199); secondo tale principio, in mancanza di una regola diversa fissata nella lex specialis della procedura, il termine finale per la presentazione della domanda del privato alla pubblica amministrazione deve considerarsi osservato ove tale domanda sia inoltrata in tempo utile a mezzo raccomandata, rilevando in tal caso la data di spedizione e non quella di ricezione da parte della destinataria” (Consiglio di Stato Sezione V, 14.09.2012 n. 6678) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 21.11.2012 n. 4699 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'acquisizione del parere della commissione edilizia comunale, in sede di esame dell'istanza di conformità ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, è da reputarsi facoltativa, considerata la mancanza di una sua espressa previsione normativa e la specialità del procedimento di sanatoria edilizia.
Infine, non è meritevole di accoglimento l’ultimo motivo, in quanto, secondo un orientamento giurisprudenziale condiviso dalla Sezione (TAR Campania VIII Sezione 10.09.2010 n. 17398), l'acquisizione del parere della commissione edilizia comunale, in sede di esame dell'istanza di conformità ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, è da reputarsi facoltativa, considerata la mancanza di una sua espressa previsione normativa e la specialità del procedimento di sanatoria edilizia (Consiglio di Stato Sez. IV, 02.11.2009, n. 6784; TAR Campania, Napoli, Sezione IV, 16.07.2003, n. 8434; Tar Campania Sezione II, 30.10.2006, n. 9243; TAR Campania Sezione VII, 21.05.2007, n. 5489; TAR Campania 05.12.2008, n. 21230; TAR Campania Sezione VI, 22.04.2009, n. 2097; TAR Campania Sezione VII, 03.11.2009, n. 6809) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 21.11.2012 n. 4698 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Lottizzazione mediante realizzazione impianto industriale.
Si ha lottizzazione (materiale) abusiva, ai sensi dell'art. 30, comma primo, del DPR n. 380/2001 "quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione".
Pertanto, qualsiasi intervento edilizio realizzato in assenza delle prescritte autorizzazioni, che, per la sua consistenza, si palesi idoneo a conferire al territorio un assetto diverso da quello previsto dagli strumenti urbanistici, integra la fattispecie della lottizzazione abusiva.
Detta fattispecie è, perciò, senz'altro integrata dalla realizzazione di un impianto di natura industriale e di altri manufatti in zona avente diversa destinazione d'uso, che stravolgano l'assetto del territorio pianificato dalla pubblica amministrazione, indipendentemente dal fatto che tale impianto renda necessaria la realizzazione di opere di urbanizzazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.11.2012 n. 44908 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: La precarietà di un manufatto, la cui realizzazione non necessita di titolo edilizio, non comportando una trasformazione del territorio, non dipende dalla sua facile rimovibilità, ma dalla temporaneità della funzione, in relazione ad esigenze di natura contingente.
Per giurisprudenza costante, la precarietà di un manufatto, la cui realizzazione non necessita di titolo edilizio, non comportando una trasformazione del territorio, non dipende dalla sua facile rimovibilità, ma dalla temporaneità della funzione, in relazione ad esigenze di natura contingente (Cons. Stato, sez. IV, 15.05.2009, n. 3029; Cons. Stato, sez. IV, 06.06.2008, n. 2705; Cass. Pen., sez. III, 25.02.2009, n. 22054).
La precarietà va, pertanto, esclusa quando -come nella fattispecie in esame- si tratta di un’opera destinata a dare un’utilità prolungata nel tempo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.11.2012 n. 2755 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nessun ordine della PA per la tinteggiatura del fabbricato brutto.
È illegittimo, per travisamento dei fatti e per sviamento del potere pubblico, il provvedimento con cui un ente locale ha ordinato l’esecuzione di lavori di tinteggiatura delle facciate di un fabbricato residenziale, motivato con riferimento all’ubicazione dello stesso in zona di notevole pregio storico e artistico, ove l’immobile versi in buono stato manutentivo.
I deducenti, proprietari di un’immobile destinato a civile abitazione e ubicato in zona residenziale esterna al centro storico cittadino, hanno gravato il provvedimento con cui il Sindaco del Comune ha ingiunto l’esecuzione di alcuni lavori di tinteggiatura delle facciate del medesimo fabbricato.
Nello specifico, hanno esposto che l’adozione del predetto atto era intervenuta nonostante le controdeduzioni formulate dagli interessati circa l’ottimo stato di manutenzione del medesimo immobile.
La civica P.A., infatti, aveva assunto l’impugnata ordinanza sulla motivazione per cui l’abitazione de quo, da un esame dello stato dei luoghi e in considerazione della sua ubicazione, si sarebbe posta "in stridente contrasto con il contesto circostante".
I ricorrenti, così, hanno eccepito plurimi profili di eccesso di potere sotto il versante del difetto di istruttoria, travisamento dei fatti e disparità di trattamento, in quanto le disposizioni del regolamento edilizio e delle N.T.A. richiamate dall’Amministrazione avrebbero disciplinato le sole attività di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio.
Il ricorso è stato accolto.
Il TAR di Brescia ha osservato che, nella vicenda, il regolamento edilizio stabiliva espressamente che: "Le parti delle case e degli edifici in genere prospettanti sulle vie e spazi pubblici … devono rispondere alle esigenze del decoro edilizio tanto per ciò che si riferisce alla corretta armonia delle linee, quanto per i materiali da impiegarsi nelle opere di decorazione e tinteggiature".
Al contempo, ha evidenziato che le N.T.A. del P.R.G. al tempo vigente prevedevano che: "Quando per effetto dell’esecuzione del P.R.G. anche una sola parte di edificio venga a essere esposta alla pubblica vista e ne derivi un deturpamento dell’ambiente urbano, è facoltà del Comune di imporre ai proprietari di sistemare le fronti secondo un progetto da approvarsi".
Alla stregua di siffatte disposizioni, il giudicante ha rilevato che l’ordine di esecuzione dei lavori di tinteggiatura avrebbe dovuto essere impartito previo idoneo giudizio estetico dell’immobile interessato.
Sul proposito, ha richiamato un recente arresto giurisprudenziale per cui: “… un giudizio estetico negativo può aversi solo con riferimento ad aspetti -attinenti, per esempio, all’uso di particolari materiali e/o colori- espressamente previsti e disciplinati dalla normativa edilizia e/o paesaggistica, i quali debbono pertanto essere adeguatamente individuati in sede motivazionale mediante il richiamo alle pertinenti disposizioni" (TAR Liguria, Sez. I, 20.04.2010, n. 1834).
Orbene, avuto riguardo al caso di specie, il Collegio ha osservato che l’edificio in proprietà dei ricorrenti non era risultato interessato da alcuna lesione, né da alcuno "stridente contrasto" con il contesto circostante; lo stesso, invero, si presentava finito con un intonaco di malta cementizia di colore uniforme, in buono stato di manutenzione e in alcun modo ammalorato.
Parallelamente, ha riscontrato sia la sussistenza di un’evidente somiglianza del fabbricato in parola con la pluralità degli immobili formanti l’abitato, tutti ugualmente terminati con intonaco "a vista", sia la circostanza per cui lo stesso non ricadeva in zona interessata da vincolo paesaggistico.
A siffatte conclusioni, del resto, l’adito TAR è giunto alla luce della documentazione versata in atti dagli interessati.
Il Tribunale amministrativo lombardo, infatti, ha precisato che il temperamento del principio dispositivo -proprio del giudizio civile- con quello acquisitivo -peculiare del processo amministrativo- deve essere definitivamente rimeditato dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 104/2010, il cui art. 64 prevede espressamente che: "Spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni … Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parte nonché i fatti non specificamente contestati dalle parti costituite".
In virtù di tale disposizione, il G.A., condividendo l’impostazione esegetica per cui: “… il tema probatorio nel giudizio amministrativo oggidì è essenzialmente assegnato alle parti e il giudice non deve supplire con propri poteri istruttori a incombenti cui la parte può diligentemente provvedere” (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 01.12.2010 n. 26440; idem, 18.03.2011, n. 438), ha conclusivamente sottolineato che i ricorrenti hanno esibito in corso di causa molteplici elementi idonei a comprovare l’eccepito travisamento dei fatti e sviamento del potere pubblico.
A quest’ultimo riguardo, ha rilevato la sussistenza di elementi che hanno documentato non solo che l’impulso dell’iniziativa repressiva era stato dato direttamente dal primo cittadino in carica, ma anche che l’Amministrazione comunale non aveva fornito alcun supporto (a titolo esemplificativo, mediante indagini comparative sugli edifici del territorio o relazioni di approfondimento) alla propria decisione finale sfociata nell’adozione dell’ordinanza sindacale.
In considerazione delle illustrate argomentazioni, il TAR di Brescia ha accolto il gravame e, per l’effetto annullato l’impugnato provvedimento (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 14.11.2012 n. 1787 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rifacimento o sostituzione tetti di edifici.
Con riferimento al rifacimento o sostituzione di tetti di edifici si verte in tema di manutenzione straordinaria non assoggettata al permesso di costruire a condizione che non venga modificata la quota di imposta ovvero alterato lo stato dei luoghi dal punto di vista planivolumetrico (modifica di superficie e/o sagome ovvero aumenti di volume) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.11.2012 n. 43490 - tratto da www.lexambiente.it).

URBANISTICA: Lottizzazione in zona urbanizzata e falso del professionista.
Si ha lottizzazione non soltanto nelle zone assolutamente inedificate ma anche in quelle parzialmente urbanizzate nelle quali si configuri un'esigenza di raccordo col preesistente aggregato abitativo e di potenziamento delle opere di urbanizzazione. Al di là della questione nominalistica il fatto che il soggetto assuma l'impegno a realizzare una consistente serie di opere di urbanizzazione primaria e secondaria per l'effetto della stipula di una convenzione urbanistica, rende evidente la necessità sostanziale di urbanizzazione ed esclude che la zona possa considerarsi urbanizzata.
Sia il progetto sia la relazione ad esso allegata sono atti professionali che per legge devono essere prodotti a corredo della domanda di permesso di costruire, che per legge richiedono un titolo di abilitazione e che sono vietati a chi non sia autorizzato allo esercizio della professione specifica. É dunque pacificamente da ritenere la sussistenza del reato di cui all'art. 481 cod. pen. anche nel caso in cui i dati esposti e le relazioni dei tecnici riguardano opere già eseguite e tali considerazioni non possono che valere evidentemente anche per la documentazione allegata alla domanda di variante in sanatoria (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.11.2012 n. 43123 - tratto da www.lexambiente.it).

AGGIORNAMENTO AL 03.12.2012

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NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Articolo 81, Decreto Legislativo n. 267/2000 – amministratori locali in aspettativa con onere del versamento in proprio della contribuzione a partire dal 1° gennaio 2008. Istruzioni contabili. Variazioni al piano dei conti (INPS, circolare 26.11.2012 n. 133 - link a www.inps.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 30.11.2012, "Aggiornamento dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche loro attribuite dall’art. 80 della legge regionale 11.03.2005, n. 2012" (decreto D.G. 22.11.2012 n. 10653).

TRIBUTI - VARI: G.U. 23.11.2012 n. 274 "Regolamento da adottare ai sensi dell’articolo 91-bis, comma 3, del decreto-legge 24.01.2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n. 27 e integrato dall’articolo 9, comma 6, del decreto-legge 10.10.2012, n. 174" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 19.11.2012 n. 200).
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Tanto per capire di che si tratta, si riporta l'art. 2:
Art. 2. - Oggetto
1. Le disposizioni del presente regolamento sono dirette a stabilire, ai sensi dell’articolo 91-bis , comma 3, del decreto-legge 24.01.2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n. 27, le modalità e le procedure per l’applicazione proporzionale, a decorrere dal 1º gennaio 2013, dell’esenzione dall’IMU per le unità immobiliari destinate ad un’utilizzazione mista, nei casi in cui non sia possibile procedere, ai sensi del comma 2 del citato articolo 91-bis , all’individuazione degli immobili o delle porzioni di immobili adibiti esclusivamente allo svolgimento delle attività istituzionali con modalità non commerciali.

DOTTRINA E CONTRIBUTI

INCARICHI PROFESSIONALI: G. Berretta, Consulenze legali ammissibili solo in casi eccezionali - I giudici contabili hanno confermato l’applicabilità della c.d. “compensatio lucri cum damno” (Diritto e Pratica Amministrativa n. 10/2012).

ESPROPRIAZIONE: G. G.A. Dato, Le garanzie nel procedimento di reiterazione dei vincoli espropriativi - L’amministrazione nel reiterare i vincoli scaduti deve accertare che l’interesse pubblico sia ancora attuale (Diritto e Pratica Amministrativa n. 9/2012).

APPALTI: S. Toschei, L’impenetrabile essenza del Durc - Secondo l’Adunanza plenaria la valutazione circa la gravità dell’irregolarità contributiva evidenziata dal Durc “negativo” preclude una valutazione autonoma da parte delle stazioni appaltanti (Diritto e Pratica Amministrativa n. 9/2012).

EDILIZIA PRIVATA: La nuova disciplina dei parcheggi Tognoli (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 18.04.2012 n. 210-2012-C).

EDILIZIA PRIVATA: Certificazione energetica ed espropriazione forzata (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 20.01.2012 n. 12-2011/E).

URBANISTICA: La disciplina sull’edilizia residenziale convenzionata dopo il Decreto sullo Sviluppo 2011 (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 20.10.2011 n. 521/2011-C).

EDILIZIA PRIVATA: La disciplina dell’attività edilizia dopo il decreto sullo sviluppo 2011 (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 08.06.2011 n. 325-2011-C).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Confermato il sì al rinnovo del contratto se previsto sin dal principio.
Con il provvedimento in rassegna, l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, ha dapprima ripercorso le tappe dell’annosa questione del rinnovo dei contratti pubblici, ricordando che, in seguito alle modifiche normative introdotte per effetto dell’art. 23 della legge n. 62/2005, la giurisprudenza ha chiarito che la finalità della norma citata era quella di adeguare l’ordinamento ai principi del diritto comunitario attraverso un intervento di portata generale diretto a precludere la rinnovazione dei contratti pubblici di appalto in deroga al principio di evidenza pubblica.
Indi, ha precisato che, su queste basi, l’Autorità aveva già concluso nel senso che, in seguito a detto intervento, residuavano margini per la previsione di rinnovi o proroghe solo in forma espressa e in presenza di determinate condizioni, distinguendo l’ipotesi in cui la possibilità di una prosecuzione del rapporto contrattuale in seguito alla scadenza sia predeterminata già nell’ambito del bando e l’ulteriore periodo sia computato ai fini della quantificazione dell’importo del contratto (deliberazione n. 183/2007 e parere n. 242/2008); d’altro canto, ha precisato altresì l’Autorità, sebbene non possa ritenersi che le disposizioni di cui all’art. 29 del codice dei contratti
costituiscano il fondamento dell’istituto della proroga o del rinnovo, visto che la norma è diretta a fissare le regole per la determinazione dell’importo contrattuale (cfr. deliberazione n. 34/2011), in base alla richiamata disposizione detto calcolo “tiene conto dell’importo massimo stimato, ivi compresa qualsiasi forma di opzione o rinnovo”. Del resto, anche un consolidato orientamento giurisprudenziale ritiene che “laddove una tale previsione sia contenuta nella lex specialis, essa potrebbe consentire una limitata deroga al principio del divieto di rinnovo, purché con puntuale motivazione l’amministrazione dia conto degli elementi che conducono a disattendere il principio generale”.
In questo senso, si è espressa la VI sez. del Consiglio di Stato (sent. n. 6194/2011) alla quale era stato sottoposto il caso di una stazione appaltante che, pur avendo indicato nel bando la possibilità “prevista dall’art. 7, secondo comma, lett. f) del Dlgs n. 157 del 17.03.1995, di affidare l’appalto al medesimo contraente per il successivo triennio” aveva poi bandito una nuova procedura di evidenza pubblica; in queste ipotesi, secondo il Consiglio di Stato “se l’amministrazione opta per l’indizione della gara, nessuna particolare motivazione è necessaria e certamente nessun diritto può riconoscersi in capo all’aggiudicatario. Non così, invece, se si avvale della possibilità di proroga prevista dal bando. Detta ultima opzione dovrà essere analiticamente motivata, dovendo essere chiarite le ragioni per le quali si sia stabilito di discostarsi dal principio generale”.
Più di recente, il Consiglio di Stato (sez. V, sent. n. 2459/2012) ha anche ribadito che “All’affidamento senza una procedura competitiva deve essere equiparato il caso in cui a un affidamento con gara segua, dopo la sua scadenza, un regime di proroga diretta che non trovi fondamento nel diritto comunitario.
Infatti, le proroghe dei contratti affidati con gara sono consentite se già previste ab origine, e comunque entro termini determinati.
Una volta che il contratto scada e si proceda a una sua proroga senza che essa sia prevista ab origine, od oltre i limiti temporali consentiti, la proroga è da equiparare a un affidamento senza gara (sez. VI, n. 850/2010 cit.)
” (deliberazione 10.10.2012 n. 85 - commento tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 11-12/2012 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTIParere dell'Autorità di vigilanza sui lavori pubblici. L'asta web? Costa.
Il gestore va pagato dalle imprese.

In un'asta elettronica per un appalto pubblico è legittimo prevedere un compenso da corrispondere al gestore del sistema informatico scelto dall'amministrazione che bandisce la gara.
È quanto afferma l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici nel parere 12.09.2012 n. 140 reso noto in questi giorni, relativo all'affidamento da parte di una Asl, tramite asta elettronica, di un accordo quadro per una fornitura.
Il punto controverso riguardava la legittimità del corrispettivo da pagare all'amministratore del sistema informatico dal momento che la stazione appaltante aveva incluso, tra i documenti da allegare all'offerta, a pena d'esclusione, il modello di apposita dichiarazione di accettazione dell'obbligo di effettuare il pagamento, per l'ipotesi di aggiudicazione della fornitura. Nella richiesta di parere si eccepiva anche il fatto che il corrispettivo fosse commisurato all'importo presunto dell'appalto (indicato nel bando), benché non vi fosse la certezza di eseguire la fornitura per l'intero importo. Su questa materia le norme vigenti ammettono che le amministrazioni si avvalgano di «un apposito soggetto per la gestione tecnica dei sistemi informatici di negoziazione», ma nulla dicono sul corrispettivo.
Su quest'ultimo punto solo l'art. 11, terzo comma, del decreto legge n. 98 del 2011 ha previsto che, con decreto del ministero dell'economia e delle finanze, saranno regolati «i meccanismi di copertura dei costi relativi all'utilizzo, e degli eventuali servizi correlati, del sistema informatico di negoziazione, anche attraverso forme di remunerazione sugli acquisti a carico degli aggiudicatari delle procedure realizzate».
Premesso che nessun provvedimento ha colmato questa lacuna, l'Autorità ha ritenuto che non essendo stato ancora emanato il dm (e in assenza di provvedimenti Provincia autonoma), «deve, allo stato, ritenersi immediatamente applicabile la previsione legislativa di principio che consente, in termini generali, alle stazioni appaltanti di porre a carico dell'impresa aggiudicataria la remunerazione dei costi di funzionamento del sistema informatico di negoziazione».
Da ciò deriva, per l'Autorità, anche la legittimità della clausola inserita dalla Asl che impone ai concorrenti di corrispondere al gestore informatico un compenso. Il che significa, che oltre al contributo per la partecipazione alla gara (previsto per tutti gli appalti e commisurato, in base a provvedimenti dell'Autorità, al valore del contratto) un concorrente che partecipa a una procedura gestita tramite asta elettronica deve anche sborsare un'ulteriore «tassa» che rappresenta un ulteriore onere di partecipazione.
Infine, per il parere risulta irrilevante anche la circostanza che il compenso sia stato commisurato all'importo presunto dell'appalto (indicato nel bando) e che quest'ultimo possa in concreto risultare superiore al corrispettivo percepito dall'aggiudicatario (articolo ItaliaOggi del 27.11.2012).

