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AGGIORNAMENTO AL 31.12.2012 |
ã |
NOVITA' NEL
SITO |
Inseriti i nuovi bottoni:
►
dossier
ATTIVITA' COMMERCIALE IN LOCALI ABUSIVI
►
dossier DISTANZA DA ALLEVAMENTI
ANIMALI
►
dossier
MURO DI CINTA/RECINZIONE, DI CONTENIMENTO/SOSTEGNO, ECC.
►
dossier PERMESSO DI COSTRUIRE
(verifica in istruttoria dei limiti privatistici al
rilascio) |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
ENTI LOCALI:
Oggetto: Prossima scadenza funzioni associate
obbligatorie (ANCI Lombardia,
circolare 28.12.2012 n. 145/2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Oggetto: iscrizione all'albo pubblici dipendenti - Nota
di rettifica (Consiglio Nazionale Geometri e Geometri
Laureati,
nota 19.12.2012 n. 13134 di
prot.). |
ATTI
AMMINISTRATIVI
- ENTI LOCALI:
Legge 07.12.2012 n. 213 - Conversione in legge, con
modificazioni, del decreto-legge 10.10.2012, n. 174, recante
disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento
degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in
favore delle zone terremotate nel maggio 2012. Proroga di
termine per l’esercizio di delega legislativa -
Nota di lettura degli articoli 1-bis e 3 relativamente al
sistema dei controlli (ANCI, nota dicembre
2012). |
AUTORITA'
VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI:
Attuazione dell’art. 6-bis del dlgs 163/2006 introdotto
dall'art. 20, comma 1, lettera a), legge n. 35 del 2012
(deliberazione
24.12.2012 - link a www.autoritalavoripubblici.it).
---------------
Delibera AVCPASS
Disponibile on-line la delibera attuativa dell'articolo
6-bis del Codice dei contratti.
Dal 01.01.2013, ai sensi dell’art. 6-bis, del D.Lgs.
163/2006, la documentazione comprovante il possesso dei
requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed
economico-finanziario per la partecipazione alle procedure
disciplinate dal presente Codice è acquisita presso la Banca
dati nazionale dei contratti pubblici, istituita presso
l'Autorità.
In attuazione del sopracitato articolo del Codice l’Autorità
ha:
• acquisito in data 19.12.2012 il parere positivo del
Garante per la protezione dei dati personali relativamente
ai dati concernenti la partecipazione alle gare per le quali
è obbligatoria l'inclusione della documentazione nella Banca
dati, nonché i termini e le regole tecniche per
l'acquisizione, l'aggiornamento e la consultazione nella
Banca dati,
• sentito i principali operatori del mercato e Stazioni
Appaltanti nel merito dei contenuti della bozza di delibera
pubblicata sul sito dell’Autorità il 13.12.2012,
• valutato le osservazioni pervenute a seguito della
consultazione on-line,
Sulla basi di tali considerazioni il Consiglio ha emanato la
delibera attuativa dell'articolo 6-bis del Codice dei
contratti. |
UTILITA' |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA
PRIVATA:
Terre e rocce da scavo: in un dossier dell’Ance le
principali novità.
L’Ance ha predisposto un dossier nel quale sono analizzate
le principali novità introdotte per la gestione delle terre
e rocce da scavo a seguito dell’entrata in vigore del d.m.
161/2012.
In particolare, il dossier si compone dei seguenti due
documenti:
- un’analisi
dettagliata delle disposizioni contenute nel decreto
ministeriale, con particolare riguardo ai
riflessi applicativi/operativi per il settore edile;
- una
sezione “domande & risposte”
nella quale sono racchiusi alcuni dei più frequenti quesiti
posti in questi primi mesi di applicazione della nuova
normativa (17.12.2012 - tratto da www.ance.it). |
APPALTI:
“Bando tipo”, standardizzazione e trasparenza nelle
gare di appalti pubblici - ON-LINE I MATERIALI.
Sono già disponibili le slide di presentazione degli
interventi al webinar di giovedì 13.12.2012 realizzato da
FORUM PA in collaborazione con l'Autorità di vigilanza sui
contratti pubblici di lavori, servizi e forniture e volto ad
illustrare le novità contenute nella determina n. 4 del 10
ottobre scorso sul "Bando tipo".
Nel corso del seminario sono state prese in esame alcune
delle cause tassative di esclusione dalle gare (link a
http://saperi.forumpa.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
VARI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 31.12.2012, "Approvazione
delle modalità operative semplificate per il rinnovo delle
piccole derivazioni d’acqua sotterranea già concesse con le
procedure di cui alla d.g.r. 29.12.1999, n. 47582 in
attuazione dell’articolo 13, comma 1, della legge regionale
16.07.2012, n. 12" (deliberazione
G.R. 28.12.2012 n. 4623). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 31.12.2012, "Approvazione
della “Direttiva per il controllo degli scarichi degli
impianti di trattamento delle acque reflue urbane, ai sensi
dell’allegato 5 alla parte terza del d.lgs. 03.04.2006, n.
152 e successive modifiche e integrazioni” e revoca della
deliberazione della giunta regionale 02.03.2011, n. 1393"
(deliberazione
G.R. 28.12.2012 n. 4621). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 31.12.2012, "Determinazioni
in ordine ai criteri di gestione obbligatoria e delle buone
condizioni agronomiche e ambientali ai sensi del reg. CE
73/09 - Modifiche ed integrazioni alla d.g.r. 4196/2007"
(deliberazione
G.R. 28.12.2012 n. 4613). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 31.12.2012, "Secondo
aggiornamento dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche loro attribuite
dall’art. 80 della legge regionale 11.03.2005, n. 12" (decreto
D.G. 20.12.2012 n. 12476). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G.U. 29.12.2012 n. 302, suppl. ord. n. 213, "Approvazione
del modello unico di dichiarazione ambientale per l’anno
2013" (D.P.C.M.
20.12.2012). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
G.U. 29.12.2012 n. 302, suppl. ord. n. 212/L,
"Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2013)" (Legge
24.12.2012 n. 228). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 52 del 28.12.2012, "Interventi
normativi per l’attuazione della programmazione regionale e
di modifica e integrazione di disposizioni legislative -
Collegato ordinamentale 2013"
(L.R.
24.12.2012 n. 21).
---------------
Di interesse l'art. 4 ("Modifiche alla l.r. n. 12/2005")
che introduce dopo l'art. 25, comma 1-bis, l.r. n. 12 del
2005 ("Legge per il governo del territorio") tre nuovi
commi, che declinano la disciplina transitoria necessaria
per il completamento del processo di totale rinnovamento
della strumentazione urbanistica comunale, pur
senza modificare il termine di validità dei
vecchi piani regolatori generali, fissato al 31.12.2012
dall'art. 25, comma 1, della l.r. n. 12 del 2005. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 21.12.2012, "Protocollo
operativo per la gestione dei casi di inquinamento diffuso
delle acque sotterranee"
(deliberazione
G.R. 13.12.2012 n. 4501). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
R. M. Carbonara,
L’INCENTIVO PER LA
PIANIFICAZIONE INTERNA - L’affermarsi di un orientamento
(troppo) restrittivo (Personale News n. 24/2012 -
tratto da www.gianlucabertagna.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
T. Milelfiori,
Sull’obbligo comunale di esecuzione delle opere di
urbanizzazione primaria (link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: A.
Dal Molin,
Spunti di riflessione e
rassegna giurisprudenziale su alcune tematiche di interesse
in ambito urbanistico-edilizio
(29.10.2012 - tratto da www.solom.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: W.
Fumagalli,
IL LAVORO DEGLI OPERATORI DELL’EDILIZIA È SEMPRE PIÙ
COMPLICATO - La S.C.I.A. edilizia in Lombardia - Come se
la crisi non bastasse, da Palazzo Lombardia ecco arrivare
un’altra bella gatta da pelare
(AL n. 9-10/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: W.
Fumagalli,
ALLE VOLTE SI RI-CICLANO ANCHE LE LEGGI - CHE FATICA TENTARE
DI SALVARE LE RISTRUTTURAZIONI FUORI SAGOMA! - Dopo aver
rotto le uova il Consiglio Regionale lombardo ha cercato di
riaggiustarle, ma è un’impresa disperata
(AL n. 7-8/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: W.
Fumagalli,
DOPO LA LEGGE REGIONALE N. 13/2009 È ARRIVATA LA LEGGE
REGIONALE N. 4/2012 - COME È CAMBIATO IL “PIANO CASA”.
Dalle “azioni straordinarie
per lo sviluppo e la qualificazione del patrimonio edilizio
e urbanistico della Lombardia”, alle “norme per la
valorizzazione del patrimonio edilizio esistente” (AL
n. 6-7/2012). |
CORTE DEI
CONTI |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI:
Il Comune di Montemarciano con nota a firma del suo Sindaco
ha formulato, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L.
131/2003, una articolata richiesta di parere in ordine alla
corretta interpretazione della novella normativa recata dal
D.L. n. 52 del 07.05.2012 –convertito in L. n. 94 del
06.07.2012– in tema di acquisti di beni e servizi di importo
inferiore alla soglia comunitaria.
In questa prospettiva ritiene il Collegio che, a
legislazione vigente, l’unica ipotesi in cui possano
ritenersi consentite procedure autonome sia quella in cui il
bene e/o servizio non possa essere acquisito secondo le
modalità sin qui descritte ovvero, pur disponibile, si
appalesi –per mancanza di qualità essenziali– inidoneo
rispetto alle necessità della amministrazione procedente.
Tale specifica evenienza dovrà essere, peraltro,
prudentemente valutata e dovrà trovare compiuta evidenza
nella motivazione della determinazione a contrattare i cui
contenuti, per l’effetto, si arricchiscono.
In difetto di siffatta rigorosa verifica l’avvenuta
acquisizione di beni e servizi, secondo modalità diverse da
quelle previste dal novellato art. 1, comma 450, varranno,
nella ricorrenza dei presupposti per il ricorso al Me.PA, ad
inficiare il contratto stipulato ai sensi del disposto di
cui all’art. 1, comma 1, L. 135/2012 ed a fondare le connesse
responsabilità non potendo revocarsi in dubbio che, il Me.PA,
sia ascrivibile al genus degli strumenti di acquisto messi a
disposizione da Consip Spa.
...
Il Comune di Montemarciano con nota a firma del suo Sindaco
ha formulato, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. 131/2003,
una articolata richiesta di parere in ordine alla corretta
interpretazione della novella normativa recata dal D.L. n.
52 del 07.05.2012 –convertito in L. n. 94 del 06.07.2012– in tema di acquisti di beni e servizi di importo
inferiore alla soglia comunitaria.
Richiamati, in particolare,
• il disposto di cui al novellato art. 1 comma 450 della L.
296/2006 (L.F. 2007) a mente del quale “fermo restando gli
obblighi di cui all’art. 449 della L. 296/2006, le altre
amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 d.lgs. 165/2001
per gli acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla
soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare ricorso al
mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad
altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo
art. 328 (del d.p.r. 327/2010);
• la previsione di cui al prefato art.1 comma 449 che, nel
porre l’obbligo per le amministrazioni statali centrali e
periferiche di approvvigionarsi utilizzando le
convenzioni-quadro, dispone –per le altre amministrazioni
pubbliche di cui all’art. 1 d.lgs. 165/2001– la facoltà di
ricorrere alle convenzioni quadro ovvero l’obbligo di
utilizzarne i parametri prezzo-qualità come limiti massimi
per la stipulazione dei contratti;
• nonché l’art. 1, comma 1, D.L. 95 del 06.07.2012 –come
convertito in L. 135 del 07.08.2012– che commina la
sanzione della nullità, tra l’altro, per i contratti
stipulati in violazione degli obblighi di approvvigionarsi
attraverso gli strumenti di acquisti messi a disposizione di CONSIP Spa, configurando, altresì, una ipotesi di
responsabilità disciplinare oltre che una causa di
responsabilità amministrativa;
il Comune istante chiede, partitamente, di conoscere il
motivato avviso della Sezione in ordine:
• alla portata cogente per gli Enti locali del ricorso ai
mercati elettronici ed alla possibilità di riconnettere
all’espressione “sono tenuti a fare ricorso” un obbligo di
“approvvigionarsi” ovvero di acquistare esclusivamente
mediante il mercato elettronico;
• alla condotta che dovrebbe adottare l’Ente laddove
rinvenisse sul mercato libero condizioni economiche e/o
qualitative più vantaggiose ovvero laddove il bene offerto
sul mercato elettronico fosse, anche solo parzialmente, non
conforme alle esigenze dell’Ente medesimo;
• alla possibilità di ricondurre nell’ambito applicativo
dell’art. 1 comma 1 D.L. 95/2012 anche i contratti stipulati
in violazione dell’obbligo di ricorso al Mepa dovendo,
dunque, ascriversi questo ultimo al genus “degli strumenti
di acquisto messi a disposizione di Consip”;
• alla legittimità di una interpretazione funzionale della
novella normativa in ragione della quale, nella ricorrenza
di condizioni migliorative rispetto a quelle praticate sul
Mepa, non sarebbe precluso agli Enti locali dar corso a
procedure di acquisizione tradizionale;
...
La questione prospettata dal Comune di Montemarciano involge
plurimi profili problematici il cui scrutinio –
coerentemente con la natura vincolistica dei recenti
interventi che hanno profondamente innovato il quadro
normativo relativo agli acquisti di beni e servizi della
p.a. – non può che essere condotto valorizzando una
interpretazione rigorosa delle disposizioni di cui trattasi
sì da non frustrarne o eluderne i sottesi principi
informatori.
Ciò posto, la Sezione, pur evidenziando un indubbio problema
di coordinamento delle nuove disposizioni con quelle di cui
al previgente Codice dei contratti pubblici ed al relativo
regolamento di esecuzione ed attuazione, con specifico
riguardo alla portata della previsione recata dall’art. 1,
comma 450, L.F. 2007 –come modificata dal secondo comma
dell’art. 7 L. 94/2012– ritiene debba, atteso il chiaro
tenore della stessa ed anche in applicazione dei canoni
ermeneutici di cui all’art. 12, assegnarsi prioritario
rilievo al criterio letterale.
Ne consegue che, in ragione del regime tratteggiato dalla
richiamata disposizione e differenziato a seconda che si
abbia riguardo alle “amministrazioni statali centrali e
periferiche” ovvero alle “altre amministrazioni pubbliche di
cui all’art. 1 d.lgs. 165/2001”, gli Enti locali, ai fini
dell’affidamento di appalti pubblici di importo inferiore
alla soglia di rilievo comunitario, debbano
obbligatoriamente ricorrere al mercato elettronico.
Non di meno non sussiste un obbligo assoluto di ricorso al
Mercato elettronico della P.A. (c.d. Me.PA) essendo
espressamente prevista la facoltà di scelta tra le diverse
tipologie di mercato elettronico richiamate dall’art. 328
del d.p.r. 207/2010 e, segnatamente, il mercato elettronico
realizzato dalla medesima stazione appaltante e quello
realizzato dalle centrali di committenza di riferimento di
cui all’art. 33 del Codice dei contratti.
Emerge, dunque, evidente un favor del legislatore per
modalità di acquisto effettuata mediante sistemi c.d. di e-procurement siccome suscettivi di assicurare alla
amministrazione la possibilità di entrare in contatto con
una più ampia platea di fornitori ma, soprattutto, di
garantire la tracciabilità dell’intera procedura di acquisto
ed una maggiore trasparenza della stessa attesa
l’automaticità del meccanismo di aggiudicazione con
conseguente riduzione dei margini di discrezionalità
dell’affidamento.
In vista del conseguimento di tale finalità –e
nell’economia di una più complessiva operazione di
razionalizzazione del sistema degli acquisti di beni e
servizi della p.a. che ha trovato completamento con il D.L.
95/2012 (c.d. spending review 2)– il Legislatore ha
ritagliato una disciplina specifica per gli acquisti sotto
soglia dal carattere particolarmente stringente che, in
difetto di espresse previsioni, pare non ammettere deroghe
e/o eccezioni di sorta.
Né, a parere del Collegio, può, atteso il portato letterale
delle disposizioni in parola, colmarsi tale preteso, secondo
alcuni Commentatori, vuoto normativo in via interpretativa
così come sollecitato dal Comune istante che, di fatto,
prospetta due ipotesi –quella relativa all’esistenza sul
mercato libero di condizioni contrattuali più favorevoli e
quella relativa alla difformità parziale del bene
disponibile sul mercato elettronico rispetto a quello
rinvenuto sul mercato tradizionale– per cui la normativa
non appresta alcuna disciplina positiva.
Del resto giova evidenziare che, a parte la gamma di
possibilità offerta alla stazione appaltante alla stregua
del richiamato art. 328 del Regolamento di esecuzione ed
attuazione, lo stesso Me.PA, diversamente dal sistema delle
Convenzioni Consip, si atteggia come un mercato aperto cui è
possibile l’adesione da parte di imprese che soddisfino i
requisiti previsti dai bandi relativi alla categoria
merceologica o allo specifico prodotto e servizio e, quindi,
anche di quella o quelle asseritamente in grado di offrire
condizioni di maggior favore rispetto a quelle praticate sul
Me.PA ovvero un bene/servizio conforme alle esigenze
funzionali della amministrazione procedente.
D’altro canto, con riferimento ad entrambe le fattispecie
delineate, preme segnalare che, proprio in virtù di tale
peculiare caratteristica del mercato elettronico della P.A.,
quale mercato aperto, nell’ambito dello stesso è prevista
una duplicità di modalità di acquisto: così, oltre
all’ordine diretto che permette di acquisire sul Mercato
Elettronico i prodotti/servizi con le caratteristiche e le
condizioni contrattuali già fissate, è prevista la richiesta
di offerta (cd. R.d.O) con la quale è possibile negoziare
prezzi e condizioni migliorative o specifiche dei
prodotti/servizi pubblicati sui cataloghi on-line.
In questa prospettiva ritiene il Collegio che, a
legislazione vigente, l’unica ipotesi in cui possano
ritenersi consentite procedure autonome sia quella in cui il
bene e/o servizio non possa essere acquisito secondo le
modalità sin qui descritte ovvero, pur disponibile, si
appalesi –per mancanza di qualità essenziali– inidoneo
rispetto alle necessità della amministrazione procedente.
Tale specifica evenienza dovrà essere, peraltro,
prudentemente valutata e dovrà trovare compiuta evidenza
nella motivazione della determinazione a contrattare i cui
contenuti, per l’effetto, si arricchiscono.
In difetto di siffatta rigorosa verifica l’avvenuta
acquisizione di beni e servizi, secondo modalità diverse da
quelle previste dal novellato art. 1, comma 450, varranno,
nella ricorrenza dei presupposti per il ricorso al Me.PA, ad
inficiare il contratto stipulato ai sensi del disposto di
cui all’art. 1, comma 1, L. 135/2012 ed a fondare le connesse
responsabilità non potendo revocarsi in dubbio che, il Me.PA,
sia ascrivibile al genus degli strumenti di acquisto messi a
disposizione da Consip Spa (Corte
dei Conti, Sez. controllo Marche,
parere
29.11.2012 n. 169). |
NEWS |
APPALTI: Appalti,
la verifica si fa sul web. Le p.a. controlleranno online i
requisiti delle imprese. La
procedura dell'Authority parte subito per i lavori sopra i
20 mln. A regime da luglio 2013.
Dal 1° gennaio verifiche online per gli
appalti pubblici attraverso l'Avcpass dell'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici, anche se il sistema sarà
realmente obbligatorio per tutti gli appalti oltre i 40 mila
euro dal 01.07.2013. I concorrenti dovranno registrarsi
presso l'Autorità e tramite Posta elettronica certificata
(Pec) inserire i documenti sul sistema che, una volta
attivato, permetterà alle stazioni appaltanti di controllare
i requisiti dichiarati senza più chiedere documenti
cartacei.
È quanto prevede la
deliberazione 24.12.2012 dell'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici, che rende possibile la
verifica dei requisiti di partecipazione agli appalti
pubblici attraverso un sistema informatico collegato alla
Banca dati nazionale dei contratti pubblici, istituita
presso l'Autorità.
In realtà dalla delibera si evince che il sistema sarà a
regime per la maggior parte degli appalti dal 01.07.2013,
anche se dal 01.01.2013, per i soli appalti di lavori oltre
i 20 milioni, sarà possibile utilizzare l'Avcpass.
L'applicazione consentirà, da un lato, alle stazioni
appaltanti l'acquisizione della documentazione comprovante
il possesso dei requisiti di carattere generale,
tecnico-organizzativo ed economico-finanziario per
l'affidamento dei contratti pubblici (per l'aggiudicatario e
i concorrenti sorteggiati in sede di verifica) e,
dall'altro, agli operatori economici (imprese e
professionisti) di inserire i documenti richiesti (previa
registrazione al sistema Avcpass e utilizzando
obbligatoriamente la propria Pec), con un notevole risparmio
di tempo e di costi.
La delibera individua i dati concernenti la partecipazione
alle gare e la valutazione delle offerte e prevede che l'Avcpass
si applichi a tutte le tipologie di contratti disciplinate
dal Codice per le quali è previsto il rilascio del Codice
identificativo gara (Cig), cioè a quelle oltre i 40 mila
euro. Il sistema prevede che dopo la registrazione al
servizio Avcpass (accedendo al sito www.avcp.it -servizi ad
accesso riservato– Avcpass), il concorrente indichi gli
estremi della procedura di affidamento cui intende
partecipare e riceva un «Passoe» da inserire nella busta
contenente la documentazione amministrativa. Fermo restando
l'obbligo per l'operatore economico di presentare le
autocertificazioni richieste dalla normativa vigente in
ordine al possesso dei requisiti per la partecipazione alla
procedura di affidamento, il «Passoe» rappresenta lo
strumento necessario per procedere alla verifica dei
requisiti stessi da parte delle stazioni appaltanti.
Sarà poi il responsabile del procedimento (Rup) a chiedere
all'Autorità i documenti a comprova dei requisiti
autodichiarati dal concorrente. Gli operatori economici
dovranno invece caricare sul sistema i documenti in proprio
possesso. Per quel che riguarda i certificati dei servizi e
delle forniture svolte, la delibera prevede che a regime
siano messi a disposizione dall'Autorità che quindi dovrebbe
acquisirli dalle stazioni appaltanti. Però, in
considerazione del fatto che in molti settori non esiste un
sistema standardizzato di certificati utilizzabili, la
delibera prevede che, in via transitoria, gli operatori
economici possono inserire nel sistema, al posto dei
certificati dei servizi o delle forniture svolte, le fatture
relative alle prestazioni svolte indicando, ove disponibile,
il Cig del contratto cui si riferiscono
(articolo ItaliaOggi del 29.12.2012). |
APPALTI: DECRETO
CRESCITA/ Le imprese pagano per i bandi.
Costi di pubblicazione dell'ente rimborsati da chi vince. Il
meccanismo entrerà in vigore il 1° gennaio prossimo.
Dal 01.01.2013 le spese per la pubblicazione sui
quotidiani dei bandi e degli avvisi di gara saranno
rimborsate alla stazione appaltante dall'affidatario del
contratto; rimane sempre ferma la disciplina prevista nel
Codice dei contratti pubblici che obbliga anche dopo il 1°
gennaio le stazioni appaltanti a pubblicare i bandi e gli
avvisi, oltre che sulla Gazzetta Ufficiale, sul proprio sito
internet e su quello del ministero delle infrastrutture e
dell'Osservatorio dell'Autorità, anche per estratto su
quotidiani a diffusione nazionale e locale.
È questo il quadro che si ricava alla luce del comma 35
dell'articolo 34 del decreto legge 179/2012, (legge
221/2012).
La norma prende in considerazione soltanto l'onere di
pubblicità sui quotidiani di bandi e avvisi di gara che fa
capo alle stazioni appaltanti e che riguarda la
pubblicazione per estratto, ai sensi dell'articolo 66, comma
7, del Codice dei contratti pubblici, su due quotidiani a
diffusione nazionale e due a diffusione locale, se si tratta
di contratti di rilevanza comunitaria (ai sensi
dell'articolo 122, comma 5, del Codice, su un quotidiano a
diffusione nazionale e locale, se il contratto è al di sotto
delle soglie di applicazione della normativa comunitaria).
In sostanza il nuovo comma 35 dell'articolo 34 del
provvedimento stabilisce che a partire dai bandi e dagli
avvisi pubblicati successivamente al 01.01.2013, le
spese per la pubblicazione per estratto sui quotidiani
previste dalle norme del Codice (i citati articoli 66, comma
7 e 122, comma 5) «sono rimborsate alla stazione appaltante
dall'aggiudicatario, entro il termine di 60 giorni
dall'aggiudicazione».
La norma ha due effetti, ma lascia aperto un dubbio
interpretativo che dovrebbe essere in qualche modo risolto.
Il primo effetto è quello di confermare a chiare lettere che
anche dal 01.01.2013 le stazioni appaltanti sono
comunque tenute alla pubblicazione sui quotidiani dei bandi
e degli avvidi di gara per estratto. Da ultimo, e prima
dell'approvazione della legge «anticorruzione», il dubbio
poteva infatti esservi. Nel 2009, infatti, il comma 5
dell'articolo 32 della legge n. 69/2009 aveva stabilito che
proprio a decorrere dal 01.01.2013, le pubblicazioni
effettuate in forma cartacea non avessero più «effetto di
pubblicità legale, ferma restando la possibilità per le
amministrazioni e gli enti pubblici, in via integrativa, di
effettuare la pubblicità sui quotidiani a scopo di maggiore
diffusione, nei limiti degli ordinari stanziamenti di
bilancio».
Con tutta probabilità, quindi, la pubblicazione
sui quotidiani sarebbe sparita. Con la recente legge 06.11.2012, n. 190 («anticorruzione») il legislatore ha
però previsto una disposizione «di salvezza» delle norme in
materia di pubblicità contenute nel Codice dei contratti
pubblici In sostanza, quindi, l'aver fatte salve le due
norme del Codice dei contratti pubblici (vedi ItaliaOggi del
30.11.2012, pag. 35) ha significato implicitamente
abrogare la norma che avrebbe fato perdere efficacia legale
alla pubblicità sui quotidiani a decorrere da inizio 2013.
Appare evidente, adesso, che la disposizione del decreto
legge sulla crescita, nel testo del maxi-emendamento, nel
prendere atto della norma della legge 190/2012, non fa altro
che confermare l'obbligo di pubblicità sui quotidiani
occupandosi però di venire incontro alle difficoltà di
bilancio delle stazioni appaltanti.
Il secondo effetto è, appunto, quello di sollevare le
finanze delle amministrazioni che, seppure dovranno
sopportare inizialmente le spese di pubblicazione, si
vedranno rimborsare tali spese dall'aggiudicatario del
contratto dopo due mesi dall'aggiudicazione. Una sorta di
spending review sulle spalle delle imprese.
Il dubbio interpretativo riguarda il fatto che, dal tenore
letterale della norma, non si desume se e come chi partecipa
alla gara avrà contezza dei costi già sostenuti dalla
stazione appaltante, il che farà una certa differenza
soprattutto quando le gare sono al massimo ribasso
(articolo ItaliaOggi del 28.12.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI: Le
stazioni appaltanti dovranno iscriversi all'Anagrafe unica.
Le stazioni appaltanti dovranno iscriversi all'anagrafe
unica istituita presso la Banca dati dei contratti pubblici,
gestita dall'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici, che dovrebbe essere attivata entro il 01.01.2013; in caso di inadempimento dell'obbligo di iscrizione
scatta la nullità degli atti e la responsabilità
amministrativa e contabile del funzionario responsabile.
È
questa una delle principali novità contenuta nel testo del
decreto legge 179 convertito, presentato dal governo e sul
quale l'aula del senato ha votato ieri la fiducia.
Si tratta di una assolta novità l'istituzione presso
l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture dell'anagrafe unica delle
stazioni appaltanti alla quale obbligatoriamente ogni
stazione appaltante dovrà iscriversi. La norma precisa
infatti che le stazioni appaltanti di contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture saranno tenute a richiedere
l'iscrizione all'anagrafe unica presso la banca dati
nazionale dei Contratti pubblici istituita ai sensi
dell'articolo 52-bis del codice dell'amministrazione
digitale di cui al decreto legislativo 07.03.2005 n. 82.
In sostanza ciò significa che prima dovrà essere attiva la
banca dati nazionale dei contratti pubblici (che dovrebbe
partire il 01.01.2013, quanto meno per gli affidamenti di
rilievo superiore alla soglia comunitaria, stando ad alcune
indiscrezioni filtrate nelle ultime settimane) e poi le
amministrazioni potranno iscriversi. Sarà l'Autorità di
vigilanza presieduta da Sergio Santoro a dettare, poi, con
una propria delibera, le modalità operative e di
funzionamento della anagrafe.
Gli obblighi per le amministrazioni non si esauriscono però
nella mera iscrizione all'anagrafe, perché esse dovranno
anche procedere, ogni anno, all'aggiornamento dei rispettivi
dati identificativi. L'inadempimento di questi obblighi è
previsto che dia luogo alla nullità degli atti adottati e
alla responsabilità amministrativa e contabile dei
funzionari responsabili
(articolo ItaliaOggi del 28.12.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI: Nulla
di fatto per le modifiche alla responsabilità solidale.
Nulla di fatto per la responsabilità solidale negli appalti:
rimane la disciplina attuale; ammessi i contratti di rete
nelle gare di appalto; salta all'ultimo momento l'estensione
della disciplina sui crediti di imposta per le
infrastrutture in PPP di importo superiore a 100 milioni e
per quelle già aggiudicate.
È quanto emerge dal testo del dl
179/2012 convertito che proprio per il settore delle
infrastrutture in project financing compie alcuni
significativi passi indietro. Si parlava, con alcuni
emendamenti dei relatori, di due modifiche alla disciplina
sui crediti di imposta: la riduzione da 500 a 100 milioni
della soglia minima di applicazione e della possibilità di
utilizzarli anche per le opere aggiudicate.
Le due modifiche sono però saltate e tutto invariato. Stessa
sorte per la proposta di esclusione del settore degli
appalti pubblici dalla disciplina sulla responsabilità
solidale fiscale; anche in questo caso la norma non compare
più nel testo finale.
Rappresenta invece una novità, peraltro presa dal disegno di
legge semplificazioni-bis, riguarda i cosiddetti contratti
di rete stipulati fra aggregazioni di imprese ai sensi
dell'articolo 3, comma 4-ter, del decreto legge 10.02.2009,
n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.04.2009,
n. 33. La norma approvata ieri stabilisce che alle
aggregazioni che si basano su questi contratti si applicano
le disposizioni dell'articolo 37 del Codice dei contratti
pubblici che, a sua volta, detta le regole per la
costituzione e il funzionamento dei raggruppamenti
temporanei di imprese e dei consorzi ordinari di
concorrenti.
Ciò dovrebbe significare che le imprese che hanno
sottoscritto il contratto di rete dovranno configurare la
propria «aggregazione» secondo le regole proprie di queste
due tipologie di soggetti raggruppati, quanto meno, quindi,
secondo lo schema del mandato con rappresentanza. Infine per
far fronte ai pagamenti per lavori e forniture già eseguiti,
l'Anas potrà utilizzare le risorse dell'ex Fondo centrale di
garanzia, nel limite di 400 milioni di euro
(articolo ItaliaOggi del 28.12.2012). |
APPALTI - EDILIZIA
PRIVATA: Il Durc dell'Inail è solo online.
Dal 2 gennaio la richiesta va fatta in via telematica.
Una circolare dell'Istituto indica i servizi che
con il nuovo anno saranno su internet.
Dal 2 gennaio la richiesta del Durc potrà essere fatta
all'Inail soltanto online. Così come solo per via telematica
si dovranno presentare le domande di riduzione dei tassi
medi di tariffe e i ricorsi in materia di applicazione delle
tariffe dei premi.
L'Inail prosegue così sulla strada della telematizzazione obbligatoria dei servizi, avviata
all'inizio del 2012, e con la circolare
21.12.2012 n. 68 indica il nuovo gruppo di istanze destinate a
transitare solo online.
Riduzione del tasso medio di tariffa dopo il primo biennio
di attività.
Le aziende, operative da almeno un biennio, che eseguono
interventi per il miglioramento delle condizioni di
sicurezza e di igiene nei luoghi di lavoro, possono
richiedere, entro il 28 febbraio (29 febbraio in caso di
anno-bisestile) dell'anno per il quale la riduzione è
richiesta, la riduzione del tasso medio di tariffa dopo il
primo biennio di attività (riduzione per prevenzione OT 24).
L'istanza di riduzione deve essere presentata utilizzando
l'apposito servizio online attivo in www.inail.it alla
sezione Punto Cliente - Denunce.
Riduzione del tasso medio di tariffa nei primi due anni di
attività. Nei primi due anni di attività la riduzione dei
premi può essere richiesta da tutti i datori di lavoro in
regola con le disposizioni obbligatorie in materia di
prevenzione infortuni. In questo caso la domanda deve essere
presentata utilizzando l'apposito servizio online attivo in
www.inail.it alla sezione Punto Cliente - Denunce all'atto
della denuncia dei lavori, dopo l'inizio dei lavori (in
qualsiasi momento, ma non oltre la scadenza del biennio di
attività).
Ricorsi in materia di tariffe dei premi. I provvedimenti in
materia di applicazione delle tariffe dei premi possono
essere oggetto di ricorso al presidente dell'Istituto. Il
ricorso deve essere proposto entro 30 giorni dalla piena
conoscenza degli atti impugnati utilizzando il servizio
online attivo in www.inail.it alla sezione Punto Cliente -
Ricorsi on-line.
Documento unico di regolarità contributiva (Durc). Tutte le
tipologie di richiesta di Durc devono essere effettuate
esclusivamente utilizzando l'apposito servizio telematico
disponibile sul sito www.sportellounicoprevidenziale.it.
L'obbligo di richiedere il Durc esclusivamente in via
telematica era già stato previsto per le amministrazioni
pubbliche, i soggetti privati a rilevanza pubblica, le
società di qualificazione (Soa), i consulenti del lavoro e
per tutti gli altri intermediari previsti dalla legge 11.01.1979, n. 12.
Contributi di malattia e maternità per il settore della
navigazione. Dovrà essere fatta esclusivamente online anche
la denuncia mensile dei contributi di malattia e/o di
maternità per il personale delle imprese di navigazione e
del settore volo, compresa quella riguardante le quote di
servizio e i contributi per l'assistenza contrattuale,
limitatamente alle convenzioni in essere con l'Istituto. La
denuncia deve essere effettuata utilizzando i servizi online
disponibili sul sito www.inail.it - Navigazione marittima -
Servizi on-line - Accesso Area dedicata agli utenti del
settore navigazione- Denuncia contributi malattia e
maternità.
Assistenza. A disposizione di aziende e consulenti ci
saranno il contact center multicanale (Ccm) al numero verde
803.164 e il servizio -Inail Risponde- (disponibile
nell'area Contatti del portale www.inail.it) per richiedere
informazioni o chiarimenti sull'utilizzo dei servizi online
e approfondimenti normativi e procedurali. Per gli utenti
del settore marittimo, inoltre, è attivo uno specifico
servizio di help-desk per la soluzione di eventuali
problematiche di natura tecnica, raggiungibile al seguente
indirizzo: helpdesk.navigazione@inail.it
(articolo ItaliaOggi del 28.12.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO - VARI: LE
NUOVE PENSIONI/ Al debutto la speranza di vita.
Ai requisiti anagrafici si sommano per tutti tre mesi in più.
Dal 01.01.2013 in vigore le regole della riforma Fornero.
Pensione sempre più lontana. Tre mesi almeno per tutti, da
Capodanno, e senza contare il passo in avanti già
preventivato dalla riforma Fornero.
I tre mesi sono
l'effetto della cosiddetta speranza di vita che il prossimo
1° gennaio farà debutto (è la prima volta) sulla scena
pensionistica. Vediamo, dunque, come si potrà andare in
pensione nel 2013 tenendo conto che i requisiti (in sintesi
riprodotti in tabella) si differenziano in base al regime
contributivo cui si appartiene: quello retributivo/misto
(chi possiede un'anzianità contributiva al 31.12.1995)
e quello contributivo (chi non possiede un'anzianità
contributiva al 31.12.1995).
Da quattro a due pensioni. Fino all'anno scorso si era
abituati a ragionare sulle pensioni avendo in mente quattro
possibilità: la pensione di vecchiaia retributiva, la
pensione di vecchiaia contributiva, la pensione di anzianità
con le quote e la pensione di anzianità con il massimo di
lavoro (i famosi 40 anni). Dal 1° gennaio 2012 sono
scomparse queste pensioni, sostituite da due prestazioni: la
pensione di vecchiaia e la pensione anticipata.
Lavoratori con anzianità contributiva al 31.12.1995.
Nel 2013 hanno diritto alla pensione di vecchiaia con almeno
20 anni di contributi e un'età di: ...
(articolo ItaliaOggi del 28.12.2012). |
ENTI LOCALI: Bilanci 2013 zeppi di incognite.
I nodi: Imu, fondo di solidarietà, trasferimenti regionali.
Il 2012 lascia in eredità molte
questioni aperte. Giro di vite sugli oneri di
urbanizzazione.
L'esercizio finanziario che sta per iniziare si presenta,
per i comuni, ricco di incognite quanto quello che sta per
concludersi. Non a caso, la legge di stabilità 2013, appena
approvata dal parlamento, ha rinviato di sei mesi (al 30
giugno) il termine per l'approvazione del prossimo bilancio
di previsione.
Alcune delle questioni aperte nascono proprio da partite
relative al 2012 non ancora chiuse.
In primo luogo, entro il prossimo mese di febbraio si
provvederà alla regolazione dei rapporti finanziari con lo
stato a seguito della verifica del gettito dell'Imu (art. 9,
comma 6-bis, del dl 174/2012). In ogni caso, il Mef ha
chiarito che, in sede di consuntivo, gli enti dovranno
confermare l'importo relativo al gettito stimato dal
dipartimento delle finanze e che tale entrata convenzionale
deve essere considerata valida ai fini del Patto.
Contestualmente, dovrebbe essere reso definitivo il riparto
del taglio da 1.450 milioni previsto dall'art. 28 del dl
201/2011, anch'esso legato alla distribuzione territoriale
dell'Imu.
Infine, entro il 31 marzo (termine perentorio) i comuni
soggetti al Patto di quest'anno dovranno comunicare al
ministero dell'interno (con modalità da stabilire entro il
31 gennaio) l'importo non utilizzato per l'estinzione o la
riduzione anticipata del debito ai sensi dell'art. 8, comma
3, del dl 174, che verrà decurtato nel 2013. Tutte queste
variazioni riguardano la competenza 2012, ma in termini di
cassa incideranno sul 2013.
La nuova Imu
Lo «spacchettamento» dell'Imu deciso dalla legge di
stabilità (con destinazione ai comuni dell'intero gettito
sugli immobili residenziali ed allo stato di quello relativo
agli immobili produttivi), per quanto opportuno in una
prospettiva di medio-periodo, nell'immediato pone altri
punti interrogativi, essendo (inevitabilmente) accompagnato
da un nuovo meccanismo perequativo (il fondo di solidarietà
comunale) che sostituisce il fondo sperimentale di
riequilibrio (e i residui trasferimenti erariali) e che
difficilmente sarà operativo prima del mese di maggio. Per
la definizione dei relativi criteri di formazione e di
riparto, infatti, è prescritta l'adozione di un dpcm che
dovrà essere emanato (previo accordo in Conferenza
stato-città e autonomie locali) entro il 30 aprile (in caso
di mancato accordo il termine per l'emanazione slitta di 15
giorni).
Nelle more, il Viminale provvederà, entro il 28 febbraio, ad
erogare un anticipo pari al 20% di quanto dovuto ai comuni
per l'anno 2012 a titolo di fsr o di trasferimenti (a tal
fine si assumerà come riferimento l'importo delle spettanze
pubblicato alla data del 31.12.2012). I successivi
conguagli dovranno tenere conto di una lunga serie di
parametri (costi e fabbisogni standard, dimensione
demografica e territoriale, capacità fiscale ai fini Imu e
distribuzione del relativo gettito, tagli ex art. 16 del dl
95), oltre che ovviamente, anche in tal caso, dell'esito
delle verifiche sull'Imu 2012. Per evitare oscillazioni
eccessive, la legge di stabilità ha previsto l'introduzione
di una clausola di salvaguardia, che dovrebbe «limitare le
variazioni, in aumento e in diminuzione, delle risorse
disponibili».
Tares
Non pochi dubbi avvolgono anche il nuovo tributo comunale su
rifiuti e servizi indivisibili (Tares), che dal 1° gennaio
sostituirà Tarsu, Tia1 e Tia2. Sui siti di diversi comuni,
infatti, si trovano ancora istruzioni di pagamento ormai
superate (in quanto riferite al precedente regime fiscale o
tariffario), che vanno aggiornate quanto prima. Al riguardo,
occorre tener presente che la Tares può essere pagata o in
un'unica soluzione entro il mese di giugno o in modo
rateizzato. I comuni possono decidere autonomamente il
numero e la scadenza delle rate (la disciplina standard ne
prevede 4, scadenti a gennaio, aprile, luglio e ottobre), ma
per il 2013 la legge di stabilità ha previsto che il
versamento della prima rata sia comunque posticipato ad
aprile e che i comuni non possano anticiparlo, ma solo
eventualmente differirlo.
Sempre per il 2013, inoltre, fino alla determinazione delle
nuove tariffe, l'importo da pagare è commisurato a quanto
versato nel 2012 a titolo di Tarsu o di Tia, salvo
conguaglio, e il pagamento della quota per i servizi
indivisibili è effettuato nella misura standard di 0,30 euro
al metro quadrato fino all'ultima rata, allorché verrà
effettuato il conguaglio riferito all'eventuale incremento
della maggiorazione fino a 0,40 euro.
Trasferimenti regionali
Nebuloso è anche il destino trasferimenti regionali, che dal
2013 dovrebbero essere fiscalizzati e sostituti da una
compartecipazione all'addizionale regionale Irpef (e alla
tassa automobilistica regionale per le province). Al
momento, tuttavia, quasi nessuna regione ha provveduto (si
veda ItaliaOggi del 23 novembre).
Oneri di urbanizzazione
Dal prossimo anno, infine, non potranno più essere applicati
alla parte corrente della spesa i proventi degli oneri di
urbanizzazione: non è stata, infatti, prorogata la deroga di
cui all'art. 2, comma 8, della legge 244/2007, che ha quindi
esaurito i suoi effetti nel 2012
(articolo ItaliaOggi del 28.12.2012). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Trasparenza, albo e sito a
braccetto. I
chiarimenti in una delibera Civit.
Doppia trasparenza per gli enti locali. L'albo pretorio non
basta per la pubblicazione delle varie informazioni che
occorre mettere in evidenza ai fini delle varie disposizioni
che puntano sulla cosiddetta total disclosure. Occorre
sempre replicare ogni atto nella sezione «Trasparenza,
valutazione e merito», obbligatoriamente prevista nei siti
internet istituzionali, ai sensi del dlgs 150/2009.
Lo ha stabilito la Commissione per la valutazione, la
trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche (Civit)
con la
deliberazione
18.12.2012 n. 33/2012, confermando che l'attuale
regime delle pubblicazioni complica le cose per le
amministrazioni, costrette ad un'ondata di burocrazia, in
attesa che si modifichi il regime normativo delle
pubblicazioni obbligatorie.
La Civit ha inteso rispondere ad uno dei primi problemi
applicativi delle disposizioni dell'articolo 18 del dl
83/2012, convertito in legge 134/2012, la norma sulla
cosiddetta «amministrazione aperta», che in effetti crea un
doppione di molte pubblicazioni già obbligatorie ai sensi di
altre norme, relativamente ai procedimenti di erogazione di
contributi o di assegnazione di incarichi di collaborazione
esterna e di appalti, di importi superiori ai 1.000 euro.
Si constata, nella deliberazione della Civit, che alcuni tra
gli atti da pubblicare nell'albo pretorio (avvisi, bandi di
gare, appalti, bandi di concorso per l'assunzione di
personale) rientrano tra quelli che sia a norma
dell'articolo 18 della legge 134/2012, sia a norma della
legge 190/2012 (anticorruzione) devono essere pubblicati
anche sul sito dell'ente.
Secondo la Civit, «ad analoga conclusione si può pervenire
esaminando l'oggetto di alcune delle determinazioni
dirigenziali».
Né la norma sull'amministrazione aperta, né la legge
anticorruzione hanno espressamente previsto che le
pubblicazioni da esse previste siano sostitutive di quella
all'albo pretorio, che non è stata abrogata.
I primi osservatori avevano constato che in ragione di ciò,
le disposizioni sulla trasparenza fossero da cumulare: gli
adempimenti, dunque, sono aggiuntivi e non sostitutivi l'uno
dell'altro.
La Civit, correttamente, osserva che l'inserimento degli
atti nell'albo pretorio ha una durata temporalmente
limitata: ciò induce a ritenere tenere «distinto l'obbligo
di affissione nell'albo pretorio da quello di pubblicazione
sul sito web»; il secondo, infatti, non è espressamente
soggetto a limiti temporali (semmai, il problema è dato da
limiti «fisici» degli spazi di archiviazione).
Da qui la conclusione tratta dalla Civit: «L'affissione di
atti nell'albo pretorio online non esonera l'amministrazione
dall'obbligo di pubblicazione anche sul sito istituzionale
nell'apposita sezione “Trasparenza, valutazione e merito”,
nei casi in cui tali atti rientrino nelle categorie per le
quali l'obbligo è previsto dalla legge».
Le indicazioni della commissione sono ineccepibili ed
aderenti al dettato legislativo, ma confermano un incremento
notevole del carico di lavoro. In assenza di strumenti
informatici capaci di integrare le varie informazioni ed i
database contenenti gli atti da pubblicare, gli uffici
saranno chiamati a replicare più volte le pubblicazioni, con
buona pace della semplificazione e della razionalizzazione
del lavoro.
Risulta, dunque, urgente attuare la delega legislativa
prevista dall'articolo 1, comma 35, della legge 190/2012,
che chiama il Governo futuro a un decreto legislativo «per
il riordino della disciplina riguardante gli obblighi di
pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da
parte delle pubbliche amministrazioni, mediante la modifica
o l'integrazione delle disposizioni vigenti, ovvero mediante
la previsione di nuove forme di pubblicità»
(articolo ItaliaOggi del 28.12.2012). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Ghigliottina sui contratti locali.
Se non adeguati alla legge Brunetta cessano al 31/12.
Gli enti sono rimasti inerti credendo alla
disapplicazione della riforma. Accordi a rischio.
Tempo scaduto per i contratti collettivi decentrati degli
enti locali. Laddove non fossero stati adeguati alle
disposizioni della riforma Brunetta, il dlgs 150/2009, dal
01.01.2013 cesserà totalmente la loro applicazione e le
amministrazioni potrebbero trovarsi senza la legittima
possibilità di applicare la contrattazione aziendale.
Col nuovo anno, scatta la tagliola prevista dall'articolo 65
del dlgs 150/2009, ai sensi del quale era necessario per le
amministrazioni locali adeguare i contratti decentrati alla
riforma entro il 31.12.2011, in mancanza di che
cessano la loro efficacia con lo spirare del 31.12.2012.
Si conclude, dunque, il lunghissimo periodo di sospensione
dell'effetto ghigliottina sui contratti decentrati,
fortemente voluto a suo tempo dall'Anci, che si è rivelato,
però, molto controproducente.
Infatti, ambigue letture dell'articolo 65 sono state
utilizzate dai sindacati e dalle prime pronunce dei giudici
del lavoro, per ritenere che detto articolo avesse
addirittura sospeso l'efficacia della riforma Brunetta.
Questa tesi iniziale è stata, poi, smentita sia dalla
giurisprudenza successiva (in particolare dai tribunali in
sede di opposizione ai decreti monocratici dei giudici del
lavoro emessi in applicazione dell'articolo 28 dello statuto
dei lavoratori), sia dall'articolo 5, comma 1, del dlgs
141/2011.
Norma, quest'ultima, di interpretazione autentica, ai sensi
della quale «l'articolo 65, commi 1, 2 e 4, del decreto
legislativo 27.10.2009, n. 150, si interpreta nel senso
che l'adeguamento dei contratti collettivi integrativi è
necessario solo per i contratti vigenti alla data di entrata
in vigore del citato decreto legislativo, mentre ai
contratti sottoscritti successivamente si applicano
immediatamente le disposizioni introdotte dal medesimo
decreto».
Sta di fatto che l'iniziale erronea lettura della portata
dell'articolo 65 ha portato moltissimi enti a ritenere non
necessario adeguare i contratti in essere, in attesa della
disapplicazione ex lege.
Chi non avesse già adeguato i contratti o quanto meno
attivato per tempo la contrattazione per il 2013, rischia,
adesso, di trovarsi nell'impossibilità di erogare il
trattamento economico accessorio strettamente connesso alla
contrattazione e di disapplicare totalmente le disposizioni
decentrate di parte giuridica.
L'effetto ghigliottina sui contratti decentrati non adeguati
al dlgs 150/2009 implica che gli enti, in assenza di nuovi
contratti, potranno solo erogare i trattamenti connessi al
fondo della contrattazione decentrata direttamente
disciplinati dagli ancora vigenti contratti nazionali di
lavoro. Si tratta di voci come, ad esempio, la posizione di
sviluppo dovuta alla progressione orizzontale, l'indennità
di comparto, l'indennità di rischio, l'incentivo per le ex
ottave qualifiche funzionali, le indennità di turno,
reperibilità, maneggio valori, a condizione che siano
formalmente organizzati servizi richiedenti queste
prestazioni, l'orario notturno, festivo e notturno-festivo.
Non sarà possibile disciplinare nuove progressioni
orizzontali (del resto congelate per effetto dell'articolo
9, comma 1, della legge 122/2010, né ammissibili solo
giuridicamente, contrariamente all'erroneo indirizzo
proposto dalla Corte dei conti), né attribuire indennità la
cui determinazione risulti competenza esclusiva, anche per
l'ammontare, della contrattazione decentrata.
Si tratta, ad esempio, di tutte le indennità come quelle per
il disagio, o quelle previste dall'articolo 17, comma 2,
lettera f), del Ccnl 01.04.1999, o quelle previste per protocollatori o addetti agli uffici relazioni col pubblico,
ai sensi dell'articolo 17, comma 2, lettera i), sempre del
Ccnl 01.04.1999, come modificato dall'articolo 36, comma 2,
del Ccnl 22.01.2004.
Gli enti, per evitare il congelamento di queste risorse e di
importanti parti del salario accessorio è opportuno corrano
ai ripari e stipulino celermente contratti decentrati
adeguati senza eccezione alcuna al dlgs 150/2009, anche per
gli eventuali incrementi consentiti dall'articolo 15, commi
2 e 5, del Ccnl 01.04.1999.
In mancanza, le indennità connesse strettamente alla
contrattazione e anche la possibilità dell'incremento dei
fondi risulta compromessa. Né sarebbe legittimo attivare gli
istituti connessi alla contrattazione aziendale sulla base
di contratti decentrati sottoscritti nel corso del 2013, ma
con effetti retroattivi, poiché i contratti producono
effetti solo successivamente alla loro sottoscrizione
definitiva
(articolo ItaliaOggi del 28.12.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI:
Il 2013 sarà l'anno della Tares.
Rifiuti e servizi unificati in un unico tributo comunale. Tutto
quello che i comuni devono sapere per prepararsi
all'appuntamento del 1° gennaio.
Dal 01.01.2013 sono soppressi tutti i prelievi relativi
alla gestione dei rifiuti e in tutti i comuni del territorio
nazionale viene introdotto il tributo comunale sui rifiuti e
sui servizi. La conoscenza della produzione dei rifiuti
prodotti dalle utenze all'interno di un determinato
territorio, sia in termini quantitativi che qualitativi,
oltre a consentire di effettuare una corretta gestione dei
servizi di igiene urbana, consentirà di valutare, in maniera
diretta e secondo il principio del «chi più produce, più
paga», il corrispettivo che ciascuna utenza dovrà versare al
soggetto che di tale gestione si occupa.
Il calcolo della Tares dovrà essere effettuato sulla base
dell'80% della superficie catastale; tuttavia, per
consentirne una effettiva applicabilità dal 01.01.2013,
una recente disposizione prevede che, in via di prima
applicazione, per gli immobili che non hanno una superficie
catastale aggiornata, l'Agenzia del territorio determini una
superficie convenzionale.
In via transitoria, dal 01.01.2013 si potranno
applicare le disposizioni del dpr 158/1999 con una
maggiorazione di 0,30 euro per metro quadrato a copertura
dei costi.
I comuni potranno, con delibera del consiglio, modificare la
maggiorazione fino a 0,40 euro anche in virtù della
ubicazione e della tipologia dell'immobile. Sono previste
anche riduzioni (nella misura massima del 30% nel caso di a)
abitazioni con un unico abitante; b) abitazione per uso
stagionale; c) cittadini proprietari residenti all'estero
per più di sei mesi; d) fabbricati rurali a uso abitativo.
Una ulteriore riduzione (non superiore al 40% spetta per le
zone in cui non è effettuata la raccolta) ovvero nel caso di
smaltimento in proprio dei rifiuti assimilati. Il calcolo
del tributo avviene sulla base di tabelle allegate al
regolamento approvato dal comune. Tali dati possono essere
dedotti da una serie di specifiche tabelle allegate alla
citata normativa oppure in modo più preciso e razionale
eseguendo misure sperimentali dirette nell'ambito
territoriale di applicazione della Tares.
Le procedure di calcolo prevedono accertamenti sperimentali
per quantificare la produzione dei rifiuti da parte delle
diverse tipologie di utenza, e richiedono una
sperimentazione attiva capace di portare a regime la
corretta gestione e applicazione del tributo
(articolo ItaliaOggi del 28.12.2012). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Commissioni variabili.
Il regolamento può aumentare i componenti.
Fa eccezione solo la materia elettorale, di
competenza dello stato.
Può essere aumentato il numero dei componenti delle
commissioni consiliari permanenti e speciali previsto dal
regolamento comunale qualora l'attuale previsione fosse
ritenuta lesiva del principio di rappresentanza di ciascun
gruppo consiliare in seno alla commissione stessa?
L'articolo 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000 dispone che le
commissioni consiliari, una volta istituite sulla base di
una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate
dall'apposito regolamento comunale con l'inderogabile
limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del
criterio proporzionale nella composizione. Ciò significa che
le forze politiche presenti in consiglio devono essere il
più possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo
che in ciascuna di esse ne sia riprodotto il peso numerico e
di voto; la proporzionalità è volta ad assicurare in seno
alle commissioni la maggiore rappresentatività possibile.
Il legislatore, però, non ha precisato in che modo debba
essere applicato detto criterio di proporzionalità. Si
ritiene che spetti al regolamento, cui sono demandate la
determinazione dei poteri delle commissioni, nonché la
disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità
dei lavori, stabilire i meccanismi idonei a garantirne il
rispetto.
Secondo un orientamento giurisprudenziale, il criterio
proporzionale può dirsi rispettato solo ove sia assicurata
la presenza in ogni commissione di ciascun gruppo presente
in consiglio, in modo che se una lista è rappresentata da un
solo consigliere, questi deve essere presente in tutte le
commissioni costituite (v. Tar Lombardia, Brescia, 04/07/1992,
n. 796; Tar Lombardia Milano, 03/05/1996, n. 567), assicurando
una composizione delle commissioni proporzionata all'entità
di ciascun gruppo consiliare.
La stessa giurisprudenza richiamata ha, inoltre, precisato
che il criterio proporzionale «è posto dal legislatore come
direttiva suscettibile di svariate opzioni applicative,
egualmente legittime purché coerenti con la ratio che quel
principio sottende, e che consiste nell'assicurare in seno
alle commissioni la maggiore rappresentatività possibile. Al
raggiungimento di questo obiettivo concorrono, non solo la
rappresentanza individuale proporzionata alla consistenza
delle forze politiche presenti nell'organo elettivo, ma
anche –quando la varietà di consistenza e di numero dei
gruppi non consenta di conseguire l'obiettivo, con
precisione aritmetica, per quozienti interi– meccanismi
tecnici (quali il voto ponderato, il voto plurimo e simili)
idonei ad assicurare a ciascun commissario un peso
corrispondente a quello della forza politica che
rappresenta» (Tar Lombardia, n. 567/1996).
Pertanto, l'ente, nell'ambito della propria autonomia
organizzativa, potrà valutare l'evenienza di procedere ad
opportuna integrazione delle previsioni regolamentari,
individuando la soluzione applicativa che meglio garantisca
il rispetto del criterio proporzionale nella composizione
delle commissioni consiliari.
Tuttavia, un'eventuale modifica regolamentare che determini
l'aumento del numero dei componenti delle commissioni
consiliari, non potrà in alcun modo trovare applicazione con
riferimento alla composizione della commissione elettorale
comunale, disciplinata dall'art. 12 del dpr 20.03.1967,
n. 223.
Infatti, la materia elettorale rientra tra quella di
competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell'art. 117,
comma 2, lett. p) della Costituzione, e agli adempimenti ad
essa relativi sovrintende il sindaco in qualità di ufficiale
del governo (artt. 14 e 54, comma 3, del dlgs. n. 267/200)
(articolo ItaliaOggi del 28.12.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Riforma
forense. Compensi senza limiti massimi.
Il preventivo dell'avvocato solo su richiesta del cliente.
ACCORDI/
Il patto di quota lite resta possibile ma il professionista
non può ricevere parte del bene oggetto della causa.
La legge professionale degli avvocati tende ad eliminare le
asimmetrie informative, cioè le incertezze, le difficoltà di
orientamento del cliente. La scelta del professionista deve
poter avvenire anche sulla base di una comparazione tra
compensi, cioè circa i costi della prestazione, che in ogni
caso è “obbligazione di mezzo”. L'avvocato cioè mette a
disposizione i mezzi per raggiungere un risultato, non
garantisce il risultato stesso. Solo in modo indiretto, e
appunto in tema di compensi, vi può essere un impegno del
legale a raggiungere il risultato, ancorando la retribuzione
al vantaggio concreto del cliente (patto di quota lite).
Procedendo con ordine, nell'ottica dell'utente, si possono
prevede situazioni di prestazione gratuita (articolo 13), ad
esempio per condivisione di interessi, partecipazione a
comuni ideali o per valutazione della notorietà che può
derivare al professionista dalla controversia. L'avvocato
infatti può esercitare l'attività anche a proprio favore,
traendo un vantaggio anche indiretto, ad esempio nel caso di
partecipazione all'affare (difendendo propri interessi in
una lite condominiale, tra soci, tra parenti), a differenza
di altre professioni, in cui è presente anche una funzione
di garanzia per i terzi (ad esempio, nella revisione
contabile). La prestazione gratuita, che il cliente avrà
cura di pattuire espressamente, non è in contrasto con il
principio della «retribuzione proporzionata e sufficiente»
posto dall'articolo 36 della Costituzione (Cassazione
1223/2003).
Anche la prestazione pattuita come gratuita potrebbe,
tuttavia, diventare onerosa se si altera l'equilibrio
iniziale (ad esempio, la comunanza di interessi, di ideali,
la potenziale parentela): di qui l'opportunità che patti su
prestazioni gratuite siano redatti in forma scritta, con una
clausola di invariabilità.
Le pattuizioni sul compenso possono avere varie basi di
calcolo (si veda la scheda in alto), tenendo presente che
non sono previsti limiti massimi. È tuttavia possibile che
una pretesa eccessiva del professionista sia stata ottenuta
sulla base di un errore del cliente (che pensava
particolarmente difficile il risultato), o di una situazione
di debolezza (infondato timore di un danno che avrebbe
potuto verificarsi): in questi casi l'avvocato che risulti
aver approfittato del cliente rischia anche sanzioni
disciplinari. Un problema simile a quello dei limiti
massimi, è posto dal patto di quota lite.
Tale patto prevede
che il compenso del professionista sia collegato ad un certo
risultato, coinvolgendo il professionista stesso nella
tensione verso un risultato favorevole. In caso di vittoria,
il compenso è ancorato al valore del bene ottenuto, anche
superando quanto risulterebbe applicando un compenso medio,
elevato o elevatissimo. Il patto di quota lite ha l'effetto
di coinvolgere il professionista nel risultato da ottenere,
e rimedia sia alla mancata anticipazione del compenso (in
genere, una percentuale di quanto pattuito per l'intera
vicenda) sia alla mancata anticipazione delle spese vive
(consulenze, approfondimenti, studi).
La riforma forense
appena approvata consente tale patto, ma pone uno specifico
limite: l'articolo 13, comma 4 impedisce che l'avvocato
percepisca, come compenso, una quota del beni oggetto della
prestazione. Ciò significa che il professionista non può,
attraverso la vittoria di una lite o la positiva gestione di
una trattativa, diventare socio, quotista o comproprietario
di un bene insieme al suo cliente. L'avvocato può esigere il
pagamento della quota lite, ma solo in danaro, senza poter
obbligare il cliente a condividere il bene. In tal modo, si
applica alla professione il divieto di “patto commissorio”
(articolo 2744 del Codice civile).
La legge professionale non prevede l'obbligo di forma
scritta per i patti sul compenso, nemmeno nei casi di
prestazione gratuita o di quota lite. È tuttavia intuitivo
che, sia per le ipotesi di compensi squilibrati (gratuiti o
in quota lite), sia per la generalità degli affari legali,
le parti coinvolte si scambieranno corrispondenza. Se il
cliente lo chiede, il professionista è tenuto a comunicare
in forma scritta la prevedibile misura del costo della
prestazione, con voci suddivise in spese, oneri (fiscali,
previdenziali) e compenso professionale. Il cliente, in tal
modo, potrà comparare i servizi offerti.
---------------
I compensi
01 | PATTUIZIONE A TEMPO
La «Pattuizione a tempo» si applica alle prestazioni per lo
più telefoniche, all'assistenza a singoli atti. Viene
definita «a tempo» perché ha come unità di misura l'ora o
una sua frazione di effettivo impegno
02 | PATTUIZIONE FORFETARIA
La «Pattuizione forfetaria» opera indipendentemente dal
tempo e dalla difficoltà del caso. Normalmente si collega ad
una specifica vicenda o ad una fase predefinita
03 | SU UNO O PIÙ AFFARI
L'indicazione «Su uno o più affari» presuppone la
delimitazione di un oggetto di consulenza o di una specifica
lite. Può esser collegato ad un'esclusiva o ad un numero
minimo di affari da gestire
04 | IN BASE AI TEMPI DI EROGAZIONE
L'indicazione «In base ai tempi di erogazione» riguarda i
tempi di risposta, immediata, dodici ore, ventiquattro ore o
altra tempistica con o senza presenza fisica
05 | IN BASE ALL'ASSOLVIMENTO
L'indicazione «In base all'assolvimento» riguarda i dettagli
dell'incarico: ad esempio, la possibilità di farsi
sostituire da ausiliari o collaboratori
06 | PER SINGOLE FASI O PRESTAZIONI
L'indicazione «per singole fasi o prestazioni» riguarda le
vicende che possono evolversi, ad esempio in primo grado, in
appello, in Cassazione, urgente (cautelare) o di merito (che
si conclude con sentenza)
07 | A PERCENTUALE
L'indicazione «A percentuale» sottointende sul valore
economico dell'affare o sul vantaggio, anche non
strettamente patrimoniale, del cliente
(articolo Il
Sole 24 Ore del 27.12.2012). |
CONDOMINIO: Pubblicate
in G.U. le nuove disposizioni sui condomini, in vigore anche
per quelli complessi. Una riforma senza esclusioni.
Disciplina estesa a villette a schiera o centri residenziali.
Disciplina condominiale ad ampio raggio. La legge di
riforma, la n. 220 dell'11/12/2012, pubblicata sulla
Gazzetta Ufficiale n. 293 del 17 dicembre scorso, ha infatti
definitivamente chiarito che la nuova disciplina si applica
anche ai condomini complessi, o supercondomini, ai c.d.
condomini orizzontali e anche nelle ipotesi di
multiproprietà.
In altri termini, la normativa dettata per i caseggiati
costituiti da un unico corpo si applica anche a quei
complessi edilizi sempre più articolati, distinti in diversi
corpi di fabbrica, dotati di autonomia strutturale, ma
caratterizzati dalla presenza di una serie di opere e
servizi comuni a tutto il complesso edilizio. Tale principio
riguarda il grande caseggiato composto da una pluralità di
corpi di fabbrica affiancati l'uno all'altro, con le scale,
gli ingressi e la copertura distinti, ma aventi in comune
determinate parti essenziali o utili, e il gruppo di
palazzine signorili o di palazzi con numerosi piani, i quali
in comune beneficiano di alcuni beni, impianti e servizi
necessari per l'esistenza o per l'uso, ovvero destinati
all'uso o al servizio comune.
Il nuovo art. 1117-bis del codice civile, introdotto dalla
legge di riforma, chiarisce quindi che la disciplina del
condominio si applica, in quanto compatibile, in tutti i
casi in cui più unità immobiliari o più edifici ovvero più
condomini di unità immobiliari o di edifici abbiano parti
comuni (per esempio, i muri maestri, i pilastri di ferro o
di cemento armato legati tra loro dalle travi, i lastrici
solari, il riscaldamento centrale, l'impianto per l'acqua
calda e per il condizionamento dell'aria, l'ingresso e le
strade di accesso ecc.).
La medesima disciplina si applica
anche alle villette o costruzioni plurifamiliari delle
località di villeggiatura: infatti, di condominio si può
parlare non solo negli edifici che si estendono in senso
verticale, ma anche in relazione a corpi di fabbrica
adiacenti orizzontalmente (come in particolare proprio le
villette c.d. a schiera), che possono ben essere dotati di
strutture portanti e di impianti essenziali comuni. Quindi
anche nel caso in cui le unità immobiliari esclusive non
siano disposte verticalmente (una sopra all'altra nello
stesso edificio) ma orizzontalmente, cioè una accanto
all'altra, sussiste un'ipotesi di condominio, da
qualificarsi come orizzontale qualora esista un patrimonio
comune a tali porzioni, cioè un complesso di beni e/o
impianti destinati strutturalmente e funzionalmente al
servizio o al godimento delle predette unità immobiliari
private.
Tutte queste situazioni sono oggi contemplate nella legge di
riforma del condominio. In particolare, seguendo la
definizione normativa, possono ipotizzarsi le seguenti
combinazioni: più unità immobiliari autonome, per esempio
villette o garage; più edifici condominiali; più gruppi di
unità immobiliari autonome aventi ciascuno un'organizzazione
condominiale, definiti condomini di unità immobiliari; più
gruppi di edifici condominiali, definiti condomini di
edifici. In tutte le quattro ipotesi considerate, la
caratteristica comune è rappresentata dall'esistenza di
parti che servono all'uso comune, quali aree, opere,
installazioni e manufatti di qualunque genere. Non si ha,
invece, condominio quando vi sono edifici totalmente
distinti e autonomi: infatti, le regole condominiali
riguardano essenzialmente gli immobili divisi in piani
orizzontali e trovano applicazione anche per quei fabbricati
che siano verticalmente divisi da una semplice paratia di
legno. Esse non riguardano invece l'edificio che sia diviso
in due parti da un muro interno verticale, dalle fondamenta
al tetto, in modo da formare due corpi di fabbrica distinti
e autonomi.
Allo stesso modo la nuova disciplina riguarda anche i
proprietari delle singole unità immobiliari dell'edificio,
anche se aventi diritto a godimento periodico, cioè i
proprietari di appartamenti in multiproprietà facenti parte
di un condominio: il multiproprietario è condomino diretto a
tutti gli effetti ed è titolare dei diritti e degli obblighi
che gli fanno capo, in quanto condomino. Del resto la
multiproprietà di singole unità immobiliari nell'ambito di
un complesso residenziale non importa alcuna deroga
all'applicazione della disciplina sul condominio negli
edifici per quanto riguarda le parti e ai servizi comuni di
utilità generale all'intero edificio.
Inoltre resta confermato che la sussistenza del condominio
non è influenzata dal numero dei titolari delle proprietà
esclusive, con la conseguenza che è sufficiente che vi siano
anche due soli partecipanti affinché lo stesso venga a
giuridica esistenza e si applichino le relative regole di
funzionamento e di gestione: si tratta del c.d. condominio
minimo
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.12.2012). |
VARI: Il
ddl sulle categorie non regolamentate. Vigilanza al
ministero dello sviluppo. L'albo non fa più la differenza.
Regole chiare per le professioni.
Attività in chiaro per i senz'albo. Il consumatore che vuole
affidarsi a un professionista non iscritto a un ordine,
infatti, d'ora in poi potrà andare sul sito del ministero
dello sviluppo economico, scorrere l'elenco delle
associazioni professionali legate al settore d'interesse, e
valutare attestazioni e standard qualitativi degli iscritti.
È questo uno degli obiettivi principali del disegno di legge
sulle professioni non regolamentate, approvato il 19
dicembre scorso in via definitiva dalla Camera (si veda ItaliaOggi del 20 dicembre), che regolamenta dopo 30 anni un
universo di 3,5 milioni di lavoratori, dipendenti e
autonomi, che esercitano un'attività professionale senza
essere iscritti in ordini o albi professionali. Ma vediamo
nel dettaglio cosa prevede la legge, in via di pubblicazione
sulla Gazzetta Ufficiale.
Le definizioni. Il ddl definisce anzitutto la professione
non organizzata in ordini o collegi, escludendo dalla
disciplina le attività riservate per legge a soggetti
iscritti in albi o collegi, le professioni sanitarie e le
attività e mestieri artigianali, commerciali e di pubblico
esercizio disciplinati da specifiche normative. Chiunque
svolga una professione non ordinistica, inoltre, dovrà
contraddistinguere la propria attività, in ogni documento e
rapporto scritto con il cliente, con l'espresso riferimento,
quanto alla disciplina applicabile, agli estremi della
stessa legge.
Le associazioni. I professionisti possono costituire
associazioni professionali, allo scopo di valorizzare le
competenze degli associati, diffondere tra essi il rispetto
di regole deontologiche, favorendo la scelta e la tutela
degli utenti nel rispetto delle regole sulla concorrenza. Le
associazioni hanno natura privatistica, sono fondate su base
volontaria, senza alcun vincolo di rappresentanza esclusiva.
Promuovono la formazione permanente dei propri iscritti,
adottano un codice di condotta, vigilano sulla condotta
professionale degli associati, definiscono le sanzioni
disciplinari da irrogare agli associati per le violazioni
del medesimo codice e promuovono forme di garanzia a tutela
dell'utente, tra cui l'attivazione di uno sportello di
riferimento per il cittadino consumatore. Le associazioni
possono anche costituire forme aggregative, che
rappresentano le associazioni aderenti e devono agire in
piena indipendenza e imparzialità. Si tratta di soggetti
autonomi rispetto alle associazioni professionali che le
compongono. Le forme aggregative hanno funzioni di
promozione e qualificazione delle attività professionali che
rappresentano, nonché di divulgazione delle informazioni e
delle conoscenze a esse connesse e di rappresentanza delle
istanze comuni nelle sedi politiche e istituzionali. Su
mandato delle singole associazioni, esse possono controllare
l'operato delle medesime associazioni, ai fini della
verifica del rispetto e della congruità degli standard
professionali e qualitativi dell'esercizio dell'attività e
dei codici di condotta definiti dalle stesse associazioni.
La pubblicità. Le associazioni pubblicano sul proprio sito
web gli elementi informativi che presentano utilità per il
consumatore, secondo criteri di trasparenza, correttezza,
veridicità. Della correttezza di tali informazioni
garantisce il responsabile legale dell'associazione
professionale o della forma aggregativa. Nei casi in cui le
associazioni autorizzino i propri associati a utilizzare il
riferimento all'iscrizione all'associazione quale marchio o
attestato di qualità dei propri servizi, sul proprio sito
Internet devono rendere disponibili anche le informazioni
sul significato dei marchi e sui criteri di attribuzione dei
marchi e degli altri attestati di qualità, dandone
contemporaneamente notizia al ministero dello sviluppo
economico, ai sensi dell'articolo 81 del decreto legislativo
di recepimento della c.d. «direttiva servizi» (dlgs
59/2010).
Le attestazioni. Le associazioni professionali possono
rilasciare ai propri iscritti delle attestazioni su
molteplici aspetti, dalla regolare iscrizione del
professionista, requisiti e standard qualitativi, possesso
della polizza assicurativa, previe le necessarie verifiche,
sotto la responsabilità del proprio rappresentante legale,
al fine di tutelare i consumatori e di garantire la
trasparenza del mercato dei servizi professionali. Tali
attestazioni non rappresentano però requisito necessario per
l'esercizio dell'attività professionale. Per i settori di
competenza, le medesime associazioni possono promuovere la
costituzione di organismi di certificazione della conformità
a norme tecniche Uni, accreditati dall'organismo unico
nazionale di accreditamento (Accredia), che possono
rilasciare, su richiesta del singolo professionista anche
non iscritto ad alcuna associazione, il certificato di
conformità alla norma tecnica Uni definita per la singola
professione.
La vigilanza.
La non veridicità delle informazioni pubblicate sul sito
dell'associazione o contenute nell'attestazione rilasciata,
infine, è sanzionabile ai sensi dell'articolo 27 del Codice
del consumo dall'Autorità garante della concorrenza e del
mercato, anche su segnalazione del ministero dello sviluppo
economico, che svolge compiti di vigilanza sul mercato
relativamente alla corretta attuazione delle previsioni
della legge
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.12.2012). |
ENTI LOCALI: Legge
di stabilità. L'effetto delle nuove regole dipende dalla
situazione in ogni ente in termini di competenza mista.
Ai mini-enti Patto con mini-bonus.
Nel 2013 per i Comuni tra mille e 5mila abitanti obiettivi
di saldo al 13 per cento.
LE CONSEGUENZE/
L'estensione delle regole di finanza pubblica impatta anche
sulla gestione del personale e delle società partecipate.
Niente da fare. Nonostante le manifestazioni, le proposte di
emendamenti, le richieste di proroga, da gennaio anche i
Comuni fra mille e 5mila abitanti dovranno fare i conti con
il Patto di stabilità.
Nelle Regioni soggette ai vincoli ordinari del Patto si
tratta di 3.422 Comuni (il 42,3% dei municipi italiani), che
nel complesso moltiplicano per 2,5 volte la platea obbligata
a centrare gli obiettivi di saldo imposti dalle manovre di
finanza pubblica.
Facili da immaginare i problemi tecnici e applicativi che
porterà con sé la cervellotica architettura del Patto di
stabilità, con il suo metodo della «competenza mista»
(competenza di parte corrente e cassa di conto capitale), le
voci incluse e quelle escluse e le ricadute sulla disciplina
relativa a personale e società. Altrettanto facile da
prevedere un ampliamento della mole di pagamenti alle
imprese incagliati nelle casse degli enti, soprattutto
perché nei Comuni medio-piccoli la spesa corrente, su cui si
fondano tutti i calcoli del Patto, è assai meno lineare nel
tempo rispetto a quella delle città, con la conseguenza che
non saranno rari i casi in cui le amministrazioni si
troveranno ad avere a che fare con obiettivi irraggiungibili
o di fatto casuali.
Nel tentativo di rendere un po' meno amara la novità, la
legge di stabilità nella versione emendata al Senato e
confermata in via definitiva, assegna agli enti fra mille e
5mila abitanti un obiettivo un po' più leggero rispetto a
quello riservato a chi già da anni è inserito nei meccanismi
del Patto di stabilità. Per tutti i Comuni, la base di
calcolo viene aggiornata rispetto agli anni scorsi e fa
riferimento alla media registrata nel triennio 2007/2009.
Per chi conta più di 5mila abitanti, l'obiettivo di saldo si
ottiene applicando a questa grandezza il moltiplicatore del
15,8%, mentre se i residenti sono compresi fra mille e 5mila
il parametro da applicare è il 13 per cento. Di conseguenza,
l'avanzo obbligatorio da raggiungere per rispettare gli
obiettivi di bilancio sarà un po' più leggero rispetto a
quello assegnato agli altri enti. Solo per un anno però,
perché dal 2014 (quando nei vincoli del Patto entreranno
anche i Comuni sotto i mille abitanti che si aggregheranno
in Unioni senza scegliere la via alternativa delle
convenzioni) il moltiplicatore sarà per tutti il 15,8 per
cento.
L'effetto del "bonus", comunque, è del tutto relativo
e dipenderà dalle condizioni di bilancio dei singoli Comuni:
il Patto impone a tutti un avanzo in termini di competenza
mista, un sistema contabile che i piccoli enti non hanno mai
utilizzato, e la strada sarà particolarmente in salita per
chi oggi presenta un bilancio in pareggio secondo i criteri
ordinari ma disavanzo secondo questi parametri. Ovviamente,
come per gli altri Comuni, anche per i piccoli c'è la
possibilità di essere considerati «virtuosi» in base alla
capacità di riscossione, all'equilibrio corrente e
all'autonomia finanziaria. Dal 2013, nei parametri di
virtuosità entrano anche i valori catastali e il numero di
occupati (anche se di quest'ultimo indicatore non è chiara
la relazione con le condizioni della finanza locale).
L'ingresso nel mondo del Patto di stabilità non cambia solo
la gestione del bilancio, ma modifica anche le regole per la
gestione del personale. Gli enti fra mille e 5mila abitanti
dovranno abbandonare il tetto che limita la spesa ai livelli
registrati nel 2008, e abbracciare le regole che chiedono di
ridurre l'incidenza delle spese di personale sul complesso
delle uscite correnti intervenendo sulla «razionalizzazione
delle strutture» e sulle dinamiche della contrattazione
integrativa.
---------------
Che cosa cambia
01 | IL PATTO
Dal 2013 rientrano nei meccanismi del Patto di stabilità
anche i Comuni con popolazione compresa fra mille e 5mila
abitanti. Dal 2014 le regole si estenderanno anche ai Comuni
con meno di mille abitanti che si aggregheranno nelle Unioni
02 | IL BONUS
Gli obiettivi di saldo si individuano applicando
alla media della spesa corrente 2007/2009 il moltiplicatore
del 13 per cento. Dal 2014 il moltiplicatore diventa quello
generale del 15,8 per cento
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.12.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Equilibri.
Obbligo di utilizzo per investimenti e debito.
L'alienazione non può finanziare la spesa corrente.
LA FACOLTÀ/ Per ripristinare gli equilibri concessa la
possibilità di modificare le tariffe e le aliquote dei
tributi locali entro il 30 settembre.
Era nell'aria. Dal 01.01.2013 l'equilibrio di parte
corrente di Comuni e Province sarà più stringente. La
versione definitiva della legge di stabilità cancella
infatti la norma che finora ha consentito di utilizzare il
plusvalore delle alienazioni patrimoniali per finanziare le
spese correnti aventi carattere non permanente (articolo 3,
comma 28, legge 350/2003) e per rimborsare la quota di
capitale delle rate di ammortamento dei mutui (articolo 1,
comma 66, legge 311/2004). I proventi da alienazioni
patrimoniali, precisa la legge di stabilità 2013, potranno
essere destinati solo a coprire le spese di investimento, o,
in assenza di queste o per la parte eccedente, per ridurre
il debito.
Sempre in tema di equilibrio di parte corrente del bilancio
di previsione, dal 2013 sparirà anche l'altra deroga, ancora
più utilizzata, relativa all'utilizzo delle entrate da
rilascio di permessi di costruire (prima denominati oneri di
urbanizzazione) per finanziare le spese correnti, nella
misura del 50%, e, per un ulteriore 25%, per coprire le
spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e
del patrimonio. Già nel bilancio di previsione 2012-2014 i
Comuni hanno dovuto "quadrare" i conti degli ultimi due anni
del pluriennale senza far ricorso a questa possibilità, che
era consentita solo fino al 2012 (dopo la proroga introdotta
sull'articolo 2, comma 8 della legge 244/2007). Pertanto, le
entrate da permessi di costruire potranno essere destinate
solo a coprire le spese di investimento.
L'ultima stretta sull'equilibrio corrente va a colpire la
salvaguardia degli equilibri di bilancio prevista
dall'articolo 193 del decreto legislativo 267/2000. Dal
prossimo anno i proventi derivanti da alienazione di beni
patrimoniali potranno essere utilizzati solo per
ripristinare gli equilibri di parte capitale e non potranno
più essere impiegati per gli squilibri di parte corrente.
Per il ripristino degli equilibri spunta una facoltà nuova
per gli enti locali: quella di modificare le tariffe e le
aliquote relative ai tributi di propria competenza entro la
data della verifica degli equilibri (30 settembre). E ciò in
deroga, si legge nel testo, all'articolo 1, comma 169, della
legge 296/2006, secondo cui le tariffe e le aliquote dei
tributi di competenza degli enti locali sono deliberate
entro la data fissata per la deliberazione del bilancio di
previsione.
L'attenzione all'equilibrio di parte corrente è già entrata
nel mondo della finanza locale nel capitolo "virtuosità"
ai fini del patto di stabilità e fra gli indicatori "spia"
che possono far scattare verifiche ispettive da parte del
ministero dell'Economia. Ora, queste norme restrittive
intendono agire sulla qualità della spesa. Infatti,
impongono un limite alla dinamica della spesa corrente, dopo
che per il rispetto del patto di stabilità gli enti locali
hanno compresso maggiormente la spesa per investimenti
rispetto a quella corrente
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.12.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: La
supplenza. Verifiche del Viminale sul rispetto dei vincoli
di bilancio.
Revisori-commissari per certificare i conti.
LE SANZIONI/ Fino alla comunicazione sono sospesi erogazioni
e trasferimenti di fondi e scatta il divieto di nuove
assunzioni.
Si allarga il coinvolgimento dei revisori dei conti in
materia di patto di stabilità interno: da controllori
possono diventare anche commissari ad acta. È l'effetto
delle novità introdotte dal testo finale dalla legge di
stabilità 2013 sulla certificazione finale del rispetto del
patto di stabilità interno.
L'intervento punta a recuperare i "numeri" degli enti che
non trasmettono i dati effettivi al ministero dell'Economia
entro il termine perentorio del 31 marzo dell'anno
successivo. E lo fa agendo su due fronti. Da un lato,
concede più tempo: 60 giorni dal termine stabilito per
l'approvazione del rendiconto (30 giugno, quindi, e non più
15 maggio). Dall'altro lato, addossa l'adempimento
all'organo di revisione economico-finanziaria, che esce così
sempre più carico di compiti e responsabilità dopo ogni
provvedimento normativo di finanza locale (da ultimo, i
decreti legge 83/2012 sulla crescita, 95/2012 sulla spending
review e 174/2012 sul riordino degli enti locali).
La norma introduce, negli enti che non inviano la
certificazione entro il 30 giugno, l'obbligo per il
presidente dell'organo di revisione economico-finanziaria
(in presenza di un collegio) o per il revisore unico (in
caso di organi monocratici) di provvedere, in qualità di
commissario ad acta, ad assicurare l'assolvimento
dell'adempimento e a trasmettere la certificazione entro i
successivi 30 giorni, con la sottoscrizione di tutti i
soggetti tenuti. In altri termini, il revisore dei conti, se
verifica che il responsabile finanziario non ha inoltrato i
dati consuntivi, si deve sostituire a questo e inviare i
dati entro il 30 luglio, acquisendo anche le firme del
responsabile del servizio finanziario e del sindaco o del
presidente della Provincia.
Sino alla data di trasmissione da parte del commissario ad acta le erogazioni di risorse o trasferimenti da parte del
ministero dell'Interno sono sospese. A questo fine, la
Ragioneria generale dello Stato trasmette una comunicazione
ad hoc al ministero dell'Interno.
La novità sostituisce la precedente norma che equiparava gli
enti che non avessero inviato la certificazione entro il 31
marzo agli enti fuori patto di stabilità, con conseguente
assoggettamento alle sanzioni.
Ora, per gli enti rispettosi dei vincoli del patto di
stabilità interno, che però trasmettono la certificazione
finale in ritardo, comunque entro il 30 giugno, si applica
la sanzione del divieto di assumere personale a qualsiasi
titolo. Ancora, il testo della legge di stabilità 2013
introduce l'obbligo di trasmettere la certificazione dei
risultati finali a rettifica di quella precedentemente
inviata; l'obbligo scatta decorsi 60 giorni del termine
stabilito per approvare il rendiconto, se l'ente rileva, con
riferimento alla certificazione già trasmessa, un
peggioramento del saldo finanziario effettivo rispetto
all'obiettivo del patto
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.12.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI: Pagamenti
Pa. La circolare 36.
Incognita Durc sul «visto» ai crediti.
Nuove indicazioni sulle certificazioni dei crediti di somme
dovute da Regioni, enti locali ed enti del servizio
sanitario nazionale per lavori, forniture e servizi, per
consentire ai creditori la cessione dei crediti a banche o
intermediari finanziari. Le ha fornite il ministero
dell'Economia dopo che, con il decreto del 29 ottobre
scorso, ha chiarito le disposizioni del precedente decreto
del 25 giugno.
Con la circolare 36, pubblicata sulla
«Gazzetta Ufficiale» 291 del 14 dicembre, il ministero ha
poi fornito le istruzioni applicative, con particolare
riferimento all'utilizzo della piattaforma elettronica e
alle comunicazioni da inviare al ministero.
Circa la regolarità contributiva, certificata dal Durc, che
la stazione appaltante deve chiedere ai datori di lavoro in
ogni fase della gestione dei contratti, la circolare non
ritiene che il documento vada richiesto in sede di
certificazione, ma di pagamento. Poiché tra il rilascio
della certificazione e l'erogazione dei fondi da parte della
banca cessionaria del credito trascorrono pochi giorni, è
opportuno che sia l'ente pubblico a chiedere il Durc al
momento della certificazione e a comunicare l'esito alla
banca. Se il documento evidenzia inadempienze non iscritte a
ruolo, e quindi non risultanti dalla verifica in base
all'articolo 48-bis del Dpr 602/1973, la banca ne terrà conto
nella determinazione della somma da erogare, per evitare
perdite contributive.
Circa la tracciabilità dei flussi finanziari, prevista dalla
legge 136/2010, modificata e completata dal decreto legge
187/2012, ai fini della lotta contro la mafia, la circolare
36 non dà invece informazioni. La normativa prevede che nei
contratti con gli appaltatori per lavori, forniture e
servizi pubblici deve essere inserita, a pena di nullità,
una clausola con la quale gli operatori economici coinvolti
in appalti pubblici si impegnano a utilizzare conti
correnti, accesi presso banche (o poste), dedicati alle
commesse pubbliche, sui quali devono essere esclusivamente
eseguiti tutti i movimenti finanziari riferiti ai contratti.
È inoltre previsto che gli strumenti di pagamento devono
riportare, per ciascuna transazione posta in essere dalla
stazione appaltante, il codice identificato di gara (Cig) e,
se richiesto in base all'articolo 11 della legge 3/2003, il
codice unico di progetto (Cup). Anche queste indicazioni
dovrebbero essere comunicate dalla stazione appaltante, che
ne è a conoscenza, alla banca cessionaria del credito in
sede di certificazione. Altrimenti, se non viene informata,
la banca non potrebbe versare i fondi sul conto corrente
dedicato e indicare Cig e Cup
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.12.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
legge di stabilità.
IL PUBBLICO IMPIEGO/ Torna la buonuscita «pesante».
Riliquidazione entro un anno per tutti i soggetti che erano
stati penalizzati.
La prima regola che entrerà definitivamente in vigore con la
pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» della legge di
stabilità è quella sul trattamento di fine servizio dei
dipendenti pubblici, che ripesca il decreto sullo stesso
tema varato a fine ottobre dal Governo dopo la bocciatura
costituzionale (sentenza 223/2012) delle regole scritte
nella manovra 2010.
In pratica, si fissa nella legge il termine di un anno entro
il quale le Pubbliche amministrazioni dovranno ri-erogare il
trattamento di servizio in formula piena ai dipendenti
pubblici che erano in regime di Tfs (e quindi erano stati
assunti prima del 31.12.2000), e che sono usciti
dall'ufficio fra il 01.01.2011 e l'ottobre del 2012
vedendosi di conseguenza riconoscere un assegno d'uscita
alleggerito perché fondato sul sistema di calcolo del Tfr,
cioè quello applicato ai dipendenti privati e ai pubblici
con anzianità minore.
L'allineamento fra Tfr e trattamento di fine servizio (Tfs)
era stato introdotto nella manovra estiva 2010 (articolo 12,
comma 10, del Dl 78/2010) all'interno del pacchetto di
misure nate dall'esigenza di contenere le spese per il
pubblico impiego. L'ingresso di questi dipendenti nella "famiglia"
del Tfr non aveva, però, fatto cadere la trattenuta del 2,5%
a loro carico prevista dal vecchio regime, e questo aspetto
ha contribuito a far cadere l'intero meccanismo sotto i
colpi della Corte costituzionale.
La via d'uscita individuata con il decreto ora accolto dalla
legge di stabilità ai commi 98-100 permette di salvaguardare
i diritti dei dipendenti interessati senza il rischio di far
saltare a breve i bilanci degli enti pubblici, e in
particolar modo quelli di Comuni e Province che avevano
impostato tutta la programmazione sulla base della
trattenuta del 2,5% a carico del dipendente.
La decisione della Corte costituzionale aveva aperto infatti
una doppia strada. La regola è: il regime di Tfs comporta la
trattenuta del 2,5%, ma offre una buonuscita più ricca,
quello del Tfr elimina la trattenuta e alleggerisce
l'assegno d'addio. La nuova norma in pratica afferma che per
i dipendenti assunti prima del 31.12.2000 il regime di Tfs
non è mai venuto meno, perché l'allineamento viene abrogato
retroattivamente dal 01.01.2011, data della sua entrata in
vigore. Morale della favola: rimane la trattenuta, e il
calcolo più "generoso" della buonuscita.
Nel capitolo dedicato al reclutamento, la legge di stabilità
affronta poi la questione precari, cercando un equilibrio
fra l'esigenza di non chiudere la porta ai titolari di
contratti a termine (e alle attività loro assegnate) e
quella di non far saltare la programmazione della spesa
pubblica. Per tenere insieme questi due fattori, la legge
(commi 400 e seguenti) disegna una procedura in due
passaggi. Il primo offre alle amministrazioni pubbliche la
possibilità di prorogare fino al 30 giugno i contratti che
superano il limite di 36 mesi, tramite accordi decentrati
con le organizzazioni sindacali più rappresentative.
La seconda punta invece sui concorsi pubblici, che potranno
prevedere una riserva di posti del 40% a favore di chi ha
già svolto almeno tre anni di servizio, e possono premiare
nel punteggio l'esperienza maturata da chi ha passato almeno
tre anni da co.co.co. I concorsi, però, non potranno uscire
dai binari fissati dalla programmazione triennale del
personale e dal tetto del 50% delle risorse finanziarie
disponibili
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.12.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Sul diritto, o meno, di accedere alle dichiarazioni rese
agli ispettori del lavoro.
L’art. 2 del D.M. n. 757 del 1994
stabilisce che sono sottratte al diritto di accesso le
seguenti categorie di atti in relazione alla esigenza di
salvaguardare la vita privata e la riservatezza di persone
fisiche, di persone giuridiche, di gruppi, imprese e
associazioni: documenti contenenti notizie acquisite nel
corso delle attività ispettive, quando dalla loro
divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o
indebite pressioni o pregiudizi a carico di lavoratori o di
terzi.
La citata previsione di cui al D.M. n. 757 del 1994 deve
essere interpretata alla luce delle disposizioni di legge di
cui all’art. 24 della legge n. 241 del 1990, secondo cui
deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai
documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria
per curare o per difendere i propri interessi giuridici.
Ovverosia qualora il procedimento ispettivo si concluda
senza l'adozione di atti o provvedimenti a carattere
sanzionatorio o comunque in danno al datore di lavoro, si
deve ritenere prevalente il diritto del dipendente alla
riservatezza circa le dichiarazioni rese all'ispettore e
conseguentemente legittimamente negato l'accesso a tali
documenti formatisi nell'ambito del procedimento ispettivo.
Viene meno infatti il nesso strumentale tra l'actio ad
exhibendum esercitata dal datore di lavoro e la necessità di
agire in giudizio a difesa di una posizione soggettiva lesa
non riscontrata.
Se invece le dichiarazioni costituiscono il supporto di un
provvedimento sanzionatorio adottato nei confronti del
datore di lavoro, il diritto di difesa del datore di lavoro
include l’accesso alle dichiarazioni rese da dipendenti e
terzi nel corso del procedimento ispettivo.
Con il provvedimento impugnato è stata rigettata l’istanza
di accesso presentata dal titolare della ditta Hotel
Ristorante alla Veneziana s.r.l. alle dichiarazioni rese dai
controinteressati agli ispettori del lavoro nel corso di un
controllo in materia di sommerso da lavoro effettuato in
data 26.05.2012.
La motivazione del provvedimento impugnato fa riferimento
agli artt. 2 e 3 del D.M. n. 757 del 1994.
In particolare l’art. 2 del D.M. n. 757 del 1994 stabilisce
che sono sottratte al diritto di accesso le seguenti
categorie di atti in relazione alla esigenza di
salvaguardare la vita privata e la riservatezza di persone
fisiche, di persone giuridiche, di gruppi, imprese e
associazioni: documenti contenenti notizie acquisite nel
corso delle attività ispettive, quando dalla loro
divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o
indebite pressioni o pregiudizi a carico di lavoratori o di
terzi.
La citata previsione di cui al D.M. n. 757 del 1994 deve
essere interpretata alla luce delle disposizioni di legge di
cui all’art. 24 della legge n. 241 del 1990, secondo cui
deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai
documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria
per curare o per difendere i propri interessi giuridici.
Ovverosia qualora il procedimento ispettivo si concluda
senza l'adozione di atti o provvedimenti a carattere
sanzionatorio o comunque in danno al datore di lavoro, si
deve ritenere prevalente il diritto del dipendente alla
riservatezza circa le dichiarazioni rese all'ispettore e
conseguentemente legittimamente negato l'accesso a tali
documenti formatisi nell'ambito del procedimento ispettivo.
Viene meno infatti il nesso strumentale tra l'actio ad
exhibendum esercitata dal datore di lavoro e la
necessità di agire in giudizio a difesa di una posizione
soggettiva lesa non riscontrata.
Se invece le dichiarazioni costituiscono il supporto di un
provvedimento sanzionatorio adottato nei confronti del
datore di lavoro, il diritto di difesa del datore di lavoro
include l’accesso alle dichiarazioni rese da dipendenti e
terzi nel corso del procedimento ispettivo (così Consiglio
di Stato VI n. 7979 del 2010, Tar Veneto III n. 814 del
2012).
Nel caso di specie il verbale di accertamento ispettivo,
contenente la comunicazione della sanzione, fa specifico
riferimento agli indici di subordinazione riscontrati in
seno ai verbali di acquisizione informazioni.
Ne consegue che i verbali contenenti le dichiarazioni
richieste si rendono necessari per il datore di lavoro per
difendersi rispetto ai provvedimenti con cui gli sono
comunicate le sanzioni.
Il contenuto sanzionatorio del verbale di accertamento
ispettivo evidenzia altresì l’infondatezza dell’eccezione
sollevata dall’Amministrazione secondo cui parte ricorrente
non avrebbe un interesse concreto.
L’ulteriore eccezione dell’Amministrazione, secondo cui
l’istanza non sarebbe stata presentata da parte ricorrente,
ma da soggetto terzo non delegato, è priva di pregio, avendo
l’Amministrazione adottato un provvedimento espresso di
diniego, sul presupposto che l’istanza sia stata
effettivamente presentata da parte ricorrente e con la
specificazione dei termini per presentare ricorso a questo
Tribunale.
Il ricorso deve pertanto essere accolto e deve essere
ordinato al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali
di esibire i documenti richiesti entro 30 giorni dalla
comunicazione o notificazione della presente sentenza
(TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 24.12.2012 n. 1597 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Ai fini della esistenza
delle condizioni dell’azione avverso provvedimenti lesivi
dal punto di vista ambientale, il concetto di vicinitas dei
singoli che insorgono deve essere visto in relazione allo
scopo precipuo di proteggere l'ambiente, la salute e/o la
qualità della vita dei residenti su un circoscritto
territorio, anche laddove si tratti di singole persone
fisiche, in posizione differenziata sulla base del criterio
della vicinitas quale elemento qualificante dell'interesse a
ricorrere.
Vanno respinti i motivi di appello con i quali si deducono
difetto di interesse ad agire e legittimazione per mancanza
di vicinitas e perché già apposto nel 2005 il vincolo
di esproprio.
Infatti, ai fini della esistenza delle condizioni
dell’azione avverso provvedimenti lesivi dal punto di vista
ambientale, il concetto di vicinitas dei singoli che
insorgono deve essere visto in relazione allo scopo precipuo
di proteggere l'ambiente, la salute e/o la qualità della
vita dei residenti su un circoscritto territorio, anche
laddove si tratti di singole persone fisiche, in posizione
differenziata sulla base del criterio della vicinitas
quale elemento qualificante dell'interesse a ricorrere
(così, tra tante, Consiglio di Stato sez. IV 11.11.2011 n.
5986) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.12.2012 n. 6667 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il documento o dato o elemento costitutivo
dell’offerta deve essere già stato presentato in sede di
gara, sia pure parzialmente e la richiesta di
regolarizzazione o di chiarimenti non deve consentire una
nuova produzione o una nuova offerta, comportando così
l’elusione dei termini perentori fissati dal bando per la
presentazione delle offerte.
L’incompletezza non può spingersi quindi fino alla
insufficienza, altrimenti attraverso l’attività integrativa
si consentirebbe di variare gli elementi costitutivi
dell’offerta stessa.
Nelle gare pubbliche il c.d. soccorso istruttorio di cui
all’art. 46, comma 1, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 è invocabile
unicamente in caso di clausole della legge di gara ambigue e
non di contrasto tra la stessa e la superiore normativa
primaria. In ogni caso la necessità di assicurare la par
condicio tra i concorrenti conduce inevitabilmente a
circoscrivere il dovere di soccorso ad irregolarità di
documenti comunque ritualmente presentati in sede di gara e
non già in caso di vere e proprie omissioni.
Il rimedio della regolarizzazione documentale di cui
all’art. 46 codice contratti non si applica al caso in cui
l’impresa concorrente abbia integralmente omesso la
produzione documentale prevista dal precedente art. 38, con
la conseguenza che alla stazione appaltante è precluso di
sopperire, con l’integrazione, alla totale mancanza di un
documento considerato anche che la disposizione relativa al
c.d. dovere di soccorso deve considerarsi di stretta
interpretazione.
In una gara di appalto pubblico l’amministrazione appaltante
non può formulare una richiesta di integrazione della
documentazione qualora si tratti di documenti univocamente
previsti dal bando o dalla lettera di invito a pena di
esclusione.
Il limite di applicazione dell’art. 46, che costituisce
estensione nel campo dei contratti pubblici degli articolo 6
e 7 della legge n. 241 del 1990 e della esigenza della
correttezza e del dialogo con l’amministrazione, trova il
suo limite naturale nel fatto che non si può estendere a
supplire né alla violazione di adempimenti procedurali
sostanziali, né alla omessa produzione documentale richiesta
a pena di esclusione e, naturalmente, non può consentire la
regolarizzazione degli elementi essenziali dell’offerta.
Deve cioè essere impedito al concorrente, attraverso la
richiesta della stazione appaltante di ulteriori documenti o
chiarimenti, di completare la sua domanda successivamente al
termine stabilito in via generale dalle regole di gara.
Il documento o dato o elemento costitutivo dell’offerta deve
essere già stato presentato in sede di gara, sia pure
parzialmente (Cons. Stato, V, 11.02.2005, n. 392; Aut. Vig.
deliberazione n. 120 del 19.12.2006) e la richiesta di
regolarizzazione o di chiarimenti non deve consentire una
nuova produzione o una nuova offerta, comportando così
l’elusione dei termini perentori fissati dal bando per la
presentazione delle offerte.
L’incompletezza non può spingersi quindi fino alla
insufficienza, altrimenti attraverso l’attività integrativa
si consentirebbe di variare gli elementi costitutivi
dell’offerta stessa.
Nelle gare pubbliche il c.d. soccorso istruttorio di cui
all’art. 46, comma 1, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 è invocabile
unicamente in caso di clausole della legge di gara ambigue e
non di contrasto tra la stessa e la superiore normativa
primaria. In ogni caso la necessità di assicurare la par
condicio tra i concorrenti conduce inevitabilmente a
circoscrivere il dovere di soccorso ad irregolarità di
documenti comunque ritualmente presentati in sede di gara e
non già in caso di vere e proprie omissioni (Cons. Stato, V,
30.08.2012, n. 4654).
Il rimedio della regolarizzazione documentale di cui
all’art. 46 codice contratti non si applica al caso in cui
l’impresa concorrente abbia integralmente omesso la
produzione documentale prevista dal precedente art. 38, con
la conseguenza che alla stazione appaltante è precluso di
sopperire, con l’integrazione, alla totale mancanza di un
documento considerato anche che la disposizione relativa al
c.d. dovere di soccorso deve considerarsi di stretta
interpretazione (Cons. Stato, IV, 04.07.2012, n. 3925).
In una gara di appalto pubblico l’amministrazione appaltante
non può formulare una richiesta di integrazione della
documentazione qualora si tratti di documenti univocamente
previsti dal bando o dalla lettera di invito a pena di
esclusione (Cons. Stato, IV, 10.05.2007, n. 2254) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.12.2012 n. 6666 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Ai sensi degli artt. 33,
l. 28.02.1985 n. 47 e 32, comma 27, lett. c), d.l.
30.09.2003 n. 269, non sono condonabili le opere edilizie
abusivamente realizzate in aree sottoposte a vincoli
idrogeologico, paesaggistico e ambientale, risultando
ininfluente che gli stessi siano stati apposti
successivamente alla presentazione dell'istanza di condono,
atteso che, in sede di rilascio della concessione edilizia
in sanatoria per opere ricadenti in zona sottoposta a
vincolo previsto dall'art. 32, cit. l. n. 47 del 1985,
l'obbligo di acquisire il parere da parte della autorità
preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla
esistenza del vincolo stesso al momento in cui deve essere
valutata la domanda di condono.
L’appello deve essere accolto, non potendosi in ogni caso consentire la
sanatoria in zone sottoposte a stringenti vincoli di inedificabilità assoluta.
Come rimarca l’appellante Comune, la zona in questione è
situata nel Parco Nazionale del Circeo, è soggetta a vincolo
paesaggistico-ambientale e dal 1983 è zona I/d a tutela
integrale ed inedificabilità assoluta; ricade in zona a
Protezione speciale (ZPS) e in sito di importanza
comunitaria (SIC); sia soggetta a vincolo idrogeologico.
E’ quindi giuridicamente impossibile, senza alterare
l’equilibrio ambientale della zona, il completamento degli
insediamenti abitativi e la realizzazione di un piano di
lottizzazione.
Si è ritenuto, proprio su questioni riguardanti aree
comprese all’interno del Parco Nazionale del Circeo, che,
atteso che in sede di rilascio della concessione edilizia in
sanatoria per opere ricadenti in zona sottoposta a vincolo
previsto dall'art. 32, l. n. 47 del 1985, l’obbligo di
acquisire il parere dell'autorità preposta alla tutela del
vincolo sussiste in relazione alla esistenza del vincolo
stesso al momento in cui deve essere valutata la domanda di
condono, e che, in applicazione degli art. 33 l. n. 47 del
1985 e 32, comma 27, del d.l. n. 269 del 2003, sussiste
l’assoluta inedificabilità alle condizioni ivi previste
degli interventi abusivi realizzati su immobili sottoposti a
vincolo paesaggistico, deve ritenersi corretto l’operato
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo -nella
specie l’Ente parco nazionale del Circeo (nella specie si
verte sul diniego comunale)- che non abbia svolto
accertamenti sulle caratteristiche dell'immobile oggetto
dell'istanza di condono che insiste in area sottoposta a
vincolo idrogeologico, al fine di valutare la sua eventuale
compatibilità con le ragioni del vincolo stesso (così,
Consiglio Stato sez. VI, 17.05.2010, n. 3064).
Si è ritenuto nel su indicato precedente quindi che
l’amministrazione non dispone di alcun potere discrezionale
in merito al rilascio del nulla-osta, stante l’assoluta
preclusione normativa, di tal che va dichiarato
improcedibile per carenza di legittimazione e interesse a
ricorrere il ricorso per la declaratoria di illegittimità o
annullamento del silenzio-rifiuto determinato dalla mancata
formulazione del parere da parte dell'organo tutorio nel
termine di 180 giorni dalla richiesta.
Anche nella fattispecie, può ritenersi che l’acquisizione
del parere era addirittura superflua, stante la preclusione
di sanatoria e quindi l’impossibilità di un esito
favorevole.
Inoltre, come ha osservato la sentenza su richiamata su
immobili situati nella medesima area dell’immobile oggetto
della presente controversia, in punto di fatto l'immobile è
stato realizzato negli anni settanta, nel quadro di una
lottizzazione di fatto, ed è pacifico che insista in un'area
sottoposta a vincolo idrogeologico nota del 24 marzo 2000
del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali
richiamata nel precedente citato).
Basterebbero i richiamati vincoli per ostacolare il
perfezionamento della istanza di condono per ragioni
relative alla pubblica incolumità.
Inoltre, l'immobile insiste nel Parco Nazionale del Circeo,
istituito dalla legge n. 285 del 1934.
Nell'ambito del Parco, ai sensi dell'art. 5 della legge
citata sono vietati la manomissione e l'alterazione delle
bellezze naturali e delle formazioni geologiche, da
determinarsi con regolamento, per le quali non sia
applicabile la legge 11.06.1922 n. 778 abrogata e
sostituita dalla legge n. 1479 del 1939.
Né può dirsi che tale richiamo comporterebbe la possibilità
di valutare la compatibilità di quanto realizzato
abusivamente con il vincolo.
L'area su cui insiste l'immobile in termini (sentenza della
sesta sezione di questo consesso su richiamata) ricade nel
PTP della Regione Lazio nella zona destinata a tutela
integrale (I /d) per la quale non è ammesso alcun tipo di
intervento se non a tutela della zona stessa (nota del
Ministero del 03.10.2000).
Ai sensi dell'art. 33 della legge n. 47 del 1985:
"Le opere di cui all'articolo 31 non sono suscettibili di
sanatoria quando siano in contrasto con i seguenti vincoli,
qualora questi comportino inedificabilità e siano stati
imposti prima della esecuzione delle opere stesse:
a) vincoli imposti da leggi statali e regionali nonché dagli
strumenti urbanistici a tutela di interessi storici,
artistici, architettonici, archeologici, paesistici,
ambientali, idrogeologici;
b) vincoli imposti da norme statali e regionali a difesa
delle coste marine, lacuali e fluviali;
c) vincoli imposti a tutela di interessi della difesa
militare e della sicurezza interna;
d) ogni altro vincolo che comporti la inedificabilità delle
aree.
Sono altresì escluse dalla sanatoria le opere realizzate su
edifici ed immobili assoggettati alla tutela della L. 01.06.1939, n. 1089, e che non siano compatibili con la
tutela medesima.
Per le opere non suscettibili di sanatoria ai sensi del
presente articolo si applicano le sanzioni previste dal capo
I."
Inoltre nel caso di specie rileva anche quanto previsto
dall'art. 32, comma 27, lett. d), del d.l. n. 269 del 2003
convertito in legge n. 326 del 2003 che, in particolare, si
riferisce a vincoli preesistenti le opere abusive e
chiarisce meglio le condizioni di applicabilità dell'art.
33, specificandole:
"Fermo restando quanto previsto dagli articoli 32 e 33 della
legge 28.02.1985, n. 47, le opere abusive non sono
comunque suscettibili di sanatoria, qualora:
d) siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli
imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela
degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei
beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree
protette nazionali, regionali e provinciali qualora
istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza
o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non
conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici".
Nella specie: 1) i vincoli paesaggistici ed idrogeologici
preesistevano all'intervento; 2) l'intervento concretava una
lottizzazione di fatto per la quale erano state annullate le
licenze concesse dallo stesso Comune che le aveva rilasciate
e quindi in assenza del titolo (dovendo a tale ipotesi
equipararsi quella del titolo posto nel nulla in
autotutela); 3) la realizzazione dei manufatti era avvenuta
in assenza delle opere di urbanizzazione e di un piano di
lottizzazione (e quindi in assenza delle prescrizioni
urbanistiche); 4) le valutazioni che si pretende di invocare
a tutela dell'intervento abusivo da condonare sono superate
dall'avvenuto annullamento in autotutela delle licenze, che
imporrebbe, in sede di condono, ove non sussistesse (come
invece sussiste) l'insanabilità assoluta del manufatto, un
nuovo apprezzamento sulla compatibilità degli interventi.
In proposito si è ribadito con rigore nella giurisprudenza
del Consiglio di Stato che ai sensi degli artt. 33, l. 28.02.1985 n. 47 e 32, comma 27, lett. c), d.l. 30.09.2003 n. 269, non sono condonabili le opere
edilizie abusivamente realizzate in aree sottoposte a
vincoli idrogeologico, paesaggistico e ambientale,
risultando ininfluente che gli stessi siano stati apposti
successivamente alla presentazione dell'istanza di condono,
atteso che, in sede di rilascio della concessione edilizia
in sanatoria per opere ricadenti in zona sottoposta a
vincolo previsto dall'art. 32, cit. l. n. 47 del 1985,
l'obbligo di acquisire il parere da parte della autorità
preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla
esistenza del vincolo stesso al momento in cui deve essere
valutata la domanda di condono (tra tante, Consiglio Stato,
sez. IV, 19.03.2009, n. 1646).
In ricorrenza di tali condizioni va applicato l'art. 33
della legge n. 47 del 1985 e lo stesso disposto di cui
all'art. 32, comma 27, del d.l. n. 269 del 2003, norme che non
prevedono alcuna possibilità di sanatoria ex post, mediante
l'accertamento sulla compatibilità dell'intervento rispetto
al vincolo.
Di fronte al chiaro disposto normativo del citato art. 32,
comma 27, che stabilisce l'assoluta insanabilità alle
condizioni ivi previste degli interventi abusivi realizzati
su immobili sottoposti a vincolo paesaggistico,
l'Amministrazione non deve neanche svolgere ulteriori
accertamenti sulle caratteristiche dell'intervento al fine
di valutare la sua eventuale compatibilità con le ragioni
del vincolo stesso, non sussistendo nel caso specifico
alcuna ragione per lo svolgimento di un'approfondita
istruttoria sulla tipologia dell'abuso, non disponendo
l'Amministrazione di alcun potere discrezionale in merito al
rilascio del nulla osta, stante l'assoluta preclusione
normativa.
Ai sensi degli artt. 33, l. 28.02.1985 n. 47 e 32,
comma 27, lett. c), d.l. 30.09.2003 n. 269, non sono
condonabili le opere edilizie abusivamente realizzate in
aree sottoposte a vincoli idrogeologico, paesaggistico e
ambientale, risultando ininfluente che gli stessi siano
stati apposti successivamente alla presentazione
dell'istanza di condono, atteso che, in sede di rilascio
della concessione edilizia in sanatoria per opere ricadenti
in zona sottoposta a vincolo previsto dall'art. 32, cit. l.
n. 47 del 1985, l'obbligo di acquisire il parere da parte
della autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in
relazione alla esistenza del vincolo stesso al momento in
cui deve essere valutata la domanda di condono, come si è
visto nella giurisprudenza su richiamata.
Nel caso di specie, inoltre, i vari motivi negativi
evidenziati dalle impugnate ordinanze facevano riferimento
(anche) ai seguenti atti mancanti: certificato di idoneità
statica; prova dell’avvenuto accatastamento; rilievi
planimetrici dell’opera e del lotto su cui insiste; piano di
lottizzazione e quindi tutta una serie di diversi documenti
mancanti, non prodotti come invece era onere di parte
istante.
Su tali motivi autonomi di diniego, vestiti da mancanza
della idonea produzione documentale, la parte appellate,
ricorrente in prime cure, non ha ulteriormente controdedotto.
Ferma restando la sufficienza del motivo di diniego relativo
alla esistenza di vincoli di inedificabilità assoluta, si
aggiunge, per completezza, il principio giurisprudenziale,
secondo il quale, in caso di diniego sorretto da più ragioni
giustificatrici fra loro autonome, è sufficiente a
sorreggere la legittimità dell'atto impugnato la conformità
a legge anche di una sola di esse (così, Consiglio Stato ,
sez. IV, 10.12.2007, n. 6325) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.12.2012 n. 6662 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le scelte urbanistiche
costituiscono apprezzamenti di merito, e quindi sottratte al
sindacato di legittimità con l’eccezione di quelle inficiate
da errori di fatto o da incongruità argomentativa.
Sulla scorta di tale premessa, va condivisa l’affermazione
per cui le scelte sulla destinazione di singole aree sono
congruamente motivate facendo riferimento alle ragioni
evincibili dai criteri generali seguiti nell'impostazione
del piano regolatore, ossia emergenti dalla relazione
illustrativa del piano. Al contrario, la necessità di altri
e più incisivi profili motivazionali può essere rinvenuta
solo nei casi in cui preesistano particolari situazioni che
abbiano creato aspettative o affidamenti, e che quindi,
stante l’esistenza di posizioni soggettive meritevoli di
specifica considerazione, debbano ricevere una più compiuta
valutazione.
Tuttavia, tali situazioni, lungi dall’essere riscontrabili
in qualsiasi situazione peggiorativa, hanno il loro
referente in situazioni oramai tipizzate dalla
interpretazione giurisprudenziale (si pensi al superamento
degli standards urbanistici minimi, alla lesione
dell'affidamento qualificato del privato in rapporto a
precedenti convenzioni di lottizzazione, agli accordi di
diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari
delle aree, alle conseguenze da giudicati di annullamento di
dinieghi di concessione edilizia o di silenzio rifiuto su
una domanda di concessione).
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All’interno della pianificazione urbanistica possano trovare
spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra
le quali spicca proprio la necessità di evitare l'ulteriore
edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree
edificate e spazi liberi.
Infatti, l’urbanistica e il correlativo esercizio del potere
di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano
giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità
edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma devono
essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali
sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo
complessivo e armonico del medesimo; uno sviluppo che tenga
conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli, non in
astratto, ma in relazione alle effettive esigenze di
abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei
luoghi, sia dei valori ambientali e paesaggistici, delle
esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre
degli abitanti, delle esigenze economico-sociali della
comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del
modello di sviluppo che s'intende imprimere ai luoghi
stessi, in considerazione della loro storia, tradizione,
ubicazione e di una riflessione de futuro sulla propria
stessa essenza, svolta per autorappresentazione ed
autodeterminazione dalla comunità medesima, con le decisioni
dei propri organi elettivi e, prima ancora, con la
partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio.
Occorre osservare come il giudice di prime cure abbia fatto precedere la
disamina dei singoli punti di doglianza con una premessa
teorica di carattere generale.
In particolare, con un esame del tutto in linea con i
principi e i criteri seguiti dalla giurisprudenza, ha
evidenziato come le scelte urbanistiche costituiscano
apprezzamenti di merito, e quindi sottratte al sindacato di
legittimità con l’eccezione di quelle inficiate da errori di
fatto o da incongruità argomentativa.
Sulla scorta di tale
premessa, va condivisa l’affermazione per cui le scelte
sulla destinazione di singole aree sono congruamente
motivate facendo riferimento alle ragioni evincibili dai
criteri generali seguiti nell'impostazione del piano
regolatore, ossia emergenti dalla relazione illustrativa del
piano. Al contrario, la necessità di altri e più incisivi
profili motivazionali può essere rinvenuta solo nei casi in
cui preesistano particolari situazioni che abbiano creato
aspettative o affidamenti, e che quindi, stante l’esistenza
di posizioni soggettive meritevoli di specifica
considerazione, debbano ricevere una più compiuta
valutazione. Tuttavia, tali situazioni, lungi dall’essere
riscontrabili in qualsiasi situazione peggiorativa, hanno il
loro referente in situazioni oramai tipizzate dalla
interpretazione giurisprudenziale (si pensi al superamento
degli standards urbanistici minimi, alla lesione
dell'affidamento qualificato del privato in rapporto a
precedenti convenzioni di lottizzazione, agli accordi di
diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari
delle aree, alle conseguenze da giudicati di annullamento di
dinieghi di concessione edilizia o di silenzio rifiuto su
una domanda di concessione, da ultimo, Consiglio di Stato,
sez. IV, 11.09.2012 n. 4806).
Sulla base di tale ricostruzione, e sulla non contestata
affermazione che nel caso in esame non ricorre nessuna di
tali ipotesi, il TAR ha potuto ravvisare in capo al
ricorrente unicamente una generica aspettativa ad una non reformatio in peius, tale da non giustificare né una
particolare tutela, né un obbligo di più puntuale
motivazione. La conclusione di tale iter argomentativo è
stata quindi nel senso di non poter spingere il proprio
sindacato fino al merito delle scelte urbanistiche operate,
che rientrano nell'ambito della discrezionalità degli organi
preposti all'adozione e approvazione del piano.
Deve pertanto evidenziarsi che, al contrario di quanto
dedotto in appello, il TAR abbia correttamente spiegato
le ragioni per cui non ha valutato i profili d’irrazionalità
censurati, atteso che gli stessi o ricadono in un ambito
sottratto alla disamina giurisprudenziale oppure, come si
vedrà in seguito, ricadono in altri aspetti di doglianza, partitamente esaminati.
Conseguentemente, non può dirsi immotivata la scelta di
procedere ad una classificazione dell’area a “verde
privato”, stante l’inesistenza di una posizione
particolarmente qualificata a non subire destinazioni
peggiorative. Deve condividersi l’assunto del primo giudice
che, sulla base del principio generale, ha applicato la
stessa tecnica di giudizio anche al caso in specie, atteso
che il passaggio dalla destinazione edificatoria, prevista
dal previgente piano, a quella di tipo agricolo all’interno
di una più ampia zona omogenea con carattere edificabile
altro non è che un’applicazione in concreto di quanto sopra
evidenziato; né la circostanza dedotta è tale da fare mutare
la ratio applicativa sottostante.
Anche in questo caso, infatti, la destinazione a verde
privato non richiede motivazione specifica. E, infatti,
opportunamente deve farsi ricorso a quella giurisprudenza
che ha evidenziato come all’interno della pianificazione
urbanistica possano trovare spazio anche esigenze di tutela
ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la
necessità di evitare l'ulteriore edificazione e di mantenere
un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi.
Infatti, l’urbanistica e il correlativo esercizio del potere
di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano
giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità
edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma devono
essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali
sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo
complessivo e armonico del medesimo; uno sviluppo che tenga
conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli, non in
astratto, ma in relazione alle effettive esigenze di
abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei
luoghi, sia dei valori ambientali e paesaggistici, delle
esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre
degli abitanti, delle esigenze economico-sociali della
comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del
modello di sviluppo che s'intende imprimere ai luoghi
stessi, in considerazione della loro storia, tradizione,
ubicazione e di una riflessione de futuro sulla propria
stessa essenza, svolta per autorappresentazione ed
autodeterminazione dalla comunità medesima, con le decisioni
dei propri organi elettivi e, prima ancora, con la
partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio
(da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 10.05.2012 n.
2710).
Non è dato quindi riscontrare alcuna tipizzazione abnorme o
extra ordinem nella vicenda de qua, atteso che il verde
privato viene a svolgere una funzione di riequilibrio del
tessuto edificatorio, del tutto compresa nelle potestà pianificatorie dell’ente comunale, come peraltro
precisamente motivato nella relazione illustrativa, dove si
fa riferimento all’intento di “ritrovare un equilibrio nuovo
dotando il centro esistente delle infrastrutture e delle
aree per verde e servizi necessari”.
Proprio la funzione svolta rende corretta la risposta data
dal giudice di prime cure, il quale ha inquadrato la
destinazione a verde privato in un’ottica più comprensiva,
utilizzabile anche al fine di salvaguardare precisi
equilibri dell'assetto territoriale
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.12.2012 n. 6656 - link a
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EDILIZIA
PRIVATA:
Va ricordato come la
nozione di “lotto intercluso” abbia una sua valenza quando
non si rinvenga spazio giuridico per un'ulteriore
pianificazione, mentre non è applicabile nei casi, come
quello in esame, di zone solo parzialmente urbanizzate,
esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici,
nelle quali la pianificazione può ancora conseguire
l'effetto di correggere e compensare il disordine
edificativo in atto.
Come sopra evidenziato,
la situazione del fondo escludeva la necessità di una
motivazione di particolare puntualità. Né peraltro pare
condivisibile la lettura della detta area come lotto
intercluso, attesa la funzione eccezionale di tale concetto
(da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 10.06.2010 n.
3699 e tale quindi da escludere l’estensione analogica della
sua applicazione) e la tipologia dell’area (che, affacciando
su due diverse strade, non pare riconducibile a tale
ambito).
In ogni caso, va ricordato come la nozione di
“lotto intercluso” abbia una sua valenza quando non si
rinvenga spazio giuridico per un'ulteriore pianificazione,
mentre non è applicabile nei casi, come quello in esame, di
zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al rischio di
compromissione di valori urbanistici, nelle quali la
pianificazione può ancora conseguire l'effetto di correggere
e compensare il disordine edificativo in atto (Consiglio di
Stato, sez. V, 01.12.2003, n. 7799)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.12.2012 n. 6656 - link a
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EDILIZIA
PRIVATA:
L’autore di un esposto-denuncia non assume per
ciò solo le vesti di controinteressato processuale nel
giudizio amministrativo instaurato avverso l’annullamento
d’ufficio dell’atto, anche ove il suo ritiro sia stato
sollecitato nella denuncia.
L’autotutela decisoria, per quanto sollecitata da terzi
portatori di interessi di mero fatto al suo esercizio, resta
prerogativa dell’Amministrazione non soltanto nel suo
concreto atteggiarsi, ma anche in relazione alla autonoma
valutazione delle condizioni, in fatto ed in diritto, per il
suo esplicarsi.
Per tal ragione, l’impugnazione diretta avverso l’atto di
annullamento di ufficio di un pregresso provvedimento
abilitativo non va notificata necessariamente all’autore
dell’esposto-denuncia che aveva sollecitato l’esercizio
dell’atto di autotutela, ferma comunque la facoltà di
quest’ultimo di intervenire ad opponendum nel relativo
giudizio.
Il Collegio ritiene che tali considerazioni siano da condividere.
L’autore di un esposto-denuncia non assume per ciò solo le
vesti di controinteressato processuale nel giudizio
amministrativo instaurato avverso l’annullamento d’ufficio
dell’atto, anche ove –come nella specie- il suo ritiro sia
stato sollecitato nella denuncia.
L’autotutela decisoria, per quanto sollecitata da terzi
portatori di interessi di mero fatto al suo esercizio, resta
prerogativa dell’Amministrazione non soltanto nel suo
concreto atteggiarsi, ma anche in relazione alla autonoma
valutazione delle condizioni, in fatto ed in diritto, per il
suo esplicarsi. Per tal ragione, l’impugnazione diretta
avverso l’atto di annullamento di ufficio di un pregresso
provvedimento abilitativo non va notificata necessariamente
all’autore dell’esposto-denuncia che aveva sollecitato
l’esercizio dell’atto di autotutela, ferma comunque la
facoltà di quest’ultimo di intervenire ad opponendum
nel relativo giudizio
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.12.2012 n. 6639 - link a
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EDILIZIA
PRIVATA:
Le preminenti esigenze
pubblicistiche connesse alla salvaguardia delle
incomprimibili finalità di igiene e salubrità dei luoghi
sottese alla regola della distanza minima delle costruzioni
civili rispetto agli allevamenti di animali hanno
necessariamente valenza erga omnes, nel senso che sono poste
nell’interesse di tutti i potenziali soggetti che hanno
titolo a vederne rispettato il precetto.
Ciò implica che l’osservanza della disposizione
regolamentare che pone, per ragioni di igiene e sanità
pubblica, il rispetto di quella distanza minima dagli
allevamenti non può essere interpretata, come assume il
giudice di primo grado, in senso unilaterale, e cioè che
alla sua osservanza sarebbe tenuto soltanto il costruttore
di un allevamento rispetto agli insediamenti costruttivi
preesistenti e non anche il costruttore di fabbricati ad uso
abitativo rispetto ad allevamenti già insediati.
Non v’è infatti ragione per ritenere fondata una tale
interpretazione, dalla quale irragionevolmente
deriverebbero, pur a fronte della medesima ratio legis,
soluzioni differenziate rispetto alla stessa questione
inerente il rispetto o meno delle distanze imposte dal
regolamento di igiene. D’altra parte il rispetto della
disposizione regolamentare si impone anche a salvaguardia
degli aventi causa della società immobiliare, quali
acquirenti degli appartamenti destinati a civile abitazione,
perché è proprio in relazione alla loro posizione giuridica
che si pongono le delicate questioni afferenti la salubrità
dell’aria.
Non par dubbio che l’amministrazione comunale anche delle
esigenze abitative di tali soggetti si sia fatta
implicitamente carico nell’esercizio dell’autotutela di
guisa che il provvedimento, tenuto conto di tali primarie
esigenze di tutela della salute umana, non risulta adottato
in carenza dei presupposti.
La questione giuridica da
dirimere attiene alla legittimità del provvedimento col
quale il Comune di Zimella ha fatto luogo all’annullamento,
in autotutela, del permesso di costruire rilasciato in
favore dell’odierna società appellata nonché degli effetti
della denuncia di inizio di attività a suo tempo prodotta
per alcune modifiche di destinazione d’uso relative al
medesimo complesso residenziale costituito da cinque unità
abitative.
A base dell’autoannullamento l’Amministrazione comunale di
Zimella ha posto la questione dirimente dell’intervenuta
violazione, da parte della società costruttrice
dell’immobile, della disposizione contenuta nell’art. 96 del
Regolamento comunale di igiene, che impone la distanza
minima di settantacinque metri dagli allevamenti civili.
La
circostanza fattuale inerente la violazione di detta
distanza rispetto all’allevamento gestito dall’azienda
agricola Iseo nel caso in esame è pacifica ed incontestata,
in quanto la nuova costruzione è stata in parte realizzata,
dalla società odiernamente appellata, a distanza inferiore a
quella prevista dalla citata disposizione regolamentare; si
discute tra le parti se ai fini del calcolo di detta
distanza minima si debba aver riguardo soltanto ai locali
adibiti a stalla, ove gli animali stazionano abitualmente,
ovvero anche alla sala di mungitura ed ai locali accessori,
dato che soltanto in relazione a questi ultimi (e non anche
alle stalle) si pone un problema di violazione di quella
distanza minima.
Il Tribunale amministrativo è pervenuto alla pronuncia di
accoglimento, ritenendo l’illegittimità del provvedimento in
primo grado impugnato, seguendo il seguente percorso logico:
a) è assorbente la violazione dell’art. 21-nonies della
legge 07.08.1990, n. 241 avendo l’Amministrazione
trascurato di evidenziare l’interesse pubblico concreto e
attuale sotteso all’esercizio dell’autotutela, vieppiù visto
il lungo lasso temporale tra il rilascio del permesso di
costruire ed il suo annullamento d’ufficio;
b) in ogni caso
è rispettata la distanza rispetto ai locali di stabulazione,
la violazione dell’art. 96 del Regolamento di igiene essendo
riferibile soltanto ai locali accessori (sala mungitura e
deposito latte), dal che non potrebbe evincersi un interesse
pubblico in re ipsa al ripristino della legalità;
c) la
disposizione assuntivamente violata non postula reciprocità,
nel senso che “la ratio ad essa sottesa sembra essere quella
di impedire l’insediamento di nuovi allevamenti con
conseguente creazione del pericolo e non anche quella di
escludere l’accettazione di disagi connessi all’edificazione
di edifici residenziali in prossimità degli allevamenti
stessi”;
d) il permesso di costruire a suo tempo rilasciato
ed oggetto di annullamento dopo circa ventidue mesi non
faceva riferimento alcuno all’obbligo di rispettare la
distanza di settantacinque metri e, d’altra parte,
l’autodichiarazione del progettista non contiene elementi di
falsità, la stessa facendo riferimento alla distanza dalla
stalla;
e) vero è che l’Amministrazione già nel maggio 2008
ha avviato il procedimento per l’accertamento delle distanze
ma tale procedimento non ha mai concluso, salva l’adozione
della sospensione del procedimento conseguente alla
presentazione, a lavori ormai conclusi, della domanda di
agibilità da parte della società interessata.
Ritiene il Collegio che tale decisione, assunta sulla
base della motivazione brevemente qui riprodotta, non sia
condivisibile e non resista alle censure dedotte dalla
Amministrazione comunale appellante.
In particolare, è per il Collegio dirimente osservare quanto
segue, a comprova del fatto che nessun affidamento legittimo
si sia nella specie potuto radicare in capo alla società
appellata e che, quindi, i poteri di annullamento d’ufficio
siano stati correttamente esercitati avuto rispetto delle
condizioni individuate dall’art. 21-nonies della legge 07.08.1990 n. 241:
a) il permesso di costruire oggetto di
annullamento è stato rilasciato sul presupposto (poi
rivelatosi non veritiero) del rispetto delle norme igienico-sanitarie vigenti, per come attestato in data 04.03.2008
dal tecnico progettista incaricato dalla società
odiernamente appellata;
b) l’autorizzazione ad attuare il
piano di recupero del 21.10.2002, conseguente alla
variante urbanistica ottenuta dalla società per realizzare
l’intervento edilizio, recava l’esplicita prescrizione che
gli insediamenti civili da realizzare all’interno del piano
avrebbero dovuto rispettare la distanza minima di
settantacinque metri dagli allevamenti esistenti;
c) è
significativo osservare che pochi giorni dopo l’avvio dei
lavori (07.04.2008) da parte della società costruttrice
l’Amministrazione ha comunicato (12.05.2008) l’avvio del
procedimento funzionale al controllo sulla regolarità degli
atti adottati: prudenza avrebbe imposto alla società di
astenersi dal dar corso ad ulteriori interventi prima della
positiva finalizzazione del procedimento di controllo.
A fronte di tali emergenze, a ragione l’Amministrazione
assume la piena legittimità dell’esercizio dell’autotutela,
senza che in contrario possa farsi valere la pretesa carenza
di ponderazione dei contrapposti interessi, ai sensi del
citato art. 21-nonies della legge generale sul procedimento
amministrativo.
Al proposito vale osservare, ancora in senso dirimente, che
le preminenti esigenze pubblicistiche connesse alla
salvaguardia delle incomprimibili finalità di igiene e
salubrità dei luoghi sottese alla regola della distanza
minima delle costruzioni civili rispetto agli allevamenti di
animali hanno necessariamente valenza erga omnes, nel
senso che sono poste nell’interesse di tutti i potenziali
soggetti che hanno titolo a vederne rispettato il precetto.
Ciò implica che l’osservanza della disposizione
regolamentare che pone, per ragioni di igiene e sanità
pubblica, il rispetto di quella distanza minima dagli
allevamenti non può essere interpretata, come assume il
giudice di primo grado, in senso unilaterale, e cioè che
alla sua osservanza sarebbe tenuto soltanto il costruttore
di un allevamento rispetto agli insediamenti costruttivi
preesistenti e non anche il costruttore di fabbricati ad uso
abitativo rispetto ad allevamenti già insediati.
Non v’è infatti ragione per ritenere fondata una tale
interpretazione, dalla quale irragionevolmente
deriverebbero, pur a fronte della medesima ratio legis,
soluzioni differenziate rispetto alla stessa questione
inerente il rispetto o meno delle distanze imposte dal
regolamento di igiene. D’altra parte il rispetto della
disposizione regolamentare si impone anche a salvaguardia
degli aventi causa della società immobiliare, quali
acquirenti degli appartamenti destinati a civile abitazione,
perché è proprio in relazione alla loro posizione giuridica
che si pongono le delicate questioni afferenti la salubrità
dell’aria.
Non par dubbio che l’amministrazione comunale
anche delle esigenze abitative di tali soggetti si sia fatta
implicitamente carico nell’esercizio dell’autotutela di
guisa che il provvedimento, tenuto conto di tali primarie
esigenze di tutela della salute umana, non risulta adottato
in carenza dei presupposti.
Allo stesso modo, risulta contrastante con la stessa ragione
della prescrizione sulle distanze di cui si tratta la
soluzione interpretativa, che lo stesso giudice di primo
grado sembra condividere, di ammettere la scomposizione
materiale dei locali ove si esercita l’allevamento, a
seconda delle specifiche destinazioni d’uso, per inferire
non condivisibilmente che, assicurato il rispetto della
distanza dalla stalla ove gli animali stazionano, non
rileverebbe che la sala mungitura ed il deposito latte siano
a distanza inferiore a quella minima regolamentare.
Non par dubbio al contrario che l’allevamento vada
considerato, ai fini che qui interessano, quale un complesso
edilizio unitario, rispetto al quale le esigenze di igiene e
salubrità dei luoghi destinati ad abitazioni civili rilevano
quali che siano le specifiche destinazioni d’uso (peraltro
col tempo mutevoli) impresse dall’imprenditore agricolo ai
singoli locali ove l’allevamento di animali viene in
concreto esercitato.
Nemmeno appare condivisibile e pertinente il rilievo svolto
in memoria conclusiva dalla difesa della società immobiliare
Alex riguardo al titolo di sanatoria edilizia a suo tempo
ottenuto (il 05.06.1992) dall’azienda agricola in relazione
all’immobile adibito ad allevamento.
Quand’anche fosse provato che, in occasione del rilascio del
predetto titolo in sanatoria, non siano stati conteggiati i
locali accessori ai fini del calcolo della distanza dalla
zona di completamento edilizio (150 metri), cionondimeno la
circostanza non potrebbe comportare una diversa soluzione
della questione controversa, avuto riguardo:
a) alla consolidazione degli effetti del provvedimento di
sanatoria, ormai intangibile in difetto di un’impugnazione
tempestiva;
b) alla necessità che, in sede di nuova edificazione da
parte della società immobiliare Alex, si dovesse in ogni
caso tener conto della situazione attuale con riguardo alle
costruzioni preesistenti, a prescindere dalle questioni di
legittimità dei titoli edilizi a suo tempo rilasciati
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.12.2012 n. 6639 - link a
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APPALTI - ATTI
AMMINISTRATIVI:
L'interpretazione degli
atti amministrativi, ivi compreso il bando di gara pubblica,
soggiace alle stesse regole dettate dall'art. 1362 e ss.
c.c. per l'interpretazione dei contratti, tra le quali
assume carattere preminente quella collegata
all'interpretazione letterale in quanto compatibile con il
provvedimento amministrativo, dovendo in ogni caso il
giudice ricostruire l'intento dell'Amministrazione, ed il
potere che essa ha inteso esercitare, in base al contenuto
complessivo dell'atto, tenendo conto del rapporto tra le
premesse ed il suo dispositivo e del fatto che, secondo il
criterio di interpretazione di buona fede ex art. 1366 c.c.
gli effetti degli atti amministrativi devono essere
individuati solo in base a ciò che il destinatario può
ragionevolmente intendere; ciò anche in ragione del
principio costituzionale di buon andamento, che impone alla
P.A. di operare in modo chiaro e lineare, tale da fornire ai
cittadini regole di condotte certe e sicure, soprattutto
quando da esse possano derivare conseguenze negative.
Pertanto, solo in caso di oscurità ed equivocità delle
clausole del bando e degli atti che regolano i rapporti tra
cittadini e Amministrazione può ammettersi una lettura
idonea a tutela dell'affidamento degli interessati in buona
fede, non potendo generalmente addebitarsi al cittadino un
onere di ricostruzione dell'effettiva volontà
dell'Amministrazione mediante complesse indagini
ermeneutiche ed integrative.
Preliminarmente deve essere evidenziato che, per conforme
giurisprudenza di questo Consiglio, l'interpretazione degli
atti amministrativi, ivi compreso il bando di gara pubblica,
soggiace alle stesse regole dettate dall'art. 1362 e ss.
c.c. per l'interpretazione dei contratti, tra le quali
assume carattere preminente quella collegata
all'interpretazione letterale in quanto compatibile con il
provvedimento amministrativo, dovendo in ogni caso il
giudice ricostruire l'intento dell'Amministrazione, ed il
potere che essa ha inteso esercitare, in base al contenuto
complessivo dell'atto, tenendo conto del rapporto tra le
premesse ed il suo dispositivo e del fatto che, secondo il
criterio di interpretazione di buona fede ex art. 1366 c.c.
gli effetti degli atti amministrativi devono essere
individuati solo in base a ciò che il destinatario può
ragionevolmente intendere; ciò anche in ragione del
principio costituzionale di buon andamento, che impone alla
P.A. di operare in modo chiaro e lineare, tale da fornire ai
cittadini regole di condotte certe e sicure, soprattutto
quando da esse possano derivare conseguenze negative (cfr.,
ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 05.09.2011, n.
4980).
Da tale premessa, deriva, quale diretto corollario, la
regola secondo la quale solo in caso di oscurità ed
equivocità delle clausole del bando e degli atti che
regolano i rapporti tra cittadini e Amministrazione può
ammettersi una lettura idonea a tutela dell'affidamento
degli interessati in buona fede, non potendo generalmente
addebitarsi al cittadino un onere di ricostruzione
dell'effettiva volontà dell'Amministrazione mediante
complesse indagini ermeneutiche ed integrative
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.12.2012 n. 6615 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
E' noto che, ai sensi
dell'art. 76 del Codice dei contratti pubblici, le varianti
progettuali migliorative riguardanti le modalità esecutive
dell'opera o del servizio sono ammesse, purché non si
traducano in una diversa ideazione dell'oggetto del
contratto; pertanto, le varianti incontrano il solo limite
della non alterazione degli elementi essenziali dell’oggetto
del contratto che, nel caso di specie, non risultano
pregiudicati.
Nel merito
dell’ammissibilità delle varianti in concreto proposte
dall’appellato, oggetto del secondo motivo d’appello,
incentrato sull’ipotizzato aliud pro alio, il Collegio
ritiene che le proposte migliorative non risultino aver reso
l’immobile diverso per qualità e funzione, migliorandone,
invece, la fruibilità, assecondando così le finalità che
l’Amministrazione intendeva raggiungere con l’indizione
della gara.
Peraltro, è noto che l’ipotesi di aliud pro alio ricorre non
solo quando la cosa consegnata appartenga ad un genere del
tutto diverso da quello a cui appartiene la cosa pattuita,
ma anche quando difetti delle particolari qualità necessarie
per assolvere alla sua naturale funzione economico-sociale
(cfr., ex multis, Cassazione civile, sez. II, 04.05.2012,
n. 6787): ipotesi che chiaramente non ricorre nel caso di
specie.
Nello specifico campo degli appalti di opere pubbliche,
inoltre, è noto che, ai sensi dell'art. 76 del Codice dei
contratti pubblici, le varianti progettuali migliorative
riguardanti le modalità esecutive dell'opera o del servizio
sono ammesse, purché non si traducano in una diversa
ideazione dell'oggetto del contratto (Consiglio di Stato,
sez. V, 17.09.2012, n. 4916); pertanto, le varianti
incontrano il solo limite della non alterazione degli
elementi essenziali dell’oggetto del contratto che, nel caso
di specie, non risultano pregiudicati
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.12.2012 n. 6615 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Responsabilità solidale significa responsabilità
per inadempimento, vale a dire responsabilità in cui più
soggetti sono chiamati a rispondere, per una violazione o
comunque per un'obbligazione, in posizione di parità.
La responsabilità solidale è ignota soltanto nel diritto
penale o, comunque, nel diritto punitivo (in tale seconda
evenienza, tranne i casi di espressa previsione sanciti
dalla legge), in ragione del principio di personalità della
pena, mentre è frequente il suo impiego in ambito civile o
amministrativo (cfr. 1292 c.c., e 2055 c.c. anche in
relazione all’art. 1218 c.c.): se il fatto dannoso,
contrattuale o aquiliano è imputabile a più persone, tutte
sono obbligate in solido al risarcimento del danno;
pertanto, a tutte è imputabile l’inadempimento.
Peraltro, con riferimento alle ATI, di recente il Consiglio
di Stato ha stabilito che la distinzione tra A.T.I.
orizzontali e A.T.I. verticali oggi enunciata sul piano
legislativo dall'art. 37, commi 1 e 2, D.lgs. 12.04.2006, n.
163 (poggia sul contenuto delle competenze portate da
ciascuna impresa raggruppata ai fini della qualificazione a
una determinata gara: in linea generale, l'A.T.I.
orizzontale è caratterizzata dal fatto che le imprese
associate (o associande) sono portatrici delle medesime
competenze per l'esecuzione delle prestazioni costituenti
l'oggetto dell'appalto, mentre l'A.T.I. verticale è
connotata dalla circostanza che l'impresa mandataria apporta
competenze incentrate sulla prestazione prevalente, diverse
da quelle delle mandanti, le quali possono avere competenze
differenziate anche tra di loro, sicché nell'A.T.I. di tipo
verticale un'impresa, ordinariamente capace per la
prestazione prevalente, si associa ad altre imprese
provviste della capacità per le prestazioni secondarie
scorporabili.
Sul piano del regime della responsabilità, l’Adunanza
Plenaria ha specificato che nelle A.T.I. orizzontali
ciascuna delle imprese riunite è responsabile solidalmente
nei confronti della stazione appaltante, mentre nelle A.T.I.
verticali le mandanti rispondono ciascuna per le prestazioni
assunte e la mandataria risponde in via solidale con
ciascuna delle imprese mandanti in relazione alle rispettive
prestazioni secondarie.
Pertanto, la responsabilità per inadempimento,
contrariamente a quanto ritiene parte appellante, si estende
anche agli inadempimenti delle mandanti, sia che l’A.T.I.
sia verticale, sia che l’A.T.I. (a maggior ragione) sia
orizzontale.
Ritiene il Collegio che la prospettiva adottata dall’Amministrazione e
recepita nella sentenza impugnata sia da condividere in
pieno; la circostanza, infatti, anche data per ammessa, che
le inadempienze contestate nel provvedimento impugnato
fossero attribuibili alla mandante Tributi Italia SpA, con
cui il servizio era diviso, non incide sul regime di
responsabilità solidale descritto dall’art. 11, comma 3, del
D. lgs. 157-1995 e, ora, dall’art. 37, comma 5, del D.lgs.
163-2006.
Responsabilità solidale significa responsabilità per
inadempimento, vale a dire responsabilità in cui più
soggetti sono chiamati a rispondere, per una violazione o
comunque per un'obbligazione, in posizione di parità.
La responsabilità solidale è ignota soltanto nel diritto
penale o, comunque, nel diritto punitivo (in tale seconda
evenienza, tranne i casi di espressa previsione sanciti
dalla legge), in ragione del principio di personalità della
pena, mentre è frequente il suo impiego in ambito civile o
amministrativo (cfr. 1292 c.c., e 2055 c.c. anche in
relazione all’art. 1218 c.c.): se il fatto dannoso,
contrattuale o aquiliano è imputabile a più persone, tutte
sono obbligate in solido al risarcimento del danno;
pertanto, a tutte è imputabile l’inadempimento.
Peraltro, con riferimento alle ATI, di recente il Consiglio
di Stato, Ad. Plen., 13.06.2012, n. 22 ha stabilito che
la distinzione tra A.T.I. orizzontali e A.T.I. verticali
oggi enunciata sul piano legislativo dall'art. 37, commi 1 e
2, D.lgs. 12.04.2006, n. 163 (poggia sul contenuto delle
competenze portate da ciascuna impresa raggruppata ai fini
della qualificazione a una determinata gara: in linea
generale, l'A.T.I. orizzontale è caratterizzata dal fatto
che le imprese associate (o associande) sono portatrici
delle medesime competenze per l'esecuzione delle prestazioni
costituenti l'oggetto dell'appalto, mentre l'A.T.I.
verticale è connotata dalla circostanza che l'impresa
mandataria apporta competenze incentrate sulla prestazione
prevalente, diverse da quelle delle mandanti, le quali
possono avere competenze differenziate anche tra di loro,
sicché nell'A.T.I. di tipo verticale un'impresa,
ordinariamente capace per la prestazione prevalente, si
associa ad altre imprese provviste della capacità per le
prestazioni secondarie scorporabili.
Sul piano del regime della responsabilità, l’Adunanza
Plenaria ha specificato che nelle A.T.I. orizzontali
ciascuna delle imprese riunite è responsabile solidalmente
nei confronti della stazione appaltante, mentre nelle A.T.I.
verticali le mandanti rispondono ciascuna per le prestazioni
assunte e la mandataria risponde in via solidale con
ciascuna delle imprese mandanti in relazione alle rispettive
prestazioni secondarie.
Pertanto, la responsabilità per inadempimento,
contrariamente a quanto ritiene parte appellante, si estende
anche agli inadempimenti delle mandanti, sia che l’A.T.I.
sia verticale, sia che l’A.T.I. (a maggior ragione) sia
orizzontale.
Nel caso in esame, assodato dunque che l’inadempimento
controverso è anche imputabile all’appellante, il Collegio
deve ammettere che l’esclusione di cui all’art. 38, comma 1,
lett. f), del D.Lgs. 163-2006 si fonda su un potere
discrezionale dell’Ente appaltante nella valutazione circa
il venir meno del rapporto fiduciario per vicende inerenti a
precedenti rapporti contrattuali.
Pertanto, occorre verificare se, nella situazione concreta,
ricorrano elementi sintomatici tali da denotare un uso
distorto del potere attribuito dalla norma nell’effettuare
tale valutazione (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.12.2012 n. 6614 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Nel rapporto di pubblico
impiego non può essere liquidato legittimamente alcun
compenso per lavoro straordinario quando manchi una
preventiva e formale autorizzazione al relativo svolgimento
da parte dell'amministrazione, perché solo in questo modo è
possibile controllare, nel rispetto dell'art. 97 cost., la
reale esistenza delle ragioni di pubblico interesse che
rendono opportuno il ricorso a tali prestazioni; tuttavia,
detta autorizzazione può intervenire anche in sanatoria, nel
caso di prestazioni di lavoro straordinario espletate per
improcrastinabili esigenze di servizio e l'autorizzazione
stessa è implicita nello svolgimento dell'attività cui il
dipendente deve obbligatoriamente partecipare oltre il
normale orario d'ufficio.
L’orientamento giurisprudenziale pacificamente seguito, che il Collegio
condivide, non sorregge la tesi proposta dall’appellante.
C. di S. IV, 31.03.2005, n. 1445, ha per esempio
stabilito che (massima) “se è vero che nel rapporto di
pubblico impiego non può essere liquidato legittimamente
alcun compenso per lavoro straordinario quando manchi una
preventiva e formale autorizzazione al relativo svolgimento
da parte dell'amministrazione, perché solo in questo modo è
possibile controllare, nel rispetto dell'art. 97 cost., la
reale esistenza delle ragioni di pubblico interesse che
rendono opportuno il ricorso a tali prestazioni; tuttavia,
detta autorizzazione può intervenire anche in sanatoria, nel
caso di prestazioni di lavoro straordinario espletate per
improcrastinabili esigenze di servizio e l'autorizzazione
stessa è implicita nello svolgimento dell'attività cui il
dipendente deve obbligatoriamente partecipare oltre il
normale orario d'ufficio”.
Secondo tale orientamento, quindi, il compenso relativo allo
svolgimento di lavoro straordinario è subordinato
all’autorizzazione dell’Amministrazione.
Il lavoro straordinario, infatti, può essere svolto, e deve
essere pagato, sul presupposto che i competenti organi
dell’Amministrazione abbiano riconosciuto la sua utilità, ed
abbiano accertato la necessità e sostenibilità della
relativa spesa.
E’ chiaro che qualora manchi l’autorizzazione preventiva
espressa, spetta a chi pretende il relativo pagamento
dimostrare l’esistenza dei presupposti per il pagamento,
consistenti nell’autorizzazione a sanatoria o nella
dimostrazione del verificarsi di una situazione di fatto che
ha reso imprescindibile lo svolgimento delle prestazioni
straordinarie, in applicazione del principio di cui all’art.
2967 c.c..
E’ vero che nel giudizio amministrativo tale onere è
attenuato, in quanto la documentazione necessaria è
normalmente nella disponibilità dell’Amministrazione, ma
solo nei limiti della necessaria introduzione, nel processo,
di un principio di prova, che legittimi l’esperimento di
incombenti istruttori.
Nel caso di specie peraltro l’appellante non ha assolto
nemmeno tale onere attenuato.
In particolare, non costituisce indizio della continua
costrizione allo svolgimento di prestazioni straordinarie
l’unica occasione nella quale egli sarebbe stato sanzionato
per essersi rifiutato di svolgerle
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.12.2012 n. 6605 - link a
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PUBBLICO
IMPIEGO:
Il diritto al compenso
sostitutivo delle ferie non godute, indipendentemente da una
normativa espressa che lo prevede, discende direttamente dal
mancato godimento, allorché sia certo che detta mancanza non
sia stata determinata dalla volontà unilaterale del
lavoratore.
L’appellante chiede poi
il riconoscimento del suo diritto a percepire l’indennità
per ferie non godute nel periodo 1995-1998.
L’appellante implicitamente ammette di non avere chiesto di
usufruire delle ferie, sostenendo peraltro l’irrilevanza del
fatto.
Neanche questa domanda può essere accolta in quanto la tesi
dell’appellante è in contrasto con l’orientamento
sostanzialmente pacifico della giurisprudenza, che il
Collegio condivide.
Ad esempio, secondo C. di S., IV, 10.12.2003, n. 8118,
“il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute,
indipendentemente da una normativa espressa che lo prevede,
discende direttamente dal mancato godimento, allorché sia
certo che detta mancanza non sia stata determinata dalla
volontà unilaterale del lavoratore”.
Atteso che, come appena sottolineato, l’appellante ha
sostanzialmente ammesso che la mancata fruizione delle ferie
è a lui imputabile, la pretesa deve essere respinta
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.12.2012 n. 6605 - link a
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PUBBLICO
IMPIEGO:
Nel caso di istanza di
risarcimento del danno non patrimoniale per usura
psicofisica derivante da attività lavorativa prestata anche
nel giorno destinato al riposo settimanale senza aver goduto
di riposo compensativo, il lavoratore è tenuto ad allegare e
provare in termini reali, sia nell'an che nel quantum, il
pregiudizio del suo diritto fondamentale alla salute
psico-fisica, nei suoi caratteri naturalistici e nella sua
dipendenza causale dalla violazione dei diritti patrimoniali
di cui all'art. 36 della costituzione.
Il lavoratore che assume di essere stato adibito ad attività
lavorativa anche nel giorno destinato al riposo settimanale
senza aver goduto di riposo compensativo, ove chieda il
risarcimento del danno non patrimoniale per usura
psicofisica ovvero per la lesione del diritto alla salute o
alla libera esplicazione delle attività realizzatrici della
persona umana, è tenuto a provare in termini reali il
pregiudizio subito, sia nell'an sia nel quantum.
L’appellante chiede poi il riconoscimento del suo diritto
al risarcimento per danno da usura.
Anche questa pretesa deve essere respinta, in quanto
contrastante con pacifico orientamento giurisprudenziale,
condiviso dal Collegio.
C. di S., VI, 08.03.2012, n. 1317, ha affermato che “nel
caso di istanza di risarcimento del danno non patrimoniale
per usura psicofisica derivante da attività lavorativa
prestata anche nel giorno destinato al riposo settimanale
senza aver goduto di riposo compensativo, il lavoratore è
tenuto ad allegare e provare in termini reali, sia nell'an
che nel quantum, il pregiudizio del suo diritto fondamentale
alla salute psico-fisica, nei suoi caratteri naturalistici e
nella sua dipendenza causale dalla violazione dei diritti
patrimoniali di cui all'art. 36 della costituzione”.
Allo stesso modo, C. di S., VI, 15.07.2010, n. 4553, ha
affermato che “il lavoratore che assume di essere stato
adibito ad attività lavorativa anche nel giorno destinato al
riposo settimanale senza aver goduto di riposo compensativo,
ove chieda il risarcimento del danno non patrimoniale per
usura psicofisica ovvero per la lesione del diritto alla
salute o alla libera esplicazione delle attività
realizzatrici della persona umana, è tenuto a provare in
termini reali il pregiudizio subito, sia nell'an sia nel
quantum”.
E’ quindi pacifico in giurisprudenza il principio secondo il
quale il lavoratore che vanti il suo diritto al risarcimento
del danno da usura psicofisica derivante dal mancato
godimento del giorno di riposo ha l’onere di provare
l’effettivo verificarsi del danno e di quantificarlo
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.12.2012 n. 6605 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La nozione di “situazione giuridicamente
rilevante” che giustifica l’esercizio del diritto di accesso
si configura certamente come diversa e più ampia rispetto
alla legittimazione ed all'interesse al ricorso, e non
presuppone necessariamente una posizione soggettiva
qualificabile in termini di diritto soggettivo o di
interesse legittimo, per cui la legittimazione all'accesso
va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti
oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei a
spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti,
indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica,
stante l'autonomia del diritto di accesso, inteso come
interesse ad un bene della vita, distinto rispetto alla
situazione legittimante all'impugnativa dell'atto.
Tuttavia, l'interesse legittimante l'accesso non può essere
individuato in qualunque interesse giuridicamente rilevante
vantato da un qualsiasi soggetto dell'ordinamento, ma deve
invece essere attinente all'azione amministrativa in
relazione alla quale l'istanza è presentata, atteso che solo
in tal modo può venire in essere il carattere diretto,
attuale e concreto cui l’art. 22 della L. n. 241/1990 fa
riferimento.
La domanda di accesso non può così essere palesemente
sovradimensionata rispetto all'effettivo interesse
conoscitivo del soggetto, da cui l’inammissibilità di un
ricorso nel caso di omessa dimostrazione del collegamento
tra la documentazione di cui si chiede l'ostensione, e la
posizione soggettiva meritevole di tutela.
---------------
L'interesse che legittima la richiesta di accesso, oltre ad
essere serio e non emulativo, deve essere infatti
"concreto", cioè ricollegabile alla persona dell'istante da
uno specifico nesso, dovendosi dimostrare che gli atti
procedimentali richiesti abbiano spiegato o siano idonei a
spiegare effetti diretti o indiretti nei confronti
dell’istante.
Tuttavia, poiché il citato art. 22 L. 07.08.1990 n. 241 non
ha introdotto alcun tipo di azione diretta a consentire una
sorta di controllo generalizzato sulla amministrazione, deve
escludersi che il diritto di accesso consenta l'acquisizione
meramente conoscitiva di atti o documenti.
La nozione di “situazione giuridicamente
rilevante” che giustifica l’esercizio del diritto di accesso
si configura certamente come diversa e più ampia rispetto
alla legittimazione ed all'interesse al ricorso, e non
presuppone necessariamente una posizione soggettiva
qualificabile in termini di diritto soggettivo o di
interesse legittimo, per cui la legittimazione all'accesso
va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti
oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei a
spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti,
indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica,
stante l'autonomia del diritto di accesso, inteso come
interesse ad un bene della vita, distinto rispetto alla
situazione legittimante all'impugnativa dell'atto.
Tuttavia,
l'interesse legittimante l'accesso non può essere
individuato in qualunque interesse giuridicamente rilevante
vantato da un qualsiasi soggetto dell'ordinamento, ma deve
invece essere attinente all'azione amministrativa in
relazione alla quale l'istanza è presentata, atteso che solo
in tal modo può venire in essere il carattere diretto,
attuale e concreto cui l’art. 22 della L. n. 241/1990 fa
riferimento (TAR Lazio, Roma Sez. I 08.03.2011 n. 2083).
La
domanda di accesso non può così essere palesemente
sovradimensionata rispetto all'effettivo interesse
conoscitivo del soggetto, da cui l’inammissibilità di un
ricorso nel caso di omessa dimostrazione del collegamento
tra la documentazione di cui si chiede l'ostensione, e la
posizione soggettiva meritevole di tutela (TAR Lazio,
Roma Sez. I 05.08.2010 n. 2012).
In sede procedimentale, ed al momento di proposizione del
ricorso, il ricorrente ha espressamente motivato il proprio
interesse all’accesso in relazione all’impatto acustico ed
elettromagnetico potenzialmente indotto dalla realizzazione
delle opere contenute nel progetto, il cui abbandono da
parte della resistente, comporta il venire meno dello stesso
interesse, che difetta pertanto del requisito
dell’attualità.
L'interesse che legittima la richiesta di
accesso, oltre ad essere serio e non emulativo, deve essere
infatti "concreto", cioè ricollegabile alla persona
dell'istante da uno specifico nesso, dovendosi dimostrare
che gli atti procedimentali richiesti abbiano spiegato o
siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei
confronti dell’istante (Ad Plen. C.S. n. 7 del 24.04.2012),
ciò che invece manca nel caso di specie, in cui non esiste
alcun procedimento in corso, né è fissata alcuna data per il
suo avvio. Lo stesso ricorrente sostanzialmente conferma che
solo l’esistenza, futura ed eventuale, di nuove versioni
progettuali, giustificherebbe il proprio interesse
all’accesso, qualificando la propria azione “meramente
conoscitiva” (pag. 3 della citata memoria del 06.12.2012).
Tuttavia, poiché il citato art. 22 L. 07.08.1990 n. 241
non ha introdotto alcun tipo di azione diretta a consentire
una sorta di controllo generalizzato sulla amministrazione
(Ad. Plen. n. 7/2012 cit.), deve escludersi che il diritto
di accesso consenta l'acquisizione meramente conoscitiva di
atti o documenti (TAR Sardegna, Sez. II, 19.01.2006 n. 29)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 21.12.2012 n. 3201 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Ritenendo che l’art. 75
D.L.gs 12.04.2006 n. 163 abbia portata "eterointegrativa",
come tale applicabile agli appalti a prescindere
dall'espresso richiamo contenuto nella legge di gara,
l'integrazione da parte della stazione appaltante della lex
specialis della gara con clausole precedentemente omesse è
atto.
Pertanto la mancata previsione nella lettera invito
dell’obbligo di presentare la cauzione non costituisce una
ragione per procedere all’annullamento della lettera
medesima, ben potendo essere colmata con il meccanismo della
eterointegrazione: da qui l’assenza dei presupposti per
l’esercizio del potere di autotutela.
Con il presente ricorso la società
Ristorazione e Servizi per Comunità (da ora anche solo
Ristorazione), ha impugnato il provvedimento del Comune di Eupilio, con cui è stata disposto l’annullamento della
procedura per la concessione del servizio di ristorazione
scolastica, da aggiudicarsi secondo il sistema dell’offerta
economicamente più vantaggiosa.
...L’annullamento è stato disposto con la seguente testuale
motivazione: “la mancanza nella lettera invito della
presentazione della cauzione provvisoria da parte dei
partecipanti, ai sensi dell’art 75 del D.Lgs. 163/2006
costituisce motivo di illegittimità della stessa e pertanto
ragione di doveroso annullamento della lettera medesima da
parte della stazione appaltante”.
Secondo la tesi della società ricorrente la mancata
indicazione nella lex specialis dell’obbligo di presentare
la cauzione provvisoria non doveva indurre all’annullamento
della gara, ma alla esclusione della società
controinteressata: l’art 75 del D.L.gs. 163/2006 è norma
imperativa, che deve trovare applicazione, in forza del
principio di eterointegrazione, in caso di previsioni
generiche della lex specialis.
Sostiene invece l’Amministrazione che il servizio in oggetto
è ricompreso tra quelli elencati nell’All. II B del D.L.gs.
163/2006, disciplinati dall’art. 20 del Codice, secondo il
quale non trova applicazione l’art. 75, che può trovare
ingresso solo attraverso un esplicito intervento
dell’amministrazione aggiudicatrice in sede di
predisposizione degli atti.
Entrambe le tesi inducono a ritenere illegittimo
l’annullamento in autotutela.
Infatti ritenendo che l’art. 75 D.L.gs 12.04.2006 n. 163
abbia portata "eterointegrativa" (in tal senso TAR Lazio
Latina, sez. I, 28.07.2009, n. 737, TAR Sicilia
Palermo, sez. III, 10.03.2010, n. 2646 e Consiglio Stato
sez. V, 12.06.2009, n. 3746), come tale applicabile agli
appalti a prescindere dall'espresso richiamo contenuto nella
legge di gara, l'integrazione da parte della stazione
appaltante della lex specialis della gara con clausole
precedentemente omesse era atto dovuto e quindi
l’Amministrazione avrebbe dovuto escludere la società
controinteressata.
Pertanto la mancata previsione nella lettera invito
dell’obbligo di presentare la cauzione non costituiva una
ragione per procedere all’annullamento della lettera
medesima, ben potendo essere colmata con il meccanismo della
eterointegrazione: da qui l’assenza dei presupposti per
l’esercizio del potere di autotutela.
A voler seguire, poi, la tesi difensiva
dell’Amministrazione, secondo cui, in base alla tipologia di
servizio oggetto di appalto, l’art. 75 non potrebbe trovare
applicazione, anche in tal caso non vi sarebbe alcuna lacuna
della lex specialis e, quindi, non vi sarebbe alcun vizio
nella lettera invito da giustificarne l’annullamento, che
risulterebbe disposto in difetto dei presupposti.
L’art. 20 del Codice infatti stabilisce per gli appalti di
cui all. II B (tra cui il servizio di ristorazione), un
regime differenziato, in quanto disciplinati solo dagli
artt. 68, 65 e 225, per cui la mancata prescrizione nella
lettera di invito dell’obbligo di prestare cauzione
provvisoria non costituiva una “lacuna”, per la quale
dovesse operare il principio di eterointegrazione, né
rappresentava un motivo di illegittimità della lex specialis,
che potesse giustificare l’annullamento della gara
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 21.12.2012 n. 3174 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il funzionario comunale
ha aperto i plichi ai soli fini della verifica
della documentazione prodotta dalle Ditte concorrenti.
Le operazioni di gara effettuate in questa fase non
richiedevano la costituzione di una vera e propria
commissione, la cui nomina, ai sensi dell'art. 84, comma 1,
è richiesta solo per la valutazione tecnica dell’offerta,
mentre le attività preliminari di verifica documentale
possono essere svolte direttamente dai funzionari della
stazione appaltante assegnati all'unità operativa
responsabile delle procedure di gara.
La giurisprudenza in materia di gara da aggiudicare con il
criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa
afferma, infatti, che la procedura selettiva si compone di
varie fasi, alcune delle quali necessitano di competenze
amministrative ed altre, invece, di competenze tecniche.
--------------
Non è ravvisasibile alcuna illegittimità nella nomina, quale
presidente della commissione di gara, del funzionario
Responsabile del settore che dovrà poi controllare il
servizio oggetto dell’appalto, in quanto l'art. 84 del
D.Lgs. n. 163 del 2006 mira ad impedire la presenza nella
Commissione di gara di soggetti che abbiano svolto
un'attività idonea ad interferire con il giudizio di merito
sull'appalto, avendo svolto nell’interesse proprio o in
quello di ditte concorrenti, compiti relativi all’attività
oggetto dell’appalto.
Detta incompatibilità non si può estendere al funzionario
che, sempre nell’ambito della propria attività
professionale, ha predisposto gli atti di gara.
Lamenta parte ricorrente
la violazione dell’art. 84, c. 1 e 4, nonché dell’art. 30, c. 3,
del D.Lgs. 163/2006, in quanto la Commissione di gara
sarebbe stata costituita da un solo soggetto, la Sig.ra
Trovato, la quale avrebbe anche predisposto gli atti di
gara.
Come risulta dal verbale della seduta del 10.09.2012, la Sig.
Trovato ha aperto i plichi ai soli fini della verifica
della documentazione prodotta dalle Ditte concorrenti.
Le operazioni di gara effettuate in questa fase non
richiedevano la costituzione di una vera e propria
commissione, la cui nomina, ai sensi dell'art. 84, comma 1, è
richiesta solo per la valutazione tecnica dell’offerta,
mentre le attività preliminari di verifica documentale
possono essere svolte direttamente dai funzionari della
stazione appaltante assegnati all'unità operativa
responsabile delle procedure di gara.
La giurisprudenza in materia di gara da aggiudicare con il
criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa
afferma, infatti, che la procedura selettiva si compone di
varie fasi, alcune delle quali necessitano di competenze
amministrative ed altre, invece, di competenze tecniche (cfr. CdS, sez. V, 13.10.2010 n. 7470).
Nel caso in esame correttamente le fasi amministrative sono
state espletate dal Responsabile della competente unità
organizzativa settore, atteso che, ai sensi dell'articolo
10, 2 comma, del d.l.vo n. 163/2006, il RUP svolge tutti i
compiti relativi alle procedure di affidamento previste dal
codice degli appalti che non siano specificamente attribuiti
ad altri organi o soggetti.
Neppure è ravvisasibile alcuna illegittimità nella nomina,
quale presidente della commissione, del funzionario,
Responsabile del settore che dovrà poi controllare il
servizio oggetto dell’appalto, in quanto l'art. 84 del D.Lgs.
n. 163 del 2006, mira ad impedire la presenza nella
Commissione di gara di soggetti che abbiano svolto
un'attività idonea ad interferire con il giudizio di merito
sull'appalto, avendo svolto nell’interesse proprio o in
quello di ditte concorrenti, compiti relativi all’attività
oggetto dell’appalto. Detta incompatibilità non si può
estendere al funzionario che, sempre nell’ambito della
propria attività professionale, ha predisposto gli atti di
gara
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 21.12.2012 n. 3174 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’art. 37, comma 13, del D. Lgs 163/2006 –con
disposizione valida anche per gli appalti di servizi e
forniture– stabilisce che i concorrenti riuniti in ATI
devono eseguire le prestazioni nella percentuale
corrispondente alla quota di partecipazione al
raggruppamento, per cui è evidente che deve sussistere una
perfetta corrispondenza tra quota di lavori (o, nel caso di
forniture o servizi, di parti di esse) eseguita dal singolo
operatore economico e quota di effettiva partecipazione al
raggruppamento, e che vi è la necessità che sia l’una che
l’altra siano specificate dai componenti del raggruppamento
all’atto della partecipazione alla gara.
E’ altresì richiesto che la singola impresa componente
dell’A.T.I. abbia la qualifica, ovvero i requisiti di
ammissione, in misura corrispondente alla quota di
partecipazione, il tutto a garanzia della stazione
appaltante e del buon esito del programma contrattuale nella
fase di esecuzione: l’inosservanza di detta regola comporta
l’inammissibilità dell’offerta contrattuale, perché implica
l’adempimento da parte di un’impresa priva (almeno in parte)
di qualificazione in una misura simmetrica alla quota di
prestazione ad essa devoluta dall’accordo associativo ovvero
dall’impegno delle parti a concludere l’accordo stesso.
Come già sottolineato (cfr. sentenza
19/07/2012 n. 1385), l’art. 37, comma 13, del D. Lgs
163/2006 –con disposizione valida anche per gli appalti di
servizi e forniture– stabilisce che i concorrenti riuniti
in ATI devono eseguire le prestazioni nella percentuale
corrispondente alla quota di partecipazione al
raggruppamento, per cui è evidente che deve sussistere una
perfetta corrispondenza tra quota di lavori (o, nel caso di
forniture o servizi, di parti di esse) eseguita dal singolo
operatore economico e quota di effettiva partecipazione al
raggruppamento, e che vi è la necessità che sia l’una che
l’altra siano specificate dai componenti del raggruppamento
all’atto della partecipazione alla gara (cfr. TAR Lazio
Roma, sez. II – 30/4/2012 n. 3891).
E’ altresì richiesto che
la singola impresa componente dell’A.T.I. abbia la
qualifica, ovvero i requisiti di ammissione, in misura
corrispondente alla quota di partecipazione, il tutto a
garanzia della stazione appaltante e del buon esito del
programma contrattuale nella fase di esecuzione:
l’inosservanza di detta regola comporta l’inammissibilità
dell’offerta contrattuale, perché implica l’adempimento da
parte di un’impresa priva (almeno in parte) di
qualificazione in una misura simmetrica alla quota di
prestazione ad essa devoluta dall’accordo associativo ovvero
dall’impegno delle parti a concludere l’accordo stesso
(Consiglio di Stato, sez. III – 16/02/2012 n. 793)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 21.12.2012 n. 2004 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’occupazione di una
porzione di suolo pubblico si configura come una vera e
propria concessione d’uso, ossia alla stregua di un
provvedimento –espressione di un potere pubblicistico
ampiamente discrezionale– con il quale l’amministrazione
locale sottrae il predetto bene alla fruizione comune e lo
mette a disposizione di soggetti particolari (c.d. uso
particolare).
Il titolo abilitativo, pertanto, può essere rilasciato solo
previo accertamento che lo stesso permetta comunque di
realizzare una funzione primaria o comprimaria del bene
pubblico, e non per il conseguimento di interessi meramente
privati.
Premette il Collegio –in linea generale e sulla
scorta di giurisprudenza assolutamente consolidata (cfr.
TAR Lazio, sez. II – 03/11/2009 n. 10782; 01/04/2009 n.
3479)– che l’occupazione di una porzione di suolo pubblico
si configura come una vera e propria concessione d’uso,
ossia alla stregua di un provvedimento –espressione di un
potere pubblicistico ampiamente discrezionale– con il quale
l’amministrazione locale sottrae il predetto bene alla
fruizione comune e lo mette a disposizione di soggetti
particolari (c.d. uso particolare).
Il titolo abilitativo, pertanto, può essere rilasciato solo
previo accertamento che lo stesso permetta comunque di
realizzare una funzione primaria o comprimaria del bene
pubblico, e non per il conseguimento di interessi meramente
privati (su un caso di diniego di rinnovo di concessione si
rinvia a sentenza Sezione 20/01/2011 n. 127 confermata in
appello dal Consiglio di Stato, sez. V – 06/07/2012 n. 3964)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 21.12.2012 n. 2003 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il solo dato della
mancanza dell’autorizzazione sanitaria non può giustificare
l’ordinanza di sospensione dell’attività già da tempo
intrapresa, senza un concreto accertamento di effettive
situazioni di pericolo o di danno per la salute pubblica.
Nel sistema delineato dagli art. 216 e 217 t.u. 27.07.1934
n. 1265 in materia di lavorazioni insalubri, il preventivo
conseguimento dell'autorizzazione sanitaria non costituisce
una condizione di legittimità o di liceità dell'esercizio
dell'attività classificata come insalubre; pertanto,
l'intervento repressivo sindacale non può basarsi sul mero
dato formale ed estrinseco del mancato conseguimento
dell'autorizzazione, ma presuppone un concreto accertamento
dell'esistenza di effettive situazioni di pericolo e di
danno per la salute pubblica, accertamento che tenga conto
anche delle particolari condizioni di luogo e delle
eventuali cautele adottabili.
Questo Collegio condivide infatti
l’orientamento giurisprudenziale secondo cui “il solo dato
della mancanza dell’autorizzazione sanitaria non può
giustificare l’ordinanza di sospensione dell’attività già da
tempo intrapresa, senza un concreto accertamento di
effettive situazioni di pericolo o di danno per la salute
pubblica. Nel sistema delineato dagli art. 216 e 217 t.u. 27.07.1934 n. 1265 in materia di lavorazioni insalubri, il
preventivo conseguimento dell'autorizzazione sanitaria non
costituisce una condizione di legittimità o di liceità
dell'esercizio dell'attività classificata come insalubre;
pertanto, l'intervento repressivo sindacale non può basarsi
sul mero dato formale ed estrinseco del mancato
conseguimento dell'autorizzazione, ma presuppone un concreto
accertamento dell'esistenza di effettive situazioni di
pericolo e di danno per la salute pubblica, accertamento che
tenga conto anche delle particolari condizioni di luogo e
delle eventuali cautele adottabili” (Cfr. TAR Lazio, sent.
n. 474/2010; TAR Lazio, sede di Latina, 20.07.2005 n.
621 e TAR Veneto, Sez. III, 26.04.2001 n. 1066).
Nel caso di specie, risulta pacifico, anche in relazione
alla documentazione versata in atti, che l’attività
industriale fosse già ben avviata all’epoca
dell’accertamento che ha dato luogo al provvedimento
impugnato, e che il comune convenuto non abbia graduato in
nessun modo l’esercizio del suo potere sanzionatorio né
abbia controllato in concreto, prima di disporre la
cessazione dell’attività, se il suo proseguimento potesse
anche solo potenzialmente recare danno alla comunità
rappresentata
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 20.12.2012 n. 3155 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
I) in sede di rilascio del provvedimento
autorizzatorio l’Ente proprietario della strada deve
accertare il rispetto di tutte le condizioni poste dal
legislatore e –poiché l’obiettivo primario è quello di
salvaguardare la sicurezza della circolazione stradale e la
pubblica incolumità– può legittimamente inibire la
collocazione dei cartelli su tutte le tipologie di strade
quando emergano circostanze ostative al perseguimento di
quell’obiettivo;
II) la valutazione della pericolosità dei cartelli
pubblicitari è rimessa alla discrezionalità
dell’amministrazione e, in quanto tale, non è censurabile in
sede di legittimità se non per errori di valutazione o vizi
logici;
III) l’amministrazione deve optare per la preminenza delle
esigenze di sicurezza della circolazione rispetto al pur
rilevante interesse economico di cui sono portatori gli
imprenditori del settore, con una scelta perfettamente
legittima anche alla luce dei canoni costituzionali di
salvaguardia dell’integrità fisica e della salute degli
individui: infatti il valore dell’iniziativa economica
privata della quale l’attività pubblicitaria costituisce
estrinsecazione –seppur riconosciuto e protetto dalla Carta
costituzionale– recede nel giudizio di bilanciamento con il
valore superiore della salute individuale e collettiva, al
quale è garantita la massima protezione;
IV) il Comune può valorizzare l’interesse pubblico alla
coerenza urbanistica del territorio con la ricerca del punto
di equilibrio tra la “pulizia” della visuale e le esigenze
della produzione e del commercio (di cui la pubblicità
stradale è una componente), consumando in misura
proporzionata la visuale stradale e il paesaggio urbano.
Rilevato:
- che il Collegio ripropone alcune considerazioni già
sviluppate dalla giurisprudenza, ed anche recentemente da
questo TAR (cfr. sentenza Sezione II – 20/11/2012 n.
1816):
I) in sede di rilascio del provvedimento autorizzatorio
l’Ente proprietario della strada deve accertare il rispetto
di tutte le condizioni poste dal legislatore e –poiché
l’obiettivo primario è quello di salvaguardare la sicurezza
della circolazione stradale e la pubblica incolumità– può
legittimamente inibire la collocazione dei cartelli su tutte
le tipologie di strade quando emergano circostanze ostative
al perseguimento di quell’obiettivo (sentenza Sezione
20/04/2011 n. 593; TAR Toscana, sez. III – 11/06/2004 n.
2047);
II) la valutazione della pericolosità dei cartelli
pubblicitari è rimessa alla discrezionalità
dell’amministrazione e, in quanto tale, non è censurabile in
sede di legittimità se non per errori di valutazione o vizi
logici (TAR Lombardia Milano, sez. IV – 07/07/2008 n.
2886);
III) l’amministrazione deve optare per la preminenza delle
esigenze di sicurezza della circolazione rispetto al pur
rilevante interesse economico di cui sono portatori gli
imprenditori del settore, con una scelta perfettamente
legittima anche alla luce dei canoni costituzionali di
salvaguardia dell’integrità fisica e della salute degli
individui: infatti il valore dell’iniziativa economica
privata della quale l’attività pubblicitaria costituisce
estrinsecazione –seppur riconosciuto e protetto dalla Carta
costituzionale– recede nel giudizio di bilanciamento con il
valore superiore della salute individuale e collettiva, al
quale è garantita la massima protezione (cfr. sentenze
Sezione 28/02/2008 n. 174; 27/11/2008 n. 1702; 05/03/2009 n.
529);
IV) il Comune può valorizzare l’interesse pubblico alla
coerenza urbanistica del territorio con la ricerca del punto
di equilibrio tra la “pulizia” della visuale e le
esigenze della produzione e del commercio (di cui la
pubblicità stradale è una componente), consumando in misura
proporzionata la visuale stradale e il paesaggio urbano (TAR
Brescia – 06/09/2004 n. 1013)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 20.12.2012 n. 1992 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Il diritto di accesso non
può essere utilizzato come strumento per un mero generico e
generalizzato controllo esplorativo sull'azione
amministrativa per verificare la possibilità di eventuali,
future lesioni di interessi privati, né può essere
configurato come un particolare tipo di azione popolare.
Parte ricorrente, nella propria replica, nel
tentativo di sostenere la sussistenza di un’adeguata
rappresentazione del proprio interesse, quale consigliere
comunale, ad ottenere l’estrazione di copia della
documentazione richiesta, ha raggruppato gli oggetti dei
verbali richiesti, rappresentando la volontà di acquisire
agli atti delibere relative al bilancio (e, quindi,
all’impiego delle risorse), alla fissazione delle tariffe,
alle deleghe rilasciate agli amministratori e ai loro
compensi, alla programmazione delle attività fieristiche,
agli adeguamenti strutturali degli impianti della società.
Ciò pone in evidenza come l’indagine che il consigliere
comunale intende porre in essere riguardi l’intero ambito di
attività della società istanziata, lasciando sottintendere
che essa non abbia l’obiettivo di verificare eventuali
specifiche irregolarità nella gestione, ma di consentire
un’azione meramente esplorativa della gestione stessa.
Come affermato dalla giurisprudenza costante, da cui il
Collegio non ravvisa ragione di discostarsi, infatti, “il
diritto di accesso non può essere utilizzato come strumento
per un mero generico e generalizzato controllo esplorativo
sull'azione amministrativa per verificare la possibilità di
eventuali, future lesioni di interessi privati (C.d.S., sez. IV, 15.11.2004, n. 7412; sez. VI,
06.07.2010, n.
4297), né può essere configurato come un particolare tipo di
azione popolare (C.d.S., sez. V, 07.09.2004, n. 5873;
sez. IV, 15.09.2010, n. 6899)” (così Cons. Stato Sez.
V, sentenza 11.01.2012, n. 85).
Analoghe considerazioni
possono essere formulate con riferimento anche all’interesse
perseguito dal consigliere comunale nell’esercizio delle sue
funzioni, come si legge nella sentenza TAR Calabria,
Catanzaro, sez. II, 27.11.2008, n. 1535 e in quella del
Cons. Stato, sez. V, 13.11.2002, n. 6293
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 20.12.2012 n. 1990 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'istituto della denuncia di inizio di attività,
disciplinato dagli art. 22 e 23 D.P.R. 06.06.2001, n. 380,
evidenzia profili di incompatibilità con le nuove norme di
ordine generale dettate in tema di comunicazione
(preventiva) dei motivi ostativi all'accoglimento
dell'istanza.
In particolare l'adozione del provvedimento con il quale
l'amministrazione comunale ordina al privato di non
effettuare l'intervento da lui denunciato non deve essere
preceduta dalla comunicazione di cui all'art. 10-bis, l. n.
241/1990 ostando in tal senso non solo la circostanza che la
denuncia di inizio di attività non può, letteralmente,
considerarsi una "istanza di parte", ma anche (e
soprattutto) la speciale disciplina "della notifica
all'interessato" dell'"ordine motivato di non effettuare il
previsto intervento", contenuta dal comma 6 dell'art. 23
cit., dove già è prevista la motivazione dell'ordine
inibitorio e dove viene assicurata una forma di confronto e
di tutela del privato, a favore del quale viene comunque
fatta "salva la facoltà di ripresentare la denuncia di
inizio attività, con le modifiche o le integrazioni
necessarie per renderla conforme alla normativa urbanistica
ed edilizia.
L’ultimo motivo di ricorso non può essere accolto perché
esistono profili di incompatibilità tra il preavviso di
rigetto e la D.I.A.
Si veda in merito quanto affermato nella sentenza 2478/2011
del TAR Lombardia che è espressione di un indirizzo
consolidato: “L'istituto della denuncia di inizio di
attività, disciplinato dagli art. 22 e 23 D.P.R. 06.06.2001, n. 380, evidenzia profili di incompatibilità con le
nuove norme di ordine generale dettate in tema di
comunicazione (preventiva) dei motivi ostativi
all'accoglimento dell'istanza; in particolare l'adozione del
provvedimento con il quale l'amministrazione comunale ordina
al privato di non effettuare l'intervento da lui denunciato
non deve essere preceduta dalla comunicazione di cui
all'art. 10-bis, l. n. 241/1990 ostando in tal senso non
solo la circostanza che la denuncia di inizio di attività
non può, letteralmente, considerarsi una "istanza di parte",
ma anche (e soprattutto) la speciale disciplina "della
notifica all'interessato" dell'"ordine motivato di non
effettuare il previsto intervento", contenuta dal comma 6
dell'art. 23 cit., dove già è prevista la motivazione
dell'ordine inibitorio e dove viene assicurata una forma di
confronto e di tutela del privato, a favore del quale viene
comunque fatta "salva la facoltà di ripresentare la denuncia
di inizio attività, con le modifiche o le integrazioni
necessarie per renderla conforme alla normativa urbanistica
ed edilizia" (TAR Umbria,
sentenza 19.12.2012 n. 537 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Modificazioni soggettive delle ATI: annullamento
dell'aggiudicazione.
Qualsiasi modificazione soggettiva di un raggruppamento
temporaneo di imprese affidatario di una gara pubblica,
diversa da quelle espressamente previste dal legislatore
(art. 37, commi 18 e 19, D.Lgs. 163/2006) determina
l’annullamento dell’aggiudicazione disposta dalla stazione
appaltante.
Questo il principio enunciato dalla IV Sez. del Consiglio di
Stato, con la
sentenza 14.12.2012 n.
6446, nell’ambito di una gara per l’affidamento dei
lavori di ammodernamento e adeguamento di un tratto
autostradale.
Nel caso in esame, a seguito dell’aggiudicazione a favore di
un RTI, la mandataria aveva rinunciato alla stipula del
contratto, con conseguente provvedimento di annullamento
dell’aggiudicazione della p.a. in favore di tutto il
raggruppamento ed aggiudicazione nei confronti del secondo
classificato.
La mandante dell’Ati chiedeva l’annullamento del
provvedimento dell’Anas trovando il conforto dei Giudici di
primo grado, secondo i quali a seguito della rinuncia della
mandataria la p.a. avrebbe dovuto verificare il tenore della
procura conferita dalle mandanti, che non prevedeva alcun
potere di rinuncia al contratto e accertare la sussistenza
degli estremi per procedere alla stipula del contratto nei
confronti delle altre società componenti il raggruppamento.
Impugnata la sentenza resa in primo grado da parte del RTI
secondo classificato e nuovo affidatario, i Giudici di
Palazzo Spada concentravano la loro attenzione sull’esatta
interpretazione dell’art. 37 del D.Lgs. 163/2006 e sulla
ampiezza del divieto di modificazione soggettiva di un
raggruppamento temporaneo aggiudicatario e delle deroghe
previste dalla norma.
Il Supremo Consesso amministrativo, attraverso un’attenta
ricostruzione logico–giuridica delle disposizioni in esame
stabilisce che le deroghe previste dall’art. 37, commi 18 e
19, hanno carattere esaustivo e le eventuali ulteriori
ipotesi di modificazione soggettiva, come la rinuncia alla
stipula del contratto da parte della mandataria, determinano
la violazione del divieto previsto dal Codice e il
conseguente annullamento dell’aggiudicazione a favore
dell’ATI.
Sul punto è affermato infatti “…l’immodificabilità
soggettiva dei partecipanti alle gare pubbliche è
preordinata a garantire l’amministrazione appaltante in
ordine alla verifica dei requisiti di idoneità morale,
tecnico organizzativa ed economica, nonché alla
legittimazione delle imprese che hanno partecipato alla gara
E per tali ragioni, che l’art. 37, co. 9, del D.Lgs. n.
163/2006 stabilisce il divieto di modificare la composizione
dei raggruppamenti temporanei e le eccezioni previste ai
commi 18 e 19 (fallimento del mandante, del mandatario e, se
si tratta di imprenditore individuale, morte, interdizione o
inabilitazione, nonché le ipotesi previste dalla normativa
antimafia).”.
Tali considerazioni determinano pertanto che “...al di
fuori delle ipotesi normativamente previste, non è
ammissibile alcuna modifica della composizione del
raggruppamento affidatario.”
In conclusione, la sentenza in esame ha ravvisato
l’esistenza di un orientamento giurisprudenziale secondo cui
il mutamento della composizione “...va letto come inteso
ad impedire l’aggiunta o la sostituzione di imprese
partecipanti all’ATI e non anche a precluderne il recesso di
una o più imprese dall’associazione...” (Cons. Stato,
sez. VI, 16.02.2010 n. 842 e 13.05.2009 n. 2964), ma ha
tuttavia ritenuto di non potervi aderire alla luce del
chiaro disposto dell’art. 37, comma 9, per il quale oltre le
ipotesi espressamente indicate dal legislatore è vietata
qualsiasi modificazione alla composizione dei raggruppamenti
temporanei e dei consorzi ordinari di concorrenti, rispetto
a quanto formulato in sede di offerta (commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Annullamento del permesso di costruire per
difetto di volumetria.
Il TAR Campania-Napoli, Sez. II, con la recente
sentenza 14.12.2012 n. 5209, ha
afferma un significativo principio in materia di interventi
in autotutela, aventi ad oggetto l’annullamento di un
permesso di costruire viziato da un originario difetto di
volumetria.
Secondo la decisione che qui si annota, un Comune può -a
seguito delle espresse valutazioni effettuate dalla
commissione edilizia e, in particolare, in forza della
mancanza di un chiaro conteggio delle superfici utilizzate
nelle precedenti concessioni edilizie rilasciate-, annullare
in autotutela una concessione edilizia, per difetto della
volumetria prevista dallo strumento urbanistico generale.
Il tutto, si badi bene, senza dover dare all’interessato
alcuna comunicazione di avvio del procedimento.
In questi casi, infatti, il provvedimento di secondo grado
(autotutela) è fondato sull’assenza di un presupposto
essenziale per l’ammissibilità dell’intervento edilizio,
costituito dal rispetto dei limiti di densità di
edificazione stabiliti dallo strumento urbanistico generale,
di fondamentale rilevo al fine di assicurare un ordinato
sviluppo del territorio.
Di conseguenza, l’Amministrazione non ha alternative; ragion
per cui la partecipazione dell’interessato al procedimento
non può determinare alcuna incidenza sul potere in concreto
esercitato e sul contenuto del provvedimento.
Detto in altre parole, la partecipazione dell’interessato,
in questi casi (concreti) nei quali la pubblica
amministrazione non può che procedere in un determinato
modo, sarebbe inutile.
Più in dettaglio, il ricorrente aveva appunto eccepito
l’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento, in
quanto l’amministrazione aveva adottato il provvedimento di
annullamento d’ufficio a seguito di una riscontrata
erosione, in base agli indici di fabbricabilità previsti dal
P.R.G., della volumetria stabilita per il lotto interessato
dall’intervento.
Ma il Tar Napoli osserva che il provvedimento gravato,
adottato a meno di un anno dal rilascio del titolo edilizio
annullato, poneva a proprio fondamento l’assenza di un
presupposto essenziale per l’ammissibilità dell’intervento,
ovvero il rispetto dei limiti di densità di edificazione
stabiliti dallo strumento urbanistico generale, di
fondamentale rilevo al fine di assicurare un ordinato
sviluppo del territorio.