QUESITI & PARERI

LAVORI PUBBLICI: Attestazione Soa.
Domanda.
A quali fini è richiesta l'attestazione Soa?
Risposta.
L'attestazione Soa, alla luce del disposto degli articoli 78 e 79 del decreto presidente della repubblica, numero 207, del 2010, portante il regolamento di attuazione del Codice dei contratti pubblici, serve a dimostrare la capacità tecnico-organizzative, oltre a quella economico-finanziaria, del concorrente in rapporto a prestazioni oggetto dell'appalto. Essa non può essere surrogata da altro tipo di attestazione o certificazione ed è, pertanto, un titolo, nel campo dell'esecuzione di lavori pubblici, rispetto ai quali viene rilasciata, che riveste il carattere autorizzatorio, nel senso che i lavori pubblici possono essere eseguiti soltanto da chi ne sia in possesso. La Soa valuta la specifica capacità tecnica ed economica necessaria per l'esecuzione di lavori pubblici e viene rilasciata al termine di una procedura che valuta la struttura del concorrente nella sua globalità.
A livello giurisprudenziale, si rimanda alle sentenze del Tribunale regionale amministrativo (Tar) Basilicata del 03.05.2010, numero 244, di quello della Campania –Salerno, del 29.04.2011, numero 813 e del 28.07.2011, numero 1398. Si rimanda, pure, alle sentenze del Tribunale regionale amministrativo (Tar) Marche, Ancona, dell'08.11.2010, numero 3374, di quello del Lazio, Roma, sezione II-ter, del 22.12.2011, numero 10080. Spunti di giurisprudenza si trovano nella sentenza del Consiglio di stato dell'08.10.2011, numero 5496, e nella sentenza del Tribunale regionale amministrativo (Tar) Sicilia, Catania, dell'11.04.2011, numero 875 (articolo ItaliaOggi Sette del 26.11.2012).

APPALTI SERVIZI: Certificazione di qualità.
Domanda.
L'iscrizione all'albo dei gestori ambientali è sufficiente per partecipare alla gara per l'affidamento del servizio di raccolta differenziata e trasporto dei rifiuti solidi urbani?
Risposta.
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar) Lazio, Roma, sezione II-ter, con la sentenza del 22.12.2011, numero 10080, ha affermato che l'iscrizione all'albo dei gestori ambientali di cui all'articolo 212 del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, è requisito di carattere «soggettivo» e, pertanto, esso non può formare oggetto di avvalimento ai fini della partecipazione alle gare di appalti pubblici. Di conseguenza, per il predetto Tribunale regionale amministrativo, deve essere escluso dalla gara per l'affidamento del servizio di raccolta differenziata e trasporto dei rifiuti solidi urbani il concorrente che, non essendone in possesso, abbia dichiarato di volersi avvalere dell'analoga iscrizione di cui è in possesso un'impresa ausiliaria.
Detto requisito si distingue dalla certificazione di qualità, che viene rilasciata in considerazione delle caratteristiche che sono possedute dall'intera struttura aziendale nel suo complesso. Caratteristiche che sono inscindibili da detta struttura aziendale e che, quindi, non possono essere trasferiti ad altre strutture aziendali.
La predetta certificazione viene rilasciata da un soggetto esterno verificatore all'impresa, terzo e indipendente (detto organismo di certificazione), all'uopo autorizzato. Esso deve fornire attestazione scritta sull'attività soggetta a valutazione, certificando che l'attività esaminata opera con requisiti conformi alle norme tecniche. Deve pure garantire la validità nel tempo di quanto certificato, con l'impegno ad espletare adeguata sorveglianza (articolo ItaliaOggi Sette del 26.11.2012).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:  Barriere architettoniche.
Domanda
Sono amministratore di un condominio nel quale alcuni condomini hanno richiesto di installare un ascensore, taluni sono favorevoli e altri no. Dobbiamo discuterne in una prossima assemblea e riterrei utile avere informazioni sullo stato della giurisprudenza.
Risposta
La recente sentenza della Corte di cassazione n. 18334/2012 (alla cui lettura, con i richiami giurisprudenziali in essa contenuti, facciamo rinvio) è molto interessante ai fini in questione poiché approfondisce anche il senso del rapporto tra l'art. 1120 c.c. e le norme contro le barriere architettoniche, in primis artt. 2 e 3 della legge n. 13/1989.
La sentenza ribadisce che per l'applicabilità del 1° comma dell'art. 2 della legge n. 13/1989 (con i suoi quorum ridotti) è irrilevante la presenza o meno di invalidi nel condominio in quanto la norma è volta a consentirne l'accesso, senza difficoltà, in tutti gli edifici e non solo presso la loro abitazione, mentre il 2° comma consente di provvedere direttamente alle opere in caso di rifiuto del condominio.
La sentenza chiarisce poi (rispetto alle limitazioni previste dall'art. 1120, 2° c., fatte salve dall'art. 2, 3° comma della legge n. 13/1989) che il giudice (e prima ancora i condomini), per valutare se le opere determinino un pregiudizio al decoro architettonico, oltre ad accertare se esso sia effettivamente leso, deve valutare anche se tale lesione determini o meno un deprezzamento dell'intero fabbricato (non solo di alcuni appartamenti, il che non sarebbe ragione ostativa sufficiente a precludere l'intervento), essendo invece lecito il mutamento estetico che non cagioni un pregiudizio economicamente valutabile o che, pur arrecandolo, si accompagni a un'utilità che compensi l'alterazione architettonica che non sia di grave e appariscente entità, ciò che succede ancor più se le opere sono interne all'edificio.
La sentenza richiama anche l'applicabilità del principio di solidarietà condominiale (sent. 12520/2010) che impone di accertare se le norme in tema di vicinato siano compatibili con la concreta struttura dell'edificio condominiale o non siano invece irragionevoli, e quindi da disapplicare, nel contemperamento di vari interessi, ancor più se in gioco vi siano i diritti fondamentali dei disabili, tutelati sempre di più dalla legislazione degli ultimi decenni.
Lo stesso dicasi per la valutazione dell'eventuale minore servibilità delle parti comuni, che non può prevalere qualora si traduca in un semplice maggior disagio, dovendosi avere una reale inservibilità ai fini e per gli effetti dell'art. 1120, 2° comma, cod. civ.
Infine, sul tema della sicurezza (nel caso esaminato dalla sentenza si era eccepito che l'ascensore rendeva difficoltoso il passaggio di soccorsi dalle scale) occorre operare un confronto delle condizioni ante e post operam al fine di accertare se le opere possano determinare o meno una lesione di tale aspetto (articolo ItaliaOggi Sette del 26.11.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAIl D.M. n. 161/2012 disciplina anche le terre e rocce da scavo provenienti dai cantieri di piccole dimensioni? (23.11.2012 - link a www.ambientelegale.it).

LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: Comune di Monterotondo - Parere in merito alla procedura da applicare al piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari di cui all'art. 58 del decreto legge 112/2008 che comporti variante urbanistica (Regione Lazio, parere 29.10.2012 n. 423230 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Tuscania - Parere in merito alla possibilità di realizzare gli interventi previsti in un accordo di programma del 2002 non attuato (Regione Lazio, parere 11.06.2012 n. 189430 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Parere in materia di competenza sulla vigilanza su beni gravati da vincolo del Ministero dei Beni Culturali (Regione Lazio, parere 29.05.2012 n. 235897 di prot.).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALISostituzione di personale cessato nel 2012.
La Corte dei Conti, sezione regionale Lombardia, con il parere 08.11.2012 n. 476, risponde al Comune di Liscate che -a fronte di una cessazione di personale intervenuta nel 2012 e del prossimo assoggettamento dell'ente (dal 2013) alle regole del patto di stabilità- chiede se per la sostituzione della dipendente cessata sia possibile:
- nel 2012, procedere a nuova assunzione attingendo da graduatoria;
- in alternativa, sempre nel 2012, procedere a nuova assunzione attingendo alla medesima graduatoria concorsuale, in quanto l'assunzione e a cessazione della dipendente si sono verificate, entrambe, in corso d'anno;
- nel 2013, procedere all'assunzione calcolando il limite del 40% della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente su base annuale e non solo per l'effettiva durata del rapporto di lavoro della dipendente dimissionaria (due mesi).
La sezione premette che la decisione di assumere personale mediante procedura concorsuale o mediante ricorso alle procedure di mobilità è rimessa alla discrezionalità degli organi cui è demandata la gestione dell'ente; successivamente, esplicita le seguenti indicazioni:
- "... si osserva che la cessazione anticipata del rapporto di pubblico impiego è avvenuta a seguito della manifestazione di volontà dell'interessato, in costanza di procedure di assunzione già perfezionate. Soltanto la mancata presa di servizio o la carenza d'immissione in possesso dell'ufficio, condurrebbero all'incompletezza della procedura di reclutamento del pubblico impiegato, tale da evitare il verificarsi di una cessazione";
- "... l'interruzione anticipata del rapporto per dimissioni volontarie non può che generare una cessazione del rapporto di lavoro e dunque l'impossibilità di attingere alla graduatoria del concorso per scorrimento in favore del concorrente utilmente classificato, perché ciò presuppone in linea generale la mancata assunzione del vincitore, ovvero il verificarsi di ulteriori vacanze di organico successive alla conclusione della procedura di reclutamento nei ristretti termini di legge e in assenza di una disciplina di divieto di sostituzione immediata del dipendente cessato";
- "... il particolare regime vincolistico imperniato sul meccanismo del turn over frazinale, con effetto cronologico differito all'anno successivo alla cessazione del dipendente, è applicabile tanti agli enti locali non ancora sottoposti al Patto di stabilità ai sensi dell'art. 1, comma 562, della legge 27.12.2006, n. 296, quanto agli enti locali sottoposti al Patto di stabilità ai sensi dell'art. 14 del D.L. 31.05.2010, n. 78, convertito nella legge 30.07.2010, n. 122";
- "Per l'anno 2012, la sostituzione del personale è riferita alle cessazioni verificatesi nell'anno precedente (2011), pertanto il comune non è nelle condizioni di applicare l'art. 1, comma 562, della legge 27.12.2006, n. 296";
- "Per l'anno 2013, alla luce del mutamento di regime vincolistico, l'art. 14, comma 9, del citato decreto legge 31.05.2010, n. 78, oltre al rapporto percentuale fra le spese di personale sulle spese correnti (50 per cento) ai fini della possibilità di assunzione di dipendenti a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale, ha previsto che gli enti locali (superiori a 5.000 abitanti) possono procedere ad assunzioni di personale nel limite del 40 per cento della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente";
- "Ed è proprio tale sistema che impedisce al comune richiedente il parere di attingere tout court allo scorrimento della graduatoria per rimpiazzare il dipendente dimissionario. Soluzione altrimenti praticabile qualora il vincolo alle assunzioni per l'ente locale fosse riferito al solo contenimento delle risorse economiche da impegnare per le spese di personale";
- "Il permanere degli effetti giuridici della graduatoria concorsuale potrà essere utilizzato dall'amministrazione comunale qualora la medesima si trovi nella condizione di assumere personale, essendo in linea con i parametri di incidenza delle spese di personale sulle spese correnti e con il vincolo del 40 per cento degli assumibili da turn over";
- "Nello specifico, il comune potrà calcolare il limite del 40% della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente su base annuale e non sul costo effettivamente sostenuto nel caso di specie (due mesi), atteso che appare conforme ai criteri di sana gestione finanziaria che la spesa impegnata per le assunzioni abbia una base di calcolo annuale e non risenta degli avvenimenti infrannuali che incidono sul rapporto di lavoro individuale";
- "Infine, per il residuo periodo dell'anno in corso, il comune richiedente può sostituire il personale cessato unicamente mediante ricorso alla mobilità, anche intercompartimentale, fra enti pubblici che soggiacciono alla medesima disciplina vincolistica" (tratto da www.publika.it).

APPALTI SERVIZI: Servizi pubblici locali - Rinnovo senza gara dell’affidamento diverso per oggetto, durata e corrispettivo - Danno erariale - Sussiste.
C’è danno erariale nel rinnovo senza gara, e a condizioni diverse, dell’affidamento di un servizio pubblico locale a una società mista.

Con la decisione in rassegna, i giudici contabili lombardi hanno accolto l’azione di responsabilità per il danno derivante a un comune dall’adozione della deliberazione consiliare inerente all’affidamento diretto di servizi pubblici locali a una società a capitale misto pubblico privato, perché in contrasto con le regole dell’evidenza pubblica.
Nella specie, la predetta delibera consiliare aveva, sostanzialmente, previsto un rinnovo (novazione) del contratto già in essere e integrato una ipotesi di (nuovo e ulteriore) affidamento diretto, in violazione delle regole dell’evidenza pubblica, imposte in materia di servizi pubblici locali dal citato art. 113, comma 5, Dlgs n. 267/2000, nel testo in vigore all’epoca dei fatti.
Ad avviso della sezione lombarda, lo svolgimento di una procedura pubblica di selezione del socio privato (avvenuta diversi anni prima), non autorizzava dunque il successivo affidamento diretto del servizio notevolmente ampliato nell’oggetto, nel corrispettivo e nella durata alla società mista, in deroga alle regole che impongono la gara ai fini dell’affidamento del servizio medesimo. In simili casi, peraltro, il danno rilevante non è quello “alla concorrenza”, riferendosi questo, più correttamente, al danno subito dalle imprese illegittimamente escluse dall’aggiudicazione della gara, i cui interessi sono tutelabili dinanzi al giudice amministrativo, bensì è danno all’erario conseguente alla violazione delle norme imperative, comunitarie e nazionali che disciplinano le modalità di affidamento, a tutela della concorrenza, con conseguente nullità del contratto e illiceità di qualsiasi pagamento eccedente l’arricchimento senza causa.
Di qui, la conclusione nel senso della radicale nullità del contratto stipulato in esecuzione della delibera consiliare, con conseguente danno per il comune, che, avendo le prestazioni dedotte in contratto avuto comunque regolare esecuzione, deve essere limitato ai soli pagamenti eccedenti l’arricchimento senza causa e dunque all’utile d’impresa, tenuto conto dell’art. 2041 del codice civile (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia, sentenza 24.10.2012 n. 427 - commento tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 11-12/2012 - link a www.corteconti.it).).

ENTI LOCALI - VARICorte conti Campania esclude la responsabilità erariale. Multe illegittime, il sindaco non paga.
Le multe elevate dagli ausiliari della sosta possono essere annullate se il controllore con la pettorina gialla non è posto alle dirette dipendenze della società di gestione dei parcheggi. Ma questa irregolarità formale non determina necessariamente anche una responsabilità amministrativa del sindaco e del comandante dei vigili.

Lo ha chiarito la Corte dei Conti, Sez. Campania, con la sentenza 23.10.2012 n. 1629.
Il comune di Castellamare di Stabia ha affidato a una propria società in house il servizio di parcheggio negli spazi comunali che a sua volta è ricorsa ad ente associato in partecipazione per il reperimento di 28 ausiliari del traffico, successivamente confermati e nominati dall'amministrazione comunale in base all'art. 17/132 e 133 della legge 127/1997.
Il giudice di pace di Castellamare ha quindi ritenuto illegittimo il conferimento di questi poteri e per questo motivo ha annullato decine di contravvenzioni procurando un ammanco contabile nelle casse comunali di quasi 20 mila euro.
La procura regionale dei giudici contabili, successivamente a queste determinazioni, ha citato a giudizio per il ristoro dei danni erariali sia l'amministrazione comunale sia i vertici della società municipalizzata, ma senza successo.
Nonostante risulti evidente che i provvedimenti assunti dal comune di Castellamare di Stabia e dalla società municipalizzata a totale capitale pubblico, specifica la sentenza, «abbiano determinato una serie di contenziosi conclusosi sfavorevolmente con l'accertamento incidentale dell'illegittimità dei provvedimenti assunti, il collegio ritiene tuttavia che non sia ravvisabile, nel caso di specie, una responsabilità gravemente colposa».
La possibilità per i gestori dei parcheggi di avvalersi dei dipendenti di un ente associato in partecipazione è controversa perché la prestazione lavorativa di fatto risulta comunque indirizzata verso l'ente associante che la fa propria a tutti gli effetti. Il comune inoltre ha regolarmente verificato in capo a tutti gli ausiliari assunti la presenza degli altri requisiti necessari alla nomina e pertanto non può ritenersi gravemente colposa la responsabilità del primo cittadino e del comandante dei vigili. Nonostante l'assoluzione già da vari anni anche gli ausiliari del traffico del comune campano sono però stati posti alle dirette dipendenze dell'azienda comunale (articolo ItaliaOggi del 30.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Indennità di funzione degli amministratori locali - Determinazione dell’importo in misura inferiore a quella legislativamente imposta - Legittimità - Limiti di applicabilità.
L’indennità di funzione agli amministratori locali stabilita per un esercizio in misura inferiore al limite posto dalla legge non vincola il comune per il futuro.
Un sindaco ha chiesto lumi in merito alla corretta determinazione delle indennità di funzione degli amministratori locali, qualora l’importo dell’indennità venga determinato in misura inferiore rispetto al limite derivante dalla riduzione legislativamente disposta e in particolare se questa decisione vincoli l’ente anche per il futuro o se si possa successivamente riportare l’indennità entro i limiti previsti dalla legge.
Il Collegio, ha risolto il quesito posto affermando che a far data dal 2008, essendo stata esclusa qualsiasi possibilità di modifica delle indennità a seguito dell’emanazione del Dl n. 112 del 25.06.2008, convertito nella L. n. 133/2008, le delibere contenenti eventuali riduzioni, fissate in maniera superiore a quelle dettate dal legislatore, sono da intendersi come rinunce volontarie a una parte dell’indennità, le quali non hanno alcuna influenza sugli esercizi successivi (Corte dei Conti, Sez. reg. controllo Piemonte, parere 06.07.2012 n. 278 - commento tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 9/2012).

NEWS

APPALTIDECRETO CRESCITA/ Gli emendamenti dei relatori in commissione al senato. Responsabilità solidale addio. L'impresa autocertificherà che il fornitore è in regola.
Sterilizzata la responsabilità solidale nei contratti di appalto e subappalto: al committente basterà autocertificare che i subappaltatori e fornitori sono in regola con il pagamento di tasse e contributi e ciò eviterà la responsabilità solidale.
Non solo. Anche le società di revisione potranno attestare la regolarità della posizione dell'appaltatore (o subappaltatore). Via libera alla preventiva escussione del patrimonio del responsabile delle irregolarità e ampliamento dell'esclusione dalle nuove regole ai contratti stipulati ai sensi del codice dei contratti pubblici.

Questo il contenuto di un emendamento messo a punto dai relatori Simona Vicari (Pdl) e Filippo Bubbico (Pd) al dl crescita 2.0 (179/2012) in commissione industria al Senato, che sarà votato la settimana prossima e che prevede l'entrata in vigore delle modifiche dal 01.01.2013.
L'autocertificazione
L'emendamento introduce nel testo di legge quanto già in parte ammesso in via amministrativa dalla circolare 40 dell'agenzia delle entrate. Si prevede infatti il venir meno della responsabilità solidale, e anche, ai sensi dell'ultima parte del comma 28-bis, della responsabilità sanzionatoria prevista per il committente, qualora sia possibile dimostrare il regolare versamento di ritenute e Iva anche attraverso il rilascio da parte dal responsabile dell'adempimento di una dichiarazione sostitutiva di atto notorio «attestante la correttezza dei versamenti delle ritenute sui redditi dei lavoratori dipendenti impiegati nell'ambito dell'appalto e, per le prestazioni rese nel medesimo ambito, della corrispondente Iva dovuta sulle stesse».
Oltre a ciò l'emendamento collega i medesimi effetti anche alla documentazione rilasciata da una società di revisione. L'aver previsto per legge ciò che fino ad oggi lo era solo in forza di una presa di posizione della prassi è positivo, ma visto che si interveniva valeva la pena eliminare i dubbi che rendono anche questo punto non del tutto chiaro. In base alla norma l'autocertificazione deve attestare «la correttezza dei versamenti» ma nulla dice nel caso in cui tali versamenti non siano stati effettuati non in forza di un comportamento irregolare ma solo in quanto non dovuti.
Gli esempi sono quelli in cui i termini di versamento dell'Iva o delle ritenute sono successivi a quello del pagamento, o anche quello in cui a fronte delle fatture emesse non vi è Iva da versare in quanto il periodo si chiude con un credito d'imposta. La locuzione che poteva coprire tale situazioni sarebbe stata quella che richiamava la necessità di attestare i versamenti qualora dovuti e in caso contrario la regolarità del comportamento tenuto fino a quel momento.
Nonostante nemmeno l'emendamento abbia messo in chiaro tali situazioni, l'unica tesi possibile è che in mancanza di un obbligo di versamento (si pensi alla chiusura a credito della liquidazione Iva) devi ritenersi sufficiente ai fini dell'esonero dalla responsabilità solidale o sanzionatoria un autocertificazione che attesti la regolarità del comportamento.
La preventiva escussione
L'emendamento introduce nel caso di responsabilità solidale dell'appaltatore la possibilità di eccepire la preventiva escussione. Anche questo è un segnale positivo che non eviterà problemi nella pratica. Se stessa è da intendere come la possibilità per il responsabile solidale semplicemente di eccepire la necessità di una preventiva escussione prima di dover rispondere allora la previsione potrebbe cogliere nel segno. Ma se invece il responsabile solidale potrà eccepire la preventiva escussione dovendo anche indicare i beni del patrimonio del debitore sui quali l'amministrazione potrà soddisfarsi, allora è lecito avanzare dubbi sul fatto che anche ciò rappresenti una reale forma di tutela.
Da accogliere positivamente e senza dubbi è invece la previsione che porta a eliminare il termine «fornitura» dal comma 28-ter, che in precedenza rendeva l'ambito oggettivo di applicazione incerto (nel comma 28 si faceva riferimento ai contratti di appalto di opere e servizi mentre nel successivo a quelli di appalto di opere, forniture e servizi.
I contratti pubblici
Ultima modifica introdotta riguarda l'estensione dell'esclusione della normativa non più solo alle stazioni appaltanti ma anche agli «enti aggiudicatori» da intendere come le amministrazioni aggiudicatrici, le imprese pubbliche, e i soggetti che, non essendo amministrazioni aggiudicatrici o imprese pubbliche, operano in virtù di diritti speciali o esclusivi concessi loro dall'autorità competente secondo le norme vigenti (articolo ItaliaOggi dell'01.12.2012).

APPALTI SERVIZIDECRETO CRESCITA/ Un freno alle assunzioni e i project bond tra le novità. Dietrofront sui servizi locali. Eliminato il tetto dei 200 mila euro per l'in house.
Eliminato il tetto dei 200 mila euro per gli affidamenti in house di servizi pubblici previsto per il 2014 e quindi basterà rispettare le norme e la giurisprudenza comunitaria per gestire in house un servizio pubblico; previsto il divieto di assunzione del personale per le società controllate se la spesa per il personale della controllata affidataria di un servizio pubblico locale incide per più del 50% rispetto alla spesa corrente dell'amministrazione controllante; previsti i project bond anche per realizzare, potenziare o gestire un impianto o una infrastruttura destinata a pubblico servizio. Sono queste alcune delle novità previste per la disciplina dei servizi pubblici locali e non dagli emendamenti dei relatori al decreto legge 179/2012 sulla crescita.

La più rilevante modifica riguarda l'ennesimo revirement normativo sulla disciplina degli affidamenti in house di servizi pubblici locali: Si propone infatti l'eliminazione del limite massimo dell'importo di affidamento, pari a 200 mila euro, entro il quale era prevista, dall'articolo 8, comma 4 del decreto-legge 95/2012 (convertito nella legge 135, cosiddetta spending review), la possibilità di procedere ad affidamenti in house a società interamente pubbliche.
La norma di agosto stabilisce che da inizio 2014 in house si possano affidare servizi pubblici soltanto nel rispetto della giurisprudenza comunitaria e del citato limite: con l'emendamento sarà invece sufficiente rispettare i limiti dell'ordinamento comunitario.
Il che significa nella sostanza, non cambiare in alcun modo il quadro di riferimento precedente all'introduzione del limite. Si prevede inoltre che gli affidamenti in essere non conformi ai requisiti comunitari devono essere adeguati entro il termine del 31.12.2013 pubblicando, entro la stessa data, una relazione che dia conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento europeo.
Per gli affidamenti senza data di scadenza occorrerà inserire nel contratto di servizio o negli altri atti che regolano il rapporto un termine di scadenza dell'affidamento; in caso di mancato inserimento del termine si prevede la cessazione ex lege entro fine 2013.
Sul fronte delle spese per il personale delle società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo, titolari di affidamento diretto di servizi pubblici locali senza gara, ovvero che svolgono funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale, ne commerciale, ovvero che svolgono attività nei confronti della pubblica amministrazione a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica, si richiama il vincolo generale a non assumere in caso di spesa per il personale superiore al 50% delle spese correnti, ma lo si rende più incisivo. Infatti si stabilisce che se l'incidenza della spesa del personale sulla spesa corrente dell'amministrazione controllante, supera il 50% delle spese correnti, l'amministrazione controllante deve imporre un divieto all'assunzione di personale, divieto che oggi non è previsto. Introdotto anche il vincolo di contenimento sulle consulenze per rispettare il vincolo del 50%
Se l'incidenza è invece inferiore al 50% si potrà procedere a nuove assunzioni entro il limite del 40% della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente. Una certa perplessità su queste nuove modifiche arriva dall'Anci che, con Filippo Bernacchi, delegato Anci alle politiche energetiche e ai rifiuti, così commenta l'intervento modificativo: «Spero in un ravvedimento di Governo e Parlamento perché se si continua di questo passo non si avrà mai un quadro stabile, certo e definito, con le amministrazioni che continueranno a essere in bilico in quanto fra un provvedimento e l'altro, posso trovarsi in regola oppure essere in difetto».
Importante anche l'estensione dell'ambito di applicazione della disciplina dei project bond anche per realizzare, potenziare o gestire un impianto o una infrastruttura destinata a pubblico servizio (articolo ItaliaOggi dell'01.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTIAmpliata la chance dei crediti d'imposta per i partenariati pubblico-privati. Chi vince la gara paga la pubblicazione del bando.
I costi della pubblicazione sui quotidiani dei bandi e degli avvisi di gare di appalto pubblico saranno a carico di chi vince la gara; ampliata la possibilità dei crediti di imposta per i Ppp (Partenariati pubblico-privati), possibile per interventi oltre i 100 milioni e per le reti Ngn di importo inferiore a 100 milioni; chiarito che saranno certificabili anche i crediti vantati dai professionisti verso le Amministrazioni.

Sono queste alcune delle novità contenute negli emendamenti presentati dai relatori del decreto-legge 179 (c.d. «crescita 2»).
Una prima rilevante novità riguarda i costi per la pubblicità legale dei bandi e degli avvisi di gara. Si prevede infatti che per i bandi e gli avvisi pubblicati successivamente al 01.01.2013 le spese (pubblicazione per estratto sui quotidiani, ex art. 66, comma 2 del codice dei contratti pubblici) debbano essere rimborsate alla stazione appaltante dall'aggiudicatario, entro il termine di 60 giorni dall'aggiudicazione. Il costo di pubblicazione, noto al momento della gara, verrebbe quindi ad essere caricato sull'affidatario del contratto, sostanzialmente riducendo anche l'utile di un appalto.
Novità anche per il credito di imposta relativo ai contratti di partenariato pubblico-privato (deve trattarsi sempre di interventi la cui progettazione definitiva sia stata approvata entro il 31.12.2015 e per i quali non sono previsti contributi pubblici a fondo): l'emendamento dei relatori in primo luogo amplia sensibilmente il raggio di azione della norma: se nel testo del decreto-legge l'utilizzabilità del credito era prevista per interventi di valore superiore a 500 milioni, adesso nella proposta dei relatori, la norma si potrà applicare al di sopra dei 100 milioni, andando quindi a intercettare anche project finance di minore importo.
Inoltre è previsto che la norma sia applicabile anche per progetti finalizzati allo sviluppo delle reti Ngn (le cosiddette «reti di prossima generazione») sul territorio nazionale, di importo inferiore a 100 milioni di euro Dal punto di vista tecnico-operativo, poi, si prevede che il credito non sia più «a valere» su Ires e Irap, ma «utilizzabile in compensazione esclusivamente dei versamenti relativi sull'Ires e sull'Irap». Un'altra norma degli emendamenti stabilisce che i crediti non prescritti, certi, liquidi ed esigibili, di cui all'articolo 13 della legge n. 183 del 2011 e all'articolo 31 del decreto-legge n. 78 del 2010, maturati per somministrazione, forniture e appalti sono interpretati nel senso di includere anche le somme spettanti quale corrispettivo per prestazioni professionali eseguite da un professionista iscritto ad albo o collegio.
La disposizione incide sulla disciplina che consente -su istanza del creditore di somme dovute per somministrazioni, forniture e appalti- alle regioni e agli enti locali di certificare al creditore la cessione pro soluto a favore di banche o intermediari finanziari. In sostanza quindi si interviene con una norma di carattere interpretativo, cautelativamente, per evitare che le prestazioni rese dai professionisti possano essere ritenuti non ricomprese nell'ambito di applicazione oggettivo della norma.
L'emendamento dei relatori prevede che per la progettazione e la realizzazione di interventi infrastrutturali nel settore ferroviario sia Rfi il soggetto destinatario dei fondi da assegnare con le delibere Cipe.
Si introduce una sanzione «a titolo di danno alla produzione», commisurata a una percentuale che dovrà essere stabilita dal Mef, per le stazioni appaltanti che non prevedono nei capitolati di appalto il divieto di utilizzare prodotti originari di paesi terzi per più del 50% del valore della fornitura. Viene prevista anche la possibilità di trasferimento a titolo gratuito compendio costituente l'Arsenale di Venezia al Comune di Venezia, che ne assicura l'inalienabilità, la valorizzazione, il recupero e la riqualificazione, in questa operazione sarà possibile anche realizzare, fra gli altri, il Centro operativo e servizi accessori del Sistema Mose e sarà consentito destinare a titolo oneroso parti del compendio per finalità diverse dalla gestione del Mose (articolo ItaliaOggi dell'01.12.2012).

APPALTIIn gara l'azienda a credito, ma per pagare gli arretrati.
Le imprese in difficoltà per i ritardati pagamenti delle p.a. potranno aggiudicarsi gli appalti pubblici, ma per lavorare e pagare tasse e contributi arretrati.

Lo stabilisce il maxiemendamento dei relatori al ddl conversione del dl sviluppo (n. 179/2012), affidando a un decreto interministeriale la previsione di una disciplina che: a) riconosca la possibilità alle imprese non in possesso di Durc di partecipare agli appalti pubblici; b) fissi criteri e modalità per il pagamento da parte delle stazioni appaltanti agli enti previdenziali e all'Agenzia delle entrate del debito dalle stesse imprese maturato.
Il Durc, inoltre, fa ritorno alla carta. Gli operatori economici, infatti, avranno facoltà di produrre su carta il documento di regolarità contributiva, così sollevando le amministrazioni dall'obbligo di doverlo acquisire per mezzo di strumenti informatici.
Sì agli appalti pubblici, ma per pagare i debiti. Disco verde dunque alla partecipazione agli appalti pubblici, per le imprese non in possesso di Durc per ritardati pagamenti dello stato. Le regole sono affidate a un decreto interministeriale (economia, lavoro, trasporto, sviluppo economico) che dovrà arrivare entro 60 giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione del dl n. 179/2012.
La disciplina dovrà definire le misure per consentire la partecipazione alle procedure di affidamento, per la fornitura di beni e servizi e per la realizzazione di lavori, alle imprese che non sono in possesso, alla data di entrata in vigore della predetta legge di conversione, del documento unico di regolarità contributiva in ragione di comprovate difficoltà economiche e finanziarie dovute anche a ritardati pagamenti da parte della pubblica amministrazione e che, per tali ragioni, risultino debitrici nei confronti degli enti previdenziali e assistenziali e dell'Agenzia delle entrate. Non tutte le imprese ne beneficeranno, ma soltanto quelle che non sono mai state fatte oggetto di provvedimenti per fatti riconducibili a condotte illecite volte a evadere gli obblighi fiscali, previdenziali e contributivi.
Lo stesso decreto, inoltre, dovrà altresì definire:
a) i criteri e le modalità per il pagamento da parte delle stazioni appaltanti agli enti previdenziali e assistenziali e all'Agenzia delle entrate del credito maturato nei confronti delle predette imprese, comprensive di ogni sovrattassa e sanzione, a valere sugli importi definiti con i certificati di pagamento concernenti l'esecuzione di prestazioni relative alle procedure di affidamento di cui le stesse imprese risultino aggiudicatarie;
b) i criteri e le modalità per garantire il totale recupero dei crediti vantati dagli enti previdenziali e assistenziali e dell'Agenzia delle entrate nei confronti delle predette imprese e la loro continuità operativa.
Il Durc ritorna alla carta. La regolarità contributiva potrà nuovamente essere certificata direttamente dall'impresa. Infatti, il maxiemendamento modifica il dpr n. 207/2010 e il dlgs n. 163/2006 al fine di dare facoltà, agli operatori economici (negli appalti pubblici), di produrre autonomamente il Durc, così evitando che lo stesso venga acquisito d'ufficio. La novità si ripercuote, evidentemente, anche sulle modalità che oggi sono previste per la stampa del certificato.
Il maxiemendamento, a tal fine, modifica l'articolo 40 del dpr n. 445/2000 (solo un anno fa modificato dalla legge n. 183/2011, la legge di stabilità per il 2012), al fine di stabile che sulle certificazioni da produrre ai soggetti privati sia apposta, a pena di nullità, la dicitura «il presente certificato non può essere prodotto agli organi della pubblica amministrazione o ai provati gestori di pubblici servizi, a esclusione delle ipotesi di richiesta da parte degli operatori economici interessati al documento unico di regolarità contributiva» (questa la novità). Infine, la possibilità di produrre il Durc su carta è estesa anche per il pagamento degli stati di avanzamento dei lavori e dello stato finale dei lavori (articolo ItaliaOggi dell'01.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl piano delle performance diventa obbligatorio per i comuni.
Un carico di burocrazia sugli atti di gestione degli enti locali. Oltre al Piano esecutivo di gestione si configura l'obbligo di adottare un doppione: il piano della performance, previsto dalla legge Brunetta.
Gli emendamenti alla legge di conversione del dl 174/2012 rischiano di rendere confusionario il quadro delle attività di controllo e di programmazione di comuni e province. In particolare, un emendamento all'articolo 3, comma 1, lettera g) del decreto prevede di aggiungere all'articolo 169 del dlgs 256/2000 un comma 3-bis ai sensi del quale «il piano esecutivo di gestione è deliberato in coerenza con il bilancio di previsione e con la relazione previsionale e programmatica. Al fine di semplificare i processi di pianificazione gestionale dell'ente, il piano dettagliato degli obiettivi di cui all'articolo 108, comma 1, e il piano della performance di cui all'articolo 10 del decreto legislativo 27.10.2009, n. 150, sono unificati organicamente nel piano esecutivo di gestione».
La prima parte dell'emendamento, che consente di unificare il piano esecutivo di gestione (che aggancia le attività da svolgere alle risorse finanziarie) col piano dettagliato degli obiettivi è sostanzialmente inutile. I due atti di pianificazione vengono da sempre gestiti come un unico elemento, distinto in due sezioni dalla gran parte degli enti locali. La seconda parte rischia di creare lavoro pedante e inutile, laddove richiama come adempimento obbligatorio l'approvazione del piano della performance, previsto dall'articolo 10 del dlgs 150/2009.
Con l'emendamento si potrebbe configurare come obbligatorio per gli enti locali un articolo della riforma Brunetta che essa stessa riforma ha escluso applicarsi direttamente all'ordinamento di comuni e province. Gli articoli 16, 31 e 74 della riforma Brunetta, posti a indicare quali norme si applichino almeno come principi agli enti locali nemmeno menzionano l'articolo 10 del dlgs 150/2009. E non si tratta di un caso. Il piano della performance, previsto da detto articolo 10 è «un documento programmatico triennale, da adottare in coerenza con i contenuti e il ciclo della programmazione finanziaria e di bilancio, che individua gli indirizzi e gli obiettivi strategici e operativi e definisce, con riferimento agli obiettivi finali e intermedi e alle risorse, gli indicatori per la misurazione e la valutazione della performance dell'amministrazione, nonché gli obiettivi assegnati al personale dirigenziale e i relativi indicatori».
Tale piano della performance è espressamente dedicato alle sole amministrazioni statali, perché solo per esse è innovativo. I suoi contenuti sono già e da moltissimi anni previsti in due atti di programmazione degli enti locali: la relazione previsionale e programmatica e il piano esecutivo di gestione. Per altro, l'articolo 10 del dlgs 150/2009 prevede anche una scadenza per l'adozione del piano della performance, il 31 gennaio di ogni anno, assolutamente incompatibile con gli ordinari termini di approvazione dei bilanci e del Peg degli enti locali. Un doppione che è auspicabile non venga inserito nell'ordinamento locale e comunque, solo facoltativo (articolo ItaliaOggi dell'01.12.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl controllo strategico sotto il dg crea un cortocircuito organizzativo.
Un cortocircuito organizzativo e istituzionale. Il disegno di legge di conversione del dl 174/2012 rischia di creare inestricabili problemi operativi incidendo sull'autonomia dei segretari comunali e dei dirigenti, oltre che creando nuovi elementi di rivalità tra i segretari e i direttori generali.
Gli emendamenti inseriscono al comma 2 dell'articolo 147-ter del dlgs 267/2000 la previsione secondo la quale l'unità addetta al controllo strategico «è posta sotto la direzione del direttore generale, laddove previsto, o del segretario comunale negli enti in cui non è prevista la figura del direttore generale». Sono state così accolte le lagnanze dei (pochissimi) direttori generali degli enti locali, i quali avevano chiesto a gran vice che la norma specificasse la loro preposizione al controllo strategico. Quasi che il controllo strategico e la sua direzione costituiscano una posizione di privilegio o superiorità gerarchica, i direttori generali hanno ottenuto questo riconoscimento espresso delle loro funzioni, a scapito dei segretari comunali.
Una scelta discutibile, quella del legislatore, perché dà appunto la sensazione che il controllo strategico (forse a causa dell'aggettivo altisonante) risulti una funzione di natura apicale, mentre altro non è che la congiunzione tra la programmazione politica di mandato e le relazioni revisionali e programmatica triennali. Inoltre, si attribuisce un rilievo a una figura, quella del direttore generale, in via di estinzione, già eliminata in tutti i comuni con meno di 100 mila abitanti e oggettivamente vista come un doppione, anche per effetto proprio del dl 174/2012 che certamente rilancia il peso del segretario comunale.
Un rilancio anche oltre misura, almeno a causa sempre degli emendamenti al disegno di legge di conversione. I quali, se approvati, creano ragioni di complicazione e attrito anche tra segretari e dirigenti, con la possibilità di accrescere l'ingerenza degli organi di governo nella gestione. Infatti, si prevede di modificare l'articolo 147-bis, comma 3, del dlgs 267/2000 prevedendo che gli atti di controllo del segretario sui provvedimenti dei dirigenti siano trasmessi a questi ultimi «unitamente alle direttive cui conformarsi in caso di riscontrata irregolarità».
A parte la circostanza che le direttive sono atti che non implicano l'obbligo di conformazione da parte del destinatario e che i dirigenti dispongono di una specifica sfera di autonomia che non può essere lesa, in ogni caso appare singolare assegnare al segretario un potere di conformazione, visto che detto organo risulta ancora incaricato direttamente dal sindaco o dal presidente della provincia.
Il segretario comunale non gode di quella posizione di terzietà di cui un organo di controllo dotato di poteri conformativi dovrebbe disporre. Gli emendamenti rischiano, così, di rendere la riforma dei controlli uno strumento mediante il quale gli organi di governo, per il tramite di segretari troppo influenzabili, potrebbero per interposta persona e mediante i controlli gestire indirettamente. Un risultato del tutto opposto agli intenti della norma e alla Costituzione (articolo ItaliaOggi dell'01.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTISemplificazioni, si riparte dal dl sviluppo Contratti con la Pa anche senza Durc - Sull'Aspi le correzioni dopo l'accordo produttività.
FONDI STRUTTURALI/ Le risorse liberate con la riprogrammazione 2007-2013 finanzieranno gli ammortizzatori sociali in deroga.