Del resto, il diritto di edificare inerisce alla proprietà
dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti
urbanistici, tra i quali quelli diretti a regolare la
densità di edificazione ed espressi negli indici di
fabbricabilità, con la conseguenza che esso è conformato
anche da tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad
esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla
legge e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente,
qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto
titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico
indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per
realizzare la volumetria sviluppata.
In questo quadro, sebbene l’annullamento in autotutela
costituisca esercizio di un potere discrezionale
dell’amministrazione, nel caso specifico la gravità
dell’illegittimità del titolo edilizio è stata doverosamente
apprezzata ai fini dell’adozione del provvedimento in
autotutela.
Per tali ragioni non residuava all’amministrazione nessuna
diversa alternativa.
Corollario di quanto detto è che la partecipazione
dell’interessato al procedimento amministrativo non avrebbe
potuto determinare alcuna incidenza sul potere in concreto
esercitato dal Comune e sul contenuto del suo provvedimento
(commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Nei
propri atti di gara le stazioni appaltanti possono includere
solo due tipologie di clausole escludenti: quelle che
riproducono obblighi previsti dal codice appalti o da altre
disposizioni normative e quelle che sono comunque
funzionali ad evitare incertezze sul contenuto o sulla
provenienza dell’offerta, ad assicurane la completezza
contenutistica, ovvero ad assicurarne la segretezza.
Nessuna disposizione impone di allegare la carta d’identità
agli atti aventi natura di proposta contrattuale, quali sono
le offerte tecniche ed economiche proposte dai concorrenti
che partecipano alle gare pubbliche. Siffatto obbligo, in
base all'art. 38, comma 3, del D.P.R. 28.12.2000, n. 445, è
difatti previsto solo per le dichiarazioni sostitutive di
atto di notorietà e per le istanze rivolte
all'amministrazione.
Per altro verso non sembra effettivamente potersi ritenere
che la mancata allegazione della copia della carta
d’identità possa determinare incertezza assoluta sulla
provenienza dell’offerta, in quanto contenuta in una busta a
sua volta contenuta in un’altra busta in cui è inserita
l’istanza di partecipazione alla gara, la quale, invece,
deve essere ed è stata, anche nel caso di specie,
necessariamente corredata dalla copia della carta
d’identità.
---------------
La questione della necessità della dichiarazione, ex art. 38
del d.lgs. 163/2006, con riferimento agli amministratori
delle società incorporate per fusione dall’aggiudicataria è
stata definita con la sentenza n. 17 del 07.06.2012.
In tale pronuncia sono stati chiariti i seguenti principi:
1) in caso di incorporazione o fusione societaria sussiste
in capo alla società incorporante, o risultante dalla
fusione, l’onere di presentare la dichiarazione relativa al
requisito di cui all’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n.
163/2006 anche con riferimento agli amministratori ed ai
direttori tecnici che hanno operato presso la società
incorporata o le società fusesi nell’ultimo triennio ovvero
che sono cessati dalla relativa carica in detto periodo
(dopo il d.l. n. 70 del 2011: nell’ultimo anno). Resta ferma
la possibilità di dimostrare la c.d. dissociazione;
2) l’art. 38, comma 2, d.lgs. n. 163 del 2006, sia prima che
dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 70 del 2011, impone la
presentazione di una dichiarazione sostitutiva completa, a
pena di esclusione, e tale dichiarazione sostitutiva deve
essere riferita, quanto all’art. 38, comma 1, lett. c),
anche agli amministratori delle società che partecipano ad
un procedimento di incorporazione o di fusione, nel limite
temporale ivi indicato;
3) nel contesto di oscillazioni della giurisprudenza e di
conseguente incertezza delle stazioni appaltanti, fino alla
plenaria n. 10/2012 e alla plenaria odierna, i concorrenti
che omettono la dichiarazione di cui all’art. 38, comma 1,
lett. c), d.lgs. n. 163/2006, relativamente agli
amministratori delle società partecipanti al procedimento di
fusione o incorporazione, possono essere esclusi dalle gare
-in relazione alle dichiarazioni rese ai sensi dell’art. 38,
comma 1, lett. c), fino alla data di pubblicazione della
presente decisione- solo se il bando espliciti tale onere di
dichiarazione e la conseguente causa di esclusione; in caso
contrario, l’esclusione può essere disposta solo ove vi sia
la prova che gli amministratori per i quali è stata omessa
la dichiarazione hanno pregiudizi penali.
Orbene, la giurisprudenza, anche di questo
Tribunale, si è recentemente allineata a quella
maggioritaria nell’affermare che nei propri atti di gara le
stazioni appaltanti possono includere solo due tipologie di
clausole escludenti: quelle che riproducono obblighi
previsti dal codice appalti o da altre disposizioni
normative e quelle che sono comunque funzionali ad evitare
incertezze sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta,
ad assicurane la completezza contenutistica, ovvero ad
assicurarne la segretezza (sul punto cfr. TAR Lombardia
Milano Sez. III, Sent., 23-05-2012, n. 1397).
Nessuna disposizione impone di allegare la carta d’identità
agli atti aventi natura di proposta contrattuale, quali sono
le offerte tecniche ed economiche proposte dai concorrenti
che partecipano alle gare pubbliche (cfr. TAR Lombardia
Brescia, sez. II, 26.03.2012 n. 530). Siffatto obbligo,
in base all'art. 38, comma 3, del D.P.R. 28.12.2000,
n. 445, è difatti previsto solo per le dichiarazioni
sostitutive di atto di notorietà e per le istanze rivolte
all'amministrazione.
Per altro verso non sembra effettivamente potersi ritenere
che la mancata allegazione della copia della carta
d’identità possa determinare incertezza assoluta sulla
provenienza dell’offerta, in quanto contenuta in una busta a
sua volta contenuta in un’altra busta in cui è inserita
l’istanza di partecipazione alla gara, la quale, invece,
deve essere ed è stata, anche nel caso di specie,
necessariamente corredata dalla copia della carta
d’identità.
Pertanto, alla luce di tutto ciò e considerato che la
specifica clausola escludente era prevista dal disciplinare
di gara con esclusivo riferimento alle “autocertificazioni”
rilasciate ai sensi del DPR 445/2000 e non anche alle mere
“sottoscrizioni” ai sensi dello stesso testo unico, la
mancata allegazione della copia della carta d’identità non
parrebbe sufficiente a giustificare l’esclusione
dell’offerta. Non può, però, trascurarsi che, nella
fattispecie, l’allegazione del documento doveva essere
contenuta nel numero massimo di pagine ammissibili, per cui
la mancata presentazione della stessa potrebbe risultare
rilevante sotto questo profilo, potendo avvantaggiare chi
abbia utilizzato lo spazio destinato alla fotocopia del
documento per meglio esplicitare la propria offerta.
L’esame dell’offerta della Copra, peraltro, evidenzia come
una diversa organizzazione dello spazio nelle ultime due
pagine avrebbe comunque consentito all’impresa di rispettare
il vincolo del numero massimo imposto dal capitolato di
gara. Ciò anche in considerazione del fatto che non appare
condivisibile la tesi di parte ricorrente, secondo cui la
sottoscrizione avrebbe dovuto essere necessariamente
corredata di un autonomo allegato: la lex specialis,
infatti, prevede esplicitamente che il numero di trenta
pagine debba essere comprensivo di tutte le pagine relative
all’offerta “e/o l’allegato per la sottoscrizione”. L’uso
dell’alternativa non può che far pensare alla possibilità di
riportare copia del documento di identità in calce alla
sottoscrizione, anche nel medesimo foglio.
Ne deriva il rigetto della doglianza, con la conseguenza che
può ragionevolmente escludersi che il rispetto della
condizione (allegazione di copia del documento di identità)
avrebbe comportato la violazione di quella che imponeva il
numero massimo delle pagine dell’offerta.
La questione della necessità della dichiarazione, ex art. 38
del d.lgs. 163/2006, con riferimento agli amministratori
delle società incorporate per fusione dall’aggiudicataria,
che risultava rimessa all’Adunanza Plenaria con ordinanza
della V sezione del Consiglio di Stato del 31.03.2012, n.
1886 è stata definita con la sentenza n. 17 del 07.06.2012.
In tale pronuncia, nella quale sono ripresi i principi
affermati nella sentenza n. 10 del 04.05.2012, avente ad
oggetto la diversa, ma assimilabile fattispecie della
cessione d’azienda, sono stati chiariti i seguenti principi:
1) in caso di incorporazione o fusione societaria sussiste in
capo alla società incorporante, o risultante dalla fusione,
l’onere di presentare la dichiarazione relativa al requisito
di cui all’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163/2006
anche con riferimento agli amministratori ed ai direttori
tecnici che hanno operato presso la società incorporata o le
società fusesi nell’ultimo triennio ovvero che sono cessati
dalla relativa carica in detto periodo (dopo il d.l. n. 70
del 2011: nell’ultimo anno). Resta ferma la possibilità di
dimostrare la c.d. dissociazione;
2) l’art. 38, comma 2, d.lgs. n. 163 del 2006, sia prima che
dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 70 del 2011, impone la
presentazione di una dichiarazione sostitutiva completa, a
pena di esclusione, e tale dichiarazione sostitutiva deve
essere riferita, quanto all’art. 38, comma 1, lett. c),
anche agli amministratori delle società che partecipano ad
un procedimento di incorporazione o di fusione, nel limite
temporale ivi indicato;
3) nel contesto di oscillazioni della giurisprudenza e di
conseguente incertezza delle stazioni appaltanti, fino alla
plenaria n. 10/2012 e alla plenaria odierna, i concorrenti
che omettono la dichiarazione di cui all’art. 38, comma 1,
lett. c), d.lgs. n. 163/2006, relativamente agli
amministratori delle società partecipanti al procedimento di
fusione o incorporazione, possono essere esclusi dalle gare
-in relazione alle dichiarazioni rese ai sensi dell’art.
38, comma 1, lett. c), fino alla data di pubblicazione della
presente decisione- solo se il bando espliciti tale onere
di dichiarazione e la conseguente causa di esclusione; in
caso contrario, l’esclusione può essere disposta solo ove vi
sia la prova che gli amministratori per i quali è stata
omessa la dichiarazione hanno pregiudizi penali.
Ciò in quanto la sentenza n. 10/2012 ha affermato il
principio secondo cui il cessionario, come si avvale dei
requisiti del cedente sul piano della partecipazione a gare
pubbliche, così risente delle conseguenze, sullo stesso
piano, delle eventuali responsabilità del cedente, anche se
l’esclusione potrà essere disposta, in caso di mancata
dichiarazione di condanne relative all’amministratore della
società cedente, solo laddove risulti che la cessionaria non
ha posto in essere le attività necessarie a frapporre una
completa cesura tra vecchia e nuova gestione.
Lo stesso principio di valutazione in concreto deve trovare
applicazione con riferimento alla concreta situazione
dell’amministratore della società incorporata, escludendo la
rilevanza dell’omessa dichiarazione nel caso esso sia
incensurato, salvo che il bando non preveda espressamente
l’obbligo di dichiarazione anche per tali soggetti
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 10.12.2012 n. 1931 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
legittimazione ad agire delle associazioni e/o comitati
ambientalisti spetta non solo con riferimento alla tutela
degli interessi ambientali in senso stretto, ma anche con
riferimento alla tutela ambientale in senso lato, che
implica in quanto tale la possibilità di impugnare atti
aventi finalità urbanistica-edilizia.
Invero, “la materia ambientale per le peculiari
caratteristiche del bene protetto, si atteggia in modo
particolare: la tutela dell’ambiente, infatti, lungi dal
costituire un autonomo settore d’intervento dei pubblici
poteri, assume il ruolo unificante e finalizzante di
distinte tutele giuridiche predisposte a favore dei diversi
beni della vita che nell’ambiente si collocano, assumendo un
carattere per così dire trasversale rispetto alle ordinarie
materie e competenze amministrative, che connotano anche le
distinzioni fra ministeri”.
---------------
La stretta relazione che sempre più spesso corre tra
l’urbanistica e l’ambiente è ben rappresentata dalla stretta
interconnessione sviluppatasi in questi anni fra i contenuti
della pianificazione urbanistica e quelli della tutela
ambientale, derivante dalla circostanza che il territorio,
inteso in tutte le sue accezioni, è un bene fondamentale
avente carattere costitutivo dello stesso bene “ambiente”.
Nell’attuale sviluppo dell’ordinamento giuridico l’ambito di
applicazione della tutela paesaggistica non riguarda ormai
soltanto le aree oggetto di vincolo di tutela, in quanto
detto vincolo ex artt. 146 e ss. d.lgs. 42/2004 è soltanto
uno degli strumenti attraverso cui l’ordinamento persegue
l’obiettivo della tutela del paesaggio.
Si segnala altresì come il Consiglio di Stato
–nell’esaminare un ricorso di Italia Nostra contro uno
strumento urbanistico che avrebbe dato vita al raddoppio del
bacino di cava con un impatto particolarmente negativo
sull'ambiente e sul paesaggio– ha ravvisato che “nel
presente giudizio tale legittimazione debba essere comunque
riconosciuta, perché il provvedimento impugnato ha una
diretta e immediata rilevanza ambientale”.
L’eccezione va disattesa, ed in proposito il
Collegio si richiama alle argomentazioni racchiuse nella
sentenza della sez. I di questo Tribunale in data 27/2/2012
n. 274.
In via generale, è stato rilevato che la più recente
ed avanzata posizione giurisprudenziale (cfr. TAR
Sardegna, sez. II – 06/10/2008 n. 1816; Consiglio di Stato,
sez. IV – 11/11/2011 n. 5986) ha posto in luce che la
legittimazione ad agire delle associazioni e/o comitati
ambientalisti spetta non solo con riferimento alla tutela
degli interessi ambientali in senso stretto, ma anche con
riferimento alla tutela ambientale in senso lato, che
implica in quanto tale la possibilità di impugnare atti
aventi finalità urbanistica-edilizia, specificando che “la
materia ambientale per le peculiari caratteristiche del bene
protetto, si atteggia in modo particolare: la tutela
dell’ambiente, infatti, lungi dal costituire un autonomo
settore d’intervento dei pubblici poteri, assume il ruolo
unificante e finalizzante di distinte tutele giuridiche
predisposte a favore dei diversi beni della vita che
nell’ambiente si collocano, assumendo un carattere per così
dire trasversale rispetto alle ordinarie materie e
competenze amministrative, che connotano anche le
distinzioni fra ministeri” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV
– 11/11/2011 n. 5986).
La stretta relazione che sempre più spesso corre tra
l’urbanistica e l’ambiente è ben rappresentata dalla stretta
interconnessione sviluppatasi in questi anni fra i contenuti
della pianificazione urbanistica e quelli della tutela
ambientale, derivante dalla circostanza che il territorio,
inteso in tutte le sue accezioni, è un bene fondamentale
avente carattere costitutivo dello stesso bene “ambiente”
(cfr. Corte costituzionale 21/11/2011 n. 309).
L’attività di
programmazione intrapresa con il procedimento contestato
incide su un ampio territorio coincidente con l’intera
Provincia di Bergamo, e interferisce o comunque lambisce
aree di pregio ambientale e naturalistico (sono 16 i siti di
importanza comunitaria contemplati nella valutazione
d’incidenza della Direzione generale qualità dell’ambiente
del 02/02/2005).
Va ricordato, al riguardo, quanto affermato
dalla Sezione con la recente sentenza 01/07/2010 n. 2411, per
cui nell’attuale sviluppo dell’ordinamento giuridico
l’ambito di applicazione della tutela paesaggistica non
riguarda ormai soltanto le aree oggetto di vincolo di
tutela, in quanto detto vincolo ex artt. 146 e ss. d.lgs.
42/2004 è soltanto uno degli strumenti attraverso cui
l’ordinamento persegue l’obiettivo della tutela del
paesaggio. Ebbene nel procedimento in questione sono
espressamente previsti pareri di autorità preposte alla
salvaguardia degli interessi pubblici ad un misurato impatto
sull’habitat naturale, alla conservazione dei terreni
agricoli (doc. 4), alla protezione del paesaggio (doc. 5).
Si segnala altresì come il Consiglio di Stato (sez. VI –
25/03/2011 n. 1843) –nell’esaminare un ricorso di Italia
Nostra contro uno strumento urbanistico che avrebbe dato
vita al raddoppio del bacino di cava con un impatto
particolarmente negativo sull'ambiente e sul paesaggio– ha
ravvisato che “nel presente giudizio tale legittimazione
debba essere comunque riconosciuta, perché il provvedimento
impugnato ha una diretta e immediata rilevanza ambientale”
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 10.12.2012 n. 1927 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Nozione di precarietà di un manufatto.
La natura precaria del manufatto non può essere desunta
dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data
all'opera dal costruttore o dalle caratteristiche
costruttive, ma deve ricollegarsi alla intrinseca
destinazione materiale dell'opera ad un uso realmente
precario e temporaneo e che, in conformità a quanto più
volte affermato da questa Corte, il carattere stagionale di
un'opera, vale a dire l'utilizzo annualmente ricorrente
della struttura, non significa assoluta precarietà (tratto da www.lexambiente.it -
Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
07.12.2012 n. 47636 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI: Calze da neve fuorilegge.
Non equivalgono alle catene. Si rischia la multa.
Saranno utilizzabili solo dopo apposito
provvedimento ministeriale.
Rischia la multa l'autista che in caso di maltempo con
obbligo di catene a bordo riveste le ruote del veicolo con i
dispositivi tessili supplementari di aderenza. In mancanza
di una attestazione ministeriale ad hoc infatti questi
sistemi non possono ancora considerarsi equivalenti alle
catene o ai pneumatici da neve.
È questa la conseguenza
operativa più prudente, nonostante il TAR Lazio-Roma, Sez.
III-ter, con l'ordinanza
07.12.2012 n. 4432 di sospensione abbia messo in dubbio il parere negativo del
ministero sull'equivalenza specificamente richiesta da un
produttore di calze da neve.
Con l'approssimarsi del periodo
invernale è tornato di viva attualità il problema delle
dotazioni necessarie per la guida in caso di neve e
ghiaccio, in particolare quando è vigente l'obbligo di
circolazione con catene da neve.
L'art. 6 del codice
stradale ora prevede (dopo la retromarcia dell'ultima ora
contenuta nella legge di stabilità) la possibilità da parte
dell'ente proprietario della strada «di prescrivere che i
veicoli siano muniti di mezzi antisdrucciolevoli o degli
speciali pneumatici per la marcia su neve o ghiaccio».
L'art. 122 del regolamento stradale sancisce di fatto
l'equivalenza tra le catene e i pneumatici invernali. Per
uniformare i requisiti di sicurezza dei sistemi
supplementari di aderenza, il ministero dei trasporti ha
quindi adottato il decreto 13.03.2002.
In buona sostanza solo le tradizionali catene da neve
metalliche e i pneumatici da neve ricadono dentro questa
classificazione. Con il dm 10.05.2011 le cose stanno
però per cambiare. Specifica infatti questo provvedimento
che dal 01.04.2013 sarà abrogato il dm 13.03.2002 e
nel frattempo possono già essere utilizzati anche in Italia
dispositivi la cui validità deve essere però preventivamente
valutata dal ministero dei trasporti.
Ed è proprio contro un
parere negativo di equivalenza espresso dal Mit che gli
interessati hanno proposto ricorso al Tar Lazio ottenendo la
sospensiva del 7 dicembre. Quindi al momento resta tutto
congelato. Per circolare in regola con ghiaccio e neve in
Italia è necessario avere al seguito gomme invernali o
catene tradizionali
(articolo ItaliaOggi del 27.12.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: Circa
il diritto di accesso agli atti in materia edilizia,
l’individuazione della “situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto l’accesso” (art.
22 della legge n. 241/1990) è operata, così come evidenziato
dalla giurisprudenza amministrativa, direttamente dalla
legislazione, che di seguito si riporta.
L’art. 31, comma 9, della legge 17.08.1942, n. 1150, già
disponeva che “chiunque può prendere visione presso gli
uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti
di progetto e ricorrente contro il rilascio della licenza
edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi
o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore
generale e dei piani particolareggiati di esecuzione”.
L’art. 5 del Testo unico approvato con D.P.R. 06.06.2001, n.
380, nel fissare le competenze e responsabilità dello
“sportello unico per l’edilizia”, ha individuato quella di
“fornire informazioni sulle materie di cui al punto a)”
(cioè sul rilascio dei titoli abilitativi) “anche mediante
predisposizione di un archivio informatico”, al dichiarato
fine di consentire a chiunque vi abbia interesse “l’accesso
gratuito, anche in via telematica, … all’elenco delle
domande presentate, allo stato del loro iter procedurale,
nonché a tutte le possibili informazioni utili disponibili”.
E, circa la definizione dell’interesse “giuridicamente
tutelato”, la giurisprudenza amministrativa, se da un lato
ha fornito del concetto di “chiunque” una portata non
incondizionatamente espansiva, tale, cioè, da non
ricomprendervi qualsiasi persona (come la formulazione
letterale della norma potrebbe far supporre), al contempo ha
fornito allo stesso concetto una portata sostanzialistica,
che prescinde dalla sola titolarità di diritti reali
insistenti su terreni direttamente confinanti con quello ove
è stato realizzato l’intervento edilizio, ma ricomprende
qualsiasi situazione, anche di fatto, di “stabile
collegamento” con l’area comprendente il terreno edificato.
In proposito, si è anche recentemente ribadito che la
legittimazione ad impugnare titoli abilitativi edilizi
sussiste per il fatto stesso che il terzo di trova in una
situazione, appunto, di “stabile collegamento” con la “zona”
interessata dalla costruzione oggetto di concessione, a
prescindere da ogni indagine sulla sussistenza di un
ulteriore specifico interesse.
Per la giurisprudenza, il proprietario o il possessore
dell’immobile o il semplice residente o domiciliato nella
zona interessata è legittimato a ricorrere in ragione di
tale stabile collegamento, idoneo a radicare una posizione
d’interesse, differenziata rispetto a quella posseduta dal
“quisque de populo”, all’impugnazione di una concessione
edilizia in sanatoria.
In via generale deve ricordarsi che la legge n. 241/1990,
nel fornire definizioni e princìpi in materia di accesso, ha
qualificato il “diritto di accesso” come il diritto
degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di
documenti amministrativi, mentre per “interessati” ha
inteso tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori
di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l’accesso (art. 22, comma 1, lett. a e
b).
Al contempo, la stessa legge n. 241/1990 conferisce al “diritto”
di accesso, attese le sue rilevanti finalità di pubblico
interesse, valore di “principio generale dell’attività
amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di
assicurarne l’imparzialità e la trasparenza” (art. 22,
comma 2, come sostituito dalla legge n. 69/2009).
Circa il diritto di accesso agli atti in materia edilizia,
l’individuazione della “situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è chiesto
l’accesso” (art. 22 della legge n. 241/1990) è operata,
così come evidenziato dalla giurisprudenza amministrativa
(cfr., Cons. di Stato, sez. IV, n. 2092/2010), direttamente
dalla legislazione, che di seguito si riporta.
L’art. 31, comma 9, della legge 17.08.1942, n. 1150, già
disponeva che “chiunque può prendere visione presso gli
uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti
di progetto e ricorrente contro il rilascio della licenza
edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi
o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore
generale e dei piani particolareggiati di esecuzione”.
L’art. 5 del Testo unico approvato con D.P.R. 06.06.2001, n.
380, nel fissare le competenze e responsabilità dello “sportello
unico per l’edilizia”, ha individuato quella di “fornire
informazioni sulle materie di cui al punto a)” (cioè sul
rilascio dei titoli abilitativi) “anche mediante
predisposizione di un archivio informatico”, al
dichiarato fine di consentire a chiunque vi abbia interesse
“l’accesso gratuito, anche in via telematica, …
all’elenco delle domande presentate, allo stato del loro
iter procedurale, nonché a tutte le possibili informazioni
utili disponibili”.
E, circa la definizione dell’interesse “giuridicamente
tutelato”, la giurisprudenza amministrativa, se da un
lato ha fornito del concetto di “chiunque” una
portata non incondizionatamente espansiva, tale, cioè, da
non ricomprendervi qualsiasi persona (come la formulazione
letterale della norma potrebbe far supporre), al contempo ha
fornito allo stesso concetto una portata sostanzialistica,
che prescinde dalla sola titolarità di diritti reali
insistenti su terreni direttamente confinanti con quello ove
è stato realizzato l’intervento edilizio, ma ricomprende
qualsiasi situazione, anche di fatto, di “stabile
collegamento” con l’area comprendente il terreno
edificato. In proposito, si è anche recentemente ribadito
che la legittimazione ad impugnare titoli abilitativi
edilizi sussiste per il fatto stesso che il terzo di trova
in una situazione, appunto, di “stabile collegamento”
con la “zona” interessata dalla costruzione oggetto
di concessione, a prescindere da ogni indagine sulla
sussistenza di un ulteriore specifico interesse.
Per la giurisprudenza (Cons. St., sez. VI, 26.07.2001, n.
4123, e, con specifico riferimento alle concessioni in
sanatoria, Cons. St., V, 07.05.2008, n. 2086), il
proprietario o il possessore dell’immobile o il semplice
residente o domiciliato nella zona interessata è legittimato
a ricorrere in ragione di tale stabile collegamento, idoneo
a radicare una posizione d’interesse, differenziata rispetto
a quella posseduta dal “quisque de populo”,
all’impugnazione di una concessione edilizia in sanatoria
(v. da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 30.11.2009, n. 7491)
(Cons. Stato, 14.04.2010, n. 2092).
Potendosi senz’altro applicare i principi sopra esposti
anche quando si tratti di richieste di accesso agli atti in
materia edilizia, non vi è dubbio –così come dedotto dalla
ricorrente con il primo motivo di ricorso– che nella
fattispecie in esame quest’ultima sia titolare del richiesto
interesse, come è stato evidenziato nella relativa domanda,
laddove la stessa ha esplicitamente fondato il proprio
predetto interesse sul rapporto di vicinitas
intercorrente tra il terreno di propria titolarità e quello
di proprietà del sig. Varanini, nonché sulla necessità di
verificare la legittimità e conformità urbanistico-edilizia
del titolo ad aedificandum oggetto di estensione.
E tale posizione, in quanto qualificata e differenziata e
non meramente emulativa o preordinata ad un controllo
generalizzato dell'azione amministrativa, basta ai sensi
dell'art. 22 della L. n. 241/1990 a legittimare il diritto
di accesso alla documentazione amministrativa richiesta
(cfr. Cons. Stato. Sez. V, 14.05.2010, n. 2966).
Sicché, il diniego opposto dall’amministrazione comunale
risulta, sotto il profilo esaminato, illegittimo.
A ciò si aggiunga che, sotto il profilo oggettivo,
limitazioni all'accesso possono essere disposte unicamente
nelle ipotesi tassativamente previste dal comma 1 e dal
comma 6 dell'art. 24, ovvero in quelle ulteriori
eventualmente individuate, ai sensi del comma 2 del medesimo
art. 24, dai regolamenti di cui le Amministrazioni si siano
dotate per disciplinare l'accesso alla documentazione in
loro possesso.
Ma, la documentazione afferente la concessione edilizia
rilasciata ai Sigg.ri Varanini e Guscioni, di cui l'odierna
ricorrente ha domandato l'ostensione, non rientra –così come
evidenziato dalla ricorrente- in alcuna delle summenzionate
ipotesi e, pertanto, la relativa domanda di accesso non è
suscettibile -sotto tale aspetto- di limitazioni
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 07.12.2012 n. 1993 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La presentazione
dell'istanza di accertamento di conformità, successivamente
alla impugnazione dell'ordinanza di demolizione -o alla
notifica del provvedimento di irrogazione delle altre
sanzioni per gli abusi edilizi- produce l'effetto di rendere
improcedibile l'impugnazione stessa, per sopravvenuta
carenza di interesse, in quanto il riesame dell'abusività
dell'opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale
sanabilità, provocato dall'istanza di sanatoria, comporta la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito
od implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale
comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa.
Di qui consegue che il ricorso giurisdizionale avverso un
provvedimento sanzionatorio proposto anteriormente
all'istanza di concessione in sanatoria è improcedibile per
sopravvenuta carenza di interesse, “spostandosi” l'interesse
del responsabile dell'abuso edilizio dall'annullamento del
provvedimento sanzionatorio già adottato, all'eventuale
annullamento del provvedimento (esplicito o implicito) di
rigetto.
Secondo consolidata giurisprudenza, la presentazione
dell'istanza di accertamento di conformità, successivamente
alla impugnazione dell'ordinanza di demolizione -o alla
notifica del provvedimento di irrogazione delle altre
sanzioni per gli abusi edilizi- produce l'effetto di
rendere improcedibile l'impugnazione stessa, per
sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il riesame
dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne
la eventuale sanabilità, provocato dall'istanza di
sanatoria, comporta la necessaria formazione di un nuovo
provvedimento, esplicito od implicito (di accoglimento o di
rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 11.12.1997, n. 1377; TAR Sicilia, sez. II,
05.10.2001, n. 1392; TAR Toscana, sez. II, 25.10.1994, n. 350; TAR Campania, Sez. IV, 25.05.2001, n.
2340, 11.12.2002, n. 7994, 30.06.2003, n. 7902).
Di qui consegue che il ricorso giurisdizionale avverso un
provvedimento sanzionatorio proposto anteriormente
all'istanza di concessione in sanatoria è improcedibile per
sopravvenuta carenza di interesse, “spostandosi” l'interesse
del responsabile dell'abuso edilizio dall'annullamento del
provvedimento sanzionatorio già adottato, all'eventuale
annullamento del provvedimento (esplicito o implicito) di
rigetto (TAR Sicilia, Catania, Sez. II, 16.03.1991,
n. 67, Palermo, Sez. II, 27.03.2002, n. 826; TAR
Campania, Sez. IV, 24.09.2002, n. 5559, 22.02.2003, n. 1310) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 06.12.2012 n. 4986 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Ai sensi dell’art. 36,
comma 3, DPR 380/2001 sulla richiesta di permesso in
sanatoria il dirigente o il responsabile del competente
ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione,
entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si
intende rifiutata.
Pertanto, per i casi in cui il procedimento instaurato ai
sensi dell’art. 36 cit. non sia stato definito con un
provvedimento espresso, questo Collegio ha avuto modo di
rilevare che, nella formulazione di cui all'art. 36, d.P.R.
n. 380 del 2001, il silenzio dell'Amministrazione su
un'istanza di sanatoria di abusi edilizi costituisce ipotesi
di silenzio significativo, al quale vengono collegati gli
effetti di un provvedimento esplicito di diniego, venendosi
a determinare una situazione del tutto simile a quella che
si verificherebbe in caso di provvedimento espresso.
In virtù della previsione legale di implicito diniego, il
silenzio tenuto dall'Amministrazione non può, infatti,
essere inteso come mero fatto di inadempimento, ma abilita
l'interessato alla proposizione di impugnazione, entro il
termine decadenziale di sessanta giorni dal suo
perfezionamento.
Al riguardo occorre
evidenziare che ai sensi dell’art. 36, comma 3 cit. sulla
richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia
con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i
quali la richiesta si intende rifiutata.
Pertanto, per i
casi in cui il procedimento instaurato ai sensi dell’art. 36
cit. non sia stato definito con un provvedimento espresso,
questo Collegio ha avuto modo di rilevare che, nella
formulazione di cui all'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, il
silenzio dell'Amministrazione su un'istanza di sanatoria di
abusi edilizi costituisce ipotesi di silenzio significativo,
al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento
esplicito di diniego, venendosi a determinare una situazione
del tutto simile a quella che si verificherebbe in caso di
provvedimento espresso. In virtù della previsione legale di
implicito diniego, il silenzio tenuto dall'Amministrazione
non può, infatti, essere inteso come mero fatto di
inadempimento, ma abilita l'interessato alla proposizione di
impugnazione, entro il termine decadenziale di sessanta
giorni dal suo perfezionamento (cfr. Tar Napoli sez. VIII
13.11.2011, n. 5797).
Di qui consegue che, nella fattispecie
in esame, l’omessa impugnazione del silenzio con valore
legale tipico di diniego, formatosi con il decorso dei
sessanta giorni a partire dal deposito in data 16.06.2010
della istanza di sanatoria ex art. 36 d.p.r. n. 380/2001
avente valore legale tipico di diniego, rende inammissibile
ogni censura circa la conformità urbanistica del manufatto
formulata avverso il successivo provvedimento di demolizione
n. 213 dell’01.09.2011 (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 06.12.2012 n. 4986 -
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EDILIZIA
PRIVATA:
L’ordine di demolizione
non deve essere necessariamente preceduto dalla
comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto
dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale
non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario ed
il cui presupposto è costituto unicamente dalla constatata
esecuzione dell'opera in totale difformità o in assenza del
titolo abilitativo.
Né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica
motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di
interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art.
3, l. n. 241 del 1990, dato che, ricorrendo i predetti
requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente
motivato con l'affermazione dell'accertata abusività
dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico concreto
ed attuale alla sua rimozione.
Anche qualora intercorra un lungo periodo di tempo tra la
realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento
sanzionatorio, tale circostanza non rileva ai fini della
legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso
affidamento circa la legittimità dell'opera, che il
protrarsi del comportamento inerte del comune avrebbe
ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in
relazione ad un presunto ulteriore obbligo, per
l'amministrazione procedente, di motivare specificamente il
provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse
pubblico attuale a far demolire il manufatto. La lunga
durata nel tempo dell'opera priva del necessario titolo
edilizio ne rafforza il carattere abusivo (trattandosi di
illecito permanente), il che preserva il potere-dovere
dell'amministrazione di intervenire nell'esercizio dei suoi
poteri sanzionatori, tanto più che il provvedimento
demolitorio non richiede una congrua motivazione in ordine
all'attualità dell'interesse pubblico alla rimozione
dell'abuso, che è in re ipsa.
Al riguardo va rimarcato
che, per orientamento costante di questo Collegio, l’ordine
di demolizione non deve essere necessariamente preceduto
dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi
di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al
quale non sono richiesti apporti partecipativi del
destinatario ed il cui presupposto è costituto unicamente
dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità
o in assenza del titolo abilitativo.
Né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica
motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di
interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art.
3, l. n. 241 del 1990, dato che, ricorrendo i predetti
requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente
motivato con l'affermazione dell'accertata abusività
dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico concreto
ed attuale alla sua rimozione (cfr, ex plurimis, Consiglio
Stato , sez. IV, 31.08.2010 , n. 3955).
Anche qualora
intercorra un lungo periodo di tempo tra la realizzazione
dell'opera abusiva ed il provvedimento sanzionatorio, tale
circostanza non rileva ai fini della legittimità di
quest'ultimo, sia in rapporto al preteso affidamento circa
la legittimità dell'opera, che il protrarsi del
comportamento inerte del comune avrebbe ingenerato nel
responsabile dell'abuso edilizio, sia in relazione ad un
presunto ulteriore obbligo, per l'amministrazione
procedente, di motivare specificamente il provvedimento in
ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico attuale a
far demolire il manufatto. La lunga durata nel tempo
dell'opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza
il carattere abusivo (trattandosi di illecito permanente),
il che preserva il potere-dovere dell'amministrazione di
intervenire nell'esercizio dei suoi poteri sanzionatori,
tanto più che il provvedimento demolitorio non richiede una
congrua motivazione in ordine all'attualità dell'interesse
pubblico alla rimozione dell'abuso, che è in re ipsa (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 06.12.2012 n. 4986 -
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EDILIZIA
PRIVATA:
In materia di demolizione
la figura del responsabile dell’abuso non si identifica solo
in colui che ha materialmente eseguito l’opera ritenuta
abusiva, ma si riferisce, necessariamente, anche a colui che
di quell’opera ha la materiale disponibilità e pertanto,
quale detentore, è in grado di provvedere alla demolizione
restaurando così l’ordine violato.
L’ordine di demolizione, infatti, non presuppone
l’accertamento dell’elemento soggettivo integrante
responsabilità a carico del suo destinatario, non è un
provvedimento diretto a sanzionare un comportamento
illegittimo da parte del trasgressore, ma è un atto di tipo
ripristinatorio avendo esso la funzione di eliminare le
conseguenze della violazione edilizia, attraverso la
riduzione in pristino dello stato dei luoghi che consegue
alla rimozione delle opere abusive. Per tale ragione
l’ordine di demolizione deve essere rivolto a colui che
abbia la disponibilità materiale dell’opera abusiva,
indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente
realizzata, cosa che potrebbe rilevare sotto il profilo
della responsabilità penale, ma non per la legittimità
dell’ordine di demolizione.
Si è difatti affermato, con riguardo all’analoga posizione
dell’utilizzatore di un bene abusivo realizzato su area
demaniale che: “i provvedimenti repressivi di illeciti
edilizi possono essere indirizzati anche a persone diverse
da quelle che hanno materialmente realizzato l’abuso, ma è
anche vero che, ai fini della legittimità delle relative
ingiunzioni, è sempre necessaria la sussistenza di una
relazione giuridica o materiale del destinatario con il
bene”.
In ogni caso, il presupposto del provvedimento
amministrativo è la realizzazione di un’opera in assenza di
permesso di costruire, la cui eliminazione è necessaria per
ripristinare il corretto assetto del territorio, sicché
l’ordine di demolizione legittimamente è rivolto a colui che
al momento della sua irrogazione aveva l’attuale
disponibilità del bene abusivo e ciò indipendentemente dal
fatto di averlo realizzato.
A ciò si aggiunga che l’estraneità all’abuso deve essere
rigorosamente provata da parte di colui che la deduce non
potendo ritenersi sufficiente al riguardo la mera asserzione
contenuta in ricorso, ma occorrendo la dimostrazione
dell’adozione di comportamenti e/o iniziative attive con cui
il proprietario abbia inteso dissociarsi dall’illecito posto
in essere dal responsabile, dimostrando di aver fatto tutto
il possibile per ottemperare all’ordine di demolizione
legalmente irrogato.
Quanto alla dedotta
illegittimità della prospettata acquisizione dell’immobile
al patrimonio comunale sul presupposto dell’addotta
estraneità all’abuso della proprietaria del suolo Esposito
Francesca, è bene chiarire che in materia di demolizione la
figura del responsabile dell’abuso non si identifica solo in
colui che ha materialmente eseguito l’opera ritenuta
abusiva, ma si riferisce, necessariamente, anche a colui che
di quell’opera ha la materiale disponibilità e pertanto,
quale detentore, è in grado di provvedere alla demolizione
restaurando così l’ordine violato.
L’ordine di demolizione,
infatti, non presuppone l’accertamento dell’elemento
soggettivo integrante responsabilità a carico del suo
destinatario, non è un provvedimento diretto a sanzionare un
comportamento illegittimo da parte del trasgressore, ma è un
atto di tipo ripristinatorio avendo esso la funzione di
eliminare le conseguenze della violazione edilizia,
attraverso la riduzione in pristino dello stato dei luoghi
che consegue alla rimozione delle opere abusive. Per tale
ragione l’ordine di demolizione deve essere rivolto a colui
che abbia la disponibilità materiale dell’opera abusiva,
indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente
realizzata, cosa che potrebbe rilevare sotto il profilo
della responsabilità penale, ma non per la legittimità
dell’ordine di demolizione.
Si è difatti affermato, con
riguardo all’analoga posizione dell’utilizzatore di un bene
abusivo realizzato su area demaniale che: “i provvedimenti
repressivi di illeciti edilizi possono essere indirizzati
anche a persone diverse da quelle che hanno materialmente
realizzato l’abuso, ma è anche vero che, ai fini della
legittimità delle relative ingiunzioni, è sempre necessaria
la sussistenza di una relazione giuridica o materiale del
destinatario con il bene” (cfr C.d.S. sez. IV 16.07.2007 n.
4008).
In ogni caso, il presupposto del provvedimento
amministrativo è la realizzazione di un’opera in assenza di
permesso di costruire, la cui eliminazione è necessaria per
ripristinare il corretto assetto del territorio, sicché
l’ordine di demolizione legittimamente è rivolto a colui che
al momento della sua irrogazione aveva l’attuale
disponibilità del bene abusivo e ciò indipendentemente dal
fatto di averlo realizzato.
A ciò si aggiunga che l’estraneità all’abuso deve essere
rigorosamente provata da parte di colui che la deduce non
potendo ritenersi sufficiente al riguardo la mera asserzione
contenuta in ricorso, ma occorrendo la dimostrazione
dell’adozione di comportamenti e/o iniziative attive con cui
il proprietario abbia inteso dissociarsi dall’illecito posto
in essere dal responsabile, dimostrando di aver fatto tutto
il possibile per ottemperare all’ordine di demolizione
legalmente irrogato.
Una tale prova nella specie non è stata fornita risultando
al contrario l’esistenza di un concreto interesse in capo
alla proprietaria Esposito Francesca al mantenimento in vita
dell’abuso, attraverso l’intervenuta presentazione da parte
della medesima della istanza di sanatoria allegata in atti
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 06.12.2012 n. 4986 -
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ESPROPRIAZIONE:
In seno al procedimento
espropriativo, che la mancata impugnazione dell’atto
impositivo del vincolo, come della dichiarazione di pubblica
utilità, preclude la possibilità di farne valere
l’illegittimità derivata in sede di impugnativa del
provvedimento finale o dei successivi atti della sequenza
procedimentale, trattandosi di atti direttamente lesivi.
Nell’ambito del procedimento ablatorio, l’ordinamento
riconosce e valorizza le garanzie partecipative dei
proprietari espropriandi sia in riferimento alla fase
iniziale di apposizione del vincolo, sia a quella di
dichiarazione della pubblica utilità (sia essa esplicita od
implicita) in considerazione dell’ampia discrezionalità di
cui dispone l’Amministrazione nella localizzazione, oltre
che della lesività dell’effetto finale, consistente nella
definitiva privazione del diritto di proprietà.
L’art. 11 del vigente t.u. in materia di espropriazioni per
pubblica utilità, approvato con d.p.r. 08.06.2001 n. 327,
coerentemente del resto con il fondamentale arresto
dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 19.06.1986 n.
6, richiede sia garantita mediante la formale comunicazione
dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di
interloquire con l'amministrazione procedente sulla
localizzazione dell’opera e, quindi, sull'apposizione del
vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del
progetto definitivo.
---------------
E’ innegabile che parte della giurisprudenza, partendo
dall’espresso riferimento contenuto nel citato art. 22-bis a
“decreto motivato”, opina nel senso della necessità della
sussistenza di una urgenza qualificata, da indicare
adeguatamente in motivazione .
Diversamente, l’orientamento dominante, seppur non pacifico,
invalso presso il Consiglio di Stato, ritiene che in
presenza della preventiva apposizione del vincolo,
unitamente all’approvazione della dichiarazione di pubblica
utilità, l’autorità espropriante ben può immettersi
senz'altro nel possesso dell'area in esecuzione della
suddetta ordinanza, per realizzare le opere per le quali vi
è stata l'approvazione del progetto e lo stanziamento delle
relative risorse, “atteso che nel sistema del testo unico è
divenuta irrilevante una specifica dichiarazione di
indifferibilità ed urgenza, rilevante nel precedente sistema
per ragioni storiche, ma di per sé già sussistente "in re
ipsa”.
Tali considerazioni interpretative sono state più volte
ribadite, confermando che l'ordinanza di occupazione
d'urgenza riguarda una fase puramente attuativa di quella
riguardante la dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità e urgenza dei lavori, “con la conseguenza
che è sufficiente che la motivazione dell'ordinanza di
occupazione si limiti a richiamare espressamente tale
dichiarazione, che ne costituisce l'unico presupposto e che
consenta di rilevare l'urgenza della realizzazione delle
opere previste nella dichiarazione di pubblica utilità”.
Costituisce principio pacifico, in seno al procedimento
espropriativo, che la mancata impugnazione dell’atto
impositivo del vincolo, come della dichiarazione di pubblica
utilità, preclude la possibilità di farne valere
l’illegittimità derivata in sede di impugnativa del
provvedimento finale o dei successivi atti della sequenza
procedimentale, trattandosi di atti direttamente lesivi (ex multis TAR Piemonte 21.05.2010, n. 2438; Consiglio di
Stato sez. IV 15.05.2008, n. 2246).
La mancata rituale impugnazione del suddetto provvedimento
di vincolo rende pertanto inammissibile il gravame per
difetto di interesse, poiché la ricorrente si duole, sotto
il profilo sostanziale, della illegittimità degli atti
impugnati proprio in relazione alla irragionevolezza e al
difetto di proporzionalità della scelta localizzativa -che
a suo dire avrebbero potuto condurre l’autorità espropriante
ad una diversa scelta del tracciato viario- scelta tuttavia
già espressa stante la perdurante efficacia dell’inoppugnata
deliberazione C.C. n. 112/2002, resa intangibile dalla
mancata tempestiva impugnazione.
Invero, è innegabile che, nell’ambito del procedimento
ablatorio, l’ordinamento riconosce e valorizza le garanzie
partecipative dei proprietari espropriandi sia in
riferimento alla fase iniziale di apposizione del vincolo,
sia a quella di dichiarazione della pubblica utilità (sia
essa esplicita od implicita) in considerazione dell’ampia
discrezionalità di cui dispone l’Amministrazione nella
localizzazione, oltre che della lesività dell’effetto
finale, consistente nella definitiva privazione del diritto
di proprietà (ex multis Consiglio di Stato sez. VI 11.02.2003, n. 736; id. IV 30.07.2002, n. 4077; id. IV 26.09.2001 n. 5070; id. IV 15.04.2008 n. 2249;
id. IV 29.07.2008 n. 3760; TAR Puglia-Bari sez. III
24.06.2010, n. 2665).
L’art. 11 del vigente t.u. in materia di espropriazioni per
pubblica utilità, approvato con d.p.r. 08.06.2001 n. 327,
coerentemente del resto con il fondamentale arresto
dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 19.06.1986
n. 6, richiede sia garantita mediante la formale
comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la
possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente
sulla localizzazione dell’opera e, quindi, sull'apposizione
del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del
progetto definitivo (ex multis Consiglio Stato, sez. IV, 29.07.2008, n. 3760).
---------------
Ad avviso della
ricorrente il procedimento di occupazione d’urgenza -speciale e del tutto autonomo rispetto all’ordinario modello
procedimentale ablatorio (Consiglio di Stato sez IV, 08.07.2011, n. 3500; id. IV 30.01.2006 n. 293; TAR
Sicilia Palermo sez. III 08.05.2008, n. 609; TAR
Campania Napoli sez. V 24.01.2008, n. 384)- necessita,
ai sensi del disposto di cui all’art. 22-bis del t.u., di
congrua motivazione circa le specifiche ragioni d’urgenza
qualificata.
E’ innegabile che parte della giurisprudenza, partendo
dall’espresso riferimento contenuto nel citato art. 22-bis a
“decreto motivato” (così come del resto lo stesso art. 15, c.
1-bis, L.R. Puglia 22.02.2005 n. 3), opina nel senso
della necessità della sussistenza di una urgenza
qualificata, da indicare adeguatamente in motivazione (ex plurimis TAR Campania Salerno, sez. II,
07.05.2009,
n. 1829).
Diversamente, l’orientamento dominante, seppur non pacifico,
invalso presso il Consiglio di Stato, ritiene che in
presenza della preventiva apposizione del vincolo,
unitamente all’approvazione della dichiarazione di pubblica
utilità, l’autorità espropriante ben può immettersi
senz'altro nel possesso dell'area in esecuzione della
suddetta ordinanza, per realizzare le opere per le quali vi
è stata l'approvazione del progetto e lo stanziamento delle
relative risorse, “atteso che nel sistema del testo unico è
divenuta irrilevante una specifica dichiarazione di
indifferibilità ed urgenza, rilevante nel precedente sistema
per ragioni storiche, ma di per sé già sussistente "in re ipsa” (Consiglio Stato sez. IV, 29.05.2009, n. 3350; id.
sez IV, 24.12.2009, n. 8756; id. sez. IV, 27.06.2007 n. 3696; così anche TAR Campania Salerno, sez. I, 30.01.2006, n. 23).
Tali considerazioni interpretative sono state più volte
ribadite, confermando che l'ordinanza di occupazione
d'urgenza riguarda una fase puramente attuativa di quella
riguardante la dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità e urgenza dei lavori, “con la conseguenza
che è sufficiente che la motivazione dell'ordinanza di
occupazione si limiti a richiamare espressamente tale
dichiarazione, che ne costituisce l'unico presupposto e che
consenta di rilevare l'urgenza della realizzazione delle
opere previste nella dichiarazione di pubblica utilità”
(Consiglio di Stato sez IV, 24.12.2009 n. 8756)
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 06.12.2012 n. 2064 -
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LAVORI PUBBLICI:
La scelta del tracciato
di un’opera viaria stradale costituisce manifestazione di un
giudizio di merito dell'Amministrazione, anche perché
implicante la valutazione di profili attinenti alla maggiore
o minore onerosità delle diverse soluzioni tecnicamente
prospettabili; di conseguenza detta scelta, involgendo il
merito dell'agire amministrativo, è insindacabile da parte
del giudice amministrativo, se non sotto i profili della
manifesta illogicità e irrazionalità.
Peraltro, osserva il
Collegio per mera completezza che la scelta del tracciato di
un’opera viaria stradale costituisce manifestazione di un
giudizio di merito dell'Amministrazione, anche perché
implicante la valutazione di profili attinenti alla maggiore
o minore onerosità delle diverse soluzioni tecnicamente
prospettabili; di conseguenza detta scelta, involgendo il
merito dell'agire amministrativo, è insindacabile da parte
del giudice amministrativo, se non sotto i profili della
manifesta illogicità e irrazionalità (ex multis TAR
Piemonte sez. II 04.12.2009, n. 3235; TAR Lombardia
Milano sez. II 09.12.2008, n. 5734) non configurabili nella
fattispecie
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 06.12.2012 n. 2064 -
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ATTI
AMMINISTRATIVI:
Qualora l'atto si basi su
una pluralità di motivazioni autonome (c.d. atto
plurimotivato), il ricorso con il quale non si contestino
tutte le motivazioni deve essere dichiarato inammissibile
per difetto di interesse, atteso che l'eventuale
riconoscimento della fondatezza delle doglianze proposte non
esclude l'esistenza e la validità della restante causa
giustificatrice dell'atto.
Come già desumibile dalla parte in fatto della sentenza, il
provvedimento impugnato è caratterizzato da una struttura
motivazionale complessa che individua due circostanze
autonomamente in grado di reggere il provvedimento sotto
l’aspetto motivazionale e costituite dalla realizzazione di
una serie di abusi edilizi (che hanno reso possibile la
modificazione parziale della destinazione urbanistica
dell’immobile e creato alcuni “vani-dormitorio” posti in
immediata promiscuità con gli ambienti di lavoro) e
dall’originaria mancanza del certificato di agibilità
dell’intero immobile (<<dalla verifica d‘ufficio, effettuata
sui supporti informatici che coprono un arco temporale che
va al 1961 ad oggi, non risulta rilasciato, per l’immobile
sito in Prato alla Via Gioacchino Rossini n. 56….la
“Dichiarazione per l’uso di locali a carattere industriale”
attualmente denominato “Certificato di Agibilità”;
…L’immobile è (quindi) da ritenersi privo del certificato di
agibilità di cui all’art. 24 del D.P.R. n. 380/2001>>).
Del resto, anche in punto di fatto, la mancanza originaria
del certificato di agibilità dell’immobile al momento
dell’emanazione dell’atto impugnato costituisce un dato
indiscutibile, alla luce anche del comportamento di parte
ricorrente che ha presentato la richiesta di agibilità
dell’immobile solo in data 11.11.2010, ovvero molti
mesi dopo l’intervento dell’ordinanza Sindacale impugnata.
Nell’articolare le proprie censure nei confronti del
provvedimento impugnato, parte ricorrente ha però articolato
motivi che investono solo una delle due serie motivazionali
poste a base dell’atto (quella relativa alle opere abusive
realizzate dai locatari), tralasciando completamente le
argomentazioni relative alla mancanza originaria del
certificato di agibilità dell’immobile (che non risulta
contestata in alcun modo).
Nella fattispecie, deve pertanto trovare applicazione il
tradizionale orientamento giurisprudenziale che,
nell’ipotesi di atti fondati su una pluralità di motivazioni
autonome, ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi che
si limitino a contestare solo alcune delle motivazioni poste
a giustificazione del provvedimento e non l’intera struttura
motivazionale dello stesso: <<qualora l'atto si basi su una
pluralità di motivazioni autonome (c.d. atto plurimotivato),
il ricorso con il quale non si contestino tutte le
motivazioni deve essere dichiarato inammissibile per difetto
di interesse, atteso che l'eventuale riconoscimento della
fondatezza delle doglianze proposte non esclude l'esistenza
e la validità della restante causa giustificatrice
dell'atto>> (TAR Campania, Napoli, sez. III, 16.01.2012 n. 194; TAR Piemonte, sez. I, 20.10.2011 n.
1107; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 08.04.2011 n.
2009; TAR Lazio, Roma, sez. III, 14.10.2010 n. 32810)
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 06.12.2012 n. 1953 -
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ATTI
AMMINISTRATIVI:
La dichiarazione di
incostituzionalità della legge attributiva di un potere
amministrativo non rend(e) di per sé nulli i provvedimenti
che ne hanno fatto applicazione, dovendo invece detti
provvedimenti essere considerati affetti da illegittimità
derivata, anche se parrebbe più appropriato affermare che
l'atto, come nel caso di legge retroattiva, sia affetto da
illegittimità sopravvenuta.
Contrariamente a quanto
prospettato da parte ricorrente, la Sezione ritiene,
infatti, di non aver motivo per discostarsi dal tradizionale
orientamento giurisprudenziale che ha rilevato come <<la
dichiarazione di incostituzionalità della legge attributiva
di un potere amministrativo non rend(a) di per sé nulli i
provvedimenti che ne hanno fatto applicazione, dovendo
invece detti provvedimenti essere considerati affetti da
illegittimità derivata, anche se parrebbe più appropriato
affermare che l'atto, come nel caso di legge retroattiva,
sia affetto da illegittimità sopravvenuta>> (TAR Campania,
Salerno, sez. II, 31.03.2011 n. 570; 25.01.2010 n.
878; Consiglio Stato, sez. VI, 06.06.2008 n. 2724); non
sussistendo pertanto alcuna possibilità di inquadrare la
problematica all’interno dell’azione di nullità del
provvedimento amministrativo, anche la declaratoria di
incostituzionalità dell’art. 54, 4° comma, del d.lgs. 267 del
2000 operata da Corte cost. 07.04.2011 n. 115 deve pertanto
trovare esplicazione all’interno della sistematica dei vizi
di legittimità del provvedimento e, nella fattispecie che ci
occupa, non può trovare accoglimento per effetto
dell’inammissibilità originaria del ricorso (con relativo
consolidamento del provvedimento) sopra rilevata
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 06.12.2012 n. 1953 -
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
Aria. Emissione in atmosfera di sostanze in assenza di
autorizzazione.
Il reato di cui all'art. 279 d.lgs. 152/2006 (per l'assenza
della prescritta autorizzazione) prevede, quale presupposto,
non la generica possibilità, ma la concreta attività di
produzione delle emissioni da parte dell'impianto.
L'affermazione di responsabilità per il reato di cui
all'art. 279 per l'emissione in atmosfera di sostanze
(pericolose o non) in assenza di autorizzazione, comporta la
prova della concreta produzione delle emissioni da parte
dell'impianto, non potendo dirsi sufficiente la mera
potenzialità produttiva di emissioni inquinanti, per cui
sussiste l'obbligo dell'autorizzazione di cui al D.L.vo
152/2006, art. 269, soltanto in relazione agli stabilimenti
che producono effettivamente emissione in atmosfera con
esclusione di quelli che sono solo potenzialmente idonei a
produrre emissioni.
E' necessario, quindi, per la
configurabilità il superamento dei valori limite stabiliti
dalla legge, che le emissioni siano effettivamente
sussistenti (tratto da www.lexambiente.it -
Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.12.2012 n. 46835 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il risarcimento del mancato appalto è in rapporto
all'offerta presentata.
In sede di determinazione del risarcimento dei danni subiti
per la mancata aggiudicazione di un appalto, ai fini della
quantificazione del lucro cessante, va fatto riferimento,
sulla base dell'offerta presentata dalla società, agli
utili che sarebbero derivati dallo svolgimento del servizio
oggetto di gara.
Un consorzio ha adito il TAR di Roma per l’ottemperanza
della pronuncia con cui il medesimo Tribunale aveva
annullato l’aggiudicazione definitiva della gara di appalto
indetta dal Ministero della Giustizia per l’affidamento del
servizio di documentazione degli atti processuali.
Parallelamente, ha chiesto il risarcimento dei danni
patrimoniali subìti per effetto dell’illegittima
aggiudicazione ad altra ditta, consistenti nel mancato
conseguimento dell’utile d’impresa e nel danno curriculare.
Nelle more del giudizio, il giudicante ha dichiarato la
cessazione della materia del contendere con riferimento al
ricorso per ottemperanza, avendo l’Amministrazione
provveduto ad attribuire alla ricorrente il contratto di
appalto in questione.
Al contempo, in relazione alla domanda di risarcimento del
danno per equivalente, il G.A. capitolino ha distinto le
voci di danno sia per quel che concerne la perdita di utile
derivante dal mancato svolgimento del servizio oggetto di
appalto, sia con riferimento al danno curriculare.
Sicché, con riferimento al primo pregiudizio, il Collegio ha
rilevato l’opportunità di riconoscere integralmente il danno
da mancato utile, in ragione dell’inconfigurabilità del
principio dell’aliunde perceptum derivante dalla particolare
natura del servizio richiesto e dalla conseguente mancata
utilizzazione da parte del consorzio del personale e degli
investimenti effettuati.
Sul punto ha richiamato un fermo convincimento
giurisprudenziale per cui: “… nelle ipotesi in cui deve
essere quantificato il lucro cessante da mancata
esplicazione di un’attività d’impresa, gli utili attesi
dall’intera iniziativa devono essere determinati sulla base
dell’offerta presentata dalla società, diminuiti dei redditi
sotto qualunque forma conseguiti dalla società; tanto, in
applicazione del criterio dell’aliunde perceptum, vale a
dire dell’utile alternativo che l’impresa avrebbe potuto
acquisire svolgendo attività alternative rispetto a quella
che avrebbe dovuto eseguire ove avesse ottenuto il servizio
in appalto” (Cons. Stato, Sez. VI, 09.06.2008, n. 2751;
TAR Lazio, Roma, Sez. III-ter, 23.07.2010, n. 28158).
Tuttavia, nella specie, l’adito TAR ha evidenziato
l’impossibilità per il consorzio di utilizzare "aliunde" le
attrezzature e le maestranze deputate all'espletamento del
servizio non aggiudicato, atteso che l’appalto affidato
all’altra ditta non poteva più essere eseguito dal deducente,
con conseguente impossibilità dello stesso di utilizzare le
relative risorse aziendali all’uopo predisposte.
Per siffatta ragione, è stato ritenuto di dover riconoscere
l'integrale risarcimento del danno per mancato utile
d'impresa, ragguagliato all'intero utile che sarebbe
derivato dall'esecuzione dell'appalto in questione.
Orbene, procedendo alla determinazione del predetto
pregiudizio, il Tribunale amministrativo ha applicato un
criterio razionale secondo cui i ricavi complessivamente
conseguiti dall’originario aggiudicatario nel periodo di
vigenza del contratto di appalto, avrebbero costituito un
parametro certo, oggettivo ed espressivo di un dato reale.
In secondo luogo, avuto riguardo all’ulteriore voce di danno
opposto dal ricorrente e rappresentato dal danno
curriculare, il giudicante ha sottolineato che lo stesso
avrebbe dovuto essere oggetto di autonoma valutazione, non
potendo considerarsi incluso nel mancato utile d’impresa,
anche in ragione dell’acclarata impossibilità per il
consorzio di utilizzare "aliunde" le attrezzature e le
maestranze deputate all'espletamento del servizio non
aggiudicato.
Sul proposito, anche alla stregua di consolidata
giurisprudenza, ha precisato che l'impresa ingiustamente
privata dell'esecuzione di un appalto avrebbe potuto
rivendicare anche la perdita della concreta possibilità di
incrementare il proprio avviamento per la parte relativa al
curriculum professionale, da intendersi come immagine e
prestigio professionale, al di là dell'incremento degli
specifici requisiti di qualificazione e di partecipazione
alle singole gare (ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 18.05.2011, n. 1681; idem, Sez. IV, 27.11.2010, n.
8253; Sez. VI, 11.01.2010, n. 20; 21.05.2009, n.
3144; 09.06.2008, n. 2751).
Di conseguenza, ha sottolineato che il danno curricolare,
costituendo una specificazione di quello per perdita di
chance, avrebbe dovuto essere correlato necessariamente alla
qualità di impresa operante nel settore degli appalti
pubblici, in tal modo costituendo una fonte di vantaggio
economicamente valutabile, idoneo ad accrescere la capacità
competitiva sul mercato e, quindi, la possibilità di
aggiudicazione di ulteriori e futuri appalti.
Pertanto, è stato ritenuto, nella specie, che la mancata
esecuzione dell’appalto aveva determinato (indiretti)
nocumenti all'immagine della ricorrente, al suo radicamento
nel mercato, all'ampliamento della qualità industriale o
commerciale dell'azienda, al suo avviamento; difatti, il
consorzio, prima dell’illegittima aggiudicazione,
rappresentava un’impresa leader nel settore in esame, aperto
a pochi soggetti economici altamente specializzati.
In virtù delle suddette argomentazioni, il TAR di Roma ha
ritenuto ravvisabili i presupposti necessari per accordare
la pretesa risarcitoria del danno curriculare subito dal deducente in ragione dell’illegittima aggiudicazione in
favore del controinteressato (TAR Lazio-Roma, Sez. I,
sentenza 28.11.2012 n. 9883 -
commento tratto da www.ispoa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE
PROGETTUALI:
Sia il Consiglio di Stato
che la Corte di Cassazione hanno a più riprese affermato che
le disposizioni in materia di competenza professionale dei
geometri rispondono ad esigenze di pubblico interesse a
tutela della pubblica incolumità. Invero, rispettivamente è
stato affermato che:
►
è affetto da nullità il contratto di prestazione
d'opera che affidi a un geometra calcoli in cemento armato e
ciò anche ove il compito, limitatamente a quelle strutture,
venga poi svolto da un professionista abilitato, che ne sia
stato officiato dall'originario incaricato; è irrilevante, a
tali fini, che l'incarico sia distinto per le parti in
conglomerato e non sia stato subdelegato dal geometra, ma
conferito direttamente dal committente stesso a un ingegnere
o architetto, in quanto non è consentito neppure al
committente scindere dalla progettazione generale quella
relativa alle opere in cemento armato poiché non è possibile
enucleare e distinguere un'autonoma attività, per la parte
di tali lavori, riconducibile ad un ingegnere o ad un
architetto -il che appare senz'altro esatto, poiché chi non
è abilitato a delineare l'ossatura, neppure può essere
ritenuto in grado di dare forma al corpo che deve esserne
sorretto-;
►
i limiti posti
dall'art. 16, lett. m, r.d. 11.02.1929 n. 274 alla
competenza professionale dei geometri rispondono ad una
scelta inequivoca del legislatore, dettata da evidenti
ragioni di pubblico interesse, che lascia all'interprete
ristretti margini di discrezionalità, attinenti alla
valutazione dei requisiti della modestia della costruzione,
della non necessità di complesse operazioni di calcolo e
dell'assenza di implicazioni per la pubblica incolumità,
indicando invece un preciso requisito, ovverosia la natura
di annesso agricolo dei manufatti, per le opere
eccezionalmente progettabili dai predetti tecnici anche nei
casi di impiego di cemento armato.
È pertanto esclusa la possibilità di un'interpretazione
estensiva o "evolutiva" di tale disposizione, che, in quanto
norma eccezionale, non si presta ad applicazione analogica,
non potendosi pervenire ad una diversa conclusione neppure
in virtù delle norme -art. 2 l. 05.11.1971 n. 1086 e art. 17
l. 02.02.1974 n. 64- che disciplinano le costruzioni in
cemento armato e quelle in zone sismiche, in quanto le
stesse richiamano i limiti delle competenze professionali
stabiliti per i geometri dalla vigente normativa
professionale.
---------------
Qualora il rapporto professionale abbia avuto ad oggetto una
costruzione per civili abitazioni, è affetto da nullità il
contratto anche relativamente alla direzione dei lavori
affidata a un geometra, quando la progettazione -richiedendo
l'adozione anche parziale dei calcoli in cemento armato- sia
riservata alla competenza degli ingegneri.
Sennonché non può trarsi dalla nullità del contratto d’opera
professionale sotteso, la conseguenza indefettibile della
illegittimità del titolo abilitativo rilasciato.
Invero costituisce approdo condiviso in giurisprudenza
quello per cui “è legittimo l'annullamento mediante
esercizio del potere di autotutela di una concessione
edilizia in ragione dell'incompetenza del geometra
progettista, rilevabile sotto il profilo dell'assenza di
abilitazione alla progettazione di costruzioni civili che
non siano di modesta entità e che prevedano l'adozione di
strutture in cemento armato”.
Si è detto del pari, in passato, che “non è illegittima la
concessione edilizia avente ad oggetto un edificio in
cemento armato, rilasciata sulla base di un progetto firmato
da un geometra, e controfirmato da un ingegnere
limitatamente agli aspetti strutturali del progetto“.
---------------
Per concludere sul punto, si deve marcare una netta
distinzione tra la nullità del contratto affidato al
professionista (geometra) non abilitato e la supposta
illegittimità del titolo abilitativo formato su progetto
“redatto” dal professionista incompetente.
Con riferimento a tale ultimo profilo, la circostanza che il
progetto fosse accompagnato dai calcoli in c.a. redatti da
professionista a ciò abilitato (si rammenta che la finalità
della disposizione sulla competenza professionale dei
geometri è diretta a prevenire problematiche di tutela della
pubblica incolumità) milita per la esclusione di profili di
illegittimità della variante medesima, trattandosi di una
irregolarità formale non investente profili di natura
sostanziale.
Stabilisce infatti il Regio decreto 11.02.1929, n. 274, all’art. 16 che: “L'oggetto ed i limiti
dell'esercizio professionale di geometra sono regolati come
segue:
a) operazioni topografiche di rilevamento e misurazione, di
triangolazioni secondarie a lati rettilinei e di
poligonazione, di determinazione e verifica di confini;
operazioni catastali ed estimi relativi;
b) operazioni di tracciamento di strade poderali e
consorziali ed inoltre, quando abbiano tenue importanza, di
strade ordinarie e di canali di irrigazione e di scolo;
c) misura e divisione di fondi rustici;
d) misura e divisione di aree urbane e di modeste
costruzioni civili;
e) stima di aree e di fondi rustici, anche ai fini di mutui
fondiari e di espropriazione, stima dei danni prodotti ai
fondi rustici dalla grandine o dagli incendi, e valutazione
di danni colonici a culture erbacee, legnose, da frutto, da
foglia e da bosco. È fatta eccezione per i casi di notevole
importanza economica e per quelli che, per la complessità di
elementi di valutazione, richiedano le speciali cognizioni
scientifiche e tecniche proprie dei dottori in scienze
agrarie;
f) stima, anche ai fini di mutui fondiari e di
espropriazione, di aree urbane e di modeste costruzioni
civili; stima dei danni prodotti dagli incendi;
g) stima di scorte morte, operazioni di consegna e
riconsegna dei beni rurali e relativi bilanci e
liquidazioni; stima per costituzione ed eliminazione di
servitù rurali; stima delle acque irrigue nei rapporti dei
fondi agrari serviti. È fatta eccezione per i casi di
notevole importanza economica e per quelli che, per la
complessità di elementi di valutazione, richiedano le
speciali cognizioni scientifiche e tecniche proprie dei
dottori in scienze agrarie;
h) funzioni puramente contabili ed amministrative nelle
piccole e medie aziende agrarie;
i) curatele di piccole e medie aziende agrarie, in quanto
non importino durata superiore ad un anno ed una vera e
propria direzione tecnica; assistenza nei contratti agrari;
l) progetto, direzione, sorveglianza e liquidazione di
costruzioni rurali e di edifici per uso d'industrie
agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria,
comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato,
che non richiedono particolari operazioni di calcolo e per
la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo
per la incolumità delle persone; nonché di piccole opere
inerenti alle aziende agrarie, come strade vicinali senza
rilevanti opere d'arte, lavori d'irrigazione e di bonifica,
provvista d'acqua per le stesse aziende e riparto della
spesa per opere consorziali relative, esclusa, comunque, la
redazione di progetti generali di bonifica idraulica ed
agraria e relativa direzione;
m) progetto, direzione e vigilanza di modeste costruzioni
civili;
n) misura, contabilità e liquidazione delle costruzioni
civili indicate nella lettera m) ;
o) misura, contabilità e liquidazione di lavori di
costruzioni rurali sopra specificate;
p) funzioni peritali ed arbitramentali in ordine alle
attribuzioni innanzi menzionate;
q) mansioni di perito comunale per le funzioni tecniche
ordinarie nei Comuni con popolazione fino a diecimila
abitanti, esclusi i progetti di opere pubbliche d'importanza
o che implichino la risoluzione di rilevanti problemi
tecnici.” .
Circa la legittimazione a sollevare la relativa eccezione,
ritiene il Collegio che essa sussistesse pienamente in capo
alla odierna appellante –titolare di immobile limitrofo a
quello per cui è causa- con esclusivo riferimento alla
circostanza che si trattava di opere in cemento armato.
Si rileva in proposito che sia il Consiglio di Stato (“è
affetto da nullità il contratto di prestazione d'opera che
affidi a un geometra calcoli in cemento armato e ciò anche
ove il compito, limitatamente a quelle strutture, venga poi
svolto da un professionista abilitato, che ne sia stato
officiato dall'originario incaricato; è irrilevante, a tali
fini, che l'incarico sia distinto per le parti in
conglomerato e non sia stato subdelegato dal geometra, ma
conferito direttamente dal committente stesso a un ingegnere
o architetto, in quanto non è consentito neppure al
committente scindere dalla progettazione generale quella
relativa alle opere in cemento armato poiché non è possibile
enucleare e distinguere un'autonoma attività, per la parte
di tali lavori, riconducibile ad un ingegnere o ad un
architetto -il che appare senz'altro esatto, poiché chi non
è abilitato a delineare l'ossatura, neppure può essere
ritenuto in grado di dare forma al corpo che deve esserne
sorretto-;” Consiglio Stato, sez. V, 28.04.2011, n.
2537) che la Corte di Cassazione (Cassazione civile, sez. II, 07.09.2009, n. 19292: “i limiti posti
dall'art. 16, lett. m, r.d. 11.02.1929 n. 274 alla
competenza professionale dei geometri rispondono ad una
scelta inequivoca del legislatore, dettata da evidenti
ragioni di pubblico interesse, che lascia all'interprete
ristretti margini di discrezionalità, attinenti alla
valutazione dei requisiti della modestia della costruzione,
della non necessità di complesse operazioni di calcolo e
dell'assenza di implicazioni per la pubblica incolumità,
indicando invece un preciso requisito, ovverosia la natura
di annesso agricolo dei manufatti, per le opere
eccezionalmente progettabili dai predetti tecnici anche nei
casi di impiego di cemento armato. È pertanto esclusa la
possibilità di un'interpretazione estensiva o "evolutiva" di
tale disposizione, che, in quanto norma eccezionale, non si
presta ad applicazione analogica, non potendosi pervenire ad
una diversa conclusione neppure in virtù delle norme -art.
2 l. 05.11.1971 n. 1086 e art. 17 l. 02.02.1974 n.
64- che disciplinano le costruzioni in cemento armato e
quelle in zone sismiche, in quanto le stesse richiamano i
limiti delle competenze professionali stabiliti per i
geometri dalla vigente normativa professionale”) hanno a più
riprese affermato che le disposizioni in materia di
competenza professionale dei geometri rispondono ad esigenze
di pubblico interesse a tutela della pubblica incolumità.
L’appellante, in quanto titolare di una abitazione ubicata
nelle immediate vicinanze del plesso in costruzione aveva
quindi immediato e diretto interesse a sollevare la relativa
eccezione in considerazione dei profili di salvaguardia
della incolumità.
Il motivo di ricorso di primo grado riproposto in appello
doveva essere dichiarato ammissibile, pertanto, in parte
qua.
Non ad identiche considerazioni può pervenirsi per ciò che
concerne la supposta “incompetenza” motivata con riferimento
alla circostanza che le aree insistevano su zona soggetta a
vincolo laddove, all’evidenza, non sussistono problematiche
di possibile compromissione investente profili di pubblica
incolumità ed è carente il diretto ed immediato interesse
dell’appellante a sollevare la detta eccezione, per cui la
statuizione di inammissibilità del mezzo di primo grado sul
punto deve essere confermata.
Rimossa la –per le già chiarite ragioni, e nei ristretti
termini sopra individuati- statuizione di inammissibilità, pertiene al Collegio il compito di vagliare il merito della
doglianza (è appena il caso di precisare che all’erronea
declaratoria della inammissibilità dell’impugnazione non
segue l’annullamento con rinvio della appellata decisione,
non ricorrendo l’ipotesi di “difetto di procedura o vizio di
forma” di cui all’art. 35 della legge n. 1034/1971 – oggi:
art. 105 c.p.a.; per il passato, si veda, ex multis, sul
punto Consiglio di Stato , sez. V, 23.04.1998, n. 474).
Resta in proposito, quindi, da interrogarsi in ordine alla
fondatezza del motivo e alla refluenza dello stesso sulla
variante autorizzata.
Ritiene sul punto il Collegio che la doglianza tesa a
sostenere la complessiva illegittimità della variante e del
permesso di costruire del 2009 a cagione della riscontrata
“incompetenza professionale” del progettista sia infondata.
Risulta dagli atti di causa, infatti, che il progetto di
variante venne corredato da relazione sui calcoli svolta da
un ingegnere a ciò abilitato.
E’ noto al Collegio –che lo condivide– l’orientamento di
recente affermato da questo Consiglio di Stato sez. V, 28.04.2011, n. 2537 e prima riportato.
Tale principio –che si attaglia a perfezione alla odierna
vicenda processuale- esclude quindi il rilievo sotto il
profilo privatistico dell’avvenuto espletamento del calcolo
da parte dell’ingegnere abilitato e si inquadra,
confermandolo ed ampliandolo, nel consolidato filone
giurisprudenziale secondo il quale “qualora il rapporto
professionale abbia avuto ad oggetto una costruzione per
civili abitazioni, è affetto da nullità il contratto anche
relativamente alla direzione dei lavori affidata a un
geometra, quando la progettazione -richiedendo l'adozione
anche parziale dei calcoli in cemento armato- sia riservata
alla competenza degli ingegneri” (Cassazione civile, sez. II, 26.07.2006, n. 17028, ma anche Cassazione civile,
sez. II, 15.02.1996, n. 1157 che afferma in tali casi
“la conseguenza della nullità del rapporto tra il geometra
ed il cliente”).
Sennonché non può trarsi dalla nullità del contratto d’opera
professionale sotteso, la conseguenza indefettibile della
illegittimità del titolo abilitativo rilasciato.
Invero costituisce approdo condiviso in giurisprudenza
quello per cui “è legittimo l'annullamento mediante
esercizio del potere di autotutela di una concessione
edilizia in ragione dell'incompetenza del geometra
progettista, rilevabile sotto il profilo dell'assenza di
abilitazione alla progettazione di costruzioni civili che
non siano di modesta entità e che prevedano l'adozione di
strutture in cemento armato” (Consiglio Stato, sez. IV, 22.05.2006, n. 3006).
Si è detto del pari, in passato, che “non è illegittima la
concessione edilizia avente ad oggetto un edificio in
cemento armato, rilasciata sulla base di un progetto
firmato da un geometra, e controfirmato da un ingegnere
limitatamente agli aspetti strutturali del progetto“ (Consiglio Stato, sez. V, 04.06.2003, n. 3068).
La questione quindi va risolta avuto riguardo all’interesse
pubblicistico sotteso al riparto di competenza professionale
in capo al geometra e, quindi, alla possibile sussistenza di
pericoli per la pubblica incolumità.
Nel caso di specie può convenirsi con parte appellata che la
complessiva modestia dell’opera e la circostanza che
comunque i calcoli relativi alle opere in cemento armato
(sia per ciò che concerne il permesso di costruire che per
la variante del 2009) fossero stati redatti da un
professionista abilitato consentono di inferire dalla data
circostanza la complessiva legittimità del titolo
abilitativo in variante.
Appare essenziale in proposito rilevare che, comunque, i
calcoli in cemento armato furono svolti; e furono svolti da
un ingegnere abilitato, il che in concreto elide il profilo
della illegittimità dedotto (pur essendo, come si è prima
chiarito, circostanza del tutto neutra con riguardo al
sotteso rapporto privatistico tra committente e geometra -elemento quest’ultimo, comunque, che non rileva nel caso di
specie in questa sede-).
Per concludere sul punto: premesso che non può tenersi conto
in questa sede delle allusive affermazioni contenute nelle
memorie prodotte dall’appellante con le quali si adombra la
possibilità che la detta documentazione non sia veridica (si
rammenta sul punto che l’appellante non ha impugnato per
falsità la detta documentazione e gli atti pubblici alla
stessa sottesi, anche con riguardo al momento di
presentazione della stessa, e non rileva sotto il profilo
sostanziale che la stessa non avesse avuto conoscenza, in
passato, della detta comunicazione, mentre costituisce
incongruenza non decisiva la circostanza che il nominativo
della impresa costruttrice indicato fosse diverso, perché
ciò che è decisivo è che i calcoli si riferiscano alle opere
per cui è causa) si deve marcare una netta distinzione tra
la nullità del contratto affidato al professionista
(geometra) non abilitato e la supposta illegittimità del
titolo abilitativo formato su progetto “redatto” dal
professionista incompetente.
Con riferimento a tale ultimo profilo (che è quello che
maggiormente, se non unicamente, rileva in questa sede) la
–per le già chiarite ragioni incontestabile in punto di
fatto- circostanza che il progetto fosse accompagnato dai
calcoli in c.a. redatti da professionista a ciò abilitato,
in uno con la modestia complessiva dell’opera in variante
(si rammenta che la finalità della disposizione sulla
competenza professionale dei geometri è diretta a prevenire
problematiche di tutela della pubblica incolumità,
palesemente non sussistenti nel caso di specie) milita per
la esclusione di profili di illegittimità della variante
medesima, trattandosi di una irregolarità formale non
investente profili di natura sostanziale
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.11.2012 n. 6036 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Sebbene strumentali e
“temporalmente precarie” le opere edilizie quali stesura
nastro d’asfalto e rifacimento mediante ripavimentazione in
acciottolato necessitano del preventivo rilascio di
autorizzazione paesaggistica.
Non si ritiene sul punto di doversi discostare dagli approdi
della copiosa giurisprudenza –anche penalistica- che ha
stabilito che “in tema di reati edilizi e paesaggistici, è
necessaria l'autorizzazione paesaggistica anche per i lavori
di demolizione e ricostruzione di un immobile in zona
sottoposta a vincolo che rispettino la precedente volumetria
e destinazione d'uso".
Ogni attività di trasformazione e ripristino deve essere
assistita dal relativo titolo. Invero, rientrano nella
previsione delle norme urbanistiche e richiedono la
concessione dell'autorità comunale non solo i manufatti
tradizionalmente compresi nelle attività murarie, ma anche
le opere di qualsiasi genere con cui si operi nel suolo,
mirando le norme urbanistiche alla tutela complessiva ed
armonica dell'ambiente e dei centri abitati, nonché di una
serie di interessi collettivi artistici, architettonici,
geologici, ecc..
Quanto al primo versante
di indagine, ritiene il Collegio che sebbene strumentali e
“temporalmente precarie” le opere in oggetto (stesura nastro
d’asfalto e rifacimento mediante ripavimentazione in
acciottolato) necessitassero del preventivo rilascio di
autorizzazione paesaggistica.
Non si ritiene sul punto di doversi discostare dagli approdi
della copiosa giurisprudenza –anche penalistica- che ha
stabilito che “in tema di reati edilizi e paesaggistici, è
necessaria l'autorizzazione paesaggistica anche per i lavori
di demolizione e ricostruzione di un immobile in zona
sottoposta a vincolo che rispettino la precedente volumetria
e destinazione d'uso" (Cassazione penale, sez. III, 24.10.2008, n. 45072).
Sostanzialmente ci si trova al cospetto di un rifacimento di
un bene tutelato (tale ultima circostanza è incontroversa) e
tale attività di trasformazione e ripristino doveva essere
assistita dal relativo titolo (“rientrano nella previsione
delle norme urbanistiche e richiedono la concessione
dell'autorità comunale non solo i manufatti tradizionalmente
compresi nelle attività murarie, ma anche le opere di
qualsiasi genere con cui si operi nel suolo, mirando le
norme urbanistiche alla tutela complessiva ed armonica
dell'ambiente e dei centri abitati, nonché di una serie di
interessi collettivi artistici, architettonici, geologici, ecc. -nella specie, è stata ritenuta illegittima l'apertura
di una strada di accesso al mare, realizzata in zona
paesaggistica, attraverso lo spianamento di rocce, mirante
allo scopo di assicurare il ricovero dei natanti ed il
passaggio diretto ad essi ed è stata esclusa l'applicabilità
dell'amnistia-“ -Cassazione penale, sez. III, 18.05.1979-).
La circostanza che –sia pure ex post, nel 2011- sia stata
effettivamente rilasciata l’autorizzazione paesaggistica
proprio con riferimento a dette opere comprova vieppiù detta
prospettazione (poiché altrimenti argomentando,
all’evidenza, si sarebbe dovuto dichiarare il non luogo a
provvedere sulla detta istanza).
Il permesso di costruire rilasciato nel 2009 contiene quindi
una illegittimità, quanto a detta prescrizione (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.11.2012 n. 6036 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
In tema di responsabilità
civile della P.A. l'art. 30, comma 3, CPA pur non
richiamando espressamente l'art. 1227, comma 2, c.c. ne
recepisce in sostanza il principio informatore allorché
afferma che l'omessa attivazione da parte dell'interessato
degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro
del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile,
alla stregua del canone di buona fede e del principio di
solidarietà, ai fini dell'esclusione o della riduzione del
danno evitabile con l'ordinaria diligenza, in una logica che
vede l'omessa impugnazione dell'atto lesivo non più come
preclusione del rito, ma come fatto da considerare in sede
di merito ai fini del giudizio della sussistenza e
consistenza del pregiudizio risarcibile.
---------------
In
tema di responsabilità civile della P.A., la regola della
non risarcibilità dei danni evitabili con l'impugnazione del
provvedimento amministrativo e con la diligente
utilizzazione degli altri strumenti di tutela previsti
dall'ordinamento, oggi sancita dall'art. 30, comma 3, CPA
(d.lgs. n. 104/2010), deve ritenersi ricognitiva di principi
già evincibili alla stregua di un'interpretazione evolutiva
del comma 2, art. 1227 c.c..
Pertanto l'omessa attivazione degli strumenti di tutela
costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle
parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona
fede e del principio di solidarietà, ai fini dell'esclusione
o della mitigazione del danno evitabile con l'ordinaria
diligenza, non più come preclusione di rito, ma come fatto
da considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla
sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile.
---------------
Proposta domanda risarcitoria dinanzi al Giudice
Amministrativo, e pur nella piena autonomia di tale azione
rispetto a quella diretta ad ottenere la declaratoria di
illegittimità dell'atto amministrativo dal quale trae
origine il preteso danno, ai fini della verifica in ordine
alla sussistenza del nesso di causalità, occorre accertare
se la domanda di risarcimento sia da dichiararsi comunque
infondata a causa della rilevanza sostanziale, sul versante
causale, della mancata impugnazione dell'atto lesivo, da
considerarsi come fatto valutabile ai sensi dell'art. 1227
c.c. al fine di escludere la risarcibilità dei danni che,
secondo un giudizio causale ipotetico prognostico, sarebbero
stati evitati attraverso una tempestiva impugnazione ed una
richiesta cautelare di sospensione dell'atto lesivo.
All'uopo deve, tuttavia, rilevarsi come non sia esigibile,
affinché il comportamento del creditore possa intendersi
conforme all'ordinaria diligenza, il necessario esperimento
da parte sua degli ordinari rimedi giurisdizionali di
impugnazione, in quanto ciò sarebbe contrario alla ratio
della norma di cui all'art. 30, c.p.a. (D.Lgs. n. 104 del
2010) che ha escluso la necessità di previa impugnazione
dell'atto ai fini dell'ammissibilità dell'azione di
risarcimento del danno patrimoniale, nonché alla lettera del
comma terzo, che chiaramente si riferisce a strumenti di
tutela, non già di tutela giurisdizionale e comunque non li
considera ineluttabili.
In circostanze siffatte, dunque, è sufficiente che
l'Amministrazione sia stata messa in condizione, tramite un
apposito “avviso di danno” consistente nell'invito
all'autotutela, di ritornare sul proprio atto, assolvendo,
in un regime di risarcibilità della lesione dell'interesse
legittimo, l'obbligo (o, meglio, l'onere) di annullamento
d'ufficio dell'atto illegittimo, al fine di evitare di
incorrere nella condanna al risarcimento del danno anche per
le spese ulteriori sostenute dal privato.
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I principi del nuovo codice del processo amministrativo, in
coerenza con la delega (art. 44, comma 2, lett. b, n. 4,
legge n. 69/2009) sono applicabili anche ai processi in
corso e consentono di superare la limitazione della tutela
dell'interesse legittimo al modello impugnatorio, ammettendo
azioni tese al conseguimento di pronunce dichiarative,
costitutive e di condanna a tutela del cittadino. Di qui, la
trasformazione del giudizio amministrativo, da giudizio
sulla legittimità dell'atto, a giudizio sul rapporto
regolato dal medesimo atto, volto a scrutinare la fondatezza
della pretesa sostanziale azionata. Nel merito, il
risarcimento è negato applicando il principio della
causalità ipotetica, previsto dall'art. 1227, comma 2, c.c.,
perché con la tempestiva utilizzazione dei rimedi previsti
il privato avrebbe evitato il pregiudizio lamentato.
Più in dettaglio, nelle controversie alle quali non si
applica il c.p.a. la mancata impugnazione di un
provvedimento amministrativo può essere ritenuto un
comportamento contrario a buona fede nell'ipotesi in cui si
appuri che una tempestiva reazione avrebbe evitato o
mitigato il danno. La scelta di non avvalersi della forma di
tutela specifica e non (comparativamente) complessa che,
grazie anche alle misure cautelari previste dall'ordinamento
processuale, avrebbe plausibilmente (ossia più probabilmente
che non) evitato, in tutto o in parte il danno, integra
violazione dell'obbligo di cooperazione, che spezza il nesso
causale e, per l'effetto, impedisce il risarcimento del
danno evitabile. Detta omissione, apprezzata congiuntamente
alla successiva proposizione di una domanda tesa al
risarcimento di un danno che la tempestiva azione di
annullamento avrebbe scongiurato, rende configurabile un
comportamento complessivo di tipo opportunistico che viola
il canone della buona fede e, quindi, in forza del principio
di auto-responsabilità cristallizzato dall'art. 1227, comma
2, c.c., implica la non risarcibilità del danno evitabile.
Sennonché, costituisce
approdo pienamente condiviso dal Collegio quello per cui il
principio (ormai espressamente codificato nell’ultima parte
del comma 3 dell’art. 30: “in tema di responsabilità civile
della P.A. l'art. 30, comma 3, CPA pur non richiamando
espressamente l'art. 1227, comma 2, c.c. ne recepisce in
sostanza il principio informatore allorché afferma che
l'omessa attivazione da parte dell'interessato degli
strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del
comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla
stregua del canone di buona fede e del principio di
solidarietà, ai fini dell'esclusione o della riduzione del
danno evitabile con l'ordinaria diligenza, in una logica che
vede l'omessa impugnazione dell'atto lesivo non più come
preclusione del rito, ma come fatto da considerare in sede
di merito ai fini del giudizio della sussistenza e
consistenza del pregiudizio risarcibile” -TAR Puglia
Lecce Sez. I, 07-06-2012, n. 1053-) di cui al comma 2
dell’art. 1227 del codice civile debba applicarsi anche alle
domande risarcitorie proposte antecedentemente alla sua
espressa codificazione, essendosi condivisibilmente
affermato che “in tema di responsabilità civile della P.A.,
la regola della non risarcibilità dei danni evitabili con
l'impugnazione del provvedimento amministrativo e con la
diligente utilizzazione degli altri strumenti di tutela
previsti dall'ordinamento, oggi sancita dall'art. 30, comma
3, CPA (d.lgs. n. 104/2010), deve ritenersi ricognitiva di
principi già evincibili alla stregua di un'interpretazione
evolutiva del comma 2, art. 1227 c.c. Pertanto l'omessa
attivazione degli strumenti di tutela costituisce, nel
quadro del comportamento complessivo delle parti, dato
valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del
principio di solidarietà, ai fini dell'esclusione o della
mitigazione del danno evitabile con l'ordinaria diligenza,
non più come preclusione di rito, ma come fatto da
considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla
sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile”
(Cons. Stato Sez. IV, 26-03-2012, n. 1750, ma anche TAR
Sardegna Cagliari Sez. I, 08-05-2012, n. 426).
In particolare, -premesso che sull’applicabilità del
disposto di cui all’art. 1227 cc alle domande risarcitorie
proposte innanzi alla giurisdizione amministrativa era già
stata raggiunta in passato una sostanziale concordanza di
opinioni (ex multis: Cons. Stato Sez. VI, 24-09-2010, n.
7124, ma anche Cons. Stato Sez. VI, 22-10-2008, n. 5183)-
con una recente pronuncia questo Consiglio di Stato ha
affermato che “proposta domanda risarcitoria dinanzi al
Giudice Amministrativo, e pur nella piena autonomia di tale
azione rispetto a quella diretta ad ottenere la declaratoria
di illegittimità dell'atto amministrativo dal quale trae
origine il preteso danno, ai fini della verifica in ordine
alla sussistenza del nesso di causalità, occorre accertare
se la domanda di risarcimento sia da dichiararsi comunque
infondata a causa della rilevanza sostanziale, sul versante
causale, della mancata impugnazione dell'atto lesivo, da
considerarsi come fatto valutabile ai sensi dell'art. 1227
c.c. al fine di escludere la risarcibilità dei danni che,
secondo un giudizio causale ipotetico prognostico, sarebbero
stati evitati attraverso una tempestiva impugnazione ed una
richiesta cautelare di sospensione dell'atto lesivo.
All'uopo deve, tuttavia, rilevarsi come non sia esigibile,
affinché il comportamento del creditore possa intendersi
conforme all'ordinaria diligenza, il necessario esperimento
da parte sua degli ordinari rimedi giurisdizionali di
impugnazione, in quanto ciò sarebbe contrario alla ratio
della norma di cui all'art. 30, c.p.a. (D.Lgs. n. 104 del
2010) che ha escluso la necessità di previa impugnazione
dell'atto ai fini dell'ammissibilità dell'azione di
risarcimento del danno patrimoniale, nonché alla lettera del
comma terzo, che chiaramente si riferisce a strumenti di
tutela, non già di tutela giurisdizionale e comunque non li
considera ineluttabili. In circostanze siffatte, dunque, è
sufficiente che l'Amministrazione sia stata messa in
condizione, tramite un apposito “avviso di danno”
consistente nell'invito all'autotutela, di ritornare sul
proprio atto, assolvendo, in un regime di risarcibilità
della lesione dell'interesse legittimo, l'obbligo ( o,
meglio, l'onere) di annullamento d'ufficio dell'atto
illegittimo, al fine di evitare di incorrere nella condanna
al risarcimento del danno anche per le spese ulteriori
sostenute dal privato” (Cons. Stato Sez. V, 29-11-2011, n.
6296).
Sotto altro profilo, ed in ogni caso, è stato chiarito
dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che “i
principi del nuovo codice del processo amministrativo, in
coerenza con la delega (art. 44, comma 2, lett. b, n. 4,
legge n. 69/2009) sono applicabili anche ai processi in
corso e consentono di superare la limitazione della tutela
dell'interesse legittimo al modello impugnatorio, ammettendo
azioni tese al conseguimento di pronunce dichiarative,
costitutive e di condanna a tutela del cittadino. Di qui, la
trasformazione del giudizio amministrativo, da giudizio
sulla legittimità dell'atto, a giudizio sul rapporto
regolato dal medesimo atto, volto a scrutinare la fondatezza
della pretesa sostanziale azionata. Nel merito, il
risarcimento è negato applicando il principio della
causalità ipotetica, previsto dall'art. 1227, comma 2, c.c.,
perché con la tempestiva utilizzazione dei rimedi previsti
il privato avrebbe evitato il pregiudizio lamentato” Cons.
Stato (Ad. Plen.), 23-03-2011, n. 3.
Più in dettaglio, è stato nell’occasione rimarcato che nelle
controversie alle quali non si applica il c.p.a. la mancata
impugnazione di un provvedimento amministrativo può essere
ritenuto un comportamento contrario a buona fede
nell'ipotesi in cui si appuri che una tempestiva reazione
avrebbe evitato o mitigato il danno. La scelta di non
avvalersi della forma di tutela specifica e non
(comparativamente) complessa che, grazie anche alle misure
cautelari previste dall'ordinamento processuale, avrebbe
plausibilmente (ossia più probabilmente che non) evitato, in
tutto o in parte il danno, integra violazione dell'obbligo
di cooperazione, che spezza il nesso causale e, per
l'effetto, impedisce il risarcimento del danno evitabile.
Detta omissione, apprezzata congiuntamente alla successiva
proposizione di una domanda tesa al risarcimento di un danno
che la tempestiva azione di annullamento avrebbe
scongiurato, rende configurabile un comportamento
complessivo di tipo opportunistico che viola il canone della
buona fede e, quindi, in forza del principio di
auto-responsabilità cristallizzato dall'art. 1227, comma 2,
c.c., implica la non risarcibilità del danno
evitabile (Cons. Stato, Ad. Plen, 23-03-2011, n. 3) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.11.2012 n. 6036 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il danno da alterazione
delle bellezze naturali di luoghi sottoposti a tutela
ambientale è in re ipsa solo se lamentato dalla pubblica
amministrazione, per espressa disposizione di legge. Il
privato che affermi di aver subito un danno nel godimento
del proprio fondo, sottoposto a tutela, in virtù degli
illeciti edilizi eseguiti sul fondo del vicino grazie ad
autorizzazioni illegittimamente concesse, è tenuto invece a
dimostrare l'esistenza e l'entità del danno -nella specie,
l'azione di risarcimento danni proposta contro un sindaco,
condannato nel giudizio penale anche al pagamento di una
provvisionale, è stata rigettata perché priva di prova del
pregiudizio concretamente arrecato al fondo dell'attore
dalle costruzioni abusive erette sul terreno confinante ed a
distanza significativa dal confine.
Si è detto in passato, in particolare, che “la realizzazione
di opere (nella specie, garage con parete appoggiata al muro
di cinta appartenente al proprietario del fondo confinante)
in violazione di norme di tutela ambientale, recepite negli
strumenti urbanistici, anche se non contrastanti con le
prescrizioni comunali in materia di distanze, non comporta
un immediato e contestuale danno per i vicini, il cui
diritto al risarcimento presuppone l'accertamento del nesso
tra la violazione contestata ed il pregiudizio
effettivamente subito. La prova di tale pregiudizio
-limitato a quei danni che il terreno adiacente all'immobile
ove si è commesso l'illecito, subisce in termini di amenità,
comodità, tranquillità e per la riduzione di aria, luce e
vista- deve essere fornita dall'interessato in modo preciso
non solo con riferimento alla sussistenza del danno, ma
anche alla entità dello stesso”.
A tale proposito, il
Collegio non intende discostarsi dalla costante
giurisprudenza di legittimità, secondo la quale “il danno da
alterazione delle bellezze naturali di luoghi sottoposti a
tutela ambientale è in re ipsa solo se lamentato dalla
pubblica amministrazione, per espressa disposizione di
legge. Il privato che affermi di aver subito un danno nel
godimento del proprio fondo, sottoposto a tutela, in virtù
degli illeciti edilizi eseguiti sul fondo del vicino grazie
ad autorizzazioni illegittimamente concesse, è tenuto invece
a dimostrare l'esistenza e l'entità del danno -nella
specie, l'azione di risarcimento danni proposta contro un
sindaco, condannato nel giudizio penale anche al pagamento
di una provvisionale, è stata rigettata perché priva di
prova del pregiudizio concretamente arrecato al fondo
dell'attore dalle costruzioni abusive erette sul terreno
confinante ed a distanza significativa dal confine-“. (Cass.
civ. Sez. III, 21-03-2008, n. 7695).
Si è detto in passato, in particolare, che “la realizzazione
di opere (nella specie, garage con parete appoggiata al muro
di cinta appartenente al proprietario del fondo confinante)
in violazione di norme di tutela ambientale, recepite negli
strumenti urbanistici, anche se non contrastanti con le
prescrizioni comunali in materia di distanze, non comporta
un immediato e contestuale danno per i vicini, il cui
diritto al risarcimento presuppone l'accertamento del nesso
tra la violazione contestata ed il pregiudizio
effettivamente subito. La prova di tale pregiudizio -limitato a quei danni che il terreno adiacente all'immobile
ove si è commesso l'illecito, subisce in termini di amenità,
comodità, tranquillità e per la riduzione di aria, luce e
vista- deve essere fornita dall'interessato in modo preciso
non solo con riferimento alla sussistenza del danno, ma
anche alla entità dello stesso” (Cass. civ. Sez. II,
23-02-1999, n. 1513)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.11.2012 n. 6036 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
natura paritetica dell’atto di determinazione del contributo
di costruzione consente che l’Amministrazione possa
apportarvi rettifiche (sia in favore del privato che in
senso contrario), purché ciò avvenga nei limiti della
prescrizione del relativo diritto di credito.
Trattasi infatti, nel caso di specie, di una determinazione
che “obbedisce” a prescrizioni desumibili da tabelle, in
ordine alla quale l’amministrazione comunale si limita ad
applicare i detti parametri, (conseguentemente per la stessa
rivestenti natura cogente) laddove è esclusa qualsivoglia
discrezionalità applicativa (è appena il caso di rilevare
che ad analoghi approdi perviene la giurisprudenza
amministrativa in ogni ipotesi di impugnazione di atti
paritetici - ivi compresa la indebita corresponsione di una
retribuzione non dovuta al pubblico dipendente- il che
dimostra la coerenza della impostazione sistematica secondo
la quale la pariteticità dell’atto e l’assenza di
discrezionalità ne legittima o addirittura ne impone la
revisione ove affetta da errore, con il solo limite della
maturata prescrizione del credito).
La originaria determinazione, pertanto, può essere sempre
rivisitata, ove la si assuma affetta da errore (e fermo
restando la necessità che detta originaria erroneità della
determinazione iniziale sussista effettivamente), e ciò sia
laddove essa abbia indicato un importo inferiore al dovuto,
che laddove abbia quantificato un importo superiore e,
pertanto, non dovuto.
Si rammenta in particolare la giurisprudenza di questo
Consiglio di Stato secondo cui “le controversie relative
alla determinazione dei contributi urbanistici involgono
l'accertamento di diritti soggettivi che traggono origine
direttamente da fonti normative, per cui sono proponibili, a
prescindere dall'impugnazione di provvedimenti
dell'amministrazione, nel termine di prescrizione“.
A tale proposito va affermato che è certamente
infondata la tesi –contenuta nel primo motivo di gravame-
secondo cui (a pretesa tutela della buona fede e
dell’affidamento riposto dal privato nella più risalente
determinazione degli oneri adottata dall’amministrazione
appellata) sarebbe preclusa la rideterminazione degli oneri
concessori da parte dell’amministrazione comunale se non
nella ipotesi di meri errori di calcolo ictu oculi
percepibili, a tutela dell’affidamento in buona fede riposto
dal privato nella quantificazione operata in sede di prima
determinazione.
Al contrario di quanto affermato dall’appellante, infatti,
rileva la più attenta giurisprudenza (ex multis: Consiglio
di Stato sez. V 17.09.2010 n. 6950) che, la natura
paritetica dell’atto di determinazione consente che
l’Amministrazione possa apportarvi rettifiche (sia in favore
del privato che in senso contrario), purché ciò avvenga nei
limiti della prescrizione del relativo diritto di credito
(tra le tante, TAR Torino Piemonte sez. I 01.03.2010
n. 1302: il computo degli oneri di urbanizzazione non è
attività autoritativa e la contestazione sulla relativa
corresponsione è proponibile nel termine di prescrizione
decennale a prescindere dall'impugnazione dei provvedimenti
adottati o dal sollecito a provvedere in via di autotutela).
Trattasi infatti, nel caso di specie, di una determinazione
che “obbedisce” a prescrizioni desumibili da tabelle, in
ordine alla quale l’amministrazione comunale si limita ad
applicare i detti parametri, (conseguentemente per la stessa
rivestenti natura cogente) laddove è esclusa qualsivoglia
discrezionalità applicativa (è appena il caso di rilevare
che ad analoghi approdi perviene la giurisprudenza
amministrativa in ogni ipotesi di impugnazione di atti
paritetici - ivi compresa la indebita corresponsione di una
retribuzione non dovuta al pubblico dipendente- il che
dimostra la coerenza della impostazione sistematica secondo
la quale la pariteticità dell’atto e l’assenza di
discrezionalità ne legittima o addirittura ne impone la
revisione ove affetta da errore, con il solo limite della
maturata prescrizione del credito).
La originaria determinazione, pertanto, può essere sempre
rivisitata, ove la si assuma affetta da errore (e fermo
restando la necessità che detta originaria erroneità della
determinazione iniziale sussista effettivamente), e ciò sia
laddove essa abbia indicato un importo inferiore al dovuto,
che laddove abbia quantificato un importo superiore e,
pertanto, non dovuto.
Si rammenta in particolare la giurisprudenza di questo
Consiglio di Stato secondo cui “le controversie relative
alla determinazione dei contributi urbanistici involgono
l'accertamento di diritti soggettivi che traggono origine
direttamente da fonti normative, per cui sono proponibili, a
prescindere dall'impugnazione di provvedimenti
dell'amministrazione, nel termine di prescrizione“ (Consiglio Stato, sez. V, 04.05.1992, n. 360).
Non si rinviene nel caso di specie una posizione del privato
tutelabile nei termini prospettati nell’atto di appello (né
sono applicabili alla fattispecie i principi predicabili in
ipotesi di esercizio del potere di autotutela, che non può
ricorrere laddove, come nel caso in esame, ci si trovi al
cospetto di atti paritetici).
In via teorica peraltro, come chiarito dallo stesso primo
giudice, le ragioni del privato restano tutelate in ipotesi
di tardiva rideterminazione “in peius” in quanto questi
potrebbe prospettare una lesione alla propria buona fede ed
all’affidamento riposto nella “originaria determinazione”
successivamente rettificata ascrivibile ad una
responsabilità colposa dell’Amministrazione (il che,
comunque, non è avvenuto nel presente giudizio).
Il primo motivo di censura deve pertanto essere respinto, e
può affermarsi che ben legittimamente poteva il Comune
procedere alla avversata rideterminazione e
riquantificazione (il che, come meglio si chiarirà
immediatamente di seguito, non esclude che la stessa sia
immune da vizi)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.11.2012 n. 6033 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Ai
sensi dell'art. 2 d.m. 10.05.1977, recante norme per la
determinazione del costo di costruzione di nuovi edifici,
concorrono a determinare il costo di costruzione il 60% del
totale delle superfici non residenziali destinate a servizi
e accessori.
Pertanto legittimamente nel calcolo del contributo vengono
inclusi, in detta superficie, spazi seminterrati adibiti a
manovra delle auto ed accesso ai box essendo riconducibili,
stante la loro caratteristica di volumi seminterrati nella
categoria dei locali indicati nell'art. 2, lett. c), del
predetto decreto avuto riguardo alla funzione consimile
degli androni, in tale disposizione previsti, e dei citati
spazi di manovra e di accesso, consistenti nel rendere
possibile la comunicazione tra la strada e altri locali.
Quanto infatti al profilo
della impugnazione investente il “merito” della
rideterminazione ritiene il Collegio di doverne affermare la
parziale fondatezza.
Il secondo caposaldo della impugnazione, infatti, poggia su
un duplice presupposto: la non condivisibilità della
rideterminazione del costo di costruzione tenendo conto
delle superfici dei corselli di manovra per l’accesso alle
autorimesse (mq. 625,35) e la porzione dell’atto gravato
relativo alla originaria –asseritamente errata- omessa
considerazione di “altre superfici non residenziali pari a
mq 579,19”.
Come è agevole riscontrare, la doglianza in realtà
introduce due distinte tematiche, che dovranno essere
affrontate separatamente.
Quanto alla prima di esse (id est: doverosa ricomprensione dei tornelli di accesso alle autorimesse), il
Collegio concorda con la statuizione del primo giudice e
ritiene che -per quanto di interesse avuto riguardo ai
successivi capi della presente decisione- il gravame sia
infondato (non potendo ovviamente incidere sulla questione
la deliberazione del Consiglio Regionale dell’Emilia Romagna
del 04.02.2010 in quanto non afferente alla detta
problematica -ma concernente più in generale la inquadrabilità dei parcheggi pertinenziali tra le opere di
urbanizzazione sulla quale di seguito pure ci si soffermerà
partitamente- ed in ogni caso non avente portata
retroattiva).
La questione si fonda sulla interpretazione del disposto di
cui all’art. 2 del Decreto ministeriale 10.05.1977, n.
312400 (“La superficie complessiva, alla quale, ai fini
della determinazione del costo di costruzione dell'edificio,
si applica il costo unitario a metro quadrato, è costituita
dalla somma della superficie utile abitabile di cui al
successivo art. 3 e dal 60% del totale delle superfici non
residenziali destinate a servizi ed accessori (Snr),
misurate al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci e
vani di porte e finestre (Sc = Su + 60% Snr).
Le superfici per servizi ed accessori riguardano:
a) cantinole, soffitte, locali motore ascensore, cabine
idriche, lavatoi comuni, centrali termiche, ed altri locali
a stretto servizio delle residenze;
b) autorimesse singole o collettive;
c) androni di ingresso e porticati liberi;
d) logge e balconi.
I porticati di cui al punto c) sono esclusi dal computo
della superficie complessiva qualora gli strumenti
urbanistici ne prescrivano l'uso pubblico.”)
Il Collegio non ravvisa ragione di discostarsi dal
consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui
(Consiglio Stato sez. V 25.10.1989 n. 679) “ai sensi
dell'art. 2 d.m. 10.05.1977, recante norme per la
determinazione del costo di costruzione di nuovi edifici,
concorrono a determinare il costo di costruzione il 60% del
totale delle superfici non residenziali destinate a servizi
e accessori. Pertanto legittimamente nel calcolo del
contributo vengono inclusi, in detta superficie, spazi
seminterrati adibiti a manovra delle auto ed accesso ai box
essendo riconducibili, stante la loro caratteristica di
volumi seminterrati nella categoria dei locali indicati
nell'art. 2, lett. c), del predetto decreto avuto riguardo
alla funzione consimile degli androni, in tale disposizione
previsti, e dei citati spazi di manovra e di accesso,
consistenti nel rendere possibile la comunicazione tra la
strada e altri locali.”.
E ciò secondo una ineccepibile interpretazione logica della
detta disposizione, che non collide con la tesi secondo cui
(Consiglio Stato, sez. V, 18.10.1981 n. 445) “ai fini
della individuazione delle superfici non residenziali per
servizi e accessori, computabili per la determinazione del
costo di costruzione, l'art. 2, comma 2, d.m. 10.05.1977
(richiamato integralmente dal d.m. 09.05.1978) ha una
struttura chiaramente esaustiva, quanto meno delle
tipologie, che debbono ritenersi incluse nel predetto
computo, -nelle quali non è dato far rientrare anche le
scale-.”.
La affermata esaustività della indicazione ivi contenuta,
infatti, non contrasta con la logica ricomprensione
“categoriale” di superfici indispensabili alla utilizzazione
di quelle espressamente menzionate nel d.M..
Alla stregua di tale condivisibile ed armonica
interpretazione ritiene il Collegio che sia infondata la
doglianza incentrata sulla tassatività della prescrizione
contenuta nella citata norma, che, per le già chiarite
ragioni deve essere intesa secondo un criterio “categoriale”
e fondata su “tipologie” (e le autorimesse sono ivi
espressamente contemplate, ragion per cui la indicazione
deve essere estesa anche ai corselli di manovra di accesso
ai garage interrati) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.11.2012 n. 6033 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
legge n. 122/1989 nell’innovare la disciplina dei parcheggi
all’art. 11, comma 1, ha equiparato i parcheggi
pertinenziali alle opere di urbanizzazione anche per quanto
riguarda la gratuità del titolo edilizio.
I parcheggi pertinenziali sono stati quindi complessivamente
qualificati come opere di urbanizzazione e quindi a tutti (e
non già soltanto a quelli previsti per la fruizione
collettiva) è stato riconosciuto un rilievo pubblico: se può
concordarsi in proposito con la tesi per cui la gratuità non
va estesa anche ai parcheggi pertinenziali che eccedono la
misura minima di legge, atteso che, in carenza di una
espressa disposizione di legge in tal senso (e pur nella
opinabilità della questione) la interpretazione teleologica
consente di affermare che la qualificazione dei parcheggi
pertinenziali come opere di urbanizzazione ex art. 11, comma
1, della legge 122/1989 debba rimanere circoscritta entro i
confini tracciati dall’art. 41-sexies, comma 1, della legge
1150/1942 (di guisa che per i parcheggi eccedenti il “tetto”
di dotazione obbligatoria trova applicazione il disposto di
cui al d.M. più volte citato).
Il primo giudice si è
motivatamente discostato dalle doglianze dell’odierna
appellante incentrate sulla tesi secondo cui ex art. 11, comma
1, della legge n. 122/1989 i parcheggi privati (nei limiti
della dotazione obbligatoria) dovevano essere considerati
quali opere di urbanizzazione esenti da contributo.
Le articolate argomentazioni contenute nella sentenza –seppur corroborate dalle deduzioni svolte da parte appellata
nelle proprie memorie di replica- non persuadono il Collegio
e non lo inducono a mutare orientamento rispetto al
convincimento espresso di recente con la decisione n.
6154/2011, secondo cui i parcheggi pertinenziali in quanto
espressamente individuati quali opere di urbanizzazione, non
soggiacciono al contributo di costruzione.
Deve sul punto ribadirsi, infatti, che la legge n. 122/1989
nell’innovare la disciplina dei parcheggi (anche ex art. 2,
comma 2, incrementando la misura minima obbligatoria di
parcheggi pertinenziali nei nuovi edifici -il rapporto di
1mq/20mc stabilito inizialmente dall’art. 41-sexies, comma 1,
della legge 1150/1942 nel testo aggiunto dall'art. 18 della
legge 06.08.1967 n. 765 è stato portato a 1mq/10mc- e
nello stabilire all’art. 9, comma 1, il principio secondo cui
i parcheggi pertinenziali possono essere realizzati anche in
deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi
vigenti) all’art. 11, comma 1, ha equiparato i parcheggi pertinenziali alle opere di urbanizzazione anche per quanto
riguarda la gratuità del titolo edilizio.
I parcheggi pertinenziali sono stati quindi complessivamente
qualificati come opere di urbanizzazione e quindi a tutti (e
non già soltanto a quelli previsti per la fruizione
collettiva) è stato riconosciuto un rilievo pubblico: se può
concordarsi in proposito con la tesi per cui la gratuità non
va estesa anche ai parcheggi pertinenziali che eccedono la
misura minima di legge, atteso che, in carenza di una
espressa disposizione di legge in tal senso (e pur nella
opinabilità della questione) la interpretazione teleologica
consente di affermare che la qualificazione dei parcheggi
pertinenziali come opere di urbanizzazione ex art. 11, comma
1, della legge 122/1989 debba rimanere circoscritta entro i
confini tracciati dall’art. 41-sexies, comma 1, della legge
1150/1942 (di guisa che per i parcheggi eccedenti il “tetto”
di dotazione obbligatoria trova applicazione il disposto di
cui al d.M. più volte citato).
Per le già chiarite ragioni, quindi, non può accedersi alla
tesi propugnata da parte appellata e fatta propria dal
Tribunale amministrativo nella sentenza gravata secondo cui
a cagione della assenza di espressa abrogazione del citato
dm 10.05.1977, n. 312400 i parcheggi “equiparati” alle
opere di urbanizzazione e conseguentemente esenti dal
contributo di costruzione siano soltanto quelli destinati ad
uso collettivo.
E’ agevole replicare, sul punto, che nulla prova la mancata
abrogazione in parte qua del più volte citato dM 10.05.1977 in quanto la equiparazione di cui all’art. 11, comma 1,
della legge n. 122/1989 dei parcheggi pertinenziali alle
opere di urbanizzazione non opera per quelli eccedenti la
dotazione obbligatoria che quindi risultano normati dal
citato d.M. (da interpretarsi nel senso ricomprensivo dei
tornelli di manovra cui si è fatto in precedenza
riferimento) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.11.2012 n. 6033 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il diritto di scomputo dalla somma dovuta a
titolo di oneri concessori non può configurarsi in assenza
quantomeno di una anche informale accettazione dell'opera di
urbanizzazione realizzata o promossa dal costruttore, con la
ineluttabile conseguenza che, in assenza di qualsivoglia
partecipazione consensuale dell'Ente, anche solo ex post,
gli oneri contributivi, così come determinati, devono essere
integralmente corrisposti.
---------------
● l'art. 16 d.P.R. n. 380/2001 prevede la corresponsione di
un contributo composto da due quote distinte: gli oneri di
urbanizzazione, che non sono dovuti se il titolare del
permesso si obbliga a realizzare direttamente tali opere, ed
il costo di costruzione, che, invece, essendo una
percentuale rapportata non ad opere da fare per la
collettività, ma ai costi di costruzione per tipologia
edilizia, adeguati annualmente, non sono suscettibili di
entrare nel meccanismo dello scomputo, ma non per questo è
possibile ricavare la regola fiscale di un pagamento
pecuniario; l'indisponibilità dei costi di costruzione è nel
senso che essi sono previsti e quantificati per legge, ma la
forma del pagamento, con compensazione o meno, è rimessa
all'accordo tra le parti;
● ai sensi dell'art. 11, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, a
scomputo totale o parziale della quota dovuta per oneri di
urbanizzazione, il titolare del permesso di costruire può
obbligarsi a realizzare direttamente le opere di
urbanizzazione, con le modalità e le garanzie stabilite dal
Comune. Dall'inequivoco tenore letterale della norma si
desume che il titolare del permesso non può realizzare le
opere di sua iniziativa, ovvero limitandosi ad inviare una
richiesta di autorizzazione, mai riscontrata al Comune,
essendo invece necessario che l'Amministrazione disciplini
espressamente le modalità di esecuzione delle opere e le
necessarie garanzie;
● l'autorizzazione all'esecuzione diretta di opere di
urbanizzazione a scomputo dei relativi oneri normalmente
viene rilasciata attraverso la concessione edilizia
-attualmente art. 45 della l.reg. Lombardia 11.03.2005 n.
12- ma di per sé potrebbe intervenire anche successivamente,
in base alle valutazioni degli uffici comunali che vigilano
sull'attività edilizia.
Quanto all’ultima censura
di merito formulata –in ordine alla quale non colgono nel
segno le obiezioni di parte appellata con le quali se ne
sostiene la inammissibilità per genericità e tardività,
avendo l’appellante introdotto il petitum già nel mezzo di
primo grado- essa pare al Collegio senz’altro accoglibile.
Invero l’appellante ha chiesto che venga affermato il
diritto della stessa ad ottenere lo scomputo dagli oneri di
urbanizzazione secondaria determinati ex lege e quantificati
dal Comune (e concorrenti a determinare il contributo di
costruzione), dell’onere direttamente sostenuto per eseguire
le corrispondenti opere (id est: i parcheggi ed il verde
attrezzato).
Escluso che la stessa si riferisse al costo di costruzione,
e preso atto della incontestata affermazione che la omessa
quantificazione di tali oneri direttamente sopportati
discenda dalla circostanza che ad una compiuta
determinazione degli stessi potrebbe procedersi soltanto a
seguito del collaudo dell’opera da parte del Comune (ex multis: “Il diritto di scomputo dalla somma dovuta a titolo
di oneri concessori non può configurarsi in assenza
quantomeno di una anche informale accettazione dell'opera di
urbanizzazione realizzata o promossa dal costruttore, con la
ineluttabile conseguenza che, in assenza di qualsivoglia
partecipazione consensuale dell'Ente, anche solo ex post,
gli oneri contributivi, così come determinati, devono essere
integralmente corrisposti” -TAR Campania Napoli, sez.
VIII, 17.09.2009, n. 4983-) cadono le eccezioni di
genericità ed indeterminatezza prospettate dall’appellata
amministrazione comunale.
Nel merito, pare al Collegio che la richiesta di parte
appellante, oltre a rientrare pacificamente nella
giurisdizione di questo Collegio, sia strettamente aderente
alla previsione normativa contenuta nell’art. 16, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, (“la quota di contributo relativa
agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune
all'atto del rilascio del permesso di costruire e, su
richiesta dell'interessato, può essere rateizzata. A
scomputo totale o parziale della quota dovuta, il titolare
del permesso può obbligarsi a realizzare direttamente le
opere di urbanizzazione, nel rispetto dell'articolo 2, comma
5, della legge 11.02.1994, n. 109, e successive
modificazioni, con le modalità e le garanzie stabilite dal
comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate
al patrimonio indisponibile del comune”): ovviamente, nei
limiti in cui siano state seguite le procedure che
consentono la operatività di tale meccanismo compensativo
(ex multis si vedano:
● ”l'art. 16 d.P.R. n. 380/2001 prevede la corresponsione
di un contributo composto da due quote distinte: gli oneri
di urbanizzazione, che non sono dovuti se il titolare del
permesso si obbliga a realizzare direttamente tali opere, ed
il costo di costruzione, che, invece, essendo una
percentuale rapportata non ad opere da fare per la
collettività, ma ai costi di costruzione per tipologia
edilizia, adeguati annualmente, non sono suscettibili di
entrare nel meccanismo dello scomputo, ma non per questo è
possibile ricavare la regola fiscale di un pagamento
pecuniario; l'indisponibilità dei costi di costruzione è nel
senso che essi sono previsti e quantificati per legge, ma la
forma del pagamento, con compensazione o meno, è rimessa
all'accordo tra le parti” -TAR Abruzzo Pescara, sez. I,
18.10.2010, n. 1142-;
● ”ai sensi dell'art. 11, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, a
scomputo totale o parziale della quota dovuta per oneri di
urbanizzazione, il titolare del permesso di costruire può
obbligarsi a realizzare direttamente le opere di
urbanizzazione, con le modalità e le garanzie stabilite dal
Comune. Dall'inequivoco tenore letterale della norma si
desume che il titolare del permesso non può realizzare le
opere di sua iniziativa, ovvero limitandosi ad inviare una
richiesta di autorizzazione, mai riscontrata al Comune,
essendo invece necessario che l'Amministrazione disciplini
espressamente le modalità di esecuzione delle opere e le
necessarie garanzie (il che non è accaduto nel caso di
specie)” -TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 08.04.2011, n. 501-;
● “l'autorizzazione all'esecuzione diretta di opere di
urbanizzazione a scomputo dei relativi oneri normalmente
viene rilasciata attraverso la concessione edilizia
-attualmente art. 45 della l. reg. Lombardia 11.03.2005
n. 12- ma di per sé potrebbe intervenire anche
successivamente, in base alle valutazioni degli uffici
comunali che vigilano sull'attività edilizia” -TAR
Lombardia Brescia, sez. I, 12.07.2010, n. 2481-).
Entro tali limiti, il motivo di appello è fondato e va
accolto, potendosi affermare il diritto dell’appellante allo
scomputo richiesto dal contributo di urbanizzazione (con
esclusione, ovviamente, del costo di costruzione) degli
oneri relativi alla esecuzione delle opere di urbanizzazione
secondaria
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.11.2012 n. 6033 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Costituzione di parte civile del privato
confinante.
Nei procedimenti per violazioni urbanistico-edilizie, il
privato confinante è legittimato a costituirsi parte civile,
quando la realizzazione dell'abuso edilizio da parte del
vicino non violi solo le norme poste a tutela del regolare
assetto del territorio, ma anche le norme che impongono
limiti al diritto di proprietà, che stabiliscono distanze,
volumetria ed altezza delle costruzioni, previste dal cod.
civ. e dai piani regolatori, violazioni produttive di un
danno patrimoniale.
Ed, infatti, ai fini dell'accoglimento della domanda di
risarcimento danni proposta dalla parte civile costituitasi
in un processo per reato urbanistico, è necessario che il
giudice accerti la lesione di un diritto soggettivo della
parte, a seguito della violazione di norme poste a tutela
dello statuto proprietario di questa, non essendo idonea a
tale effetto la violazione di norme che disciplinano la
sfera della potestà amministrativa, e quindi rilevanti
esclusivamente nei rapporti tra comune e privato (tratto da www.lexambiente.it -
Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.11.2012 n. 45942 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Gli atti di repressione
degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente
vincolata (essendo dovuti a cagione dell’insussistenza del
titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la
conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario.
L'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001 riconosce
all'Amministrazione Comunale un generale potere di vigilanza
e controllo su tutte le attività urbanistico-edilizie del
territorio, ivi comprese quelle riguardanti immobili
sottoposti a vincolo storico-artistico e impone l'obbligo,
per il dirigente, di adottare immediatamente provvedimenti
definitivi, al fine di ripristinare la legalità violata
dall'intervento edilizio realizzato, mediante l'esercizio di
un potere-dovere del tutto vincolato dell'organo comunale,
senza margini di discrezionalità edilizi accertati e ciò in
quanto a partire dalla l. n. 142 del 1990, rientrano nella
competenza del dirigente comunale, e non del Sindaco, in
quanto atti di gestione, i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia e di tutela del territorio, tra i quali
l'ordinanza di demolizione di opere abusive.
Infondate sono le censure inerenti l’omessa
comunicazione dell’avvio del procedimento e la competenza
dell’organo dirigenziale all’emanazione del provvedimento:
sotto il primo profilo, si osserva, in conformità con
l’orientamento giurisprudenziale prevalente, che gli atti di
repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e
strettamente vincolata (essendo dovuti a cagione
dell’insussistenza del titolo per l’avvenuta trasformazione
del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro
adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del
soggetto destinatario (cfr. ex multis, TAR Lazio, Sez. II,
31.01.2001, n. 782); sotto il secondo profilo, si
evidenzia che «l'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001 riconosce
all'Amministrazione Comunale un generale potere di vigilanza
e controllo su tutte le attività urbanistico-edilizie del
territorio, ivi comprese quelle riguardanti immobili
sottoposti a vincolo storico-artistico e impone l'obbligo,
per il dirigente, di adottare immediatamente provvedimenti
definitivi, al fine di ripristinare la legalità violata
dall'intervento edilizio realizzato, mediante l'esercizio di
un potere-dovere del tutto vincolato dell'organo comunale,
senza margini di discrezionalità edilizi accertati» (TAR
Napoli Campania, sez. IV, 14.11.2011, n. 5334) e ciò
in quanto «a partire dalla l. n. 142 del 1990, rientrano
nella competenza del dirigente comunale, e non del Sindaco,
in quanto atti di gestione, i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia e di tutela del territorio, tra i quali
l'ordinanza di demolizione di opere abusive» (TAR Lazio
Roma, sez. II, 08.04.2010, n. 5889)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza
22.11.2012 n. 4727 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La realizzazione di una
tettoia è soggetta a concessione edilizia ai sensi dell'art.
1, l. 28.01.1977 n. 10, in quanto essa, pur avendo carattere
pertinenziale rispetto all'immobile cui accede, incide
sull'assetto edilizio preesistente; incisione
particolarmente significativa ove, come nel caso di specie,
la tettoia insiste su un territorio tutto vincolato quale
l'isola di Ischia.
---------------
In caso di abuso edilizio l'ordinanza di demolizione non
richiede, in linea generale, una specifica motivazione;
l'abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente
per l'adozione della misura repressiva in argomento. Ne
consegue che, in presenza di un'opera abusiva, l'autorità
amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia
ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna
discrezionalità dell'amministrazione in relazione al
provvedere.
Infatti l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive
è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione
ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto
e all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi.
Presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione
di opere edilizie abusive è soltanto la constatata
esecuzione di queste ultime in assenza o in totale
difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che,
essendo l'ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente
motivata con l'accertamento dell'abuso, essendo "in re ipsa"
l'interesse pubblico alla sua rimozione e sussistendo
l'eventuale obbligo di motivazione al riguardo solo se
l'ordinanza stessa intervenga a distanza di tempo
dall'ultimazione dell'opera avendo l'inerzia
dell'amministrazione creato un qualche affidamento nel
privato.
--------------
La mancata indicazione delle conseguenze derivanti
dall'inottemperanza all'ordine di demolizione, non infirma
il procedimento preordinato alla demolizione delle opere
abusive, in quanto concernente effetti automatici ex lege
(ossia ex art. 31, comma 3, d.P.R. 06.06.2001 n. 380), come
tali presuntivamente conosciuti dai destinatari.
Secondo il costante
orientamento di questo Tribunale, dal quale non vi è motivo
di discostarsi, deve osservarsi in proposito, in primo
luogo, che “la realizzazione di una tettoia è soggetta a
concessione edilizia ai sensi dell'art. 1, l. 28.01.1977 n. 10, in quanto essa, pur avendo carattere pertinenziale rispetto all'immobile cui accede, incide
sull'assetto edilizio preesistente; incisione
particolarmente significativa ove, come nel caso di specie,
la tettoia insiste su un territorio tutto vincolato quale
l'isola di Ischia” (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 16.12.2009, n. 8781);
in secondo luogo, che, trattandosi
di intervento realizzato in area assoggettata a protezione
vincolistica (cfr. motivazione del provvedimento impugnato)
opera il divieto di rilascio dell’autorizzazione paesistica
in sanatoria di cui all’art. 146, 4° comma, D.Lgs. 42/2004,
se non nelle limitate ipotesi, nelle quali non rientra il
caso in esame, di cui all’art. 167, commi 4 e 5, (cfr.
“l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri
titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio. Fuori
dai casi di cui all'articolo 167, commi 4 e 5,
l'autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria
successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli
interventi…”); in ultimo, che costituisce jus receptum che
in caso di abuso edilizio “l'ordinanza di demolizione non
richiede, in linea generale, una specifica motivazione;
l'abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente
per l'adozione della misura repressiva in argomento. Ne
consegue che, in presenza di un'opera abusiva, l'autorità
amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia
ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna
discrezionalità dell'amministrazione in relazione al
provvedere” (TAR Lazio Roma, sez. I, 19.07.2006, n.
6021); infatti “l'ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di
motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei
presupposti di fatto e all'individuazione e qualificazione
degli abusi edilizi” (TAR Marche Ancona, sez. I, 12.10.2006, n. 824) ed, ancora, “presupposto per
l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime
in assenza o in totale difformità del titolo concessorio,
con la conseguenza che, essendo l'ordinanza atto dovuto,
essa è sufficientemente motivata con l'accertamento
dell'abuso, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico alla
sua rimozione e sussistendo l'eventuale obbligo di
motivazione al riguardo solo se l'ordinanza stessa
intervenga a distanza di tempo dall'ultimazione dell'opera
avendo l'inerzia dell'amministrazione creato un qualche
affidamento nel privato” (Consiglio di Stato, sez. V, 29.05.2006 n. 3270).
Da ultimo, il Tribunale osserva che il motivo di ricorso
inerente l’omesso avviso delle conseguenze
dell’inottemperanza all’ordine di demolizione è destituito
di fondamento, meritando, all’opposto, condivisione
l’orientamento secondo il quale «la mancata indicazione
delle conseguenze derivanti dall'inottemperanza all'ordine
di demolizione, non infirma il procedimento preordinato alla
demolizione delle opere abusive, in quanto concernente
effetti automatici ex lege (ossia ex art. 31, comma 3, d.P.R.
06.06.2001 n. 380), come tali presuntivamente conosciuti dai
destinatari» (TAR Basilicata, Potenza, 08.02.2012, n.
48)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza
22.11.2012 n. 4727 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Può
essere definita giuridicamente "strada" anche un’area di
proprietà privata ove essa sia asservita all’uso pubblico.
Quest’ultimo, però, non può essere meramente affermato ma
esige di essere dimostrato tramite la prova, oltreché
dell'intrinseca idoneità del bene, dell’uso continuo e
pubblico ad opera di una collettività indeterminata di
persone e per soddisfare un pubblico, generale interesse.
Segnatamente, la costituzione su di una strada privata di
una servitù di uso pubblico può avvenire, alternativamente,
a mezzo della cosiddetta dicatio ad patriam -costituita dal
comportamento del proprietario di un bene che mette
spontaneamente ed in modo univoco il bene a disposizione di
una collettività indeterminata di cittadini, producendo
l'effetto istantaneo della costituzione della servitù di uso
pubblico-, ovvero attraverso l'uso del bene da parte della
collettività indifferenziata dei cittadini, protratto per il
tempo necessario all'usucapione.
Simmetricamente, la giurisprudenza civile ha puntualizzato
che “affinché un'area assuma la natura di strada pubblica,
non basta né che vi si esplichi di fatto il transito del
pubblico (con la sua concreta, effettiva e attuale
destinazione al pubblico transito e la occupazione sine
titolo dell'area da parte della pubblica amministrazione) …
né l'intervento di atti di riconoscimento da parte
dell'amministrazione medesima circa la funzione da essa
assolta”, ma che è invece necessario, ai sensi dell'art. 824
c.c., che la strada risulti di proprietà di un ente pubblico
territoriale in base a un atto o a un fatto (fra anche
l’usucapione) idoneo a trasferire il dominio, “ovvero che su
di essa sia stata costituita a favore dell'Ente una servitù
di uso pubblico e che essa venga destinata, con una
manifestazione di volontà espressa o tacita dell'Ente,
all'uso pubblico, ossia per soddisfare le esigenze di una
collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad una
comunità territoriale”.
---------------
Vari sono gli “indici di riferimento” individuati dalla
giurisprudenza per integrare l’asservimento all’uso pubblico
da tempo immemorabile da parte della collettività dei
cittadini, fra i quali rileva l'uso continuo della strada da
parte di un numero indeterminato di persone, il
comportamento in relazione ad essa dell’Amministrazione nei
settori dell'edilizia e dell'urbanistica, la sua inclusione
in un centro abitato e l'effettiva ed attuale destinazione
del bene al pubblico servizio.
Quanto al secondo presupposto, ossia l’asserita esistenza di
un uso pubblico, si deve osservare che può essere definita
giuridicamente "strada" anche un’area di proprietà privata
ove essa sia asservita all’uso pubblico.
Quest’ultimo, però, non può essere meramente affermato ma
esige di essere dimostrato tramite la prova, oltreché
dell'intrinseca idoneità del bene, dell’uso continuo e
pubblico ad opera di una collettività indeterminata di
persone e per soddisfare un pubblico, generale interesse
(cfr., in termini, C.d.S., sez. IV, 15.06.2012, n. 3531).
Segnatamente, la costituzione su di una strada privata di
una servitù di uso pubblico può avvenire, alternativamente,
a mezzo della cosiddetta dicatio ad patriam -costituita dal
comportamento del proprietario di un bene che mette
spontaneamente ed in modo univoco il bene a disposizione di
una collettività indeterminata di cittadini, producendo
l'effetto istantaneo della costituzione della servitù di uso
pubblico-, ovvero attraverso l'uso del bene da parte della
collettività indifferenziata dei cittadini, protratto per il
tempo necessario all'usucapione (cfr., C.d.S., sez. V,
28.06.2011, n. 3868).
Simmetricamente, la giurisprudenza civile ha puntualizzato
che “affinché un'area assuma la natura di strada pubblica,
non basta né che vi si esplichi di fatto il transito del
pubblico (con la sua concreta, effettiva e attuale
destinazione al pubblico transito e la occupazione sine
titolo dell'area da parte della pubblica amministrazione) …
né l'intervento di atti di riconoscimento da parte
dell'amministrazione medesima circa la funzione da essa
assolta”, ma che è invece necessario, ai sensi dell'art. 824
c.c., che la strada risulti di proprietà di un ente pubblico
territoriale in base a un atto o a un fatto (fra anche
l’usucapione) idoneo a trasferire il dominio, “ovvero che su
di essa sia stata costituita a favore dell'Ente una servitù
di uso pubblico e che essa venga destinata, con una
manifestazione di volontà espressa o tacita dell'Ente,
all'uso pubblico, ossia per soddisfare le esigenze di una
collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad una
comunità territoriale” (cfr., Cass. Civ., sez. II, 07.04.2006,
n. 8204; sez. I, 26.08.2002, n. 12540).
5b. Nella specie, risulta che:
- a detta della ricorrente l’accesso all’area di passaggio
de qua è chiuso da una stanga (visibile dalla documentazione
fotografica dimessa) chiusa con lucchetto, del quale
l’Amministrazione possiede la chiave solo per poter accedere
dapprima all’area gravata dalla servitù di passo e, quindi,
tramite un viottolo, ad un fondo del Comune (situato oltre
la proprietà della deducente) sul quale insiste una stazione
di pompaggio della fognatura;
- il Comune conferma di aver autorizzato la posa della
stanga ma sostiene che essa preclude l’accesso solo nel
periodo estivo, quando sono presenti gli ospiti minori di
Sos Feriendorf, mentre nel resto dell’anno essa rimane
aperta per consentire il libero transito. In proposito
produce una nota, inviata alla direzione della Società
ricorrente nel dicembre 2006, con cui il Sindaco, su
segnalazione di un censito (che, invero, lamentava una serie
di inadempienze del Comune in ordine alla donazione di
terreni ricevuta dalla Società consortile Lago di
Caldonazzo) ha chiesto di rimuovere la stanga per “garantire
il passaggio al pubblico” (cfr., doc. n. 13 in atti del
Comune).
5c. Orbene, i principi giurisprudenziali esposti rendono
ancor più evidente l’insufficienza dei dati allegati in
questa sede dal Comune di Caldonazzo per suffragare la
dedotta esistenza dell’uso pubblico. L’Amministrazione
intimata, in altri termini, ha affidato ad una sola nota,
con cui in un’occasione ha chiesto di aprire la stanga della
quale un terzo lamentava la frequente chiusura, il compito
di integrare la probatio della sussistenza di una servitù di
uso pubblico.
Ne consegue che il Comune di Caldonazzo non ha adeguatamente
provato:
- né l'avvenuto acquisto del tratto in questione per
usucapione per decorso del termine ventennale;
- né ha rigorosamente dimostrato la sussistenza degli
“indici di riferimento” individuati dalla giurisprudenza per
integrare l’asservimento all’uso pubblico da tempo
immemorabile da parte della collettività dei cittadini, fra
i quali rileva l'uso continuo della strada da parte di un
numero indeterminato di persone, il comportamento in
relazione ad essa dell’Amministrazione nei settori
dell'edilizia e dell'urbanistica, la sua inclusione in un
centro abitato e l'effettiva ed attuale destinazione del
bene al pubblico servizio (cfr., Cass. Civ., sez. II,
28.09.2010, n. 20405)
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 21.11.2012 n. 341 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Quanto
al principio di rotazione, occorre precisare che la sua
applicazione, se pur non esclude la facoltà
dell’Amministrazione di invitare a successive gare il
precedente affidatario del servizio, tuttavia esso non si
converte affatto nell’obbligo di chiamata del precedente
aggiudicatario ad ogni riedizione della procedura
comparativa.
Più precisamente, sull’applicazione del principio in esame
la più recente giurisprudenza amministrativa ha affermato:
- che esso “non collide con il principio di trasparenza,
costituendo all’opposto attuazione del principio di pari
opportunità tra gli operatori”;
- che detto principio “preclude di riconoscere in capo al
precedente gestore di un servizio una pretesa qualificata ad
essere ulteriormente invitato alla procedura indetta per
riaffidare lo stesso servizio, ovvero a conoscere le ragioni
dell'omesso invito, ed impone invece di osservare il
principio opposto, ovvero di motivare in modo congruo nel
caso in cui si ritenga di estendergli il nuovo invito”;
- che da esso, in altri termini, discende “il superamento
del criterio che riconosceva una posizione qualificata in
capo al precedente gestore nel caso di successivi
affidamenti dello stesso servizio attraverso procedure
negoziate, dato che lo strumento della rotazione è coerente
con i principi di trasparenza e pari opportunità”, per cui
“la scelta di non estendere l'invito all'impresa già
affidataria di un precedente contratto non esige una
puntuale motivazione”;
- che quando vi sono imprese che hanno già svolto analoghi
lavori o servizi sulla base di procedure negoziate
“l’Amministrazione aggiudicatrice può legittimamente
decidere di favorire l’ingresso di altri soggetti escludendo
dagli inviti, per un certo periodo, gli affidatari
pregressi”;
- che la rotazione, se “può essere applicata non solo ai
precedenti affidatari ma anche ai soggetti che abbiano
partecipato alle procedure negoziate senza conseguire
l’appalto”, indubbiamente ha come suo diretto e principale
destinatario il precedente aggiudicatario;
- in definitiva, che il principio di rotazione “distribuisce
il confronto tra gli operatori economici su un piano
intertemporale, evitando la formazione di rendite di
posizione e conseguendo così un'effettiva concorrenza”.
Occorre ulteriormente osservare che al confronto
concorrenziale in esame l’Amministrazione ha dichiarato di
applicare i principi sanciti dal comma 11 dell’art. 125 del
Codice dei contratti, ossia “di trasparenza, rotazione,
parità di trattamento”. Sicché, da un elenco di 10 imprese
operanti nel settore oggetto di gara -elenco in parte
predisposto d’ufficio e in parte sulla base delle richieste
degli interessati giunte al Comune di Ala- tutte ritenute
potenzialmente idonee allo svolgimento dello specifico
servizio, l’Amministrazione ha individuato 4 imprese a cui
ha inviato la lettera d’invito a formulare l’offerta.
La deducente, invocando –paradossalmente– a suo favore
proprio il principio di rotazione, asserisce che le 4
imprese ammesse a partecipare erano già state invitate a
precedenti gare; che, tuttavia, esse hanno ricevuto questo
ulteriore invito a differenza di Pulirapid la quale, in
quest’occasione, non è stata invece presa in considerazione.
Da ciò la lamentata violazione anche dei principi di
trasparenza e di parità di trattamento.
Pure queste argomentazioni non possono essere condivise.
Innanzitutto è infondata la censura di mancato rispetto del
principio di parità di trattamento: la situazione della
ricorrente -che ha già espletato per quattro anni il
servizio di gara e che attualmente sta svolgendo per la
stessa Amministrazione il servizio di manutenzione del verde
della rete viaria- non è assolutamente comparabile a quella
delle imprese invitate al confronto in esame, che, per
quanto risulta dagli atti del processo, non sono mai state
aggiudicatarie di alcun servizio.
Quanto al principio di rotazione, occorre precisare che la
sua applicazione, se pur non esclude la facoltà
dell’Amministrazione di invitare a successive gare il
precedente affidatario del servizio, tuttavia esso non si
converte affatto nell’obbligo di chiamata del precedente
aggiudicatario ad ogni riedizione della procedura
comparativa (cfr., in termini, C.d.S., sez. VI, 28.12.2011,
n. 6906).
Più precisamente, sull’applicazione del principio in esame
la più recente giurisprudenza amministrativa ha affermato:
- che esso “non collide con il principio di trasparenza,
costituendo all’opposto attuazione del principio di pari
opportunità tra gli operatori” (cfr., TAR Lombardia,
Brescia, sez. II, 30.4.2010, n. 1672);
- che detto principio “preclude di riconoscere in capo al
precedente gestore di un servizio una pretesa qualificata ad
essere ulteriormente invitato alla procedura indetta per
riaffidare lo stesso servizio, ovvero a conoscere le ragioni
dell'omesso invito, ed impone invece di osservare il
principio opposto, ovvero di motivare in modo congruo nel
caso in cui si ritenga di estendergli il nuovo invito”
(cfr., TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 19.11.2009, n.
2240);
- che da esso, in altri termini, discende “il superamento
del criterio che riconosceva una posizione qualificata in
capo al precedente gestore nel caso di successivi
affidamenti dello stesso servizio attraverso procedure
negoziate, dato che lo strumento della rotazione è coerente
con i principi di trasparenza e pari opportunità”, per cui “la scelta di non estendere l'invito all'impresa già
affidataria di un precedente contratto non esige una
puntuale motivazione” (cfr., TAR Emilia Romagna, Bologna,
sez. I, 30.07.2010, n. 7142);
- che quando vi sono imprese che hanno già svolto analoghi
lavori o servizi sulla base di procedure negoziate
“l’Amministrazione aggiudicatrice può legittimamente
decidere di favorire l’ingresso di altri soggetti escludendo
dagli inviti, per un certo periodo, gli affidatari
pregressi” (cfr., T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II,
21.1.2011, n. 137);
- che la rotazione, se “può essere applicata non solo ai
precedenti affidatari ma anche ai soggetti che abbiano
partecipato alle procedure negoziate senza conseguire
l’appalto” (cfr., TAR Lombardia, Brescia, sez. II,
21.01.2011, n. 137), indubbiamente ha come suo diretto e
principale destinatario il precedente aggiudicatario;
- in definitiva, che il principio di rotazione “distribuisce
il confronto tra gli operatori economici su un piano
intertemporale, evitando la formazione di rendite di
posizione e conseguendo così un'effettiva concorrenza”
(cfr., TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 19.07.2012, n. 1370)
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 21.11.2012 n. 339 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'onere di fornire la
prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio
incombe sull'interessato, e non sull'Amministrazione, che,
in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo
edilizio che la legittimi, ha solo il potere-dovere di
sanzionarla ai sensi di legge e di adottare, ove ricorrano i
presupposti, il provvedimento di demolizione.
---------------
In presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati,
gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili nella loro
oggettività alle categorie della manutenzione straordinaria,
del restauro e/o del risanamento conservativo, della
ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti
pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di
illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono
strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione
dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al
momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque
abusive, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la
demolizione.
---------------
In presenza di un intervento edilizio realizzato in assenza
del prescritto permesso di costruire, l'ordine di
demolizione costituisce atto dovuto, mentre la possibilità
di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando
ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo
un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla
circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato
dei luoghi.
L’ordine di demolizione di opere edilizie abusive,
costituendo un atto dovuto in presenza dei presupposti
stabiliti dalla legge, non necessita della preventiva
acquisizione del parere della richiamata Commissione né di
altra autorità.
---------------
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono
essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del
procedimento, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e
vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico
sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non
assentito delle medesime.
Seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria
tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione,
troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art.
21-octies, comma 2 della legge n. 241 del 1990 (introdotto
dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non
è annullabile il provvedimento adottato in violazione di
norme sul procedimento...qualora, per la natura vincolata
del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in
presenza di opere realizzate in assenza del prescritto
titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il
contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di
demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata
data ai ricorrenti l’opportunità di interloquire con
l’amministrazione.
Con l’ordinanza impugnata il Comune di
Somma Vesuviana ha ingiunto ai ricorrenti di eliminare i
lavori di rifinitura eseguiti sul manufatto posto sotto
sequestro in data 5 agosto 2008 sito alla via Pizzone
Cassante n. 12 nel medesimo Comune.
Le opere in questione sono state realizzate su un fabbricato
(ed in particolare sul piano mansarda – cfr. memoria della
difesa comunale) di cui non è provata la legittima
preesistenza. I ricorrenti si limitano, infatti, ad
affermare che la sopraelevazione del manufatto è stata
realizzata in tempi molto remoti senza allegare alcuna
documentazione a supporto.
In argomento la giurisprudenza ha
affermato che l'onere di fornire la prova dell'epoca di
realizzazione di un abuso edilizio incombe sull'interessato,
e non sull'Amministrazione, che, in presenza di un'opera
edilizia non assistita da un titolo edilizio che la
legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi
di legge e di adottare, ove ricorrano i presupposti, il
provvedimento di demolizione (TAR Campania Napoli, sez. VIII, 02.07.2010, n. 16569).
Tanto premesso, l’amministrazione ha legittimamente ordinato
ai ricorrenti il ripristino dello stato dei luoghi in
relazione a lavori che, seppure riconducibili alla categoria
del restauro e/o del risanamento conservativo (secondo e
terzo motivo) si sono realizzati su un fabbricato abusivo
sottoposto a sequestro e in violazione dello stesso.
La
giurisprudenza ha, in proposito, evidenziato come “In
presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli
interventi ulteriori (sia pure riconducibili nella loro
oggettività alle categorie della manutenzione straordinaria,
del restauro e/o del risanamento conservativo, della
ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti
pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di
illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono
strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione
dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al
momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque
abusive, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la
demolizione” (TAR Campania Napoli, sez. VI, 03.12.2010, n. 26787).
Con il quarto motivo i ricorrenti invocano l’art. 12 della
legge n. 47/1985 in base al quale l’amministrazione sarebbe
obbligata a valutare preventivamente se la demolizione possa
avvenire senza pregiudizio della restante parte
dell’edificio eseguita in conformità. Osserva il Collegio
come quest’ultimo presupposto non sussiste nella fattispecie
ove non è stata fornita alcuna prova della legittimità del
manufatto sul quale sono stati effettuati i lavori di
rifinitura.
In ogni caso, la costante giurisprudenza ha
affermato che “In presenza di un intervento edilizio
realizzato in assenza del prescritto permesso di costruire,
l'ordine di demolizione costituisce atto dovuto, mentre la
possibilità di non procedere alla rimozione delle parti
abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime
costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva,
subordinata alla circostanza dell'impossibilità del
ripristino dello stato dei luoghi” (TAR Campania Salerno,
sez. II, 13.04.2011, n. 702).
E’, altresì, infondato il quinto motivo di ricorso con il
quale si deduce l’illegittimità dell’atto impugnato in
quanto lo stesso sarebbe stato adottato senza prima aver
sentito la Commissione edilizia integrata. Osserva al
riguardo il Collegio che l’ordine di demolizione di opere
edilizie abusive, costituendo un atto dovuto in presenza dei
presupposti stabiliti dalla legge, non necessita della
preventiva acquisizione del parere della richiamata
Commissione né di altra autorità (ex multis, TAR,
Campania Napoli, sez. II, 30.10.2006, n. 9243; sez. IV,
16.07.2003, n. 8434).
Destituita di ogni fondamento risulta la censura incentrata
sulla omissione della fase partecipativa al procedimento
(violazione degli artt. 7 e 10 della legge n. 241 del 1990
–primo motivo) in quanto i provvedimenti repressivi degli
abusi edilizi non devono essere preceduti dalla
comunicazione dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR
Campania, Napoli, sez. IV 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché trattasi di provvedimenti
tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero
accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
Seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria
tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione,
troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2 della legge n. 241 del 1990 (introdotto
dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non
è annullabile il provvedimento adottato in violazione di
norme sul procedimento...qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato”. Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto
dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del
prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta
palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza
di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse
stata data ai ricorrenti l’opportunità di interloquire con
l’amministrazione
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza
20.11.2012 n. 4661 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Laddove, come nella fattispecie, vengano
realizzate opere di ristrutturazione edilizia comportanti un
aumento delle unità immobiliari e delle superfici, senza
previamente acquisire il più gravoso sul piano
procedimentale, titolo abilitativo, né presentare la DIA, è
pienamente legittima l’applicazione della sanzione della
demolizione. Peraltro, l’intervento abusivo ricade, come
correttamente evidenziato nella motivazione del
provvedimento impugnato, in una zona del Piano Paesistico
Territoriale e, quindi, in un’area vincolata
paesaggisticamente.
Alla fattispecie si applica, quindi, il regime previsto dal
comma 6 del richiamato art. 22, secondo il quale “la
realizzazione degli interventi di cui ai commi 1, 2 e 3 che
riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o
paesaggistica-ambientale, è subordinata al preventivo
rilascio del parere o dell’autorizzazione richiesti dalle
relative normative”.
---------------
In presenza di un abuso edilizio “l’ordinanza di demolizione
non richiede, in linea generale, una specifica motivazione;
l’abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente
per l’adozione della misura repressiva in argomento. Ne
consegue che, in presenza di un’opera abusiva, l’autorità
amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia
ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna
discrezionalità dell’amministrazione in relazione al
provvedere”.
Infatti “l’ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di
motivazione ulteriore rispetto all’indicazione dei
presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione
degli abusi edilizi”.
Ed ancora, “presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di
demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la
constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in
totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza
che, essendo l’ordinanza atto dovuto, essa è
sufficientemente motivata con l’accertamento dell’abuso,
essendo “in re ipsa” l’interesse pubblico alla sua rimozione
e sussistendo l’eventuale obbligo di motivazione al riguardo
solo se l’ordinanza stessa intervenga a distanza di tempo
dall’ultimazione dell’opera avendo l’inerzia
dell’amministrazione creato un qualche affidamento nel
privato”.
---------------
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono
essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del
procedimento perché trattasi di provvedimenti tipizzati e
vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico
sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non
assentito delle medesime.
Seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria
tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione,
troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art.
21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990 (introdotto
dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non
è annullabile il provvedimento adottato in violazione di
norme sul procedimento...qualora, per la natura vincolata
del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in
presenza di opere realizzate in assenza del prescritto
titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il
contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di
demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata
data al ricorrente l’opportunità di interloquire con
l’amministrazione.
--------------
Una volta accertata l’esecuzione di opere in assenza del
prescritto permesso di costruire l’amministrazione comunale
deve disporne senz’altro la demolizione, non essendo tenuta
a valutare preventivamente la sanabilità delle stesse.
In base al chiaro disposto dell’art. 10, comma
1, lettera c) del D.P.R. n. 380 del 2001, gli interventi di
ristrutturazione edilizia comportanti aumenti di unità
immobiliari, modifiche del volume, delle sagome e dei
prospetti o delle superfici, richiedono la previa
acquisizione del permesso di costruire.
Nella fattispecie,
risulta incontestata la realizzazione di lavori che hanno
condotto a un aumento della superficie (circa 140 mq) e alla
creazione di una nuova unità immobiliare. Né possono essere
invocate, al fine di censurare la legittimità della sanzione demolitoria, le disposizioni di cui al comma 3, lett. a),
dell’art. 22 del medesimo decreto n. 380/2001 in base alle
quali è consentita l’effettuazione delle opere di
ristrutturazione di cui all’art. 10, comma 1, lettera c),
senza la previa acquisizione del permesso di costruire ma
con la sola presentazione della DIA (c.d. superdia).
Si
tratta invero di una semplificazione procedimentale rimessa
alla scelta dell’interessato (DIA in luogo di permesso di
costruire) che comunque non ha nessun effetto sul piano
sostanziale e segnatamente su quello sanzionatorio (si vd.
in proposito quanto stabiliscono le disposizioni recate dal
comma 9-bis dell’art. 31 e dal comma 2-bis dell’art. 34 del
citato decreto n. 380).
In altre parole, laddove, come nella
fattispecie, vengano realizzate opere di ristrutturazione
edilizia comportanti un aumento delle unità immobiliari e
delle superfici, senza previamente acquisire il più gravoso
sul piano procedimentale, titolo abilitativo, né presentare
la DIA, è pienamente legittima l’applicazione della sanzione
della demolizione (cfr. TAR Lazio, sez. I-quater, 18.06.2007, n. 5534 e TAR Campania, Napoli, sez. VI,
09.11.2009, n. 7057). Peraltro, l’intervento abusivo
ricade, come correttamente evidenziato nella motivazione del
provvedimento impugnato, in una zona del Piano Paesistico
Territoriale e, quindi, in un’area vincolata paesaggisticamente.
Alla fattispecie si applica, quindi, il
regime previsto dal comma 6 del richiamato art. 22, secondo
il quale “la realizzazione degli interventi di cui ai commi
1, 2 e 3 che riguardino immobili sottoposti a tutela
storico-artistica o paesaggistica-ambientale, è subordinata
al preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione
richiesti dalle relative normative”.
Nel caso in esame, in
definitiva, sono carenti sia il titolo edilizio (permesso di
costruire o DIA sostitutiva) sia quello paesistico (parere o
autorizzazione dell’autorità tutoria).
---------------
Con riguardo alla mancata
qualificazione giuridica dell’abuso e alla insufficienza per
tale profilo della motivazione rammenta il Collegio che in
presenza di un abuso edilizio “l’ordinanza di demolizione
non richiede, in linea generale, una specifica motivazione;
l’abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente
per l’adozione della misura repressiva in argomento. Ne
consegue che, in presenza di un’opera abusiva, l’autorità
amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia
ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna
discrezionalità dell’amministrazione in relazione al
provvedere” (TAR Lazio Roma, sez. I, 19.07.2006, n.
6021); infatti “l’ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di
motivazione ulteriore rispetto all’indicazione dei
presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione
degli abusi edilizi” (TAR Marche Ancona, sez. I, 12.10.2006 , n. 824) ed, ancora, “presupposto per
l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime
in assenza o in totale difformità del titolo concessorio,
con la conseguenza che, essendo l’ordinanza atto dovuto,
essa è sufficientemente motivata con l’accertamento
dell’abuso, essendo “in re ipsa” l’interesse pubblico alla
sua rimozione e sussistendo l’eventuale obbligo di
motivazione al riguardo solo se l’ordinanza stessa
intervenga a distanza di tempo dall’ultimazione dell’opera
avendo l’inerzia dell’amministrazione creato un qualche
affidamento nel privato” (Consiglio di Stato, sez. V, 29.05.2006 n. 3270).
Destituita di ogni fondamento risulta la censura incentrata
sulla omissione della fase partecipativa al procedimento
(violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990) in
quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non
devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del
procedimento (ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. IV 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché
trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che
presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza
delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle
medesime.
Seppure si aderisse all’orientamento che ritiene
necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di
demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in
esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990
(introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui
dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in
violazione di norme sul procedimento...qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di
demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in
assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame
risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata
ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso
se fosse stata data al ricorrente l’opportunità di
interloquire con l’amministrazione.
---------------
Osserva il Collegio che
dal chiaro tenore letterale dell’art. 36 del D.P.R. n.
380/2001 (che ha sostituito l’art. 13 della legge n.
47/1985) si desume che il rilascio del permesso di costruire
in sanatoria consegue necessariamente ad un’istanza
dell’interessato (la cui presentazione non risulta nella
specie comprovata), mentre al Comune compete, ai sensi
dell’art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001, l’esercizio
della vigilanza sull’attività urbanistico–edilizia che si
svolge nel terreno comunale.
Pertanto, una volta accertata
l’esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso di
costruire l’amministrazione comunale deve disporne
senz’altro la demolizione, non essendo tenuta a valutare
preventivamente la sanabilità delle stesse (ex multis,
TAR Campania, sez. III, 27.09.2006, n. 8331; sez. IV, 04.02.2003, n. 617)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza
20.11.2012 n. 4660 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L'art.
12 del decreto legislativo 29.12.2003 n. 387 ha previsto il
rilascio da parte della regione o della provincia se del
caso delegata di un'"autorizzazione unica", che sostituisce
tutti i pareri e le autorizzazioni altrimenti necessari e in
cui confluiscono, con il meccanismo della conferenza di
servizi, anche le valutazioni di carattere paesaggistico e
quelle relative all'esistenza di vincoli di carattere
storico-artistico.
Il Collegio ritiene che, per definire la natura di tale
conferenza, sia necessario fare riferimento al Decreto
Ministeriale 10.09.2010, n. 47987, attuativo dell’art. 12,
comma 10, del D.lgs. 29.12.2003 n. 387, il quale, nel
dettare le linee guida per l'autorizzazione degli impianti
alimentati da fonti rinnovabili, offre sicuri elementi
testuali in favore della tesi della natura "decisoria" della
conferenza di servizi, integrati, quali:
- l'art. 14.6 del D.M. citato, nella parte in cui si prevede
che la conferenza di servizi "si svolge con le modalità di
cui agli articoli 14 e seguenti della legge 241 del 1990 e
successive modificazioni ed integrazioni";
- l'art. 15.1, in cui si stabilisce che "l'autorizzazione
unica, conforme alla determinazione motivata di conclusione
assunta all'esito dei lavori della conferenza di servizi,
sostituisce a tutti gli effetti ogni autorizzazione, nulla
osta o atto di assenso comunque denominato di competenza
delle amministrazioni coinvolte".
In tale quadro legislativo è avviso della Sezione che la
seconda disposizione chiarisca la natura tipicamente
decisoria della conferenza di servizi.
Al fine di valutare la legittimità del diniego osserva il
Collegio che deve essere preliminarmente risolto il problema
della natura giuridica dell’indetta conferenza di servizi.
L'art. 12 del decreto legislativo 29.12.2003 n. 387 ha
previsto il rilascio da parte della regione o della
provincia se del caso delegata di un'"autorizzazione unica",
che sostituisce tutti i pareri e le autorizzazioni
altrimenti necessari e in cui confluiscono, con il
meccanismo della conferenza di servizi, anche le valutazioni
di carattere paesaggistico e quelle relative all'esistenza
di vincoli di carattere storico-artistico.
Sulla natura giuridica di detta conferenza si
registrano opinioni non univoche nella giurisprudenza
amministrativa, una parte di essa affermandone la natura
"istruttoria" (TAR Campania Napoli, sez. VII, nn. 9345/2009
e 9367/2009 e 157/2010; Consiglio di Stato sez. VI, n.
3502/2004 e C.G.A. nn. 295/2008 e 763/2008), altra, invece,
la natura "decisoria" (Cons. Stato, sez. VI, 22.02.2010, n.1020; TAR Campania Napoli, sez. V, n. 1479/2010; TAR
Sicilia Palermo, sez. II, n. 1539/2009).
Il Collegio ritiene peraltro che, per definire la natura di
tale conferenza, sia necessario fare riferimento al Decreto
Ministeriale 10.09.2010, n. 47987, attuativo dell’art. 12,
comma 10, del D.lgs. 29.12.2003 n. 387, il quale, nel
dettare le linee guida per l'autorizzazione degli impianti
alimentati da fonti rinnovabili, offre sicuri elementi
testuali in favore della tesi della natura "decisoria" della
conferenza di servizi, integrati, quali:
-
l'art. 14.6 del D.M. citato, nella parte in cui si prevede
che la conferenza di servizi "si svolge con le modalità di
cui agli articoli 14 e seguenti della legge 241 del 1990 e
successive modificazioni ed integrazioni";
- l'art. 15.1, in cui si stabilisce che "l'autorizzazione
unica, conforme alla determinazione motivata di conclusione
assunta all'esito dei lavori della conferenza di servizi,
sostituisce a tutti gli effetti ogni autorizzazione, nulla
osta o atto di assenso comunque denominato di competenza
delle amministrazioni coinvolte".
In tale quadro legislativo è avviso della Sezione che la
seconda disposizione chiarisca la natura tipicamente
decisoria della conferenza di servizi (cfr. in questo senso
TAR Piemonte, Sez. I, 21-12-2011, n. 1342), dal che
consegue che ad essa si applicano le disposizioni degli
artt. 14-bis ss. della legge 241/1990
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 16.11.2012 n. 2777 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - SEGRETARI COMUNALI: E'
fondato il primo motivo di ricorso, incentrato sulla
asserita incompetenza del Segretario comunale, autore
dell’atto, rispetto al dirigente, competente in via generale
ai sensi dell’art. 107 TUEL.
Occorre infatti ricordare il testo della norma citata, comma
3, per cui “sono attribuiti ai dirigenti tutti i compiti di
attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli
atti di indirizzo adottati dai medesimi organi”.
La norma stessa ammette una sola deroga, quella di cui al
successivo art. 109 ultimo comma, per cui nei Comuni privi
di dirigenti le relative funzioni “possono essere
attribuite, a seguito di provvedimento motivato del sindaco,
ai responsabili degli uffici o dei servizi,
indipendentemente dalla loro qualifica funzionale, anche in
deroga a ogni diversa disposizione”.
Non esiste invece alcuna norma che affidi in via generale e
ordinaria un compito di supplenza dei dirigenti impediti o
assenti al Segretario comunale, al quale, ai sensi dell’art.
97, comma 4, TUEL soltanto “sovrintende allo svolgimento
delle funzioni dei dirigenti e ne coordina l'attività”.
... per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia,
del provvedimento 07.07.2010 prot. n. 7012, ricevuto il
successivo 16 luglio, con il quale il Segretario comunale
del Comune di Grumello del Monte ha respinto l’istanza della
ricorrente volta ad ottenere l’autorizzazione ad installare
una stazione radio base per telefonia mobile nella locale
via Don Francesco Lazzari;
...
Nel merito, è fondato anzitutto il primo motivo di ricorso,
incentrato sulla asserita incompetenza del Segretario
comunale, autore dell’atto, rispetto al dirigente,
competente in via generale ai sensi dell’art. 107 TUEL.
Occorre infatti ricordare il testo della norma citata, comma
3, per cui “sono attribuiti ai dirigenti tutti i compiti di
attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli
atti di indirizzo adottati dai medesimi organi”. La norma
stessa ammette una sola deroga, quella di cui al successivo
art. 109 ultimo comma, per cui nei Comuni privi di dirigenti
le relative funzioni “possono essere attribuite, a seguito
di provvedimento motivato del sindaco, ai responsabili degli
uffici o dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica
funzionale, anche in deroga a ogni diversa disposizione”.
Non esiste invece alcuna norma che affidi in via generale e
ordinaria un compito di supplenza dei dirigenti impediti o
assenti al Segretario comunale, al quale, ai sensi dell’art.
97, comma 4, TUEL soltanto “sovrintende allo svolgimento delle
funzioni dei dirigenti e ne coordina l'attività”.
Ciò posto, nel caso di specie in cui il dirigente
all’origine responsabile della pratica era deceduto, non era
possibile farlo sostituire in via automatica ed ordinaria al
Segretario, rispetto al quale non consta uno specifico atto
di conferimento di funzioni.
Ciò posto, l’accoglimento di detto motivo non preclude
l’esame dei restanti. In proposito, il Collegio non ignora
l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale “la
fondatezza della censura di incompetenza dell'autorità che
ha emanato l'atto, da esaminarsi prioritariamente rispetto
ad ogni altro motivo di ricorso, determina unicamente la
rimessione dell'affare all'autorità indicata come
competente, in applicazione dell'art. 26 legge n. 1034 del
1971, ed impedisce l'esame delle altre doglianze, che
finirebbe, altrimenti, per risolversi in un giudizio
anticipato sui futuri provvedimenti dell'organo riconosciuto
come competente ed in un vincolo anomalo sulla riedizione
del potere” (così in motivazione C.d.S. sez. IV 14.05.2007 n. 2427; conformi anche C.d.S. sez. IV 12.12.2006
n. 7271 e 12.03.1996 n. 310, nonché sez. VI 07.04.1981
n. 140)
Sempre il Collegio ritiene però che tale orientamento
vada inteso in modo corretto. Come risulta dalla stessa
decisione 310/1996 citata, infatti, esso si fonda sulla
circostanza per cui nel processo amministrativo “non è
prevista alcuna forma di integrazione del contraddittorio
nei confronti dell'organo amministrativo effettivamente
competente”, e quindi si spiega con l’esigenza di non
vincolare al giudicato un soggetto che al processo non è
stato in condizione di partecipare. Non sfugge allora che
tale esigenza non sussiste nel caso di specie, in cui si fa
questione della competenza di due organi, il dirigente e il
Segretario, pur sempre appartenenti ad un medesimo soggetto
giuridico, ovvero al Comune, che nel processo è stato
ritualmente evocato ed ha potuto esercitare appieno il
proprio diritto di difesa con riguardo a tutte le censure
dedotte
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 15.11.2012 n. 1804 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di stazioni radio base l’ente locale non può prevedere
“limiti generalizzati di esposizione diversi da quelli
previsti dallo Stato” ovvero una “deroga generalizzata” a
tali limiti, ma deve se mai adottare limiti tradotti in
“specifiche e diverse misure, la cui idoneità… emerga dallo
svolgimento di compiuti e approfonditi rilievi istruttori
sulla base di risultanze di carattere scientifico”.
E’ infatti fondato ed assorbente il terzo motivo di
ricorso, incentrato sulla presunta illegittimità delle norme
comunali sulla localizzazione delle stazioni radio base
descritte in narrativa. In proposito, non occorre
dilungarsi, atteso che proprio sul censurato art. 51, comma 8,
delle NTA del vigente PRG, cui l’art. 6 del regolamento
specifico si limita a rinviare, si è pronunciato questo TAR,
nel senso della sua illegittimità, con le sentenze sez. II
13.06.2011 n. 898 e 899, che qui interamente si
condividono.
A fondamento di tali sentenze, in sintesi estrema, vi è
infatti l’indirizzo, proprio ormai di costante
giurisprudenza, per cui in tema di stazioni radio base
l’ente locale non può prevedere “limiti generalizzati di
esposizione diversi da quelli previsti dallo Stato” ovvero
una “deroga generalizzata” a tali limiti, ma deve se mai
adottare limiti tradotti in “specifiche e diverse misure, la
cui idoneità… emerga dallo svolgimento di compiuti e
approfonditi rilievi istruttori sulla base di risultanze di
carattere scientifico”: così, fra le molte C.d.S. sez. VI
15.07.2010 n. 4557, nonché in via di principio C. cost.
07.11.2003 n. 331 e 07.10.2003 n. 307
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 15.11.2012 n. 1804 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: La
pianificazione acustica non si esaurisce in un'attività di
programmazione dell'assetto territoriale in senso stretto,
essendo diretta ad orientare lo sviluppo non dal punto di
vista urbanistico-edilizio -che pure costituisce un aspetto
connesso e correlato- ma sotto il particolare profilo della
tutela ambientale e della salute umana, attraverso la
localizzazione delle attività antropiche in relazione alla
loro rumorosità.
È doveroso rammentare che la normativa di riferimento
valorizza il profilo funzionale, inteso ad assicurare la
vivibilità dei luoghi preservandoli da fonti di inquinamento
acustico: l'impianto normativo dunque assume ad indice
quantitativo l'assetto urbanistico attuale, e lo integra con
quello qualitativo della fruizione collettiva dei luoghi per
il miglioramento delle condizioni di vita. La stessa L.r.
13/2001, all'art. 4, stabilisce che ogni Comune assicura il
"coordinamento" tra la classificazione acustica e gli
strumenti urbanistici, esigendo pertanto l'integrazione tra
i due strumenti senza prescrivere una perfetta
sovrapposizione.
La difesa del Comune ha evidenziato che la variante
urbanistica del 2001 ha interessato solo l’area di sedime
dello stabilimento Tempini, al fine di permetterne la
presenza in loco (e l’eventuale adeguamento tecnologico),
senza incidere sugli ambiti contermini, che hanno mantenuto
la destinazione residenziale.
In tale contesto va esclusa la
stessa necessità di un eventuale aggiornamento
dell’azzonamento acustico in classe III “aree di tipo misto”
effettuata dal piano di zonizzazione acustica approvato nel
1998, atteso che è invariata la situazione di fatto
preesistente.
Più in generale, va ricordato (cfr. TAR Brescia Sez. 2°, 18.05.2012 n. 837; Sez. 1°,
02.04.2008 n. 348) che:
<<La L.r. 13/2001 -in attuazione del disposto di cui
all'art. 4, comma 1, lett. a), della L. 447/1995- detta norme
per la tutela dell'ambiente esterno ed abitativo
dall'inquinamento acustico (art. 1 significativamente
rubricato "prevenzione") e demanda testualmente alla Giunta
regionale la definizione dei criteri tecnici di dettaglio
per la redazione della classificazione acustica del
territorio comunale, nel rispetto di alcune linee guida
(art. 2, comma 3). Tra queste ultime la lett. a) puntualizza
che la classificazione "deve essere predisposta sulla base
delle destinazioni d'uso del territorio, sia quelle
esistenti che quelle previste negli strumenti di
pianificazione urbanistica". La deliberazione della Giunta
regionale 12/07/2002 n. 7/9776, recante l'approvazione dei
menzionati criteri tecnici, afferma, in coerenza con la
normativa di rango superiore, che gli obiettivi fondamentali
della zonizzazione acustica "sono quelli di prevenire il
deterioramento di aree non inquinate e di risanare quelle
dove attualmente sono riscontrabili livelli di rumorosità
ambientale superiori ai valori limite". Precisa altresì che
"la zonizzazione è inoltre un indispensabile strumento di
prevenzione per una corretta pianificazione, ai fini della
tutela dall'inquinamento acustico, delle nuove aree di
sviluppo urbanistico o per la verifica di compatibilità dei
nuovi insediamenti o infrastrutture in aree già
urbanizzate". ... D'altro canto, tuttavia, il provvedimento
puntualizza che "Il processo di zonizzazione non si deve
limitare a "fotografare l'esistente" ma, tenendo conto della
pianificazione urbanistica e degli obiettivi di risanamento
ambientale, deve prevedere una classificazione in base alla
quale vengano attuati tutti gli accorgimenti volti alla
migliore protezione dell'ambiente abitativo dal rumore".
Inoltre "Va perseguita la compatibilità acustica tra i
diversi tipi di insediamento tenendo conto di considerazioni
economiche della complessità tecnologica, dell'estensione
dell'insediamento o infrastruttura rumorosa, delle necessità
di interventi di risanamento, dei programmi di bonifica o di
trasferimento".
Il quadro normativo delineato, nel rispetto degli obiettivi
fondamentali fissati dalla Legge quadro nazionale e
precisati dal legislatore regionale, offre ai Comuni gli
strumenti utili per intraprendere una corretta
pianificazione, individuando le fasi essenziali
dell'attività da espletare ed evidenziando una serie di
elementi fondamentali da assumere a parametri di
riferimento. Nel compiere la complessa ed articolata
valutazione tecnica il Comune deve prendere in
considerazione non soltanto la zonizzazione urbanistica, ma
anche il rilievo delle attività effettivamente esercitate e
l'assetto della viabilità, focalizzando l'analisi sulla
situazione attuale e sulle prospettive future di medio
periodo, allo scopo di assicurare le condizioni di migliore
vivibilità dei luoghi e di salvaguardare la salute dei
cittadini. ...
La giurisprudenza ha del resto precisato che la
pianificazione acustica non si esaurisce in un'attività di
programmazione dell'assetto territoriale in senso stretto,
essendo diretta ad orientare lo sviluppo non dal punto di
vista urbanistico-edilizio -che pure costituisce un aspetto
connesso e correlato- ma sotto il particolare profilo della
tutela ambientale e della salute umana, attraverso la
localizzazione delle attività antropiche in relazione alla
loro rumorosità (cfr. TAR Piemonte, sez. II - 13/13/2005
n. 3969). ... È doveroso rammentare che la normativa di
riferimento valorizza il profilo funzionale, inteso ad
assicurare la vivibilità dei luoghi preservandoli da fonti
di inquinamento acustico: l'impianto normativo dunque assume
ad indice quantitativo l'assetto urbanistico attuale, e lo
integra con quello qualitativo della fruizione collettiva
dei luoghi per il miglioramento delle condizioni di vita. La
stessa L.r. 13/2001, all'art. 4, stabilisce che ogni Comune
assicura il "coordinamento" tra la classificazione acustica
e gli strumenti urbanistici, esigendo pertanto
l'integrazione tra i due strumenti senza prescrivere una
perfetta sovrapposizione>>
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 15.11.2012 n. 1794 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Il
rumore ambientale è costituito da tutte le sorgenti di
rumore esistenti in un dato luogo e durante un determinato
tempo. Il rumore ambientale è costituito dall’insieme del
rumore residuo, per tale intendendosi il rumore rilevato
quando si esclude la specifica sorgente disturbante, e da
quello che prodotto dalla specifica sorgente disturbante.
A tal riguardo occorre precisare che il valore limite
differenziale è quel valore dato dalla differenza tra il
livello equivalente di rumore ambientale e il rumore
residuo. Tenendo presente la definizione di rumore residuo
che è il rumore che residua una volta eliminata la sorgente
disturbante il valore differenziale esprime lo specifico
grado di inquinamento acustico della specifica fonte
disturbante.
In altre parole il valore differenziale esprime il
contributo che una specifica fonte dà al livello di
inquinamento generale.
---------------
Il Piano di classificazione acustica ha la funzione di
procedere a ricognizione del territorio comunale al fine di
individuare, tenendo conto delle destinazioni d'uso delle
varie zone, i "valori di qualità" di inquinamento acustico
da applicare a ciascuna di esse: ciò al duplice fine di
contenere il livello di emissioni sonore nei limiti
stabiliti in considerazione della concreta destinazione
delle varie porzioni di territorio, e di fornire un criterio
utile a verificare le attività eventualmente autorizzabili
in ciascuna di esse.
---------------
Va chiarita la latitudine del potere attribuito dall’art. 9
della L. 26.10.1995 n. 447 ovverosia:
- la norma non può essere riduttivamente intesa come una
mera (e, quindi, pleonastica) riproduzione, nell'ambito
della normativa di settore in tema di tutela
dall'inquinamento acustico, del generale potere di ordinanza
contingibile ed urgente tradizionalmente riconosciuto dal
nostro ordinamento giuridico al Sindaco (quale Ufficiale di
Governo) in materia di sanità ed igiene pubblica, ma che
invece la stessa deve essere logicamente e sistematicamente
interpretata nel particolare significato che assume
all'interno di una normativa dettata -in attuazione del
principio di tutela della salute dei cittadini previsto
dall'art. 32 della Costituzione- allo scopo primario di
realizzare un efficace contrasto al fenomeno
dell'inquinamento acustico, tenendo nel dovuto conto il
fatto che la Legge n. 447/1995 (nell'art. 2 primo comma
lettera "a") ha ridefinito il concetto di inquinamento
acustico, qualificandolo come "l'introduzione di rumore
nell'ambiente abitativo o nell'ambiente esterno tale da
provocare fastidio o disturbo al riposo ed alle attività
umane", sancendo espressamente che esso concreta (in ogni
caso) "un pericolo per la salute umana";
- conseguentemente l'utilizzo del particolare potere di
ordinanza contingibile ed urgente delineato dall'art. 9
della Legge 26.10.1995 n. 447 deve ritenersi ("normalmente")
consentito allorquando gli appositi accertamenti tecnici
effettuati dalle competenti Agenzie Regionali di Protezione
Ambientale rivelino la presenza di un fenomeno di
inquinamento acustico, tenuto conto sia che quest'ultimo
-ontologicamente (per esplicita previsione dell'art. 2 della
stessa L. n. 447/1995 )- rappresenta una minaccia per la
salute pubblica, sia che la Legge quadro sull'inquinamento
acustico non configura alcun potere di intervento
amministrativo "ordinario" che consenta di ottenere il
risultato dell'immediato abbattimento delle emissioni sonore
inquinanti;
- in siffatto contesto normativo, l'accertata presenza di un
fenomeno di inquinamento acustico (pur se non coinvolgente
l'intera collettività) appare sufficiente a concretare
l'eccezionale ed urgente necessità di intervenire a tutela
della salute pubblica con l'efficace strumento previsto
(soltanto) dall'art. 9, primo comma, della citata Legge n.
447/1995;
- la tutela della salute pubblica non presuppone
necessariamente che la situazione di pericolo involga
l'intera collettività ben potendo richiedersi tutela alla
P.A. anche ove sia in discussione la salute di una singola
famiglia (o anche di una sola persona);
- non può essere certamente reputato ordinario strumento di
intervento (sul piano amministrativo) la facoltà
riconosciuta dal Codice Civile al privato interessato di
adire l'Autorità Giudiziaria Ordinaria per far cessare le
immissioni dannose che eccedano la normale tollerabilità.
In Lombardia, la L.R. 10.08.2001 n. 13 -Norme in materia
di inquinamento acustico- all’art. 15 (Controlli e poteri
sostitutivi) prevede che “Le attività di vigilanza e
controllo in materia di inquinamento acustico sono svolte
dai comuni e dalle province nell'ambito delle competenze
individuate dalla legislazione statale e regionale vigente,
avvalendosi del supporto dell'Agenzia regionale per la
protezione dell'ambiente ai sensi della legge regionale 14.08.1999, n. 16 (Istituzione dell'Agenzia regionale per la
protezione dell'ambiente - ARPA)” (c.1).
Il c. 2 del cit. art. 15 specifica che: “Per le attività di
vigilanza e controllo di cui al comma 1, il comune o la
provincia effettuano precise e dettagliate richieste
all'ARPA privilegiando le segnalazioni, gli esposti, le
lamentele presentate dai cittadini residenti in ambienti
abitativi o esterni prossimi alla sorgente di inquinamento
acustico per la quale sono effettuati i controlli. Gli oneri
per le attività di vigilanza e controllo effettuate ai sensi
del presente comma sono a carico dell'ARPA, così come
stabilito dall'art. 26, comma 5, della L.R. n. 16/1999”.
Più in generale, l'art. 9, primo comma, della L. 26.10.1995 n.
447 –legge quadro sull'inquinamento acustico- dispone:
“Qualora sia richiesto da eccezionali ed urgenti necessità
di tutela della salute pubblica o dell'ambiente il sindaco,
il presidente della provincia, il presidente della giunta
regionale, il prefetto, il Ministro dell'ambiente, secondo
quanto previsto dall'articolo 8 della L. 03.03.1987, n.
59, e il Presidente del Consiglio dei ministri, nell'ambito
delle rispettive competenze, con provvedimento motivato,
possono ordinare il ricorso temporaneo a speciali forme di
contenimento o di abbattimento delle emissioni sonore,
inclusa l'inibitoria parziale o totale di determinate
attività. Nel caso di servizi pubblici essenziali, tale
facoltà è riservata esclusivamente al Presidente del
Consiglio dei ministri”.
Il D.P.C.M. 14.11.1997 che reca “valori limite
assoluti di immissione” all’art. 3 stabilisce: “1. I valori
limite assoluti di immissione come definiti all'art. 2,
comma 3, lettera a), della legge 26.10.1995, n. 447,
riferiti al rumore immesso nell'ambiente esterno
dall'insieme di tutte le sorgenti sono quelli indicati nella
tabella C allegata al presente decreto.
2. Per le
infrastrutture stradali, ferroviarie, marittime,
aeroportuali e le altre sorgenti sonore di cui all'art. 11,
comma 1, legge 26.10.1995, n. 447, i limiti di cui alla
tabella C allegata al presente decreto, non si applicano
all'interno delle rispettive fasce di pertinenza,
individuate dai relativi decreti attuativi. All'esterno di
tali fasce, dette sorgenti concorrono al raggiungimento dei
limiti assoluti di immissione.
3. All'interno delle fasce di
pertinenza, le singole sorgenti sonore diverse da quelle
indicate al precedente comma 2, devono rispettare i limiti
di cui alla tabella B allegata al presente decreto. Le
sorgenti sonore diverse da quelle di cui al precedente comma
2, devono rispettare, nel loro insieme, i limiti di cui alla
tabella C allegata al presente decreto, secondo la
classificazione che a quella fascia viene assegnata.”
Il successivo art. 4 -rubricato valori limite differenziali
di immissione- stabilisce: “1. I valori limite
differenziali di immissione, definiti all'art. 2, comma 3,
lettera b), della legge 26.10.1995, n. 447, sono: 5 dB
per il periodo diurno e 3 dB per il periodo notturno,
all'interno degli ambienti abitativi. Tali valori non si
applicano nelle aree classificate nella classe VI della
tabella A allegata al presente decreto.
2. Le disposizioni
di cui al comma precedente non si applicano nei seguenti
casi, in quanto ogni effetto del rumore è da ritenersi
trascurabile: a) se il rumore misurato a finestre aperte sia
inferiore a 50 dB(A) durante il periodo diurno e 40 dB(A)
durante il periodo notturno; b) se il livello del rumore
ambientale misurato a finestre chiuse sia inferiore a 35 dB(A)
durante il periodo diurno e 25 dB(A) durante il periodo
notturno.
3. Le disposizioni di cui al presente articolo non
si applicano alla rumorosità prodotta: dalle infrastrutture
stradali, ferroviarie, aeroportuali e marittime; da attività
e comportamenti non connessi con esigenze produttive,
commerciali e professionali; da servizi e impianti fissi
dell'edificio adibiti ad uso comune, limitatamente al
disturbo provocato all'interno dello stesso”.
Va chiarito che il rumore ambientale è costituito da tutte
le sorgenti di rumore esistenti in un dato luogo e durante
un determinato tempo. Il rumore ambientale è costituito
dall’insieme del rumore residuo, per tale intendendosi il
rumore rilevato quando si esclude la specifica sorgente
disturbante, e da quello che prodotto dalla specifica
sorgente disturbante.
A tal riguardo occorre precisare che il valore limite
differenziale è quel valore dato dalla differenza tra il
livello equivalente di rumore ambientale e il rumore
residuo. Tenendo presente la definizione di rumore residuo
che è il rumore che residua una volta eliminata la sorgente
disturbante il valore differenziale esprime lo specifico
grado di inquinamento acustico della specifica fonte
disturbante.
In altre parole il valore differenziale esprime il
contributo che una specifica fonte dà al livello di
inquinamento generale.
I valori limite sono di 5 db per il periodo diurno e di 3 db
per il periodo notturno (art. 4 D.P.C.M. 14.11.1997).
Tali valori differenziali non si applicano quando comunque
il rumore ambientale è al di sotto di determinati valori e
precisamente 50 db(A) per il periodo diurno e 40 db (A) per
il periodo notturno misurati a finestre aperte e 35 db(A)
per il periodo diurno e 25 db (A) per il periodo notturno
misurati a finestre chiuse.
Si tratta ovviamente di limiti da applicarsi disgiuntamente
nel senso che anche il superamento di uno solo di essi
consente l’applicazione del valore differenziale. Ciò è
fatto palese dalla circostanza che il rumore viene definito
in tali casi trascurabile. Orbene è evidente che, essendo il
rumore sempre lo stesso, per ritenersi trascurabile non deve
superare i parametri di cui sopra per cui il superamento
anche di uno solo di essi implica l’applicazione dei valori
limite differenziali (cfr. TAR Liguria, Sez. I, 15.03.2010, n. 1166).
---------------
Va ricordato che, ai sensi degli artt. 4 e 6
della legge 26.10.1995, n. 447, il Piano di classificazione
acustica ha la funzione di procedere a ricognizione del
territorio comunale al fine di individuare, tenendo conto
delle destinazioni d'uso delle varie zone, i "valori di
qualità" di inquinamento acustico da applicare a
ciascuna di esse: ciò al duplice fine di contenere il
livello di emissioni sonore nei limiti stabiliti in
considerazione della concreta destinazione delle varie
porzioni di territorio, e di fornire un criterio utile a
verificare le attività eventualmente autorizzabili in
ciascuna di esse.
In relazione alle doglianze prospettate dalla ricorrente va
chiarita la latitudine del potere attribuito dall’art. 9
della L. 26.10.1995 n. 447 (cfr. TAR Lecce, Sez. I,
11.01.2006, n. 488, TAR Milano, Sez. IV, 27.12.2007 n. 6819,
TAR Brescia, Sez. II, 02.11.2009 n. 1814, TAR Brescia,
Sez. I, 30.08.2011 n. 1276):
- la norma non può essere riduttivamente intesa come una
mera (e, quindi, pleonastica) riproduzione, nell'ambito
della normativa di settore in tema di tutela
dall'inquinamento acustico, del generale potere di ordinanza
contingibile ed urgente tradizionalmente riconosciuto dal
nostro ordinamento giuridico al Sindaco (quale Ufficiale di
Governo) in materia di sanità ed igiene pubblica, ma che
invece la stessa deve essere logicamente e sistematicamente
interpretata nel particolare significato che assume
all'interno di una normativa dettata -in attuazione del
principio di tutela della salute dei cittadini previsto
dall'art. 32 della Costituzione- allo scopo primario di
realizzare un efficace contrasto al fenomeno
dell'inquinamento acustico, tenendo nel dovuto conto il
fatto che la Legge n. 447/1995 (nell'art. 2 primo comma
lettera "a") ha ridefinito il concetto di inquinamento
acustico, qualificandolo come "l'introduzione di rumore
nell'ambiente abitativo o nell'ambiente esterno tale da
provocare fastidio o disturbo al riposo ed alle attività
umane", sancendo espressamente che esso concreta (in ogni
caso) "un pericolo per la salute umana";
- conseguentemente l'utilizzo del particolare potere di
ordinanza contingibile ed urgente delineato dall'art. 9
della Legge 26.10.1995 n. 447 deve ritenersi
("normalmente") consentito allorquando gli appositi
accertamenti tecnici effettuati dalle competenti Agenzie
Regionali di Protezione Ambientale rivelino la presenza di
un fenomeno di inquinamento acustico, tenuto conto sia che
quest'ultimo -ontologicamente (per esplicita previsione
dell'art. 2 della stessa L. n. 447/1995 )- rappresenta una
minaccia per la salute pubblica, sia che la Legge quadro
sull'inquinamento acustico non configura alcun potere di
intervento amministrativo "ordinario" che consenta di
ottenere il risultato dell'immediato abbattimento delle
emissioni sonore inquinanti;
- in siffatto contesto normativo, l'accertata presenza di un
fenomeno di inquinamento acustico (pur se non coinvolgente
l'intera collettività) appare sufficiente a concretare
l'eccezionale ed urgente necessità di intervenire a tutela
della salute pubblica con l'efficace strumento previsto
(soltanto) dall'art. 9, primo comma, della citata Legge n.
447/1995;
- la tutela della salute pubblica non presuppone
necessariamente che la situazione di pericolo involga
l'intera collettività ben potendo richiedersi tutela alla
P.A. anche ove sia in discussione la salute di una singola
famiglia (o anche di una sola persona);
- non può essere certamente reputato ordinario strumento di
intervento (sul piano amministrativo) la facoltà
riconosciuta dal Codice Civile al privato interessato di
adire l'Autorità Giudiziaria Ordinaria per far cessare le
immissioni dannose che eccedano la normale tollerabilità
(cfr. TAR Lecce, 11.01.2006, n. 488)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 15.11.2012 n. 1792 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nelle gare da
aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa la c.d. riparametrazione ha la funzione di
ristabilire quanto voluto dalla stazione appaltante nel
bando e, quindi, l’equilibro fra i diversi elementi
qualitativi e quantitativi previsti per la valutazione
dell’offerta. Si attribuisce, così, alla migliore offerta
tecnica il punteggio massimo e, proporzionalmente, si
determina il punteggio a tutte le altre.
Per mezzo di questa operazione, i punteggi relativi alla
qualità hanno lo stesso peso che viene dato al prezzo,
mentre, senza la riparametrazione, per effetto delle formule
matematiche previste dal d.P.R. n. 207/2010 (che
correttamente attribuiscono sempre il massimo punteggio al
ribasso più alto) il prezzo peserebbe, di fatto,
relativamente di più della qualità.
---------------
Il principio secondo cui i pesi proporzionali degli elementi
quantitativi e qualitativi non possono essere modificati
dalla commissione in sede di attribuzione dei punteggi porta
alla conclusione che i punti previsti per l’offerta tecnica
migliore devono essere assegnati per intero, riparametrando,
appunto, l’offerta tecnicamente migliore, con conseguente
assegnazione del punteggio massimo previsto.