Un passo avanti e uno di lato sul Durc, il Documento unico di regolarità contributiva che le amministrazioni devono acquisire d'ufficio dalle aziende che partecipano alle gare d'appalto. E una serie di correzioni sull'Aspi, l'assicurazione sociale per l'impiego che entrerà in vigore tra un mese. Sono questi i contenuti forse più rilevanti sul fronte delle semplificazioni del maxi-emendamento presentato dai due relatori Simona Vicari (Pdl) e Filippo Bubbico (Pd) agli articoli 33 e 34 del Dl sviluppo bis, per il quale si prevede di arrivare alla votazione finale in commissione Industria, al Senato, lunedì prossimo, per poi passare all'Aula il giorno successivo.
Sul Durc si prevede, in particolare, il riconoscimento della possibilità di partecipare a gare anche ad aziende non in regola con i versamenti se le difficoltà sono dovute a ritardi di pagamenti in corso da parte della Pa. A questa apertura, però, segue anche una correzione che reintroduce la facoltà da parte dei privati di presentare il Durc per l'aggiudicazione dei contratti o il pagamento dello stato di avanzamento dei lavori. Rispetto al divieto previsto formalmente dal «Salva Italia» e dal «Semplifica Italia» si tratterebbe di un passo indietro. E, di sicuro, la correzione non è gradita dal ministero della Funzione Pubblica e la semplificazione, da cui si continua a guardare con fiducia ai destini del Ddl «Semplificazioni-due», che dovrebbe essere messo in agenda alla Camera e che sul Durc, in particolare, prevede l'aumento della validità da 90 a 180 giorni, oltre al divieto, ribadito, di essere richiesto per ogni singolo contratto, visto che la sua validità è estesa a tutte le stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori.
Passando all'Aspi, invece, va detto subito che si tratta di piccole correzioni concordate con il Lavoro e che non producono nuovi oneri. Gli aspetti principali riguardano la gestione degli eventuali esodi di dipendenti più anziani in caso di eccedenze, come previsto dal recente accordo tra le parti sociali sulla produttività. I datori dovranno pagare l'equivalente della pensione e i contributi ai lavoratori fino alla maturazione del requisito e vengono confermati, nel contempo, gli sgravi previsti dalla circolare di ottobre sulle assunzioni di soggetti in difficoltà o la trasformazione di contratti a termine in contratti definitivi. Viene poi previsto che le risorse liberate dalla riprogrammazione dei Fondi Ue 2007-2013 potranno essere utilizzate per il rifinanziamento degli ammortizzatori sociali in deroga e saranno affidati alle regioni (tutte, non solo quelle del Sud). Infine per il lavoro a chiamata si propone la soppressione della comunicazione via fax che il datore di lavoro deve trasmettere alla direzione territoriale del lavoro competente, lasciando solo la comunicazione via sms o posta elettronica ... (articolo ItaliaOggi dell'01.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTILa legge anticorruzione, in vigore dal 28 novembre, ha abrogato la norma del 2009. P.a., bandi di gara sui giornali. Obbligo di pubblicità legale anche dopo il 01.01.2013.
Le amministrazioni, anche dopo il 01.01.2013, dovranno procedere alla pubblicazione sui quotidiani dei bandi e degli avvisi di gara per l'affidamento di contratti pubblici.

La legge «anticorruzione», n. 190/2012 (in vigore dal 28 novembre scorso), ha infatti implicitamente abrogato la norma del 2009 che prevedeva la perdita di efficacia legale della pubblicità in forma cartacea a decorrere da inizio 2013.
Vediamo quindi di ricostruire quanto avvenuto dal 2006 ad oggi.
La disciplina sulla pubblicità dei bandi e avvisi nel Codice dei contratti pubblici
Attualmente la disciplina in materia di pubblicità degli avvisi e dei bandi di gara è prevista dal dlgs 163/2006 (il Codice dei contratti pubblici) all'articolo 66, comma 7 e, per i contratti di importo inferiori alla soglia comunitaria, all'articolo 122, commi 5 e 7. Al di là della diversa tempistica di pubblicazione prevista dalle norme citate, essenzialmente si prevedono quattro modalità di pubblicità: in primo luogo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana serie speciale relativa ai contratti pubblici, sul «profilo di committente» della stazione appaltante; in secondo luogo, non oltre due giorni lavorativi dopo, sul sito informatico del ministero delle infrastrutture (di cui al dm 06.04.2001, n. 20) nonché sul sito informatico presso l'Osservatorio dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici; infine si prevede la pubblicazione, per estratto, su almeno due dei principali quotidiani a diffusione nazionale e su almeno due a maggiore diffusione locale nel luogo ove si eseguono i contratti. Allo stesso regime di pubblicità sono soggetti i risultati delle aggiudicazioni concernenti i contratti di lavori affidati con procedura negoziata, con invito a cinque o a dieci soggetti, per importi inferiori a 1 milione o a 500 mila euro.
Le modifiche del 2009
L'articolo 32 della legge 18/06/2009 n. 69 interviene sulla materia con una norma al fine di «promuovere il progressivo superamento della pubblicazione in forma cartacea».
In particolare si prevede: che dal 01.01.2010, gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si devono intendere assolti con la pubblicazione nei propri siti informatici da parte delle amministrazioni e degli enti pubblici obbligati; che, in aggiunta alle ordinarie modalità di pubblicità (si usa l'avverbio «altresì») le amministrazioni debbano pubblicare bandi e avvisi nei siti informatici, secondo modalità stabilite con decreto del presidente del consiglio dei ministri, su proposta del ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione di concerto con il ministro delle infrastrutture e dei trasporti per le materie di propria competenza.
Il comma 5 dell'articolo 32 stabilisce infine che «dal 01.01.2013 le pubblicazioni effettuate in forma cartacea non hanno effetto di pubblicità legale, ferma restando la possibilità per le amministrazioni e gli enti pubblici, in via integrativa, di effettuare la pubblicità sui quotidiani a scopo di maggiore diffusione, nei limiti degli ordinari stanziamenti di bilancio».
In linea teorica, quindi, da inizio 2013 perderebbe di efficacia legale la pubblicazione sui quotidiani, ma, come si vedrà, in effetti non è così.
Le ulteriori modifiche apportate dalla legge «anticorruzione» (n. 190/2012)
Il primo articolo della legge 06.11.2012 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 13.11.2012 n. 265) interviene nuovamente sulla materia trattandola alla luce dell'esigenza di assicurare la massima trasparenza all'azione amministrativa. Quest'ultima, infatti, (comma 15) «costituisce livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili» ai sensi della Costituzione; con questa qualificazione la trasparenza dell'azione amministrativa assurge espressamente ad obbligo di rango costituzionale (essendo peraltro già obbligo ai sensi del diritto comunitario).
È sempre il comma 15 a declinare l'obbligo di trasparenza nell'obbligo di pubblicazione, da parte delle singole amministrazioni, sui siti web istituzionali (secondo criteri di facile accessibilità, completezza e semplicità), delle informazioni relative ad una molteplicità di procedimenti amministrativi fra cui anche quelli relativi alla scelta del contraente per l'affidamento di lavori, forniture e servizi previsti dal Codice dei contratti pubblici.
Ciò detto, assume particolare rilievo quanto previsto nel successivo comma 31, laddove da un lato si prevede la delega al ministero della funzione pubblica, guidato da Filippo Patroni Griffi, all'emanazione di uno o più decreti (da adottare entro sei mesi, cioè entro metà maggio 2013) in cui siano definite, fra le altre, le informazioni rilevanti da pubblicare sui siti web, e «le relative modalità di pubblicazione» e, dall'altro lato, si introduce una disposizione «di salvezza» delle norme in materia di pubblicità contenute nel Codice dei contratti pubblici («Restano ferme le disposizioni in materia di pubblicità previste dal codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163»).
Infine il comma 32 richiama le stazioni appaltanti «in ogni caso» a pubblicare sul sito istituzionale una serie di informazioni riguardanti sia la procedura di affidamento, sia l'esecuzione del contratto (oggetto dell'appalto, importo di aggiudicazione, tempi di completamento dell'opera ecc.), informazioni che devono anche essere trasmesse all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici.
Cosa succede dal 01.01.2013
Il recentissimo intervento della legge anticorruzione pone quindi un problema interpretativo sugli effetti della norma della legge 2009 che, a fare data dal 01.01.2013, imporrebbe la perdita di efficacia della valore legale della pubblicità effettuata sui quotidiani, rispetto al comma 31 della legge 190/2012 laddove afferma che «restano ferme» le norme del Codice dei contratti in materia di pubblicità.
Appare evidente che, per i principi generali della successione delle leggi nel tempo, la norma più recente implicitamente abroga la disposizione del 2009, ponendo nel nulla la prevista perdita di efficacia, a decorrere dal 2013, della pubblicità effettuata «in forma cartacea».
L'avere fatto espressamente restare «ferme» le vigenti norme del Codice, con una disposizione che entra in vigore prima del primo gennaio 2013, automaticamente fa sì che la disposizione del 2009 debba considerarsi «tamquam non esset» e quindi inapplicabile per implicita abrogazione.
Pertanto le amministrazioni, anche dopo il primo gennaio 2013, sono tenute ad applicare integralmente gli articoli 66 e 122 del Codice dei contratti pubblici (ivi compresi gli obblighi di pubblicazione sui quotidiani) e, ovviamente, anche a pubblicare bandi e avvisi sui siti istituzionali (ma ciò avviene già dal 2010).
La salvezza delle norme del Codice sembra, in prospettiva, da ritenersi valida anche dopo l'emanazione (prevista nei prossimi sei mesi) dei decreti ministeriali di cui al comma 31 dell'articolo 1 della legge 190/2012, dal momento che l'ambito di applicazione della delega è relativo alle modalità attuative delle pubblicazioni sui siti web, ma non sembra intaccare le altre forme di pubblicità previste dal Codice dei contratti pubblici (articolo ItaliaOggi del 30.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

COMPETENZE GESTIONALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Competenza sul TSO.
Qual è l'organo competente ad adottare l'ordinanza relativa al procedimento amministrativo di trattamento sanitario obbligatorio, in assenza del Commissario straordinario incaricato della temporanea gestione dell'ente?

L'art. 34 della legge 23.12.1978, n. 833, attribuisce al sindaco la competenza ad adottare le ordinanze in materia di trattamento sanitario obbligatorio, entro 48 ore dalla convalida della proposta da parte di un medico della unità sanitaria locale.
Nel caso di specie, se il comune, ricompreso nel territorio di una regione a statuto speciale, è sottoposto a gestione commissariale e non è prevista dalla specifica normativa regionale in materia di scioglimento degli organi la nomina di vice o sub commissari, la competenza all'adozione del provvedimento in argomento spetta in via esclusiva al commissario straordinario incaricato della gestione dell'ente (articolo ItaliaOggi del 30.11.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Nuovi gruppi consiliari.
Quali norme disciplinano la costituzione di nuovi gruppi consiliari in ambito comunale? Sono ammissibili i gruppi consiliari uni personali?

La materia dei gruppi consiliari è regolata dalle norme statutarie e regolamentari adottate dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei consigli, riconosciuta espressamente agli stessi dall'art. 38, comma 3, del Tuel n. 267/2000.
In linea di principio, sono ammissibili i mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale, per effetto di dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari, ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti.
Tuttavia, sono i singoli enti locali, nell'ambito della propria potestà di organizzazione, i titolari della competenza a dettare norme, statutarie e regolamentari, nella materia e le relative problematiche dovrebbero trovare adeguata soluzione nella specifica disciplina di cui l'ente stesso si è dotato.
Riguardo all'ammissibilità dei gruppi unipersonali, se il regolamento comunale stabilisce che ciascun gruppo sia costituito da almeno due consiglieri ma che, nel caso che una lista presentata alle elezioni abbia avuto eletto un solo consigliere, a questo siano riconosciute le prerogative e la rappresentanza spettanti a un gruppo consiliare; ovvero disciplina la fattispecie di distacco successivo dal gruppo, stabilendo che il consigliere che non aderisce ad altri gruppi non acquisisce le prerogative spettanti ad un gruppo consiliare, potendo soltanto confluire nel gruppo misto, si può desumere che i gruppi unipersonali possano essere ammessi solo se coincidenti con l'unico consigliere eletto in una lista.
Peraltro, soltanto il Consiglio comunale, nella sua autonomia e in quanto titolare della competenza a dettare le norme cui conformarsi in tale materia, è abilitato a fornire un'interpretazione autentica delle norme statutarie e regolamentari di cui l'ente è munito (articolo ItaliaOggi del 30.11.2012).

EDILIZIA PRIVATASenza marchio Ce vanno sostituiti. Nuovi maniglioni per il 18 febbraio.
Entro il 18.02.2013 è obbligatorio provvedere alla sostituzione dei maniglioni non marcati Ce installati sulle porte delle vie di esodo nelle attività soggette al controllo dei vigili del fuoco ai fini del rilascio del certificato di prevenzione incendi.
Questo è quanto previsto nel decreto del 06.12.2011 del ministero dell'interno (pubblicato in G.U. n. 299 del 24/12/2011) che ha prorogato di 24 mesi il termine ultimo, inizialmente fissato dal dm 03.11.2004 al 16/02/2011, per la sostituzione dei maniglioni non marcati Ce.
Tali dispositivi devono essere conformi alle norme UNI EN 179 o UNI EN 1125 e devono essere muniti di marcature Ce (dpr 21/4/1993 n. 246). L'art. 3 del dm 03/11/2004 disciplina i casi in cui è prevista l'installazione dei maniglioni antipanico: sulle porte delle vie d'esodo, devono essere installati i dispositivi conformi alla UNI EN 179 qualora si verifichi una delle seguenti condizioni: l'attività è aperta al pubblico e la porta è utilizzabile da meno di 10 persone; l'attività non è aperta al pubblico e la porta è utilizzabile da un numero di persone superiore a 9 e inferiore a 26; sulle porte delle vie d'esodo, devono essere installati i dispositivi conformi alla UNI EN 1125 qualora si verifichi una delle seguenti condizioni: l'attività è aperta al pubblico e la porta è utilizzabile da più di 9 persone; l'attività non è aperta al pubblico e la porta è utilizzabile da più di 25 persone; i locali con lavorazione e materiali che comportino pericoli di esplosione e specifici rischi d'incendio con più di 5 lavoratori addetti.
L'introduzione dell'obbligo di marcatura Ce, attestante rispondenza a requisiti essenziali di sicurezza, comporta un nuovo ruolo per tutti gli operatori interessati. Introducendo anche un sistema di corretta identificazione del dispositivo, in funzione di parametri, quali tipo di attività, presenza di pericoli di esplosione e rischi di incendio (articolo ItaliaOggi del 27.11.2012).

CONSIGLIERI COMUNALI La copertura previdenziale a carico degli amministratori. I consiglieri comunali si pagano la pensione.
L'Inps presenta il conto ai consiglieri comunali i quali dal 2008, se vogliono la pensione devono pagarsela da soli.
Lo ricorda l'Inps nella circolare 26.11.2012 n. 133.
Finanziaria 2008. La legge finanziaria 2008 (n. 244/2007, art. 2, comma 24), ha apportato alcune modifiche alle norme del dlgs n. 267/2000 (il Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali) in materia di trattamento previdenziale degli amministratori locali. Nel testo dell'art. 81 del citato Tu è stato infatti aggiunto il seguente periodo «I consiglieri di cui all'art. 77, comma 2, se a domanda collocati in aspettativa non retribuita per il periodo di espletamento del mandato, assumono a proprio carico l'intero pagamento degli oneri previdenziali, assistenziali e di ogni altra natura previsti dall'art. 86».
Pertanto, i consiglieri dei comuni anche metropolitani e delle province e i consiglieri delle comunità montane non compresi nell'elenco di cui al citato art. 86 del Tu nei confronti dei quali in quanto eletti e rispondenti ai requisiti previsti dall'art. 31 della legge 300/1970 era già applicato il regime dell'accredito figurativo, a partire dal 01.01.2008, non hanno più titolo all'accredito gratuito, ma assumono a proprio carico il versamento di tutti gli oneri previdenziali. In altre parole, l'accredito della contribuzione figurativa utile per la pensione resta in piedi solo per i lavoratori dipendenti eletti presidenti di consigli comunali e provinciali ed i membri delle giunte. Gli altri, e cioè i semplici consiglieri, la pensione dovranno pagarsela da soli, attraverso il versamento della normale contribuzione pari al 33% della retribuzione di riferimento.
Poiché l'art. 81 sopra citato, nel porre l'onere contributivo a carico degli amministratori locali in esame nulla ha previsto in merito all'obbligatorietà dei versamenti, si ritiene che la copertura dei periodi di aspettativa ai fini previdenziali, assistenziali e assicurativi sia rimessa alla libera volontà degli interessati. Questi hanno perciò facoltà di decidere se e in quale momento presentare istanza di autorizzazione al versamento della contribuzione a loro carico.
La domanda. I consiglieri interessati, si legge nella circolare, devono presentare specifica domanda a valere dal trimestre in corso dalla data di presentazione, alla sede dell'Inps di propria competenza, corredandola con apposite dichiarazioni dell'amministrazione locale presso cui esercitano il loro mandato. Tale dichiarazione deve evidenziare la carica ricoperta, la durata del relativo mandato e la circostanza che l'amministratore è tenuto ad assolvere direttamente il carico contributivo; e del datore di lavoro, redatta sotto forma di autocertificazione.
Da tale dichiarazione devono potersi rilevare la data di instaurazione del rapporto di lavoro, la data di collocamento in aspettativa e l'eventuale data finale della stessa, la categoria e la qualifica rivestita dal lavoratore all'inizio dell'aspettativa. Per determinare la contribuzione dovuta dai consiglieri a copertura dei periodi di aspettativa si farà riferimento alla retribuzione imponibile dichiarata con il flusso EMens per le 52 settimane di lavoro immediatamente antecedenti la domanda. Ai fini del calcolo deve essere considerato l'intero ammontare della retribuzione imponibile (articolo ItaliaOggi del 27.11.201).

CONDOMINIO: LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ La riforma del condominio piace. Piacerà un po' meno ai morosi. ItaliaOggi Sette ha raccolto le opinioni degli addetti ai lavori: Confedilizia, Anaci e Sunia.
La stretta sui morosi convince gli addetti ai lavori. Sono queste infatti le disposizioni che raccolgono i favori di Confedilizia, Anaci e Sunia, in merito alla riforma del condominio, diventata legge dopo l'approvazione definitiva del ddl, martedì scorso, in commissione giustizia del senato, che riscrive quasi del tutto gli articoli 1117 e seguenti del codice civile e 61 e seguenti delle disposizioni di attuazione.
Se, infatti, Confedilizia e il Sunia (Sindacato nazionale unitario inquilini e assegnatari) esprimono un parere sostanzialmente positivo, con qualche riserva, più critica è la posizione dell'Anaci (Associazione nazionale amministratori di condomini e immobili). «Il nostro giudizio è nel complesso positivo anche se il legislatore ha mancato di coraggio non attribuendo al condominio la capacità giuridica come nella maggior parte dei paesi europei», sottolinea Corrado Sforza Fogliani, presidente di Confedilizia.
«Una norma mancata che poteva servire a limitare la conflittualità tra i condomini facilitandone i rapporti». Semaforo verde, invece, per le novità in materia di requisiti che l'amministratore dovrà possedere e che implicano l'obbligo di frequentare un corso di formazione iniziale e il possesso del diploma di scuola secondaria di secondo grado. A questo proposito, secondo Sforza Fogliani, è positivo che «la nomina di un interno, cioè di uno dei condomini dello stabile come amministratore, non richieda a quest'ultimo il possesso di alcuna formazione specifica. Un aspetto che va a salvaguardia di quegli amministratori che scelgono di svolgere questo lavoro gratuitamente».
A raccogliere i favori di Confedilizia sono anche le nuove disposizioni in materia di condomini morosi, in base alle quali l'amministratore potrà procedere con l'ingiunzione (senza autorizzazione preventiva dall'assemblea) e potrà fornire ai creditori i dati di chi non è in regola con il pagamento delle rate. Inoltre, in caso di mora che dura da più di sei mesi, dovrà sospendere il debitore dalla fruizione dei servizi comuni. «Una novità che permette di mettere tutti i condomini sullo stesso piano». Poco utile, invece, viene considerata la possibilità di creare un sito internet del condominio, da cui accedere individualmente a tutti gli atti e i rendiconti mensili. «Un'opportunità che a mio parere verrà utilizzata poco, da un lato, per la sua dispendiosità e, dall'altro, perché servirebbe per consultare una documentazione che può essere visionata già presso l'amministratore con il valore aggiunto di poter anche chiedere contestualmente delle delucidazioni».
Più critica l'Anaci. «Qualcosa di buono in questa riforma c'è, ma non abbiamo digerito che non sia stata prevista una maggiore valorizzazione della figura professionale dell'amministratore», sottolinea il presidente Pietro Membri. Parere positivo, invece, sul tema dei requisiti necessari che dovranno essere posseduti dall'amministratore, sul sito internet condominiale e sulla stretta ai condomini morosi. L'associazione considera, invece, una formalità il tema della stipula da parte dell'amministratore di una polizza a tutela dai rischi derivanti dalla professione svolta (su richiesta dell'assemblea). «Per gli iscritti alla nostra associazione, infatti, abbiamo già in automatico una garanzia per gli errori per un milione di euro». Tra i sindacati del settore, giudizi favorevoli arrivano dal Sunia.
«Per noi è positivo il fatto che la riforma sia stata fatta, abbiamo seguito il lavoro parlamentare con confronti e audizioni, e per noi il testo presenta alcuni punti innovativi, per esempio, riguardo alla diminuzione dei quorum, cioè delle maggioranze richieste per le delibere assembleari per una serie di interventi», spiega Aldo Rossi, segretario nazionale responsabile ufficio legislativo del Sunia. Anche se, a suo dire, si poteva fare di più sui temi della personalità giuridica del condominio e della partecipazione del conduttore alle assemblee per gli oneri a suo carico. Positiva l'opinione sugli obblighi di formazione per l'amministratore «perché ci devono essere garanzie di professionalità» e sulla possibilità di creare un sito internet «che potrebbe garantire maggior trasparenza ed efficienza». Inoltre, conclude Rossi, «la possibilità di rivalersi sui beni dei condomini morosi potrebbe portare a una riduzione delle liti condominiali, che a oggi rappresentano circa il 10% del contenzioso civile» (articolo ItaliaOggi Sette del 26.11.2012).

CONDOMINIOLA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Sulle delibere regole più chiare.
Con la legge di riforma della disciplina del condominio approvata martedì scorso dalla commissione giustizia del senato è stato infatti integralmente riscritto l'art. 1137 c.c., disciplinando in maniera più chiara il procedimento giudiziale di verifica della legittimità della volontà assembleare, in gran parte confermando le conclusioni alle quali era giunta la più recente giurisprudenza della Cassazione a seguito di un incessante lavorio di interpretazione durato quasi 70 anni.
Delibere nulle e annullabili.
Il legislatore ha riscritto l'art. 1137 c.c. eliminando alla radice qualsiasi dubbio sull'applicabilità della procedura di impugnazione ivi disciplinata anche ai casi di nullità delle delibere condominiali.
Nella nuova disposizione si parla infatti espressamente di annullamento delle deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio da promuovere dinanzi alla competente autorità giudiziaria nel termine perentorio di 30 giorni. Mentre in precedenza si poteva equivocare se il ricorso diretto a fare accertare in giudizio la contrarietà delle deliberazioni assembleari alla legge o al regolamento di condominio comprendesse o meno anche i casi di nullità delle stesse, la nuova versione della predetta disposizione chiarisce in modo inequivocabile che detta azione giudiziale, con particolare riferimento al menzionato termine di decadenza, è finalizzata esclusivamente all'accertamento dell'annullabilità della volontà assembleare (occorre peraltro osservare come la stessa giurisprudenza di legittimità abbia ormai confinato i casi di nullità a categorie del tutto marginali).
La legittimazione ad agire. La nuova disposizione specifica altresì che la legittimazione attiva all'impugnazione delle deliberazioni assembleari spetta tanto ai condomini presenti in assemblea, che abbiano votato in senso contrario all'approvazione della delibera, quanto a quelli assenti, quanto, infine, a quelli che, pur avendo partecipato alla riunione condominiale, sia siano astenuti dal voto. Il termine di decadenza di 30 giorni per l'impugnazione della delibera condominiale decorre dalla data dell'assemblea per i dissenzienti e gli astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti.
Le modalità di impugnazione delle deliberazioni. Con l'eliminazione della parola «ricorso» dall'art. 1137 c.c. il legislatore ha poi risolto una volta per tutte l'annosa questione se il termine in questione debba essere inteso in senso tecnico o atecnico e se, quindi, l'impugnazione delle deliberazioni assembleari debba avvenire con ricorso o con atto di citazione. La nuova disposizione si limita infatti a dire che chi intende impugnare una deliberazione assembleare che si assuma contrarie alla legge o regolamento di condominio deve chiederne l'annullamento all'autorità giudiziaria entro il termine di 30 giorni, rientrando dunque detto procedimento tra quelli ordinari, normalmente introdotti con atto di citazione.
La sospensione dell'efficacia della delibera impugnata. Con gli ultimi due commi del novellato art. 1337 c.c. si è quindi voluta ulteriormente chiarire la questione della sospensione dell'efficacia della delibera condominiale impugnata. Detta istanza, di natura cautelare, potrà quindi essere proposta tanto in costanza di causa quanto anteriormente alla stessa.
Limitatamente a quest'ultimo caso il legislatore ha però inteso specificare che l'istanza di sospensione proposta autonomamente e anteriormente all'avvio della causa di merito non sospende il termine di decadenza di 30 giorni di cui al medesimo art. 1337 c.c. ovvero, detto in altri termini, non equivale all'atto di impugnazione della volontà assembleare.
La mediazione c.d. obbligatoria delle controversie condominiali. L'art. 5 del dlgs n. 28/2010, normativa quadro in materia di mediazione, obbliga le parti a far precedere l'eventuale azione giudiziaria in materia di condominio da un tentativo di risoluzione bonaria della controversia presso specifici organismi iscritti in un apposito registro tenuto presso il ministero della giustizia.
Circa il significato del concetto di «controversia condominiale» la legge di riforma ha opportunamente chiarito che sono tali quelle derivanti dalla violazione o dall'errata applicazione delle disposizioni dettate dal codice civile e dalle relative disposizioni di attuazione in materia condominiale.
In altri termini, rientrano nella c.d. mediazione obbligatoria le liti tra condomini e tra questi ultimi e il condominio, non anche quelle tra il condominio e soggetti terzi (fornitori, ecc.).
Anche in ordine alla libertà dei litiganti di scegliere l'organismo cui inviare l'istanza di mediazione la legge di riforma ha inserito una disposizione del tutto peculiare per il condominio, prevedendo che la stessa debba essere presentata, a pena di inammissibilità, presso un organismo di mediazione ubicato nella circoscrizione del tribunale nella quale il condominio è situato. La nuova disposizione normativa opportunamente chiarisce inoltre che al procedimento di mediazione è legittimato a partecipare l'amministratore, previa delibera assembleare da assumere con la maggioranza di cui all'art. 1136, secondo comma, c.c.
È poi stato ulteriormente previsto che se i termini di comparizione davanti al mediatore non consentono di assumere la delibera di cui al terzo comma, il mediatore dispone, su istanza del condominio, idonea proroga della prima comparizione. La proposta di mediazione deve quindi essere approvata dall'assemblea con la maggioranza di cui all'art. 1136, secondo comma, c.c. Se non si raggiunge la predetta maggioranza, la proposta si deve intendere non accettata.
Si tratta di disposizioni chiare e opportune che consentono di superare molti dei dubbi fino a oggi emersi in materia di mediazione delle liti condominiali e che dovrebbero quindi agevolare il compito degli amministratori condominiali, garantendo maggiori possibilità di successo a questo particolare strumento di risoluzione delle controversie. Occorre però evidenziare come a oggi la mediazione in materia condominiale non possa più ritenersi obbligatoria a seguito dell'annuncio dato dalla Corte costituzionale lo scorso 24.10.2012 circa la dichiarazione di illegittimità, per eccesso di delega legislativa, del dlgs n. 28/2010. In questi giorni si rincorrono però le voci su possibili e immediate sanatorie per via legislativa, in attesa del deposito delle motivazioni della predetta sentenza (articolo ItaliaOggi Sette del 26.11.2012).

CONDOMINIO: LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Installazioni e modifiche veloci.
Novità in arrivo per gli impianti in ambito condominiale, sia per quanto riguarda quelli «centralizzati», che possono essere installati o modificati con delibere assembleari approvate con quorum più bassi (e quindi più rapidamente), sia per quanto riguarda quelli non centralizzati, che possono essere installati nelle proprietà esclusive secondo regole precise, mirate a evitare successive contestazioni da parti degli altri condomini.

Quindi la prima importante novità introdotta dalla riforma del condominio è la possibilità di deliberare l'installazione di impianti comuni sulla base di un consenso non necessariamente ampio da parte dei condomini.
Gli impianti satellitari e di produzione dell'energia pulita. Per favorire lo sviluppo e la diffusione delle nuove tecnologie di radiodiffusione da satellite, le opere di installazione di nuovi impianti satellitari (i c.d. padelloni) era prevista dalla legge una maggioranza ridotta e cioè un numero di voti pari al terzo dei partecipanti al condominio e almeno un terzo del valore dell'edificio.
A seguito della riforma del condominio, il cui obiettivo è certamente quello di eliminare il più possibile il numero esorbitante degli impianti singoli, è stata prevista la possibilità di installare impianti centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo (anche da satellite o via cavo) e i relativi collegamenti fino alla diramazione per le singole utenze con un delibera approvata con la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio.
Lo stesso quorum ridotto poi vale anche per la realizzazione delle opere e degli interventi diretti alla produzione di energia mediante l'utilizzo di impianti «verdi» (fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili) da parte del condominio.
Per detti impianti sparisce quindi la maggioranza dei partecipanti al condominio (che viene sostituita dalla maggioranza degli intervenuti all'assemblea) ed il valore millesimale scende al 50%.
Si può perciò dire che per approvare questi impianti, che rappresentano delle innovazioni, è richiesta la stessa maggioranza prevista per le spese straordinarie sulle parti comuni e, conseguentemente si ridurrà in modo notevole il contenzioso tra condomini sulla natura dell'intervento deliberato.
Ma le novità non finiscono qui.
Anche la richiesta di installazione di detti impianti centralizzati da parte di un solo condomino deve essere tenuta in considerazione dall'amministratore che deve inserire la questione all'ordine del giorno ed è tenuto a convocare l'assemblea entro 30 giorni dalla richiesta.
Del resto costituisce grave irregolarità il comportamento dell'amministratore che ripetutamente rifiuti di convocare l'assemblea nei casi previsti dalla legge.
Quindi l'amministratore deve convocare, sempreché la richiesta sia chiara e dettagliata.
È vero infatti che il singolo condomino o il gruppo di condomini che intendono proporre l'installazione dei detti impianti sono tenuti a indicare (evidentemente per iscritto) il contenuto specifico e le modalità di esecuzione degli interventi proposti (ma non sembra debba essere necessario un vero e proprio progetto).
In mancanza, l'amministratore deve invitare il condomino proponente a fornire le necessarie informazioni mancanti.
Naturalmente tali impianti possono essere realizzati sempreché non compromettano la sicurezza del fabbricato, non alterino il decoro architettonico o rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino.
Gli impianti non centralizzati. La riforma del condominio introduce importanti novità anche su una questione frequentemente oggetto di contenzioso tra i condomini e cioè le installazioni di impianti autonomi nelle parti comuni per la ricezione radiotelevisiva (ad esempio, parabole) e di altri flussi informativi o per la produzione di energia da fonti rinnovabili.
Così viene riconosciuto il diritto individuale del singolo condomino alla ricezione radio-Tv con impianti individuali satellitari o via cavo e ne viene confermata la libera realizzazione, senza previo voto dell'assemblea, con l'obbligo però di arrecare il minor pregiudizio possibile alle parti comuni e agli immobili di proprietà di altri condomini e prevedendo che, per la progettazione e l'esecuzione dell'impianto, i condomini siano comunque costretti a lasciare libero accesso alle loro proprietà individuali.
In ogni caso deve essere rispettato il decoro architettonico dell'edificio (ed è fatto salvo quanto previsto in materia di reti pubbliche).
Ma è consentita anche l'installazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili destinati al servizio di singole unità del condominio sul lastrico solare, su ogni altra idonea superficie comune e sulle parti di proprietà individuale dell'interessato.
Sarà l'assemblea, ai fini dell'installazione di detti impianti, a provvedere, a richiesta degli interessati, a ripartire l'uso del lastrico solare e delle altre superfici comuni, salvaguardando le diverse forme di utilizzo previste dal regolamento di condominio o comunque in atto.
Del resto, ciascun comproprietario potrebbe avere interesse ad installare pannelli per produrre energia, ma potrebbe non essere sufficiente per tutti la superficie a disposizione, o sopportabile dalla struttura il peso di più impianti ecc.; dette eventualità, fanno sì che la disponibilità dell'installazione non sia affatto scontata, ma debba essere valutata caso per caso, considerando la volontà e gli interessi di tutti i condomini interessati.
Da tenere presente che se detti impianti comportano necessariamente modifiche delle parti comuni, il condomino interessato ne dà comunicazione all'amministratore indicando il contenuto specifico e le modalità di esecuzione degli interventi.
In tal caso l'assemblea può intervenire e imporre, con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno i due terzi del valore dell'edificio, adeguate modalità alternative di esecuzione o imporre cautele a salvaguardia della stabilità, della sicurezza o del decoro architettonico del caseggiato, con possibilità di subordinare l'esecuzione alla prestazione, da parte dell'interessato, di idonea garanzia per i danni eventuali.
Tale disciplina coglie quindi in pieno l'esigenza di tutelare la sicurezza e l'estetica del condominio (articolo ItaliaOggi Sette del 26.11.2012).

CONDOMINIO LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Dura la vita per chi non paga.
Acceleratore premuto contro i condomini morosi, che possono essere attaccati sia dall'amministratore sia dai creditori del condominio.

La legge di riforma del condominio si preoccupa di ammodernare la gestione finanziaria della compagine dei comproprietari, anche se non le ha riconosciuto lo status di persona giuridica.
Lo svecchiamento dell'impianto normativo prelude in alcuni a una gestione manageriale del condominio, tanto che la stessa può essere affidata a società e può essere nominato un organo di auditing interno (una commissione consultiva e di controllo formata da condomini). Manageriale o meno (va ricordato che la riforma ammette la possibilità di forme di amministrazione in proprio con uno dei comproprietari che si presta) la riforma dà un impulso alla gestione dei crediti condominiali.
Vediamo come.
Innanzi tutto, salvo che sia stato espressamente dispensato dall'assemblea, l'amministratore è tenuto ad agire per la riscossione forzosa delle somme dovute dagli obbligati entro sei mesi dalla chiusura dell'esercizio nel quale il credito esigibile è compreso.
Il nuovo articolo 1129 del codice civile detta, dunque, i tempi all'amministratore che non può rimanere inerte.
Il termine di sei mesi, entro i quali, necessariamente, l'amministratore deve agire e chiedere un decreto ingiuntivo contro il moroso, è a disposizione dell'assemblea, ma se la stessa non ha disposto nulla di diverso, allora, è automatico.
Se l'amministratore non rispetta il termine di sei mesi e non si rivolge a un avvocato per avviare la pratica legale potrà essere chiamato a risponderne di fronte all'assemblea; così come è responsabile e può essere revocato, se, quando sia stata promossa azione giudiziaria per la riscossione delle somme dovute al condominio, abbia omesso di curare diligentemente l'azione e la conseguente esecuzione coattiva.
Una causa tipica di irregolarità nella gestione del credito e che può dare adito alla revoca dell'amministratore è aver acconsentito, per un credito insoddisfatto, alla cancellazione delle formalità eseguite nei registri immobiliari a tutela dei diritti del condominio: ogni decisione da cui può derivare una minore garanzia deve passare dall'assemblea.
Dal punto di vista del singolo condomino il periodo di mora tollerato è un semestre, trascorso il quale bisogna aspettarsi la notifica dell'atto giudiziario e in particolare di un decreto ingiuntivo.
Per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea, l'amministratore, senza bisogno di autorizzazione di questa, può, infatti, ottenere un decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo.
Si tratta di una procedura veloce, mediante la quale il creditore si rivolge direttamente al giudice cui porta le prove scritte del proprio credito, per ottenere un decreto con il quale si può passare subito alla fase del pignoramento.
Secondo un orientamento della Cassazione, è possibile chiedere l'emissione del decreto ingiuntivo anche solo sulla base del bilancio preventivo regolarmente approvato dall'assemblea.
L'esecutività non viene meno neanche nel caso in cui il condomino moroso presenti opposizione al decreto ingiuntivo.
Terminato il semestre il condomino moroso potrà anche essere sospeso dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato.
Tale sanzione, nella versione previgente del codice, si applicava soltanto nel caso in cui vi fosse una espressa previsione regolamentare condominiale che lo consentisse espressamente, mentre con la nuova versione la sanzione è prevista direttamente dalla norma e potrà risultare uno strumento particolarmente persuasivo.
L'azione dei creditori del condominio. Il condomino moroso non subisce solo attacchi interni, in quanto è esposto anche all'azione dei creditori del condominio. In base all'articolo 63 delle disposizioni di attuazione, infatti, l'amministratore è tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini morosi. E contro di questi il creditore esterno dovrà rivolgersi in prima battuta.
I creditori, infatti, non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l'escussione degli altri condomini (disposizione introdotta dalla legge di riforma).
Si tratta di un beneficio di preventiva escussione a favore dei comproprietari in regola, anche se non è chiaro se l'obbligazione del condominio sia solidale o meno (con obbligo in quest'ultimo caso del creditore di agire contro ciascun condomino nei limiti della sua quota di millesimi). La Cassazione si è schierata per quest'ultima tesi, anche se i giudici di merito non seguono unanimemente la Suprema corte.
Quanto ai soggetti tenuti al pagamento, la riforma ribadisce che chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato solidalmente con questo al pagamento dei contributi relativi all'anno in corso e a quello precedente.
Inoltre chi cede diritti su unità immobiliari resta obbligato solidalmente con l'avente causa per i contributi maturati fino al momento in cui è trasmessa all'amministratore copia autentica del titolo che determina il trasferimento del diritto. Quindi chi compra è responsabile per debiti pregressi al suo acquisito e chi vende rimane obbligato anche per debiti successivi alla vendita, fino alla data in cui non ha consegnato l'atto all'amministratore.
Chi vende rimane, dunque, ancora coinvolto delle vicende condominiali successive al passaggio di proprietà, a meno che non sia diligente nel far avere all'amministratore la copia dell'atto di vendita. Se non lo fa, il vecchio proprietario potrà ancora essere chiamato al pagamento degli oneri condominiali successivi alla compravendita non versati dall'acquirente.
Una volta riscossi (spontaneamente o coattivamente) i contributi, questi devono essere accreditati su un conto dedicato.
La riforma scrive, infatti, la regola per cui l'amministratore è obbligato a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, e quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio. Sul punto deve essere garantita la massima trasparenza: ciascun condomino, per il tramite dell'amministratore, può chiedere di prendere visione ed estrarre copia del conto (articolo ItaliaOggi Sette del 26.11.2012).