Occorre rammentare, del resto che il giudizio operato dalla
commissione non è di tipo assoluto, bensì di tipo relativo:
se ad un’offerta viene assegnato il punteggio massimo,
questo non vuol dire che la stessa costituisce la migliore
offerta in assoluto presente sul mercato, ma significa che
detta offerta è la migliore offerta presentata in una data
procedura di gara e valutata da una data commissione.
Quell’offerta, pertanto, anche se singolarmente considerata
non meriterebbe il massimo punteggio, deve, tuttavia,
ricevere il massimo dei punti una volta che, all’esito del
confronto comparativo, sia risultata la migliore sotto il
profilo tecnico, in quanto, se così non fosse, si
attribuirebbe all’elemento prezzo un peso proporzionalmente
superiore rispetto all’elemento qualitativo, in violazione
di quanto stabilito nella lex specialis.
Infatti, per i criteri di valutazione riguardanti aspetti
dell’offerta aventi natura quantitativa (appunto il prezzo),
all’offerta più conveniente per la stazione appaltante (per
esempio ribasso più alto), è sempre attribuito il
coefficiente uno e, quindi, nel metodo aggregativo
compensatore, il punteggio massimo previsto nel bando.
Qualora non si procedesse nello stesso modo, attribuendo
all’offerta tecnica e qualitativa più favorevole il
coefficiente uno e, quindi, il massimo punteggio previsto
nel bando, verrebbe indebitamente alterato il rapporto
numerico prezzo/qualità, vale a dire il rapporto
proporzionale fondamentale che concretizza, secondo
l’apprezzamento di base dell’amministrazione, il prescelto
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa e che
la stessa stazione appaltante ha manifestato nel bando.
In sostanza, se alla migliore offerta sul piano della
qualità non venisse attribuito il coefficiente uno,
aumenterebbe, nel giudizio, il peso del prezzo, con una
conseguente alterazione dell’obiettivo prefissato dalla
stazione appaltante.
---------------
Nell’ambito delle gare da aggiudicarsi con il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa, quando la lex
specialis preveda due (o più) criteri autonomi per la
valutazione dell’offerta tecnica, occorre rispettare due
diverse “proporzioni”: la prima, “interna” alla
valutazione dell’elemento qualitativo, consiste nel diverso
peso ponderale che la stazione appaltante ha attribuito a
ciascuna sub componente al fine di valutare l’offerta
tecnicamente migliore; la seconda, “esterna” alla
valutazione della componente tecnica, consiste nel diverso
peso ponderale che la stazione appaltante ha assegnato
rispettivamente all’elemento qualità tecnica e all’elemento
prezzo al fine di individuare quella che nel complesso
risulta l’offerta economicamente più vantaggiosa.
Occorre anzitutto evidenziare che nelle gare da aggiudicarsi
con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa
la c.d. riparametrazione ha la funzione di ristabilire
quanto voluto dalla stazione appaltante nel bando e, quindi,
l’equilibro fra i diversi elementi qualitativi e
quantitativi previsti per la valutazione dell’offerta. Si
attribuisce, così, alla migliore offerta tecnica il
punteggio massimo (nel caso di specie 70 punti) e,
proporzionalmente, si determina il punteggio a tutte le
altre.
Per mezzo di questa operazione, i punteggi relativi alla
qualità hanno lo stesso peso che viene dato al prezzo,
mentre, senza la riparametrazione, per effetto delle formule
matematiche previste dal d.P.R. n. 207/2010 (che
correttamente attribuiscono sempre il massimo punteggio al
ribasso più alto) il prezzo peserebbe, di fatto,
relativamente di più della qualità (cfr., in tal senso,
anche la determinazione dell’Autorità di vigilanza sui
contratti pubblici n. 7 del 24.11.2011).
Se si accogliesse la tesi sostenuta dalla società
ricorrente, la proporzione tra prezzo e qualità tecnica
nella valutazione complessiva dell’offerta sarebbe alterata
rispetto a quanto voluto dal bando. In base alla lex
specialis, infatti, il prezzo deve “pesare” nella
valutazione complessiva solo per il 20% (20 punti su 100
punti attribuibili) e la qualità tecnica (sebbene scomposta
in due voci autonome) deve comunque pesare per il 70% (70
punti su 100 complessivi attribuibili).
Se l’offerta migliore dal punto di vista tecnico ricevesse
62 punti, anziché 70, questa proporzione verrebbe
chiaramente alterata, in quanto l’elemento prezzo finirebbe,
inevitabilmente, per pesare di più rispetto a quanto voluto
dalla stazione appaltante.
Il principio secondo cui i pesi proporzionali degli elementi
quantitativi e qualitativi non possono essere modificati
dalla commissione in sede di attribuzione dei punteggi
porta, quindi, alla conclusione che i punti previsti per
l’offerta tecnica migliore devono essere assegnati per
intero, riparametrando, appunto, l’offerta tecnicamente
migliore, con conseguente assegnazione del punteggio massimo
previsto.
Occorre rammentare, del resto che il giudizio operato dalla
commissione non è di tipo assoluto, bensì di tipo relativo:
se ad un’offerta viene assegnato il punteggio massimo,
questo non vuol dire che la stessa costituisce la migliore
offerta in assoluto presente sul mercato, ma significa che
detta offerta è la migliore offerta presentata in una data
procedura di gara e valutata da una data commissione.
Quell’offerta, pertanto, anche se singolarmente considerata
non meriterebbe il massimo punteggio, deve, tuttavia,
ricevere il massimo dei punti una volta che, all’esito del
confronto comparativo, sia risultata la migliore sotto il
profilo tecnico, in quanto, se così non fosse, si
attribuirebbe all’elemento prezzo un peso proporzionalmente
superiore rispetto all’elemento qualitativo, in violazione
di quanto stabilito nella lex specialis.
Infatti, per i criteri di valutazione riguardanti aspetti
dell’offerta aventi natura quantitativa (appunto il prezzo),
all’offerta più conveniente per la stazione appaltante (per
esempio ribasso più alto), è sempre attribuito il
coefficiente uno e, quindi, nel metodo aggregativo
compensatore, il punteggio massimo previsto nel bando.
Qualora non si procedesse nello stesso modo, attribuendo
all’offerta tecnica e qualitativa più favorevole il
coefficiente uno e, quindi, il massimo punteggio previsto
nel bando, verrebbe indebitamente alterato il rapporto
numerico prezzo/qualità, vale a dire il rapporto
proporzionale fondamentale che concretizza, secondo
l’apprezzamento di base dell’amministrazione, il prescelto
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa e che
la stessa stazione appaltante ha manifestato nel bando.
In sostanza, se alla migliore offerta sul piano della
qualità non venisse attribuito il coefficiente uno,
aumenterebbe, nel giudizio, il peso del prezzo, con una
conseguente alterazione dell’obiettivo prefissato dalla
stazione appaltante (in questi termini, cfr. ancora le
condivisibili considerazioni dell’Autorità per la vigilanza
sui contratti pubblici determinazione n. 7 del 2011).
A differenza di quanto sostiene l’appellante, tale
principio non può mutare laddove, come nel caso di specie,
la lex specialis di gara preveda per la valutazione
dell’offerta tecnica due criteri autonomi stabilendo per
ciascuno di essi un punteggio massimo attribuibile.
In questo caso, il corretto modus procedendi per
rispettare la lex specialis è proprio quello seguito
dalla commissione nel caso di specie, consistente
nell’attribuire a ciascun elemento qualitativo il punteggio
massimo previsto dal bando e poi, individuata sulla base di
questa prima riparametrazione l’offerta migliore dal punto
di vista tecnico, effettuare una seconda riparametrazione
volta ad assicurare che l’incidenza relativa della voce
qualità tecnica sul punteggio finale sia sempre in grado di
rispecchiare la proporzione voluta dalla stazione
appaltante.
In questo modo, infatti, si evita di alterare, per un verso,
il peso ponderale di ciascun elemento qualitativo rispetto
alla valutazione complessiva della qualità tecnica e, per
altro verso, il peso ponderale complessivo della qualità
tecnica rispetto all’elemento quantitativo rappresentato dal
prezzo.
Ed infatti, nell’ambito delle gare da aggiudicarsi con il
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, quando
la lex specialis preveda due (o più) criteri autonomi
per la valutazione dell’offerta tecnica, occorre rispettare
due diverse “proporzioni”: la prima, “interna”
alla valutazione dell’elemento qualitativo, consiste nel
diverso peso ponderale che la stazione appaltante ha
attribuito a ciascuna sub componente al fine di valutare
l’offerta tecnicamente migliore; la seconda, “esterna”
alla valutazione della componente tecnica, consiste nel
diverso peso ponderale che la stazione appaltante ha
assegnato rispettivamente all’elemento qualità tecnica e
all’elemento prezzo al fine di individuare quella che nel
complesso risulta l’offerta economicamente più vantaggiosa
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 14.11.2012 n. 5754 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI:
Il
principio secondo cui la tempestiva impugnazione dell’atto
presupposto esime dall’onere di impugnare l’atto
consequenziale, al quale si estende l’effetto caducante
derivante dall’annullamento dell’atto presupposto, non può
trovare applicazione nel caso in cui l’atto consequenziale
incide in via immediata e diretta sulla posizione di
soggetti terzi rispetto al giudizio instaurato contro l’atto
presupposto.
In tal caso, vi è onere di impugnare anche l’atto
consequenziale e di notificare l’impugnazione al soggetto
controinteressato o vi è quanto meno l’onere di integrare il
contraddittorio in relazione all’originario giudizio contro
l’atto presupposto.
Infatti, la giurisprudenza ha chiarito che l’annullamento
dell’atto presupposto non può comportare l’automatica
caducazione dell’atto consequenziale, quando l’atto
posteriore abbia conferito un bene o una qualche utilità ad
un soggetto non qualificabile come parte necessaria nel
giudizio che ha per oggetto l’atto presupposto.
Tale principio esonera il ricorrente dall’onere di impugnare
tutti gli atti strettamente esecutivi e conseguenti rispetto
a quello presupposto impugnato a condizione che con tali
atti non vengano in gioco posizioni di terzi, in quanto tale
eventualità comporta la necessità di consentire la loro
difesa in giudizio non già attraverso il rimedio
dell’opposizione di terzo, che costituisce pur sempre una
patologia del processo, ma attraverso la notificazione del
ricorso da proporre avverso l’atto conseguente.
---------------
E' stato ritenuto esservi un onere di immediata
impugnazione:
a) delle clausole del bando di gara che, imponendo requisiti
soggettivi di partecipazione non posseduti dal concorrente,
gli impediscono in via immediata e diretta la
partecipazione;
b) delle clausole del bando in quei limitati casi in cui gli
oneri imposti all’interessato ai fini della partecipazione
risultino manifestamente incomprensibili o implicanti oneri
per la partecipazione del tutto sproporzionati per eccesso
rispetto ai contenuti della gara o della procedura
concorsuale.
Salvo puntuali eccezioni, la legittimazione all’impugnazione
spetta a chi partecipa alla gara e che le eccezioni alla
regola sono:
- la contestazione in radice della scelta di indire la
procedura (con la legittimazione in capo al titolare di un
rapporto incompatibile con il nuovo affidamento);
- la contestazione dell’affidamento diretto senza gara (con
la legittimazione della “impresa di settore”);
- la contestazione di una clausola del bando ‘escludente’.
Il principio secondo cui la tempestiva impugnazione
dell’atto presupposto esime dall’onere di impugnare l’atto
consequenziale, al quale si estende l’effetto caducante
derivante dall’annullamento dell’atto presupposto, non può
trovare applicazione nel caso in cui l’atto consequenziale
incide in via immediata e diretta sulla posizione di
soggetti terzi rispetto al giudizio instaurato contro l’atto
presupposto.
In tal caso, vi è onere di impugnare anche l’atto
consequenziale e di notificare l’impugnazione al soggetto
controinteressato o vi è quanto meno l’onere di integrare il
contraddittorio in relazione all’originario giudizio contro
l’atto presupposto.
Infatti, la giurisprudenza ha chiarito che l’annullamento
dell’atto presupposto non può comportare l’automatica
caducazione dell’atto consequenziale, quando l’atto
posteriore abbia conferito un bene o una qualche utilità ad
un soggetto non qualificabile come parte necessaria nel
giudizio che ha per oggetto l’atto presupposto (Cons. St.,
sez. VI, 30.10.2001 n. 5677; Id., sez. V, n. 447/1994;
Cons. giust. sic., n. 154/1996; n. 398/1997).
Tale principio esonera il ricorrente dall’onere di impugnare
tutti gli atti strettamente esecutivi e conseguenti rispetto
a quello presupposto impugnato a condizione che con tali
atti non vengano in gioco posizioni di terzi, in quanto tale
eventualità comporta la necessità di consentire la loro
difesa in giudizio non già attraverso il rimedio
dell’opposizione di terzo, che costituisce pur sempre una
patologia del processo, ma attraverso la notificazione del
ricorso da proporre avverso l’atto conseguente (Cons. St.,
sez. VI, 03.05.2007 n. 1948).
---------------
La decisione della adunanza plenaria 29.01.2003, n. 1,
ha ritenuto esservi un onere di immediata impugnazione:
a) delle clausole del bando di gara che, imponendo requisiti
soggettivi di partecipazione non posseduti dal concorrente,
gli impediscono in via immediata e diretta la
partecipazione;
b) delle clausole del bando in quei limitati casi in cui gli
oneri imposti all’interessato ai fini della partecipazione
risultino manifestamente incomprensibili o implicanti oneri
per la partecipazione del tutto sproporzionati per eccesso
rispetto ai contenuti della gara o della procedura
concorsuale.
La medesima decisione non si è invece occupata funditus dei
casi (esaminati anche dalla giurisprudenza comunitaria) in
cui l’impugnazione sia stata proposta da una impresa che non
abbia presentato domanda di partecipazione alla gara.
La sentenza della adunanza plenaria n. 4/2011 ha
chiarito che, salvo puntuali eccezioni, la legittimazione
all’impugnazione spetta a chi partecipa alla gara (§§ 37-40)
e che le eccezioni alla regola sono (§ 39):
- la contestazione in radice della scelta di indire la
procedura (con la legittimazione in capo al titolare di un
rapporto incompatibile con il nuovo affidamento);
- la contestazione dell’affidamento diretto senza gara (con
la legittimazione della “impresa di settore”);
- la contestazione di una clausola del bando ‘escludente’
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 14.11.2012 n. 5748 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L'obbligo, ex art. 10 l.
n. 241 del 1990, di esame delle memorie e dei documenti
difensivi presentati dagli interessati nel corso del
procedimento amministrativo, non impone all'amministrazione
una formale, analitica confutazione in merito ad ogni
argomento esposto, essendo sufficientemente adeguata, alla
luce dell'art. 3 della stessa legge, un'esternazione
motivazionale che renda, nella sostanza, percepibile la
ragione del mancato adeguamento dell'azione amministrativa
alle loro deduzioni partecipative.
La giurisprudenza è difatti concorde nell’affermare che l'obbligo, ex
art. 10 l. n. 241 del 1990, di esame delle memorie e dei
documenti difensivi presentati dagli interessati nel corso
del procedimento amministrativo, non impone
all'amministrazione una formale, analitica confutazione in
merito ad ogni argomento esposto, essendo sufficientemente
adeguata, alla luce dell'art. 3 della stessa legge,
un'esternazione motivazionale che renda, nella sostanza,
percepibile la ragione del mancato adeguamento dell'azione
amministrativa alle loro deduzioni partecipative (cfr., da
ultimo, Consiglio di Stato, sez. VI, 29.05.2012, n. 3210)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.11.2012 n. 2757 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il fatto che i titoli abilitativi edilizi vengano
rilasciati ex lege con salvezza dei diritti dei terzi
significa che i diritti dei terzi non possono venire lesi
dal provvedimento finale amministrativo ma non già che
l’ente locale non li debba considerare, nell’ambito della
fase istruttoria di rilascio del titolo. In tale fase,
infatti, sussiste l’obbligo per il Comune di verificare il
rispetto -da parte dell’istante- dei limiti privatistici, a
condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti o
immediatamente conoscibili o non contestati, di modo che il
controllo da parte del Comune si traduca in una semplice
presa d’atto dei limiti medesimi, senza necessità di
procedere ad un’accurata ed approfondita disamina dei
rapporti tra i privati.
Per giurisprudenza costante, quindi, qualora i lavori
edilizi siano da eseguirsi su parti comuni e si tratti di
opere non connesse all'uso normale della cosa comune, essi
abbisognano del previo assenso dei comproprietari anche in
relazione agli aspetti pubblicistici dell'attività
edificatoria, in sede di rilascio del titolo autorizzativo.
Il diniego del rilascio
di un titolo abilitativo (sia esso una variante al permesso
di costruire già rilasciato oppure un permesso di costruire
in sanatoria) trova fondamento nell’art. 11, d.P.R. n.
380/2001, ai sensi del quale “Il permesso di costruire è
rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia
titolo per richiederlo”.
Il fatto che i titoli abilitativi edilizi vengano rilasciati
ex lege con salvezza dei diritti dei terzi significa che i
diritti dei terzi non possono venire lesi dal provvedimento
finale amministrativo ma non già che l’ente locale non li
debba considerare, nell’ambito della fase istruttoria di
rilascio del titolo. In tale fase, infatti, sussiste
l’obbligo per il Comune di verificare il rispetto -da parte
dell’istante- dei limiti privatistici, a condizione che
tali limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente
conoscibili o non contestati, di modo che il controllo da
parte del Comune si traduca in una semplice presa d’atto dei
limiti medesimi, senza necessità di procedere ad un’accurata
ed approfondita disamina dei rapporti tra i privati (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 04.05.2010, n. 2546; Tar Umbria,
sez. I, 28.10.2011, n. 333).
Per giurisprudenza costante, quindi, qualora i lavori
edilizi siano da eseguirsi su parti comuni e si tratti di
opere non connesse all'uso normale della cosa comune, essi
abbisognano del previo assenso dei comproprietari anche in
relazione agli aspetti pubblicistici dell'attività
edificatoria, in sede di rilascio del titolo autorizzativo
(Consiglio di Stato sez. VI, 20.12.2011, n. 6731; sez. IV, 10.03.2011, n. 1566; sez. VI, 10.10.2006, n.
6017; sez. V, 24.09.2003, n. 5445; Tar Campania,
Napoli, sez. VII, 05.05.2010, n. 2663; Tar Lombardia
Brescia, sez. I, 28.05.2007, n. 460).
Nel caso di specie, la pensilina realizzata dal ricorrente,
sebbene ancorata sul suo fabbricato, aggetta -per una
lunghezza di 5,60 m. e la profondità di 1,40 m.- su di
un’area che è, pacificamente, di proprietà comune di più
soggetti.
L’occupazione dello spazio aereo sovrastante tale area –in
considerazione delle dimensioni della pensilina e del suo
carattere permanente, in quanto stabilmente ancorata al
fabbricato- va ad incidere sul diritto di comproprietà
degli altri soggetti e non è riconducibile a quell'utilizzo
della cosa comune ed alle modifiche della stessa funzionali
a detto utilizzo, ammessi ai sensi degli artt. 1102 e 1120
c.c. (cfr. Cassazione civile sez. II, 20.08.2002, n.
12258, secondo cui la colonna d'aria sovrastante un'area
appartiene anch'essa al proprietario e, a norma del comma 2
dell'art. 840 c.c., l'immissione degli sporti nello spazio
aereo sovrastante il fondo del vicino è consentita solo
quando costui non abbia interesse ad escludere l'immissione
stessa, ossia quando questa intervenga ad un'altezza dal
suolo tale da non pregiudicare un qualche concreto,
legittimo interesse del proprietario del fondo, in relazione
alle concrete possibilità di utilizzazione dello spazio).
A fronte dell’assenza del consenso degli altri
comproprietari -e anzi di un dissenso espressamente
manifestato- legittimamente l’amministrazione ha negato il
rilascio del titolo, adottando un provvedimento
adeguatamente motivato e supportato da coerenti risultanze
istruttorie
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.11.2012 n. 2757 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La pensilina, di ampie dimensioni e stabilmente
ancorata al fabbricato, non può essere considerata di natura
pertinenziale, dando invece luogo ad una modificazione della
sagoma e del prospetto dell'edificio comportante il previo
rilascio di titolo abilitativo espresso.
La qualificazione
dell’abuso quale intervento eseguito in assenza di permesso
di costruire ed il richiamo all’art. 31, d.P.R. n. 380/2001
sono corretti.
La pensilina, di ampie dimensioni e stabilmente ancorata al
fabbricato, non può, difatti, essere considerata di natura
pertinenziale, dando invece luogo ad una modificazione della
sagoma e del prospetto dell'edificio comportante il previo
rilascio di titolo abilitativo espresso (cfr. Consiglio
Stato, sez. IV, 29.04.2011, n. 2549)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.11.2012 n. 2757 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le osservazioni dei privati ai progetti di
strumenti urbanistici sono un mero apporto collaborativo
alla formazione di detti strumenti e non danno luogo a
peculiari aspettative, con la conseguenza che il loro
rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo
sufficiente che esse siano state esaminate e ritenute in
contrasto con gli interessi e le considerazioni generali
poste a base della formazione del piano.
Per costante giurisprudenza, le osservazioni dei privati ai
progetti di strumenti urbanistici sono un mero apporto
collaborativo alla formazione di detti strumenti e non danno
luogo a peculiari aspettative, con la conseguenza che il
loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo
sufficiente che esse siano state esaminate e ritenute in
contrasto con gli interessi e le considerazioni generali
poste a base della formazione del piano (Cons. Stato, sez. IV,
07.07.2008, n. 3358)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.11.2012 n. 2756 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Non sussiste alcun
obbligo per il Comune di dare comunicazione ai proprietari
frontisti o vicini dell'avvio del procedimento diretto al
rilascio di concessione edilizia, e ciò perché gli interessi
coinvolti dal provvedimento con cui si consente la
trasformazione edilizia del territorio sono di tale varietà
ed ampiezza da rendere difficilmente individuabili tutti i
soggetti che dall'emanazione dell'atto potrebbero ricevere
nocumento.
Non vi è, infatti,
violazione degli artt. 7 e 8, l. n. 241/1990, in quanto, per
giurisprudenza costante, non sussiste alcun obbligo per il
Comune di dare comunicazione ai proprietari frontisti o
vicini dell'avvio del procedimento diretto al rilascio di
concessione edilizia, e ciò perché gli interessi coinvolti
dal provvedimento con cui si consente la trasformazione
edilizia del territorio sono di tale varietà ed ampiezza da
rendere difficilmente individuabili tutti i soggetti che
dall'emanazione dell'atto potrebbero ricevere nocumento
(cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 31.07.2009, n. 4847; TAR
Liguria, sez. I, 10.07.2009, n. 1736)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.11.2012 n. 2756 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il Comune ha l'obbligo,
nel corso dell'istruttoria sul rilascio del permesso di
costruire, di verificare che esista il titolo per
intervenire sull'immobile per il quale è richiesto il titolo
edilizio e che, quindi, questo sia rilasciato al
proprietario dell'area o a chi abbia titolo per richiederlo.
A carico dell'amministrazione incombe, però, solo tale
adempimento e non quello di compiere complesse ricognizioni
giuridico-documentali ovvero accertamenti in ordine ad
eventuali pretese che potrebbero essere avanzate da soggetti
estranei al rapporto concessorio.
Il Comune, invero, nel verificare l'esistenza in capo al
richiedente il permesso edilizio di un idoneo titolo di
godimento sull'immobile, non si assume il compito di
risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti
private in ordine all'assetto proprietario, ma accerta
unicamente il requisito della legittimazione soggettiva di
colui che richiede il permesso.
Secondo il consolidato
orientamento della giurisprudenza amministrativa, il Comune
ha l'obbligo, nel corso dell'istruttoria sul rilascio del
permesso di costruire, di verificare che esista il titolo
per intervenire sull'immobile per il quale è richiesto il
titolo edilizio e che, quindi, questo sia rilasciato al
proprietario dell'area o a chi abbia titolo per richiederlo
(v. ex multis: Cons. Stato, sez. V, 07.07.2005 n. 3730;
TAR Lombardia, Brescia, 19.10.2005 n. 995).
A carico dell'amministrazione incombe, però, solo tale
adempimento e non quello di compiere complesse ricognizioni
giuridico-documentali ovvero accertamenti in ordine ad
eventuali pretese che potrebbero essere avanzate da soggetti
estranei al rapporto concessorio.
Il Comune, invero, nel verificare l'esistenza in capo al
richiedente il permesso edilizio di un idoneo titolo di
godimento sull'immobile, non si assume il compito di
risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti
private in ordine all'assetto proprietario, ma accerta
unicamente il requisito della legittimazione soggettiva di
colui che richiede il permesso (Cons. Stato, sez. IV -
sentenza 06.03.2012 n. 1270)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.11.2012 n. 2756 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il permesso di costruire
è un atto amministrativo che rende legittima l'attività
edilizia nell'ordinamento pubblicistico e regola il rapporto
che in relazione a quell'attività si pone in essere tra
l'autorità amministrativa che lo emette ed il soggetto a
favore del quale è emesso, ma non attribuisce a favore di
tale soggetto diritti soggettivi conseguenti all'attività
stessa, la cui titolarità deve essere sempre verificata alla
stregua della disciplina fissata dal diritto comune, con le
consentite integrazioni della normativa speciale di cui
all'art. 872 c.c. ed alle norme da esso richiamate.
In ogni caso, il permesso
di costruire è un atto amministrativo che rende legittima
l'attività edilizia nell'ordinamento pubblicistico e regola
il rapporto che in relazione a quell'attività si pone in
essere tra l'autorità amministrativa che lo emette ed il
soggetto a favore del quale è emesso, ma non attribuisce a
favore di tale soggetto diritti soggettivi conseguenti
all'attività stessa, la cui titolarità deve essere sempre
verificata alla stregua della disciplina fissata dal diritto
comune, con le consentite integrazioni della normativa
speciale di cui all'art. 872 c.c. ed alle norme da esso
richiamate (Cons. Stato, sez. V, 07.09.2009, n. 5223;
TAR Milano Lombardia sez. II, 28.04.2010, n. 1168)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.11.2012 n. 2756 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La nozione di
“pertinenza” in senso urbanistico differisce notevolmente da
quella civilistica (cfr. per quest’ultima, l’art. 817 del
codice civile), essendo il carattere pertinenziale in
materia urbanistica circoscritto ad opere di limitatissima
superficie o volume (ad esempio i volumi per il ricovero di
impianti tecnologici), ma non a manufatti di ampie
dimensioni (nel caso di specie il manufatto abusivo
contraddistinto con il n. 1 nell’ingiunzione impugnata ha
una superficie di metri 4 x 7 ed un’altezza di metri 2,9;
mentre il manufatto n. 2 ha superficie di metri 11,4 x 8,2
ed altezza di metri 4,25).
Nel quarto motivo si sostiene, in primo luogo, che due delle opere
oggetto dell’ordinanza impugnata (manufatto ad uso ufficio
ed abitazione di custodia), sarebbero insuscettibili di
autonomo utilizzo e prive di accesso all’area pubblica, il
che escluderebbe la legittimità della loro demolizione.
L’asserzione difensiva è palesemente infondata, visto che le
opere di cui sopra non assumono certo un oggettivo carattere
pertinenziale o di servizio, tenuto conto della loro
dimensione e della loro autonomia sotto il profilo
urbanistico-edilizio: a tale proposito è sufficiente l’esame
dell’ingiunzione di demolizione e dei suoi allegati (cfr.
doc. 1 del ricorrente e doc. 1 del resistente), per
comprendere che tutti i fabbricati abusivi (cfr. la pianta
degli edifici e la documentazione fotografica di cui al doc.
1 del Comune), hanno superfici e volumi tali da escluderne
ogni carattere pertinenziale.
Sul punto, si ricordi ancora che la nozione di “pertinenza”
in senso urbanistico differisce notevolmente da quella
civilistica (cfr. per quest’ultima, l’art. 817 del codice
civile), essendo il carattere pertinenziale in materia
urbanistica circoscritto ad opere di limitatissima
superficie o volume (ad esempio i volumi per il ricovero di
impianti tecnologici), ma non a manufatti di ampie
dimensioni (cfr. tra le tante, TAR Toscana, sez. III,
27.09.2012, n. 1568; si ricordi che nel caso di specie il
manufatto abusivo contraddistinto con il n. 1
nell’ingiunzione impugnata ha una superficie di metri 4 x 7
ed un’altezza di metri 2,9; mentre il manufatto n. 2 ha
superficie di metri 11,4 x 8,2 ed altezza di metri 4,25)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.11.2012 n. 2751 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La giurisprudenza della
scrivente Sezione ha affermato la necessità di un titolo
edilizio per le opere di asfaltatura di ampie porzioni di
terreno, che hanno rilevanza urbanistica quanto meno in
termini di incremento di superficie.
In ogni caso, la copertura con bitume e cemento era
finalizzata al mutamento abusivo della pregressa
destinazione d’uso (standard per attrezzature di interesse
generale, secondo il previgente PRG), per realizzare una
illegittima destinazione produttiva, per cui anche sotto
tale profilo l’intervento non poteva sottrarsi all’obbligo
di titolo edilizio.
Deve quindi escludersi l’illegittimità dell’ingiunzione di
demolizione della copertura in cemento e bitume, con
conseguente legittimità dell’acquisizione gratuita in caso
di inottemperanza all’ordine di rimozione della copertura
stessa.
Nella seconda parte del
quarto motivo, viene asserito che l’area di pertinenza
volumetrica coinciderebbe con l’area di deposito e
movimentazione rottami, che sarebbe legittimamente
utilizzata per l’attività commerciale.
Anche tale argomento difensivo è palesemente privo di
pregio.
Innanzi tutto, occorre premettere che l’intera area dove il
ricorrente asserisce di esercitare “legittimamente” la
propria attività, ha attualmente destinazione in parte
agricola ed in parte di sede stradale, per effetto del Piano
di Governo del Territorio (PGT), approvato con deliberazione
consiliare n. 29 del 20.04.2009 (cfr. doc. 2 del resistente,
certificato di destinazione urbanistica); mentre la
pregressa destinazione era quella di area “a standard” (cfr.
doc. 16 del resistente).
L’esponente –e di ciò è dato atto a pag. 4 del proprio atto
introduttivo– ha impugnato il PGT davanti al TAR Lombardia,
lamentando la destinazione agricola dell’area, ma il ricorso
(RG 2352/2009), è stato respinto con sentenza della II
Sezione n. 1277 dell’08.05.2012.
Vista, quindi, la destinazione attuale e quella pregressa
dell’area dove insiste l’attività imprenditoriale
dell’esponente, appare prima di tutto legittima
l’ingiunzione di demolizione con riguardo non solo ai
manufatti indicati con i numeri 1, 2 e 3 nel provvedimento
impugnato, ma anche all’abuso contraddistinto con il numero
4 e consistente nella pavimentazione, realizzata in parte in
cemento e per l’altra parte in bitume, dell’area di
pertinenza degli edifici, per una superficie complessiva di
380 + 785 = 1.165 metri quadrati (cfr. doc. 1 del
resistente).
Infatti, la giurisprudenza della scrivente Sezione ha
affermato la necessità di un titolo edilizio per le opere di
asfaltatura di ampie porzioni di terreno, che hanno
rilevanza urbanistica quanto meno in termini di incremento
di superficie (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II,
22.11.2010, n. 7306, con la giurisprudenza ivi richiamata).
In ogni caso, la copertura con bitume e cemento era
finalizzata al mutamento abusivo della pregressa
destinazione d’uso (standard per attrezzature di interesse
generale, secondo il previgente PRG), per realizzare una
illegittima destinazione produttiva, per cui anche sotto
tale profilo l’intervento non poteva sottrarsi all’obbligo
di titolo edilizio (cfr. la sentenza del Consiglio di Stato,
sez. V, n. 2450/2012, citata correttamente da parte della
difesa del Comune).
Deve quindi escludersi l’illegittimità dell’ingiunzione di
demolizione della copertura in cemento e bitume, con
conseguente legittimità dell’acquisizione gratuita in caso
di inottemperanza all’ordine di rimozione della copertura
stessa
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.11.2012 n. 2751 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Un
giudizio estetico negativo (ndr: tinteggiatura facciate
esterne) può aversi solo con riferimento ad aspetti
(attinenti, per esempio, all’uso di particolari materiali
e/o colori) espressamente previsti e disciplinati dalla
normativa edilizia e/o paesaggistica, i quali debbono
pertanto essere adeguatamente individuati in sede
motivazionale mediante il richiamo alle pertinenti
disposizioni.
L’art. 3.0.1 del regolamento edilizio stabilisce che “Le
parti delle case e degli edifici in genere prospettanti
sulle vie e spazi pubblici … devono rispondere alle esigenze
del decoro edilizio tanto per ciò che si riferisce alla
corretta armonia delle linee, quanto per materiali da
impiegarsi nelle opere di decorazione e per tinteggiature”.
L’art. 23 delle N.T.A. del P.R.G. per tempo vigente dispone
che “Quando per effetto dell’esecuzione del PRG anche una
sola parte di edificio venga ad essere esposta alla pubblica
vista e ne derivi un deturpamento dell’ambiente urbano, è
facoltà del Comune di imporre ai proprietari di sistemare le
fronti secondo progetto da approvarsi”.
La giurisprudenza ha affermato che un giudizio estetico
negativo può aversi solo con riferimento ad aspetti
(attinenti, per esempio, all’uso di particolari materiali
e/o colori) espressamente previsti e disciplinati dalla
normativa edilizia e/o paesaggistica, i quali debbono
pertanto essere adeguatamente individuati in sede
motivazionale mediante il richiamo alle pertinenti
disposizioni (TAR Liguria, sez. I – 20/04/2010 n. 1834).
Nella fattispecie dall’esame delle fotografie a colori
depositate in atti non traspare alcuna lesione del decoro
urbano, né soprattutto alcuno “stridente contrasto” con il
contesto circostante l’edificio dei ricorrenti. Quest’ultimo
corrisponde perfettamente alla descrizione dagli stessi
effettuata nella memoria finale, in quanto si presenta
finito con un intonaco di malta cementizia di colore
uniforme, in buono stato di manutenzione ed in alcun modo ammalorato (non sono infatti visibili distacchi o
rigonfiamenti – cfr. doc. 7). E’ altresì evidente la
somiglianza con una pluralità di fabbricati dell’abitato,
ugualmente terminati con intonaco “a vista”, mentre
si dà conto di altri manufatti connotati da un’evidente
situazione di degrado. A queste considerazioni i ricorrenti
hanno aggiunto il rilievo che l’edificio non ricade in zona
interessata da vincolo paesaggistico
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 14.11.2012 n. 1787 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
I provvedimenti con cui
l'Ente locale rivendica somme a conguaglio dovute a titolo
di oblazione o di oneri concessori non abbisognano di
particolare motivazione, in quanto la determinazione di tali
somme costituisce il risultato di una mera operazione
materiale, applicativa di parametri stabiliti dalla legge o
da norme di natura regolamentare stabilite
dall'Amministrazione, sicché l'interessato può solo
contestare l'erroneità dei conteggi effettuati dall'Ente.
Lo sviluppo logico di questi passaggi è presente alla parte ricorrente,
che lo ripropone nella parte espositiva del suo ricorso, il
che rende ragione dell’inconsistenza dell’ultima censura,
argomentata sull’asserita violazione dell’art. 3 L.
241/1990; tanto più che –per costante giurisprudenza- i
provvedimenti con cui l'Ente locale rivendica somme a
conguaglio dovute a titolo di oblazione o di oneri
concessori non abbisognano di particolare motivazione, in
quanto la determinazione di tali somme costituisce il
risultato di una mera operazione materiale, applicativa di
parametri stabiliti dalla legge o da norme di natura
regolamentare stabilite dall'Amministrazione, sicché
l'interessato può solo contestare l'erroneità dei conteggi
effettuati dall'Ente (cfr., ex multis, TAR Lecce sez. III,
10.01.2012, n. 16; TAR Catania sez. I, 07.07.2010, n. 2847; TAR Lazio sez. II, 15.04.2009,
n. 3862)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 14.11.2012 n. 1221 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il contributo relativo al
costo di costruzione (art. 6, legge n. 10/1977), definibile
acausale, è riconducibile all'attività costruttiva ex se
considerata e, correlandosi direttamente all'uso
edificatorio del suolo ed ai potenziali vantaggi economici
che ne discendono, è sostanzialmente configurabile alla
stregua dei prelievi di natura paratributaria ed è sempre
dovuto in presenza di una trasformazione edilizia del
territorio ed in conseguenza della produzione di ricchezza
connessa alla sua utilizzazione.
Al contrario l'imposizione del contributo di urbanizzazione
(art. 5, L. n. 10/1977) -il quale non ha natura di
controprestazione in rapporto sinallagmatico, rispetto al
rilascio della concessione edilizia, ma è assimilabile ai
corrispettivi di diritto pubblico di natura non tributaria,
che svolgono funzione recuperatoria non commisurata né
all'utile dell'operazione né al vantaggio del
concessionario– presenta natura causale e risponde ad una
diversa ratio, che va individuata nella necessità di
ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione,
facendoli gravare sugli interessati che beneficiano delle
utilità derivanti dalla presenza delle opere medesime, in
modo più equo per la comunità.
---------------
Da quanto sopra discende che, nell'ipotesi di variazione di
destinazione d'uso di un immobile senza la realizzazione di
opere, mentre non sussiste il presupposto per il pagamento
della parte di contributo afferente al costo di costruzione,
da riferire al dato oggettivo della realizzazione
dell'edificio, per la parte, invece, che attiene agli oneri
di urbanizzazione, può sussistere il presupposto del
pagamento, occorrendo avere riguardo all'eventuale aumento
del carico urbanistico indotto dalla nuova destinazione
d'uso del manufatto, dovendosi ritenere, per contro, che
tali oneri non siano dovuti ove non sia riscontrabile alcuna
variazione in aumento del carico urbanistico.
---------------
Il cambio di destinazione d'uso, da locale a uso industriale
a locale ad uso commerciale, ha certamente conferito
all'immobile di proprietà della società ricorrente
un'utilizzazione autonoma e produttiva, in relazione alla
quale si giustifica il pagamento delle spese di
urbanizzazione derivanti dal maggior carico urbanistico che
esso comporta per effetto della nuova destinazione.
Invero, la giurisprudenza ha più volte affermato che la
richiesta di pagamento degli oneri di urbanizzazione, in
sede di rilascio della concessione edilizia, deve ritenersi
illegittima ogni volta che non sia ravvisabile un aumento
del carico urbanistico a seguito del realizzato intervento
edilizio; e, correlativamente, legittima nel caso in cui si
sia verificata una variazione in aumento del carico
medesimo, giacché in tale evenienza sussiste il presupposto
che giustifica l'imposizione al titolare del pagamento della
differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la
destinazione originaria e quelli, se maggiori, dovuti per la
nuova destinazione impressa all'immobile.
Con riferimento alle
ulteriori censure va premesso che a fronte della
modificazione della destinazione d'uso di un manufatto
edilizio, la possibilità dello stesso di essere assoggettato
a sanatoria (o condono edilizio) è subordinata al pagamento
degli oneri concessori, vale a dire alla corresponsione di
un contributo commisurato sia all'incidenza delle spese di
urbanizzazione, sia al costo di costruzione.
In proposito, la giurisprudenza ha chiarito che il
contributo relativo al costo di costruzione (art. 6, legge
n. 10/1977), definibile acausale, è riconducibile all'attività
costruttiva ex se considerata e, correlandosi direttamente
all'uso edificatorio del suolo ed ai potenziali vantaggi
economici che ne discendono, è sostanzialmente configurabile
alla stregua dei prelievi di natura paratributaria ed è
sempre dovuto in presenza di una trasformazione edilizia del
territorio ed in conseguenza della produzione di ricchezza
connessa alla sua utilizzazione; al contrario l'imposizione
del contributo di urbanizzazione (art. 5, L. n. 10/1977) -il
quale non ha natura di controprestazione in rapporto
sinallagmatico, rispetto al rilascio della concessione
edilizia, ma è assimilabile ai corrispettivi di diritto
pubblico di natura non tributaria, che svolgono funzione recuperatoria non commisurata né all'utile dell'operazione
né al vantaggio del concessionario (cfr. Cass. Civ., Sez. I,
27.09.1994, n. 7874)– presenta natura causale e
risponde ad una diversa ratio, che va individuata nella
necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di
urbanizzazione, facendoli gravare sugli interessati che
beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle
opere medesime, in modo più equo per la comunità (cfr.
TAR Veneto, 17.06.2002, n. 2877; id., Sez. II, 12.05.1994, n. 394; TAR Salerno, Sez. II, 23.05.2003, n. 548; TAR Toscana, Sez. III, 11.08.2004, n.
3181).
Da quanto sopra discende che, nell'ipotesi di variazione di
destinazione d'uso di un immobile senza la realizzazione di
opere, mentre non sussiste il presupposto per il pagamento
della parte di contributo afferente al costo di costruzione,
da riferire al dato oggettivo della realizzazione
dell'edificio, per la parte, invece, che attiene agli oneri
di urbanizzazione, può sussistere il presupposto del
pagamento, occorrendo avere riguardo all'eventuale aumento
del carico urbanistico indotto dalla nuova destinazione
d'uso del manufatto, dovendosi ritenere, per contro, che
tali oneri non siano dovuti ove non sia riscontrabile alcuna
variazione in aumento del carico urbanistico (cfr. TAR
Veneto, Sez. II, 13.11.2001, n. 3699).
Con riferimento al caso specifico va rilevato che il
cambio di destinazione d'uso, da locale a uso industriale a
locale ad uso commerciale, ha certamente conferito
all'immobile di proprietà della società ricorrente
un'utilizzazione autonoma e produttiva, in relazione alla
quale si giustifica il pagamento delle spese di
urbanizzazione derivanti dal maggior carico urbanistico che
esso comporta per effetto della nuova destinazione (cfr.
TAR Veneto Sez. II Sent., 12.07.2007, n. 2438; TAR
Lazio sez. II 17.05.2005, n. 3844).
Invero, la giurisprudenza ha più volte affermato che la
richiesta di pagamento degli oneri di urbanizzazione, in
sede di rilascio della concessione edilizia, deve ritenersi
illegittima ogni volta che non sia ravvisabile un aumento
del carico urbanistico a seguito del realizzato intervento
edilizio; e, correlativamente, legittima nel caso in cui si
sia verificata una variazione in aumento del carico
medesimo, giacché in tale evenienza sussiste il presupposto
che giustifica l'imposizione al titolare del pagamento della
differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la
destinazione originaria e quelli, se maggiori, dovuti per la
nuova destinazione impressa all'immobile (confr. Cons.
Stato, Sez. IV, 29.04.2004, n. 2611; id., Sez. V, 15.09.1997, n. 959; TAR Milano, Sez. II,
02.10.2003, n. 4502; TAR Bologna, Sez. II, 19.02.2001,
n. 157 e 07.05.1999, n. 259; TAR Veneto, n. 2877/2002,
cit.).
Nel caso di specie, l’incremento del carico urbanistico
costituisce dato pacifico, al pari della sussistenza
dell’obbligo di pagamento degli oneri di urbanizzazione,
risultando controverso unicamente il metodo di liquidazione
degli stessi
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 14.11.2012 n. 1221 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA:
La classificazione
acustica del territorio deve coordinarsi e non sovrapporsi
meccanicamente alla pianificazione urbanistica, essa si
caratterizza per la tendenziale omogeneità con la
zonizzazione degli strumenti urbanistici, la quale
costituisce l'imprescindibile punto di partenza per la
classificazione del territorio.
Tuttavia, deve considerarsi che tale corrispondenza non è
perfettamente biunivoca e che anzi esiste un naturale
scollamento fra le due tipologie di pianificazione, poiché
lo strumento urbanistico disciplina l'assetto del territorio
ai fini prettamente urbanistici ed edilizi, individuando le
zone omogenee con criteri quantitativi, mentre la
classificazione acustica ha riguardo all'effettiva
fruibilità dei luoghi, valendosi di indici qualitativi.
In altri termini, va considerato che, da un punto di vista
funzionale, la pianificazione acustica non si esaurisce in
un'attività di programmazione dell'assetto territoriale in
senso stretto, non essendo diretta ad orientare lo sviluppo
dal punto di vista urbanistico-edilizio, ma è rivolta a
governare l’assetto del territorio sotto il distinto profilo
della tutela ambientale e della salute umana, attraverso la
più coerente ed opportuna localizzazione delle attività
umane in relazione alla loro rumorosità.
Ne consegue che l’interpretazione teleologica della
normativa in questione porta a valorizzare gli interessi
protetti da tale disciplina, desumibili dall'art. 2, comma
1, lett. a), l. n. 447 del 1995, ossia la tutela del riposo
e della salute, la conservazione degli ecosistemi, dei beni
materiali, dei monumenti, dell'ambiente abitativo e
dell'ambiente esterno.
Questo corrobora ulteriormente l’idea, da un lato,
dell’autonomia tra le distinte sfere di pianificazione,
urbanistica ed acustica, dall’altro della necessità, per
l’amministrazione, di operare tali scelte contemperando i
contrapposti interessi in gioco, esercitando, in tale
ambito, poteri connotati da ampia discrezionalità tecnico
amministrativa.
In questa ottica, pertanto, l'esigenza di salvaguardare le
attività economiche già insediate sul territorio non può
essere d’ostacolo a modifiche più restrittive alla
zonizzazione acustica; essa è, piuttosto, come chiarito, un
elemento da tenere in adeguata considerazione nella
comparazione dei contrapposti interessi.
---------------
L'amministrazione gode di un'ampia potestà discrezionale
nella programmazione acustica del territorio, senza
necessità di dare conto in modo specifico delle scelte
adottate in ordine alla classificazione delle singole aree,
salva la coerenza con i principi legislativi e con le linee
generali poste a base della formazione del Piano stesso.
Considerato, infatti, il rapporto di regola-eccezione che
intercorre tra la previsione che introduce il divieto di
salto di classi e quello che ne ammette la deroga, mercé
l’adozione, ove possibile, di adeguati piani di risanamento,
il riferimento alla vicinanza ad una zona mista di classi IV
e III aggiunge un significativo quid pluris, piuttosto che
un deficit di motivazione, all’inidoneità di un piano che
autorizzi siffatta deroga.
L’art. 4, co. 3, lett. a), l. n. 447 del 1995 stabilisce che “le regioni, entro
il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della
presente legge, definiscono con legge:
a) i criteri in base ai quali i comuni, ai sensi
dell'articolo 6, comma 1, lettera a), tenendo conto delle
preesistenti destinazioni d'uso del territorio ed indicando
altresì aree da destinarsi a spettacolo a carattere
temporaneo, ovvero mobile, ovvero all'aperto procedono alla
classificazione del proprio territorio nelle zone previste
dalle vigenti disposizioni per l'applicazione dei valori di
qualità di cui all'articolo 2, comma 1, lettera h),
stabilendo il divieto di contatto diretto di aree, anche
appartenenti a comuni confinanti, quando tali valori si
discostano in misura superiore a 5 dBA di livello sonoro
equivalente misurato secondo i criteri generali stabiliti
dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 01.03.1991, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 57 dell'08.03.1991. Qualora nell'individuazione delle aree nelle
zone già urbanizzate non sia possibile rispettare tale
vincolo a causa di preesistenti destinazioni di uso, si
prevede l'adozione dei piani di risanamento di cui
all'articolo 7…”.
Ad avviso del Collegio occorre partire dall’analisi di
tale normativa.
Ebbene, la stessa normativa, interpretata secondo criteri
letterali e teleologici, assume la preesistente zonizzazione
urbanistica come uno dei parametri attraverso cui
determinare la zonizzazione acustica del territorio: non
dunque come parametro unico ed esclusivo.
Ne è conferma il fatto che il legislatore prescrive di
“tener conto” delle preesistenti destinazioni urbanistiche,
ma non impone di trasfondere le stesse tal quali in
corrispondenti classi acustiche.
Quanto appena evidenziato, trova riscontro
nell’interpretazione già recepita da questo Tribunale,
conformemente all’indirizzo della prevalente giurisprudenza,
secondo la quale “la classificazione acustica del territorio
deve coordinarsi e non sovrapporsi meccanicamente alla
pianificazione urbanistica, essa si caratterizza per la
tendenziale omogeneità con la zonizzazione degli strumenti
urbanistici, la quale costituisce l'imprescindibile punto di
partenza per la classificazione del territorio. Tuttavia,
deve considerarsi che tale corrispondenza non è
perfettamente biunivoca e che anzi esiste un naturale
scollamento fra le due tipologie di pianificazione, poiché
lo strumento urbanistico disciplina l'assetto del territorio
ai fini prettamente urbanistici ed edilizi, individuando le
zone omogenee con criteri quantitativi, mentre la
classificazione acustica ha riguardo all'effettiva
fruibilità dei luoghi, valendosi di indici qualitativi” (Tar
Lombardia Milano, sez. IV 13.12.2010 n. 7545; Tar
Veneto Venezia, sez. III 12.01.2011 n. 24).
In altri termini, va considerato che, da un punto di vista
funzionale, la pianificazione acustica non si esaurisce in
un'attività di programmazione dell'assetto territoriale in
senso stretto, non essendo diretta ad orientare lo sviluppo
dal punto di vista urbanistico-edilizio, ma è rivolta a
governare l’assetto del territorio sotto il distinto profilo
della tutela ambientale e della salute umana, attraverso la
più coerente ed opportuna localizzazione delle attività
umane in relazione alla loro rumorosità.
Ne consegue che l’interpretazione teleologica della
normativa in questione porta a valorizzare gli interessi
protetti da tale disciplina, desumibili dall'art. 2, comma 1,
lett. a), l. n. 447 del 1995, ossia la tutela del riposo e
della salute, la conservazione degli ecosistemi, dei beni
materiali, dei monumenti, dell'ambiente abitativo e
dell'ambiente esterno.
Questo corrobora ulteriormente l’idea, da un lato,
dell’autonomia tra le distinte sfere di pianificazione,
urbanistica ed acustica, dall’altro della necessità, per
l’amministrazione, di operare tali scelte contemperando i
contrapposti interessi in gioco, esercitando, in tale
ambito, poteri connotati da ampia discrezionalità tecnico
amministrativa.
In questa ottica, pertanto, l'esigenza di salvaguardare le
attività economiche già insediate sul territorio non può
essere d’ostacolo a modifiche più restrittive alla
zonizzazione acustica; essa è, piuttosto, come chiarito, un
elemento da tenere in adeguata considerazione nella
comparazione dei contrapposti interessi.
---------------
Tralasciato il profilo
secondo cui, inquadrato il piano di zonizzazione acustica
del territorio comunale tra i regolamenti, l'amministrazione
gode di un'ampia potestà discrezionale nella programmazione
acustica del territorio, senza necessità di dare conto in
modo specifico delle scelte adottate in ordine alla
classificazione delle singole aree, salva la coerenza con i
principi legislativi e con le linee generali poste a base
della formazione del Piano stesso (Tar Lombardia Brescia,
sez. II 18.05.2012 n. 837), nel caso esaminato detta
motivazione, fondata sulle dimensioni dell’area e sulla
prossimità a zona in classe IV, ha consentito di tracciare
in modo esauriente l’iter logico seguito
dall’amministrazione. Né può ritenersi che il rilievo
incentrato sulla vicinanza ad una area mista (classe IV e
III) classificata in classe IV valga ex se a renderla
contraddittoria.
Considerato, infatti, il rapporto di regola-eccezione che
intercorre tra la previsione che introduce il divieto di
salto di classi e quello che ne ammette la deroga, mercé
l’adozione, ove possibile, di adeguati piani di risanamento,
il riferimento alla vicinanza ad una zona mista di classi IV
e III aggiunge un significativo quid pluris, piuttosto che
un deficit di motivazione, all’inidoneità di un piano che
autorizzi siffatta deroga.
Il rigetto, a questo punto, di tutti i motivi di ricorso
trae seco anche la reiezione della domanda risarcitoria, sia
perché essa è consequenziale alla dedotta illegittimità del
provvedimento impugnato sia perché parte ricorrente non ha
comunque offerto un principio di prova a supporto del
pregiudizio risentito o del pericolo di danno pretesamene
derivante dalle restrizioni all’esercizio dell’attività
d’impresa, nelle ore notturne, ascrivibili alla contestata
pianificazione acustica
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 09.11.2012 n. 2734 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Permesso di costruire ed opere che lo
richiedono.
Il permesso di
costruire è necessario non soltanto per i manufatti
tradizionalmente compresi nelle attività murarie, ma anche
per le opere di ogni genere con le quali si intervenga sul
suolo o nel suolo, indipendentemente dal mezzo tecnico con
il quale è stata assicurata la stabilità del manufatto (tratto da www.lexambiente.it -
Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.11.2012 n. 43142 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Sul diniego del permesso di costruire, in zona
agricola, di una casa di campagna di lusso mascherata con
sembianze attinenti all'edificio agricolo.
Considerato, nel merito, che:
- il gravato diniego di permesso di costruire è da ritenersi
sorretto da adeguata e autosufficiente istruttoria e
motivazione, nella misura in cui illustra perspicuamente e
compiutamente le ragioni poste a suo fondamento;
- in particolare, l’amministrazione resistente ha
evidenziato:
-- l’incompatibilità dei manufatti progettati –per la relativa connotazione, propria delle “residenze di
lusso, di livello superiore all’ordinario, con un’ampia
consistenza e dotazione di impianti e servizi”– con la
destinazione dell’area di intervento, ricadente in zona E
(“verde agricolo”) ai sensi del vigente p.r.g. del Comune di
Carinaro, nonché “sprovvista di opere di urbanizzazione,
quali luce, strade, fogne, ecc.”;
-- a riprova della
vocazione non rurale dei predetti manufatti, la sostanziale
coincidenza tra questi ultimi e quelli prospettati in altra
domanda di permesso di costruire avente per oggetto “un
edificio country house”;
-- il significativo impatto
volumetrico di quelle che indebitamente risultano
qualificate come “pertinenze agricole” in sede di domanda di
permesso di costruire;
-- la sussistenza dei “presupposti di
una lottizzazione abusiva sia materiale che cartolare ai
sensi dell’art. 18 della l. n. 47/1985”;
- siffatti rilievi trovano, peraltro, concreto riscontro
nella relazione tecnica allegata alla domanda di permesso di
costruire del 14.10.2008 (prot. n. 9072) e depositata
in giudizio dalla ricorrente il 29.04.2009;
- a tenore della citata relazione tecnica, il denegato
progetto di “casa rurale” e di relative “pertinenze
agricole” prevedeva, innanzitutto, un edificio articolato in
“un piano seminterrato destinato al ricovero delle auto e/o
macchine agricole”, in “un piano rialzato adibito in parte a
residenza e in parte a pertinenza” e in “un primo piano in
parte chiuso, da destinare al deposito/stoccaggio temporaneo
del frumento, e in parte aperto, tale da garantire
l’essiccazione dello stesso”;
- la parte residenziale, posta al piano rialzato ed avente
una superficie complessiva pari a mq 159,36, era, a sua
volta, suddivisa in una “zona giorno”, costituita da cucina
e bagno, e in una “zona notte”, costituita da tre camere da
letto e doppi accessori;
- l’accesso al primo piano era assicurato da un
montacarichi, oltre che da una scala a tre rampe;
- un ulteriore corpo di fabbrica a pianta “pressoché
rettangolare”, articolato su due livelli (piano interrato e
piano terra) risultava, poi, adibito alle “pertinenze
agricole”;
- trattasi, dunque, all’evidenza, di un complesso edilizio
di cui l’amministrazione resistente, per il concorso di una
serie di fattori architettonici, dimensionali e costruttivi
–quali, segnatamente, lo sviluppo su due piani fuori terra,
l’estensione, la distribuzione e la dotazione di servizi
dell’abitazione, la presenza di un montacarichi, la
consistenza delle strutture ‘pertinenziali’–, ha
correttamente ravvisato la natura residenziale,
incompatibile con la destinazione agricola dell’area di
intervento (cfr. Cons. Stato, sez. V, 16.06.2009, n.
3853; sez. IV, 27.07.2011, n. 4505; 02.10.2012, n.
5188; TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, 15.02.2010, n.
178; 14.09.2011, n. 926; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 18.11.2011, n. 2143), e, per il collegamento
puramente fittizio alla coltivazione ed allo sfruttamento
produttivo del suolo –desumibile anche dalla coincidenza
del progetto non assentito con quello implicante tutt’altra
destinazione delle opere previste (“country house”)–, ha
ragionevolmente inferito gli estremi di una lottizzazione
abusiva (cfr. Cass. pen., sez. III, 27.10.2011, n. 46343)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 08.11.2012 n.
4490 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il muro di contenimento non è costruzione ex
art. 873 c.c..
Come
costantemente affermato dalla Suprema Corte in tema di
distanze legali: <<…il muro di contenimento di una
scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi
"costruzione" agli effetti della disciplina di cui all'art.
873 c.c. per la parte che adempie alla sua specifica
funzione e, quindi, dalle fondamenta al livello del fondo
superiore, qualunque sia l'altezza della parete naturale o
della scarpata o del terrapieno cui aderisce, impedendone lo
smottamento>> (cfr. da ultimo Cassazione civile, sez. VI,
13.09.2012, n. 15391).
Ad
analoghe conclusioni deve pervenirsi per la parte di muro
sopraelevata sul muro di contenimento a scopo di recinzione,
che non può, ai sensi dell’art. 878, co. 1 c.c., essere
considerata ai fini del computo delle distanze, laddove
l’altezza complessiva sia contenuta nei limiti fissati dalla
normativa comunale (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.11.2012 n. 2687 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Lo
speciale regime di gratuità di cui all'art.
9, comma 1, lett. f), della L. 10/1977
richiede il concorso di due requisiti, il primo dei quali
di carattere soggettivo che si risolve nell'esecuzione
delle opere da parte degli Enti istituzionalmente
competenti: anche aderendo all’indirizzo che ammette
l’iniziativa del privato, questo deve agire per conto di un
Ente pubblico, come nell’istituto della concessione di opera
pubblica o in altre analoghe figure organizzatorie ove
l’intervento è realizzato da soggetti non animati dallo
scopo di lucro o che accompagnano tale obiettivo con un
legame istituzionale con l’azione dell’amministrazione per
la cura degli interessi della collettività. Poiché è assente
il titolo concessorio, la Società ricorrente è priva della
qualità di Ente istituzionalmente competente.
---------------
Il quadro normativo prevede un’ipotesi di esenzione totale
dal contributo di costruzione (art. 17, comma 3, lett. c),
del D.P.R. 380/2001, che riproduce l’art. 9, comma 1, lett.
f), di cui si controverte) “… Nell’ipotesi relativa
all’esenzione totale il privato realizza un’opera
espressamente qualificata di interesse pubblico nello
strumento urbanistico generale o nei piani attuativi.
Essendovi una tale previsione urbanistica l’utilità per
l’amministrazione deriva direttamente dalla realizzazione
dell’opera e pertanto l’esenzione è automatica. Non ricorre
tuttavia questa fattispecie quando lo strumento urbanistico
si limita ad autorizzare una destinazione d’uso implicante
la realizzazione di opere astrattamente qualificabili come
urbanizzazioni”.
Nella fattispecie è pacifico che il P.R.G. per tempo vigente
prevede espressamente la realizzazione della Caserma dei
Carabinieri sull’area ove l’opera è stata poi in concreto
realizzata. Il punto controverso è la riconducibilità della
struttura nel “genus” delle opere di urbanizzazione.
L’art. 4 della L. 348/1964 –nell’elencare le opere di
urbanizzazione secondaria– individua esplicitamente:
a) asili nido e scuole materne;
b) scuole dell'obbligo nonché strutture e complessi per
l'istruzione superiore all'obbligo;
c) mercati di quartiere;
d) delegazioni comunali;
e) chiese ed altri edifici religiosi;
f) impianti sportivi di quartiere;
g) centri sociali e attrezzature culturali e sanitarie;
h) aree verdi di quartiere.
In proposito il Collegio concorda con l’indirizzo espresso
dal Consiglio di Stato secondo il quale l’elenco delle opere
di urbanizzazione primaria e secondaria non deve intendersi
tassativo e vincolato, per cui debbono ritenersi rientrare
nella nozione di opere di urbanizzazione previste dalla
normativa anche quelle realizzazioni di specifica rilevanza
pubblica e sociale, qual è certamente la costruzione di un
immobile da adibirsi a caserma dei Vigili del fuoco.
In particolare si può puntualizzare che –se la disposizione
rilevante in questa sede (art. 9 della L. 10/1977) è
considerata dalla giurisprudenza di stretta interpretazione
(in quanto introduce talune ipotesi di deroga alla
previsione generale la quale assoggetta a contributo tutte
le opere che comportino trasformazione del territorio)– la
struttura in esame dà risposta in via immediata e diretta ad
interessi collettivi di primario spessore, di tutela della
salute e della sicurezza pubblica: per questo si può
affermare la sua capacità di fare fronte a bisogni
assimilabili a quelli soddisfatti da un impianto sportivo o
da un Centro culturale (e correlati ai valori dello sviluppo
del benessere e della personalità).
D’altronde la norma valorizza proprio la decisione
dell’amministrazione di qualificare la pianificazione con
l’indicazione specifica dell’opera da realizzare, sicché non
si concorda con quell’orientamento che esclude
l’assimilazione alle opere di urbanizzazione in ragione
dell’aggravio del carico urbanistico e della permanenza
della proprietà privata, trattandosi di requisiti di
carattere negativo che il legislatore non prevede.
La Società ricorrente lamenta l’erronea esazione degli
oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione da parte
del Comune di Castiglione in sede di rilascio del titolo
abilitativo per la costruzione della nuova Caserma dei
Carabinieri.
Il Comune eccepisce l’inammissibilità del gravame per
acquiescenza, poiché parte ricorrente (cfr. suo doc. 12) ha
realizzato direttamente alcune opere di urbanizzazione
concordando lo scomputo degli oneri dovuti per alcuni
interventi edilizi, tra i quali figura la Caserma dei
Carabinieri.
L’eccezione è infondata, poiché l'acquiescenza
presuppone una condotta consapevole, da parte dell'avente
titolo all'impugnazione, che sia libera e inequivocabilmente
diretta ad accettare l'assetto di interessi definito
dall'amministrazione attraverso gli atti oggetto di
contestazione, ed inoltre occorre che sia posta in essere
anteriormente all’iniziativa giurisdizionale, così da
assumere il significato indiscutibile di rinuncia preventiva
alla stessa (Consiglio Stato, sez. IV – 27/06/2008 n. 3255;
02/10/2006 n. 5743; TAR Campania Napoli, sez. IV –
03/08/2009 n. 4638, appellata).
Nel caso in esame difetta il requisito della condotta
univoca, ed anzi dall’esame della documentazione versata in
atti (doc. 3 e 3-bis di parte ricorrente) traspare una
volontà di segno contrario poiché Rudiana Immobiliare ha
accettato di pagare il contributo con riserva di ripetere
quanto indebitamente versato; in secondo luogo la presente
causa è stata instaurata ben prima che fosse avanzata la
richiesta di scomputo invocata dall’amministrazione.
Peraltro è stato persino evidenziato che, con riguardo agli
oneri concessori, non ricorre il requisito dell’univoca
manifestazione di volontà dell'interessato di rinunciare
all'esperimento della tutela giurisdizionale anche nel caso
in cui, al momento del ritiro della concessione edilizia, il
richiedente non abbia avanzato riserva alcuna circa la
debenza di detti oneri, in quanto tale comportamento
risponde all’esigenza di dare avvio senza indugi all'opera
edilizia (TAR Toscana Firenze, sez. III – 11/03/2004 n.
671).
Passando all’esame del merito, parte ricorrente denuncia
la violazione dell’art. 9, comma 1, lett. f), della L. 10/1977,
dato che il contributo non è dovuto per le opere di
urbanizzazione eseguite –anche da privati– in esecuzione
degli strumenti urbanistici, e il P.R.G. del Comune di Castiglione destina specificamente l’area in questione a
Caserma dei Carabinieri (opera di urbanizzazione secondaria)
e nessun’altra edificazione è consentita sul lotto.
La difesa comunale oppone la mancata classificazione della
“Caserma dei Carabinieri” come opera di urbanizzazione
secondaria: la zona è destinata a servizi pubblici in genere
e la caserma non costituisce opera di urbanizzazione (non
essendo contemplata nell’elenco di cui all’art. 4 della L.
29/09/1964 n. 847) ma servizio pubblico.
L’impostazione della ricorrente è condivisibile.
Non è suscettibile di applicazione la prima parte della
lett. f), nella parte in cui prevede l’esenzione dal
pagamento del contributo per gli impianti, le attrezzature,
le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli
enti istituzionalmente competenti. Come ha recentemente
messo in luce questa Sezione (sentenza 24/08/2012 n. 1467) lo
speciale regime di gratuità di cui alla lett. f) richiede il
concorso di due requisiti, il primo dei quali di carattere
soggettivo che si risolve nell'esecuzione delle opere da
parte degli Enti istituzionalmente competenti: anche
aderendo all’indirizzo che ammette l’iniziativa del privato,
questo deve agire per conto di un Ente pubblico, come
nell’istituto della concessione di opera pubblica o in altre
analoghe figure organizzatorie ove l’intervento è realizzato
da soggetti non animati dallo scopo di lucro o che
accompagnano tale obiettivo con un legame istituzionale con
l’azione dell’amministrazione per la cura degli interessi
della collettività (Consiglio di Stato, sez. IV – 10/05/2005
n. 2226). Poiché è assente il titolo concessorio, la Società
ricorrente è priva della qualità di Ente istituzionalmente
competente.
La questione a questo punto da affrontare riguarda la
seconda parte della disposizione. Il Collegio richiama il
proprio precedente (TAR Brescia – 27/11/2008 n. 1704) ove si
è osservato che il quadro normativo prevede un’ipotesi di
esenzione totale dal contributo di costruzione (art. 17,
comma 3, lett. c), del D.P.R. 380/2001, che riproduce l’art.
9, comma 1, lett. f), di cui si controverte) “…
Nell’ipotesi relativa all’esenzione totale il privato
realizza un’opera espressamente qualificata di interesse
pubblico nello strumento urbanistico generale o nei piani
attuativi. Essendovi una tale previsione urbanistica
l’utilità per l’amministrazione deriva direttamente dalla
realizzazione dell’opera e pertanto l’esenzione è
automatica. Non ricorre tuttavia questa fattispecie quando
lo strumento urbanistico si limita ad autorizzare una
destinazione d’uso implicante la realizzazione di opere
astrattamente qualificabili come urbanizzazioni”.
Nella fattispecie è pacifico che il P.R.G. per tempo
vigente prevede espressamente la realizzazione della Caserma
dei Carabinieri sull’area ove l’opera è stata poi in
concreto realizzata. Il punto controverso è la
riconducibilità della struttura nel “genus” delle opere di
urbanizzazione.
L’art. 4 della L. 348/1964 –nell’elencare le opere di
urbanizzazione secondaria– individua esplicitamente:
a) asili nido e scuole materne;
b) scuole dell'obbligo nonché strutture e complessi per
l'istruzione superiore all'obbligo;
c) mercati di quartiere;
d) delegazioni comunali;
e) chiese ed altri edifici religiosi;
f) impianti sportivi di quartiere;
g) centri sociali e attrezzature culturali e sanitarie;
h) aree verdi di quartiere.
In proposito il Collegio concorda con l’indirizzo
espresso dal Consiglio di Stato (sentenza sez. V – 18/09/2003
n. 5315), secondo il quale l’elenco delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria non deve intendersi
tassativo e vincolato, per cui debbono ritenersi rientrare
nella nozione di opere di urbanizzazione previste dalla
normativa anche quelle realizzazioni di specifica rilevanza
pubblica e sociale, qual è certamente la costruzione di un
immobile da adibirsi a caserma dei Vigili del fuoco.
In
particolare si può puntualizzare che –se la disposizione
rilevante in questa sede (art. 9 della L. 10/1977) è
considerata dalla giurisprudenza di stretta interpretazione
(in quanto introduce talune ipotesi di deroga alla
previsione generale la quale assoggetta a contributo tutte
le opere che comportino trasformazione del territorio)– la
struttura in esame dà risposta in via immediata e diretta ad
interessi collettivi di primario spessore, di tutela della
salute e della sicurezza pubblica: per questo si può
affermare la sua capacità di fare fronte a bisogni
assimilabili a quelli soddisfatti da un impianto sportivo o
da un Centro culturale (e correlati ai valori dello sviluppo
del benessere e della personalità).
D’altronde la norma
valorizza proprio la decisione dell’amministrazione di
qualificare la pianificazione con l’indicazione specifica
dell’opera da realizzare, sicché non si concorda con
l’orientamento (TAR Emilia Romagna Bologna, sez. II –
12/10/2010 n. 7956) che esclude l’assimilazione alle opere
di urbanizzazione in ragione dell’aggravio del carico
urbanistico e della permanenza della proprietà privata,
trattandosi di requisiti di carattere negativo che il
legislatore non prevede.
In conclusione la domanda è fondata e deve essere
accolta (restando assorbito l’ulteriore profilo formale
dedotto): il Comune ha erroneamente preteso il contributo di
costruzione e gli oneri di urbanizzazione, che devono essere
restituiti (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 07.11.2012 n. 1772
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Se
si sia, nel caso di specie, in presenza di una nuova
attività di allevamento, soggetta all’obbligo del rispetto
delle distanze minime imposto dal regolamento di igiene,
ovvero all’adeguamento, previo rilascio di una nuova
autorizzazione, di un’attività già esistente, legittimata a
continuare il suo esercizio anche in deroga all’obbligo
delle distanze minime.
---------------
Ai fini della verifica del rispetto delle distanze legali
tra edifici, non sono computabili le sporgenze estreme del
fabbricato che abbiano una funzione meramente ornamentale,
di rifinitura o accessoria di limitata entità (come le
mensole, i cornicioni, le grondaie e simili); sono, invece,
computabili, rientrando nel concetto civilistico di
costruzione, le parti dell'edificio (quali scale, terrazze e
corpi avanzati) che, benché non corrispondano a volumi
abitativi coperti, siano destinati a estendere e ampliare la
consistenza del fabbricato. Ne deriva che anche il lato
esterno del portico deve, pertanto, essere considerato al
fine della verifica del rispetto della distanza minima.
Peraltro deve tenersi in debito conto il concetto generale
in materia edilizia, in ragione del quale, per la sua natura
e consistenza costituisce "nuova costruzione" ex art. 3,
lettera e5), d.p.r. n. 380/2001 che esclude dall'ambito
applicativo della norma i soli manufatti che,
indipendentemente dalla loro amovibilità, "non siano diretti
a soddisfare esigenze meramente temporanee".
Al fine della definizione della controversia in esame,
attinente al lamentato mancato rispetto delle distanze
minime intercorrenti tra l’abitazione del ricorrente e
l’allevamento controinteressato, deve, in primo luogo,
risolversi la querelle se si sia, nel caso di specie, in
presenza di una nuova attività di allevamento, soggetta
all’obbligo del rispetto delle distanze minime imposto dal
regolamento di igiene, ovvero all’adeguamento, previo
rilascio di una nuova autorizzazione, di un’attività già
esistente, legittimata a continuare il suo esercizio anche
in deroga all’obbligo delle distanze minime.
A tal fine viene in soccorso il regolamento di igiene
comunale. Esso ammette gli ampliamenti di allevamenti
esistenti e dismessi da meno di tre anni, purché nel
rispetto delle distanze preesistenti. Se, dunque, la deroga
all’obbligo delle distanze minime è ammessa nel caso di
ampliamenti di stabilimenti già esistenti, purché entro il
termine massimo di tre anni dalla loro chiusura e a
condizione che non intervengano variazioni nelle distanze
già esistenti, deve presumersi che la stessa possa, a
maggior ragione, trovare applicazione anche nel caso in cui
lo stabilimento non sia stato ampliato, ma solo adeguato
alla sopravvenuta normativa attraverso un complesso iter che
ha conosciuto una molteplice serie di solleciti e proroghe
di termini e la successiva declaratoria di decadenza
dall’originaria autorizzazione, cui ha fatto seguito, però,
il rilascio di una nuova autorizzazione al suo esercizio.
Invero, nel caso di specie, appare ragionevole ritenere che
un ampliamento vi sia in concreto stato, dal momento che
sono stati realizzati ex novo quattro box esterni in
sostituzione di quelli preesistenti e il cui utilizzo era
stato negato dall’autorizzazione del 2001. Peraltro, a
prescindere dal fatto che vi sia stato, o meno, nel caso di
specie, un ampliamento (accertamento di per sé irrilevante,
dal momento che la norma comunque lo ammetterebbe) ciò che
appare determinante è che dal regolamento richiamato si deve
desumere che, per quanto di rilievo, un’autorizzazione non
può essere considerata “nuova” se non dopo almeno tre anni
dalla dismissione del precedente allevamento.
In altre parole, il fatto che l’edificio fosse già adibito
ad allevamento è sufficiente a rendere possibile la ripresa
dell’attività, nel rispetto delle distanza preesistenti ed
entro il termine massimo di tre anni dalla dismissione, a
prescindere dal fatto che l’esercizio dell’attività sia
stato continuativamente autorizzato o, al contrario,
interrotto.
Nel caso di specie risulta rispettata la prima condizione,
essendo stata rilasciata la nuova dichiarazione a pochi
giorni di distanza dalla decadenza della originaria. Né può
rilevare in senso contrario il cambio di denominazione
subito dall’azienda agricola esercitante l’attività di
allevamento in questione.
Chiarito, dunque, che ci si trova in presenza di un
allevamento “esistente”, si rende allora necessario
verificare il rispetto della seconda condizione e cioè se la
preesistente distanza dall’abitazione del ricorrente sia
stata rispettata e non anche ulteriormente ridotta, come
invece lamentato da parte ricorrente.
Nell’ottica di tale verifica viene in rilievo il par. 3.10.5
del regolamento d’igiene, il quale prevede che, ai fini del
rispetto delle distanze minime, l’allevamento debba essere
considerato come il perimetro dei fabbricati adibiti a
ricovero.
Ci si deve, però, allora, interrogare sul concetto di
“perimetro”.
Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale in
materia, “ai fini della verifica del rispetto delle distanze
legali tra edifici, non sono computabili le sporgenze
estreme del fabbricato che abbiano una funzione meramente
ornamentale, di rifinitura o accessoria di limitata entità
(come le mensole, i cornicioni, le grondaie e simili); sono,
invece, computabili, rientrando nel concetto civilistico di
costruzione, le parti dell'edificio (quali scale, terrazze e
corpi avanzati) che, benché non corrispondano a volumi
abitativi coperti, siano destinati a estendere e ampliare la
consistenza del fabbricato” (Consiglio Stato, sez. IV, 27.01.2010, n. 424; Corte appello Brescia, sez. II, 18.05.2009; Consiglio Stato, sez. IV, 30.06.2005, n.
3539). Ne deriva che anche il lato esterno del portico deve,
pertanto, essere considerato al fine della verifica del
rispetto della distanza minima.
Peraltro deve tenersi in debito conto il concetto generale
in materia edilizia, in ragione del quale, per la sua natura
e consistenza costituisce "nuova costruzione" ex art. 3,
lettera e5), d.p.r. n. 380/2001 che esclude dall'ambito
applicativo della norma i soli manufatti che,
indipendentemente dalla loro amovibilità, "non siano diretti
a soddisfare esigenze meramente temporanee".
Il Collegio ritiene, pertanto, che sia escluso che i box
esterni, per il solo fatto di essere stati realizzati in
rete metallica, non debbano essere considerati ai fini del
rispetto delle distanze minime o non possano essere, in
linea di principio, riconducibili al concetto di ampliamento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 07.11.2012 n. 1766 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Recinzione con rete metallica e permesso di
costruire.
Non è necessario il permesso di costruire
per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie,
e cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da
paletti di ferro o di legno e senza muretto di sostegno.
Entro tali limiti, infatti, la recinzione rientra tra le
manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo
“ius excludendi alios”, e non comporta di norma
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, a
differenza di altre e diverse ipotesi in cui la recinzione
stessa non assume solo la funzione ora descritta ma dà luogo
ad una trasformazione ulteriore mediante installazione di
elementi non strettamente necessari alla sua primaria
funzione, quali, ad esempio, un muretto di sostegno in
calcestruzzo lungo tutto il perimetro.
Tale conclusione deve ritenersi applicabile anche ai
relativi cancelli, che ugualmente, se inseriti nella
recinzione in semplice rete, non dà luogo a trasformazione
urbanistica tale da richiedere il permesso di costruire.
In
particolare, secondo la prevalente giurisprudenza, condivisa
dal Collegio, non è necessario il permesso di costruire per
modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, e
cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da
paletti di ferro o di legno e senza muretto di sostegno (ex
multis, TAR Veneto, Sez. II, 07.03.2006, n. 533; TAR
Campania Napoli, sez. VII, 04.07.2007, n. 6458; TAR Emilia
Romagna Bologna, sez. II, 26.01.2007, n. 82).
Entro tali limiti, infatti, la recinzione rientra tra le
manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo “ius
excludendi alios”, e non comporta di norma
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, a
differenza di altre e diverse ipotesi in cui la recinzione
stessa non assume solo la funzione ora descritta ma dà luogo
ad una trasformazione ulteriore mediante installazione di
elementi non strettamente necessari alla sua primaria
funzione, quali, ad esempio, un muretto di sostegno in
calcestruzzo lungo tutto il perimetro (ex multis, TAR
Basilicata Potenza, 19.09.2003, n. 897; TAR Liguria, Sez. I,
11.09.2002, n. 961; TAR Toscana, Sez. I, 26.03.2009, n. 521;
TAR Toscana, Sez. II, 13.10.2009, n. 1532).
Tale conclusione deve ritenersi applicabile anche ai
relativi cancelli, che ugualmente, se inseriti nella
recinzione in semplice rete, non dà luogo a trasformazione
urbanistica tale da richiedere il permesso di costruire
(cfr., TAR Lombardia, Brescia, n. 574/2011; TAR Campania,
sez. VII, n. 1222/2009; TAR Lazio, sez. II, n. 8777/2008) (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 26.10.2012 n. 1733 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Valutazione tecnico-economica immobile abusivo.
Il mutamento di destinazione d’uso da cantina ad abitazione
comporta, indipendentemente dalla realizzazione o meno di
opere ad esso preordinate, un aggravamento degli standards
urbanistici e, pertanto, necessita di permesso di costruire
secondo quanto previsto dagli artt. 16 e 17, lettera a), l.r.
n. 15/2008 “Vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia”.
La norma regionale richiamata deve essere interpretata in
senso coerente con la normativa nazionale (d.p.r. n.
380/2001) per cui la valutazione “tecnico-economica”,
è insita nell’accertamento di abusività del manufatto
dovendosi, invece, escludere l’esistenza di un potere
discrezionale in capo agli organi comunali in quanto
incompatibile con il carattere vincolato del provvedimento
di demolizione quale è prefigurato dal d.p.r. n. 380/2001 (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 18.10.2012 n. 8645 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Beni Ambientali. Annullamento del Soprintendente del parere
comunale per trasformazione della originaria tettoia con
struttura in ferro.
E’ legittimo il Decreto di annullamento del Soprintendente
per i Beni Architettonici e Paesaggistici, in relazione alla
trasformazione della originaria tettoia con struttura in
ferro e copertura in lamiera ondulata del tutto differente
per materiali e configurazione rispetto a quella esistente.
Trattandosi di elemento strutturale e non funzionale, non
può trovare applicazione il disposto dell’art. 43 della
legge n. 47/1985. Infatti, è ammessa la sanatoria qualora
provvedimenti amministrativi o giurisdizionali abbiano
impedito l'ultimazione dell'opera entro la data ultima
fissata per il cosiddetto condono edilizio, ma a condizione
che si tratti di lavori destinati a consentire la
funzionalità delle opere stesse, con esclusione, quindi, di
ogni intervento strutturale.
In altre parole la struttura
realizzata deve presentare le caratteristiche di un
intervento nel quale sia possibile già cogliere la
specificità e i tratti essenziali dell'edificio (Cons.
Stato, Sez. IV, 03.05.2000, n. 2614) e, dunque, suscettibile
di una sicura identificazione edilizia, sia dal punto di
vista strutturale che da quello della destinazione. In
questa direzione è stato in particolare osservato che le
opere suscettive di sanatoria sono quelle necessariamente
comprensive delle tamponature esterne che realizzino in
concreto i volumi rendendoli individuabili ed esattamente
calcolabili (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 15.10.2012 n. 4105 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: I
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia hanno
carattere strettamente vincolato, onde l’omessa
comunicazione di avviso di avvio del procedimento
sanzionatorio non risulta rilevante nella specie, in quanto
in presenza dell’abuso contestato l’esito del procedimento
non avrebbe potuto essere diverso.
Il puntuale riferimento al rapporto ed alle opere ivi
menzionate così come alla normativa sanzionatoria applicata
integra una motivazione adeguata, sia in relazione
all’istruttoria compiuta che all’esternazione dell’iter
logico-giuridico seguito, tenuto conto della natura
vincolata dell’atto adottato, nonché idonea ad evidenziare
con la necessaria chiarezza le opere cui l’ingiunzione
demolitoria, volta al ripristino della situazione
preesistente, si riferisce.
---------------
Il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è
quello vigente al momento dell’irrogazione della sanzione e
non già quello in vigore all’epoca della realizzazione
dell’abuso non avendo tali sanzioni natura afflittiva bensì
ripristinatoria del corretto assetto del territorio.
---------------
Spetta agli interessati dimostrare, ai fini
dell’applicazione della sanzione pecuniaria alternativa,
l’impossibilità di demolizione dell’abuso senza pregiudizio
della parte conforme.
I provvedimenti sanzionatori in materia edilizia hanno
carattere strettamente vincolato, onde l’omessa
comunicazione di avviso di avvio del procedimento
sanzionatorio non risulta rilevante nella specie, in quanto
in presenza dell’abuso contestato l’esito del procedimento
non avrebbe potuto essere diverso.
Il puntuale riferimento al rapporto ed alle opere ivi
menzionate così come alla normativa sanzionatoria applicata
integra una motivazione adeguata, sia in relazione
all’istruttoria compiuta che all’esternazione dell’iter
logico-giuridico seguito, tenuto conto della natura
vincolata dell’atto adottato, nonché idonea ad evidenziare
con la necessaria chiarezza le opere cui l’ingiunzione
demolitoria, volta al ripristino della situazione
preesistente, si riferisce.
---------------
Va innanzi tutto premesso, che
il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è
quello vigente al momento dell’irrogazione della sanzione e
non già quello in vigore all’epoca della realizzazione
dell’abuso (cfr., ex multis, TAR Liguria, sez. I,
21.04.2009, n. 779; TAR Piemonte, sez. I, 05.05.2004, n.
762) –nella specie, peraltro, non provata– non avendo tali
sanzioni natura afflittiva bensì ripristinatoria del
corretto assetto del territorio.
---------------
Quanto, infine, all’ultimo motivo di ricorso, è sufficiente
rilevare che spetta agli interessati dimostrare, ai fini
dell’applicazione della sanzione pecuniaria alternativa,
l’impossibilità di demolizione dell’abuso senza pregiudizio
della parte conforme, dimostrazione non fornita, invece,
nella specie (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 27.09.2012 n. 1568 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
giurisprudenza distingue il concetto di pertinenza previsto
dal codice civile (artt. 817 e ss.) da quello inteso in
senso urbanistico, lì dove non assumono carattere
pertinenziale quei manufatti che pur svolgendo, come nel
caso di specie, una funzione servente rispetto al fabbricato
principale hanno dimensioni e caratteristiche di una certa
consistenza, tali da costituire una trasformazione dello
stato dei luoghi.
In particolare, la giurisprudenza ha avuto modo di affermare
che anche ove ricorra un rapporto “pertinenziale” (in senso
civilistico) ciò non può giustificare la realizzazione di
opere di rilevante consistenza solo perché direttamente al
servizio della cosa principale.
La giurisprudenza distingue il
concetto di pertinenza previsto dal codice civile (artt. 817
e ss.) da quello inteso in senso urbanistico, lì dove non
assumono carattere pertinenziale quei manufatti che pur
svolgendo, come nel caso di specie, una funzione servente
rispetto al fabbricato principale hanno dimensioni e
caratteristiche di una certa consistenza, tali da costituire
una trasformazione dello stato dei luoghi (cfr. questa
Sezione n. 605 del 27/11/2006).
In particolare, la giurisprudenza ha avuto modo di affermare
che anche ove ricorra un rapporto “pertinenziale” (in
senso civilistico) ciò non può giustificare la realizzazione
di opere di rilevante consistenza, come quelle qui in
rilievo, solo perché direttamente al servizio della cosa
principale (cfr. questo TAR, Sezione I n. 785 del
09/05/2000).
E, pertanto, nel caso di specie, tenuto anche conto che non
è stato in alcun modo dimostrato che l’intervento in
questione abbia comportato la realizzazione di un volume
inferiore al 20% del volume dell’edificio principale, non
può ritenersi che si tratti di mera pertinenza, ma della
realizzazione di un intervento qualificabile come addizione
volumetrica non pertinenziale, secondo quanto disposto dalla
L.R.T. n. 52/1999, ovvero come ristrutturazione con
ampliamento, secondo quanto disposto dal D.P.R. n. 380/2001,
assoggettabile, in entrambi i casi a concessione
edilizia/permesso di costruire, e, in mancanza del
necessario titolo edilizio, a sanzione demolitoria
(TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 27.09.2012 n. 1568 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Realizzazione di opere di spianamento e riporto
di terreno.
Integra il reato previsto dall'art. 44 d.P.R 06.06.2001, n.
380 la realizzazione, senza il preventivo rilascio del
permesso di costruire, di opere di spianamento e riporto di
terreno (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.07.2012 n. 29466 - link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Procedura di localizzazione e realizzazione di
impianti produttivi.
Il perfezionamento della procedura prevista dagli artt. 4 e
5 del d.P.R. 20.10.1998, n. 447, relativa alla
localizzazione e alla realizzazione di impianti produttivi,
non produce l'effetto di sanare o comunque di elidere le
violazioni urbanistiche già compiute e sanzionate dall'art.
44 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.07.2012 n. 27304 - link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La Cassazione
chiarisce i significati di volume tecnico e pertinenza
urbanistica. Il titolo edilizio non può essere eluso
parcellizzando l’attività.
Costituisce orientamento consolidato che, “mentre il muro di
cinta può essere ricondotto alla categoria delle pertinenze,
non così il muro di contenimento che viene assimilato alla
categoria delle costruzioni”.
Infatti “Nel caso in cui lo scopo della realizzazione sia la
delimitazione della proprietà si ricade nell’ipotesi della
pertinenza, per cui non è necessario il rilascio della
concessione. Diversa è la situazione, allorché il muro è
destinato non solo a recingere un fondo, ma contiene o
sostiene esso stesso dei volumi ulteriori; in tal caso il
manufatto ha una funzione autonoma, dal punto di vista
edilizio e da quello economico”, “si eleva al di sopra del
suolo ed è destinato a trasformare durevolmente l’area
impegnata, come tale qualificabile intervento di nuova
costruzione”, con conseguente necessità del permesso di
costruire.
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Con la
sentenza 14.02.2012 n. 5618
la Corte di Cassazione, Sez. III penale, fa nuovamente il
punto su alcune importanti questioni in materia di titoli
abilitativi edilizi e di inerenti fattispecie criminose, con
particolare riguardo a quelle realizzate mediante pratiche
elusive.
Le questioni rilevanti.
Vengono in rilevo, segnatamente, le seguenti questioni:
- l’individuazione dell’ambito di riferimento del permesso
di costruire, se come intervento complessivo ovvero come
singole opere in cui esso si estrinseca, con quanto ne
consegue in ordine al fenomeno della parcellizzazione
dell’attività edificatoria;
- la nozione di “volume tecnico” e la sua
riferibilità o meno alle parti di edificio destinate
all’assolvimento di funzioni complementari;
- la puntualizzazione del concetto di “pertinenza
urbanistica”, con particolare riferimento ai profili
della strumentalità funzionale e della individualità
strutturale rispetto all’edificio principale.
Le soluzioni.
La pronuncia in commento riafferma, ponendosi in linea di
continuità con una consolidata giurisprudenza sia di
legittimità che amministrativa, la rilevanza penale degli
interventi edilizi che non trovino abilitazione in un
corrispondente permesso di costruire, nonché l’approccio
sostanziale che deve guidare tali riscontri.
La suddivisione dell’attività edificatoria.
Viene ribadito, segnatamente, che la realizzazione di opere
riguardanti un preesistente fabbricato necessita sempre di
un permesso di costruire, la cui valenza abilitativa va
riferita all’intervento complessivo, al fine di evitare che
i vincoli urbanistici possano essere aggirati per il tramite
di pratiche elusive consistenti nella artificiosa
parcellizzazione dell’attività edificatoria.
Invero, il regime dei titoli abilitativi edilizi non può
essere eluso attraverso la suddivisione dell’attività
edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a
realizzarla, facendo leva sul fatto che le stesse sono
astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo
più limitate, in ragione della loro più modesta incisività
sull’assetto territoriale. Per contro, l’opera deve essere
sempre “considerata unitariamente nel suo complesso,
senza che sia consentito scindere e considerare
separatamente i suoi singoli componenti” (Cass., sez.
III, sent. 29.01.2003; sent. 11.10.2005).
Al citato fine antielusivo, la Cassazione puntualizza
inoltre i contenuti di alcune nozioni urbanistiche che
sovente sono invocate al fine, per l’appunto stigmatizzato
dal Giudice della legittimità, di reperirvi una pretesa
giustificazione in ordine a interventi edilizi
sostanzialmente ampliativi dei fabbricati preesistenti.
Il volume tecnico.
Un primo concetto in tal senso esaminato è quello di volume
tecnico. La Cassazione ne ribadisce una interpretazione
restrittiva, rigorosamente ancorata al dato funzionale e
perimetrata in termini di effettiva indispensabilità
tecnica. In questa prospettiva, richiamandosi la risalente e
consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. V,
sent. n. 6038 del 16.09.2004), vengono individuati come tali
esclusivamente i volumi che siano “strettamente necessari
a consentire l’eccesso di quelle parti degli impianti
tecnici che non possono, per esigenze tecniche di
funzionalità degli impianti stessi, trovare allocazione
all’interno della parte abitativa dell’edificio realizzabile
nei limiti imposti dalle norme urbanistiche”.
Trattasi, in altri termini, di volumi “che, per funzione
e dimensione, si pongono rispetto alla costruzione come
elementi tecnici essenziali per l’utilizzazione della stessa”
(Cons. Stato, sez. V, sent. n. 239/1982; sez. V, sent. n.
44/1991) e ai quali, soltanto e nella misura delineata dalla
necessità tecnica ineludibile, è consentito eccedere
rispetto ai limiti urbanistici posti alla parte abitativa,
la quale, diversamente, si vedrebbe pregiudicata con
riferimento a profili funzionali essenziali.
Dalle esposte premesse discende una serie di più articolate
conseguenze. In primis, quella per cui i volumi tecnici,
quali “parti di edificio destinate a comprendere gli
impianti tecnici che, per la loro funzionalità, non possono
essere contenuti entro i limiti volumetrici previsti dalla
legge” (Cass., sez. III, sent. 28.10.1981), non possono
mai fare riferimento all’intero edificio, legittimandone
indifferenziati e generalizzati aumenti di volume, bensì
soltanto a porzioni ben individuate dell’edificio stesso, la
cui eccedenza rispetto ai limiti urbanistici non può che
essere commisurata e perimetrata in ragione di quanto
necessario e sufficiente ad assicurare la funzionalità degli
impianti.
Ne discende, ancora, che possono qualificarsi come volumi
tecnici soltanto quelli destinati a ospitare “le parti
degli impianti tecnici che non possono, per esigenze
tecniche di funzionalità degli impianti stessi, trovare
allocazione all’interno della parte abitativa dell’edificio
realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche”,
con esclusione dunque di ogni ampliamento volumetrico che
fosse invece finalizzato a contenere parti di impianti
che ben potrebbero, senza alcun pregiudizio funzionale,
essere localizzate e contenute all’interno della parte
abitativa.
Ulteriore corollario attiene al fatto che i volumi tecnici “non
sono utilizzabili né adattabili a uso abitativo” (Cons.
Stato, sez. V, sent. n. 638/2004, richiamata da Cass., sez.
III, sent. n. 5618/2012 in commento), non potendosi, in
buona sostanza, approfittare della copertura offerta dal
regime abilitativo di favore consentito, in via di stretta
eccezione, per fronteggiare le necessità tecniche essenziali
ineludibili degli impianti al fine distorto ed elusivo dei
vincoli urbanistici e, come tale, illecito di espandere il
volume della parte abitativa oltre quanto obiettivamente
indispensabile in relazione alle necessità tecniche
suddette.
Un’altra importante conseguenza è quella per cui i volumi
tecnici “non ricomprendono quelli suscettibili di
assolvere a funzioni complementari” (Cons. Stato, sez.
V, sent. n. 239 del 19.03.1982; sez. V, sent. n. 44 del
14.01.1991). Ciò è connesso al carattere di “funzionalità
essenziale” che il volume tecnico deve rivestire,
dovendo trattarsi, ai fini dell’esclusione del calcolo della
volumetria ammissibile, di spazi destinati e “strettamente
necessari a contenere o a consentire l’accesso a quelle
parti degli impianti (es. idrico, termico, elevatoio,
televisivo, di parafulmine, di ventilazione ecc.)” che
pur non potendo “per esigenze tecniche di funzionalità
degli impianti stessi, trovare luogo entro il corpo
dell’edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme
urbanistiche” “si pongono rispetto alla costruzione
come elementi tecnici essenziali per l’utilizzazione della
stessa”, il cui difetto ne pregiudicherebbe pertanto
l’obiettiva attitudine all’uso essenziale (abitativo) cui
essa è destinata (Cons. Stato, sent. n. 6038/2004). Non può
quindi invocarsi il regime di favore in relazione ad
ampliamenti volumetrici connessi alla realizzazione di
finalità complementari, stante la non essenzialità ad
assicurare la funzionalità del fabbricato, attenendo
piuttosto gli stessi a una maggiore valorizzazione del
costrutto che non trova giustificazione in termini di
ineludibile necessità e che, come tale, è soggetta
all’ordinario regime abilitativo.