CONDOMINIO: LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Videosorvegliati, ok a maggioranza.
Via libera, ma a maggioranza, alla videosorveglianza condominiale. E con alcune cautele indicate dal Garante della privacy. La riforma del condominio, infatti, introduce l'articolo 1122-ter del codice civile, che prevede la facoltà dell'assemblea di decidere sull'installazione di impianti di videosorveglianza sulle parti comuni, con la maggioranza di cui al secondo comma dell'articolo 1136, ossia deliberazioni approvate con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio.

La norma arriva in un contesto, fino a oggi, di assenza di una presa di posizione del legislatore. Tanto che con provvedimento dell'08.04.2010 sulla videosorveglianza il Garante aveva appurato una lacuna normativa. In quella sede per i trattamenti effettuati dal condominio (anche per il tramite della relativa amministrazione), il Garante aveva evidenziato l'assenza di una puntuale disciplina che permettesse di risolvere alcuni problemi applicativi evidenziati nell'esperienza di questi ultimi anni. Infatti, che non era chiaro se l'installazione di sistemi di videosorveglianza potesse essere effettuata in base alla sola volontà dei comproprietari, o se rilevasse anche la qualità di conduttori; ancora non era chiaro quale fosse il numero di voti necessario per la deliberazione condominiale in materia (l'unanimità o una determinata maggioranza).
La legge di riforma del condominio affronta, invece, direttamente la questione e stabilisce che le deliberazioni concernenti l'installazione sulle parti comuni dell'edificio di impianti volti a consentire la videosorveglianza su di esse sono approvate dall'assemblea con la maggioranza di cui al secondo comma dell'articolo 1136 del codice civile.
Vediamo dunque cosa prevede l'articolo 1136 del codice civile, che è stato modificato. In prima convocazione per l'approvazione di una delibera ci vuole il quorum di 2/3 del valore e maggioranza per teste, e voto favorevole della maggioranza degli intervenuti e almeno metà del valore dell'edificio.
Poiché la norma fa riferimento esclusivamente al secondo comma dell'articolo 1136, si deve ritenere che la maggioranza debba sempre commutarsi secondo le soglie da esso previste.
Una volta rispettate queste maggioranze si può passare a installare le telecamere. Ma senza dimenticare che si devono osservare le precauzioni previste dal citato provvedimento generale del Garante della privacy del 2010.
Eccole, in dettaglio: le persone che transitano nelle aree videosorvegliate del condominio devono essere informate con cartelli della presenza delle telecamere, i cartelli devono essere resi visibili anche quando il sistema di videosorveglianza è attivo in orario notturno. Nel caso in cui i sistemi di videosorveglianza installati siano collegati alle forze di polizia è necessario apporre uno specifico cartello che lo evidenzi.
Contro possibili aggressioni, furti, rapine, danneggiamenti, atti di vandalismo, prevenzione incendi, sicurezza del lavoro ecc. si possono installare telecamere senza il consenso dei soggetti ripresi, ma sempre sulla base delle prescrizioni indicate dal Garante.
Particolare attenzione deve essere posta quanto al termine di conservazione delle immagini registrate.
Il provvedimento generale del Garante dell'08.04.2010 stabilisce che, nei casi in cui sia stato scelto un sistema che preveda la conservazione delle immagini, in applicazione del principio di proporzionalità, anche l'eventuale conservazione temporanea dei dati deve essere commisurata al tempo necessario e predeterminato a raggiungere la finalità perseguita. Il provvedimento passa a indicazioni nel dettaglio: la conservazione deve essere limitata a poche ore o, al massimo, alle 24 ore successive alla rilevazione. Inoltre non risulta che ricorrano circostanze tali da consentire un allungamento del periodo di conservazione. Il sistema impiegato deve essere programmato in modo da operare al momento prefissato l'integrale cancellazione automatica delle informazioni allo scadere del termine previsto da ogni supporto, anche mediante sovra-registrazione, con modalità tali da rendere non riutilizzabili i dati cancellati. In presenza di impianti basati su tecnologia non digitale o comunque non dotati di capacità di elaborazione tali da consentire la realizzazione di meccanismi automatici di expiring dei dati registrati, la cancellazione delle immagini dovrà comunque essere effettuata nel più breve tempo possibile per l'esecuzione materiale delle operazioni dalla fine del periodo di conservazione fissato dal titolare. Il mancato rispetto dei tempi di conservazione delle immagini raccolte e del correlato obbligo di cancellazione di dette immagini oltre il termine previsto comporta l'applicazione della sanzione amministrativa stabilita dall'art. 162, comma 2-ter, del Codice della privacy.
Altri adempimenti, previsti nel provvedimento generale del Garante, sono la richiesta di verifica preliminare e la nomina di responsabili e incaricati del trattamento. La verifica preliminare è necessaria per i sistemi di raccolta delle immagini associate a dati biometrici, per i sistemi di videosorveglianza dotati di software che permetta il riconoscimento della persona tramite collegamento o incrocio o confronto delle immagini rilevate (ad esempio morfologia del volto) con altri specifici dati personali e, infine, per i sistemi cosiddetti intelligenti, che non si limitano a riprendere e registrare le immagini, ma sono in grado di rilevare automaticamente comportamenti o eventi anomali, segnalarli, ed eventualmente registrarli. Devono essere nominati incaricati del trattamento le persone, da mantenere in numero ristretto, che hanno accesso alle immagini, anche se si ritiene che per la maggioranza dei casi non sia necessario la visione in tempo reale con un monitor. Non è consentita alcuna forma di registrazione audio (articolo ItaliaOggi Sette del 26.11.2012).

APPALTI: Rete imprese Italia: va escluso l'ambito Iva e serve un tetto sotto il quale le norme non si applicano. Appalti-subappalti, così non va. La responsabilità solidale va limitata solo ad alcuni settori.
Delimitare l'ambito di applicazione della responsabilità solo ad alcuni settori e sopra una certa cifra ed eliminare l'ambito Iva per l'impossibilità di effettuare controlli in tal senso. Sono le richieste di revisione della normativa sulla responsabilità solidale negli appalti avanzate da Rete imprese Italia al governo. Gli spazi per intervenire non mancano, complice la disponibilità al dialogo manifestata dall'esecutivo, ma l'ostacolo è il fattore tempo: una volta approvata la legge di stabilità, in parlamento scatterà il «rompete le righe» e si penserà alla campagna elettorale in vista delle politiche di primavera.
Le norme sulla responsabilità solidale negli appalti e i subappalti, introdotte con il decreto crescita (dl 83/2012, convertito nella l. 12.08.2012, n. 134), agitano il mondo delle imprese, soprattutto quelle di piccole e medie dimensioni, perché introducono una serie di complicazioni che rischiano di aggravare ulteriormente il lavoro quotidiano, obbligando i soggetti appaltanti, per evitare la responsabilità solidale, ad accertare il corretto pagamento dei debiti erariali da parte dei loro fornitori (appaltatori). In caso contrario il committente potrà esimersi dal regolare finanziariamente le prestazioni ottenute anche in presenza di un contratto.
«Se l'obiettivo del legislatore era portare trasparenza nel mercato, si è prodotto l'effetto opposto», commenta Andrea Trevisani, responsabile delle politiche fiscali di Confartigianato, associazione che assieme a Cna, Casartigiani, Confcommercio e Confesercenti costituisce Rete imprese Italia. «Un aspetto che dovrebbe far riflettere e portare a una rapida revisione delle norme, considerato che il tempo che resta prima che il parlamento smetta nei fatti di decidere, in vista delle prossime elezioni, è poco».
I problemi introdotti dalle norme in questione stanno portando a una (quasi) paralisi nel mercato, con i tempi di pagamento tra le aziende, un problema cronico del nostro paese, che si stanno allungando ulteriormente. Se oggi occorre attendere 137 giorni per vedersi onorato il credito (+44 giorni solo nell'ultimo anno), verosimilmente il dato andrà ritoccato verso l'alto. «Se si interpreta la norma alla lettera», prosegue Trevisani, «si arriva all'assurdo per cui se l'azienda deve sostituire la serratura di un capannone è chiamata a verificare che il fabbro convocato per l'operazione abbia versato regolarmente le ritenute ai propri dipendenti e sia a posto anche sul fronte Iva». Senza trascurare la tentazione di rinviare capziosamente i pagamenti proprio appellandosi alla lettera della legge.
La richiesta delle aziende, espressa tramite Rete imprese Italia, si fonda essenzialmente su tre punti: delimitare il settore di applicazione della norma, «che è stata introdotta in un provvedimento legislativo riguardante l'edilizia, ma che di fatto oggi si estende anche ad altri ambiti», spiega Trevisani. In secondo luogo porre un limite minimo, al di sotto del quale le misure non si applicano (i piccoli lavori in sostanza). Infine, escludere l'ambito Iva, caratterizzato da tempistiche che spesso rendono impossibile i controlli. «Restiamo sul piano dei contenuti e del buon senso», conclude il responsabile fiscale. «Ci auguriamo che si tenga conto di questo» (articolo ItaliaOggi Sette del 26.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Dl enti locali. Sanzioni fino allo scioglimento per chi non ridefinisce le verifiche su conti, gestioni e partecipate.
Controlli, riforma in tempi stretti. Il Parlamento non modifica la scadenza: sistema da rifare entro il 9 gennaio.
LA PROCEDURA/ Il varo dei regolamenti deve passare dal consiglio perché la Giunta non può approvare da sola gli «atti fondamentali».

Tempi ultra-rapidi per la «rivoluzione dei controlli» negli enti locali prevista dal Dl 174/2012 che sta compiendo gli ultimi passaggi parlamentari in vista della conversione in legge. I correttivi introdotti alla Camera nel decreto originario, che hanno ritoccato anche la nuova disciplina dei controlli, non hanno però modificato il calendario. L'avvio dei nuovi meccanismi, di conseguenza, dovrà inderogabilmente avvenire entro il 9 gennaio prossimo: il termine è quello fissato dall'articolo 3, comma 2, che anche dopo il passaggio alla Camera continua a far riferimento a 90 giorni dall'approvazione del decreto, e non dalla sua conversione in legge come spesso avviene quando il Parlamento rivede i meccanismi scritti dal Governo nel testo originario. Insomma, a meno di improbabili ripensamenti dell'ultima ora, occorrerà fare in fretta, anche per evitare di imboccare la strada che può portare a sanzioni pesantissime, fino allo scioglimento dell'ente.
L'impresa non è semplice, perché la nuova disciplina chiede di rivedere integralmente il meccanismo dei controlli interni e le stesse procedure ordinarie che caratterizzano la vita amministrativa degli enti locali e la decisione sugli atti di spesa. In pratica, si tratta di riordinare un'architettura dei controlli che poggia su tre pilastri, rappresentati dal controllo di regolarità contabile, dal controllo di gestione e da quello sugli equilibri di bilancio, a cui negli enti sopra i 15mila abitanti (la soglia era stata fissata a 10mila nel testo originario approvato dal Governo) si aggiungono i capitoli relativi al controllo strategico e a quello sulle società partecipate non quotate.
Regolarità contabile ed equilibri di bilancio sono naturalmente le due tipologie con più storia e diffusione nei controlli negli enti locali, ma ricevono dalla riforma importanti novità, a partire dal parere quasi vincolante (gli organi politici devono motivare l'eventuale deroga) che il responsabile del servizio finanziario deve dare su tutti gli atti che abbiano «riflessi diretti e indiretti sul bilancio».
Più innovativo il controllo strategico, che negli enti sopra i 15mila abitanti è chiamato a verificare i risultati conseguiti in base ai singoli obiettivi, le performance finanziarie, i tempi di realizzazione: nei Comuni maggiori esistono già molte esperienze di questo tipo, ma la nuova disciplina fissa con più puntualità caratteristiche e contenuti del controllo, che si deve estendere anche al monitoraggio sulla qualità dei servizi erogati e al tasso di soddisfazione degli utenti. Un analogo sistema di monitoraggi deve estendersi alle società partecipate, con un'analisi puntuale sui rapporti finanziari fra Comune e società, sul quadro contabile e i contratti di servizio, oltre che sul rispetto dei vincoli di finanza pubblica. Un aspetto, quest'ultimo, che appare più che problematico, come mostra l'allarme lanciato giovedì dalla Ragioneria sull'obbligo per i Comuni di vigilare sul deposito dei bilanci da parte di aziende speciali e istituzioni. Il termine scade il 30 novembre, ma praticamente nessuno ha trasmesso i dati e la vigilanza è in carico alle amministrazioni locali controllanti.
L'approvazione delle disposizioni regolamentari volte a disciplinare il controllo di regolarità amministrativa e contabile, il controllo di gestione, il controllo strategico, quello sugli equilibri di bilancio e quello sulle società partecipate è di competenza del consiglio comunale o provinciale, quindi viene ricondotto al novero degli atti fondamentali individuati dalla classificazione contenuta nell'articolo 42 del Tuel. Non sono possibili alternative (linee-guida) e nemmeno elusioni alla competenza dell'organo collegiale rappresentativo, in quanto la competenza consiliare è espressamente indicata all'articolo 3, comma 2, del decreto, e quindi impedisce un intervento della Giunta (che sarebbe viziato da incompetenza).
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L'architettura dei controlli
01 | REGOLARITÀ CONTABILE
Il controllo è esercitato in fase preventiva, come parere di regolarità tecnica e contabile degli atti, e in fase successiva, secondo principi generali di revisione aziendale. Il parere del responsabile dei servizi finanziari viene esteso a tutti gli atti che abbiano «riflessi diretti o indiretti» sugli equilibri di bilancio dell'ente locale. Il controllo sui singoli atti va effettuato utilizzando tecniche di campionamento
02 | CONTROLLO DI GESTIONE
Punta a verificare l'efficacia, l'efficienza e l'economicità dell'azione amministrativa, per ottimizzare il rapporto tra risorse impiegate e risultati conseguiti
03 | CONTROLLO STRATEGICO
Punta a verificare lo stato di attuazione effettiva dei programmi. L'ente deve rilevare i risultati conseguiti rispetto agli obiettivi e i tempi di realizzazione rispetto alle previsioni. Questa tipologia di controllo non è prevista per i Comuni con meno di 15mila abitanti
04 | EQUILIBRI FINANZIARI
È svolto sotto la direzione e il coordinamento del responsabile del servizio finanziario e tramite la vigilanza dell'organo di revisione
05 | ORGANISMI ESTERNI
L'ente locale deve definire un sistema di controlli sulle società partecipate, tramite le strutture proprie dell'ente locale
06 | QUALITÀ DEI SERVIZI
Può essere effettuato sia direttamente, sia tramite organismi gestionali esterni, con l'uso di metodi che consentano di misurare la soddisfazione degli utenti esterni e interni dell'ente (articolo Il Sole 24 Ore del 26.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 32, co. 27, lett. d), d.l. 269/2003, convertito dalla l. 326/2003, fermo restando quanto previsto dagli artt. 32 e 33 della l. 47/1985, prescrive "l'insuscettibilità della sanatoria di opere edilizie non autorizzate, realizzate su immobili soggetti a vincoli istituiti prima della esecuzione di dette opere, ove le stesse non siano conformi alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”; condizione quest'ultima, che costituisce una novità rispetto alle precedenti leggi sul condono edilizio, dando vita ad un meccanismo di sanatoria che si avvicina fortemente all'istituto dell'accertamento di conformità, previsto dall'art. 36 T.U. 380 2001.
Costituisce invero pacifico assunto giurisprudenziale quello secondo cui l'art. 32, co. 27, lett. d), d.l. 269/2003, convertito dalla l. 326/2003, fermo restando quanto previsto dagli artt. 32 e 33 della l. 47/1985, prescrive “l'insuscettibilità della sanatoria di opere edilizie non autorizzate, realizzate su immobili soggetti a vincoli istituiti prima della esecuzione di dette opere, ove le stesse non siano conformi alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”; condizione quest'ultima, che costituisce una novità rispetto alle precedenti leggi sul condono edilizio, dando vita ad un meccanismo di sanatoria che si avvicina fortemente all'istituto dell'accertamento di conformità, previsto dall'art. 36 T.U. 380 2001 (cfr., ex multis, Cons. Stato, sezione quarta, n. 3174 del 19.05.2010; Tar Campania, Napoli, questa sesta sezione, sentenze n. 912 del 22.02.2011, n. 359 del 27.01.2010, n. 844 del 10.02.2010; n. 884 del 24.01.2006; sez. quarta, 19.01.2012, n. 247; sez. settima, 01.09.2011, n. 4259, 03.11.2010, n. 22299 e n. 9355 del 24.07.2008; Sezione staccata di Salerno, sez. II, 14.01.2011, n. 26; Tar Puglia, Bari, sez. terza, 12.01.2010; Lecce, sezione terza, 10.01.2009, n. 17) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 29.11.2012 n. 4873 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA PRIVATA: Avuto conto che l'ordine di demolizione è un provvedimento adottato nell'esercizio del potere di vigilanza in materia edilizia con finalità di prevenzione e repressione dell'abusivismo edilizio, il medesimo rientra pacificamente nella competenza del dirigente ai sensi dell'art. 27 d.P.R. 06.06.2001 n. 380 e dell'art. 107, comma 3, d.lgs. 18.08.2000 n. 267.
In primo luogo, avuto conto che l'ordine di demolizione è un provvedimento adottato nell'esercizio del potere di vigilanza in materia edilizia con finalità di prevenzione e repressione dell'abusivismo edilizio, il medesimo rientra pacificamente nella competenza del dirigente ai sensi dell'art. 27 d.P.R. 06.06.2001 n. 380 e dell'art. 107, comma 3, d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (cfr., ex multis, fra le ultime, Tar Campania, Napoli, questa sesta sezione, 07.06.2012, n. 2689 e 05.06.2012, n. 2636; sezione seconda, 11.01.2012, n. 55 e, sezione terza, 13.02.2012, n. 758; Tar Lazio, Roma, sezione seconda, 08.02.2012, n. 1236).
Né l’incompetenza può dirsi sussistere per non essere il dirigente titolare delle funzioni delegate ai Comuni dalla Regione Campania, ai sensi degli artt. 8 della legge regionale n. 65/1981 e 82, comma 2, del d.P.R. 616/1977 avuto presente che il provvedimento non risulta assunto espressamente nell’esercizio “della subdelega in materia paesaggistica” rilasciata ai Comuni dalla cennata regione Campania e richiama nel suo seno il cennato art. 27 del d.P.R. 380/2001 che individua, in relazione ai poteri repressivi degli abusi in zona vincolata, una competenza autonoma del dirigente nel caso in cui l’abuso sia commesso su aree sottoposte a vincolo (sul punto cfr. anche le pronunce di questo Tribunale, questa sesta sezione, 05.06.2012, n. 2636 cit., 12.11.2010, n. 24015 e 21.04.2010, n. 2074 e, sezione seconda, 02.03.2010, n. 1263 secondo cui alle fattispecie di che trattasi è comunque è applicabile la cennata normativa statale)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 29.11.2012 n. 4867 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In caso di ordine di demolizione non è richiesta una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati: il presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione è costituito, infatti, esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in difformità dal titolo abilitativo o in sua assenza, con la conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con la descrizione delle opere abusive e il richiamo alla loro accertata abusività, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla rimozione e al ripristino dell'assetto urbanistico violato.
In materia di demolizione di immobili abusivi, in considerazione della natura vincolata del potere, non è configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto.