La suddetta caratteristica di strumentalità necessaria è
inoltre presidiata per il tramite della remissione
dell’individuazione della tipologia e della volumetria delle
parti di impianti qualificabili come volumi tecnici, cui
consegue l’ammissione al regime derogatorio di favore, alle
specifiche elencazioni e ai relativi indici come definiti,
per ciascuna zona, a opera dei competenti strumenti
urbanistici. Elencazioni e prescrizioni alle quali la
giurisprudenza riconosce “natura tassativa” (Cons.
Stato, sent. n. 6038/2004), con conseguente esclusione della
invocabilità del favorevole regime derogatorio di non
computo del volume tecnico con riferimento sia a tipologie
di impianti che esulino da quelle tassativamente elencate e
sia a volumi eccedenti rispetto agli indici altrettanto
tassativamente prescritti.
In tale prospettiva, è stato escluso dalla sentenza penale
in commento che l’insediamento di tipologia di impianto
esulante dalla tassativa elencazione contenuta nello
strumento urbanistico potesse giustificare la maggiore
altezza di tutto l’edificio in termini di destinazione al
volume tecnico, ritenendosi piuttosto che si trattasse di
una vera e propria sopraelevazione, assolvente a funzioni
complementari all’abitazione e non invece “alla
necessaria funzionalità degli impianti del fabbricato
preesistente”.
A tale ultimo riguardo va sottolineata l’importanza del
riferimento della funzionalità necessaria al fabbricato
preesistente, che sottende l’esclusione del beneficio della
scomputabilità del volume tecnico con riferimento alla
sopraelevazione o ultraedificazione a beneficio di parte del
fabbricato che non sia sorretta da un corrispondente titolo
abilitante. In altri termini, il volume tecnico può
riferirsi soltanto agli spazi eccedentari che sono necessari
ad assicurare la funzionalità degli impianti a servizio
essenziale del preesistente fabbricato, sul presupposto e
nella misura in cui lo stesso sia conforme alle abilitazioni
edilizie, dovendo invece escludersi che lo scomputo
volumetrico possa invocarsi anche con riferimento agli spazi
destinati a servire la sopraelevazione o ultraedificazione
illegittima.
Ciò in quanto l’illiceità della stessa, conseguente al
difetto ab origine di un idoneo titolo abilitante, si
estende automaticamente e conseguenzialmente anche a ogni
opera che sia servente rispetto a quella abusiva. In tal
senso la giurisprudenza ha precisato che “Il regime delle
pertinenze urbanistiche … non è applicabile allorché
l’accessorio acceda a un manufatto principale abusivo non
sanato ex art. 13 della legge n. 47/1985 e non condonato.
[…] Infatti: il regime pertinenziale è un regime eccezionale
di favore che non può essere esteso a situazioni non
corrispondenti alla sua ratio; l’accessorio è intimamente
connesso al principale, per cui se quest’ultimo è abusivo
non vi è alcuna ragione per agevolare la costruzione di
altra opera destinata a produrre una compromissione del
territorio ulteriore rispetto a quella causata dal manufatto
principale; la non conformità, o comunque la mancata
verifica di conformità allo strumento urbanistico dell’opera
principale, realizzata in assenza di concessione edilizia,
priva il comune del parametro di legalità in relazione al
quale può essere esercitato il potere di autorizzare opere
pertinenziali che costituiscono completamento di quanto
conserva caratteristiche di contrarietà all’assetto
urbanistico del territorio” (Cass. pen., sez. VI, sent.
n. 4164 del 19.07.1995, richiamata da Cass. pen., sez. III,
sent. n. 4087 del 28.01.2008).
La pertinenza urbanistica.
L’ulteriore nozione disaminata dalla sentenza penale in
commento, con il fine di puntualizzarne i contenuti in senso
antielusivo, è quella di pertinenza urbanistica, anch’essa
sovente invocata nella prassi quale possibile escamotage,
per l’appunto stigmatizzato dal giudice della legittimità,
per la pretesa giustificazione di abusi edilizi. Anche per
le pertinenze urbanistiche nonché per le costruzioni di
natura accessoria è previsto un regime di favore, potendo le
stesse essere sottratte alle disposizioni degli strumenti
urbanistici relative ai fabbricati e alle norme sulle
distanze integrative del codice civile sulla base e nei
limiti delle espresse previsioni derogatoria che siano in
tal senso eventualmente sancite dagli strumenti urbanistici
(Cass. civ., sez. II, sent. n. 4208 del 06.05.1987).
La giurisprudenza ha meglio delineato i tratti distintivi
della pertinenza urbanistica rispetto alla nozione
civilistica.
Quest’ultima è fornita dall’art. 817 c.c., che definisce
tali “le cose destinate in modo durevole a servizio od
ornamento di un’altra cosa”; il nesso funzionale stabile
che contrassegna ontologicamente il rapporto pertinenziale
si traduce nella regola generale, salvo diversa disposizione
legislativa o contrattuale, dell’assoggettamento della
pertinenza al medesimo regime e destino giuridico del bene
principale (artt. 818, 819 c.c.).
Più articolato è il concetto di pertinenza urbanistica, che
riflette “il preminente rilievo che nel settore
urbanistico hanno le esigenze di tutela del territorio”.
In tale prospettiva, “mentre nella pertinenza civilistica
rilevano sia l’elemento obiettivo che quello soggettivo,
nella pertinenza urbanistica acquista rilevanza solo
l’elemento oggettivo”.
Proprio con riferimento all’elemento oggettivo il
Legislatore, “con il Testo unico dell’edilizia approvato
con Dpr n. 380/2001, per superare le incertezze derivanti
dal criterio quantitativo indicato dalla giurisprudenza per
le pertinenze, ha fissato due criteri per precisare quando
l’intervento perde le caratteristiche della pertinenza per
assumere i caratteri della nuova costruzione: il primo
rinvia alla determinazione delle norme tecniche degli
strumenti urbanistici, che dovranno tenere conto della
zonizzazione e del pregio ambientale e paesistico delle
aree; il secondo, alternativo al primo, qualifica come nuova
opera gli interventi che comportino la realizzazione di un
volume superiore al 20% di quello dell’edificio principale”
(Cass. pen., sez. III, sent. n. 28504 del 18.07.2007).
A ogni modo, va precisato che “una trasformazione
urbanistica e/o edilizia per essere assoggettata
all’intervento
autorizzatorio in senso ampio dell’autorità amministrativa
non deve essere ‘precaria’: un’opera oggettivamente
finalizzata a soddisfare esigenze improvvise o transeunti
non è destinata a produrre, infatti, quegli effetti sul
territorio che la normativa urbanistica è rivolta a
regolare.
Restano esclusi, pertanto, dal regime del permesso di
costruire i manufatti di assoluta ed evidente precarietà,
destinati cioè a soddisfare esigenze di carattere
contingente e a essere presto eliminati” (Cass. pen.,
sez. III, sent. n. 24241 del 24.06.2010).
Anche con riferimento al profilo della precarietà,
l’approccio valutativo, trattandosi di “tutela del
territorio”, deve essere sempre “oggettivo e non
soggettivo”. Segnatamente, detta caratteristica “non
può essere desunta dalla temporaneità della destinazione
soggettivamente data all’opera dal costruttore, ma deve
ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale
dell’opera a un uso realmente precario e temporaneo per fini
specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente
possibilità di successiva e sollecita eliminazione”
(Cass., sez. III, sentenze n. 26573 del 26.06.2009; n. 25965
del 22.06.2009; n. 22054 del 25.02.2009; tutte richiamate da
sent. n. 24241 del 24.06.2010).
Inoltre “la natura precaria di una costruzione non
dipende dalla natura dei materiali adottati e quindi dalla
facilità
della rimozione, ma dalle esigenze che il manufatto è
destinato a soddisfare e cioè dalla stabilità
dell’insediamento indicativa dell’impegno effettivo e
durevole del territorio”. La precarietà va esclusa
“quando trattasi di struttura destinata a dare un’utilità
prolungata nel tempo, indipendentemente dalla facilità della
sua rimozione, a nulla rilevando la temporaneità della
destinazione data all’opera del proprietario, in quanto
occorre valutare la stessa alla luce della sua obiettiva e
intrinseca destinazione naturale” (Cons. Stato, sez. V,
sent. n. 3321 del 15.06.2000; sent. n. 97 del 23.01.1995).
Anche a tale fine, l’approccio valutativo deve essere
globale e non parcellizzato: invero, “l’opera deve essere
considerata unitariamente e non nelle sue singole componenti”
(Cass., sez. III, sent. del 27.05.2004). “La stabilità
non va confusa con l’irremovibilità della struttura o con la
perpetuità della funzione a essa assegnata, ma si estrinseca
nell’oggettiva destinazione dell’opera a soddisfare bisogni
non provvisori, ossia nell’attitudine a una utilizzazione
che non sia temporanea e contingente” (Cass., sez. III,
sent. del 07.06.2006).
È stato anche precisato che “la precarietà non va confusa
con la stagionalità, vale a dire con l’utilizzo annualmente
ricorrente della struttura, poiché un utilizzo siffatto non
esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di
esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel
tempo” (Cass., sez. III, sent. n. 24241 del 24.06.2010).
Proseguendo nel solco tracciato dagli esposti orientamenti
giurisprudenziali, la pronuncia n. 5618/2012 in commento,
individua la pertinenza urbanistica nella “opera che
abbia comunque una propria individualità fisica e una
propria conformazione strutturale e non sia parte integrante
o costitutiva di altro fabbricato preordinata a un’oggettiva
esigenza dell’edificio principale, funzionalmente e
oggettivamente inserita al servizio dello stesso, sfornita
di un autonomo valore di mercato, non valutabile in termini
di cubatura o comunque dotata di un volume minimo tale da
non consentire, in relazione anche alle caratteristiche
dell’edificio principale, una sua destinazione autonoma e
diversa da quella a servizio dell’immobile cui accede”
(artt. 22, 100 e 101 del Dpr n. 380/2001; Cass. pen., sez.
III, sent. n. 32939/2010, sent. n. 4134/1998). Due, in
sostanza, i requisiti, uno di carattere strutturale e
l’altro di carattere funzionale.
Sotto il profilo strutturale, l’opera deve essere dotata di
una individualità sua propria, che sia distinta, autonoma e
separata dall’edificio principale, così come da ogni altro
fabbricato; in relazione al detto requisito strutturale, la
pronuncia in commento esclude la qualificabilità in termini
pertinenziali di ogni opera che sia fisicamente parte
integrante o costitutiva di altro fabbricato nonché dell’“ampliamento
di un edificio che per la relazione di connessione fisica
costituisce parte di esso quale elemento che attiene
all’essenza dell’immobile e lo completa affinché soddisfi i
bisogni cui è destinato” (in tal senso anche Cass. pen.,
sez. III, sent. n. 36941/2007, e 40843/2005 e Cass. pen.,
sez. III, n. 24241/2010, che ha escluso la natura
pertinenziale della edificazione di una tettoia-portico,
che, per la relazione di connessione fisica con l’edificio,
ne costituisce parte integrante, attenendo all’essenza
dell’immobile e completandola affinché lo stesso soddisfi i
bisogni cui è destinato, dovendo pertanto qualificarsi in
termini di ampliamento).
Invero, è incompatibile con la nozione di pertinenza che la
stessa possa essere parte integrante della cosa principale
ovvero rappresentare un elemento indispensabile per la sua
esistenza. In tal senso, “L’elemento distintivo tra la
parte e la pertinenza non consiste solo in una relazione di
congiunzione fisica, normalmente presente nella prima e
assente nella seconda, ma anche e soprattutto in un diverso
atteggiamento del collegamento funzionale della parte al
tutto e della pertinenza alla cosa principale: tale
collegamento si esprime per la parte come necessità di
questa per completare la cosa affinché essa soddisfi ai
bisogni cui è destinata: la parte quindi è elemento della
cosa. Nella pertinenza, invece, il collegamento funzionale
consiste in un servizio od ornamento che viene realizzato in
una cosa già completa e utile di per sé: la funzione
pertinenziale attiene non all’essenza della cosa ma alla sua
gestione economica e alla sua forma estetica. Inoltre […] la
pertinenza si riferisce a un’opera autonoma dotata di
propria individualità mentre la parte di un edificio è
compresa nella struttura di esso ed è quindi priva di
autonomia” (Cass. pen., sez. III, sent. n. 28504/2007).
Per quanto concerne il profilo funzionale, l’unità
pertinenziale, strutturalmente separata da quella
principale, deve essere caratterizzata da una destinazione
servente alle obiettive esigenze dell’edificio principale, “allo
scopo di renderne più agevole e funzionale l’uso (carattere
di strumentalità funzionale)”. Tale destinazione
funzionale servente deve essere ineludibile e trovare
rispondenza, da un lato, nella congruità della struttura
della pertinenza rispetto alle obiettive esigenze della
struttura principale e, dall’altro lato, nella altrettanto
oggettiva impossibilità di destinare la pertinenza stessa,
proprio in relazione alla sua conformazione strutturale
inevitabilmente servente, ad alcuna destinazione autonoma o
diversa da quella a servizio dell’immobile cui accede.
L’esposta configurazione funzionale ineludibilmente servente
della pertinenza urbanistica si riflette nella sua non
negoziabilità in via autonoma e nella conseguente assenza di
un autonomo valore di mercato, che sola può giustificare,
unitamente alla modestia dimensionale del volume rispetto
all’edificio principale “in modo da evitare il cosiddetto
carico urbanistico”, la non valutabilità della stessa in
termini di cubatura e la diversità di regime abilitativo
(Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 1174/2000; sez. V, sent. n.
2325/2001; sez. V, sent. n. 7822/2003). In assenza invece
degli esposti stringenti requisiti strutturali e funzionali,
la nozione di pertinenza urbanistica, nonché il
corrispondente regime derogatorio di non computo
volumetrico, non sono invocabili e torna quindi a
riespandersi la regola generale della necessità del permesso
di costruire.
Resta a ogni modo fermo che il regime agevolato delle
pertinenze non può mai trovare applicazione in caso di
contrasto con gli strumenti urbanistici (Cass. pen., sez.
III, sent. n. 32939/2010).
Una chiara concretizzazione dei principi suesposti la si ha,
ad esempio, in relazione alla diversa disciplina che la
giurisprudenza ha individuato con riferimento al muro di
contenimento ovvero al muro di cinta, che costituisce
specifico oggetto della pronuncia n. 5618/2012 in commento.
In proposito, costituisce orientamento consolidato che, “mentre
il muro di cinta può essere ricondotto alla categoria delle
pertinenze, non così il muro di contenimento che viene
assimilato alla categoria delle costruzioni”.
Infatti “Nel caso in cui lo scopo della realizzazione sia
la delimitazione della proprietà si ricade nell’ipotesi
della pertinenza, per cui non è necessario il rilascio della
concessione (Tar Emilia Romagna, Parma, n. 106/2001; Tar
Liguria, sez. I, sent. n. 492/1996; Tar Liguria, sent. n.
345/1994). Diversa è la situazione, allorché il muro è
destinato non solo a recingere un fondo, ma contiene o
sostiene esso stesso dei volumi ulteriori (Tar Emilia
Romagna, Parma, sent. n. 246/2001; Tar Lazio, sez. II, sent.
n. 8923/2000); in tal caso il manufatto ha una funzione
autonoma, dal punto di vista edilizio e da quello economico”
(Tar Piemonte, sent. n. 657/2003)”, “si eleva al di sopra
del suolo ed è destinato a trasformare durevolmente l’area
impegnata, come tale qualificabile intervento di nuova
costruzione”, con conseguente necessità del permesso di
costruire (Tar Liguria, sez. I, sent. n. 4131/2009; Cass.,
sez. III, sent. n. 35898/2008) (commento tratto da Diritto e
Pratica Amministrativa n. 4/2012 -
Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.02.2012 n. 5618 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La giurisprudenza ha da
tempo individuato un corretto discrimine tra le costruzioni
che si definiscono muro: la differenziazione viene istituita
movendo dalla destinazione del manufatto.
Nel caso in cui lo scopo della realizzazione sia la
delimitazione della proprietà si ricade nell’ipotesi della
pertinenza, per cui non è necessario il rilascio della
concessione, con le note conseguenze in tema di legittimità
dell’eventuale ordinanza di demolizione adottata al
riguardo.
Diversa è la situazione, allorché il muro è destinato non
solo a recingere un fondo, ma contiene o sostiene esso
stesso dei volumi ulteriori; in tal caso il manufatto ha una
funzione autonoma, dal punto di vista edilizio e da quello
economico.
Il giudice osserva che la giurisprudenza ha da tempo
individuato un corretto discrimine tra le costruzioni che si
definiscono muro: la differenziazione viene istituita
movendo dalla destinazione del manufatto.
Nel caso in cui lo scopo della realizzazione sia la
delimitazione della proprietà si ricade nell’ipotesi della
pertinenza, per cui non è necessario il rilascio della
concessione, con le note conseguenze in tema di legittimità
dell’eventuale ordinanza di demolizione adottata al riguardo
(TAR Emilia Romagna, Parma, 12.03.2001, n. 106; TAR Liguria,
sez. I, 14.11.1996, n. 492; Id, 19.10.1994, n. 345).
Diversa è la situazione, allorché il muro è destinato non
solo a recingere un fondo, ma contiene o sostiene esso
stesso dei volumi ulteriori (tar Emilia Romagna, Parma,
27.04.2001, n. 246; tar Lazio, sez. II, 04.11.2000, n.
8923); in tal caso il manufatto ha una funzione autonoma,
dal punto di vista edilizio e da quello economico.
Nel caso in questione il muro svolge la funzione di
contenimento (si intenda, del terreno) per circa trenta
metri, al di là della recinzione preesistente, ed è connesso
ad un porticato che si estende per una superficie di circa
105 metri quadrati. La funzione della costruzione si ricava
dalla sua estensione, per cui non può ritenersi che il
ricorrente abbia inteso soltanto recingere la proprietà,
allorché realizzò quanto indicato.
Ne consegue che il manufatto avrebbe dovuto essere edificato
in forza di una concessione, sì che i motivi dedotti al
riguardo sono infondati e vanno respinti (TAR Piemonte,
Sez. I,
sentenza
07.05.2003 n. 657 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Una recinzione in
manufatti di cemento che si sviluppa per una lunghezza di
circa m. 346 con altezza di m. 2,50 costituisce intervento
che comporta, per le sue rilevanti dimensioni, quella
“trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio
comunale” per la quale è necessario, ex art. 1 L. n. 10 del
1977, il previo rilascio della concessione edilizia da parte
della competente amministrazione comunale.
Il Tribunale deve osservare, infatti, che non è
assolutamente condivisibile la tesi della ricorrente secondo
cui la realizzazione della recinzione di cui trattasi, non
sarebbe stata soggetta al rilascio di alcun titolo edilizio,
costituendo tale intervento una semplice estrinsecazione
dello “jus excludendi alios” insito nel diritto di
proprietà.
Invero, a confutazione di quanto precede, basta sottolineare
che una recinzione in manufatti di cemento che si sviluppa
per una lunghezza di circa m. 346 con altezza di m. 2,50
costituisce intervento che comporta, per le sue rilevanti
dimensioni, quella “trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio comunale” per la quale è
necessario, ex art. 1 L. n. 10 del 1977, il previo rilascio
della concessione edilizia da parte della competente
amministrazione comunale (v. TAR Puglia –LE- sez. 1^,
04/05/1999 n. 481; TAR Lazio –RM- sez. 2^, 10/03/1999 n.
829; TAR Piemonte, sez. 1^, 06/11/1997 n. 738).
E’ inoltre infondata l’ulteriore argomentazione contenuta
nell’atto introduttivo del giudizio secondo la quale, per
tali interventi di recinzione, non sarebbe richiesto titolo
edilizio alcuno a norma dell’art. 23, comma 1, del P.R.G.
comunale.
La citata norma, infatti, anche secondo quanto affermato
dalla stessa ricorrente, richiede l’autorizzazione edilizia
per le recinzioni riguardanti lotti edificati e, pertanto,
risulta del tutto legittimo il provvedimento comunale che ha
irrogato, ex art. 10 L. n. 47 del 1985, la sanzione
pecuniaria di cui si discute, sul presupposto che fosse
quantomeno sottoposto a regime autorizzatorio l’intervento
di recinzione di un’area sulla quale insiste lo stabilimento
industriale della società ricorrente (TAR
Emilia
Romagna-Parma,
sentenza
27.04.2001 n. 246 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Anche la realizzazione ex
novo di un muro di contenimento rientra tra gli interventi
soggetti a semplice autorizzazione edilizia.
Ciò premesso, risulta che i lavori in questione rientrassero
a pieno titolo tra quelli di manutenzione straordinaria,
assentibili dall’Autorità Comunale con semplice titolo
autorizzatorio e non con concessione edilizia, atteso che,
secondo un orientamento giurisprudenziale condiviso dal
Collegio, anche la realizzazione ex novo di un muro
di contenimento rientra tra gli interventi soggetti a
semplice autorizzazione edilizia (v. TAR Liguria, sez. 1^,
14/11/1996 n.492; 19/10/1994 n. 345).
In tale ottica, quindi, mentre l’intervento sul muretto non
risultava in alcun modo difforme dall’autorizzazione
edilizia legittimamente rilasciata dal Comune, l’ulteriore
intervento, contestato alla ricorrente con l’ordinanza
impugnata e costituito dalla sostituzione della recinzione
in rete metallica sovrastante il muretto con una recinzione
in legno, ben poteva essere qualificato quale opera eseguita
in difformità dall’autorizzazione edilizia ed essere
conseguentemente sanzionato con la pena pecuniaria prevista
per tali violazioni dall’art. 10 L. n. 47 del 1985.
Risulta pertanto illegittima, per violazione della suddetta
disposizione, l’ordinanza impugnata, con la quale il Sindaco
ha ordinato alla ricorrente, con avvertimento di
comminatoria dell’acquisizione al patrimonio indisponibile
del Comune delle opere e dell’area di sedime in caso di
inadempimento, la demolizione di opere che, risultando (solo
per una di esse) difformi dall’autorizzazione edilizia
precedentemente rilasciata, dovevano essere sanzionate con
l’irrogazione della pena pecuniaria prevista dall’art. 10 L.
n.47 del 1985 (v. TAR Abruzzo –PE- 05/12/1997 n. 671; TAR
Piemonte, sez. 1^, 16/10/1996 n. 714)
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 12.03.2001 n. 106 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Non ogni muro che sia
collocato ai limiti di un’area su cui insistono costruzioni
edilizie può considerarsi come “recinzione” allorquando,
come nel caso in esame, la funzione dello stesso non sia
quella di recingere bensì di sostenere altri volumi ovvero,
più precisamente, di contenere il terreno di un’area di
livello superiore suscettibile di smottamenti: infatti in
tale ultima ipotesi non soccorre più il regime semplificato
istituito per la realizzazione delle vere e proprie opere di
recinzione di edifici preesistenti, restando invero anche il
muro di contenimento assoggettato al regime del rilascio
della concessione edilizia.
Nel caso di specie l’opera realizzata dalla attuale istante
per la sua collocazione, che la medesima indica nel ricorso
come situata immediatamente a ridosso non già del
preesistente edifici per abitazione bensì di due capannoni
installati nell’area adiacente, non può certo ritenersi come
un’opera muraria di conservazione delle strutture o di altre
parti dell’organismo edilizio abitativo, essendo stata posta
per fornire un riparo da smottamenti di terreno ad un’area
circostante la proprietà edilizia della stessa istante.
A tale opera le medesima assegna anche la funzione
costitutiva della dotazione di un “muro di cinto” a
quella parte della sua proprietà, sulla quale, come sopra
riferito, si trovano installati due capannoni (vedasi al
riguardo le precisazioni che la stessa esponente fornisce
nella memoria depositata in data 16.06.1999).
Va tuttavia osservato che deve escludersi che le finalità di
recinzioni che la istante intenderebbe ritenere
riconoscibili nel suo intervento murario, possano far
considerare tale muro rientrante tra quelle opere (“recinzioni”)
che restano escluse dal regime della concessione edilizia
per restare soggette a quello, semplificato, della c.d. “denunzia
di inizio dei lavori”, previsto dall’art. 4 della legge
n. 493/1993 come sostituito dall’art. 2 -comma 60- della
legge 23.12.1996 n. 662.
La funzione della stessa opera come muro di contenimento,
benché posto su una pretesa linea di cinta di una parte
della proprietà immobiliare della ricorrente, non la rende
annoverabile tra le “recinzioni” cui si riferisce la
suindicata disposizione.
Va al riguardo osservato che non ogni muro che sia collocato
ai limiti di un’area su cui insistono costruzioni edilizie
può considerarsi come “recinzione” allorquando, come
nel caso in esame, la funzione dello stesso non sia quella
di recingere bensì di sostenere altri volumi ovvero, più
precisamente, di contenere il terreno di un’area di livello
superiore suscettibile di smottamenti: infatti in tale
ultima ipotesi non soccorre più il regime semplificato
istituito per la realizzazione delle vere e proprie opere di
recinzione di edifici preesistenti, restando invero anche il
muro di contenimento assoggettato al regime del rilascio
della concessione edilizia (cfr. sul punto in fattispecie
pressoché analoga C.S.I. 05.05.1993, n. 165)
(TAR Lazio-Roma,
Sez. II-ter,
sentenza
04.11.2000
n. 8923 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 22.12.2012 |
ã |
A U G U R I
a tutti i nostri lettori ... e che il 2013 porti
pace, serenità e salute ad ognuno ... tutto il resto
avanza.
Ed un pensiero (ma con le parole non si campa:
quindi, mano al portafoglio ...) a chi sta peggio di
noi poiché ricordateVi che i nostri Vecchi usavano
dire:
"fai del bene e riceverai del bene, fai del male
e riceverai del male".
22.12.2012 - LA SEGRETERIA PTPL |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA: Modifiche
alla legge regionale n. 12 del 2005 per i Piani di Governo
del Territorio dei Comuni.
Il Consiglio regionale nella seduta del 19.12.2012 ha
approvato la legge regionale "Interventi normativi per
l'attuazione della programmazione regionale e di modifica e
integrazione di disposizione legislative - Collegato
ordinamentale 2013" (Legge
Consiglio Regionale 19.12.2012 n. 057).
In particolare, l'art. 4 ("Modifiche alla l.r. n. 12/2005")
introduce dopo l'art. 25, comma 1-bis, l.r. n. 12 del 2005
("Legge per il governo del territorio") tre nuovi
commi, che declinano la disciplina transitoria necessaria
per il completamento del processo di totale rinnovamento
della strumentazione urbanistica comunale, pur
senza modificare il termine di validità dei vecchi
piani regolatori generali, fissato al 31.12.2012
dall'art. 25, comma 1, della l.r. n. 12 del 2005.
Solamente i Comuni terremotati e quelli dichiarati in
dissesto finanziario entro il 31.12.2012, con una
disposizione di favor (comma 1-ter), potranno continuare ad
attuare le previsioni del vigente PRG fino al 31.12.2013. La
norma, nel contempo, chiarisce la disciplina da applicarsi
qualora i suddetti Comuni non adottino il PGT entro il
31.12.2013. Per tutti gli altri Comuni, resta quindi
confermato quanto già previsto ad oggi e cioè l'inefficacia,
a far tempo dal 01.01.2013, dei vecchi PRG.
La norma (comma 1-quater), in ossequio a quanto stabilito
dall'art. 9, comma 1, del d.p.r. n. 380 del 2001, che
riconosce in capo alle Regioni la possibilità di prevedere
norme più restrittive rispetto a quella generale statale
stabilita per i Comuni sprovvisti di strumenti urbanistici,
definisce quindi puntualmente gli interventi assentibili
nelle more dell'approvazione del PGT, che sono:
►
nelle zone A-B-C-D, come individuate dal previgente PRG,
esclusivamente interventi sull'esistente: manutenzione
ordinaria, manutenzione straordinaria e restauro/risanamento
conservativo (no ristrutturazione, no nuova costruzione);
►
nelle zone E-F, come individuate dal previgente PRG, gli
interventi consentiti dal previgente PRG e da altri
strumenti attuativi già consolidati (ad esempio, Piani
Particolareggiati e Piani di Recupero);
►
gli interventi in esecuzione di piani attuativi approvati
entro la data di entrata in vigore del collegato stesso e la
cui convenzione, stipulata entro il medesimo termine, sia in
corso di validità.
Inoltre, rimane preclusa la possibilità di qualsiasi
procedura di variante urbanistica e, per i Comuni che non
hanno adottato il PGT entro il 30.09.2011, di dar corso
all'approvazione di piani attuativi del PRG.
Infine la norma (comma 1-quinquies), statuisce che nei
Comuni che alla data del 31.12.2012 non hanno approvato il
PGT, dal 01.01.2013 e fino all'approvazione del PGT, non
sono attivabili gli interventi in deroga previsti dal c.d. "piano
casa regionale" (artt. 3-4-5-6, l.r. n. 4 del 2012),
fatte salve le istanze di permesso di costruire e le denunce
di inizio attività presentate entro il 31.12.2012; questa
disposizione, per i Comuni terremotati e in dissesto
finanziario, troverà applicazione dal 01.01.2014.
Milano, 21.12.2012
L'Assessore al Territorio e Urbanistica, Nazzareno
Giovannelli
Il Direttore Vicario, Gian Angelo Bravo (link a
www.territorio.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: Normativa nazionale – modifiche alle procedure
inerenti gestione e manutenzione degli impianti termici
civili (ANCE Bergamo,
circolare 21.12.2012 n. 293). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: Normativa nazionale – pubblicato il D.M.
22.11.2012 recante modifica delle Linee Guida nazionali per
la certificazione energetica (ANCE Bergamo,
circolare 21.12.2012 n. 292). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Lombardia,
Nuova modalità di versamento al Fondo Aree Verdi.
Si segnala alle Amministrazioni interessate, che i
versamenti al Fondo Aree Verdi (ex art. 43 legge 12/2005)
dovranno avvenire unicamente a mezzo di contabilità
speciale, presso la tesoreria Provinciale dello Stato -
Sezione di Milano - Codice Ente (beneficiario): 30268.
Ulteriori istruzioni sulla compilazione del versamento sono
riportate nelle pagine di questo sito dedicate al
Fondo Aree Verdi.
Per un rapido accesso
clicca qui.
(20.12.2012 - link a www.regione.lombardia.it). |
CONVEGNI |
EDILIZIA
PRIVATA:
Si segnala n. 1 convegno gratuito
organizzato da ANCE Bergamo, itinerante nella provincia di
Bergamo, che si terrà in tre pomeriggi distinti sul tema "LA
GESTIONE DELLE TERRE E ROCCE DA SCAVO alla luce delle novità
introdotte dal D.M. 161/2012" e, precisamente il
30.01.2013
+ 06.02.2013
+ 13.02.2013.
Maggiori dettagli e la locandina/scheda di partecipazione
possono essere letti
cliccando qui. |
UTILITA' |
EDILIZIA
PRIVATA:
Lombardia, Necessita aggiornare il costo di costruzione
entro il 31.12.2012 il cui effetto sarà efficace a
decorrere dall'01.01.2013: ecco il fac-simile di
determinazione (file
1 -
file 2).
ATTENZIONE:
se non si adotta la determinazione di aggiornamento entro la
suddetta scadenza per tutto il 2013 si dovrà
applicare il medesimo costo di costruzione vigente nell'anno
2012 (cfr. art. 48, comma 2, della L.R. n. 12/2005).
ALCUNE CONSIDERAZIONI:
lo
scorso
06.11.2012 l'ISTAT ha pubblicato la nuova
rilevazione relativa al 3° trimestre 2012 per cui -ad oggi-
il dato ufficiale ISTAT è quello relativo alla variazione
del mese di agosto 2012, mentre quello di settembre 2012 è
ufficioso e, come tale, non utilizzabile (N.B.: per
controllare il dato in tempo reale
cliccare qui).
Pertanto, poiché il dato ufficioso di settembre 2012 sarà
ufficiale solamente col prossimo aggiornamento trimestrale
che sarà pubblicato l'anno prossimo, si
può già sin d'ora adottare la determinazione di
aggiornamento del costo di costruzione per l'anno 2013
senza aspettare gli ultimi giorni del mese corrente col
rischio di dimenticarsene (e, quindi, perdere soldi per le
casse comunali !!).
Inoltre, poiché trattasi di attività vincolata, la
competenza è gestionale e non della Giunta Comunale (siccome
lette alcune delibere facilmente trovabili nel web ... ci
dite cosa c'è di politico da deliberare??).
18.12.2012 - LA SEGRETERIA PTPL |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 21.12.2012, "“Linee
guida dematerializzazione per gli enti locali lombardi” in
attuazione dell’agenda digitale lombarda" (decreto
D.U.O. 13.12.2012 n. 12125). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 21.12.2012, "Protocollo
operativo per la gestione dei casi di inquinamento diffuso
delle acque sotterranee" (deliberazione
G.R. 13.12.2012 n. 4501). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 21.12.2012, "Costituzione
del tavolo delle aree regionali protette (l.r. 86/1983, art.
6, commi 3 e 4)" (decreto
D.U.O. 10.12.2012 n. 11638). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 50 dell'11.12.2012, "Direzione
centrale Programmazione integrata – Ulteriori precisazioni
circa l’iniziativa FRISL 2012- 2014 G) «Centri di raccolta
comunali o intercomunali dei rifiuti urbani e assimilati (d.m.
08.04.2008 e s.m.i.)» ex l.r. 33/1991 (Fondo Ricostituzione
Infrastrutture Sociali Lombardia)"
(circolare
regionale 05.12.2012 n. 9). |
ENTI LOCALI -
VARI: G.U.
18.12.2012 n. 294, suppl. ord. n. 209, "Determinazione
della popolazione legale della Repubblica in base al 15°
censimento generale della popolazione e delle abitazioni del
09.10.2011, ai sensi dell’articolo 50, comma 5, del
decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con
modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122" (D.P.R.
06.11.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ENTI LOCALI - EDILIZIA PRIVATA: G.U.
18.12.2012 n. 294, suppl. ord. n. 208/L, "Testo
del decreto-legge 18.10.2012, n. 179, coordinato con la
legge di conversione 17.12.2012, n. 221, recante:
«Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese»". |
ATTI
AMMINISTRATIVI: G.U.
18.12.2012 n. 294 "Regole tecniche per l’identificazione,
anche in via telematica, del titolare della casella di posta
elettronica certificata, ai sensi dell’articolo 65, comma 1,
lettera c -bis ), del Codice dell’amministrazione digitale,
di cui al decreto legislativo 07.03.2005 n. 82 e successive
modificazioni" (D.P.C.M.
27.09.2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: G.U.
18.12.2012 n. 294 "Separati certificati di firma, ai
sensi dell’articolo 28, comma 3-bis), del Codice
dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo
07.03.2005, n. 82" (D.P.C.M.
06.09.2012). |
CORTE DEI
CONTI |
SEGRETARI
COMUNALI:
Retribuzione di risultato del Segretario e art.
9, comma 2-bis, d.l. 78/2010.
La Corte dei Conti, sezione regionale Veneto, con il
parere 22.11.2012 n. 972, affronta il tema
dell'assoggettamento o meno alle limitazioni poste dall'art.
9, comma 2-bis, del d.l. 78/2010 delle risorse destinate a
finanziare la retribuzione di risultato del Segretario, ai
sensi dell'art. 42 del CCNL del 16.05.2001.
Di seguito le considerazioni preliminari e, poi, conclusive
della sezione.
Secondo la vincolante ricostruzione interpretativa offerta
dalle Sezioni Riunite con la deliberazione n. 51/CONTR/2011,
confermata anche dal Ministero dell'Interno-Ragioneria
Generale dello Stato con circolare n. 12 del 15.04.2011:
- "Le risorse con riferimento alle quali opera il
contenimento, dunque, sarebbero quelle di alimentazione dei
fondi, ovvero, le risorse potenzialmente destinabili alla
generalità dei dipendenti dell'ente attraverso lo
svolgimento della contrattazione integrativa. Ne
resterebbero, di conseguenza, esclusi, gli importi diretti a
remunerare prestazioni professionali tipiche di soggetti
individuati o individuabili (e, segnatamente, le risorse per
le attività di progettazione e per l'avvocatura interna),
che alimentano il fondo in senso solo figurativo, non
essendo destinati a finanziare incentivi spettanti alla
generalità del personale dell'amministrazione pubblica";
- "L'identificazione, ai soli fini dell'applicazione del
limite di spesa di cui al comma 2-bis, tra fondi della
contrattazione integrativa e salario accessorio, peraltro,
trova conforto nella previsione contenuta nell'ultimo
periodo di tale comma: la riduzione, automatica e
proporzionale, dell'ammontare complessivo degli importi
destinati al trattamento accessorio del personale dell'ente,
in conseguenza della riduzione del numero dei dipendenti in
servizio ivi prevista, infatti, non può che avere ad oggetto
le risorse che, confluendo nei fondi unici di
amministrazione, attraverso i meccanismi 'distributivi'
propri della contrattazione decentrata, sono ripartite tra
la generalità dei dipendenti e che, nell'ottica del
contingentamento e della razionalizzazione della relativa
spesa, a fronte della riduzione dell'organico complessivo,
devono subire una correlativa diminuzione. Tale rilievo
consente di superare le inevitabili perplessità ingenerate
dalla formulazione della prima parte del comma in esame
-che, nel contemplare genericamente le 'risorse destinate
annualmente al trattamento accessorio del personale', e non
contenendo più il termine 'fondo' o 'fondi', che compariva,
invece, in precedenti ed analoghe disposizioni (art. 1,
comma 189, della L. 266/2005 ed art. 67 del D.L. 112/2008),
sembrerebbe riferirsi a tutti gli importi che, anche senza
passare per la contrattazione decentrata, alimentano il
salario accessorio- e di restringere il campo alle
componenti del trattamento accessorio finanziate dai fondi e
non direttamente dal bilancio dell'ente (sul punto, Sez.
Lombardia, deliberazione n. 59/2012/PAR)";
- "In quest'ottica interpretativa, occorre stabilire se
le risorse di cui al citata art. 42 del CCNL del 2001,
destinate alla corresponsione, in favore del Segretario
comunale, della indennità di risultato, siano
indentificabili con quelle di cui all'art. 9, comma 2-bis,
del D.L. 78/2010. Posto che l'indennità in questione
costituisce certamente una componente del trattamento
accessorio del Segretario, deve rilevarsi, tuttavia, che le
risorse, all'uopo, stanziate dall'ente (definite dalla
disposizione contrattuale come 'aggiuntive') non
confluiscono in un fondo unico di amministrazione e non
contribuiscono in alcun modo ad alimentare il trattamento
accessorio della generalità dei dipendenti, risultando
'dedicate' al solo Segretario. Le risorse in questione, in
sostanza, si collocano al di fuori della contrattazione
integrativa, non concorrendo in alcun modo ad alimentarla,
neppure in modo figurativo, e gravano direttamente sul
bilancio dell'ente. Tali elementi, interpretati alla luce
delle indicazioni (peraltro vincolanti) offerte dalle
SS.RR., inducono ad escludere dal campo di applicazione
della norma limitatrice le risorse destinate alla
retribuzione di risultato del Segretario comunale";
- la spesa in questione è comunque rilevante ai fini del
contenimento complessivo della spesa di personale ai sensi
dell'art. 1, comma 557, della legge n. 296/2006 ed in
particolare di quanto ivi previsto alla lettera c);
- "... la stessa disposizione contrattuale che disciplina
la retribuzione in esame, pone, quale limite allo
stanziamento delle relative risorse, proprio 'la capacità di
spesa' del singolo ente; concetto, quest'ultimo, che, può
riferirsi, più in generale, anche a quegli elementi (vincoli
e limiti economici e finanziari imposti dall'ordinamento),
condizionanti, in concreto, l'autonomia di spesa";
- "Infine, si rammenta che il trattamento economico
complessivo spettante al singolo dipendente, comprensivo,
per espressa previsione normativa, anche del 'trattamento
accessorio' (e, quindi, nel caso del segretario,
dell'indennità di risultato di cui all'art. 42 cit.), è
soggetto alla riduzione prevista dal comma 1 dell'art. 9 del
D.L. 78/2010" (tratto da www.publika.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Assunzioni negli enti non soggetti al patto di
stabilità.
La Corte dei Conti, sezione regionale Molise, con il
parere
21.11.2012 n. 134 risponde ad un ente in ordine alla
possibilità di trasformare una posizione dotazionale a tempo
pieno in part-time al fine procedere alla copertura mediante
concorso pubblico (previo espletamento delle prescritte
procedure di mobilità); posto che si renderà vacante
(collocamento a riposo a breve) dell'unico dipendente in
servizio.
La sezione, richiamata la normativa e le interpretazioni
delle Sezioni Riunite e delle Autonomie (rispettivamente
delibere SS.RR. n. 3/CONTR/2011, n. 11/CONTR/2012 e Sez.
Aut. n. 6/AUT/2012), rammenta all'ente che le condizioni per
poter procedere ad una eventuale assunzione sono:
- rispetto dell'art. 1, comma 562, della legge 296/2006;
- limite delle cessazioni di rapporti di lavoro a tempo
indeterminato intervenute nell'anno precedente;
- incidenza della spesa di personale non superiore al 50%
della spesa corrente;
- ai fini della trasformazione, osservanza delle norme
legislative e contrattuali che disciplinano il part-time
(tratto da www.publika.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
Responsabilità istruttoria e affidamento di
consulenze.
La dirigenza pubblica trentina è stata scossa dalla
sentenza 10.02.2012 n. 1 della Corte dei conti,
sezione giurisdizionale Trento, con la quale un dirigente
generale della Provincia è stato condannato per aver
affidato, a due professionisti esterni, una consulenza
reputata illegittima.
La decisione
L’alto burocrate, ritenendo inadeguato il personale della
propria struttura, ha esternalizzato l’attività di controllo
avente ad oggetto “l’esperimento […] della fase di
controllo sulle dichiarazioni di spesa rese dai beneficiari
finali delle risorse”.
Nella sentenza è stato puntualizzato che i provvedimenti
(deliberazioni della Giunta provinciale n. 1550/2004 e n.
1102/2005) erano giustificati “dal numero di ore
occorrenti per lo svolgimento dell’incarico e dalla
impossibilità di reperire all’interno della struttura
provinciale le figure professionali idonee ad espletarlo.
Detta circostanza era stata indicata […] con […] precedente
nota […] al Dipartimento Organizzazione, personale e affari
generali, che avrebbe espresso un generico orientamento
positivo alla soluzione contrattuale proposta in via
temporanea”.
Il contenuto delle prestazioni acquisite dai professionisti
(nella specie, revisori contabili) consisteva “[…] nella
verifica della coincidenza delle dichiarazioni con documenti
contabili regolarmente quietanzati e nell’ammissibilità
delle spese secondo la normativa vigente, nonché nella
segnalazione all’Ufficio […] di qualsiasi irregolarità
rilevata nel corso della verifica”; la Procura attrice,
quindi, ha sostenuto che quella che, impropriamente, era
stata qualificata come consulenza era, in realtà, “[…]
un’attività di mero controllo di dati attestati con
dichiarazioni sostitutive di atto notorio, ovvero una vera e
propria prestazione di attività lavorativa, effettuata non
per fronteggiare temporanee esigenze ma per periodi in
realtà collegati senza soluzione di continuità in un arco
temporale che va dal luglio 2004 al dicembre 2008”.
Secondo la magistratura contabile, dunque, non si era in
presenza di attività complessa, legittimante un incarico
esterno, ma di una tipologia di controllo interno, demandato
in via esclusiva alle stesse amministrazioni ai sensi del
Dlgs n. 286/1999; e trattavasi, per giunta, di un compito “più
legato ad un’attività di riscontro formale, che non ad un
controllo sostanziale dei costi ammissibili”.
Le argomentazioni formulate dalla Procura l’hanno portata
anche ad escludere che le prestazioni oggetto di
contestazione potessero essere caratterizzate dal requisito,
normativamente previsto, dell’alta professionalità.
Il convenuto, da parte sua, ha sostenuto che la decisione di
ricorrere alla consulenza era stata adottata dalla Giunta
provinciale; che il personale del Dipartimento, e degli
uffici in cui questo si articolava, non era in grado di
svolgere i prescritti controlli nei tempi ritenuti
necessari; che l’attività esternalizzata implicava compiti
ad alto contenuto specialistico.
Il Collegio, in primo luogo, ha concentrato l’attenzione
sulle caratteristiche dell’attività affidata ai due
professionisti; e, dopo aver esaminato il quadro normativo
comunitario, nazionale e provinciale, ha precisato che “trattandosi
di dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà ai sensi
dell’art. 47 del Dpr 445/2000, sono, quindi, sottoposte ad
idonei controlli a campione al fine di verificarne la
veridicità”, operazione, quest’ultima, consistente nella
verifica della perfetta conformità tra spese dichiarate e
correlativa documentazione contabile.
Sulla base di una tale valutazione, ha concluso che “l’oggetto
degli incarichi conferiti rientrava nell’ambito dei
controlli di cui all’art. 25 del decreto del Presidente
della Giunta provinciale 27.12.2000, n. 33-51/Leg e degli
artt. 46 e ss. del decreto del Presidente della Repubblica
28.12.2000, n. 445, attività di competenza
dell’amministrazione a norma del citato art. 71 del Dpr
445/2000, ed ordinariamente svolta da qualifiche non
particolarmente elevate”.
Quanto alla presunta difficoltà e complessità dell’attività
di controllo affidata ai due professionisti esterni, la
sezione trentina ha contraddetto le tesi difensive, traendo
spunto, oltretutto, dalla documentazione prodotta dal
medesimo convenuto; dalla quale è emerso che il bando di
concorso, pubblicato per reperire personale esperto in
attività di revisione e gestione contabile, non prevedeva
specifici requisiti di ingresso.
L’organo giudicante, infatti, ha affermato che “la
selezione presupponeva un generico diploma di laurea
-trattandosi comunque di concorso per l’assunzione di
funzionari- non orientato a particolari indirizzi o
attività. Inoltre, si desume dalle prove orali dello
specifico indirizzo del concorso -più genericamente rivolto
a soddisfare le ‘necessità di coordinamento e di
accompagnamento delle azioni a cofinanziamento del Fondo
sociale europeo’- che esso non richiedeva un particolare
grado di specializzazione”.
Anche uno dei due incaricati ha confermato la natura “generica”
dei compiti affidati, avendo affermato che “I soggetti
beneficiari del Fse esibiscono alla Provincia delle
dichiarazioni sostitutive di atto notorio in cui dichiarano
i costi sostenuti in un determinato arco di tempo. La nostra
funzione è quella di controllare l’esistenza dei documenti
in originale e i relativi attestati di pagamento, quindi,
dobbiamo accertare che le spese siano state documentate e
pagate. Nell’esaminare la documentazione ci si attiene ai
criteri per la formazione degli strumenti di programmazione
settoriale”. Il professionista ha, inoltre, aggiunto che
“Di fronte a difficoltà interpretative nell’applicazione
dei criteri la sottoscritta chiede il parere all’Ufficio
competente della Provincia”.
Adempimenti istruttori e conferimento di
incarico
La sezione giudicante, quindi, considerati gli elementi di
fatto accertati (attività di ordinaria competenza
dell’amministrazione, non particolare complessità delle
prestazioni, non necessità di competenze specialistiche di
elevato profilo), ha esaminato l’attività istruttoria, posta
a fondamento dei provvedimenti di conferimento degli
incarichi, per verificare se fosse stata supportata “da
atti ricognitivi idonei a dimostrare l’assoluta
indisponibilità di personale interno per effettuare i
controlli in questione”. Circostanza, quest’ultima,
imprescindibile per la legittimità delle consulenze.
Il Collegio, al proposito, ha rilevato alcune discrasie che,
inevitabilmente, hanno condizionato la decisione finale.
Dalla documentazione relativa alla deliberazione della
Giunta provinciale n. 1550/2004 è emerso che il convenuto ha
chiesto al Dirigente generale del dipartimento
Organizzazione, personale e affari generali l’autorizzazione
a ricorrere ad incarichi esterni, per lo svolgimento di
compiti istituzionali che avrebbero comportato un’ingente
attività lavorativa (pari a 1.200 ore), finalizzata alla
verifica di 200 dichiarazioni di spesa (calcolando, quindi,
per ciascuna pratica, un tempo medio di lavoro di 6 ore),
sul presupposto della mancanza, all’interno della struttura
diretta, di personale idoneo a svolgere la suddetta
attività.
La risposta del dirigente generale competente si è limitata
a richiamare i vincoli posti dalla normativa vigente,
rimettendo, all’istante, la valutazione dei presupposti per
il conferimento; pur non costituendo un assenso, “la nota
viene citata nelle premesse della deliberazione di Giunta
provinciale n. 1550/2004, che vi ha attribuito,
incongruamente, il netto significato di parere positivo”.
Il giudice contabile ha inoltre evidenziato una peculiare
discrasia temporale, nel procedimento di conferimento
dell’incarico, rilevando che “la procedura presenta una
curiosa distorsione cronologica, in quanto il dirigente del
dipartimento ha chiesto di attivare consulenze prima della
richiesta ufficiale da parte del direttore dell’ufficio
interessato; il che contrasta con quanto disposto dall’art.
31 della citata L.P. n. 7/97 […]”.
Neppure l’esame della seconda deliberazione della Giunta
provinciale (n. 1102/2005) è riuscito a scalfire la
convinzione che l’istruttoria sia stata condotta in modo
superficiale. Nella sentenza, coerentemente, si legge ”che,
nella specie, non risulta sufficientemente sondata la
possibilità di procurarsi all’interno dell’amministrazione
le figure professionali idonee allo svolgimento
dell’incarico, presupposto indefettibile del relativo
affidamento […]” .
L’analisi effettuata dal giudice contabile si è
successivamente orientata verso profili squisitamente
organizzativi, riguardanti, in particolare, le modalità di
gestione delle risorse assegnate alla struttura del
convenuto, il raffronto costi/benefici in rapporto alla
duplice opzione dell’utilizzo di risorse interne/esterne,
l’eventuale necessità di ricorrere allo strumento della
formazione.
Considerato, infatti, che le deliberazioni con cui erano
stati conferiti gli incarichi esterni risultavano sprovviste
del parere che il dirigente generale avrebbe dovuto
redigere, ai sensi dell’art. 5 della Lp n. 7/1997, sono
stati acquisiti gli organici, di fatto e di diritto, del
Dipartimento e dell’Ufficio coinvolti nella vicenda
contabile, relativi al biennio 2004-2005.
Nei due anni presi in considerazione, lasso di tempo nel
corso del quale l’esternalizzazione oggetto di giudizio si è
consolidata, è emerso che al Dipartimento, a capo del quale
era preposto il convenuto, erano assegnati 461 dipendenti;
secondo la spontanea comunicazione della direttrice
dell’Ufficio di Supporto dipartimentale, circa 70 unità
erano in possesso dei requisiti per poter svolgere i
controlli affidati ai professionisti.
Il convenuto ha motivato l’affidamento esterno, sostenendo
che l’Ufficio competente a svolgere i controlli, quando è
stato incardinato nel proprio Dipartimento, aveva subito una
significativa riduzione d’organico rispetto alla dotazione
che aveva in precedenza (passando da 34 a 17 unità). Ed è
stato, altresì, precisato che solo nove di queste unità
avrebbero potuto essere impiegate nell’attività di controllo
delle dichiarazioni trasmesse dai beneficiari dei
contributi; ciò non sarebbe stato possibile, perché i nove
funzionari erano impegnati nel raggiungimento di differenti
obiettivi di lavoro.
La sezione territoriale, nel valutare gli obiettivi
assegnati al personale potenzialmente idoneo
all’espletamento dei controlli, “e cercando di
comprendere il linguaggio criptico con cui gli obiettivi
stessi sono descritti”, ha osservato che “quasi tutti
i dipendenti segnalati appaiono impegnati in concorsi,
raccordi, monitoraggi, coordinamenti, partecipazioni ed
attività che appaiono per lo più di supporto ad altre: per
di più, è dato conoscere le occupazioni svolte da solo una
parte del personale, poiché degli altri dipendenti in
servizio presso l’Ufficio […] (nel numero complessivo di 34,
secondo la documentazione trasmessa in esito ad ordinanza
istruttoria) si conoscono solo le qualifiche professionali”.
L’organo giudicante, inoltre, ha constatato che l’attività
dei consulenti ha comportato 3.600 ore di lavoro,
retribuite, nell’arco di quattro anni e mezzo, con una
complessiva spesa di 242.990 euro. Applicando i medesimi
parametri numerici, all’attività svolta all’interno
dell’amministrazione, il giudice ha concluso che “l’impegno
lavorativo di un impiegato pubblico è computabile in 36 ore
settimanali, detta attività avrebbe comportato
l’utilizzazione di un solo dipendente per 100 settimane
lavorative totali, equivalenti a circa 23 settimane
all’anno. Non è, quindi, neppure lontanamente ipotizzabile
che gli oltre 70 funzionari in servizio presso il
Dipartimento […] (ai quali si devono aggiungere quelli
assegnati all’Ufficio […]) negli anni 2004-2005, dichiarati
astrattamente idonei a svolgere i controlli sulle
dichiarazioni sostitutive di atto notorio, fossero
assolutamente e totalmente indisponibili allo svolgimento di
tale attività, anche considerando che ad essa avrebbero
potuto essere preposte più unità di personale non pienamente
utilizzato in altre mansioni: il che non è in assoluto
precluso dall’eventuale conseguimento degli obiettivi
assegnati. Più in particolare, considerando anche solo i
dipendenti dell’Ufficio […] indicati dalla difesa, si
osserva che il fatto che quasi tutti gli obiettivi siano
stati comunque conseguiti non esclude automaticamente che i
singoli dipendenti ad essi preposti fossero assolutamente
indisponibili ad effettuare anche i controlli sulle
dichiarazioni sostitutive, ovviamente previa formazione, ove
necessaria”.
Infine, in merito al fatto che gli stessi consulenti, in
caso di dubbi interpretativi, chiedevano pareri all’Ufficio
competente della Provincia, è stato sottolineato che la
dichiarata circostanza “non lascia residuare alcun dubbio
sul fatto che l’attività in questione non vantasse, neppure
di fatto, non solo l’elevato contenuto specialistico proprio
dell’attività di consulenza, ma neppure quello del rapporto
di collaborazione, e che rientrasse invece nell’ambito
dell’ordinaria attività di amministrazione. Ne è riprova il
fatto che ‘l’Ufficio competente della Provincia’ veniva
interpellato dai professionisti ‘di fronte a difficoltà
interpretative’, e quindi avrebbe potuto formare, con piena
soddisfazione anche degli interessi erariali, dipendenti
provinciali idonei ai controlli invece affidati all’esterno,
tanto più che essi implicavano un dispendio di tempo assai
limitato, in proporzione non solo all’intera compagine del
personale provinciale, ma anche a quella in dotazione al
Dipartimento […] e perfino allo stesso Ufficio […]”.
La difesa, tra le varie giustificazioni proposte, ha anche
sollevato la problematica del presunto ruolo marginale del
convenuto in relazione al meccanismo causale del danno: in
buona sostanza, è stato evidenziato come il dirigente
generale abbia posto in essere un comportamento meramente
attuativo di atti rientranti nella competenza della Giunta
provinciale e adottati dall’organo collegiale.
Il giudice contabile, però, ha dissentito da un tale punto
di vista, imputando al convenuto la responsabilità della
carente attività istruttoria, attività che si pone quale
indefettibile presupposto dei provvedimenti di incarico
adottati dalla Giunta provinciale, e che rientra nella
esclusiva competenza del dirigente generale, ai sensi
dell’art. 16 della legge provinciale n. 7/1997.
La condotta del dirigente generale avrebbe, dunque, tratto
in inganno l’organo collegiale, determinandolo a deliberare
gli incarichi esterni, sul duplice errato presupposto
dell’impossibilità di utilizzare personale interno e della
conseguente necessità di avvalersi di prestazioni esterne ad
alto contenuto professionale.
Conclusioni
L’accertamento della responsabilità del convenuto suona,
senza dubbio, come un campanello d’allarme che non può
essere ignorato. Da un lato, infatti, è palpabile la
sensazione che la responsabilità sia stata dichiarata più
per carenze istruttorie che non per la sostanziale
illegittimità della consulenza in sé; il che, per certi
versi, potrebbe apparire difficilmente accettabile. Non è da
escludere, infatti, che la stessa fattispecie, qualora fosse
stata motivata in modo diverso e più coerente, avrebbe
potuto essere decisa in senso opposto o, quanto meno,
addebitando una misura di risarcimento più mite.
Da altro punto di vista, inoltre, sarebbe auspicabile che la
magistratura contabile, nel valutare le singole fattispecie,
non entrasse nel merito dell’organizzazione degli uffici
pubblici. Non spetta, di certo, al giudice, ritornando al
caso in esame, stabilire come deve essere impiegato il
personale o quante unità debbano essere utilizzate, e per
quanto tempo, nello svolgimento delle attività
istituzionali, escluse, ovviamente, le ipotesi di modalità
di svolgimento irrazionali o arbitrarie.
Gli amministratori, dal canto loro, dovranno prestare più
attenzione alla fase istruttoria, che dovrà essere
caratterizzata dalla compatibilità, coerente e razionale,
tra presupposti e decisione finale, e all’adeguato
bilanciamento tra risorse umane assegnate e obiettivi da
realizzare. In tal senso, notevole importanza deve essere
attribuita, nell’ambito delle organizzazioni pubbliche, ai
processi di riorganizzazione, alle competenze del personale
e alle modalità di impiego in rapporto ai compiti da
svolgere (commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com). |
NEWS |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Dirigenti, determinazioni doc. Obbligatoria
l'attestazione di regolarità amministrativa.
Le novità del dl 174 che non necessitano
dell'approvazione del regolamento sui controlli.
Anche le determinazioni adottate dai dirigenti
devono contenere l'attestazione di regolarità
amministrativa; i pareri di regolarità devono essere
contenuti nei testi delle deliberazioni; i responsabili dei
settori finanziari devono attestare che i provvedimenti non
determinano alterazioni negli equilibri finanziari degli
enti e le attribuzioni dei revisori sul terreno dei pareri
sono accresciute in misura assai rilevante.
Sono queste le principali novità immediatamente operative
contenute nel dl n. 174/2012 sul versante istituzionale,
novità che non hanno bisogno della adozione del regolamento
sui controlli interni per diventare operative. Tutte queste
misure vanno nella direzione dell'ampliamento immediato
delle forme di monitoraggio e verifica delle attività delle
amministrazioni locali, così da prevenire il maturare di
condizioni di deficit.
I pareri di regolarità tecnica resi dai responsabili dei
servizi sono necessari da sempre per le deliberazioni
adottate dalla giunta e dal consiglio; con le nuove regole
essi diventano necessari anche sugli altri atti
amministrativi, in primo luogo quindi sulle determinazioni
adottate dai dirigenti o, nei comuni che ne sono sprovvisti,
dai responsabili, dai decreti e dalle ordinanze adottate dai
sindaci. Questa estensione è contenuta nel nuovo testo
dell'articolo 147-bis del dlgs n. 267/2000, Testo unico
delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, che prevede
che tutti gli atti siano accompagnati dal parere di
regolarità amministrativa. Siamo in presenza di una
estensione dell'ambito di applicazione, che è finalizzato al
rafforzamento delle verifiche sulla legittimità dei
provvedimenti amministrativi. Occorre evidenziare che la
scelta si traduce spesso in un aggravamento del procedimento
che ha un rilievo essenzialmente formale: infatti sulle
determinazioni il parere di regolarità tecnica deve essere
rilasciato dallo stesso dirigente o responsabile che adotta
la determinazione e, quindi, dà atto della legittimità,
opportunità, congruità ecc. del provvedimento da lui
adottato.
Un'altra importante novità è la imposizione del vincolo a
che i pareri di regolarità tecnica e contabile sulle
proposte di deliberazione siano contenuti nel testo del
provvedimento. In questo modo il legislatore vuole rendere
subito evidente le valutazioni sui singoli atti, di modo che
risulti immediatamente il giudizio formulato dai dirigenti o
dai responsabili. Il legislatore vuole quindi evitare che
tali giudizi siano contenuti nel frontespizio delle
delibere, il che determinava comunque un effetto di loro
minore evidenza. Appare quanto mai utile che essi siano
inseriti nella premesse della deliberazione, cioè nella
parte in cui si illustrano le ragioni che sono alla base
della scelta contenuta nel provvedimento.
Altra importante novità è il rafforzamento delle competenze
del dirigente o responsabile finanziario. Non si deve
limitare a verificare la copertura degli oneri nel bilancio
dell'ente e la correttezza della imputazione; il suo
giudizio si deve estendere alla attestazione che l'atto non
determini il maturare di condizioni di squilibrio nella
gestione delle risorse. Ovviamente tra le condizioni di
squilibrio si deve prevedere anche l'eventuale mancato
rispetto del patto di Stabilità. È del tutto evidente che in
questo modo l'ambito delle attività dei dirigenti e/o
responsabili dei settori finanziari si espande in misura
assai significativa e rilevante. E che ciò possa determinare
un ampliamento dei compiti esercitati da questi soggetti è
del tutto evidente. È altrettanto evidente che la scelta
legislativa determina un rilevante ampliamento della loro
responsabilità: non possono infatti limitare alla verifica
del rispetto della copertura degli oneri e della correttezza
della imputazione. La «crescita» del loro ruolo determina,
in modo direttamente correlato, un aumento della loro
responsabilità.
I revisori dei conti si devono esprimere su un arco molto
più ampio di atti. In precedenza essi dovevano esprimersi
sulle proposte di bilancio, sui documenti allegati e sulle
variazioni. Adesso sono chiamati a dare, tra l'altro, un
giudizio su tutti i documenti di programmazione economica e
finanziaria, sulla verifica della permanenza degli
equilibri, sulle scelte compiute dall'ente in materia di
gestione dei servizi, sulle proposte di indebitamento, a
partire dai mutui, sull'eventuale ricorso a forme di finanza
innovativa, sul riconoscimento dei debiti fuori bilancio,
sulle transazioni a cui l'ente intende aderire, nonché sui
regolamenti finanziari, ivi compresi quello di economato,
patrimoniali, tributari e delle altre entrate proprie
dell'ente (articolo
ItaliaOggi del 21.12.2012). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Se il sindaco e i
consiglieri sono proprietari di parte dei terreni. Demanio
senza conflitti. Obbligo di astensione per gli
amministratori.
Sussiste l'obbligo di astensione, ai sensi
dall'art. 78, comma 2, del dlgs n. 267/2000, per il sindaco
e i consiglieri comunali di un comune che ha deliberato la
richiesta di «sclassificazione» dal regime demaniale civico
dei terreni soggetti a uso civico ricompresi nel centro
abitato e nell'area industriale dell'ente, in quanto
risultano avere «irreversibilmente perso la conformazione
fisica o la destinazione funzionale di terreni agrari,
ovvero boschivi o pascolativi» (art. 18-bis, comma 1, lett.
a), considerato che detti amministratori risultano
proprietari di parte dei terreni?
L'obbligo di astensione trova fondamento nei principi di
legalità, imparzialità e trasparenza che devono
caratterizzare l'azione amministrativa ai sensi dell'art. 97
della Costituzione.
In particolare, l'art. 78, comma 2, del dlgs n. 267/2000
dispone che: «Gli amministratori di cui all'art. 77,
comma 2, devono astenersi dal prendere parte alla
discussione ed alla votazione di delibere riguardanti
interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto
grado.
L'obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti
normativi o di carattere generale, quali i piani
urbanistici, se non nei casi in cui sussista una
correlazione immediata e diretta fra il contenuto della
deliberazione e specifici interessi dell'amministrazione o
di parenti o affini fino al quarto grado».
Una costante giurisprudenza ritiene che l'obbligo di
astensione, per conflitto di interessi da parte dei soggetti
appartenenti ad organi collegiali, sussista in tutti i casi
in cui i soggetti tenuti alla sua osservanza siano portatori
di interessi personali che possano trovarsi in posizione di
conflittualità o anche solo di divergenza rispetto a quello,
generale, affidato alle cure dell'organo di cui fanno parte
(ex multis Tar Puglia-Lecce, sez. I, 18.07.2009, n.
1884; Consiglio di stato, sez. V, 13.06.2008, n. 2970).
Con specifico riferimento all'approvazione di provvedimenti
normativi o di carattere generale, la giurisprudenza ha
affermato più volte che il dovere di astensione degli
amministratori locali costituisce principio generale che, in
quanto tale, non ammette deroghe o eccezioni e ricorre ogni
qualvolta sussista una correlazione diretta fra la posizione
dell'amministratore e l'oggetto della deliberazione, anche
se la votazione potrebbe non avere altro apprezzabile esito
e la scelta fosse in concreto la più utile e la più
opportuna per l'interesse pubblico (Consiglio di stato, sez.
IV, 26.05.2003, n. 2826; idem 04.12.2003, n. 7050; idem
12.12.2000, n. 6596).
Pertanto, il dovere di astensione sussiste in tutti i casi
in cui gli amministratori versino in situazioni, anche
potenzialmente, idonee a porre in pericolo la loro assoluta
imparzialità e serenità di giudizio. Ciò al fine di evitare
che, partecipando alla discussione e all'approvazione del
provvedimento, essi possano condizionare nel complesso la
formazione della volontà dell'assemblea concorrendo a
determinare un assetto complessivo non coerente con la
volontà che sarebbe scaturita senza la loro presenza
(Consiglio di stato, sez. IV, 21.06.2007, n. 3385).
La fattispecie in esame pare doversi ricondurre nell'ambito
applicativo dell'art. 78, comma 2, del dlgs n. 267/2000,
avendo ad oggetto l'approvazione di un provvedimento di
carattere generale (l'istanza di sclassificazione dal regime
demaniale civico si riferisce a tutto il centro abitato e a
tutta l'area industriale) e ricorrendo quella «correlazione
immediata e diretta» fra il contenuto della
deliberazione e gli interessi personali dei componenti il
consiglio comunale.
In tale ipotesi, per evitare che un possibile conflitto di
interessi possa inficiare la legittimità della
deliberazione, la giurisprudenza ha ritenuto che una
votazione frazionata, cui di volta in volta si astengono gli
amministratori interessati, seguita dall'approvazione del
provvedimento nel suo complesso, rappresenti una soluzione
ragionevole e realistica (Tar Veneto, sez. I, 08.06.2006, n.
1719).
Per la richiamata giurisprudenza è ammissibile che il
consiglio comunale proceda a deliberazioni e votazioni sui
singoli terreni interessati; in queste votazioni disgiunte i
consiglieri interessati si devono astenere, dovendo
risultare le suddette votazioni separate dalla votazione
finale. Tuttavia, l'approvazione della istanza di «sclassificazione»
non può esaurirsi in singole votazioni frazionate riferite
ai singoli terreni, ma deve necessariamente comprendere
anche una fase conclusiva comportante l'esame, la
discussione, la votazione e l'approvazione del provvedimento
nel suo complesso.
I consiglieri che si sono astenuti su singoli punti del
provvedimento, per una loro correlazione diretta ed
immediata con lo stesso, potranno, invece, prendere parte
all'approvazione finale.
La ratio dell'art. 78 del dlgs n. 267/2000,
costituita dall'esigenza di evitare situazioni di conflitto
di interesse dei consiglieri comunali, deve ritenersi
sufficientemente garantita in quanto il consigliere «interessato»,
per quanto riguarda la scelta pianificatoria relativa ai
suoi interessi, non è più in condizione di influire, almeno
direttamente, sulla stessa in sede di votazione finale,
posto che in ordine alla questione si è già formato il
consenso senza la sua partecipazione (Tar Lazio sez. II-bis
sent. n. 6506/2002; Tar Veneto sez. I sent. n. 4159/2003) (articolo
ItaliaOggi del 21.12.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI -
VARI:
LA LEGGE DI STABILITÀ IN SINTESI.
FISCO
TOBIN TAX. La tassa sulle transazioni finanziarie scatterà
da marzo con una nuova veste (esentando la finanza etica).
L'aliquota per i mercati regolamentati sarà dello 0,12% (ma
0,1% dal 2014) e per quelli non regolamentati, su cui sarà
applicata da luglio, dello 0,22% (0,2% dal 2014). Per i
derivati invece l'imposta è fissa e sarà al massimo di 200
euro. Colpito anche il trading più speculativo, con
un'aliquota dello 0,02% sulle negoziazioni ad alta frequenza
(high frequency trading).
IMU. Il gettito dell'imposta municipale propria passa ai
Comuni, che incasseranno subito 7,6 miliardi di euro nel
2013-2014. A queste risorse si aggiungono quelle del Fondo
di solidarietà comunale, pari a 8,9 miliardi nel biennio.
Allo Stato resterà però il gettito Imu su capannoni
industriali e opifici, con un incasso di 8,9 miliardi nel
2013-14. Su questi immobili a uso produttivo i Comuni
potranno aumentare l'aliquota standard dello 0,76%,
portandola fino a un massimo di 1,06%.
TARES. La nuova tassa su rifiuti e servizi sostituisce la
Tarsu e arriverà dall'anno prossimo. La tariffa si pagherà
in più rate e la prima è prevista ad aprile.
SANATORIA MINI-DEBITI. Sono cancellati tutti i piccoli
debiti con il Fisco, fino a un importo di 2 mila euro, che
risalgono a prima dell'anno 2000.
IRPEF REGIONI. Slitta di un anno, al gennaio del 2014, la
possibilità per le Regioni di rimodulare l'addizionale
Irpef, misura prevista dalla manovra estiva del 2011.
CARTELLE PAZZE. Novità per le cartelle esattoriali errate,
con misure per accelerare l'annullamento di questi avvisi di
pagamento inviati erroneamente dal Fisco.
IMPOSTA BOLLO. Nel 2013 aumenta a 4.500 euro, dai precedenti
1.200 euro, il tetto per l'imposta di bollo pagata dalle
società sui prodotti finanziari.
ASSICURAZIONI. Fissato tetto al credito d'imposta delle
imprese assicurative, commisurato all'ammontare delle
riserve tecniche presenti in bilancio.
LAVORO
PRECARI. Salvi i precari della pubblica amministrazione con
contratto in scadenza, che resteranno così al lavoro fino al
prossimo 31 luglio. Nei concorsi pubblici, inoltre, ai
precari potrà essere riservata una quota fino al 40% dei
posti: ne beneficeranno i lavoratori con tre anni di
servizio con contratto a tempo determinato o collaborazione
coordinata e continuativa (co.co.co) nell'amministrazione
che emana il bando. Il reclutamento dovrà svolgersi per
titoli ed esami.
AMMORTIZZATORI SOCIALI. Aumentano le risorse per finanziare
la cassa integrazione in deroga, con 900 milioni che si
aggiungono agli 800 milioni già previsti.
RICONGIUNZIONI. Le ricongiunzioni previdenziali tornano a
essere gratuite, ma soltanto per i lavoratori passati
all'Inps dal pubblico impiego prima del luglio 2010.
BUSTE PAGA PESANTI. Per i lavoratori colpiti dal terremoto
in Emilia Romagna è prevista la restituzione dei contributi
previdenziali, distribuita in rate mensili.
FAMIGLIE
SFRATTI. Arriva una nuova proroga per il blocco degli
sfratti. Il termine è rinviato a fine giugno 2013, con un
possibile ulteriore rinvio di altri sei mesi.
FOTOVOLTAICO. Prorogato al 30.06.2013 il termine per
realizzare gli impianti fotovoltaici su edifici pubblici e
aree della pubblica amministrazione.
ABS E PNEUMATICI. Cancellato l'Abs obbligatorio per le moto
e salta l'obbligo di montare pneumatici termici sulle auto
(e non le catene) in caso di forti nevicate.
SISMA EMILIA. Risorse per sostenere le imprese che hanno
subito danni indiretti, con l'accesso ai mutui garantiti
dallo Stato per pagare tasse e contributi.
ENTI LOCALI
PATTO STABILITÀ. Salgono a 1,4 mld le risorse per Comuni e
Province. Un miliardo arriverà da un allentamento del patto
di stabilità interno, 400 mln da minori tagli per i Comuni.
PROVINCE. Congelato per un anno il riordino delle Province.
Anche nel 2013 non ci saranno elezioni e, se necessario,
arriverà un commissario straordinario.
COMUNI. Rinvio di sei mesi per l'approvazione dei bilanci
dei Comuni. Il termine per la delibere sul bilancio degli
enti locali è spostato infatti al 30 giugno 2013.
RIFIUTI ROMA. Sarà nominato un supercommissario per la
gestione dei rifiuti a Roma e provincia. L'incarico potrà
durare sei mesi, con la possibilità di proroga.
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
CONGEDI A ORE. Arrivano i congedi parentali «su base
oraria». Le modalità per beneficiarne saranno definite dalla
contrattazione collettiva di settore.
TFR PUBBLICO IMPIEGO. Cancellata la trattenuta del 2,5% sul
Tfr per i dipendenti pubblici, con il ripristino del
trattamento di fine servizio (Tfs).
UNIVERSITÀ. Per gli atenei arrivano nuove risorse per 100
milioni di euro. Andranno ad aumentare la dotazione del
Fondo per il finanziamento ordinario delle università.
POLICLINICI NON STATALI. I policlinici delle università non
statali avranno nel 2013 un contributo di 52,5 milioni. La
fondazione Gaslini riceve invece 5 milioni.
FANNULLONI SANITÀ. Verifica straordinaria sul personale del
settore sanitario. Se saranno scovati dei 'fannulloni',
dovranno essere ricollocati alle proprie mansioni.
GDF. Da ottobre per diventare generale di divisione e
generale di corpo d'armata della Guardia di finanza servirà
un anno in più di permanenza nel grado precedente.
SICUREZZA. Nel comparto sicurezza si potranno fare
assunzioni di personale per arrivare a una spesa annua
massima di 70 milioni per il 2013 e 120 milioni dal 2014.
BENI MAFIA. Rafforzamento per l'Agenzia per
l'amministrazione dei beni confiscati alla criminalità
organizzata. I beni mobili sotto sequestro potranno essere
venduti.
POSTE. Rinvio di un anno per i tagli al parco auto di Poste
italiane, obbligata a ridurre le vetture usate dai postini e
quelle date come benefit ai dipendenti.
INPS-INAIL. Slitta al 31 luglio la scadenza dei consigli di
indirizzo e vigilanza (Civ) di Inps e Inail, in attesa del
riordino previdenziale con la nascita del super-Inps.
FINANZIAMENTI
MONTI-BOND. Cambiano i Monti-bond, le obbligazioni
sottoscritte dal ministero dell'Economia di cui beneficerà
Banca Mps. Il termine slitta ancora al primo marzo del 2013.
FONDO TAGLIA-TASSE. Non andranno al fondo taglia-tasse le
risorse derivanti dalla minore spesa per interessi sul
debito pubblico, legata al calo dello spread Btp-Bund.
EXPO 2015. L'Expo 2015 non subirà i tagli lineari del 10%. A
supporto della società di gestione arriverà il personale
della struttura per la gestione liquidatoria di Torino 2006.
BEI. L'Italia parteciperà all'aumento di capitale della
Banca europea per gli investimenti con un contributo di
1,617 miliardi, da pagare in un'unica tranche nel 2013.
AEROSPAZIO. Arrivano 8,43 miliardi di euro in 16 anni per
sostenere le imprese del settore aerospaziale. Un intervento
di cui beneficerà in particolare Finmeccanica.
NON-AUTOSUFFICIENZE. Stanziati 115 milioni di euro per
sostenere i malati di Sla (sclerosi laterale amiotrofica) e
aiutare le persone non-autosufficienti.
TAV. Nuove risorse per 2,25 miliardi di euro per la Tav
Torino-Lione. All'alta velocità ferroviaria sono destinati
150 milioni di euro all'anno dal 2015 al 2029.
EDITORIA
EDITORIA. Per il prossimo anno stanziati 45 milioni di euro
per il settore editoriale e 15 milioni per il sostegno a
radio e televisioni locali.
TV-STAMPA. Prorogato di un anno il divieto di incroci
proprietari tra stampa e televisioni. Lo stop resta in
vigore fino al 31.12.del 2013.
GIOCHI
SALE POKER. Scattano a gennaio le gare per aprire sale da
poker. È stata eliminata infatti la proroga di sei mesi per
l'apertura di sale dedicate al gioco d'azzardo.
MULTE GIOCHI. Rinvio al 30.06.2013 per le multe previste per
gli spot radio-televisivi e la pubblicità sulla stampa per
ragazzi che pubblicizzano i giochi con vincite in denaro (articolo
ItaliaOggi del 21.12.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
INCARICHI
PROGETTUALI:
Appalti senza ribassi selvaggi. Nuovi parametri
per i servizi di ingegneria e architettura.
È in dirittura d'arrivo il provvedimento per la
liquidazione dei compensi professionali.
È finita l'era delle liberalizzazioni selvagge nei bandi per
la pubblica amministrazione. L'era in cui cioè, con
l'eliminazione delle tariffe, le gare per i servizi di
ingegneria e architettura venivano aggiudicate a prezzi
stracciati con ribassi anche del 90% rispetto al prezzo
iniziale.
È in dirittura d'arrivo, infatti, un nuovo provvedimento che
dopo la definizione dei parametri (dm 01/08/2012) per la
liquidazione dei corrispettivi in caso di contenzioso, si
occuperà di comporre il mosaico complessivo di riforma delle
professioni: si tratta di un decreto interministeriale
(giustizia-infrastrutture) che definisce i parametri da
utilizzare per la determinazione dell'importo da porre a
base di gara nell'ambito dei contratti pubblici dei servizi
di ingegneria e architettura.
Il contesto generale.
Un testo dall'elaborazione
complessa (il ministero sta finendo le consultazioni con le
categorie interessate per inviarlo al Consiglio di stato) ma
necessario, dopo che il decreto legge sulle liberalizzazioni
(1/12) aveva di fatto cancellato ogni riferimento
tariffario, privando le stazioni appaltanti di regole per
calcolare gli importi e per determinare, di conseguenza, le
corrette procedure per l'affidamento. Un'assenza di regole
denunciata a gran voce dalle categorie professionali che,
tra le altre cose, ha alimentato, soprattutto in questi
mesi, un'eccessiva discrezionalità delle stazioni
appaltanti.
Anche se l'assenza di riferimenti tariffari per i servizi di
ingegneria e di architettura non è uno scenario nuovo per il
settore già colpito da modifiche significative nel 2006 con
l'eliminazione delle tariffe minime obbligatorie, introdotta
dalle lenzuolate Bersani. Questa abolizione pur con alcune
eccezioni (giacché il ricorso alle tariffe non era vietato
del tutto se utilizzate come parametri di riferimento) non
contemplava comunque più l'obbligo per le stazioni
appaltanti di applicare tariffe fisse o minime con il
risultato di avere ribassi delle offerte nelle gare
pubbliche anche del 90% del loro valore iniziale.
Comunque per sanare tale criticità il governo era
intervenuto con il decreto sviluppo stabilendo che per la
determinazione dei corrispettivi da porre a base di gara
nelle procedure di affidamento di contratti pubblici dei
servizi tecnici si sarebbero applicati i parametri
individuati appunto con un decreto interministeriale che
avrebbe anche definito «le classificazioni delle
prestazioni professionali relative ai predetti servizi».
Il tutto con un paletto preciso: «I parametri individuati
non possono condurre alla determinazione di un importo a
base di gara superiore a quello derivante dall'applicazione
delle tariffe professionali vigenti prima dell'entrata in
vigore del presente decreto».
I punti principali del testo.
La battaglia dei periti industriali che hanno sostenuto
assieme al Pat, il lavoro dei tecnici del ministero per la
stesura del testo, è stata orientata soprattutto a eliminare
gli aspetti eccessivamente discrezionali. Così è saltata, in
primo luogo, la possibilità per le pubbliche amministrazioni
di aumentare o diminuire gli importi a base di gara del 60%
in maniera completamente discrezionale come invece è
avvenuto nel decreto sui parametri per le liquidazioni
giudiziali dei compensi dei professionisti (dm 140/12). Allo
stesso modo quel parametro indicato nel testo con la lettera
«G», che nel calcolo degli importi a base di gara servirà a
definire la «complessità della prestazione», vedrà
diminuire la sua portata discrezionale.
Il decreto, infatti, non fissa più (come nelle versioni
circolate in precedenza) una forbice tra due valori (ridotto
e elevato), ma quozienti fissi e non derogabili stabiliti a
seconda della categoria e della destinazione funzionale
dell'opera. Il provvedimento richiama nella valutazione del
compenso quanto stabilito nel decreto relativo ai parametri
giudiziali prevedendo anche la classificazione dei servizi
professionali, tenendo conto della categoria dell'opera e
del grado di complessità.
Torna poi la liquidazione forfettaria delle spese, in
sostanza l'importo delle spese e degli oneri accessori,
invece si legge sul dm, è determinato «forfettariamente»
secondo percentuali standard degli oneri sostenuti dal
professionista che varieranno tra il 10 e il 25% a seconda
del valore dell'opera.
Il commento.
«L'offerta economica calcolata su basi false»,
commenta il presidente del Cnpi Giuseppe Jogna, «era
tristemente diventata l'unica variabile nelle
aggiudicazioni, e abbiamo assistito a corse al ribasso per
firmare contratti un po' usa e getta. Ma non solo, perché
nonostante l'evidente abnormità dei ribassi, le stazioni
appaltanti, forse perseguendo un miope criterio di
risparmio, non hanno quasi mai dato applicazione al concetto
di offerta anomala.
Uno scenario quasi da Far west che sull'onda delle selvagge
liberalizzazioni ha assimilato le attività professionali a
quelle dell'impresa dove prevale il minor costo anche a
scapito della qualità dei servizi. Ecco perché ben venga
questo decreto che sono convinto risolleverà l'alto livello
qualitativo che, da sempre, ha caratterizzato gli studi di
progettazione nel nostro paese» (articolo
ItaliaOggi del 21.12.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Le liti stradali non sono assimilabili a quelle
tributarie. Lo ha detto la Consulta. Sindaci, multe non
impugnabili. Decadono se ricorrono contro le multe del
proprio vigile.
Costa caro al primo cittadino proporre ricorso al
giudice di pace contro una multa personale elevata dal suo
comando di polizia municipale. Il radicamento e la
prosecuzione della lite costituiscono infatti potenziali
cause di decadenza dall'incarico in conformità all'art. 63
del Tuel.
Lo ha evidenziato la Corte Costituzionale con l'ordinanza
06.12.2012 n. 276.
È singolare la vicenda del sindaco di Azzano Decimo che dopo
essere incappato nei rigori dell'autovelox dei vigili del
suo comune ha proposto ricorso contro la multa davanti al
giudice di pace di Pordenone.
Un attento cittadino di diverso orientamento politico ha
quindi promosso con successo un giudizio davanti al
tribunale al fine di accertare l'incompatibilità
sopravvenuta del primo cittadino ai sensi dell'art. 63 del
dlgs 267/2000. Contro questa decisione l'interessato con la
fascia tricolore ha quindi proposto censure alla corte
d'appello di Trieste evidenziando, tra l'altro, la
progressiva limitazione dell'ambito di applicazione di
questo istituto e la potenziale assimilazione del
contenzioso stradale con le liti tributarie specificamente
escluse dall'incompatibilità. I giudici della città della
scienza hanno allora sollevato questione di legittimità
costituzionale proprio su quest'ultima questione
evidenziando che l'art. 63 del Tuel è potenzialmente carente
laddove non comprende anche le cause di opposizione ex legge
689/1981 tra quelle che non determinano la decadenza come
quelle fiscali.
A parere della Consulta però la lite tributaria non è
assolutamente assimilabile a quella stradale. La
giurisprudenza di legittimità, specifica l'ordinanza, «ha
annoverato il procedimento di cui alla legge n. 689 del 1981
tra quelli civili a cognizione ordinaria tendente
all'accertamento negativo della pretesa sanzionatoria da
parte dell'autorità competente e proponibili al giudice di
pace ovvero al tribunale». In pratica la speciale natura
della giurisdizione tributaria «implica una ontologica
eterogeneità rispetto alla natura di giudizio civile a
cognizione ordinaria attribuita alla opposizione ex lege n.
689/1981, determinando di conseguenza l'incomparabilità
delle situazioni poste a raffronto».
In buona sostanza se un sindaco intende resistere contro una
multa stradale accertata dai suoi operatori ha le armi
spuntate. Questa condizione però secondo la Corte
costituzionale non incide necessariamente in maniera
sfavorevole sull'elettorato passivo del primo cittadino.
L'amministratore locale, conclude infatti l'ordinanza, ha
piena facoltà di eliminare le cause di incompatibilità
mediante un scelta personale «che lungi dall'essere
normativamente coartata consente al medesimo interessato
(che si trova in un contesto di inconciliabilità tra la
permanenza nella carica e la prosecuzione della lite) di
essere arbitro di se stesso e di preservare il valore
costituzionale che egli ritiene prevalente come cittadino e
come eletto a cariche pubbliche» (articolo ItaliaOggi
del 21.12.2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
Regolamento sprint per i controlli.
Tempi stretti per l'approvazione del regolamento che dovrà
definire gli strumenti e le modalità di controllo interno di
cui al comma 1, lett. d), dell'art. 3 del dl 174 convertito
nella legge 213/2012.
Chi si augurava che con la conversione del decreto legge in
materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali
sarebbe slittato almeno di due mesi il termine del
10.01.2013 è rimasto deluso e oramai restano pochi giorni
per l'adozione di un regolamento complesso che presuppone
anche una chiara visione organizzativa e di funzionamento
effettivo dei «nuovi» sistemi di controllo interni
agli enti locali.
Con la conversione del dl 174 è stata concessa una proroga
temporale di uno o due anni ai comuni con popolazione
inferiore ai 100 mila abitanti (a seconda della dimensione
demografica, rispettivamente, superiore a 50 mila o a 15
mila abitanti) solo per la tipologia dei controlli sulle
partecipate, compreso il bilancio consolidato, strategico,
sulla qualità dei servizi erogati e sulla soddisfazione
degli utenti interni ed esterni.
Immediata operatività per tutti gli enti locali, invece, del
controllo di gestione, del controllo strategico, del
controllo costante degli equilibri finanziari, sia in
termini di competenza sia di residui nonché della gestione
di cassa, anche ai fini del rispetto del patto di stabilità.
Gli enti avevano tre mesi dal 10.10.2012, per l'adozione con
delibera di Consiglio di un apposito regolamento da inviare
alla Corte dei conti e al prefetto, pena lo scioglimento del
Consiglio ai sensi dell'art. 141 Tuel.
Ma oltre al regolamento la norma richiede la piena ed
effettiva operatività degli stessi controlli; non basta,
cioè, la stesura ed approvazione del regolamento.
Sicuramente la complessità della tipologia dei controlli in
questione richiede uno sforzo organizzativo degli enti che
passa attraverso la rivisitazione del regolamento degli
uffici e dei servizi per la valutazione della «collocazione»
di tali controlli, la verifica del sistema informativo
contabile che deve garantire la gestione di informazioni
utili (soprattutto in termini di novità) per il controllo di
gestione, e quindi la contabilità economica ed analitica,
gli indicatori, il sistema di reporting, e il
controllo strategico e relativi indicatori di output ed
outcome.
Il tempo è obiettivamente troppo breve per l'introduzione o
il potenziamento di un serio ed efficace sistema di
controlli.
Tuttavia per non vanificare lo sforzo legislativo utile per
la collettività, sarebbe opportuno che gli enti adottassero
da subito (in assenza di qualche proroga) una delibera di
giunta con cui prendere atto di tale obbligo legislativo e
dare istruzioni operative e organizzative secondo un
percorso prestabilito, riservandosi quanto prima di
sottoporre il regolamento al consiglio per la sua
approvazione, ben sapendo che anche i regolamenti di
Contabilità e dell'organizzazione degli uffici e dei servizi
devono essere rivisti e aggiornati (articolo
ItaliaOggi del 21.12.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Beni culturali. Autorizzazioni paesaggistiche.
Interventi più facili nelle zone protette.
Meno oneri per gli interventi nelle zone tutelate. Il
ministero dei Beni culturali, in linea con quanto previsto
dal decreto legge semplificazioni (Dl 5/2012), ha messo a
punto un Dpr che chiarisce e in qualche maniera amplia le
attività che si possono realizzare nelle zone protette
ricorrendo alle modalità "veloci", indicate nel Dpr
139/2010, per ottenere l'autorizzazione paesaggistica. Si
tratta di un abbattimento dei tempi (da 120 a 60 giorni) e
della presentazione ridotta di documentazione (è sufficiente
la certificazione di un tecnico mentre la relazione
paesaggistica è in formato "mini").
Di queste semplificazioni già potevano usufruire 39
interventi indicati nel Dpr 139. Ora con il nuovo decreto,
che è stato presentato ieri al preconsiglio e sarà esaminato
dal prossimo Consiglio dei ministri, la corsia veloce viene
estesa, per effetto di chiarimenti che i tecnici del
ministero hanno messo a punto circa l'applicazione delle
norme già esistenti, ad ambiti nuovi. Si tratta sempre di
interventi di lieve entità, che, almeno in teoria,
dovrebbero non impattare troppo sul paesaggio.
Per esempio, con il nuovo decreto viene specificato che si
può ricorrere alla procedura dell'autorizzazione
semplificata anche quando si tratta di attività in aree
sottoposte a vincolo di bellezza individua (come ville e
giardini) o nei nuclei e centri storici. Fattispecie che
finora erano escluse dall'autorizzazione paesaggistica
semplificata. Come contropartita, gli interventi di lieve
entità che insistono su tali zone presuppongono una
relazione paesaggistica che, seppure, semplificata, richiede
qualche dettaglio in più rispetto a quella "base".
Devono, invece, ricorrere alla procedura ordinaria gli
interventi realizzati che prevedono un aumento di volume
fino a 100 metri cubi e la demolizione e ricostruzione di
manufatti.
Tra le altre modifiche introdotte alle regole dettate con il
Dpr 139, è stato reso libero –dunque, non soggetto
all'autorizzazione paesaggistica semplificata e tantomeno a
quella ordinaria– il taglio selettivo della vegetazione che
cresce in prossimità dei fiumi
(articolo Il
Sole 24 Ore del 20.12.2012). |
APPALTI: Appalti
in lotti. È una facoltà. I pareri parlamentari sulla
direttiva.
Facoltà e non obbligo di suddivisione in
lotti degli appalti; per le concessioni affidate senza gara
obbligo di appaltare a terzi tutti i lavori; più elasticità
nelle variazioni del prezzo contrattuale.
Sono questi alcuni dei contenuti dei pareri emessi dalle
commissioni parlamentari sulle proposte di direttive europee
su appalti e concessioni. La Commissione ambiente della
camera, su uno dei punti più controversi (suddivisione in
lotti degli interventi di grandi dimensioni) ha chiesto di
rendere facoltativa e non vincolante la suddivisione degli
appalti in lotti separati, al fine di evitare il rischio di
determinare un aggravio dei costi, un prolungamento dei
tempi di esecuzione e un incremento del contenzioso.
Per gli affidamenti a terzi da parte dei concessionari di
lavori pubblici (tema che da ultimo ha visto il governo
Monti seguire la linea di un maggiore ricorso agli
affidamenti a terzi con l'obbligo di affidare almeno il 60%
a partire dal 01.01.2014), il parere votato il 14 dicembre
chiede di valutare «l'opportunità di prevedere la facoltà
per le amministrazioni aggiudicatrici di imporre al
concessionario che una percentuale minima pari al 30% venga
affidata a terzi, con particolare riferimento ai rapporti
concessori di lunga durata». Per le concessioni affidate
o prorogate senza gara, invece, si suggerisce l'obbligo di
affidamento del 100% dei lavori a terzi.
Infine la camera chiede che sia elevata dal 5 al 15% la
percentuale di variazione del prezzo a partire dalla quale
si deve ricorrere a una nuova procedura di aggiudicazione,
favorendo quindi una maggiore elasticità sul mantenimento
del contratto originario. Nel parere approvato il 18
dicembre dalla Commissione lavori pubblici del senato,
emerge l'apprezzamento per la promozione della
partecipazione delle piccole e medie imprese «anche
attraverso l'abolizione dei limiti di fatturato per
l'accesso agli appalti».
Per quel che riguarda invece l'obbligo di creare organi
nazionali di vigilanza (articoli 93 e seguenti delle
proposte) la Commissione suggerisce «in relazione alle
attuali ristrettezze di bilancio, di individuare gli organi
in questione tra le realtà già esistenti nel panorama
pubblico italiano»; ove peraltro opera da più di dieci
anni l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici
(articolo ItaliaOggi del
20.12.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
VARI: PROFESSIONI/
Via libera definitivo al ddl. Le associazioni potranno
rilasciare gli attestati di competenza. Professionisti anche
senza albo. Standard di qualità per le attività non
regolamentate.
È arrivato il riconoscimento per le professioni non
regolamentate.
È stato infatti approvato ieri dalla commissione Attività
produttive della Camera, riunita in sede legislativa, il
disegno di legge n. 1934-B che regolamenta le associazioni
senza un albo di riferimento.
Che ora diventa quindi legge dello stato, al termine di un
iter durato due anni e mezzo. A questo punto, il consumatore
che vorrà usufruire di una prestazione da parte di un
professionista non iscritto a un ordine, potrà consultare
l'elenco delle associazioni professionali pubblicato sul
sito del ministero dello sviluppo economico, a cui sono
affidati, tra l'altro, i compiti di vigilanza sulla corretta
attuazione della legge. Ma vediamo nel dettaglio cosa
prevede questa riforma attesa da decenni dalle libere
associazioni.
Elenco e pubblicità.
L'elenco delle associazioni professionali è pubblicato dal
ministero dello sviluppo economico sul proprio sito
internet. A loro volta, le associazioni pubblicano online
sul proprio portale tutti gli elementi informativi,
impegnandosi a rispettare criteri di trasparenza,
correttezza, veridicità. Nel dettaglio, le associazioni
devono assicurare la piena conoscibilità dei seguenti
elementi: atto costitutivo e statuto, precisa
identificazione delle attività professionali, composizione
degli organismi deliberativi e titolari delle cariche
sociali, struttura organizzativa, eventuali requisiti per la
partecipazione all'associazione. Al ministero dello sviluppo
economico il compito di vigilare sulla corretta attuazione
della legge.
Le attestazioni.
Le associazioni professionali possono rilasciare ai propri
iscritti, previe le necessarie verifiche, delle
attestazioni, che però non rappresentano requisito
necessario per l'esercizio dell'attività, su molteplici
aspetti (regolare iscrizione del professionista, requisiti e
standard qualitativi, possesso della polizza assicurativa),
al fine di tutelare i consumatori e di garantire la
trasparenza del mercato dei servizi professionali.
Per i settori di competenza, le medesime associazioni
possono promuovere la costituzione di organismi di
certificazione della conformità a norme tecniche Uni,
accreditati dall'organismo unico nazionale di accreditamento
(Accredia), che possono rilasciare, su richiesta del singolo
professionista anche non iscritto ad alcuna associazione, il
certificato di conformità alla norma tecnica Uni definita
per la singola professione
(articolo ItaliaOggi del
20.12.2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Ricorsi
al tar sugli appalti. Contributo unificato, vale l'importo
della gara.
Nei ricorsi al Tar sugli appalti il contributo unificato si
calcola in base all'importo a base di gara. La precisazione
arriva da un emendamento al ddl Stabilità nella parte in cui
disciplina il balzello da pagare prima di iniziare una
causa.
Il ddl stabilità ha, in particolare, aumentato il contributo
per i processi al Tar e al Consiglio di Stato in materia di
appalti, sostituendo all'importo fisso di Euro 4 mila una
scaletta a seconda del valore della causa: euro 2.000 quando
il valore della controversia è pari o inferiore ad euro
200.000; euro 4.000 per le controversie di importo compreso
tra 200.000 e 1.000.000 euro; euro 6.000 per quelle di
valore superiore a 1.000.000 euro. L'emendamento precisa che
si applica la soglia massima (6 mila euro) in altri due
casi.
Il primo è quello delle cause di valore
indeterminabile; il secondo caso è quello della omessa
dichiarazione del valore della lite.
A proposito del valore
della lite l'emendamento precisa come debba essere calcolata
per i processi amministrativi. Quando le controversie
amministrative riguardano i provvedimenti concernenti le
procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e
forniture il valore della lite è pari all'importo posto a
base d'asta individuato dalle stazioni appaltanti negli atti
di gara. Il valore non considera i ribassi: c'è quindi la
possibilità di un'incidenza negativa nel caso di ribasso che
comporta un'offerta compresa nello scaglione più basso del
contributo unificato rispetto a quello da applicare per
l'importo base.
Altra precisazione contenuta
nell'emendamento riguarda i provvedimenti adottati dalle
Autorità amministrative indipendenti e quindi le multe
applicate dalle authority: il valore della lite è pari alla
somma delle sanzioni irrogate.
Altri emendamenti riguardano
l'abbandono delle tariffe degli avvocati e l'adeguamento al
decreto sui parametri (140/2012) per la liquidazione delle
spese da parte dei giudici alla fine di una sentenza: il
decreto va usato anche per la liquidazione a favore delle
amministrazioni che si difendono nel giudizio civile e in
quello tributario con propri funzionari (resta ferma la
decurtazione del 20%).
Ciò significa che anche le
amministrazioni subiranno la riduzione delle spese
rimborsate, considerato che i nuovi parametri sono di regola
più bassi delle vecchie tariffe forensi
(articolo ItaliaOggi del 19.12.2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Specifiche
in Gazzetta per la firma digitale.
In G.U. n. 294 di ieri sono stati pubblicati due decreti, a
firma del ministro per la pubblica amministrazione, che
attuano alcune norme contenute nel Codice
dell'amministrazione digitale.
Il primo (D.P.C.M.
06.09.2012) definisce le modalità tecniche
con cui inserire nel certificato qualificato di firma le
informazioni relative a specifiche qualifiche del titolare
della firma digitale, riconosciute da ordini o da collegi
professionali, da amministrazioni pubbliche o da enti
pubblici e privati.
Il secondo (D.P.C.M.
27.09.2012) fissa le regole tecniche mediante le
quali il gestore della casella di posta elettronica
certificata (PEC-ID) tramite la quale possono essere
presentate, in via telematica, istanze e dichiarazioni alle
pubbliche amministrazioni, deve identificare il titolare
della medesima casella
(articolo ItaliaOggi del 19.12.2012). |
CONDOMINIO: In
Gazzetta la legge 220/2012: cosa cambia per le comproprietà
dei fabbricati. Nuovo condominio da giugno.
Il 17/06/2013 la data fissata per l'avvio della riforma.
La riforma del condominio partirà il 17.06.2013. È
stata, infatti, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 293
del 17.12.2012 la legge n. 220 dell'11/12/2012 sulla
riforma della disciplina delle comproprietà dei fabbricati.
La legge prevede, infatti, una vacatio di sei mesi, che
serviranno a studiare le novità e a prepararsi alla
applicazione delle nuove disposizioni.
Le novità toccano il condominio a tutto campo: quorum delle
assemblee più snello per prendere le decisioni e evitare
ingessature, l'amministratore diventa manager e
professionista qualificato e trasparente, più libertà per i
singoli condomini (nel distacco dall'impianto riscaldamento,
per gli impianti radio-tv e pannelli solari.
Cambiano le modalità di convocazione dell'assemblea e i
quorum costitutivi e deliberativi, sia in prima sia n
seconda convocazione, con un limite alla raccolta di
deleghe: l'obiettivo è quello di rendere più snella la
gestione e più facili le scelte.
Cambia la disciplina dell'amministratore, che diventa un
ruolo professionale e richiede un titolo di studio almeno di
istruzione secondaria di secondo grado, ma soprattutto una
formazione specifica e un aggiornamento periodico.
Peraltro è prevista una deroga ai requisiti professionali
sia per gli amministratori che hanno svolto l'incarico per
un anno nell'ultimo triennio (soggetti all'aggiornamento
periodico) sia per il singolo condomino che svolge
l'attività (esonerato anche da obblighi di aggiornamento).
L'amministratore ha maggiori obblighi di trasparenza e deve
aprire un conto corrente bancario dedicato al singolo
condomino, mettendo a disposizione i movimenti bancari al
controllo dei partecipanti. Si codifica, poi, la regola già
prevista da alcune sentenze per cui la funzione
amministrativa può essere svolta da una società. Si svecchia
la disciplina consentendo il sito internet condominiale e,
come richiesto dal garante della privacy, si dettaglia la
maggioranza per l'installazione di telecamere per la
videosorveglianza condominiale.
Viene concesso più spazio al singolo condomino per
distaccarsi dall'impianto di riscaldamento centralizzato,
installare impianti di ricezione radiotelevisiva e pannelli
solari.
Certo se impianti radio-tv e pannelli solari incidono su
parti comuni il condominio potrà dare prescrizioni.
Quanto all'impianto di riscaldamento, il distacco non è
completamente libero, in quanto è concesso solo se non si
fruisce del calore per problemi tecnici prolungati per
un'intera stagione e comunque con obbligo di partecipare
alle spese di manutenzione straordinaria della centrale
termica.
Inoltre il regolamento non può vietare di tenere animali
domestici. Quanto alle spese condominiali, la riforma
sceglie il pugno duro contro i morosi, nei cui confronti
l'amministratore deve agire entro sei mesi. Inoltre i dati
personali dei morosi possono essere comunicati ai creditori
del condominio, tenuti ad agire contro gli inadempienti
prima di rivalersi sui partecipanti in regola
(articolo ItaliaOggi del 18.12.2012). |
GIURISPRUDENZA |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
Gare senza by-pass. Accordi tra atenei e p.a.
illegittimi. La Corte di giustizia
Ue sugli incarichi in affido diretto.
Illegittimi gli accordi di
collaborazione stipulati fra amministrazioni e università
per affidare in via diretta e senza gara, incarichi per
servizi di ingegneria e di consulenza; gli accordi previsti
dalla legge 241/90 non possono essere utilizzati per eludere
l'obbligo di affidare a terzi con gara contratti a titolo
oneroso, e sono legittimi soltanto se prevedono una
effettiva cooperazione fra i due enti, senza prevedere un
compenso.
È quanto si afferma nella
sentenza
19.12.2012 (causa C 159/11)
della Corte di giustizia Ue che vede come parti in causa da
un lato l'Asl di Lecce e dall'altro lato l' Ordine degli
ingegneri della provincia di Lecce e il Consiglio nazionale
degli ingegneri, l'Oice e il Consiglio nazionale degli
architetti.
La vicenda prende le mosse da un affidamento, per importo
soggetto alla normativa comunitaria, riguardante servizi di
studio e valutazione della vulnerabilità sismica di
strutture ospedaliere, disposto dalla Asl Lecce a favore
dell'università del Salento. Dopo la sentenza di primo grado
del Tar Puglia, che aveva dichiarato illegittimo
l'affidamento diretto dell'incarico all'Università, per
omesso ricorso alle procedure di evidenza pubblica, il
Consiglio di stato aveva rimesso la questione alla Corte di
giustizia in via pregiudiziale sulla legittimità degli
accordi ex art. 15 della legge 241/1990.
La Corte Ue accoglie in toto le conclusioni dell'Avvocato
generale e afferma la violazione delle norme delle direttive
appalti in quanto l'accordo non costituisce una forma di
cooperazione in comune di attività fra due amministrazioni
aggiudicatrici (così come prevede la legge 241/1990), bensì
un vero e proprio contratto di consulenza per servizi a
fronte del pagamento di un compenso per il quale occorreva
procedere con gara, ammettendo tutti gli operatori economici
interessati ad acquisire la commessa. L'accordo di
collaborazione, peraltro, non può essere neanche qualificato
come affidamento in house dal momento che non esiste
«controllo analogo» fra Asl e Università, essendo enti
totalmente distinti.
È quindi contraria alle direttive «una normativa
nazionale che autorizzi la stipulazione, senza previa gara,
di un contratto mediante il quale taluni enti pubblici
istituiscono tra loro una cooperazione, nel caso in cui (e
la verifica spetta al giudice nazionale) tale contratto non
abbia il fine di garantire l'adempimento di una funzione di
servizio pubblico comune agli enti medesimi, non sia retto
unicamente da considerazioni e esigenze connesse al
perseguimento di obiettivi d'interesse pubblico, o sia tale
da porre un prestatore privato in situazione privilegiata
rispetto ai concorrenti».
Per i giudici l'illegittimità dell'accordo va letta in
relazione al fatto che il contratto «potrebbe condurre a
favorire imprese private qualora tra i collaboratori esterni
altamente qualificati cui, in base al contratto l'università
può ricorrere per la realizzazione di talune prestazioni,
fossero inclusi prestatori privati»
(articolo ItaliaOggi del
20.12.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
Sentenza della Corte di giustizia. Gare d'appalto
obbligatorie per le consulenze.
L'INDICAZIONE/ Non è rilevante che l'amministrazione
aggiudicatrice non persegua un fine di lucro.
Un'amministrazione pubblica è tenuta
procedere a gare d'appalto anche nei casi di contratti di
consulenza conclusi con un'altra amministrazione
aggiudicatrice che non persegue fini di lucro. Poco importa,
poi, che la remunerazione prevista nel contratto sia
limitata al rimborso spese.
È la conclusione raggiunta dalla Corte di giustizia
dell'Unione europea nella
sentenza
19.12.2012 (causa C 159/11)
che chiarisce l'applicazione della normativa Ue in materia
di appalti.
È stato il Consiglio di Stato a sottoporre alla Corte di
giustizia un quesito pregiudiziale sulla direttiva 2004/18
relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione
degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi
(recepita in Italia con decreto legislativo 12.04.2006 n.
163).
Ai giudici amministrativi si erano rivolti associazioni e
ordini professionali di ingegneri e architetti che
contestavano la legittimità del provvedimento di
attribuzione, da parte dell'Azienda sanitaria locale di
Lecce, di uno studio sulla vulnerabilità sismica delle
strutture ospedaliere all'Università del Salento senza gara
a evidenza pubblica. Il contratto prevedeva una
remunerazione limitata al rimborso spese. Una circostanza
che -secondo la Asl- consentiva di escludere la necessità di
una gara e di sottrarre il contratto al perimetro della
normativa Ue. Una conclusione non condivisa dalla Corte di
giustizia.
Prima di tutto, precisa Lussemburgo, la direttiva 2004/18
non prevede un'esclusione delle gare di appalto nei casi in
cui la remunerazione è basata sul rimborso delle spese. Non
solo. Le eccezioni all'applicazione delle normativa Ue in
materia di appalti pubblici sono limitate e riguardano
unicamente il caso di un contratto di appalto stipulato da
un ente pubblico a vantaggio di un altro ente pubblico sul
quale il primo esercita un controllo. Una situazione che non
ricorre nel caso dei rapporti tra azienda sanitaria e
Università. Né è applicabile l'altra eccezione stabilita
nella direttiva fondata sulla circostanza che il contratto
concluso dai due enti pubblici serva «a garantire
l'adempimento di una funzione di servizio pubblico comune».
Le attività commissionate, infatti, avevano sì un fondamento
scientifico ma «non assomigliavano ad attività di ricerca
scientifica».
C'è poi un ulteriore elemento che ha fatto sorgere
perplessità alla Corte di giustizia. Il contratto di
consulenza, infatti, prevedeva la possibilità per
l'Università di ricorrere a prestatori di servizi privati
per lo svolgimento di alcune attività. Questa possibilità
–chiarisce la Corte– può condurre a favorire alcune imprese
private con il ricorso a collaboratori esterni qualificati.
Di qui la necessità di una gara per evitare che un
prestatore privato sia poi in una situazione privilegiata
rispetto ai concorrenti
(articolo Il
Sole 24 Ore del 20.12.2012). |
APPALTI:
In materia di affidamenti in economia, l’art. 125
d.lgs. n. 163/2006 impone il rispetto del principio di
trasparenza, di cui costituisce espressione la pubblicità
delle sedute di gara, che costituisce, secondo la
giurisprudenza, un principio applicabile anche alle
procedure negoziate nei settori ordinari.
L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha chiarito che i
principi di pubblicità e trasparenza che governano la
disciplina comunitaria e nazionale in materia di appalti
pubblici si estendono anche alle procedure negoziate, con o
senza previa predisposizione di bando di gara, e persino
agli affidamenti in economia nella forma del cottimo
fiduciario, in relazione sia ai settori ordinari che ai
settori speciali di rilevanza comunitaria.
Inoltre, anche quando il criterio è quello dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, si applica la pubblicità
delle sedute per le attività preliminari, diverse dalla
valutazione vera e propria delle offerte tecniche.
In materia di affidamenti in economia, l’art. 125 d.lgs. n.
163/2006 impone il rispetto del principio di trasparenza, di
cui costituisce espressione la pubblicità delle sedute di
gara (Cons. St., ad. plen., 28.07.2011, n. 13), che
costituisce, secondo la giurisprudenza, un principio
applicabile anche alle procedure negoziate nei settori
ordinari (Cons. St., sez. V, 04.03.2008 n. 901; Cons. St.,
sez. III, 03.03.2011 n. 1369).
L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha chiarito che i
principi di pubblicità e trasparenza che governano la
disciplina comunitaria e nazionale in materia di appalti
pubblici si estendono anche alle procedure negoziate, con o
senza previa predisposizione di bando di gara, e persino
agli affidamenti in economia nella forma del cottimo
fiduciario, in relazione sia ai settori ordinari che ai
settori speciali di rilevanza comunitaria (Cons. St., ad.
plen., 31.07.2012, n. 31).
Inoltre, anche quando il criterio è quello dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, si applica la pubblicità
delle sedute per le attività preliminari, diverse dalla
valutazione vera e propria delle offerte tecniche (Cons.
St., ad. plen., 28.07.2011, n. 13; Id., 31.07.2012, n. 31)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.12.2012 n. 6478 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA
PRIVATA: Il
"preavviso di rigetto" costituisce un istituto di carattere
generale che si inscrive nel sistema delle garanzie di
partecipazione procedimentale che impongono l’obbligo
all’amministrazione intenzionata ad adottare un
provvedimento negativo di informarne l’interessato,
esponendo i motivi che si oppongono ad una decisione allo
stesso favorevole, al fine di fornirgli la possibilità di
intervenire nel procedimento mediante l’apporto di eventuali
elementi integrativi dell’istruttoria.
---------------
Proprio in materia di esplicazione di poteri di natura
squisitamente discrezionale, come nel caso di specie, in cui
la Soprintendenza deve effettuare una ponderata comparazione
del progetto presentato con i valori storico-architettonici
e paesaggistici tutelati, può essere maggiormente utile
l’apporto partecipativo del privato interessato al
procedimento amministrativo, per porre in luce aspetti
magari sottovalutati dall’autorità responsabile del
procedimento o non risultanti chiari a sufficienza
dall’esame delle elaborazioni progettuali allegate
all’istanza, sia a vantaggio degli interessi del privato
medesimo che della corretta esplicazione del potere nel
pubblico interesse.
La giurisprudenza amministrativa si è, infatti,
costantemente espressa nel senso dell’illegittimità del
provvedimento di diniego di rilascio di un’autorizzazione
paesaggistica che, in violazione dell’art. 10-bis della l.
n. 241/1990, non sia stato preceduto dalla comunicazione del
c.d. preavviso di rigetto al richiedente; né, al riguardo,
potrebbe ricevere applicazione il meccanismo sanante
contemplato dall’art. 21-octies, comma 2, ultimo inciso, l.
n. 241/1990, atteso che la natura discrezionale e non
vincolata del potere che l’amministrazione investita
dell’istanza respinta ha esercitato è tale da indurre a
ritenere che l’apporto partecipativo dell’interessato
avrebbe potuto orientare in modo differente gli esiti del
procedimento ed il contenuto della determinazione
amministrativa da assumere.
In relazione al primo motivo dedotto,
infatti, relativo alla violazione dell’art. 10-bis della
legge n. 241/1990 e dell’art. 146, comma 8, del d.lgs. n.
42/2004, deve, innanzitutto, ritenersi che il "preavviso di
rigetto" costituisca un istituto di carattere generale che
si inscrive nel sistema delle garanzie di partecipazione
procedimentale che impongono l’obbligo all’amministrazione
intenzionata ad adottare un provvedimento negativo di
informarne l’interessato, esponendo i motivi che si
oppongono ad una decisione allo stesso favorevole, al fine
di fornirgli la possibilità di intervenire nel procedimento
mediante l’apporto di eventuali elementi integrativi
dell’istruttoria.
Dalla documentazione versata in atti risulta pacificamente
che tale possibilità sia stata negata alla società
ricorrente.
Deve, in proposito, osservarsi che, proprio in materia di
esplicazione di poteri di natura squisitamente
discrezionale, come nel caso di specie, in cui la
Soprintendenza deve effettuare una ponderata comparazione
del progetto presentato con i valori storico-architettonici
e paesaggistici tutelati, può essere maggiormente utile
l’apporto partecipativo del privato interessato al
procedimento amministrativo, per porre in luce aspetti
magari sottovalutati dall’autorità responsabile del
procedimento o non risultanti chiari a sufficienza
dall’esame delle elaborazioni progettuali allegate
all’istanza, sia a vantaggio degli interessi del privato
medesimo che della corretta esplicazione del potere nel
pubblico interesse.
La giurisprudenza amministrativa si è, infatti,
costantemente espressa nel senso dell’illegittimità del
provvedimento di diniego di rilascio di un’autorizzazione
paesaggistica che, in violazione dell’art. 10-bis della l.
n. 241/1990, non sia stato preceduto dalla comunicazione del
c.d. preavviso di rigetto al richiedente; né, al riguardo,
potrebbe ricevere applicazione il meccanismo sanante
contemplato dall’art. 21-octies, comma 2, ultimo inciso, l.
n. 241/1990, atteso che la natura discrezionale e non
vincolata del potere che l’amministrazione investita
dell’istanza respinta ha esercitato è tale da indurre a
ritenere che l’apporto partecipativo dell’interessato
avrebbe potuto orientare in modo differente gli esiti del
procedimento ed il contenuto della determinazione
amministrativa da assumere.
Nella fattispecie in questione, in particolare, il
ricorrente ha lamentato che la violazione del
contraddittorio procedimentale non gli avrebbe permesso di
evidenziare all’amministrazione le concrete ragioni
dell’asserita compatibilità del progetto presentato, che non
sarebbe stato completamente e correttamente interpretato
dall’amministrazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 18.12.2012 n. 3117 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
sottoporre la realizzazione di una stazione radio base di
potenza inferiore ai 20 W al procedimento edilizio proprio
del permesso di costruire rappresenta una violazione
dell’art. 4 del d.lgs. 259/2003 e dell’art. 1 della legge n.
241/1990 e cioè di quelle norme che impongono la
semplificazione dei procedimenti preordinati all’esercizio
dell’attività di radiocomunicazione.
Come chiarito dal Consiglio di Stato, la realizzazione di
impianti di telecomunicazione è subordinata soltanto
all’autorizzazione prevista dall’art. 87 del d.lgs. n.
259/2003, ….non occorrendo perciò il permesso di costruire
di cui agli artt. 3 e 10 del DPR n. 380/2001.
In ogni caso, gli impianti di telefonia mobile “non possono
essere assimilati alle normali costruzioni edilizie” e vanno
comunque qualificati come opere di infrastrutturazione del
territorio, realizzabili in qualsiasi zona del territorio
comunale ai sensi dell’art. 16 del D.P.R. 280/2001.
Con riferimento alla prima censura dedotta, il
Collegio non ravvisa ragione alcuna di discostarsi dal
costante orientamento giurisprudenziale, anche di questo
Tribunale, in ragione del quale il sottoporre la
realizzazione di una stazione radio base di potenza
inferiore ai 20 W al procedimento edilizio proprio del
permesso di costruire rappresenta una violazione dell’art. 4
del d.lgs. 259/2003 e dell’art. 1 della legge n. 241/1990 e
cioè di quelle norme che impongono la semplificazione dei
procedimenti preordinati all’esercizio dell’attività di
radiocomunicazione.
Deve pertanto ritenersi fondato il ricorso, nella parte in
cui ha dedotto l’illegittimità della sottoposizione della
realizzazione dell’impianto in questione alla disciplina
edilizia propria degli interventi di ristrutturazione, con
conseguente esclusione della possibilità di fare ricorso
all’istituto della D.I.A. edilizia. Come chiarito dal
Consiglio di Stato nella sentenza della sez. VI, n. 2436 del
28.04.2010, la realizzazione di impianti di
telecomunicazione è subordinata soltanto all’autorizzazione
prevista dall’art. 87 del d.lgs. n. 259/2003, ….non
occorrendo perciò il permesso di costruire di cui agli artt.
3 e 10 del DPR n. 380/2001.
In ogni caso, gli impianti di telefonia mobile “non possono
essere assimilati alle normali costruzioni edilizie” (in
senso conforme cfr. TAR Palermo, sentenza 4557 del 15.07.2010) e vanno comunque qualificati come opere di infrastrutturazione del territorio, realizzabili in
qualsiasi zona del territorio comunale ai sensi dell’art. 16
del D.P.R. 280/2001 (cfr. Cons. Stato, VI, sentenza 4056 del
19.06.2009).
Conseguentemente il provvedimento impugnato, che si fonda
sulla mera collocazione dell’impianto in zona “A” del
territorio comunale, appare privo di un’idonea motivazione,
anche nella parte in cui richiama la deliberazione della
giunta comunale n. 25009 dell’08.09.1999, la quale
prescriveva un divieto generalizzato di installazione di
tralicci in zona A. Non solo, infatti, tale previsione non
ha natura regolamentare e, quindi, non può avere un valore
di parametro di riferimento laddove la legge prescrive, per
l’eventuale limitazione nella collocazione di impianti di
radiofonia, l’espressa esistenza di un divieto puntuale, ma
ha anche un contenuto generico e generalmente applicabile a
tutte le fattispecie che la rende incompatibile con la
disciplina specifica della materia, la quale consente la
limitazione all’istallazione solo laddove ciò risulti
motivato da specifici motivi che ne impongono la
collocazione in un diverso e specifico punto della zona in
questione.
Pertanto, fermo restando l’obbligo del rispetto dei limiti
delle emissioni, peraltro garantito, nel caso di specie, dal
parere positivo dell’ARPA, la realizzazione della SRB è
stata illegittimamente denegata in ragione di un, non
ravvisabile alla luce di quanto sin qui detto, contrasto del
progetto con l’allora vigente normativa urbanistica, di
fatto non esistente
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 18.12.2012 n. 1979 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La realizzazione di una
tettoia può costituire una vera e propria costruzione in
relazione alle dimensioni ed ai materiali utilizzati e come
tale, può essere soggetta al permesso di costruire.
Al riguardo si deve ricordare che gli interventi consistenti
nella installazione di tettoie o di altre strutture che
siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come
strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi
liberi, cioè non compresi entro coperture volumetriche
previste in un progetto assentito, possono ritenersi
sottratti al regime del permesso di costruire soltanto ove
la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono
evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo o di
riparo e protezione (anche da agenti atmosferici)
dell'immobile cui accedono.
Tali strutture non possono viceversa ritenersi installabili
senza permesso di costruire, o D.I.A “alternativa” ai sensi
dell'art. 22 del d.P.R. n. 380/2001, allorquando le loro
dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile
alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui
vengono inserite; quando quindi per la loro consistenza
dimensionale non possono più ritenersi assorbite, ovvero
ricomprese in ragione della accessorietà, nell'edificio
principale o della parte dello stesso cui accedono.
---------------
Per l'identificazione della nozione di volume tecnico
assumono valore tre ordini di parametri:
- il primo, positivo, di tipo funzionale, per cui il
manufatto deve avere un rapporto di strumentalità necessaria
con l'utilizzo della costruzione;
- il secondo ed il terzo, negativi, ricollegati da un lato
all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel
senso che tali costruzioni non devono poter essere ubicate
all'interno della parte abitativa, e dall'altro ad un
rapporto di necessaria proporzionalità fra tali volumi e le
esigenze effettivamente presenti: ne deriva che tale nozione
può essere applicata solo alle opere edilizie completamente
prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale,
in quanto destinate a contenere impianti serventi di una
costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali
della costruzione stessa.
Contrariamente a quanto dedotto da parte ricorrente,
infatti, la realizzazione di una tettoia può costituire una
vera e propria costruzione in relazione alle dimensioni ed
ai materiali utilizzati e come tale, può essere soggetta al
permesso di costruire (TAR Toscana, sez. III, 17.07.2003, n.
2850; TAR Veneto, Sez. II, 10.02.2003, n. 1216).
Al riguardo si deve ricordare che, per giurisprudenza
costante di questo Tribunale (TAR Campania Napoli, sez. IV,
n. 897 del 18.02.2003, n. 12962 del 20.10.2003, n. 4107 del
16.07.2002), gli interventi consistenti nella installazione
di tettoie o di altre strutture che siano comunque apposte a
parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di
protezione o di riparo di spazi liberi, cioè non compresi
entro coperture volumetriche previste in un progetto
assentito, possono ritenersi sottratti al regime del
permesso di costruire soltanto ove la loro conformazione e
le loro ridotte dimensioni rendono evidente e riconoscibile
la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche
da agenti atmosferici) dell'immobile cui accedono.
Tali strutture non possono viceversa ritenersi installabili
senza permesso di costruire, o D.I.A “alternativa” ai
sensi dell'art. 22 del d.P.R. n. 380/2001, allorquando le
loro dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile
alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui
vengono inserite; quando quindi per la loro consistenza
dimensionale non possono più ritenersi assorbite, ovvero
ricomprese in ragione della accessorietà, nell'edificio
principale o della parte dello stesso cui accedono (in
termini Consiglio di Stato, Sez. V, 13.03.2001, n. 1442,
sez. II, 05.02.1997, n. 336, TAR Lazio, Sez. II n. 1055 del
15.02.2002, TAR Parma n. 114 del 06.03.2003).
Nel caso in esame la dimensione della tettoia di cui
trattasi è visibilmente idonea a modificare la sagoma ed il
prospetto dell'edificio, con conseguente alterazione
dell'edificio cui accede, e dagli atti del giudizio non
risulta per essa presentata D.I.A “alternativa”, ai
sensi dell'art. 22, comma 3, del DPR n. 380/2001, né
richiesto permesso di costruire, con conseguente legittimità
dell'ordine di demolizione emanato. Né la “tettoia”
di cui trattasi potrebbe comunque essere considerata un “volume
tecnico”.
Per l'identificazione della nozione di volume tecnico
assumono infatti valore tre ordini di parametri: il primo,
positivo, di tipo funzionale, per cui il manufatto deve
avere un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo
della costruzione; il secondo ed il terzo, negativi,
ricollegati da un lato all'impossibilità di soluzioni
progettuali diverse, nel senso che tali costruzioni non
devono poter essere ubicate all'interno della parte
abitativa, e dall'altro ad un rapporto di necessaria
proporzionalità fra tali volumi e le esigenze effettivamente
presenti: ne deriva che tale nozione può essere applicata
solo alle opere edilizie completamente prive di una propria
autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate
a contenere impianti serventi di una costruzione principale,
per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa
(TAR Campania Napoli, sez. IV, 09.09.2009, n. 4903; TAR
Campania Napoli, sez. II, 11.09.2009, n. 4949)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 14.12.2012 n. 5214 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Si è ritenuto, talvolta,
che non sussista l'obbligo della comunicazione dell'avvio
del procedimento qualora non vi sia alcuna utilità
all'azione amministrativa che scaturisca dalla comunicazione
stessa; l'obbligo sarebbe sancito in funzione
dell'arricchimento che deriva all'azione amministrativa, sul
piano del merito e della legittimità, dalla partecipazione
del destinatario al provvedimento, e, qualora questo non
sussista, tale comunicazione sarebbe superflua e quindi
l'obbligo non sussiste.
Analogamente, si è ritenuto che l'omissione della
comunicazione di inizio del procedimento comporti
l'illegittimità dell'atto conclusivo soltanto nel caso in
cui il soggetto non avvisato possa poi provare che, ove
avesse potuto tempestivamente partecipare al procedimento
stesso, avrebbe potuto presentare osservazioni ed
opposizioni che avrebbero avuto la ragionevole possibilità
di avere un'incidenza causale nel provvedimento finale.
È ormai orientamento consolidato della giurisprudenza
amministrativa quello secondo cui le norme in materia di
partecipazione al procedimento non vanno applicate
necessariamente e formalmente a qualunque ipotesi di azione
amministrativa.
Così, ad esempio, attribuendosi valore decisivo al profilo
funzionale della partecipazione procedimentale, si è
ritenuto, talvolta, che non sussista l'obbligo della
comunicazione dell'avvio del procedimento qualora non vi sia
alcuna utilità all'azione amministrativa che scaturisca
dalla comunicazione stessa; l'obbligo sarebbe sancito in
funzione dell'arricchimento che deriva all'azione
amministrativa, sul piano del merito e della legittimità,
dalla partecipazione del destinatario al provvedimento, e,
qualora questo non sussista, tale comunicazione sarebbe
superflua e quindi l'obbligo non sussiste (TAR Lazio, Sez.
III, 17.06.1998, n. 1405).
Analogamente, si è ritenuto che l'omissione della
comunicazione di inizio del procedimento comporti
l'illegittimità dell'atto conclusivo soltanto nel caso in
cui il soggetto non avvisato possa poi provare che, ove
avesse potuto tempestivamente partecipare al procedimento
stesso, avrebbe potuto presentare osservazioni ed
opposizioni che avrebbero avuto la ragionevole possibilità
di avere un'incidenza causale nel provvedimento finale (TAR
Puglia, Sez. I, 15.09.1997, n. 546)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 14.12.2012 n. 5213 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Un'area edificatoria, già
utilizzata a fini edilizi, è suscettibile di ulteriore
edificazione solo quando la costruzione su di essa
realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla
normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore
permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la
superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma
anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di
verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area
(superficie scoperta più superficie impegnata dalla
costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di
cui si chiede la realizzazione.
Il calcolo della volumetria realizzabile su di un lotto
edificabile deve essere operato detraendo dalla cubatura
richiesta quella relativa al fabbricato preesistente, in
modo da determinare se residui un'ulteriore volumetria
assentibile, a nulla rilevando il fatto che questa possa
insistere su particelle che erano catastalmente divise; tale
computo assume rilievo non certo al fine di determinare una
qualche incidenza sulle volumetrie eseguite in conformità
della normativa vigente all’epoca in cui il relativo
progetto è stato assentito (come affermato dalla difesa del
ricorrente, infatti, la modifica dell’indice di
fabbricabilità successiva non può certo determinare
l’annullamento del titolo edilizio rilasciato in conformità
della disciplina urbanistica applicabile ratione temporis),
ma incide in maniera decisiva sull’assentibilità degli
interventi ulteriori e, nella fattispecie, la volumetria
prevista dal P.R.G. per il lotto de quo era stata già
ampiamente superata.
Si evidenzia, inoltre, che i suddetti indici di
fabbricabilità non possono in alcun modo essere derogati,
salve ipotesi eccezionali riconducibili ad una legislazione
di condono, in quanto, come più volte ribadito, notoriamente
diretti a concorrere alla regolamentazione dell'uso del
territorio comunale in modo conforme, coerente ed adeguato
ai connessi interessi pubblici, così come apprezzati
dall'amministrazione comunale attraverso le scelte
pianificatorie operate.
Il Collegio, conformemente alla consolidata giurisprudenza,
rileva, altresì, che un'area edificatoria, già utilizzata a
fini edilizi, è suscettibile di ulteriore edificazione solo
quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera ed il volume ad
essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente al fine di verificare se, in relazione
all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la
realizzazione (Cons. St., sez. V, 28.05.2012, n. 3120).
La stessa giurisprudenza ha anche chiarito che il calcolo
della volumetria realizzabile su di un lotto edificabile
deve essere operato detraendo dalla cubatura richiesta
quella relativa al fabbricato preesistente, in modo da
determinare se residui un'ulteriore volumetria assentibile,
a nulla rilevando il fatto che questa possa insistere su
particelle che erano catastalmente divise (Cons. St., sez.
V, 26.09.2008, n. 4647; id. 12.05.2008, n. 2177; id.
23.08.2005, n. 4385; id. 29.06.1979, n. 442); tale computo
assume rilievo non certo al fine di determinare una qualche
incidenza sulle volumetrie eseguite in conformità della
normativa vigente all’epoca in cui il relativo progetto è
stato assentito (come affermato dalla difesa del ricorrente,
infatti, la modifica dell’indice di fabbricabilità
successiva non può certo determinare l’annullamento del
titolo edilizio rilasciato in conformità della disciplina
urbanistica applicabile ratione temporis), ma incide
in maniera decisiva sull’assentibilità degli interventi
ulteriori e, nella fattispecie, la volumetria prevista dal
P.R.G. per il lotto de quo era stata già ampiamente
superata.
Si evidenzia, inoltre, che i suddetti indici di
fabbricabilità non possono in alcun modo essere derogati,
salve ipotesi eccezionali riconducibili ad una legislazione
di condono, in quanto, come più volte ribadito, notoriamente
diretti a concorrere alla regolamentazione dell'uso del
territorio comunale in modo conforme, coerente ed adeguato
ai connessi interessi pubblici, così come apprezzati
dall'amministrazione comunale attraverso le scelte
pianificatorie operate (Cons. St., sez. V, 28.05.2012, n.
3120)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 14.12.2012 n. 5209 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il rilascio del permesso
di costruire in sanatoria consegue necessariamente ad
un'istanza dell'interessato, mentre al Comune compete, ai
sensi dell'art. 27 del D.P.R. 380/2001, l'esercizio della
vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia che si svolge
nel territorio comunale e, pertanto, una volta accertata
l'esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso di
costruire l'amministrazione comunale deve disporne
senz'altro la demolizione, non essendo tenuta a valutare
preventivamente la sanabilità delle stesse.
---------------
L'ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto,
affrancato dalla ponderazione discrezionale del confliggente
interesse al mantenimento in loco della res, dove la
repressione dell'abuso corrisponde per definizione
all'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi
illecitamente alterato; pertanto, essa è da ritenersi
sorretta da adeguata e sufficiente motivazione, consistente
nella compiuta descrizione delle opere abusive e nella
constatazione della loro esecuzione in assenza del
necessario titolo abilitativo edilizio.
---------------
Correttamente l’amministrazione ha notificato l’ordinanza
gravata anche alla società proprietaria dell’immobile in
quanto la sanzione demolitoria, avendo natura reale, ben può
colpire anche il proprietario non responsabile dell’abuso
edilizio il quale va esente dall’ulteriore sanzione
dell'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle
opere abusive e della relativa area di sedime solo ove provi
inequivocabilmente la sua completa estraneità al compimento
dell'opera abusiva o che, essendone venuto a conoscenza, si
sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offerti
dall'ordinamento.
---------------
La validità ovvero l'efficacia dell'ordine di demolizione
non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di
un'istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n.
380 del 2001, posto che nel sistema non è rinvenibile una
previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto,
sicché, se, da un lato, la presentazione della domanda di
sanatoria determina inevitabilmente un arresto
dell'efficacia dell'ordine di demolizione, all'evidente fine
di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la
demolizione di un'opera astrattamente suscettibile di
sanatoria, dall'altro, occorre ritenere che l'efficacia
dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che
l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza;
all'esito del procedimento di sanatoria, in caso di
accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà
privo di effetti in ragione del sopravvenuto venir meno
dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata; di
contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di
demolizione riacquista la sua efficacia.
Considerato:
- che il ricorso è infondato;
- che il rilascio del permesso di costruire in sanatoria
consegue necessariamente ad un'istanza dell'interessato,
mentre al Comune compete, ai sensi dell'art. 27 del D.P.R.
380/2001, l'esercizio della vigilanza sull'attività
urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale
e, pertanto, una volta accertata l'esecuzione di opere in
assenza del prescritto permesso di costruire
l'amministrazione comunale deve disporne senz'altro la
demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente
la sanabilità delle stesse;
- che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa di
parte ricorrente, nella fattispecie, trova applicazione
l’art. 31 e non l’art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001,
essendo stata contestata non già una parziale difformità
dell’opera eseguita rispetto al progetto assentito bensì
l’edificazione, in assenza di alcun titolo edilizio, di un
intero piano in sopraelevazione al fabbricato esistente; ciò
a prescindere dalla circostanza che parte ricorrente si è
limitata ad asserire che la demolizione potrebbe recare
pregiudizio alla parte conforme del manufatto, senza fornire
neanche un principio di prova;
- che l’ordinanza di demolizione gravata è sorretta da un
adeguato substrato motivazionale e non presenta alcuna
carenza istruttoria;
- che, in particolare, per giurisprudenza costante,
l'ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto,
affrancato dalla ponderazione discrezionale del confliggente
interesse al mantenimento in loco della res, dove la
repressione dell'abuso corrisponde per definizione
all'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi
illecitamente alterato; pertanto, essa è da ritenersi
sorretta da adeguata e sufficiente motivazione, consistente
nella compiuta descrizione delle opere abusive e nella
constatazione della loro esecuzione in assenza del
necessario titolo abilitativo edilizio (cfr., ex multis,
TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 08.10.2009, n. 5203);
- che, nella fattispecie, è stata sanzionata la
realizzazione di un intero piano edificato in
sopraelevazione, avente una superficie di circa 150 mq.;
trattandosi, dunque, di un intervento di nuova costruzione
per il quale era necessario il permesso di costruire,
doverosamente l’amministrazione ha adottato l’ordinanza di
demolizione impugnata;
- che correttamente l’amministrazione ha notificato
l’ordinanza gravata anche alla società proprietaria
dell’immobile in quanto la sanzione demolitoria, avendo
natura reale, ben può colpire anche il proprietario non
responsabile dell’abuso edilizio il quale va esente
dall’ulteriore sanzione dell'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale delle opere abusive e della relativa
area di sedime solo ove provi inequivocabilmente la sua
completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che,
essendone venuto a conoscenza, si sia adoperato per
impedirlo con gli strumenti offerti dall'ordinamento;
- che, nella fattispecie, proprio la notificazione
dell’ordinanza di demolizione anche alla società
proprietaria dell’immobile rende certa la conoscenza, da
parte di quest’ultima, dell’abuso;
- che la circostanza che la società ricorrente abbia
presentato un’istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 36 del
D.P.R. n. 380 del 2001 non determina alcuna incidenza nella
fattispecie;
- che, infatti, come chiarito dalla consolidata
giurisprudenza condivisa dal Collegio (in termini, Cons.
St., sez. IV, 19.02.2008, n. 849; TAR, Campania, Napoli,
sez. II, 14.09.2009, n. 4961) la validità ovvero l'efficacia
dell'ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla
successiva presentazione di un'istanza di sanatoria ai sensi
dell’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, posto che nel
sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa
desumersi un tale effetto, sicché, se, da un lato, la
presentazione della domanda di sanatoria determina
inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di
demolizione, all'evidente fine di evitare, in caso di
accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera
astrattamente suscettibile di sanatoria, dall'altro, occorre
ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia
soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di
temporanea quiescenza; all'esito del procedimento di
sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di
demolizione rimarrà privo di effetti in ragione del
sopravvenuto venir meno dell'originario carattere abusivo
dell'opera realizzata; di contro, in caso di rigetto
dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua
efficacia (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 14.12.2012 n. 5208 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Nel caso in cui il
provvedimento sia motivato per relationem, l'art. 3 della
legge generale sul procedimento amministrativo non obbliga
l'amministrazione ad accludere al provvedimento gli atti cui
lo stesso rinvia, risultando sufficiente che tali atti siano
resi disponibili, rimettendo dunque la concreta
disponibilità all'attivazione dell'interessato, a mezzo del
diritto di accesso.
---------------
La comunicazione di cui all'art. 10-bis della legge n. 241
del 1990 riveste natura di atto endoprocedimentale, non
immediatamente lesivo della sfera giuridica del destinatario
e, quindi, non autonomamente impugnabile.
La consolidata giurisprudenza, infatti, ha evidenziato che
nel caso in cui il provvedimento sia motivato per
relationem, l'art. 3 della legge generale sul
procedimento amministrativo non obbliga l'amministrazione ad
accludere al provvedimento gli atti cui lo stesso rinvia,
risultando sufficiente che tali atti siano resi disponibili,
rimettendo dunque la concreta disponibilità all'attivazione
dell'interessato, a mezzo del diritto di accesso (cfr., TAR
Lombardia Milano, sez. IV, 02.07.2009, n. 4258; TAR
Lombardia Milano, sez. III, 29.04.2009, n. 3595).
---------------
Per costante giurisprudenza, la
comunicazione di cui all'art. 10-bis della legge n. 241 del
1990 riveste natura di atto endoprocedimentale, non
immediatamente lesivo della sfera giuridica del destinatario
e, quindi, non autonomamente impugnabile (v., tra le altre,
Cons. Stato, Sez. IV, 12.09.2007 n. 4828) (TAR
Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 14.12.2012 n. 5203 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La legittimazione ad
impugnare un provvedimento amministrativo deve essere
direttamente correlata alla situazione giuridica sostanziale
che si assume lesa dal provvedimento e postula l'esistenza
di un interesse attuale e concreto all'annullamento
dell'atto; altrimenti l'impugnativa verrebbe degradata al
rango di azione popolare a tutela dell'oggettiva legittimità
dell'azione amministrativa, con conseguente ampliamento
della legittimazione attiva al di fuori dei casi
espressamente previsti dalla legge, in insanabile contrasto
con il carattere di giurisdizione soggettiva che la
normativa legislativa e quella costituzionale hanno
attribuito al vigente sistema di giustizia amministrativa
(nella specie la legittimazione al ricorso è stata negata al
proprietario del fondo limitrofo a quello espropriato, che
aveva fondato l'impugnativa sulla supposta natura
pertinenziale del bene oggetto dell'intervento ablativo
rispetto al bene di sua proprietà e sulla sua qualità di
cittadino, come tale portatore di un interesse ad agire
indipendentemente da un interesse protetto).
Con riguardo a tale profilo, tuttavia, rimarca il Collegio
che l’appello è comunque assolutamente infondato nel merito
non essendo sufficiente la qualità di cittadino di un comune
a gravare atti specifici e di portata generale
dell’amministrazione comunale quali l’affidamento del
servizio di riscossione (ex multis: “la
legittimazione ad impugnare un provvedimento amministrativo
deve essere direttamente correlata alla situazione giuridica
sostanziale che si assume lesa dal provvedimento e postula
l'esistenza di un interesse attuale e concreto
all'annullamento dell'atto; altrimenti l'impugnativa
verrebbe degradata al rango di azione popolare a tutela
dell'oggettiva legittimità dell'azione amministrativa, con
conseguente ampliamento della legittimazione attiva al di
fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, in
insanabile contrasto con il carattere di giurisdizione
soggettiva che la normativa legislativa e quella
costituzionale hanno attribuito al vigente sistema di
giustizia amministrativa” -nella specie la legittimazione al
ricorso è stata negata al proprietario del fondo limitrofo a
quello espropriato, che aveva fondato l'impugnativa sulla
supposta natura pertinenziale del bene oggetto
dell'intervento ablativo rispetto al bene di sua proprietà e
sulla sua qualità di cittadino, come tale portatore di un
interesse ad agire indipendentemente da un interesse
protetto-“.- Cons. Stato Sez. IV, 28-08-2001, n. 4544-).
Né l’incremento dei costi della procedura di riscossione
asseritamente ascrivibile ad Equitalia (e laddove non è
neppure dimostrato in cosa consisterebbe detto incremento e
perché, ove il servizio fosse stato affidato ad altro
soggetto vi sarebbe stato un decremento dei costi) può
fondare detto interesse tenuto conto che il vigente sistema
giuridico non configura fattispecie generali di azioni
popolari
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.12.2012 n. 6411 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario
la domanda avente ad oggetto il pagamento del corrispettivo
della concessione del diritto di superficie, ai sensi
dell'art. 10, della legge 18.04.1962, n. 167, come
sostituito dall'art. 35, della legge 22.10.1971, n. 865, su
aree comprese nei piani per l'edilizia economica e popolare
e, in particolare, la quantificazione di tale corrispettivo
, nonché l'individuazione del soggetto debitore, allorché
non siano in contestazione questioni relative al rapporto di
concessione e in ordine alla determinazione del predetto
corrispettivo non sussista alcun potere discrezionale della
P.A..
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda
avente ad oggetto la determinazione e il pagamento del
corrispettivo della concessione del diritto di superficie in
relazione ad aree comprese nei piani per l'edilizia
economica e popolare e, in particolare, la quantificazione
di tale corrispettivo che si assuma inferiore a quello
determinato dal Comune, atteso che in siffatte ipotesi non
vengono in contestazione questioni relative al rapporto di
concessione e che, fra l'altro, in ordine alla
quantificazione del predetto corrispettivo non sussiste
alcun potere discrezionale della P.A..
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda
avente ad oggetto il pagamento del corrispettivo della
concessione del diritto di superficie -per la costruzione di
case e dei relativi servizi urbani e sociali-, ai sensi
dell'art. 10 l. 18.04.1962, n. 167, come sostituito
dall'art. 35 l. 22.10.1971, n. 865, su aree comprese nei
piani per l'edilizia economica e popolare e, in particolare,
la quantificazione di tale corrispettivo che si assuma
inferiore a quello determinato dal Comune in sede di
convenzione -stipulata ai sensi della norma citata-.
La controversia avente ad oggetto la determinazione del
corrispettivo dovuto dal privato per il trasferimento del
diritto di proprietà e la cessione del diritto di
superficie, nell'ambito di convenzione stipulata ai sensi
della normativa che regola le espropriazioni e la successiva
assegnazione delle aree da destinare ad edilizia economica e
popolare (art. 10 della legge 18.04.1962, n. 167, come
sostituito dall'art. 35 della legge 22.10.1971, n. 865, e
succ. modificazioni e innovazioni), spetta alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi
degli artt. 5 della legge 06.12.1971, n. 1034 e 11 della
legge 07.08.1990, n. 241, laddove sia messa in discussione
la legittimità delle autoritative manifestazioni di volontà
della P.A. nell'adozione del provvedimento concessorio cui
la convenzione accede, della quale sia contestato "ex ante"
il contenuto con riguardo alla determinazione del
corrispettivo dovuto dal concessionario, e non siano messe
in discussione "ex post" solo la misura del corrispettivo
(da stabilirsi in base alle pattuizioni ivi contenute) o
l'effettività dell'obbligazione di pagamento.
Con riguardo a tale profilo, e
con specifico riferimento alla controversia per cui è causa,
il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi dal
consolidato orientamento della Corte regolatrice della
giurisdizione secondo il quale “rientra nella
giurisdizione del giudice ordinario la domanda avente ad
oggetto il pagamento del corrispettivo della concessione del
diritto di superficie, ai sensi dell'art. 10, della legge
18.04.1962, n. 167, come sostituito dall'art. 35, della
legge 22.10.1971, n. 865, su aree comprese nei piani per
l'edilizia economica e popolare e, in particolare, la
quantificazione di tale corrispettivo , nonché
l'individuazione del soggetto debitore, allorché non siano
in contestazione questioni relative al rapporto di
concessione e in ordine alla determinazione del predetto
corrispettivo non sussista alcun potere discrezionale della
P.A.” (Cass. civ. Sez. Unite, 10-08-2011, n. 17142).
Si è detto in particolare, da parte di questo Consiglio di
Stato in passato, che “rientra nella giurisdizione del
giudice ordinario la domanda avente ad oggetto la
determinazione e il pagamento del corrispettivo della
concessione del diritto di superficie in relazione ad aree
comprese nei piani per l'edilizia economica e popolare e, in
particolare, la quantificazione di tale corrispettivo che si
assuma inferiore a quello determinato dal Comune, atteso che
in siffatte ipotesi non vengono in contestazione questioni
relative al rapporto di concessione e che, fra l'altro, in
ordine alla quantificazione del predetto corrispettivo non
sussiste alcun potere discrezionale della P.A.” (Cons.
Stato Sez. VI, 20-07-2010, n. 4660).
Tale giurisprudenza è pienamente condivisa dai giudici di
merito (ex multis: “rientra nella giurisdizione
del giudice ordinario la domanda avente ad oggetto il
pagamento del corrispettivo della concessione del diritto di
superficie -per la costruzione di case e dei relativi
servizi urbani e sociali-, ai sensi dell'art. 10 l.
18.04.1962, n. 167, come sostituito dall'art. 35 l.
22.10.1971, n. 865, su aree comprese nei piani per
l'edilizia economica e popolare e, in particolare, la
quantificazione di tale corrispettivo che si assuma
inferiore a quello determinato dal Comune in sede di
convenzione -stipulata ai sensi della norma citata-“ TAR
Puglia Lecce Sez. I, 14-07-2011, n. 1343).
E’ stato specificato, sul punto, conclusivamente, che “la
controversia avente ad oggetto la determinazione del
corrispettivo dovuto dal privato per il trasferimento del
diritto di proprietà e la cessione del diritto di
superficie, nell'ambito di convenzione stipulata ai sensi
della normativa che regola le espropriazioni e la successiva
assegnazione delle aree da destinare ad edilizia economica e
popolare (art. 10 della legge 18.04.1962, n. 167, come
sostituito dall'art. 35 della legge 22.10.1971, n. 865, e
succ. modificazioni e innovazioni), spetta alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi
degli artt. 5 della legge 06.12.1971, n. 1034 e 11 della
legge 07.08.1990, n. 241, laddove sia messa in discussione
la legittimità delle autoritative manifestazioni di volontà
della P.A. nell'adozione del provvedimento concessorio cui
la convenzione accede, della quale sia contestato "ex ante"
il contenuto con riguardo alla determinazione del
corrispettivo dovuto dal concessionario, e non siano messe
in discussione "ex post" solo la misura del corrispettivo
(da stabilirsi in base alle pattuizioni ivi contenute) o
l'effettività dell'obbligazione di pagamento” (Cass.
civ. Sez. Unite, 30-03-2009, n. 7573)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.12.2012 n. 6411 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nelle gare indette per l'aggiudicazione di un
appalto pubblico è infatti legittima l'esclusione del
concorrente anche se per il reato da lui commesso si sono
verificate le condizioni per l’estinzione ove i relativi
presupposti, pur operando ope legis, non siano stati
accertati con una pronuncia del giudice dell'esecuzione su
istanza dell'interessato.
Né può convenirsi con l’appellante che la mera irregolarità
delle dichiarazioni effettuate potesse legittimare
l’esclusione del concorrente perché il soggetto dichiarante
non era in concreto carente dei requisiti previsti dal
citato art. 38, dovendosi ritenere estinto di diritto il
reato di bancarotta fraudolenta in data 03.12.2008 per il
decorso di cinque anni senza ulteriori condanne a carico del
medesimo soggetto per reati della stessa indole.
Nelle gare indette per l'aggiudicazione di un appalto
pubblico è infatti legittima l'esclusione del concorrente
anche se per il reato da lui commesso si sono verificate le
condizioni per l’estinzione ove i relativi presupposti, pur
operando ope legis, non siano stati accertati con una
pronuncia del giudice dell'esecuzione su istanza
dell'interessato (Consiglio Stato, sez. V, 31.03.2011, n.
1968) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.12.2012 n. 6393 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Nel centro storico mega-antenne ko.
No alla mega-antenna per telefoni cellulari nel centro
storico, dove l'impianto di quasi 20 metri stonerebbe
senz'altro, a pochi metri da un luogo di culto o di
interesse storico. Il Consiglio comunale con delibera ad hoc
può ben impedire la realizzazione della stazione radio base.
È quanto emerge dalla
sentenza 12.12.2012 n. 1984, pubblicata dalla II
Sez. del TAR Puglia-Lecce.
Vittoria dunque dell'amministrazione locale di un piccolo
paese del Salento. E ciò benché, una volta tanto, non è
stata la Soprintendenza a bloccare i lavori:
l'amministrazione competente per i beni architettonici e il
paesaggio si chiama fuori, chiarendo che la zona interessata
non risulta soggetta a vincolo.
Ma attenzione, la legge parla chiaro: «I comuni possono
adottare un regolamento per assicurare il corretto
insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e
minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi
elettromagnetici». E la giurisprudenza interpreta la
normativa nel senso che l'ente locale ha senz'altro facoltà
di disciplinare, con un suo regolamento, l'individuazione di
siti del territorio comunale dove è vietata l'installazione
di impianti come quello «incriminato».
La regolamentazione può avvenire attraverso regole ispirate
a canoni di ragionevolezza, mediante scelte motivate e a
presidio di rilevanti interessi di natura pubblica senza che
la facoltà di regolamentazione si traduca in un divieto
generalizzato di installazione in identificate zone
urbanistiche. Insomma: è meglio che il colosso delle
comunicazioni si cerchi un'altra location
(articolo ItaliaOggi del 20.12.2012). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: CASSAZIONE/
Legali negligenti. Avvocati, limata la responsabilità.
Per l'avvocato negligente scatta la responsabilità
professionale soltanto se il cliente che si ritiene
danneggiato riesce a dimostrare che il ricorso dichiarato
improcedibile per l'imperizia del professionista, ove fosse
stato esaminato nel merito, sarebbe stato accolto anche solo
in parte. La perdita di chance risulta risarcibile
unicamente quando risulta verificabile in termini di
ragionevole probabilità.
È quanto emerge dalla
sentenza 10.12.2012 n. 22376 della III Sez.
civile della Corte di Cassazione.
Errore processuale.
Bocciato il ricorso del politico condannato per
responsabilità contabile: il danno all'erario consiste
nell'avere concesso a prezzi inferiori a quelli di mercato
gli appartamenti di un prestigioso immobile pubblico, con
gli inquilini scelti con criteri discrezionali. L'errore
degli avvocati, invece, consiste nella declaratoria di
improcedibilità dell'appello emessa dalla sezioni riunite
della Corte dei conti laddove non è stata richiesta la
fissazione dell'udienza entro un anno dalla notifica delle
conclusioni del procuratore generale.
Risulta tuttavia confermata la valutazione della Corte
d'appello: in caso di errore processuale da parte del
difensore l'obbligo risarcitorio a carico del legale
soltanto se c'è una ragionevole possibilità di un esito
favorevole all'impugnazione, anche soltanto in parte,
laddove il ricorso fosse stato ammissibile. E nel caso
specifico il politico non offre alcun elemento che possa
indurre il giudice a ritenere che, qualora il ricorso fosse
stato esaminato nel merito, vi sarebbero state fondate
probabilità di ottenere una riduzione dell'importo liquidato
a titolo di danno erariale.
Presunzione ed eziologia.
La perdita di chance , ragionano infatti gli «ermellini»,
può risolversi in una mera entità astratta e non è di per sé
risarcibile: lo diventa soltanto quando risulta altamente
probabile che la perdita sia riconducibile in termini di
nesso causale alla condotta del terzo.
La lesione di un diritto deve tradursi in un pregiudizio
concreto: per far scattare l'obbligazione risarcitoria a
carico dell'avvocato, insomma, serve la prova anche
presuntiva dell'esistenza di un pregiudizio economicamente
valutabile. Spese di giudizio compensate
(articolo ItaliaOggi del
20.12.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
Comune, ad esito della reiezione della domanda di condono, è
tenuto a riattivare il procedimento sanzionatorio sulla base
del nuovo accertamento dell’abusività non sanabile
dell’opera.
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La misura dell'area da acquisire, indicata nell'ordinanza di
demolizione, deve reputarsi meramente indicativa, in quanto
la corretta determinazione potrà avvenire soltanto dopo il
rituale accertamento, da parte del Comune,
dell'inottemperanza all'ingiunzione, allorché sarà avviato
il sub procedimento specificamente finalizzato alla precisa
individuazione delle aree da acquisirsi gratuitamente in
caso di inottemperanza all’ordine di demolizione.
Orbene, come più volte evidenziato dalla giurisprudenza
amministrativa, il Comune, ad esito della reiezione della
domanda di condono, è tenuto a riattivare il procedimento
sanzionatorio sulla base del nuovo accertamento
dell’abusività non sanabile dell’opera (TAR Campania,
Napoli, VII, 08.04.2011, n. 2003; TAR Sicilia, Palermo, II,
26.06.2007, n. 1704).
---------------
Con la terza censura gli
istanti, in riferimento alla parte del provvedimento
impugnato riferita all’area da acquisire al patrimonio
comunale in caso di inottemperanza, lamentano la mancata
precisazione, da parte dell’Ente, circa le ragioni per cui
la superficie è stata determinata nella misura massima
possibile.
Il rilievo non è condivisibile.
La riportata misura dell'area da acquisire deve reputarsi
meramente indicativa, in quanto la corretta determinazione
potrà avvenire soltanto dopo il rituale accertamento, da
parte del Comune, dell'inottemperanza all'ingiunzione,
allorché sarà avviato il sub procedimento specificamente
finalizzato alla precisa individuazione delle aree da
acquisirsi gratuitamente in caso di inottemperanza
all’ordine di demolizione (TAR Campania, Napoli, VIII,
09.02.2012, n. 696) (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 07.12.2012 n. 1999 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Ove
non esista una specifica norma di legge che preveda
l’obbligo della P.A. di provvedere, non può dubitarsi che
l’obbligo di pronunciarsi sulle istanze dei privati sussista
ogni qual volta esigenze di giustizia sostanziale impongano
l’adozione di un provvedimento espresso e, quindi, tutte le
volte in cui, in ossequio ai principi, di portata generale,
di affidamento, chiarezza e leale collaborazione tra P.A. e
privato, nonché correttezza e buona amministrazione di cui
all’art. 97 Cost., sorga per il privato una legittima
aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle
determinazioni dell’amministrazione.
Solo in presenza di un obbligo di provvedere l’inerzia
dell’amministrazione assume rilevanza giuridica sub
specie di silenzio-rifiuto.
E, ove non esista una specifica norma di legge che preveda
l’obbligo della P.A. di provvedere, non può dubitarsi che
l’obbligo di pronunciarsi sulle istanze dei privati sussista
ogni qual volta esigenze di giustizia sostanziale impongano
l’adozione di un provvedimento espresso e, quindi, tutte le
volte in cui, in ossequio ai principi, di portata generale,
di affidamento, chiarezza e leale collaborazione tra P.A. e
privato, nonché correttezza e buona amministrazione di cui
all’art. 97 Cost., sorga per il privato una legittima
aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle
determinazioni dell’amministrazione (cfr., ex multis,
Cons. di Stato, sez. IV, 27.04.2012, n. 2468).
Chiarito in questi termini come sul piano sostanziale il
giudizio sul silenzio si colleghi al dovere delle
amministrazioni pubbliche, preposte alla cura dell’interesse
pubblico, di concludere il procedimento mediante l’adozione
di un provvedimento espresso, con riguardo alla fattispecie
in esame il Collegio osserva che alla istanza del ricorrente
protocollata dall’ente comunale con il n. 348 in data
05.01.2012, il cui contenuto è stato più innanzi riportato,
il Comune deve fornire un riscontro formale, atteso che non
è configurabile una diversa tutela dell’interesse del
privato al rispetto del principio di cui all’art. 2 della
legge n. 241/1990, come sostituito dalla legge n. 80/2005,
secondo cui “ove il procedimento consegua
obbligatoriamente ad una istanza, ovvero debba essere
iniziato d’ufficio, la Pubblica Amministrazione ha il dovere
di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento
espresso”.
Ne consegue che il Comune aveva il dovere di iniziare e
concludere il procedimento entro il termine previsto dalla
legge
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 07.12.2012 n. 1994 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’installazione
di un’apparecchiatura bancomat è da ritenere assimilabile a
quella di un impianto tecnologico.
L’installazione di un’apparecchiatura bancomat è da ritenere
assimilabile, in applicazione di un criterio analogico
collegato ad parametro di equivalenza della natura
dell’impianto in questione da seguire necessariamente in una
interpretazione dinamica ed evolutiva delle disposizioni
normative e di pianificazione urbanistica adottate in un
periodo temporale nel quale erano inesistenti i più moderni
apparati tecnologici ad ausilio di edifici e attrezzature
preesistenti, a quella di un impianto tecnologico.
Va sul punto chiarito che rispetto agli altri impianti
tecnologici di tradizionale accezione, quali le centrali
termiche, le cabine elettriche ed altri, gli sportelli
bancomat non erano ancora di ampia diffusione negli anni in
cui il comune di Firenze si è dotato delle proprie norme di
pianificazione urbanistica con le delibere approvative delle
n.t.a., donde allo spazio necessario alla loro installazione
non può essere dato rilievo urbanistico-edilizio diverso da
quello di volume tecnico rientrante in tutto nella
previsione dell’art. 9, comma, 7, del d.l. 154 del 1996 e
dall’art. 3 e 9 delle n.t.a. della delibera n. 604/93.
L’art. 3, nel punto “Su”, indica fra le superfici da
escludere dal computo della superficie utile lorda i locali
strettamente necessari per gli impianti tecnologici, dandone
un’elencazione che è da ritenere non esaustiva, ma
esemplificativa come è dato desumere dalla locuzione “e
simili”; analogamente come accade nella definizione di
volume tecnico -al punto “vt” del medesimo art. 3- nella
quale all’elencazione della tipologia degli impianti tecnici
segue un ecc., che conferma il carattere meramente
esemplificativo dell’elencazione stessa.
Non contrasta con tale interpretazione, ma anzi alle prime
semmai va adeguata nella logica evolutiva cui prima si
accennava, la lettura dell’art. 9, lett. a), ultimo
capoverso e b) delle n.t.a. che contengono, ad avviso del
Collegio, un’elencazione anch’essa non tassativa da
comparare in ogni caso con quella dell’art. 3 citato.
L’apparecchiatura bancomat, del resto, è un impianto
tecnologico installato a esclusiva e migliore erogazione e
fruizione dei servizi bancari nell’ambito dei locali
dell’azienda bancaria e il piccolo spazio ricavato nella
specie per la sua allocazione (dalle foto allegate è dato
evincere che seppure l’installazione all’esterno dei locali
della Banca ha richiesto l’ampliamento di un’apertura nel
muro di cinta esterno prima chiusa da un cancelletto, lo
spazio ricavato è stato occupato dall’apparecchiatura senza
creazione di un vano interno chiuso calpestabile accessibile
ai clienti dalla strada) condivide quindi la funzione
servente dell’impianto stesso, non potendo in alcun modo
essere diversamente utilizzato come vano in relazione ad
altri impieghi apprezzabili e quindi computabili dal punto
di vista urbanistico-edilizio. Da ciò consegue che non può
ritenersi la realizzazione di tale vano in contrasto con gli
strumenti urbanistici vigenti.
Sull’irrilevanza sotto il profilo urbanistico–edilizio si
era espressa la C.E.I. che aveva ritenuto, alla luce
dell’art. 1, comma 8, della legge 431 del 1985 non soggetto
all’autorizzazione ex art. 7 della legge 1497 del 1939 e lo
stesso Assessore, nel comunicare tale parere, aveva dato
indicazioni coerenti rispetto all’ulteriore procedura da
seguire a mezzo DIA, donde la fondatezza anche del vizio di
contraddittorietà dedotto nel secondo motivo.
L’illegittimità del provvedimento di inibizione impugnato
con il primo ricorso, trae seco, per illegittimità derivata,
l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione impugnata, per
gli stessi motivi, con il secondo ricorso
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 07.12.2012 n. 1990 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gare di appalto, si può vincere anche via fax.
E' efficace la modalità di comunicazione
tramite via fax del provvedimento di aggiudicazione
definitiva di una gara;
è quanto affermato dal TAR Toscana, Sez. I, con la
sentenza 06.12.2012 n. 1942.
La vicenda presa in esame dai giudici amministrativi
riguarda una SPA che era ricorsa contro una società pubblica
toscana (si trattava di una società per azioni a totale
partecipazione pubblica - la proprietà è dei 20 Comuni di
una nota provincia Toscana) che nel caso in esame
rappresentava la stazione appaltante, per chiedere
l’annullamento del provvedimento di aggiudicazione
definitiva della gara avente ad oggetto i lavori di
costruzione di un edificio composto da un considerevole
numero di alloggi ; in particolare tra le varie motivazioni
del ricorso si contestava alla ditta aggiudicataria il fatto
che nel progetto tecnico presentato in sede di offerta
mancasse la documentazione relativa alla sua offerta
migliorativa di cui sarebbe stata prevista, dalla legge di
gara, la produzione a pena di esclusione.
Il TAR nell’analizzare il ricorso evidenzia, tuttavia, che
il provvedimento di aggiudicazione definitiva è stato
comunicato tramite fax, e risulta ricevuto dalla ricorrente,
il 14.02.2012 mentre il ricorso della SPA è stato notificato
il 10.04.2012, tardivamente rispetto alla conoscenza del
provvedimento gravato.
Il codice degli appalti sulla comunicazione
dei provvedimenti
L’art. 77, comma 1, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, afferma che
tutte le comunicazioni e tutti gli scambi di informazioni
tra stazioni appaltanti e operatori economici possono
avvenire, a scelta delle stazioni appaltanti, mediante
posta, mediante fax, per via elettronica ai sensi dei commi
5 e 6, per telefono nei casi e alle condizioni di cui al
comma 7, o mediante una combinazione di tali mezzi. Il mezzo
o i mezzi di comunicazione prescelti devono essere indicati
nel bando o, ove manchi il bando, nell'invito alla
procedura. La lettura contestuale dei commi che compongono
l’articolo consente di affermare che l’utilizzo del fax
costituisce modalità "ordinaria" di scambio delle
comunicazione tra le stazioni appaltante e le imprese
partecipanti alle gare.
L’orientamento della giurisprudenza
Secondo costante giurisprudenza, l'invio tramite fax del
provvedimento amministrativo rappresenta uno strumento
idoneo, in assenza di espresse prescrizioni che dispongano
altrimenti, a determinare la piena conoscenza del
provvedimento stesso, in quanto il fax costituisce un
sistema basato su linee di trasmissione di dati e su
apparecchiature che consentono di documentare sia la
partenza del messaggio dall'apparato trasmittente sia
-attraverso il c.d rapporto di trasmissione- la ricezione
del messaggio in quello ricevente, sicuramente atto a
garantire l'effettività della comunicazione.
Quindi, posto che gli accorgimenti tecnici che
caratterizzano il sistema garantiscono in via generale una
sufficiente certezza circa la ricezione del messaggio, ne
consegue non solo l'idoneità del mezzo a far decorrere
termini perentori, ma anche la presunzione circa l'avvenuta
ricezione, senza che colui che dimostra di aver inviato il
messaggio debba fornire alcuna ulteriore prova, salva
l'eventuale prova contraria concernente la funzionalità
dell'apparecchio ricevente fornita, secondo l'ordinaria
regola processualistica, da chi afferma la mancata ricezione
del messaggio.
La presunzione di conoscenza che consegue all’invio della
comunicazione a mezzo fax all’indirizzo corretto
(accompagnata dal rapporto di ricezione) non ha quindi
natura assoluta.
Può essere fornita la prova contraria, che può solo
concernere la funzionalità dell'apparecchio ricevente; essa
non può che essere fornita da chi afferma la mancata
ricezione del messaggio (es. Cons. di Stato VI, 04.06.2007,
n. 2951, che fa riferimento a Cons. Stat, V, 24.04.2002, n.
2202).
Dunque, nel momento in cui il fax viene trasmesso, e ciò
risulti debitamente documentato dal c.d. rapporto di
trasmissione, si forma una presunzione della sua ricezione
in capo al destinatario, il quale può vincerla solo
opponendo la mancata funzionalità dell'apparecchio
ricevente.
È evidente che di tale mancata funzionalità deve essere
offerta prova rigorosa non potendo evidentemente darsi campo
e giustificazione a circostanze impeditive opposte in modo
generico e non seriamente documentate.
In applicazione di quanto precede è evidente che il
principio secondo cui la comunicazione mediante telefax
rappresenta strumento idoneo, in carenza di espresse
previsioni che dispongano altrimenti, a determinare la piena
conoscenza di un atto o documento non può essere vanificato
da semplici dichiarazioni del soggetto destinatario che
opponga tout court di non avere ricevuto il fax.
Le conclusioni del TAR
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana
definitivamente pronunciando sul ricorso, lo dichiara
irricevibile e condanna la SPA ricorrente al pagamento delle
spese processuali a favore della stazione appaltante
intimata (commento tratto da www.ispoa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La regola generale, che
non richiede la puntuale motivazione delle nuove
destinazioni urbanistiche conferite dallo strumento
urbanistico, subisce delle eccezioni in alcune situazioni
specifiche, in cui il principio della tutela
dell'affidamento impone che lo strumento urbanistico dia
conto del modo in cui sia stata effettuata la ponderazione
degli interessi pubblici e siano state operate le scelte di
pianificazione; in particolare, detto affidamento si
verifica nei casi di:
a) superamento degli standard minimi di cui al D.M.
02.04.1968, con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va
riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche
complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal
riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
b) lesione dell'affidamento qualificato del privato
derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di
diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari
delle aree, o dalle aspettative nascenti da giudicati di
annullamento di dinieghi di permesso di costruire o di
silenzio rifiuto su una domanda di concessione;
c) modificazione in “zona agricola” della destinazione di
un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non
abusivo
In ordine al punto A) va
osservato che la regola generale, che non richiede la
puntuale motivazione delle nuove destinazioni urbanistiche
conferite dallo strumento urbanistico, subisce delle
eccezioni in alcune situazioni specifiche, in cui il
principio della tutela dell'affidamento impone che lo
strumento urbanistico dia conto del modo in cui sia stata
effettuata la ponderazione degli interessi pubblici e siano
state operate le scelte di pianificazione; in particolare,
detto affidamento si verifica nei casi di:
a) superamento degli standard minimi di cui al D.M.
02.04.1968, con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va
riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche
complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal
riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
b) lesione dell'affidamento qualificato del privato
derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di
diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari
delle aree, o dalle aspettative nascenti da giudicati di
annullamento di dinieghi di permesso di costruire o di
silenzio rifiuto su una domanda di concessione;
c) modificazione in “zona agricola” della
destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi
edificati in modo non abusivo (Tar Lazio, sez. II-bis,
02.03.2011, n.1950; TAR Toscana, sez. I, 27.04.2011, n. 730)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 29.11.2012 n. 9903 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La funzione della destinazione agricola non è
solo quella di valorizzare l'attività agricola vera e
propria ma anche quella di garantire ai cittadini
l'equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando
loro quella quota di valori naturalistici necessaria a
compensare gli effetti dell'espansione dell'aggregato
urbano.
Circa il punto B) si rileva:
- che la presenza di edificazione spontanea circostante non
è un fatto tale da determinare un affidamento, dovendosi
aver riguardo solamente a una vera e propria interclusione
derivante da edificazione legittima (TAR Lazio n. 1950/2011
e TAR Toscana n. 730/2011 cit.);
- che la funzione della destinazione agricola non è solo
quella di valorizzare l'attività agricola vera e propria ma
anche quella di garantire ai cittadini l'equilibrio delle
condizioni di vivibilità, assicurando loro quella quota di
valori naturalistici necessaria a compensare gli effetti
dell'espansione dell'aggregato urbano (Cons. Stato, sez. IV,
13.10.2010, n. 7478);
- che l’argomento della disparità di trattamento non è
conferente in linea di principio, in quanto ogni fondo
-essendo differenziato dagli altri- costituisce oggetto di
autonoma considerazione da parte dell'Amministrazione (TAR
Lazio, sez. II-bis, 18.04.2011, n. 3347), fatta eccezione
per i rari casi di fondi limitrofi che si trovino in
situazioni assolutamente identiche sotto ogni profilo
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 29.11.2012 n. 9903 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Turbativa d'asta, no al reato se l'interferenza
e' solo virtuale.
L'attività di elusione del rispetto di
una procedura concorrenziale regolata, attraverso la
rappresentazione di un costo dell'opera tale da consentirne
l'affidamento diretto, non integra -in assenza
dell'espletamento della gara - il reato di turbativa d'asta,
previsto dall'art. 353 c.p., ma, nel concorso delle
condizioni di legge, può integrare il reato di cui all'art.
353-bis c.p. o quello di abuso d'ufficio
(In motivazione la Corte -in una fattispecie nella quale
nessuna gara era mai stata bandita, né era stato avviato
alcun procedimento diretto a porre in competizione più
soggetti per l'aggiudicazione dell'appalto- ha precisato che
nella nozione di 'atto equipollente', menzionata
all'art. 353-bis c.p., rientra qualunque provvedimento
alternativo al bando di gara, adottato per la scelta del
contraente, ivi inclusi quelli statuenti l'affidamento
diretto).
Interessante decisione della Corte di Cassazione che, con la
sentenza in esame, affronta, per la prima volta dall’entrata
in vigore della nuova fattispecie di cui all'art. 353-bis
c.p. (introdotta con la L. 13.08.2010, n. 136), la questione
inerente la configurabilità del reato volto a sanzionare le
turbative del "procedimento amministrativo diretto a
stabilire il contenuto del bando o di altro atto
equipollente al fine di condizionare le modalità di scelta
del contraente". La Corte, con una decisione che si
distingue per il particole rigore esegetico, risolve una
particolare fattispecie concreta nella quale l’ipotesi
accusatoria consisteva nella ritenuta configurabilità del
reato di turbativa d’asta (art. 353 c.p.) in assenza,
peraltro, dello svolgimento di una gara.
I giudici di legittimità, nell’escludere che la turbativa
d’asta “virtuale” sia riconducibile alla fattispecie
di cui all’art. 353 c.p., precisano che tale condotta possa,
alternativamente, integrare –nel ricorrere dei relativi
presupposti– o la nuova fattispecie di cui all’art. 353-bis
c.p. o, tutt’al più, la tradizionale fattispecie dell’abuso
innominato d’ufficio, di cui al’art. 323 c.p.
Il fatto
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte
di occuparsi della questione vedeva indagato, per i reati di
cui agli artt. 319-319 bis e 353 cpv. c.p. il comandante
della polizia municipale di un cittadina cui era stato
addebitato -in concorso, rispettivamente, con il dirigente
del servizio lavori pubblici del Comune, con il responsabile
dell'unità operativa viabilità del servizio lavori pubblici
del Comune e con un imprenditore, socio di una S.a.s.– di
aver consentito a quest'ultimo, in cambio della promessa
esecuzione di lavori di ristrutturazione presso la propria
abitazione, di aggiudicarsi la gara per l'effettuazione di
opere edili necessarie all'installazione di un misuratore di
velocità, procedendo, a seguito di una delibera di Giunta
comunale, all'adozione, quale responsabile unico del
procedimento (RUP) relativo alla gara, della determina con
cui disponeva l'affidamento diretto delle opere alla S.a.s.
per un importo fatto rientrare artificiosamente nel tetto
della somma stabilita per l'utilizzo di tale procedura, di
contro al reale maggiore importo dei lavori. In sede
cautelare di merito, il comandante della polizia municipale
otteneva dal Tribunale
Della libertà l’annullamento dell'ordinanza del GIP
impositiva della misura in riferimento al delitto di
corruzione (ritenuto insussistente) e disponeva, in
relazione al delitto ex art. 353 c.p., la sostituzione degli
arresti domiciliari con la misura dell'obbligo di dimora,
ritenendo in particolare sussistere un grave quadro
indiziario in ordine al delitto di turbata libertà degli
incanti per come risultante dalle risultanze intercettive di
conversazioni intercorse fra i vari soggetti coinvolti
nell'operazione, ivi incluso, in qualche caso, lo stesso
indagato.
Il ricorso
Contro l’ordinanza a lui parzialmente favorevole, proponeva
ricorso per cassazione l’indagato censurandola per
violazione di legge. In particolare, ad avviso della difesa,
l’ipotizzato delitto di turbativa d’asta non sarebbe
configurabile per una serie di ragioni:
a) la determina adottata dall'indagato non è contraria alla
legge, in quanto la normativa applicabile (art. 125 D.Lgs.
163 del 2006) non vieta il frazionamento delle voci di spesa
(quale operato nella specie), ma solo il frazionamento delle
prestazioni;
b) l’indagato avrebbe adottato la determina, aggiungendo
l'irrilevante requisito dell'urgenza, e dopo aver richiesto
una nuova valutazione dell'addetto alla ragioneria, sulla
base alla deliberazione della Giunta, senza alcuna previa
partecipazione ai prospettati accordi collusivi con
l'impresa, senza alcun interesse personale al riguardo e
nella convinzione che l’impresa assegnataria dei lavori non
avrebbe ricevuto eventuali incrementi di compenso a seguito
di (non consentite) perizie di variante (onde, al più,
avrebbe potuto essergli imputata una mera negligenza);
c) infine, e soprattutto, nessuna gara era stata bandita né
vi era stata alcuna individuazione dei soggetti
potenzialmente idonei a concorrere.
La decisione della Cassazione
La tesi è stata accolta dagli Ermellini che hanno, infatti,
disposto l’annullamento dell’ordinanza del Tribunale del
riesame, dichiarando, altresì, inammissibile il ricorso
medio tempore proposto dalla Pubblica Accusa che aveva
censurato la ritenuta non configurabilità del delitto di
corruzione.
Di estremo interesse, come anticipato le argomentazioni
offerte dalla Corte a sostegno della decisione che possono
essere di seguito sinteticamente così riassunte.
La Corte, anzitutto, si pronuncia sul primo punto di
censura, ritenendolo infondato. In sostanza, secondo gli
Ermellini, il rilievo secondo il quale la determina adottata
dall'indagato non sarebbe contraria alla legge poiché l’art.
125 D.Lgs. 163 del 2006 non vieterebbe il frazionamento
delle voci di spesa, quale operato nella specie, ma solo il
frazionamento delle prestazioni, non coglie nel segno, posto
che, nella ricostruzione dei giudici di merito, la
riconduzione del preventivo dei lavori, al netto di IVA,
sotto la soglia di € 40.000,00, sarebbe frutto di una
manipolazione che ha artatamente lasciato fuori alcune parti
dell'opera.
Fondate, invece, sono le argomentazioni poste a sostegno
della ritenuta in configurabilità del reato di turbativa
d’asta. Bene osserva la Corte come, nonostante la varietà
dei modi e dei momenti in cui la condotta illecita può
estrinsecarsi e la collocazione in secondo piano degli
stessi profili strettamente formali della competizione, non
può essere eliminato il dato essenziale che contraddistingue
il reato di turbativa d’asta (art. 353 c.p.) secondo cui, ai
fini dell'applicabilità della norma de qua una gara comunque
ci deve essere.
Chiarissimo, in tal senso, il passaggio argomentativo della
sentenza in cui si afferma apertis verbis “se non
c'è gara, non c'è partecipazione plurale, e non si possono
quindi dispiegare quelle attività a protezione delle quali
la norma è predisposta”. Il che equivale a dire, in
altri termini, che non è mai configurabile il reato di
turbativa d’asta “virtuale”, in quanto la turbativa
deve sempre, e comunque, riguardare una gara che, ove non
espletata, ne esclude in nuce l’ipotizzabilità. Orbene, come
lucidamente esposto dalla Corte, nella vicenda in esame è
pacifico che nessuna gara risultava essere stata bandita, né
risultava essere stato avviato alcun procedimento diretto a
porre in competizione più soggetti per l'aggiudicazione
dell'appalto. Ne consegue, dunque, che la fattispecie di cui
all'art. 353 c.p. non è configurabile nel caso in esame.
Il secondo punto, affrontato dalla Corte, riguarda invece il
tema della possibile qualificazione giuridica diversa del
reato in esame, ciò che spiega la ragione per la quale la
Corte abbia proceduto all’annullamento con rinvio
dell’ordinanza impugnata. In relazione a tale punto, la
Cassazione ritiene che nel caso di specie si profili invece
un'attività di elusione del rispetto di una regolata
procedura concorrenziale, attraverso la rappresentazione di
un costo dell'opera tale da consentirne l'affidamento
diretto. Questa condotta (che, a giudizio degli Ermellini,
non ha influito sullo svolgimento di alcuna gara) avrebbe
comunque riguardato il procedimento di scelta del
contraente.
Sotto tale profilo, dunque, la stessa “potrebbe” (ed
il condizionale è d’obbligo nel caso di specie, attesa la
natura della fattispecie “riconfigurata”, ciò che
impone più di una riflessione sul piano sia dell’elemento
oggettivo che soggettivo) rientrare nella nuova fattispecie
dell'art. 353-bis c.p., introdotta con la L. 13.08.2010, n.
136, che ha, appunto, voluto sanzionare le turbative del "procedimento
amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando o
di altro atto equipollente al fine di condizionare le
modalità di scelta del contraente". Secondo i giudici di
Piazza Cavour, in base alla lettera ed alla ratio
della nuova previsione normativa, non c'è dubbio che nella
nozione di 'atto equipollente' ivi menzionata rientra
qualunque provvedimento alternativo al bando di gara,
adottato per la scelta del contraente, ivi inclusi, quindi,
quelli statuenti l'affidamento diretto.
Alla stregua di tali considerazioni, dunque, la Corte ha
disposto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata,
al fine di rinnovare il giudizio in relazione alla indicata
diversa ipotesi di reato (ovvero, in ulteriore subordine, a
quella residuale di cui all'art. 323 cp.), previo,
ovviamente, il necessario e pieno rispetto delle facoltà
difensive da esercitarsi, in ossequio ai principi di cui
all'art. 6 CEDU.
Sentenza, dunque da condividere, ma con riserva. Ed invero,
sembra esservi un errore di prospettiva, perché le condotte
indicate nell'art. 353-bis c.p. sono coerenti con
l'aggressione esterna del privato, non con quella interna
del pubblico ufficiale (tanto è vero che nell'art. 353-bis
c.p. manca un secondo comma come quello presente nell'art.
353 c.p.). Sarebbe più logico allora -se si vogliono
coltivare pregiudizi processuali- la contestazione
dell'abuso d'ufficio, come del resto pure ipotizzato dalla
Cassazione (commento tratto da www.ispoa.it - Corte di
Cassazione penale, sentenza 12.11.2012 n. 43800). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
Compensi ai professionisti a geometrie variabili.
Laddove l'attività giudiziale del
difensore della parte vittoriosa è terminata prima del
23/08/2012 la liquidazione delle spese va effettuata in base
alla vecchie tariffe forensi. Diversamente, quando l'opera
difensiva si conclude dopo l'entrata in vigore del decreto
del ministero della Giustizia 140/12, scatta l'applicazione
dei nuovi parametri. E nella fissazione dell'importo non si
può non tenere conto che la controversia ha natura seriale.
È quanto emerge dalla
sentenza 05.11.2012 n. 18920 della Sez. lavoro della
Corte di Cassazione, con cui i giudici di legittimità
tornano sul tema dei compensi agli avvocati.
Nel caso concreto la Suprema corte si pronuncia su di una
controversia che vede contrapposti i ragionieri contro la
cassa previdenziale di categoria: si tratta di una lite
piuttosto frequente negli ultimi tempi e dall'esito analogo
ed è impossibile non considerarlo ai fini della «concreta
fissazione» del compenso (da tempo i professionisti
contabili risultano garantiti dal principio del «pro rata»
nel calcolo della quota retributiva della pensione).
Quanto alla dicotomia fra vecchie tariffe e nuovi parametri,
va sempre applicato il criterio secondo cui i compensi degli
avvocati vanno liquidati secondo il sistema in vigore al
momento in cui si esaurisce la prestazione professionale (o
cessa l'incarico), «secondo una unitarietà da rapportarsi
ai singoli gradi in cui si è svolto il giudizio e dunque
all'epoca della pronuncia che li definisce»: è quindi
esclusa l'applicazione del decreto ministeriale 140/12 a
prestazioni già rese nei momenti precedenti, così come
indicati dagli «ermellini».
La conseguenze sono tutt'altro che trascurabili per le
tasche dei professionisti. Le tariffe forensi si applicano
soltanto quando l'attività giudiziale dell'avvocato della
parte vittoriosa è terminata prima del 23/08/2012 con
riferimento ai singoli gradi di giudizio; se invece la
conclusione dell'attività difensiva, con il compimento
dell'opera professionale da parte dell'avvocato, avviene
dopo l'entrata in vigore dei nuovi parametri ministeriali,
la liquidazione giudiziale delle spese di soccombenza
avviene in base al dm 140/12, anche se alcune attività sono
state svolte nel vigore delle vecchie tariffe. Esattamente
come accade nel caso specifico risolto dai giudici di
legittimità
(articolo ItaliaOggi del 20.12.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: Alcuni
dei casi di gratuità, come gli interventi di restauro,
manutenzione, risanamento conservativo, le ristrutturazioni
senza nuovi volumi, le opere interne e gli ampliamenti di
modesta entità, sono espressione di un principio, ricavabile
del resto già dall’articolo 1 L. 10/1977 e costituente
l’applicazione inversa della regola ivi enunciata, della
gratuità della concessione per opere che non comportino
nessun nuovo carico urbanistico per il comune.
Questo Consiglio ha già fatto applicazione del principio in
sede consultiva con il parere n. 240 del 31.03.1982 della II
Sezione, ritenendo applicabile l’esenzione di cui all’alinea
“g”, relativo alle opere da realizzare in seguito a
pubbliche calamità al caso, non espressamente previsto,
della ricostruzione delle case distrutte; sul rilievo
appunto che l’onerosità della concessione trova la sua
ragion d’essere come corrispettivo delle spese che la
collettività si addossa, con vantaggio del concessionario,
in conseguenza della concessione edilizia, e che tale
presupposto manca nel caso di ricostruzione di ciò che la
calamità abbia distrutto.
Lo stesso va affermato, evidentemente, per il caso di
costruzione in sostituzione di un edificio espropriato e
distrutto per realizzare un’opera pubblica, per un volume
non maggiore del precedente e nel territorio dello stesso
comune.
Venendo alla questione principale, la legge 28.01.1977 n. 10
sull’edificabilità dei suoli, dopo avere all’articolo 1
enunciato la regola che «Ogni attività comportante
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio
comunale partecipa agli oneri ad essa relativi» (agli
oneri, s’intende, che le nuove costruzioni fanno gravare
sulla collettività), e avere istituito all’articolo 3 il
contributo per la concessione edilizia, commisurato
all’incidenza delle spese di urbanizzazione nonché al costo
di costruzione e meglio specificato poi negli articoli 5 e
6, nell’articolo 9 elenca i casi di concessione gratuita.
Alcuni dei casi di gratuità, come gli interventi di
restauro, manutenzione, risanamento conservativo, le
ristrutturazioni senza nuovi volumi, le opere interne e gli
ampliamenti di modesta entità, sono espressione di un
principio, ricavabile del resto già dall’articolo 1 e
costituente l’applicazione inversa della regola ivi
enunciata, della gratuità della concessione per opere che
non comportino nessun nuovo carico urbanistico per il
comune.
Questo Consiglio ha già fatto applicazione del principio in
sede consultiva con il parere n. 240 del 31.03.1982 della II
Sezione, ritenendo applicabile l’esenzione di cui all’alinea
“g”, relativo alle opere da realizzare in seguito a
pubbliche calamità al caso, non espressamente previsto,
della ricostruzione delle case distrutte; sul rilievo
appunto che l’onerosità della concessione trova la sua
ragion d’essere come corrispettivo delle spese che la
collettività si addossa, con vantaggio del concessionario,
in conseguenza della concessione edilizia, e che tale
presupposto manca nel caso di ricostruzione di ciò che la
calamità abbia distrutto.
Lo stesso va affermato, evidentemente, per il caso di
costruzione in sostituzione di un edificio espropriato e
distrutto per realizzare un’opera pubblica, per un volume
non maggiore del precedente e nel territorio dello stesso
comune
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 23.01.2004 n. 174 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Laddove
l’obbligo contributivo sia stato già assolto in sede di
intervento originario, l’eventuale ricostruzione
dell’edificio dovuta a causa accidentale che ne abbia
determinato la rovina, non comporta automaticamente
l’assoggettamento dell’opera al pagamento di un nuovo
contributo a titolo di quota di urbanizzazione.
Non essendovi propriamente (nuova) attività di
trasformazione del territorio, già oggetto di edificazione,
la ricostruzione dell’immobile distrutto non comporta, ex
se, l’esigenza di far partecipare il privato
all’urbanizzazione dell’area.
Resta salvo, ovviamente, il potere dell’amministrazione di
imporre l’obbligo contributivo in caso di aumento del carico
urbanistico conseguente alla ricostruzione dell’immobile,
nel caso in cui l’attività di ricostruzione abbia comportato
aumento della superficie o della volumetria o mutamento di
destinazione d’uso, e cioè modifiche strutturali o
funzionali capaci di incidere anche sull’assetto urbanistico
dell’area.
La pubblica amministrazione, peraltro, laddove ritenga si
sia determinato un incremento del carico urbanistico come
conseguenza della realizzazione dell’intervento di
ricostruzione che non abbia comportato nuova trasformazione
del territorio, ha l’onere di motivare la propria
determinazione con particolare riferimento all’esigenza di
apprestare nuove infrastrutture a seguito delle modifiche
intervenute.
Va precisato che, contrariamente a quanto ritenuto dalla
ricorrente, l’intervento previsto comporta la ricostruzione
dell’edificio principale preesistente, in massima parte
distrutto a seguito di incendio, ed il suo rialzamento
secondo quanto previsto dal regolamento urbanistico, la
mancata ricostruzione di altri corpi di fabbrica; ne
conseguono modifiche alla sagoma, planimetriche e
volumetriche rispetto all’insieme delle costruzioni
preesistenti.
Pertanto, l’intervento non può essere qualificato come
ristrutturazione edilizia, ma va correttamente definiti come
nuova edificazione.
Ciò nondimeno, non si tratta, automaticamente, di intervento
soggetto al pagamento degli oneri di urbanizzazione.
Vero è che l’art. 19, comma 1, l.r.t. 14.10.1999 n. 52
ricollega l’obbligo del contributo di concessione a due
diverse ipotesi, tra loro alternative, la prima delle quali
è quella che l’intervento comporti nuova edificazione.
Ciò non toglie, tuttavia, che il legislatore regionale abbia
inteso connettere l’obbligo contributivo all’esigenza di
sottoporre qualsiasi nuova costruzione, in quanto diretta
all’edificazione di un’area libera, alla partecipazione del
privato alle spese di urbanizzazione primaria e secondaria
che sarebbero state indotte dall’intervento realizzando in
un’area priva delle necessarie strutture urbanistiche o che
ne fosse già provvista.
In un caso o nell’altro, il principio sotteso all’obbligo
contributivo è rinvenibile nell’esigenza che ai costi
ricadenti sulla collettività per l’urbanizzazione dell’area,
della quale il privato si avvale nel momento in cui decide
di edificare, egli debba necessariamente contribuire in
rapporto a quanto costruito.
Il contributo di urbanizzazione è infatti determinato nella
misura corrispondente all’entità e qualità delle opere di
urbanizzazione necessarie, il che ha portato ad affermarne
la natura di corrispettivo, a differenza del contributo per
il rilascio della concessione che costituisce una
prestazione di natura tributaria (Tar Campania, Napoli, IV,
18.12.2001 n. 5500).