Costituisce infatti consolidata interpretazione giurisprudenziale:
- quella per cui “...in caso di ordine di demolizione non è richiesta una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati: il presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione è costituito, infatti, esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in difformità dal titolo abilitativo o in sua assenza, con la conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con la descrizione delle opere abusive e il richiamo alla loro accertata abusività, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla rimozione e al ripristino dell'assetto urbanistico violato” (così, da ultimo, la giurisprudenza della Sezione fin qui richiamata e, negli stessi sensi, sezione ottava, 09.02.2012, n. 693 e Tar Puglia, Lecce, sez. III, 04.02.2012, n. 227);
- quella convergente, secondo cui in materia di demolizione di immobili abusivi, in considerazione della natura vincolata del potere, non è “configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto” (cfr., da ultimo, Cons. Stato sezione quarta, 16.04.2012, n. 2185 e Tar Campania, questa sesta sezione, 07.06.2012, n. 2689 cit.)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 29.11.2012 n. 4867 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZICorte Ue. Le condizioni per la dispensa dei Comuni dalla procedura di aggiudicazione
Appalti snelli con controllo. Verifiche effettive sulla società che è costituita per la gestione.
I REQUISITI/ Necessaria la partecipazione non solo formale degli enti promotori sia al capitale sia agli organi direttivi.

La Corte di giustizia europea mette i paletti sulle modalità di aggiudicazione degli appalti da parte delle società che gestiscono servizi pubblici.
Così la sentenza 29.11.2012 nelle cause C-182/11 e C-183/11 stabilisce che «quando più autorità pubbliche, nella loro veste di amministrazioni aggiudicatrici, istituiscono in comune un'entità incaricata di adempiere compiti di servizio pubblico ad esse spettanti, tali autorità, per essere dispensate dal loro obbligo di avviare una procedura di aggiudicazione di appalto pubblico in conformità alle norme del diritto dell'Unione, devono esercitare congiuntamente sull'entità in questione un controllo analogo a quello da esse esercitato sui propri servizi, ciascuna delle autorità stesse partecipi sia al capitale sia agli organi direttivi dell'entità suddetta».
I fatti: il Comune di Varese, per gestire il servizio di igiene urbana, ha costituito la spa Aspem (con un capitale sociale di 173.785 euro, corrispondente ad altrettante azioni del valore nominale di 1 euro ciascuna), come prestatore di servizi "in house", di cui deteneva la quasi totalità del capitale (173.467 azioni). Nel 2005, i Comuni di Cagno e di Solbiate hanno scelto la gestione coordinata, con altri Comuni del servizio di eliminazione dei rifiuti solidi urbani, e hanno concluso una convenzione con quello di Varese. Alla Aspem hanno aderito in qualità di azionisti pubblici (acquisendo un'azione ciascuno). Le restanti 318 azioni sono suddivise tra 36 Comuni della provincia di Varese, con partecipazioni individuali che variano da 1 a 19 azioni.
Parallelamente all'acquisizione di tale partecipazione, i Comuni di Cagno e di Solbiate hanno sottoscritto un patto parasociale, che prevedeva il diritto di essere consultati, di nominare un membro del collegio sindacale e di designare, in accordo con gli altri Comuni partecipanti un consigliere di amministrazione. La società Econord ha contestato l'affidamento diretto dei servizi alla Aspem, facendo valere che il controllo dei due Comuni sulla Aspem non era garantito e, di conseguenza, l'attribuzione dell'appalto avrebbe dovuto essere effettuata in conformità alle norme del diritto dell'Unione.
Il Consiglio di Stato sottolinea che il Comune di Varese esercita il pieno controllo sulla Aspem, mentre ciò non vale per i Comuni di Cagno e di Solbiate, in quanto l'acquisizione di una sola azione e un patto parasociale singolarmente debole non darebbero luogo a alcun controllo congiunto effettivo. Ha chiesto alla Corte di chiarire la nozione di esercizio di un «controllo analogo» a quello esercitato dall'ente pubblico sui propri servizi.
La Corte di giustizia europea chiarisce che, quando più autorità pubbliche fanno ricorso a un'entità comune per svolgere un compito di servizio pubblico, non è indispensabile che ciascuna di esse detenga da sola un potere di controllo individuale su tale entità. Tuttavia, il controllo non può fondarsi soltanto sul controllo dell'autorità pubblica che detiene una partecipazione di maggioranza nel capitale dell'entità, in quanto la nozione stessa di controllo congiunto verrebbe svuotata di significato.
Infatti, l'eventualità che un'amministrazione abbia, nell'ambito di un ente posseduto in comune con altre amministrazioni, una posizione non idonea a garantirle la benché minima possibilità di partecipare al controllo di tale entità, aprirebbe la strada a un'elusione delle norme del diritto Ue. Infatti, una presenza puramente formale nella compagine di tale entità dispenserebbe l'amministrazione dall'obbligo di avviare una procedura di gara d'appalto. Toccherà allora al Consiglio di Stato verificare l'effettività del controllo.
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LA SENTENZA
Date tali premesse, non vi è dubbio che, ove più autorità pubbliche facciano ricorso ad un'entità comune ai fini dell'adempimento di un compito comune di servizio pubblico, non è indispensabile che ciascuna di esse detenga da sola un potere di controllo individuale su tale entità; ciononostante, il controllo esercitato su quest'ultima non può fondarsi soltanto sul potere di controllo dell'autorità pubblica che detiene una partecipazione di maggioranza nel capitale dell'entità in questione, e ciò perché, in caso contrario, verrebbe svuotata di significato la nozione stessa di controllo congiunto.
Infatti, l'eventualità che un'amministrazione aggiudicatrice abbia, nell'ambito di un'entità affidataria posseduta in comune, una posizione inidonea a garantirle la benché minima possibilità di partecipare al controllo di tale entità aprirebbe la strada ad un'elusione (...) - Corte di giustizia Ue, sentenza nelle cause C-182/11 e altre (articolo Il Sole 24 Ore del 30.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze sottotetti: è derogata la norma locale dal confine.
Con ordinanza 27.11.2012 emessa nel ricorso ex artt. 1170 c.c. / 703 c.p.c. n. 359/11 R.G. Cont., il Tribunale di Como, sezione distaccata di Menaggio, ha messo un punto fermo su una circostanza pacifica per gli operatori di diritto ma non per le pubbliche amministrazioni. Ossia che l’intervento di recupero del sottotetto esistente, autorizzato ai sensi della l.r. 12 del 2005, essendo “ammesso anche in deroga ai limiti ed alle prescrizioni degli strumenti di pianificazione comunale vigenti ed adottati” (art. 64, c. II), se non deroga alle distanze di cui al D.M. 1444/1968, articolo 9, deroga invece alle locali distanze dai confini.
In altre parole: la qualificazione di un intervento di recupero del sottotetto come nuova costruzione ai fini della applicazione della normativa di materia di distanze tra edifici vale qualora si voglia verificare la corretta applicazione del DM 1444/1968, ma è indifferente qualora la si intenda declinare in termini di rispondenza alle disposizioni regolamentari perché:
• l'art. 9 del DM 1444/1968 nulla dispone in materia di distanze dai confini, trattandosi di disposizione espressamente dedicata a pareti di edifici che si fronteggiano;
• l’articolo 64, comma 2, L.R. 12/2005 dispone che gli interventi di recupero di sottotetti, al di là della qualificazione di ^ristrutturazione^ offerta, operino “anche in deroga ai limiti ed alle prescrizioni degli strumenti di pianificazione comunale vigenti ed adottati”, con la sola eccezione delle normative locali relative al reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali. Nella fattispecie, l’articolo 16.2 delle NTA del Comune di Menaggio (tratto e link   - link a www.studiospallino.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per espresso disposto normativo (art. 4, comma 6, della L. 28.01.1977 n. 10, poi confluito nell’art. 11 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380), la concessione edilizia (ed ora il permesso di costruire) è irrevocabile.
Invero, come lamentato con il primo motivo, per espresso disposto normativo (art. 4, comma 6, della L. 28.01.1977 n. 10, poi confluito nell’art. 11 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380), la concessione edilizia (ed ora il permesso di costruire) è irrevocabile (cfr. Consiglio di Stato, Sezione VI, 27.06.2005 n. 3414; TAR Lombardia, Milano, Sezione II, 27.10.2009 n. 4929 e 19.10.2011 n. 2478).
Va aggiunto che, nel caso di specie, il provvedimento va qualificato come revoca in senso proprio, poiché l’amministrazione non ha inteso avvalersi della potestà di autoannullamento, consentita anche per i titoli edilizi, non avendo posto a base dell’azione un vizio di legittimità tale da invalidare l’atto di primo grado sin dalla sua origine (cfr. Consiglio di Stato, sezione V, 27.11.1981 n. 609), ma sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero un mutamento della situazione di fatto (secondo la definizione recepita dall’art. 21-quinquies della L. n. 241/1990, introdotto dalla L. n. 15/2005) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 23.11.2012 n. 4785 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ai fini dell'esercizio del diritto di accesso occorre la dimostrazione di una rigida "necessità" e non mera "utilità" del documento" cui si chiede di accedere.
Ai fini dell'applicazione dell'art. 24, c. 7, della l. n. 241 del 1990, per il quale l'accesso deve essere garantito se la conoscenza dei documenti sia "necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici", occorre la dimostrazione di una rigida "necessità" e non mera "utilità" del documento" cui si chiede di accedere, tanto più nei casi in cui l'accesso sia esercitato non già in relazione agli atti di un procedimento amministrativo di cui il richiedente è parte, ma in relazione agli atti di procedimenti amministrativi rispetto ai quali il richiedente è terzo, non configurandosi, di conseguenza, la posizione legittimante quando "i documenti richiesti non sono necessari per la difesa in giudizio ma solo utili per articolare la difesa in giudizio secondo una particolare modalità, ossia per articolare una particolare censura", configurandosi altrimenti, la fattispecie del mero controllo generalizzato dell'attività amministrativa precluso dall'art. 24, c. 3, della l. n. 241 del 1990 (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 22.11.2012 n. 5936 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
Le censure sono destituite di fondamento: in primo luogo, nei provvedimenti impugnati (in particolare nell’ordinanza di sospensione n. 7087) è fatto espresso riferimento al fatto che i lavori abusivi sono stati realizzati in zona vincolata e che il provvedimento è emanato ai sensi del d.lgs. 29.10.1999 n. 490 Tit. II, Capo II e III, per cui nessuna incertezza si rinviene in ordine al contrasto degli abusi commessi con la normativa paesaggistico-ambientale e urbanistico-edilzia.
A ciò si aggiunga che per l’entità degli abusi contestati il provvedimento finale di demolizione, che già in astratto costituisce atto vincolato (come costantemente affermato dalla giurisprudenza di questo Tribunale, condivisa da questo Collegio: “…presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi”, TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 1999), nel caso di specie non richiede, a maggior ragione, specifiche ed ulteriori motivazioni in ordine alle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati (tra le molte, TAR Campania, sez. VIII, 29.01.2009, n. 501) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 22.11.2012 n. 4747 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: La dimostrazione del possesso di una determinata qualificazione, imposta dalla legge, deve essere fornita dai concorrenti anche se non richiesta dal bando, entro il termine per partecipare alla gara di appalto.
Nel caso in cui la prestazione, oggetto dell'appalto, presupponga il possesso di una determinata qualificazione, imposta dalla legge, la relativa dimostrazione deve essere fornita dai partecipanti anche se non richiesta dal bando di gara, entro il termine per partecipare al procedimento e la sua mancanza può essere superata avvalendosi del subappalto ma, in tal caso, la domanda di partecipazione deve indicare espressamente il subappaltatore (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.11.2012 n. 5900 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA PRIVATA: La competenza all'emanazione di sanzioni demolitorie rese sino all'anno 1998 deve reputarsi appartenente al Sindaco e non all'organo dirigenziale essendo stata la stessa trasferita espressamente ai dirigenti solo ai sensi dell'art. 2, comma 12, l. 16.06.1998, n. 191.
Tanto, beninteso, in assenza di norme regolamentari che, nei singoli Comuni, in forza della previgente normativa primaria a partire dalla l. 142 del 1990, avessero già attuato “il principio legislativo” del trasferimento delle competenze dal sindaco agli organi dirigenziali del Comune.

Va per contro osservato come, secondo la costante giurisprudenza della Sezione, la competenza all'emanazione di sanzioni demolitorie rese sino all'anno 1998 deve reputarsi appartenente al Sindaco e non all'organo dirigenziale essendo stata la stessa trasferita espressamente ai dirigenti solo ai sensi dell'art. 2, comma 12, l. 16.06.1998, n. 191 (cfr., ex multis, Tar Campania, Napoli, questa sesta sezione, 05.06.2012, n. 2365; 23.05.2012, n. 2373; 30.04.2008, n. 3072; 03.04.2008, n. 1832; cfr. ancora, negli stessi sensi, Tar Toscana, Firenze, sezione terza, 26.11.2010, n. 6627).
Tanto, beninteso, in assenza di norme regolamentari che, nei singoli Comuni, in forza della previgente normativa primaria a partire dalla l. 142 del 1990, avessero già attuato “il principio legislativo” del trasferimento delle competenze dal sindaco agli organi dirigenziali del Comune (cfr. Cons. Stato, sezione quinta, 06.03.2000, n. 1149 e Tar Campania, sempre questa sesta sezione, 05.06.2012, n. 2365 cit.): circostanza, questa, la cui sussistenza qui non è dedotta (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 20.11.2012 n. 4675 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: E' riservata all'aggiudicatario, nell'ambito della sue autonome determinazioni imprenditoriali, la scelta se "confermare" la sua offerta ormai scaduta a seguito dell'eccessivo prolungamento delle operazioni di gara.
La sopravvenuta scadenza del termine di validità dell'offerta a seguito dell'eccessivo prolungamento delle operazioni di gara (ovvero, come nel caso di specie, per effetto di ulteriori trattative intraprese per la modifica di alcune pattuizioni) consente all'aggiudicatario la scelta di disimpegnarsi da ogni vincolo negoziale senza incorrere in alcuna sanzione, ovvero di "confermare", anche tacitamente, l'offerta stessa accettando la stipula contrattuale.
In sostanza, è riservata all'aggiudicatario, nell'ambito della sue autonome determinazioni imprenditoriali, la scelta se "confermare" la sua offerta ormai scaduta, addivenendo alla stipula, ovvero esercitare il suo diritto di "recesso" dalla fase della stipula (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 20.11.2012 n. 783 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: L'obbligo di produrre la dichiarazione in ordine ai requisiti di cui all'art 38 del d.lgs. n. 163/2006, è imposta da una norma inderogabile dell'ordinamento.
La dichiarazione ex art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, è dovuta anche dall'amministratore che - sebbene non abbia un ruolo operativo (in generale o rispetto alla specifica gara) - sia comunque "munito" del potere di rappresentanza.

La necessità di produrre la dichiarazione in ordine ai requisiti di cui all'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, trova fonte in una norma inderogabile dell'ordinamento, con la conseguenza che, qualora la dichiarazione sia omessa o sia incompleta, è del tutto legittima l'esclusione dalla gara del soggetto che non ha reso le dovute dichiarazioni, con la conseguenza che l'omissione della dichiarazione non può beneficiare del cosiddetto "potere di soccorso" (art. 46, c. 1, del d.lgs. n. 163/2006) tramite l'integrazione postuma.
Nelle procedure di evidenza pubblica la completezza delle dichiarazioni è un valore da perseguire perché consente -anche in ossequio al principio di buon andamento dell'amministrazione e di proporzionalità- la celere decisione in ordine all'ammissione dell'operatore economico alla gara. Conseguentemente una dichiarazione inaffidabile (perché falsa o incompleta) è già di per sé stessa lesiva degli interessi considerati dalla norma a prescindere dal fatto che l'impresa meriti 'sostanzialmente' di partecipare alla gara. In altri termini, nel diritto degli appalti occorre poter fare affidamento su una dichiarazione idonea a far assumere tempestivamente alla stazione appaltante le necessarie determinazioni in ordine all'ammissione dell'operatore economico alla gara o alla sua esclusione. La dichiarazione ex art. 38, dunque, è sempre utile perché l'amministrazione sulla base di quella può/deve decidere la legittima ammissione alla gara e conseguentemente la sua difformità dal vero o la sua incompletezza non possono essere "sanate" ricorrendo alla categoria del falso innocuo.
Gli amministratori muniti di potere di rappresentanza devono necessariamente rendere la dichiarazione richiesta dall'art. 38 del codice dei contratti a prescindere dal fatto, peraltro di difficile (e dubbia) prova, che nella sostanza non svolgano attività. E', infatti, anche sulla scorta della formula di legge ("muniti"), che la giurisprudenza ritiene che ciò che conta è la titolarità del potere e non anche il suo esercizio (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 19.11.2012 n. 1814 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

LAVORI PUBBLICI: Sulla categoria della "concessione di lavori pubblici" e conseguenti implicazioni in tema di riparto di giurisdizione.
Nel nuovo quadro normativo (d.lgs. n. 163 del 2006), non è più consentita la precedente distinzione tra concessione di sola costruzione e concessione di gestione dell'opera (o di costruzione e gestione congiunte), ma sussiste l'unica categoria della "concessione di lavori pubblici", ove prevale il profilo autoritativo della traslazione delle pubbliche funzioni inerenti l'attività organizzativa e direttiva dell'opera pubblica, con le conseguenti implicazioni in tema di riparto di giurisdizione "in quanto, ormai, la gestione funzionale ed economica dell'opera non costituisce più un accessorio eventuale della concessione di costruzione, ma la controprestazione principale e tipica a favore del concessionario, come risulta dall'art. 143 del codice, con la conseguenza che le controversie relative alla fase di esecuzione appartengono alla giurisdizione ordinaria" (L. n. 109 del 1994, art. 31-bis; art. 133, c. 1, lett. e), n. 1 cod. proc. amm.).
Alla medesima declaratoria della giurisdizione ordinaria si perverrebbe, nel caso di specie, pur nell'ipotesi in cui nella convenzione potesse ravvisarsi un appalto di o.p. posto che, contrariamente all'assunto del comune, per effetto della L. n. 205 del 2000, artt. 6 e 7, ora trasfusi nell'art. 133 cod. proc. amm. nelle procedure ad evidenza pubblica aventi ad oggetto l'affidamento di lavori pubblici, spetta alla giurisdizione esclusiva del g.a. soltanto la cognizione di comportamenti ed atti assunti prima dell'aggiudicazione e nella successiva fase compresa tra l'aggiudicazione e la stipula dei singoli contratti; mentre nella successiva fase contrattuale riguardante, come nella fattispecie, l'esecuzione del rapporto la giurisdizione continua ad appartenere al g.o. (Corte di Cassazione, SS.UU. civili, sentenza 09.11.2012 n. 19391 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il progetto presentato per il rilascio di un permesso di costruire va esaminato avendo riguardo e facendo applicazione unicamente della disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento in cui viene svolta la prescritta verifica di conformità e non di quella ancora in corso di elaborazione.
Considerato, nel merito, che per consolidata giurisprudenza, il progetto presentato per il rilascio di un permesso di costruire va esaminato avendo riguardo e facendo applicazione unicamente della disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento in cui viene svolta la prescritta verifica di conformità (cfr. Cons. Stato, sez. V, 31.12.1998, n. 1993; 04.02.2004, n. 268; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 27.01.2004, n. 503), e non di quella ancora in corso di elaborazione (cfr. Cons. Stato, sez. V, 11.04.1995, n. 571) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 08.11.2012 n. 4489 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La procedura. Decisivo il peso dell'insediamento. Soggette al versamento anche le aree scoperte.
INDUSTRIA E COMMERCIO/ Il Tar Emilia Romagna: per i depositi all'aria aperta occorre fare riferimento all'attività commerciale svolta in prevalenza.

Anche il semplice utilizzo di un'area scoperta può comportare il pagamento di oneri urbanizzatori.
È quanto precisato di recente dal TAR Emilia-Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 12.09.2012 n. 557, con riferimento a un permesso di costruire per una struttura destinata da un concessionario di autovetture a deposito a cielo aperto e vendita di veicoli nuovi e usati.
Il titolare della concessionaria aveva impugnato il provvedimento comunale di determinazione della quota di contributo afferente al costo di costruzione e di revisione in aumento della quota relativa agli oneri di urbanizzazione secondaria, nonché l'ingiunzione di pagamento. Il ricorrente denunciava la violazione delle tabelle comunali per il calcolo degli oneri urbanistici, perché effettuata con riferimento a quelle (più onerose) per le "attività commerciali" e non a quelle (inferiori) per i "depositi a cielo aperto", così come previsto per la zona interessata dalle norme di attuazione del Prg (piano regolatore generale). Inoltre il titolare contestava anche la mancata comunicazione di avvio del procedimento (articoli 7 e 8 della legge n. 241/1990).
I giudici hanno innanzitutto disatteso quest'ultima censura, perché hanno classificato l'atto di determinazione del contributo non come un provvedimento in autotutela dell'amministrazione, ma come un atto con il quale il Comune determina (e in questo caso rettifica) i contributi urbanistici, che chiunque richieda un titolo edilizio è tenuto a pagare prima del rilascio del permesso di costruire. Si tratta di atti che non rivestono natura provvedimentale, incidendo su posizioni di diritto soggettivo, ed hanno carattere vincolato, rendendo inutile la partecipazione del soggetto coinvolto.
Il Tar ha considerato infondato anche il motivo con cui la società ricorrente ha ritenuto illegittima la rideterminazione degli oneri concessori in base ai valori per le attività commerciali, piuttosto che a quelli dei depositi a cielo aperto. La sentenza osserva come l'intervento non consista nella realizzazione di un edificio strumentale ad una attività produttiva inerente il deposito a cielo aperto di autoveicoli, bensì nella realizzazione di un complesso funzionale all'attività commerciale di vendita di autoveicoli che vede, quale ulteriore attività collaterale a quella principale di concessionaria della casa automobilistica, anche l'utilizzo di parte dell'area quale deposito a cielo aperto di vetture.
Quindi è del tutto legittimo che l'amministrazione comunale, in sede di corretta determinazione dei contributi urbanistici, debba necessariamente individuare e calcolare l'importo sulla base di quanto prevedono le relative tabelle in relazione all'esatta qualificazione del complessivo intervento assentito e, quindi, anche in modo corrispondente all'effettiva qualificazione dell'attività svolta dal ricorrente nel nuovo edificio oggetto di concessione edilizia.
Poiché l'attività svolta è quella della vendita di autoveicoli nuovi e usati, i contributi devono essere calcolati secondo le tabelle proprie di ciascuna categoria di uso presente nell'intervento realizzato.
Nella specie, pertanto, in riferimento all'edificio assentito, è dovuto sia il contributo per oneri di costruzione (essendo esenti, secondo la normativa urbanistica locale, solo gli interventi destinati ad usi produttivi), sia il contributo per oneri di urbanizzazione, commisurato, alla attività commerciale effettivamente svolta nell'edificio (articolo Il Sole 24 Ore del 26.11.2012).

EDILIZIA PRIVATA: I contributi di costruzione. I chiarimenti che arrivano dal Consiglio di Stato. La data di Scia e Dia fissa il prezzo degli oneri. Niente aumenti dopo la presentazione dell'istanza.
GLI INTERVENTI MAGGIORI/ Solo per il permesso di costruire i conteggi vengono differiti fino all'approvazione del progetto.

L'obbligo di pagare gli oneri di urbanizzazione per gli interventi edilizi non dipende solo dal rilascio del provvedimento autorizzatorio, ma sorge anche in caso di presentazione di una denuncia di inizio di attività edilizia o di una Scia (segnalazione certificata di inizio attività), insieme all'inoltro della segnalazione o alla presentazione della denuncia. L'obbligo, infatti, è correlato all'aumento del carico urbanistico, quindi all'attività di trasformazione del territorio. È alla disciplina vigente al momento di presentazione della Scia o della denuncia che l'amministrazione dovrà fare riferimento per calcolare gli oneri dovuti, senza considerare mutamenti tariffari successivamente intervenuti o richiedere conguagli.
Un principio, quest'ultimo, affermato dal Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza 04.09.2012 n. 4669.
In caso di rilascio del permesso di costruire, invece, l'obbligo di pagamento sorge con l'approvazione del progetto, anche se questo passaggio avviene a distanza di anni dalla domanda, e si dovrà fare riferimento alle tariffe vigenti in questo momento e non a quelle, eventualmente più favorevoli, in vigore alla data di presentazione della domanda (Consiglio di Stato, sezione IV, pronunce n. 3116 e n. 1752 del 2011).
Le origini
Il principio di onerosità della concessione edilizia è stato introdotto dalla legge Bucalossi (la n. 10/1977) e poi trasfuso nell'articolo 16 del testo unico dell'edilizia (il Dpr 380/2001); norma della quale la giurisprudenza ha progressivamente definito i contenuti e la portata, chiarendone gli aspetti più problematici.
Per orientamento ormai consolidato (da ultimo Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 30.07.2012, n. 4320) il contributo per il rilascio del permesso di costruire ha natura di prestazione patrimoniale pubblicistica ed obbligatoria, di tipo non tributario (Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 20.04.2009, n. 2359). Si tratta di una prestazione a carattere generale, non disponibile dalle parti, poiché prescinde dalla effettiva realizzazione dell'intervento urbanizzatorio (Consiglio di Stato, sezione V, 22.02.2011, n. 1108). Ad esempio, è stato escluso che potesse omettersi il pagamento degli oneri concessori a fronte di un asserito inadempimento del Comune della "controprestazione" pattuita, che nel caso specifico consisteva nella costruzione di una strada indispensabile per assicurare l'accesso al suolo interessato dal permesso di costruire (Consiglio di Stato, sezione V, pronuncia 15.12.2005, n. 7140).
Il presupposto del contributo viene individuato nell'incremento del "carico urbanistico", quello, cioè, che viene prodotto da un nuovo insediamento o dall'ampliamento di uno preesistente, per l'aumento delle persone insediate e la correlata domanda di ulteriori strutture ed opere collettive (strade, fognature, eccetera) in una determinata area.
La quantificazione del contributo è del tutto indipendente sia dalle spese effettivamente occorrenti all'amministrazione per realizzare le opere di urbanizzazione, sia dall'immediata utilità che il proprietario dell'area riceve in conseguenza di un formale titolo edificatorio, ovvero dalla possibilità di eseguire l'intervento costruttivo in forza di Dia o Scia.
L'aggiornamento
Gli oneri di urbanizzazione devono essere aggiornati ogni cinque anni dai Comuni, in conformità alle relative disposizioni regionali e in relazione ai riscontri dei prevedibili costi delle opere di urbanizzazione primaria, secondaria e generale. Quindi, una volta intervenuta la delibera comunale di aggiornamento, ogni trasformazione edilizia può essere assoggettata solo al pagamento degli oneri di urbanizzazione tabellari previsti dal provvedimento comunale vigente e applicati in relazione alla tipologia e localizzazione del manufatto, oppure all'entità della trasformazione urbanistica (Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 24.12.2009, n. 8757).
La delibera del Consiglio comunale con la quale vengono determinati gli oneri di urbanizzazione è considerata dalla giurisprudenza un atto autoritativo e, come tale, è soggetta all'ordinario termine di decadenza ai fini della sua impugnazione (60 giorni). Viceversa, nel caso in cui non vengano dedotte censure nei confronti della delibera, ma ci si limiti a contestare la concreta quantificazione del contributo di urbanizzazione e il suo ammontare, le controversie riguardano posizioni di diritto soggettivo e sono azionabili nel termine di prescrizione di cinque anni innanzi al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva (Consiglio di Stato, sezione V, 28.05.2012, n. 3122; sezione IV, 10.03.2011, n. 1565).
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I punti fermi della giurisprudenza
01 | L'OBBLIGO DI PAGARE SCATTA CON LA CONCESSIONE
Il rilascio della concessione edilizia si configura come fatto costitutivo dell'obbligo del concessionario di pagare il contributo per oneri di urbanizzazione. Il privato deve contribuisce così alle spese affrontate dal Comune per le opere indispensabili affinché l'area diventi idonea all'insediamento autorizzato e grazie alle quali l'area acquista un beneficio economicamente rilevante. Il contributo va calcolato secondo i parametri vigenti al momento del rilascio della concessione - Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 30.07.2012, n. 4320
02 | CON LA DIA IL PAGAMENTO È IMMEDIATO
Nel caso di presentazione di una denuncia di inizio di attività edilizia (Dia), l'obbligo di pagare gli oneri di urbanizzazione e il costo di costruzione sussiste all'atto della presentazione della Dia stessa. L'importo è in relazione alla situazione esistente al momento della presentazione della domanda - Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 28.05.2012 n. 3122
03 | AL TAR I RICORSI CONTRO IL CALCOLO DEI VERSAMENTI
La delibera del Consiglio comunale con la quale vengono determinati i contributi concessori per gli interventi edilizi è da considerarsi un atto autoritativo e, come tale, è soggetta all'ordinario termine di decadenza ai fini della sua impugnazione. Al contrario, le controversie sulla contestazione degli oneri di urbanizzazione attengono a posizioni di diritto soggettivo azionabili davanti al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva nel termine di prescrizione - Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 28.05.2012 n. 3122
04 | PER STABILIRE GLI IMPORTI NON SERVE LA MOTIVAZIONE
La determinazione del contributo e degli oneri di urbanizzazione costituisce atto vincolato, che va effettuato sulla base di parametri prestabiliti e pertanto non richiede una specifica motivazione sulla determinazione delle somme
Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 01.09.2011, n. 4906
05 | VALORI DA INDIVIDUARE IN BASE ALL'ATTIVITÀ SVOLTA
L'ente locale deve necessariamente individuare e calcolare il quantum contributivo sulla base di quanto prevedono le tabelle e in relazione all'esatta qualificazione del complessivo intervento assentito. Il calcolo va quindi effettuato anche in modo corrispondente all'effettiva qualificazione dell'attività svolta nel nuovo edificio oggetto di concessione edilizia e di contribuzione urbanistica - Tar Emilia-Romagna, Bologna, sezione II, sentenza 12.09.2012, n. 557
06 | TERRAZZI, SOFFITTE E CANTINE ESCLUSI DAI CONTEGGI
Il calcolo degli oneri di urbanizzazione va effettuato tenendo conto anche delle "superfici di calpestio", ma per esse devono intendersi solo quelle utili, costituite dalla somma delle aree di pavimento dei singoli vani utilizzati per le attività e destinazioni d'uso. Vanno escluse dal conteggio le aree destinate ai porticati, ai pilotis, alle logge, ai balconi, ai terrazzi, ai locali cantina, soffitte e ai locali sottotetto non agibili.
Queste esclusioni sono coerenti con il presupposto per l'insorgenza dell'obbligo di versare gli oneri di urbanizzazione, e cioè che vi sia un effettivo aggravio del carico urbanistico dovuto alla incidenza dell'intervento edilizio, che deve essere ragionevolmente considerato non nell'insieme delle superfici "di calpestio", ma di quelle utili, le sole in grado di comportare un maggior incremento del carico urbanistico - Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 15.07.2009, n. 4439
07 | ININFLUENTE LO SVILUPPO URBANISTICO DELL'AREA
Gli oneri di urbanizzazione stabiliti in via generale sono dovuti a prescindere dalla situazione urbanizzativa delle zone in cui ricadono i singoli interventi, in quanto essi adempieno all'esigenza di una partecipazione patrimoniale da parte dei privati al pregiudizio economico gravante sulla collettività comunale per effetto della trasformazione del territorio - Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 24.12.2009, n. 8757
08 | SI PAGA SOLO SULLA BASE DEL PROGETTO PRESENTATO
L'imponibile per la liquidazione degli oneri d'urbanizzazione deve essere valutato sulla base delle tariffe esistenti al momento della domanda del permesso di costruire e con esclusivo riguardo all'immobile così come definito e autorizzato, risultando irrilevanti le istanze edilizie quando ad esse non abbia fatto seguito il titolo abilitativo - Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 22.03.2011, n. 1752
09 | IMPORTI CONTESTABILI ANCHE SENZA IMPUGNARE L'ATTO
L'azione giudiziaria, volta alla declaratoria dell'insussistenza o di una diversa entità del debito contributivo per oneri di urbanizzazione, è esperibile a prescindere dall'impugnazione o dall'esistenza dell'atto con cui è preteso il pagamento del contributo, trattandosi di un giudizio d'accertamento di un rapporto obbligatorio pecuniario, proponibile nel termine di prescrizione - Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 22.03.2011, n. 1752 (articolo Il Sole 24 Ore del 26.11.2012).

PUBBLICO IMPIEGO: Demansionamento. La Cassazione delinea la fattispecie, che entra anche nell'accordo di produttività, e i distinguo rispetto all'intento persecutorio.
La dequalificazione non fa mobbing. Niente automatismo anche se può scattare un indennizzo - L'illecito va sempre provato.
Tra i temi che entreranno nella contrattazione collettiva futura c'è anche quello della flessibilità nelle mansioni dei lavoratori. Questo è uno dei punti previsti dall'accordo sulla produttività sottoscritto la scorsa settimana tra Governo e parti sociali (Cgil esclusa). Diventa quindi di stretta attualità "fare il punto" sul demansionamento per come viene trattato nelle aule di giustizia, soprattutto per delinearne l'identikit e trovare la linea di demarcazione rispetto al mobbing.
Molto spesso, infatti, le due figure vengono richiamate in tandem, anche se sono e vanno tenute distinte. Il "distinguo" tra la dequalificazione professionale e il mobbing si gioca in realtà sul piano della prova. È necessario chiedersi quale può essere l'elemento di distinzione, indispensabile anche per quantificare l'eventuale risarcimento del danno subito.
La necessità della prova
La giurisprudenza ha precisato che la dequalificazione non è necessariamente mobbing se non si prova l'intento persecutorio dell'azienda. La Corte di Cassazione, con la sentenza 23.07.2012 n. 12770, ha affermato che la dequalificazione professionale non è prova certa di una volontà oppressiva e vessatoria del datore di lavoro. Non si può escludere, tuttavia, solo per questo, il riconoscimento di un indennizzo per il danno morale, biologico e professionale subìto, poiché il demansionamento del lavoratore comporta comunque uno svilimento della professionalità acquisita dal dipendente. La vicenda vede coinvolta un'impiegata amministrativa di un'azienda telefonica trasferita al servizio di centralinista. La Cassazione rigetta il ricorso della lavoratrice sulla domanda di risarcimento del danno da mobbing.
L'estensore motiva che i vari comportamenti assunti mobbizzanti, complessivamente valutati, non erano tali da configurare la nozione di mobbing, come delineata dalla consolidata giurisprudenza (Cassazione 87/2012). Alcuni di questi, infatti, non risultavano provati (come il divieto di ritirare gli effetti personali) e la maggioranza di questi risultava legittima (l'apertura della corrispondenza, considerato il divieto di ricezione di corrispondenza personale e quindi la riferibilità a comunicazioni d'ufficio, il trattamento di malattia corrisposto come previsto dal contratto collettivo, la reiterazione delle visite di controllo data la durata dell'assenza per malattia).
Quindi, conclude la sentenza, i singoli comportamenti non avevano in sé, congiuntamente e isolatamente considerati, contenuto mobbizzante, sicché dalla loro somma, mancando una qualsiasi prova dell'esercizio abusivo del diritto, non si poteva desumere un disegno persecutorio, fonte di risarcimento.
Il risarcimento
In altri casi è stato escluso il risarcimento del danno, sia da mobbing sia da demansionamento. Nella sentenza n. 2711/2012, la Cassazione ha trattato il caso di licenziamento disciplinare, in cui il lavoratore chiedeva il risarcimento del danno per dequalificazione professionale. La Cassazione esclude che possa configurarsi mobbing, poiché il dipendente non aveva fornito i nomi delle persone autrici dei comportamenti illeciti. Non si poteva delineare, quindi, un insieme di atteggiamenti ostili idonei per la quantità, qualità e ripetitività a integrare la lamentata situazione di mobbing.
In definitiva, era onere del lavoratore provare che il danno alla salute era diretta conseguenza del supposto comportamento datoriale persecutorio. Neanche la dequalificazione era stata provata, poiché non era stata dimostrata l'inattività lavorativa o l'assegnazione di un tavolo senza mezzi di lavoro. Infatti, dopo la ristrutturazione dei reparti produttivi, il datore di aveva cercato invano di attribuire ulteriori mansioni al lavoratore, che aveva sistematicamente rifiutato di adempiere la sua prestazione, pretendendo di renderla secondo un orario unilateralmente determinato.
Anche in Cassazione n. 14206/2012 la Corte ha escluso il risarcimento del danno da demansionamento da direttore amministrativo a segretario generale, ravvedendo una sostanziale coincidenza delle mansioni svolte. La sentenza ha esclude inoltre il danno da mobbing. In definitiva, da un lato non vi è mobbing se non c'è ripetitività di atti persecutori. Dall'altro, può esserci demansionamento se le mansioni sono incompatibili tra loro o il lavoratore rimane inattivo sul luogo di lavoro.
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Il risarcimento. La quantificazione in via equitativa. Danno professionale solo se aggiuntivo e autonomo.
IL PRINCIPIO/ Il pregiudizio patrimoniale non si può ravvisare implicitamente nella potenzialità lesiva dell'atto legittimo.

Accertato il demansionamento, il giudice deve quantificare il danno in via equitativa. È quanto emerge dalle recenti sentenze della Cassazione. In sostanza, in caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell'articolo 2103 del Codice civile, il giudice di merito può desumere l'esistenza del danno, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità dell'esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto. Il principio è chiaramente espresso in Cassazione n. 2257 del 16 febbraio scorso, che ha affrontato l'ipotesi di demansionamento di un lavoratore che da responsabile di reparto di macelleria di un supermercato era stato adibito a compiti di commesso.
La Corte, richiamando l'insegnamento delle sezioni unite n. 6572/2006 e n. 26972/2008, chiarisce che il lavoratore che dichiari di aver subito un danno dalla dequalificazione professionale, deve fornire la prova dell'esistenza del danno e del nesso di causalità con l'inadempimento. Prova che –prosegue l'estensore– è presupposto indispensabile per fare una valutazione equitativa del danno subito. Del resto, il danno patrimoniale non può ritenersi immancabilmente e implicitamente ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell'atto illegittimo (nel caso di specie il demansionamento), dovendo necessariamente prodursi una lesione aggiuntiva e per certi versi autonoma.
Si pensi alla lesione derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore o alla mancata acquisizione di una maggiore capacità, o ancora, al pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno. Perciò, la Cassazione ha confermato la pronuncia di appello sul demansionamento poiché il lavoratore aveva subito una perdita rilevante, sia sul piano dell'autonomia e rilevanza delle proprie incombenze, sia del potere di coordinamento, ossia dei tratti qualificanti che caratterizzano la professionalità del lavoratore.
Cambio di rotta, invece, per Cassazione n. 7963 del 18 maggio scorso. Infatti, è sufficiente che il lavoratore alleghi semplicemente la dequalificazione professionale subìta per ribaltare la prova a carico del datore di lavoro. Sarà poi quest'ultimo a dover dimostrare il legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o, comunque, l'impossibilità di destinare il dipendente ad altre mansioni. Nel solco della giurisprudenza maggioritaria si pone invece la sentenza della sezione lavoro del Tribunale di Milano (giudice Ravazzoni) del 29.06.2012.
Alcuni lavoratori di una società di telecomunicazioni ottenevano una prima sentenza di assegnazione alle mansioni precedentemente svolte in virtù del demansionamento subito. La vicenda arriva in tribunale: il giudice afferma che la dequalificazione non comporta l'immediata perdita della professionalità, ma trascorso un certo periodo di tempo si può senz'altro ritenere che i lavoratori specializzati in settori tecnologicamente avanzati rimangano privi dell'indispensabile aggiornamento teorico-pratico. Il che, da un lato impedisce l'affinarsi e lo sviluppo della professionalità nell'esecuzione del lavoro, dall'altro compromette una utile ricollocazione nella stessa azienda o, in generale, sul mercato del lavoro.
In definitiva, il magistrato quantifica il danno alla professionalità calcolando la percentuale del 30% sulla retribuzione mensile lorda per ogni mese di dequalificazione patita (articolo Il Sole 24 Ore del 26.11.2012).

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