Peraltro, la quota di urbanizzazione è stata anche
qualificata come tassa, in quanto essenzialmente
corrispettivo di una prestazione resa o da rendere da parte
dell’amministrazione o avente natura di corrispettivo di
diritto pubblico (Tar Lombardia, Milano, II, 06.11.2002 n.
4267).
Si tratta, comunque, di una forma di partecipazione alle
spese pubbliche con caratteri atipici, ma sempre collegata
all’attività di trasformazione del territorio (C.S., V,
06.05.1997 n. 462).
Ne consegue che, laddove l’obbligo contributivo sia stato
già assolto in sede di intervento originario, l’eventuale
ricostruzione dell’edificio dovuta a causa accidentale che
ne abbia determinato la rovina, non comporta automaticamente
l’assoggettamento dell’opera al pagamento di un nuovo
contributo a titolo di quota di urbanizzazione.
Non essendovi propriamente (nuova) attività di
trasformazione del territorio, già oggetto di edificazione,
la ricostruzione dell’immobile distrutto non comporta, ex
se, l’esigenza di far partecipare il privato
all’urbanizzazione dell’area.
Resta salvo, ovviamente, il potere dell’amministrazione di
imporre l’obbligo contributivo in caso di aumento del carico
urbanistico conseguente alla ricostruzione dell’immobile,
nel caso in cui l’attività di ricostruzione abbia comportato
aumento della superficie o della volumetria o mutamento di
destinazione d’uso, e cioè modifiche strutturali o
funzionali capaci di incidere anche sull’assetto urbanistico
dell’area.
La pubblica amministrazione, peraltro, laddove ritenga si
sia determinato un incremento del carico urbanistico come
conseguenza della realizzazione dell’intervento di
ricostruzione che non abbia comportato nuova trasformazione
del territorio, ha l’onere di motivare la propria
determinazione con particolare riferimento all’esigenza di
apprestare nuove infrastrutture a seguito delle modifiche
intervenute
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 29.12.2003 n. 6289 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: In
materia edilizia vige la regola generale dell’onerosità
della concessione, essendo le ipotesi di gratuità della
concessione contemplate in norme di carattere derogatorio ed
eccezionale, e –come tali– di stretta interpretazione.
Analogo richiamo al regime di onerosità della concessione
edilizia in sanatoria è contenuto nell'art. 37 L. 28.02.1985
n. 47, il cui primo comma stabilisce che il versamento
dell’oblazione (allo Stato) non esime i concessionari dalla
corresponsione al Comune del contributo previsto dall’art. 3
legge n. 10/1977, “ove dovuto”: ne consegue che anche detto
inciso risulta disposizione di stretta interpretazione.
---------------
In sede di rilascio di concessione in sanatoria, si
giustifica la richiesta di pagamento di oneri di
urbanizzazione quando si sia verificata, in dipendenza della
realizzazione dell’intervento edilizio abusivo, una
variazione in aumento del carico urbanistico: e la
controversa ingiunzione di pagamento riguarda, per
l’appunto, una fattispecie di condono edilizio per cambio di
destinazione d’uso (da fienile a residenziale: cfr. quarto e
sesto capoverso delle premesse), comportante all’evidenza un
aumento di carico urbanistico nelle zone agricole
interessate.
Innanzitutto, giova premettere che è principio pacifico in
giurisprudenza, quello per cui in materia edilizia vige la
regola generale dell’onerosità della concessione, essendo le
ipotesi di gratuità della concessione contemplate in norme
di carattere derogatorio ed eccezionale, e –come tali– di
stretta interpretazione (cfr. Corte Cost. 23.06.1988, n.
714, TAR Trieste, 19.06.1993, n. 236, TAR Lazio,
Latina, 01.08.1994, n. 752): sotto questo profilo si
rivela, pertanto, esatta l’osservazione in tal senso svolta
dal Comune, nella propria memoria conclusiva.
Analogo richiamo al regime di onerosità della concessione
edilizia in sanatoria è contenuto nell'art. 37 L. 28.02.1985 n. 47 (cfr. TAR Toscana, Sez. I, 30.09.1993, n. 822), il cui primo comma stabilisce che
il versamento dell’oblazione (allo Stato) non esime i
concessionari dalla corresponsione al Comune del contributo
previsto dall’art. 3 legge n. 10/1977, “ove dovuto”: ne
consegue che anche detto inciso risulta disposizione di
stretta interpretazione.
---------------
Sotto altro profilo, la
conclusione cui è pervenuto il Collegio risulta, altresì,
avvalorata (vertendosi in ambito di giurisdizione esclusiva)
da un concorrente ordine di motivazioni, consistente nel
costante orientamento manifestato dal Giudice
amministrativo, nel senso che, in sede di rilascio di
concessione in sanatoria, si giustifica la richiesta di
pagamento di oneri di urbanizzazione quando si sia
verificata, in dipendenza della realizzazione
dell’intervento edilizio abusivo, una variazione in aumento
del carico urbanistico (cfr. Cons. Stato. Sez. V, 15.09.1997,
n. 959; per questo TRGA: 25.05.1992, n. 198 e 04.07.1990, n. 320; da ultimo: TAR Emilia-Romagna, Sez. II, n. 157 del 2001): e la controversa ingiunzione di
pagamento riguarda, per l’appunto, una fattispecie di
condono edilizio per cambio di destinazione d’uso (da
fienile a residenziale: cfr. quarto e sesto capoverso delle
premesse), comportante all’evidenza un aumento di carico
urbanistico nelle zone agricole interessate (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 02.07.2002 n. 214 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 18.12.2012 |
ã |
UTILITA' |
EDILIZIA
PRIVATA:
Lombardia, Necessita aggiornare il costo di costruzione
entro il 31.12.2012 il cui effetto sarà efficace a
decorrere dall'01.01.2013: ecco il fac-simile di
determinazione (file
1 -
file 2).
ATTENZIONE:
se non si adotta la determinazione di aggiornamento entro la
suddetta scadenza per tutto il 2013 si dovrà
applicare il medesimo costo di costruzione vigente nell'anno
2012 (cfr. art. 48, comma 2, della L.R. n. 12/2005).
ALCUNE CONSIDERAZIONI:
lo
scorso
06.11.2012 l'ISTAT ha pubblicato la nuova
rilevazione relativa al 3° trimestre 2012 per cui -ad oggi-
il dato ufficiale ISTAT è quello relativo alla variazione
del mese di agosto 2012, mentre quello di settembre 2012 è
ufficioso e, come tale, non utilizzabile (N.B.: per
controllare il dato in tempo reale
cliccare qui).
Pertanto, poiché il dato ufficioso di settembre 2012 sarà
ufficiale solamente col prossimo aggiornamento trimestrale
che sarà pubblicato l'anno prossimo, si
può già sin d'ora adottare la determinazione di
aggiornamento del costo di costruzione per l'anno 2013
senza aspettare gli ultimi giorni del mese corrente col
rischio di dimenticarsene (e, quindi, perdere soldi per le
casse comunali !!).
Inoltre, poiché trattasi di attività vincolata, la
competenza è gestionale e non della Giunta Comunale (siccome
lette alcune delibere facilmente trovabili nel web ... ci
dite cosa c'è di politico da deliberare??).
18.12.2012 - LA SEGRETERIA PTPL |
CORTE DEI
CONTI |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
Niente incentivo per il taglio del verde.
Le attività di taglio del verde, sostituzione infissi e
sostituzione di apparati termoidraulici sono assimilabili,
anche in virtù degli importi modesti, ai lavori in economia,
e non giustificano l'erogazione degli incentivi alla
progettazione previsti dall'articolo 92 del Dlgs 163/2006.
Con il
parere 13.11.2012 n. 293, la sezione regionale di
controllo della Corte dei conti per la Toscana, richiamando
propri precedenti orientamenti (parere
18.10.2011 n. 213) chiarisce che l'attività di
progettazione, utile per l'erogazione del compenso
incentivante, deve essere finalizzata alla realizzazione di
lavori o opere pubbliche.
Anche l'espletamento di funzioni da parte del responsabile
unico del procedimento in caso di progettazione di strumenti
urbanistici deve essere finalizzata, per ottenere
l'incentivo, alla realizzazione di opera pubblica. Con un
altro parere (parere
27.11.2012 n. 389) la stessa Sezione sostiene
infatti che l'atto tipo regolamento urbanistico non può
essere assimilato, per il suo contenuto intrinseco, a un
progetto di lavori, e dunque non si possono applicare le
disposizioni dell'articolo 92, finalizzate alla
realizzazione dell'opera pubblica progettata.
Secondo il codice dei contratti, infatti, una somma non
superiore al 2% dell'importo posto a base di gara di
un'opera o di un lavoro (compresi gli oneri previdenziali e
assistenziali a carico dell'amministrazione) è ripartita, «per
ogni singola opera o lavoro», con le modalità e i
criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e
assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra
il responsabile del procedimento e gli incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione dei lavori, del collaudo, e tra i loro
collaboratori.
In base al sesto comma dell'articolo 92, l'incentivo alla
progettazione va ripartito tra i dipendenti della Pa
aggiudicatrice che lo abbiano redatto e dunque è evidente
che il riferimento normativo presupponga una procedura a
evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un'opera
di pubblico interesse
(articolo
Il Sole 24 Ore del 17.12.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
CONDOMINIO: G.U.
17.12.2012 n. 293 "Modifiche alla disciplina del
condominio negli edifici" (Legge
11.12.2012 n. 220). |
APPALTI: G.U.
14.12.2012 n. 291 "Decreto del Ministro dell’economia e
delle finanze 25.06.2012 recante modalità di certificazione
del credito, anche in forma telematica, di somme dovute per
somministrazioni, forniture e appalti, da parte delle
regioni, degli enti locali e degli enti del Servizio
sanitario nazionale, di cui all’articolo 9, commi 3-bis e
3-ter del decreto-legge 29.11.2008, n. 185, convertito, con
modificazioni, dalla legge 28.01.2009, n. 2 e successive
modificazioni e integrazioni – modalità applicative" (Ragioneria
Generale dello Stato,
circolare 27.11.2012 n. 36). |
EDILIZIA
PRIVATA: G.U.
13.12.2012 n. 290 "Modifica del decreto 26.06.2009,
recante: «Linee guida nazionali per la certificazione
energetica degli edifici»"
(Ministero dello Sviluppo Economico,
decreto 22.11.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G.U.U.E. 11.12.2012 n. L 337/31 "REGOLAMENTO
(UE) N. 1179/2012 DELLA COMMISSIONE del 10.12.2012
recante i criteri che determinano quando i rottami di vetro
cessano di essere considerati rifiuti ai sensi della
direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio"
(link a http://eur-lex.europa.eu). |
QUESITI &
PARERI |
EDILIZIA
PRIVATA:
Parcheggi «Tognoli».
Domanda.
Ho letto di recente che è stata modificata la disciplina che
regolamenta la possibilità di trasferire i parcheggi
pertinenziali. Potreste darmi qualche delucidazione?
Risposta.
È vero. L'art. 10 del dl «Semplificazione e Sviluppo»
n. 5/2012 (conv. dalla legge n. 35/2012) ha sostituito
l'art. 9, 5° comma , della Legge «Tognoli» n. 122/1989.
L'art. 9, comma 5, ora stabilisce che, fermo restando l'art.
41-sexies, legge n. 1150/1942 e l'immodificabilità
dell'esclusiva destinazione a parcheggio, la proprietà dei
parcheggi realizzati a norma del 1° comma può essere
trasferita, anche in deroga a quanto previsto nel titolo
edilizio e nei successivi atti convenzionali, solo con
contestuale destinazione del parcheggio trasferito a
pertinenza di altra unità immobiliare sita nello stesso
comune mentre i parcheggi realizzati ai sensi del 4° comma
del medesimo art. 9 continuano a non poter essere ceduti
separatamente dall'unità immobiliare alla quale sono legati
da vincolo pertinenziale a pena di nullità dei relativi atti
di cessione, a eccezione di espressa previsione contenuta
nella convenzione stipulata con il comune, ovvero quando
quest'ultimo abbia autorizzato l'atto di cessione.
La modifica riguarda solo i parcheggi di cui all'art. 9, 1°
comma, legge n. 122/1989 ai sensi del quale: «Proprietari
di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi
ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati
parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità
immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai
regolamenti edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere
realizzati, a uso esclusivo dei residenti, anche nel
sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato,
purché non in contrasto con i piani urbani del traffico,
tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e
compatibilmente con la tutela dei corpi idrici. Restano in
ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in
materia paesaggistica e ambientale e i poteri attribuiti
dalla medesima legislazione alle regioni e ai Ministeri
dell'ambiente e per i beni culturali e ambientali da
esercitare motivatamente nel termine di 90 giorni. I
parcheggi stessi ove i piani del traffico non siano stati
redatti, potranno comunque essere realizzati nel rispetto
delle indicazioni di cui al periodo precedente».
Il 4° comma dell'art. 9 stabilisce invece che i comuni,
previa determinazione dei criteri di cessione del diritto di
superficie e su richiesta dei privati interessati o di
imprese di costruzione o di società anche cooperative,
possono prevedere, nell'ambito del programma urbano dei
parcheggi, la realizzazione di parcheggi da destinare a
pertinenza di immobili privati su aree comunali o nel
sottosuolo delle stesse. (_). La costituzione del diritto di
superficie è subordinata alla stipula di una convenzione
nella quale siano previsti la durata della concessione del
diritto di superficie per un periodo non superiore a novanta
anni e altri elementi tra i quali le sanzioni previste per
gli eventuali inadempimenti.
Prima della recente modifica normativa, anche i parcheggi di
cui al 1° comma dell'art. 9 (quelli, cioè, su proprietà
privata) non potevano essere ceduti separatamente dall'unità
immobiliare alla quale erano legati da vincolo pertinenziale,
a pena di nullità dei relativi atti di cessione, preclusione
tuttora prevista per i parcheggi realizzati su area comunale
di cui al 4° comma dell'art. 9 della legge n. 122/1989
(articolo ItaliaOggi Sette del 17.12.2012). |
NEWS |
CONDOMINIO:
Il sottotetto è condominiale. La struttura deve
poter essere usata come vano autonomo.
La riforma aggiorna l'elenco (non tassativo) delle
parti destinate a uso collettivo.
I sottotetti si presumono parte comune
dell'edificio condominiale se oggettivamente destinati
all'uso collettivo da parte dei condomini.
È uno degli effetti della riforma del condominio, che ha
introdotto novità in merito alle parti comuni del
caseggiato. Infatti, è stato aggiornato l'elenco dei beni
che, in base all'art. 1117 c.c., si presumono in
comproprietà di tutti i condomini, il quale tiene conto
anche dell'evoluzione tecnologica intervenuta dal 1942 a
oggi.
In primo luogo appare evidente la volontà del legislatore di
utilizzare un linguaggio più comprensibile: così viene
precisato che i beni elencati sono oggetto di proprietà
comune dei proprietari delle singole unità immobiliari
dell'edificio («anche se aventi diritto a godimento
periodico», con un implicito riferimento alle ipotesi
della c.d. multiproprietà immobiliare), espressione
certamente più semplice e attuale rispetto a quella
precedente («proprietari dei diversi piani o porzioni di
piani di un edificio»).
A conferma di ciò, la successiva precisazione secondo cui le
parti elencate sono condominiali «se non risulta il
contrario dal titolo», mentre la precedente (e ancora
attuale) versione dell'art. 1117 c.c. disponeva, con una
forma un po' più arcaica, «se il contrario non risulta dal
titolo» .
Rimane quindi confermato che per stabilire quali siano le
parti comuni dell'edificio condominiale bisogna in primo
luogo esaminare le clausole dei rogiti di acquisto (e,
successivamente, il regolamento, l'atto di successione
ereditaria, le vicende di fatto che abbiano portato a un
eventuale acquisto per usucapione, o la destinazione
oggettiva del bene). In ogni caso viene confermato che si
tratta comunque, è bene precisarlo subito, di un elenco dei
beni comuni non tassativo, ma esemplificativo, di parti che,
come detto, si presumono condominiali, con la conseguenza
che un bene o un impianto, pur non indicato nell'art. 1117
c.c., può, a determinate condizioni, essere ugualmente
qualificato come condominiale.
Ciò trova conferma nel fatto prima dell'elenco dei beni di
cui ai numeri 1, 2 e 3 della predetta disposizione del
codice civile, nella stessa norma viene anticipata
l'espressione «tutte le parti dell'edificio necessarie
all'uso comune» (mentre nell'originario testo dell'art. 1117
c.c. detta espressione era contenuta soltanto al termine
dell'elencazione dei beni comuni di cui al n. 1): la
modifica evidenziata tende dunque a evidenziare il carattere
esemplificativo e non esaustivo dell'elencazione in
questione. Del resto, di fronte alle molteplici varietà
delle ipotesi che possono presentarsi nella realtà
condominiale, non è certo possibile un elenco completo e
quindi anche la legge di riforma si limita soltanto a
fornire all'interprete una chiave per individuare quali
beni, in un caseggiato in condominio, debbano presumersi di
proprietà comune.
Nel passare all'elenco delle parti condominiali, la novità è
rappresentata dall'inclusione in esse dei pilastri, delle
travi portanti e delle facciate: tali indicazioni sono
indiscutibili, se si considera che i muri perimetrali
delimitano esternamente il caseggiato, mentre i pilastri e
le travi in conglomerato cementizio sono elementi
dell'intelaiatura portante dell'edificio condominiale.
Vengono ricompresi nell'elenco dei beni comuni anche le aree
destinate a parcheggio e i sottotetti destinati, per le
caratteristiche strutturali e funzionali, all'uso comune. Si
tratta quindi dei sottotetti che abbiano dimensioni e
caratteristiche strutturali tali da consentirne
l'utilizzazione come vano autonomo (mentre sono generalmente
di proprietà esclusiva quelli che costituiscono una camera
d'aria e hanno la mera funzione di isolare e proteggere
l'appartamento dell'ultimo piano dal caldo, dal freddo e
dall'umidità).
Per quanto riguarda le altre novità introdotte dalla riforma
della disciplina condominiale in tema di parti comuni,
merita di essere precisato che è stata modificata la
dicitura di alcuni beni comuni (gli impianti idrici e
fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di
trasmissione per il gas, per l'energia elettrica, per il
riscaldamento (anziché gli acquedotti, le fognature, i
canali di scarico, gli impianti per l'acqua, per il gas, per
l'energia elettrica, per il riscaldamento e simili) e che
sono stati aggiunti altri impianti, ovvero quelli per il
condizionamento dell'aria, per la ricezione radiotelevisiva
e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso
informativo anche da satellite o via cavo. Da notare che, in
caso di impianti unitari, si dovrà far rientrare l'impianto
tra le parti comuni fino al punto di utenza, salve le
normative di settore in materia di reti pubbliche, in grado,
queste ultime, di costituire unilateralmente vincoli
sull'edificio aventi effetti analoghi alle servitù
(articolo
ItaliaOggi Sette del 17.12.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Pubblicato in Guue il regolamento n. 1179/12 con
le norme per l'end of waste. Il riutilizzo del vetro ora è
doc. Regole Ue per i produttori di materie prime secondarie.
Nuove regole certe per i produttori di
materie prime secondarie. Dopo quelle relative ai rottami
ferrosi, arrivano infatti dall'Ue le norme per riabilitare a
veri e propri beni i rifiuti di vetro sottoposti a
procedimenti di recupero.
Le nuove regole sull'«end of waste» sono recate dal
REGOLAMENTO (UE) N. 1179/2012 DELLA COMMISSIONE del
10.12.2012
in attuazione dell'articolo 6 della direttiva madre sui
rifiuti (la 2008/98/Ce) e si applicano immediatamente in
tutti gli Stati membri a partire dall'11.06.2013 senza
necessità di essere veicolate da provvedimenti interni in
quanto norme «self executing».
Con il provvedimento in parola (pubblicato sulla Guue
dell'11.12.2012, n. L337) la Commissione Ue stabilisce tutte
le condizioni indefettibili che i rottami di vetro devono
soddisfare per uscire dalla disciplina dei rifiuti, ossia:
tipologie di rifiuti processabili; operazioni di recupero da
seguire; standard qualitativi minimi dei prodotti ottenuti;
tipi di riutilizzi possibili; sistemi di gestione dei
processi; certificazione di conformità.
Tipologie di rifiuti ammissibili.
In base al nuovo regolamento, saranno utilizzabili per
ottenere le materie prime in esame unicamente i rifiuti
recuperabili provenienti dalla raccolta del vetro per
imballaggio, il vetro piano, il vasellame privo di piombo.
Sono invece esclusi i residui contenenti vetro provenienti
da rifiuti solidi urbani indifferenziati o da strutture
sanitarie ed i rifiuti pericolosi.
Trattamento.
I rifiuti ammessi all'«end of waste» dovranno essere
raccolti, separati dagli altri residui e trasformati fino a
ottenere dei rottami di vetro riutilizzabili direttamente,
attraverso la rifusione, nella produzione di sostanze di
vetro od oggetti.
Qualità delle materie prime secondarie.
I rottami ottenuti all'esito del trattamento dovranno
soddisfare sia le specifiche norme di settore (in sostanza,
quelle dell'industria del vetro) sia i limiti massimi di
metalli, sostanze organiche (come carta, gomma plastica,
tessuto, legno) ed inorganiche (come ceramica, roccia,
porcellana, piroceramica) stabiliti dagli allegati tecnici
al regolamento comunitario.
Ancora, i rottami dovranno altresì essere esenti dalle
caratteristiche di pericolo previste dall'allegato III alla
citata direttiva madre sui rifiuti e rispettare i parametri
di concentrazione fissati sia dalla decisione 2000/532/Ce
(recante l'elenco dei rifiuti) che dal regolamento Ce n.
850/2004 (relativo agli inquinanti organici persistenti).
Riutilizzi consentiti.
Parte integrante delle condizioni da rispettare per poter
gestire come veri e propri beni i rottami ottenuti all'esito
del recupero è il rispetto della loro destinazione. Questa,
come accennato, deve coincidere esclusivamente con il
riutilizzo diretto delle materie prime ottenute nella
produzione di sostanze od oggetti di vetro mediante la loro
rifusione. In caso contrario, essi rottami torneranno quindi
ad essere considerati rifiuti, con tutti i relativi obblighi
gestionali connessi.
Controllo del procedimento.
Procedimento di trattamento dei rifiuti e qualità dei
rottami ottenuti dovranno essere sottoposti ad un sistema di
gestione che permetta il controllo delle condizioni
prescritte, sistema che dovrà altresì essere validato da un
organismo accreditato dall'Ue almeno ogni tre anni.
Dichiarazione di conformità.
Ogni partita di rottami di vetro dovrà infine essere
accompagnata da un dichiarazione di conformità che la
identifichi e ne attesti la rispondenza ai requisiti tecnici
stabiliti dal nuovo regolamento Ue.
Tale onere sarà a carico del «produttore» dei rottami (ossia
del detentore che li cede per la prima volta dalla loro
creazione ad altro soggetto) oppure, in caso di materiali
extra Ue, dall'«importatore» (quale persona fisica o
giuridica stabilita nell'Unione che li introduce nel
territorio doganale comunitario).
L'«end of waste» Ue.
Alla base della nuova disciplina, come accennato, vi è la
citata direttiva 2008/98/Ce, il cui articolo 6 conferisce
alla Commissione Ue il potere stabilire norme tecniche per
il recupero di determinate categorie di rifiuti.
Tali regole, una volta adottate, diventano vincolanti e
scavalcano quelle eventualmente stabilite dai singoli Stati
membri, legittimando i soggetti che le osservano a gestire
come veri e propri beni i residui che derivano dai processi
regolamentati.
Il nuovo regolamento Ue n. 1179/2012 sui rottami di vetro
segue l'analogo regolamento 333/2011/Ue relativo all'end of
waste di rottami di ferro, acciaio ed alluminio già in
vigore dal 09.10.2011.
Se l'Esecutivo Ue seguirà la scaletta di priorità prevista
dallo stesso articolo 6 della direttiva 2008/98/Ce, tra i
prossimi criteri in arrivo dovranno esserci quelli relativi
al recupero di rifiuti di carta, tessuto e pneumatici fuori
uso
(articolo
ItaliaOggi Sette del 17.12.2012). |
APPALTI SERVIZI:
Servizi locali. L'adeguamento ai parametri
europei previsto dal Dl sviluppo riguarda anche il settore
idrico.
Affidamenti da giustificare. Le ragioni della scelta vanno
esplicitate in una relazione pubblica.
Gli enti locali devono verificare la coerenza con i
parametri comunitari degli affidamenti dei servizi alle
società partecipate e, se rilevano criticità, devono
adottare misure di adeguamento.
La legge di conversione del Dl sviluppo (Dl 179/2012)
delinea un nuovo quadro di riferimento essenziale per i
servizi pubblici locali di rilevanza economica, definendo
nell'articolo 34 un percorso finalizzato a garantire la
massima trasparenza (sia a fini di concorrenza, sia per gli
utenti) sui modelli gestionali scelti dagli enti locali.
La relazione illustrativa
I Comuni e gli enti di governo degli ambiti territoriali
ottimali (individuati dal comma 23 come i soggetti
competenti all'affidamento per i servizi a rete, come la
gestione del ciclo integrato dei rifiuti) devono esplicitare
in una relazione illustrativa le ragioni dell'affidamento e
la sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento
europeo per il modello prescelto (comma 20).
Il documento, che deve essere pubblicato sul sito internet
dell'ente affidante, ha come contenuti essenziali anche
l'individuazione degli obblighi di servizio pubblico e delle
relative compensazioni, che dovranno essere esplicitate
tenendo conto dei parametri della disciplina comunitaria
sugli aiuti di Stato, compresa nel cosiddetto pacchetto Sieg
(il nuovo pacchetto di norme sugli aiuti di Stato per i
servizi di interesse economico generale).
Per gli affidamenti in house, la relazione dovrà evidenziare
analiticamente i dati quantitativi che esplicitano la
prevalenza dell'attività svolta dalla società a favore
dell'ente locale e della sua comunità, e gli elementi
compositivi del controllo analogo, come ad esempio le
clausole convenzionali che garantiscono agli enti soci di
intervenire nei processi decisionali strategici, gli
strumenti specifici, l'oggetto sociale delimitato.
Il controllo
Se la società è partecipata da più enti locali, detentori
anche di quote molto limitate, le clausole statutarie devono
consentire agli enti di esercitare congiuntamente il
controllo analogo, come chiarito dalla Corte di giustizia
Ue, sezione III, con la sentenza del 29.11.2012, sulla causa
C-183/11.
L'eventuale rilevazione, da parte dell'ente affidante, di
elementi non conformi ai requisiti comunitari nel presunto
rapporto in house, determina l'obbligatoria adozione di
misure (comma 21) che sanciscano soprattutto il controllo
analogo, come l'inclusione nello statuto di regole
specifiche, la costituzione di organismi di verifica, la
regolamentazione dettagliata delle attività di checking
delle prestazioni e della qualità nei contratti di servizio.
Società miste
La situazione può risultare più critica per le società
miste, perché i parametri del partenariato pubblico-privato
di tipo istituzionale definiti dall'ordinamento comunitario
prevedono la selezione a evidenza pubblica del socio privato
e la contestuale attribuzione a questo di specifici compiti
operativi.
Le società a partecipazione congiunta pubblico-privata
"vecchio modello" (nelle quali il socio sia stato
individuato con gara, ma per le quali l'affidamento sia
avvenuto in forma diretta) non possono proseguire nella
gestione. Gli enti dovranno dunque riacquistare
temporaneamente le quote (liquidando il socio privato), per
indire poi una nuova gara «a doppio oggetto». Un percorso
analogo deve essere seguito per le società miste nelle quali
il socio privato sia stato scelto, a suo tempo, senza gara.
L'affidamento diretto di servizi pubblici da parte di
amministrazioni locali a società da esse non partecipate
comporta invece un nuovo affidamento con gara, entro termini
molto brevi.
Mancato adeguamento
La mancata formazione e pubblicizzazione della relazione
illustrativa e l'eventuale mancato adeguamento ai parametri
comunitari comportano la cessazione degli affidamenti
"impropri" in corso al 31.12.2013. La stessa data comporta
la cessazione degli affidamenti per i quali il contratto di
servizio non preveda scadenza e non sia stato inserito nello
strumento pattizio, nel frattempo, un termine preciso.
La nuova disciplina non si applica al servizio di
distribuzione del gas naturale, a quello di distribuzione
dell'energia e a quello di gestione delle farmacie (articolo
34, comma 25): curiosamente, non è escluso il servizio
idrico, per il quale, di conseguenza, gli enti di governo
dell'ambito devono dimostrare la coerenza dei modelli
gestionali attuali con i requisiti comunitari (ed
eventualmente adeguarli, pena la scadenza delle gestioni
esistenti a fine 2013).
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Le nuove regole
01 | La procedura
I servizi pubblici locali di rilevanza economica devono
essere affidati in base a una relazione, pubblicata sul sito
internet dell'ente affidante, che dà conto delle ragioni e
della sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento
europeo per la forma di affidamento prescelta e che
definisce i contenuti specifici degli obblighi di servizio
pubblico
02 | La scadenza
Gli affidamenti in corso non conformi ai requisiti previsti
dalla normativa europea devono essere adeguati entro il
31.12.2013 pubblicando, entro la stessa data, la relazione.
Per gli affidamenti in cui non è prevista una data di
scadenza, gli enti devono inserire nel contratto di servizio
o negli altri atti che regolano il rapporto un termine di
scadenza dell'affidamento. In mancanza di adempimento a
questi obblighi, l'affidamento cessa al 31.12.2013
I punti-chiave
01 | LA DECISIONE
Il giudice del lavoro di Padova ha annullato il
provvedimento con cui un Comune aveva messo in disponibilità
un proprio dipendente: un titolare di posizione
organizzativa che, dopo la mancata conferma dell'incarico,
era stato spostato in un altro settore e poi dichiarato in
esubero
02 | LA MOTIVAZIONE
Il giudice ha rilevato che nella comunicazione ai soggetti
sindacali è mancata completamente l'indicazione dei criteri
in base ai quali è stata effettuata la scelta dei dipendenti
da collocare in esubero. Quindi, secondo il giudice, il
dipendente non è stato individuato in modo oggettivo ma
mirato
(articolo
Il Sole 24 Ore del 17.12.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA:
In sede di rilascio della
concessione edilizia in sanatoria, ai sensi dell’art. 32
della legge 28.02.2985 n. 47, l’obbligo di acquisire il
parere da parte dell’autorità preposta alla tutela del
vincolo sussiste anche per le opere realizzate anteriormente
all’imposizione del vincolo stesso.
Sulla questione s’è pronunciata l’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato con decisione n. 20 del 22.07.1999,
costantemente richiamata dalla successiva giurisprudenza,
nel senso che in sede di rilascio della concessione edilizia
in sanatoria, ai sensi dell’art. 32 della legge 28.02.2985
n. 47, l’obbligo di acquisire il parere da parte
dell’autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste
anche per le opere realizzate anteriormente all’imposizione
del vincolo stesso.
A tale conclusione l’Adunanza Plenaria è pervenuta nella
considerazione che “in mancanza di indicazioni univoche
desumibili dal dato normativo” alla questione di cui
sopra non può che darsi una soluzione “alla stregua dei
principi generali in materia di azione amministrativa,
tenuto conto della valenza attribuita dall’ordinamento agli
interessi coinvolti nell’applicazione della disposizione
legislativa di cui si tratta” e, conseguentemente, “la
Pubblica Amministrazione, sulla quale incombe più pressante
l’obbligo di osservare la legge, deve necessariamente tener
conto, nel momento in cui provvede, della norma vigente e
delle qualificazioni giuridiche che essa impone”.
In tale ottica l’obbligo di pronuncia da parte dell’autorità
preposta alla tutela del vincolo sussiste a prescindere
dall’epoca d’introduzione del vincolo stesso in quanto
risponde alla esigenza di vagliare l’attuale compatibilità,
con il vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente non
ostando a tale conclusione la considerazione che siffatta
soluzione esporrebbe il singolo caso, in violazione del
principio di certezza del diritto e di non disparità di
trattamento, alla variabile alea dei tempi di decisione
sull’istanza, l’Adunanza plenaria ha osservato “per un
verso, che addurre inconvenienti non è un buon argomento
ermeneutico e, per altro verso, che, ad ogni modo,
l’ordinamento appresta idonei strumenti di sollecitazione e,
del caso, di sostituzione dell’amministrazione inerte”.
Alla stregua delle considerazioni che precedono deve
ritenersi manifestamente infondata la questione di
legittimità dell’art. 32 della l. n. 47/1985 in relazione
agli articoli 3 e 97 della Costituzione, nonché, dell’art.
25, comma 2, della Costituzione, non costituendo il ripetuto
art. 32 fattispecie costitutiva di illecito penale (Cons.
St., Sez. VI n. 4765/2003).
In tale prospettiva è stata esclusa un’interpretazione della
normativa di sanatoria nel senso che dette leggi
costituirebbero espressione dell’intenzione del legislatore
della sanatoria di procedere ad un condono “a tappeto”
di tutte le opere già eseguite al momento dell’entrata in
vigore della legislazione condonistica, avendo invece la
giurisprudenza chiarito che “la salvezza delle opere
abusive decretata dalla normativa clemenziale, lungi dal
basarsi in via automatica sul referente temporale, può
essere ricavata solo dall’espressa volontà incarnata dal
diritto positivo. Non va, infatti, dimenticato che la
specialità della normativa sul condono edilizio, attesa la
sua natura derogatoria ed eccezionale, ne impone una lettura
di stretta interpretazione” Cons. Stato Sez. VI
22/08/2003 n. 4765.
Pertanto, nel compiere il giudizio di compatibilità,
l’Amministrazione non può non tener conto delle prescrizioni
recate dal vincolo sopravvenuto dovendo invece verificare
-alla data di concreto esercizio della potestà
amministrativa- se la costruzione (antecedente o meno
all'imposizione del vincolo) sia compatibile con i valori
paesaggistici, cui corrispondono interessi pubblici primari,
di natura culturale ed ambientale.
Ed in tale ottica i provvedimenti volti ad esprimere parere
favorevole alla sanatoria sulla base di una valutazione di
compatibilità paesaggistica formulata in termini del tutto
assiomatici –consistenti nella mera affermazione di una non
meglio specificata compatibilità delle opere abusive con il
contesto ambientale– è ritenuta indicativa dell'assenza di
una compiuta valutazione circa la compatibilità delle opere
realizzate con i valori paesaggistici tutelati (come sarebbe
stato indispensabile per la sanatoria di opere che, anche
perché contrastanti con la disciplina urbanistico edilizia,
avrebbero potuto essere ammesse a sanatoria solo sulla base
di un compiuto apprezzamento di ordine estetico e
funzionale, che attestasse in modo congruo -e con adeguata
rappresentazione della situazione di fatto- l'assenza di
qualsiasi compromissione dei predetti valori paesaggistici);
in tal modo l’autorità subdelegata tradendo la delicata
funzione affidatale, risultando l’assiomatico giudizio di
compatibilità sintomatico di eccesso di potere per la
sostanziale assenza di motivazione del parere (cfr. da
ultimo, Cons. St., sez. VI, 23.02.2011, n. 1127 e 08.05.2012
n. 2649).
Tale vizio, peraltro, è stato ritenuto dalla giurisprudenza,
con riferimento ai provvedimenti in esame, come
particolarmente grave e di per sé sufficiente a giustificare
l'annullamento del nulla osta comunale: in considerazione
della tendenziale irreversibiltà dell'alterazione dello
stato dei luoghi, un'adeguata gestione dei vincoli
paesistici impone che l'autorizzazione paesistica sia
congruamente motivata, esponendo le ragioni di effettiva
compatibilità degli abusi realizzati con gli specifici
valori paesistici dei luoghi, con la conseguenza che il
difetto di motivazione dell'autorizzazione giustifica per
ciò solo il suo annullamento in sede di controllo
(TAR Lazio-Roma,
Sez. II,
sentenza 05.12.2012 n. 10167 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI:
L'art. 192, comma 3, Dlgs.
03.04.2006, n. 152, norma speciale sopravvenuta rispetto
all'art. 107, comma 5, Dlgs. 18.08.2000, n. 267, attribuisce
espressamente al sindaco la competenza a disporre, con
ordinanza, le operazioni necessarie alla rimozione ed allo
smaltimento dei rifiuti previste dal comma 2.
Tale previsione, sulla base degli ordinari criteri preposti
alla soluzione delle antinomie normative, ovvero in base al
criterio specialistico e al criterio cronologico, prevale
sul disposto dell'art. 107, comma 5, Dlgs. n. 267 del 2000.
---------------
Nei confronti del curatore fallimentare non è configurabile
alcun obbligo ripristinatorio in ordine all'abbandono dei
rifiuti in assenza dell’accertamento univoco di un’autonoma
responsabilità del medesimo, conseguente alla presupposta
ricognizione di comportamenti commissivi, ovvero meramente
omissivi, che abbiano dato luogo al fatto antigiuridico.
---------------
In definitiva, applicando le disposizioni contenute
nell’art. 192 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152, discende che il
provvedimento impugnato è illegittimo e va annullato per
incompetenza e nella parte in cui ha posto obblighi ed oneri
direttamente in capo al fallimento, quando invece, qualora
il Comune proceda all'esecuzione d'ufficio, per recuperare
le somme anticipate, ha a disposizione il solo rimedio
dell’insinuazione del relativo credito nel passivo
fallimentare.
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 20 del 12.01.2012,
notificata il 18.01.2012 al curatore, con cui il Dirigente
del Coordinamento Ambiente del Comune di Verona ha disposto
ed ordinato al fallimento ricorrente l'esecuzione d'ufficio
delle azioni necessarie alla pulizia totale dei sito
industriale sito in Verona denominato ex Tiberghien, come
richiesto con precedente ordinanza dell'agosto 2010.
...
Infatti, come chiarito dalla giurisprudenza (cfr. ex
pluribus Consiglio di Stato, Sez. V, 25.08.2008, n.
4061; Tar Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 26.01.2011, n.
61) anche di questo Tribunale (cfr. Tar Veneto, Sez. III,
20.10.2009, n. 2623; id. 14.01.2009, n. 40) l'art. 192,
comma 3, Dlgs. 03.04.2006, n. 152, norma speciale
sopravvenuta rispetto all'art. 107, comma 5, Dlgs.
18.08.2000, n. 267, attribuisce espressamente al sindaco la
competenza a disporre, con ordinanza, le operazioni
necessarie alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti
previste dal comma 2.
Tale previsione, sulla base degli ordinari criteri preposti
alla soluzione delle antinomie normative, ovvero in base al
criterio specialistico e al criterio cronologico, prevale
sul disposto dell'art. 107, comma 5, Dlgs. n. 267 del 2000.
Tale rilievo comporta pertanto di per sé l’annullamento
dell’ordinanza impugnata, fermo restando che la questione
andrà rimessa al Sindaco, che è l’organo individuato come
competente dalla norma ad adottare tale tipo di ordinanze.
Nel caso di specie, atteso che si è di fronte ad un vizio di
incompetenza di tipo infrasoggettivo, che è quello che si
verifica nell'ambito dello stesso ente, poiché
l'Amministrazione è evocata in giudizio nella sua unitarietà
indipendentemente dallo specifico riferimento soggettivo
all'organo che ha emanato l'atto impugnato, non vi è
pericolo che una pronuncia di merito sugli altri motivi di
ricorso possa, in violazione del principio del
contraddittorio, dettare regole di condotta nei confronti di
soggetti rimasti estranei al giudizio, e pertanto il
rilevato vizio di incompetenza non assume carattere
assorbente delle ulteriori censure (cfr. Tar Veneto, Sez.
III, 28.04.2008, n. 1136; Tar Lombardia, Brescia,
01.06.2001, n. 398) e possono pertanto essere esaminati
ulteriori motivi di ricorso al fine di orientare la
successiva attività dell'Amministrazione (cfr. Consiglio di
Stato, Sez. V, 30.08.2004, n. 5654).
Ciò premesso va rilevato che è fondata anche la censura
contenuta nel primo motivo con la quale il fallimento
lamenta che la curatela fallimentare non può essere
legittimamente destinataria di ordinanze afferenti le
operazioni di rimozione rifiuti il cui abbandono sia
riconducibile unicamente alla responsabilità dell’impresa
fallita e al quale è estraneo il fallimento.
Infatti la giurisprudenza ha chiarito che nei confronti del
curatore fallimentare non è configurabile alcun obbligo
ripristinatorio in ordine all'abbandono dei rifiuti in
assenza dell’accertamento univoco di un’autonoma
responsabilità del medesimo, conseguente alla presupposta
ricognizione di comportamenti commissivi, ovvero meramente
omissivi, che abbiano dato luogo al fatto antigiuridico
(cfr. Tar Toscana, Sez. II, 19.03.2010, n. 700; Tar Campania
, Salerno, Sez. I, 18.10.2010, n. 11823; Tar Calabria,
Catanzaro, Sez. II, 09.09.2010, n. 2556; Tar Toscana, Sez.
II, 17.04.2009, n. 663; Consiglio di Stato, Sez. V,
25.01.2005, n. 136; Tar Lombardia, Milano, Sez. II,
10.05.2005, n. 1159; Tar Lazio, Latina, 12.03.2005, n. 304;
Consiglio di Stato, Sez. V, 29.07.2003, n. 4328; Tar
Toscana, Sezione II, 01.08.2001, n. 1318).
In definitiva, applicando le disposizioni contenute
nell’art. 192 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152, discende che,
ferma restando la validità del provvedimento impugnato nella
parte in cui dispone obblighi in capo all’altro
comproprietario del compendio immobiliare, il provvedimento
impugnato è illegittimo e va annullato per incompetenza e
nella parte in cui ha posto obblighi ed oneri direttamente
in capo al fallimento, quando invece, qualora il Comune
proceda all'esecuzione d'ufficio, per recuperare le somme
anticipate, ha a disposizione il solo rimedio
dell’insinuazione del relativo credito nel passivo
fallimentare
(TAR Veneto, Sez.
III,
sentenza 04.12.2012 n. 1498 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Pubblico impiego. Giudice di Padova. Per gli
esuberi criteri oggettivi e predeterminati.
I dipendenti e i dirigenti pubblici da collocare in esubero
devono essere scelti sulla base di criteri oggettivi e
predeterminati che le singole amministrazioni si devono
dare, così da evitare ogni forma di arbitrarietà.
È questo il principio affermato dal giudice del lavoro di
Padova nell'ordinanza 30.11.2012 n. 2685/2012.
Si tratta della prima pronuncia della giurisprudenza
sull'applicazione delle nuove regole sulle eccedenze di
personale introdotte dalla legge di stabilità del 2012.
Questi principi si applicano anche alle eccedenze che si
registreranno nella Pa sulla base del decreto legge 95/2012;
ma in questo caso i criteri sono predeterminati direttamente
dalla legge, senza lasciare margini di discrezionalità
significativi alle singole amministrazioni.
Nel dettaglio l'ordinanza ha annullato il provvedimento con
cui un Comune aveva messo in disponibilità un proprio
dipendente che era in precedenza titolare di posizione
organizzativa e, a seguito della mancata conferma in tale
incarico, era stato collocato in un altro settore. Dopo di
che, pur in presenza di un altro dipendente della stessa
categoria nel settore, era stato dichiarato in esubero. A
questo fine era stato utilizzato l'articolo 33 del decreto
legislativo 165/2001 modificato dalla legge di stabilità
2012, che prevede la possibilità per le Pa di collocare in
esubero personale in soprannumero o comunque nel caso di
eccedenze di personale, in relazione alle esigenze
funzionali o alla situazione finanziaria.
Alla base dell'ordinanza vi è la constatazione che mancano
completamente nella comunicazione ai soggetti sindacali i
criteri in base ai quali è stata effettuata la scelta dei
dipendenti da collocare in esubero. Infatti, in tale
documento, si legge nell'ordinanza, «non è indicato alcun
criterio di comparazione tra le posizioni lavorative dei
dipendenti della categoria sia nella stessa area, che di
altre aree; nemmeno si estende la valutazione a dipendenti
di categoria inferiore, cosa ammissibile, dovendosi adottare
una misura che è prodromica alla cessazione del rapporto.
Non viene indicato in ogni caso alcun criterio generale di
individuazione della posizione da sopprimere».
Di qui si arriva alla conclusione che «l'individuazione
del ricorrente come dipendente da collocare in disponibilità
abbia carattere mirato, tutto il contrario della oggettività
che deve presiedere alla procedura di collocamento in
disponibilità». E siamo in presenza di conseguenze assai
pesanti e che meritano un intervento immediato perché «il
collocamento in disponibilità comporta non solo una
riduzione stipendiale, venendo riconosciuto solo l'80% dello
stipendio e della indennità integrativa speciale, con
esclusione di qualsiasi altro emolumento, ma anche
l'esclusione dal contesto lavorativo, particolarmente
stigmatizzante perché riferita a un solo dipendente».
Si deve inoltre aggiungere l'elevata dose di rischio di
risoluzione del rapporto di lavoro, cioè del licenziamento,
nel caso in cui il dipendente non sia assunto da un'altra Pa
entro il termine massimo di due anni dal collocamento in
disponibilità
(articolo
Il Sole 24 Ore del 17.12.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’art.
31 della legge 17.08.1942, n. 1150 (nel testo modificato
dalla legge dall’art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765),
non ha introdotto un'azione popolare, che consentirebbe a
qualsiasi cittadino di impugnare il provvedimento che
prevede la realizzazione di un'opera per far valere comunque
l'osservanza delle prescrizioni che regolano l'edificazione.
Piuttosto, la norma ha riconosciuto una posizione
qualificata e differenziata solo in favore dei proprietari
di immobili siti nella zona in cui la costruzione è permessa
e a coloro che si trovano in una situazione di "stabile
collegamento" con la zona medesima.
---------------
Il Collegio è consapevole dell’esistenza di orientamenti
giurisprudenziali difformi.
Secondo una tesi più liberale, la legittimazione a impugnare
una concessione edilizia non postulerebbe necessariamente
l'adiacenza fra gli immobili, essendo sufficiente la
semplice prossimità, senza che sia necessario dimostrare
ulteriormente la sussistenza di un interesse qualificato
alla tutela giurisdizionale.
Per una concezione più restrittiva (cui aderisce il
collegio), invece, ai fini dell'impugnazione di una
concessione edilizia la condizione della “vicinitas”
andrebbe valutata alla stregua di un giudizio che tenga
conto della natura e delle dimensioni dell'opera realizzata,
della sua destinazione, delle sue implicazioni urbanistiche
ed anche delle conseguenze prodotte dal nuovo insediamento
sulla qualità della vita di coloro che per residenza,
attività lavorativa e simili, sono in durevole rapporto con
la zona in cui sorge la nuova opera.
La sentenza impugnata ha dichiarato
inammissibile il ricorso di primo grado per non avere il
ricorrente fornito la prova della propria legittimazione
attiva.
La decisione si fonda sul presupposto -del tutto
condivisibile, in quanto conforme a una costante
giurisprudenza- che l’art. 31 della legge 17.08.1942,
n. 1150 (nel testo modificato dalla legge dall’art. 10 della
legge 06.08.1967, n. 765), non abbia introdotto un'azione
popolare, che consentirebbe a qualsiasi cittadino di
impugnare il provvedimento che prevede la realizzazione di
un'opera per far valere comunque l'osservanza delle
prescrizioni che regolano l'edificazione. Piuttosto, la
norma ha riconosciuto una posizione qualificata e
differenziata solo in favore dei proprietari di immobili
siti nella zona in cui la costruzione è permessa e a coloro
che si trovano in una situazione di "stabile collegamento"
con la zona medesima.
In via preliminare, l’appello insiste molto –come è
naturale– sulla legittimazione ad agire, che emergerebbe da
un complesso di documenti depositati nel giudizio di primo
grado (una planimetria di piano; una visura catastale;
l’autorizzazione al commercio rilasciata al legale
rappresentante della Società appellante; il contratto di
affitto d’azienda), dei quali il Tribunale regionale avrebbe
potuto comunque chiedere l’integrazione. Sostiene poi la
tesi della sufficienza, ai fini della legittimazione, del
solo elemento della “vicinitas”.
In relazione a tale requisito, il Collegio è consapevole
dell’esistenza di orientamenti giurisprudenziali difformi
(per un esame dettagliato della questione si veda Cons.
Stato, Sez. VI, 20.10.2010, n. 7591).
Secondo una tesi più liberale, la legittimazione a impugnare
una concessione edilizia non postulerebbe necessariamente
l'adiacenza fra gli immobili, essendo sufficiente la
semplice prossimità, senza che sia necessario dimostrare
ulteriormente la sussistenza di un interesse qualificato
alla tutela giurisdizionale (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez.
IV, 16.03.2010 , n. 1535).
Per una concezione più restrittiva, invece, ai fini
dell'impugnazione di una concessione edilizia la condizione
della “vicinitas” andrebbe valutata alla stregua di un
giudizio che tenga conto della natura e delle dimensioni
dell'opera realizzata, della sua destinazione, delle sue
implicazioni urbanistiche ed anche delle conseguenze
prodotte dal nuovo insediamento sulla qualità della vita di
coloro che per residenza, attività lavorativa e simili, sono
in durevole rapporto con la zona in cui sorge la nuova opera
(cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 31.05.2007, n.
2849).
Nel caso di specie, peraltro, la Sezione ritiene di non
avere motivo di discostarsi da una propria precedente
decisione (23.09.2011, n. 5353), resa su una
controversia avente sostanzialmente il medesimo oggetto di
quella attuale (rilascio dell’autorizzazione per la
realizzazione di un edificio commerciale in Vasto) e
intercorrente tra parti delle quali, come emerge dalla
documentazione in atti:
-
la Società appellante (Modulo Quattro s.r.l.) aveva la
stessa sede sociale, analogo oggetto sociale, proprietà e
amministrazione largamente sovrapponibili a quella della
Società odierna appellante; in particolare il signor
Giovanni Cirotti, titolare dell’autorizzazione al commercio
depositata in primo grado, appare comproprietario e
amministratore (insieme con altri soggetti) di entrambe le
società.
-
la Società appellata (Immobiliare “C” di Cerella Natalia
Gabriella) era l’originaria proprietaria dell’area in
discussione, dante causa dell’odierna Società appellata.
Aderendo per implicito alla tesi più restrittiva fra quelle
prima ricordate, la sentenza citata ha ritenuto mancante la
legittimazione dell’appellante, che non sarebbe riuscita a
offrire prova o indizio di prova dello sviamento della
clientela e della conseguente futura diminuzione di
profitto, in ragione dell’identità, quanto meno parziale,
dei generi merceologici trattati nelle due strutture
commerciali in argomento
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.11.2012 n. 6081 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La realizzazione di una
tettoia è soggetta a concessione edilizia poiché, pur
potendo avere carattere pertinenziale rispetto all'immobile
cui accede, incide sull'assetto edilizio preesistente.
La realizzazione di una tettoia è configurabile come
intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi
dell'articolo 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n.
380/2001, nella misura in cui realizza <<l'inserimento di
nuovi elementi ed impianti>>, ed è quindi subordinata al
regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10,
comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R. laddove
comporti una modifica della sagoma o del prospetto del
fabbricato cui inerisce.
La tettoia realizzata sul terrazzo di un fabbricato, in
quanto struttura stabilmente ancorata al pavimento e
destinata a soddisfare non una esigenza temporanea e
contingente, ma prolungata nel tempo, è priva del carattere
della precarietà ed amovibilità ed è quindi assoggettata al
regime del permesso di costruire, dal momento che comporta
una rilevante modifica dell’assetto edilizio preesistente.
Sul punto si richiama quella giurisprudenza
secondo cui la realizzazione di una tettoia è soggetta a
concessione edilizia poiché, pur potendo avere carattere
pertinenziale rispetto all'immobile cui accede, incide
sull'assetto edilizio preesistente (TAR Campania, Napoli,
Sez. IV, 16.07.2002, n. 4107; TAR Sicilia, Palermo,
Sez. I, 08.07.2002, n. 1936; TAR Campania Napoli, sez. III, 09.09.2008, n. 10059; TAR Campania Napoli,
sez. VI, 04.08.2008, n. 9725; TAR Lombardia Brescia,
sez. I, 25.05.2010 ).
In tal senso peraltro vengono in rilievo specifici
precedenti di questa sezione secondo cui “la realizzazione
di una tettoia è configurabile come intervento di
ristrutturazione edilizia ai sensi dell'articolo 3, comma 1,
lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, nella misura in cui
realizza <<l'inserimento di nuovi elementi ed impianti>>, ed
è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai
sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello
stesso D.P.R. laddove comporti una modifica della sagoma o
del prospetto del fabbricato cui inerisce” (TAR Campania,
Napoli, Sez. IV, 17.02.2010, n. 968; TAR Campania,
Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n. 9605) ed ancora “la
tettoia realizzata sul terrazzo di un fabbricato, in quanto
struttura stabilmente ancorata al pavimento e destinata a
soddisfare non una esigenza temporanea e contingente, ma
prolungata nel tempo, è priva del carattere della precarietà
ed amovibilità ed è quindi assoggettata al regime del
permesso di costruire, dal momento che comporta una
rilevante modifica dell’assetto edilizio preesistente”
(TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 21.12.2007, n. 16493)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza
27.11.2012 n. 4831 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
I provvedimenti che
irrogano sanzioni previste dalla legge in materia edilizia
non necessitino di alcuna specifica motivazione in ordine
all’interesse pubblico a disporre il ripristino della
situazione conforme a legge, né il Comune ha discrezionalità
nello stabilire le sanzioni derivanti dall’inosservanza
della normativa urbanistica e di tutela ambientale.
In ordine al profilo specifico del passaggio di un notevole
lasso di tempo dalla realizzazione dell’abuso parte
ricorrente richiama un filone giurisprudenziale secondo cui
la repressione dell'abuso edilizio, disposta a distanza di
tempo ragguardevole, richiede una puntuale motivazione
sull'interesse pubblico al ripristino dei luoghi.
---------------
La giurisprudenza più recente si è espressa nel senso che il
provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva, al
pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica
valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione
sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed
attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi
l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare e non potendo
l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non
abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi.
Al riguardo il Collegio rileva come di affidamento
meritevole di tutela si possa parlare solo ove il privato,
il quale abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota
la propria posizione all’Amministrazione, venga indotto da
un provvedimento della stessa Amministrazione a ritenere
come legittimo il suo operato non già nel caso, come quello
di specie, in cui si commetta un illecito a tutta insaputa
della stessa.
Inoltre, l’abuso edilizio rappresenta un illecito permanente
integrato dalla violazione dell’obbligo, perdurante nel
tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei
luoghi, di talché ogni provvedimento repressivo
dell’Amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un
illecito ormai esaurito, bensì interviene su una situazione
antigiuridica che perdura sino a quel momento.
Quanto alla mancata
indicazione della sussistenza di un interesse pubblico alla
rimozione, il Collegio evidenzia come, in generale, i
provvedimenti che irrogano sanzioni previste dalla legge in
materia edilizia non necessitino di alcuna specifica
motivazione in ordine all’interesse pubblico a disporre il
ripristino della situazione conforme a legge (Consiglio
Stato, sez. V, 30.11.2000, n. 6357), né il Comune ha
discrezionalità nello stabilire le sanzioni derivanti
dall’inosservanza della normativa urbanistica e di tutela
ambientale.
In ordine al profilo specifico del passaggio di un notevole
lasso di tempo dalla realizzazione dell’abuso parte
ricorrente richiama un filone giurisprudenziale secondo cui
la repressione dell'abuso edilizio, disposta a distanza di
tempo ragguardevole, richiede una puntuale motivazione
sull'interesse pubblico al ripristino dei luoghi (per tutti
Consiglio Stato, Sez. V, 29.05.2006, n. 3270; Consiglio
Stato, Sez. V, 25.06.2002, n. 3443).,
In punto di fatto, il Collegio rileva come non sussiste la
prova della risalenza del manufatto ed, in ogni caso, il
periodo di 4 anni indicato da parte ricorrente non appare
comunque al Collegio tale da integrare gli estremi del
passaggio di un notevole lasso di tempo ai fini della
possibile applicazione di quel filone giurisprudenziale
richiamato, dalla parte ricorrente, basato sull’ingenerarsi
di una condizione di affidamento da parte del privato.
In punto di diritto, il Collegio ritiene, con argomentazione
dirimente, di non dover comunque seguire l’orientamento
giurisprudenziale suggerito dal ricorrente, a cui pure
alcune volte questa sezione ha aderito (cfr. TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n. 9620 del; TAR Campania–Napoli, Sez. IV,
05.05.2009, n. 2357), a fronte
dell’orientamento giurisprudenziale prevalente ormai volto
in senso contrario e della rilevanza delle argomentazioni
che depongono in tal senso.
La giurisprudenza più recente si è espressa, difatti, nel
senso che il provvedimento di demolizione di una costruzione
abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure
ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare (Cons. Stato Sez. IV, 27.10.2011, n. 5758; Cons. Stato Sez. IV, 20.07.2011,
n. 4403; Cons. Stato Sez. V, 27.04.2011, dalla n. 2497
alla n. 2527; Cons. Stato Sez. V, 11.01.2011, n. 79;
TAR Lombardia Milano Sez. II, 08.09.2011, n. 2183;
TAR Lazio Roma Sez. I-quater, 23.06.2011, n. 5582;
TAR Campania Napoli Sez. III, 16.06.2011, n. 3211;
TAR Campania Napoli Sez. VIII, 09.06.2011, n. 3029;
Cons. Stato Sez. V, 09.02.2010, n. 628) e non potendo
l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non
abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi
(Cons. Stato Sez. VI, 11.05.2011, n. 2781).
Al riguardo il Collegio rileva come di affidamento
meritevole di tutela si possa parlare solo ove il privato,
il quale abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota
la propria posizione all’Amministrazione, venga indotto da
un provvedimento della stessa Amministrazione a ritenere
come legittimo il suo operato non già nel caso, come quello
di specie, in cui si commetta un illecito a tutta insaputa
della stessa (Cons. Stato Sez. IV, 15.09.2009, n.
5509).
Inoltre, l’abuso edilizio rappresenta un illecito permanente
integrato dalla violazione dell’obbligo, perdurante nel
tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei
luoghi, di talché ogni provvedimento repressivo
dell’Amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un
illecito ormai esaurito, bensì interviene su una situazione
antigiuridica che perdura sino a quel momento (TAR
Brescia, Sez. I, 22.02.2010, n. 860)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza
27.11.2012 n. 4831 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
a) la valutazione delle offerte tecniche deve
precedere la valutazione delle offerte economiche;
b) le offerte economiche devono essere contenute in buste
separate dagli altri elementi (documentazione e offerte
tecniche) e debitamente sigillate:
c) la commissione non può aprire le buste delle offerte
economiche prima di aver completato la valutazione delle
offerte tecniche;
d) nell’offerta tecnica non deve essere inclusa né l’intera
offerta economica, né elementi consistenti dell’offerta
economica o elementi che comunque consentano di
ricostruirla:
e) nell’offerta tecnica possono essere inclusi singoli
elementi economici che siano resi necessari dagli elementi
qualitativi da fornire, purché siano elementi economici che
non fanno parte dell’offerta economica, quali i prezzi a
base di gara, i prezzi di listini ufficiali, i costi o
prezzi di mercato, ovvero siano elementi isolati e del tutto
marginali dell’offerta economica che non consentano in alcun
modo di ricostruire la complessiva offerta economica.
In aggiunta, osserva il Collegio che lo stesso codice appalti,
nell’indicare gli elementi che compongono l’offerta tecnica,
indica voci che presentano elementi di tipo quantitativo-
economico, quali il contenimento dei consumi energetici, il
costo di utilizzazione e manutenzione, la redditività (art.
83, comma 1, lett. e), f), g), d.lgs. n. 163/2006).
A sua volta il regolamento attuativo del codice appalti
prescrive che le offerte tecniche siano esaminate in seduta
segreta e che solo successivamente, in seduta pubblica,
siano esaminate le offerte economiche (art. 120 d.P.R. n.
207/2010).
Questo al precipuo fine di evitare che in sede di
valutazione delle offerte tecniche la commissione possa
essere influenzata da elementi di natura economica.
Come si vede, nessuna disposizione né di legge né di
regolamento pone un divieto assoluto di elementi di tipo
economico nell’offerta tecnica.
Peraltro copiosa giurisprudenza ritiene vietata la
commistione tra offerta tecnica ed economica, al fine di
prevenire il suddetto pericolo che gli elementi economici
influiscano sulla previa valutazione dell’offerta tecnica,
in violazione del principio sotteso alle norme vigenti, di
segretezza dell’offerta economica fino al completamento
della valutazione delle offerte tecniche.
Ma anche la giurisprudenza (invocata dall’appellante) non si
spinge ad affermare il divieto assoluto di indicare elementi
economici all’interno dell’offerta tecnica, nel modo
rigoroso preteso dall’appellante.
La giurisprudenza si è occupata di casi in cui in modo
palese e vistoso risultava violato il principio di
segretezza dell’offerta economica fino al completamento
della fase di valutazione delle offerte tecniche:
- in alcuni casi l’offerta tecnica era corredata del computo
estimativo contenente l’intera offerta economica (Cons. St.,
sez. V, 09.06.2009 n. 2575) ovvero una percentuale di
essa pari a circa il 10% (Cons. St., sez. V, 08.09.2010 n. 6509);
- in alcuni casi l’offerta economica non era stata inserita
in apposita busta sigillata (Cons. St., sez. V, 23.01.2007 n. 196; Cons. St., sez. VI, 17.07.2001 n. 3962);
- in un caso l’offerta economica era stata erroneamente
inserita nella busta contenente la documentazione
amministrativa, che è quella che viene aperta per prima,
prima ancora della busta contenente l’offerta tecnica,
sicché palesemente l’offerta economica era divenuta nota
prima di quella tecnica (Cons. St., sez. VI, 12.12.2002 n. 6795);
- in alcuni la commissione aveva aperto la busta con
l’offerta economica prima di quella con l’offerta tecnica
(Cons. St., sez. VI, 10.07.2002 n. 3848; Id., sez. V, 31.12.1998 n. 1996; Id., sez. VI,
03.06.1997 n. 839);
- in alcuni era stata la lex specialis a prevedere,
nell’ambito dell’offerta tecnica, elementi economici (Cons.
St., sez. V, 25.05.2009 n. 3217), talora incidenti in
percentuale rilevante, pari o superiore al 10%, rispetto
alla complessiva offerta economica (Cons. St., sez. V, 28.09.2012 n. 5121).
Alla luce delle norme vigenti, come interpretate dalla
giurisprudenza, e considerato il difetto espresso di una
norma primaria o regolamentare che vieti in modo assoluto
l’indicazione di elementi economici nell’offerta tecnica, si
deve ritenere che dal quadro normativo si desumano i
seguenti principi:
a) la valutazione delle offerte tecniche deve precedere la
valutazione delle offerte economiche;
b) le offerte economiche devono essere contenute in buste
separate dagli altri elementi (documentazione e offerte
tecniche) e debitamente sigillate:
c) la commissione non può aprire le buste delle offerte
economiche prima di aver completato la valutazione delle
offerte tecniche;
d) nell’offerta tecnica non deve essere inclusa né l’intera
offerta economica, né elementi consistenti dell’offerta
economica o elementi che comunque consentano di
ricostruirla:
e) nell’offerta tecnica possono essere inclusi singoli
elementi economici che siano resi necessari dagli elementi
qualitativi da fornire, purché siano elementi economici che
non fanno parte dell’offerta economica, quali i prezzi a
base di gara, i prezzi di listini ufficiali, i costi o
prezzi di mercato, ovvero siano elementi isolati e del tutto
marginali dell’offerta economica che non consentano in alcun
modo di ricostruire la complessiva offerta economica (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 22.11.2012 n. 5928 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’elemento decisivo, ai
fini della qualificazione di un intervento come
ristrutturazione edilizia, è costituito non tanto dal dato
formale del coinvolgimento delle strutture portanti o delle
pareti perimetrali dell’immobile, quanto da quello
sostanziale del conseguimento di un maggior “peso”
urbanistico sul territorio (a causa di aumenti di volume, di
modifiche di sagoma o di incrementi del complessivo carico
urbanistico rispetto al preesistente).
Innanzi tutto, non è meritevole di positiva delibazione il primo motivo,
col quale la società appellante reitera la propria domanda
principale di integrale restituzione del contributo concessorio versato, censurando la sentenza gravata nella
parte in cui –condividendo sul punto la tesi del Comune– è
stata riaffermata la qualificazione in termini di
ristrutturazione edilizia dell’intervento di cui alla
concessione nr. 1079 del 1999 ed alle successive varianti.
Si assume in sostanza che, malgrado l’espressa
qualificazione di “ristrutturazione” che la stessa società
dante causa dell’odierna istante diede dell’intervento
all’atto della richiesta del titolo abilitativo, lo stesso
rientrerebbe in realtà nella tipologia del restauro o
risanamento conservativo, e in quanto tale dovrebbe andare
esente da contributi; ciò sulla scorta dell’apprezzamento
dell’effettiva portata dell’intervento stesso, che si
sarebbe risolto in una mera modifica della destinazione
d’uso degli edifici, non coinvolgente le strutture portanti,
né i muri perimetrali, ma recante semplici opere di
finitura, di spostamento di divisori interni e di aggiunta
di elementi pertinenziali.
Al contrario, l’Amministrazione appellata ritiene che dal
semplice esame dei grafici di progetto emergerebbero le
evidentissime modifiche rispetto allo stato dei luoghi
preesistenti, tali da consentire di escludere del tutto che
potesse trattarsi di restauro o risanamento conservativo.
Al riguardo, giova preliminarmente richiamare il
consolidato orientamento giurisprudenziale, che individua il
tratto differenziale tra le due tipologie di interventi de quibus nella presenza o meno di modifiche strutturali
incidenti sulla sagoma e sul volume dell’edificio (cfr. ex multis Cass. pen., sez. III, 21.04.2006, nr. 16048;
Cons. Stato, sez. IV, 09.10.2007, nr. 5273), ovvero
nella presenza o meno di un incremento del complessivo
carico urbanistico derivante dall’edificio (cfr. Cons.
Stato, sez. V, 28.06.2004, nr. 4794; id., 12.11.2002, nr. 6240).
Alla stregua di tali indirizzi, dai quali la Sezione non
ravvisa ragione per discostarsi, appare evidente che
l’elemento decisivo, ai fini della qualificazione di un
intervento come ristrutturazione edilizia, è costituito non
tanto dal dato formale del coinvolgimento delle strutture
portanti o delle pareti perimetrali dell’immobile, quanto da
quello sostanziale del conseguimento di un maggior “peso”
urbanistico sul territorio (a causa di aumenti di volume, di
modifiche di sagoma o di incrementi del complessivo carico
urbanistico rispetto al preesistente) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.11.2012 n. 5818 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’esistenza di una
garanzia fideiussoria non comporta in alcun modo per
l’Amministrazione comunale il dovere di chiedere
l’adempimento al fideiussore prima di poter irrogare le
sanzioni per omesso o ritardato pagamento dei contributi
concessori; tale dovere non può farsi discendere neanche dal
richiamo all’art. 1227 cod. civ., che è disposizione
riferibile alle sole obbligazioni di natura risarcitoria, e
non anche a quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura
sanzionatoria, come è quella in esame.
Infondato è anche il
terzo mezzo, col quale la appellante assume l’erroneità
della reiezione della doglianza con la quale si denunciava
l’illegittimo esercizio del potere sanzionatorio, non avendo
il Comune previamente escusso la polizza fideiussoria che
garantiva l’obbligazione del concessionario in relazione ai
costi di costruzione.
Al riguardo, la Sezione ritiene di non doversi discostare
dal consolidato indirizzo secondo cui l’esistenza di una
garanzia fideiussoria non comporta in alcun modo per
l’Amministrazione comunale il dovere di chiedere
l’adempimento al fideiussore prima di poter irrogare le
sanzioni per omesso o ritardato pagamento dei contributi
concessori; tale dovere non può farsi discendere neanche dal
richiamo all’art. 1227 cod. civ., che è disposizione
riferibile alle sole obbligazioni di natura risarcitoria, e
non anche a quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura
sanzionatoria, come è quella in esame (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 30.07.2012, nr. 4320; Cons. Stato, sez. V, 24.03.2005, nr. 1250; id., 11.11.2005, nr. 6345; id.,
16.07.2007, nr. 4025).
A diverse conclusioni potrebbe forse pervenirsi in presenza
di inadempimenti a loro volta imputabili al Comune, idonei a
configurare a carico di esso una responsabilità da “contatto
sociale qualificato” ovvero di natura precontrattuale:
ma trattasi di evenienza nemmeno prospettata dall’odierna
appellante, e che pertanto non è necessario qui approfondire (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.11.2012 n. 5818 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La determinazione degli
oneri concessori costituisce il risultato di un calcolo
materiale, operato sulla base di parametri rigorosamente
stabiliti dalla legge, dalla disciplina regolamentare e
dalle disposizioni applicative degli enti territoriali
competenti, senza che in proposito residui alcun margine di
discrezionalità in capo alla p.a., a carico della quale
pertanto non è configurabile alcuno specifico onere
motivazionale.
Con l’ultimo mezzo, viene
reiterata la censura relativa alla carenza di motivazione a
base del calcolo dei costi di costruzione pretesi dal Comune
per le varianti in corso d’opera.
Secondo la appellante, insufficiente sarebbe il richiamo del
primo giudice al carattere non autoritativo e in qualche
modo automatico del calcolo dei contributi concessori, ben
diversi potendo essere gli effetti a seconda di quali siano
la modalità e i criteri di calcolo applicati
dall’Amministrazione comunale: donde il dovere di
quest’ultima di esplicitare con congrua motivazione i
parametri e criteri di calcolo applicati.
La doglianza è infondata, dovendosi ribadire il consolidato
orientamento secondo cui la determinazione degli oneri
concessori costituisce il risultato di un calcolo materiale,
operato sulla base di parametri rigorosamente stabiliti
dalla legge, dalla disciplina regolamentare e dalle
disposizioni applicative degli enti territoriali competenti,
senza che in proposito residui alcun margine di
discrezionalità in capo alla p.a., a carico della quale
pertanto non è configurabile alcuno specifico onere
motivazionale (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. V,
09.02.2001, nr. 584).
Ne discende che, ove non persuasa della correttezza del
calcolo operato dal Comune, sarebbe spettato alla società
appellante indicare come e perché l’applicazione dei
parametri suindicati portava a un risultato diverso da
quello ritenuto dall’Amministrazione (ciò che, per vero, la
stessa società ha fatto –e con parziale successo– con
riguardo agli oneri di urbanizzazione), non potendo invece
limitarsi a lamentare genericamente un difetto di
motivazione sul punto (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.11.2012 n. 5818 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini dell'osservanza
delle disposizioni in materia di distanze tra edifici, non
rileva l'eventuale carattere abusivo delle opere realizzate
sul fondo confinante. Ciò, in quanto le disposizioni sulle
distanze tra le costruzioni sono preordinate non solo alla
tutela degli interessi dei proprietari frontisti, ma, in una
più ampia prospettiva, anche alla salvaguardia di esigenze
generali, tra cui la salubrità e la sicurezza pubblica.
Pertanto, l'interesse pubblico primario tutelato dalle norme
urbanistiche sulle distanze impone di prendere in
considerazione la situazione di fatto quale si presenta in
concreto in sede di rilascio di un nuovo titolo edilizio, a
nulla rilevando che taluno dei fabbricati preesistenti, in
relazione al quale va calcolata la distanza, presenti
connotati di abusività.
Contrariamente alla tesi propugnata da parte ricorrente,
ai fini dell'osservanza delle disposizioni in materia di
distanze tra edifici, non rileva l'eventuale carattere
abusivo delle opere realizzate sul fondo confinante. Ciò, in
quanto le disposizioni sulle distanze tra le costruzioni
sono preordinate non solo alla tutela degli interessi dei
proprietari frontisti, ma, in una più ampia prospettiva,
anche alla salvaguardia di esigenze generali, tra cui la
salubrità e la sicurezza pubblica.
Pertanto, l'interesse
pubblico primario tutelato dalle norme urbanistiche sulle
distanze impone di prendere in considerazione la situazione
di fatto quale si presenta in concreto in sede di rilascio
di un nuovo titolo edilizio, a nulla rilevando che taluno
dei fabbricati preesistenti, in relazione al quale va
calcolata la distanza, presenti connotati di abusività (cfr.
Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 12.11.2008, n.
930; TAR Campania, Napoli, sez. III, 12.07.2005, n.
9499; sez. II, 02.12.2009, n. 8326)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 30.10.2012 n. 4328 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
L’adozione del
provvedimento di annullamento d’ufficio presuppone,
unitamente al riscontro dell’originaria illegittimità
dell’atto, la valutazione della rispondenza della sua
rimozione a un interesse pubblico non solo attuale e
concreto, ma anche prevalente rispetto ad altri interessi
militanti in favore della sua conservazione, e, tra questi,
in particolare, rispetto all’interesse del privato che ha
riposto affidamento nella legittimità e stabilità dell’atto
medesimo, tanto più quando un simile affidamento si sia
consolidato per effetto del decorso di un rilevante arco
temporale.
Di qui la necessità che l’amministrazione espliciti in sede
motivazionale la compiuta valutazione comparativa tra
interessi confliggenti; impegno motivazionale tanto più
intenso, quanto maggiore sia l’arco temporale trascorso
dall’adozione dell’atto da annullare e solido appaia,
pertanto, l’affidamento ingenerato nel privato.
---------------
Il provvedimento di annullamento di ufficio di una
concessione edilizia, quale atto discrezionale, deve essere
adeguatamente motivato in ordine all’esistenza
dell’interesse pubblico, specifico e concreto, che
giustifica il ricorso all’autotutela anche in ordine alla
prevalenza del predetto interesse pubblico su quello
antagonista del privato.
Anche nell’ipotesi di annullamento di una concessione
edilizia va, cioè, riconosciuta piena operatività ai
principi generali che condizionano il legittimo esercizio
del potere di autotutela. Potere che è espressione della
discrezionalità dell’amministrazione e che, nell’adozione di
un provvedimento espresso, postula la valutazione di
elementi ulteriori rispetto al mero ripristino della
legalità violata.
In omaggio all’orientamento tradizionale che trova il suo
fondamento nei valori di rango costituzionale di buon
andamento e dell’imparzialità dell’azione amministrativa, è,
infatti, doveroso rimettere la verifica di legittimità
dell’atto di autotutela ad un apprezzamento concreto,
condotto sulla base dell’effettiva e specifica situazione
creatasi a seguito del rilascio dell’atto autorizzativo.
Tuttavia, in determinate ipotesi l’interesse pubblico
all’eliminazione dell’atto illegittimo è da considerarsi in
re ipsa. Tra queste è annoverabile l’ipotesi di annullamento
d’ufficio di titolo edilizio illegittimo:
a) a fronte dell’esigenza di garantire e tutelare
l’equilibrato sviluppo del territorio e l’osservanza della
vigente disciplina urbanistica, rispetto alla quale l’opera
da realizzare si ponga in aperto e permanente contrasto;
b) a fronte di falsa, infedele, erronea o inesatta
rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà da parte
dell’interessato, risultata rilevante o decisiva ai fini del
provvedimento autorizzativo, non potendo l’interessato
vantare il proprio legittimo affidamento nella persistenza
di un titolo ottenuto attraverso l’induzione in errore
dell’amministrazione procedente;
c) a fronte dell’esigenza di salvaguardare i caratteri e i
pregi ambientali e paesaggistici dei luoghi attinti dagli
interventi assentiti.
---------------
L’annullamento d’ufficio di un permesso di costruire in
contrasto con i vincoli paesaggistici gravanti sulla zona
non presuppone una peculiare comparazione tra l’interesse
pubblico all’eliminazione degli atti viziati e il
confliggente interesse privato alla conservazione degli
stessi, stante l’evidente sussistenza dell’interesse di
rango costituzionale (art. 9 Cost.) alla tutela
dell’ambiente e la sua preminenza su qualunque altro
interesse pubblico o privato.
---------------
Non è sufficiente a giustificare l'esercizio del potere di
autotutela la pura e semplice finalità di ripristinare la
legalità violata, occorrendo dar conto della sussistenza di
un interesse pubblico attuale e concreto alla rimozione del
titolo edilizio e della comparazione tra tale interesse e
l'entità del sacrificio imposto all'interesse privato, tanto
più quando il beneficiario dell’atto autorizzativo, in
ragione del tempo decorso, abbia maturato un legittimo
affidamento in merito alla realizzazione delle opere, ovvero
quando sia riscontrabile la realizzazione di una
significativa parte delle opere assentite.
Infondato si rivela anche il profilo di doglianza in base
al quale il Comune di Cusano Mutri non avrebbe adeguatamente
ponderato e motivato circa la prevalenza dell’interesse
pubblico al ritiro del titolo abilitativo edilizio annullato
rispetto all’affidamento privato nella sua conservazione,
consolidatosi nell’arco temporale trascorso tra il rilascio
del predetto titolo e la sua rimozione in autotutela.
Al riguardo, occorre premettere, in via di principio,
che l’adozione del provvedimento di annullamento d’ufficio
presuppone, unitamente al riscontro dell’originaria
illegittimità dell’atto, la valutazione della rispondenza
della sua rimozione a un interesse pubblico non solo attuale
e concreto, ma anche prevalente rispetto ad altri interessi
militanti in favore della sua conservazione, e, tra questi,
in particolare, rispetto all’interesse del privato che ha
riposto affidamento nella legittimità e stabilità dell’atto
medesimo, tanto più quando un simile affidamento si sia
consolidato per effetto del decorso di un rilevante arco
temporale. Di qui la necessità che l’amministrazione
espliciti in sede motivazionale la compiuta valutazione
comparativa tra interessi confliggenti; impegno
motivazionale tanto più intenso, quanto maggiore sia l’arco
temporale trascorso dall’adozione dell’atto da annullare e
solido appaia, pertanto, l’affidamento ingenerato nel
privato.
Venendo, dunque, alla fattispecie in esame, il Collegio non
ignora il costante orientamento giurisprudenziale (Cons.
Stato, sez. V, 12.11.2003, n. 7218; sez. IV, 31.10.2006, n. 6465; TAR Campania, Napoli, sez. VII, 22.06.2007, n. 6238; sez. III, 11.09.2007, n. 7483;
sez. VIII, 30.07.2008, n. 9586; 01.10.2008, n.
12321; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 19.01.2007, n.
170; sez. II, 08.06.2007, n. 1652; TAR Liguria, sez. I,
11.12.2007, n. 2050; TAR Basilicata, sez. I, 19.01.2008, n. 15), secondo cui “il provvedimento di
annullamento di ufficio di una concessione edilizia, quale
atto discrezionale, deve essere adeguatamente motivato in
ordine all’esistenza dell’interesse pubblico, specifico e
concreto, che giustifica il ricorso all’autotutela anche in
ordine alla prevalenza del predetto interesse pubblico su
quello antagonista del privato”. Anche nell’ipotesi di
annullamento di una concessione edilizia va, cioè,
riconosciuta piena operatività ai principi generali che
condizionano il legittimo esercizio del potere di
autotutela. Potere che è espressione della discrezionalità
dell’amministrazione e che, nell’adozione di un
provvedimento espresso, postula la valutazione di elementi
ulteriori rispetto al mero ripristino della legalità
violata. In omaggio all’orientamento tradizionale che trova
il suo fondamento nei valori di rango costituzionale di buon
andamento e dell’imparzialità dell’azione amministrativa, è,
infatti, doveroso rimettere la verifica di legittimità
dell’atto di autotutela ad un apprezzamento concreto,
condotto sulla base dell’effettiva e specifica situazione
creatasi a seguito del rilascio dell’atto autorizzativo.
Ciò premesso in via di principio, il Collegio nemmeno
ignora l’indirizzo, altrettanto consolidato, in base al
quale, in determinate ipotesi, l’interesse pubblico
all’eliminazione dell’atto illegittimo è da considerarsi in
re ipsa.
Tra queste è annoverabile l’ipotesi di annullamento
d’ufficio di titolo edilizio illegittimo:
a) a fronte
dell’esigenza di garantire e tutelare l’equilibrato sviluppo
del territorio e l’osservanza della vigente disciplina
urbanistica, rispetto alla quale l’opera da realizzare si
ponga in aperto e permanente contrasto (Cons. Stato, sez. V,
28.11.2005, n. 6630; sez. IV, 26.10.2007, n.
5601; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 15.06.2005, n.
1110);
b) a fronte di falsa, infedele, erronea o inesatta
rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà da parte
dell’interessato, risultata rilevante o decisiva ai fini del
provvedimento autorizzativo, non potendo l’interessato
vantare il proprio legittimo affidamento nella persistenza
di un titolo ottenuto attraverso l’induzione in errore
dell’amministrazione procedente (Cons. Stato, sez. V, 12.10.2004, n. 6554; sez. IV, 24.12.2008, n. 6554;
TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 03.11.2003, n. 2366; TAR
Puglia, Lecce, sez. III, 21.02.2005, n. 686; TAR
Liguria-Genova, sez. I, 07.07.2005, n. 1027; 17.11.2006, n. 1550; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 13.02.2006, n. 2026; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I,
05.02.2008, n. 129; TAR Basilicata, Potenza, sez. I, 04.03.2004,
n. 115; 10.05.2005, n. 299; 10.04.2006, n. 238; 18.10.2008, n. 643);
c) a fronte dell’esigenza di
salvaguardare i caratteri e i pregi ambientali e
paesaggistici dei luoghi attinti dagli interventi assentiti.
a) Sotto il primo profilo, rileva la circostanza oggettiva e
dirimente non solo dell’insussistenza della superficie
minima edificabile (cfr. retro, sub n. 8), ma, soprattutto,
dell’accertata violazione delle distanze legali (cfr. retro,
sub n. 3-7), ossia di una violazione di norme inderogabili,
che, in quanto tale, implicava una iniziativa in autotutela
sostanzialmente vincolata dell’amministrazione comunale, e
non imponeva, quindi, una specifica motivazione né una
espressa comparazione tra l'interesse pubblico alla
rimozione e quello del privato alla conservazione dell'atto
illegittimo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2002, n.
3929; 26.05.2006, n. 3201).
b) Sotto il secondo profilo, occorre rimarcare che –come acclarato retro, sub n. 3-7– il progetto assentito col
permesso di costruire n. 619 del 29.02.2008 non ha
correttamente riportato le distanze dell’erigendo manufatto
previsto dal fabbricato e dalle strade pubbliche confinanti,
così inducendo in errore l’amministrazione resistente circa
l’osservanza delle stesse (“la rappresentazione non conforme
dello stato dei luoghi sui grafici del progetto presentato è
approvato –recita, appunto, il provvedimento del 10.06.2011, prot. n. 4295– ha indotto in errore questo ente nel
rilasciare il citato permesso di costruire”).
c) Sotto il terzo profilo, giova rammentare che
l’annullamento d’ufficio di un permesso di costruire in
contrasto con i vincoli paesaggistici gravanti sulla zona
non presuppone una peculiare comparazione tra l’interesse
pubblico all’eliminazione degli atti viziati e il confliggente interesse privato alla conservazione degli
stessi, stante l’evidente sussistenza dell’interesse di
rango costituzionale (art. 9 Cost.) alla tutela
dell’ambiente e la sua preminenza su qualunque altro
interesse pubblico o privato (cfr. Cons. stato, sez. VI, 20.01.2000, n. 278; TAR Lazio, Roma, sez. II,
04.01.2005, n. 48; TAR Campania, Napoli, sez. III, 10.04.2007,
n. 3193).
Nel caso in esame, l’annullato permesso di costruire n. 619
del 29.02.2008, ancorché non in immediato contrasto
con norme di tutela paesaggistica, ha, comunque,
illegittimamente assentito opere ricadenti in area
assoggettata a vincolo ambientale (cfr. retro, in narrativa,
sub n. 2.1) ed è risultato, così, suscettibile di inficiare,
sia pure indirettamente, i valori da quest’ultimo tutelati.
La motivazione allestita dall’amministrazione resistente
risulta, peraltro, proporzionata al tempo decorso tra il
momento di emissione del titolo abilitativo e quello del suo
successivo annullamento, che si appalesa non irragionevole.
Ebbene, –come evidenziato retro, sub n. 11.1– il Collegio
ha presente l’incontrastato indirizzo giurisprudenziale,
accreditato dall’art. 21-nonies, comma 1, della l. n.
241/1990, secondo cui non è sufficiente a giustificare
l'esercizio del potere di autotutela la pura e semplice
finalità di ripristinare la legalità violata, occorrendo dar
conto della sussistenza di un interesse pubblico attuale e
concreto alla rimozione del titolo edilizio e della
comparazione tra tale interesse e l'entità del sacrificio
imposto all'interesse privato (cfr. Cons. Stato, sez. V, 01.03.2003, n. 1150), tanto più quando il beneficiario
dell’atto autorizzativo, in ragione del tempo decorso, abbia
maturato un legittimo affidamento in merito alla
realizzazione delle opere (cfr. Cons. Stato, sez. V, 19.01.2003, n. 899), ovvero quando sia riscontrabile la
realizzazione di una significativa parte delle opere
assentite (cfr. Cons. Stato, sez. V, 12.11.2003, n.
7218).
Ma, nel caso di specie, il tempo non eccessivo di reazione
in autotutela rende concretamente insuscettibile di
accoglimento la doglianza in esame.
In particolare:
- il permesso di costruire annullato risale al 29.02.2008;
- le misure inibitorie della prosecuzione dei lavori
iniziati risalgono al 13.02.2009 (prot. n. 1205) ed al
23.02.2009 (prot. n. 1454);
- l’annullamento d’ufficio è stato disposto con
provvedimenti del 04.02.2011 (prot. n. 872) e del 102011 (prot. n. 4295).
Fino all’adozione delle cennate misure inibitorie del 13.02.2009 (prot. n. 1205) e del 23.02.2009 (prot.
n. 1454) (dovendosi già a queste ultime ricollegare il dies
ad quem: cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.10.2007, n.
5601), risulta, dunque, trascorso circa un anno dal rilascio
del permesso di costruire n. 619 del 29.02.2008.
Un periodo da ritenersi –come detto– non irragionevole
(cfr. TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 07.07.2004, n.
1469, che ritiene congruo un periodo di circa un anno),
tenuto conto anche degli svariati precedenti
giurisprudenziali che, in genere, attribuiscono rilevanza a
intervalli temporali più consistenti (cfr. TAR Campania,
Napoli, sez. IV, 09.02.2004, n. 1968: circa 16 mesi;
TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 24.04.2006, n. 422:
oltre 2 anni; 24.07.2007, n. 1023: 6 anni; TAR Lazio,
Roma, sez. II, 31.10.2007, n. 10834: oltre 2 anni; TAR
Sicilia, Palermo, sez. III, 21.02.2006, n. 426; 04.01.2008, n. 1: 14 anni).
A ciò si aggiunga che non risulta compiutamente dimostrato
dai ricorrenti –ed è, anzi, smentito dalla documentazione
fotografica allegata alla relazione tecnica dai medesimi
depositata in giudizio il 22.03.2011– lo stato avanzato
di esecuzione dei lavori assentiti col titolo abilitativo
edilizio annullato (in genere, la giurisprudenza postula un
più intenso impegno motivazionale, allorquando le opere
assentite con atto poi annullato d’ufficio siano state
ultimate o abbiano raggiunto uno stato significativo e/o
avanzato: cfr. Cons. Stato, sez. V, 19.02.2003, n.
899; 12.11.2003, n. 7218; sez. IV, 26.10.2007, n.
5601; TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 07.02.2002, n. 359;
sez. III, 19.01.2007, n. 170; sez. II, 08.06.2007,
n. 1652; TAR Lazio, Roma, sez. II, 31.10.2007, n.
10834; TAR Basilicata, Potenza, sez. I, 19.01.2008, n. 15) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 30.10.2012 n. 4328 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 17.12.2012 |
ã |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: DURC. Trasmissione tramite PEC dei certificati
emessi dall'INAIL alle stazioni appaltanti e alle
amministrazioni procedenti (INAIL,
nota 10.12.2012 n. 8798 di prot.). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 14.12.2012, "Determinazione,
per l’anno 2013 dei canoni da porre a base d’asta per
l’affidamento dei lavori di sistemazione idraulica mediante
escavazione di materiale inerte dagli alvei dei corsi
d’acqua" (decreto
D.G. 10.12.2012 n. 11607). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 12.12.2012,
"Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento
regionale 21.01.2000, n. 1, dell’elenco dei tecnici
competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione
Lombardia alla data del 30.11.2012, in attuazione
dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447
e della deliberazione 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato
regionale 05.12.2012 n. 121). |
VARI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 12.12.2012,
"Aggiornamento e pubblicazione degli importi dovuti alla
Regione Lombardia per l’anno 2013 a titolo di canoni di
utenza di acqua pubblica in applicazione dell’articolo 6
della l.r. 29.06.2009, n. 10"
(decreto
D.S. 04.12.2012 n. 11293). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA: L.
Spallino,
Legge Regione Lombardia n. 12/2005: la commissione licenzia
una mini modifica all'articolo 25.
Nella saga delle proposte di modifiche all'articolo 25 della
legge regionale n. 12/2005 della Lombardia, si inserisce
l’emendamento approvato nella giornata del 13 dicembre in
Commissione Bilancio. Il testo è ben lontano dal progetto di
legge 26.10.2012 della Giunta regionale, il cui articolo 8
prevedeva che nei Comuni in cui è stato adottato il PGT
entro il 31.12.2012, si continuino -fino al 31.07.2013- ad
attuare le previsioni dei Piani regolatori urbanistici
generali (PRUG). Il Consiglio regionale si terrà mercoledì
19 dicembre.
L'emendamento all'articolo 25 della L.R., a firma del gruppo
della Lega Nord, dispone che alla legge regionale
11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) sono
apportate le seguenti modifiche: ...
(link a http://studiospallino.blogspot.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: R.
Micalizzi,
DIA e oneri di urbanizzazione sopravvenuti (Urbanistica
e appalti n. 12/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: A.
Scarcella,
La demolizione del manufatto abusivo tra acquisizione
gratuita e notifica dell’inottemperanza (Urbanistica
e appalti n. 11/2012). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: C.
Mucio,
Legittimità dell’affidamento del patrocinio legale senza
gara (Urbanistica e appalti n. 11/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
F. Notaro, M. Mazzaro e C. Turturici,
Le nuove istanze di prevenzione
incendi (tratto da www.ispoa.it). |
APPALTI: L.
Bellagamba,
La “plenaria” del Consiglio di Stato sul rapporto fra il
criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più
vantaggiosa e la competenza alla verifica dell’anomalia
delle offerte (link a www.linobellagamba.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: G.
Apollonio,
L’illegittimità del permesso di costruire nel reato ex art.
44, lett. b), d.p.r. 380/2001
(link a www.diritto.it). |
APPALTI:
S. Tarullo,
L’art. 243-bis del Codice dei contratti pubblici e le
incertezze di una disciplina tra effettività della tutela
giurisdizionale e sovraccarico fiscale (Sommario: 1. La
funzione del preavviso di ricorso e la sua concreta
efficacia. - 2. La procedura di autotutela postula
un’amministrazione pubblica “ideale” e collaborativa. - 3.
Le perplessità sul versante processuale accrescono le
difficoltà per le imprese ricorrenti. - 4. L’inerzia
amministrativa e la sua (inutile) contestazione in sede
giurisdizionale. - 5. La disciplina fiscale ed i dubbi
sull’effettività della tutela giurisdizionale) (link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
QUESITI &
PARERI |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
Il compenso per la progettazione.
DOMANDA:
Le NTA del vigente PRG locale danno la possibilità al
Promotore privato di proporre al Comune Piani
Particolareggiati di iniziativa pubblica ora PUA (piani di
iniziativa pubblica) – di cui alla LRV n. 11/2004. Il Comune
può farli propri dopo le necessarie verifiche ed eventuali
modificazioni ed approvarli come strumenti di iniziativa
pubblica. Tutto questo avviene attraverso una stretta
collaborazione tra l’Ufficio Tecnico e il Promotore. Il che
vuol dire che il progetto mediato ed elaborato con la
partecipazione di entrambi (Privato/Comune) una volta
confezionato viene sottoposto all’adozione e
all’approvazione dell’Amministrazione comunale.
Ora questo Comune intende approvare un Regolamento per gli
incentivi di cui all’art. 92 del D.Lgs. n.163/2006 al fine
di poterli riconoscere in occasione della stesura dei
suddetti piani urbanistici generali P.A.T. (Piano di Assetto
del Territorio) e P.I. (Piano degli Interventi) e loro
varianti, nonché in occasione della redazione di P.U.A.
(Piani Urbanistici Attuativi di iniziativa pubblica) e
progetti complessi redatti anche a seguito di accordi
pubblico/privati ex. art. 6 della LR del Veneto n. 11/2004.
Si chiede se: nel caso in cui i PUA in oggetto siano redatti
da professionisti esterni incaricati dal privato, si possa
riconoscere ugualmente al RUP interno (e ai suoi collaborato
che hanno partecipato, siano essi tecnici e/o
amministrativi) l’incentivo di cui all’art. 92, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006; e quale percentuale è possibile
riconoscere al RUP e ai collaboratori.
Inoltre se sia
possibile addebitare il finanziamento degli incentivi al
soggetto promotore privato del PUA di iniziativa pubblica,
progetti complessi e/o redatti a seguito di accordi
pubblico/privati. Nel caso di risposta negativa: se la
Struttura Tecnica comunale può far partecipare il RUP e il
suo staff alla progettazione dello strumento urbanistico
pubblico insieme ai professionisti esterni incaricati dal
privato, riconoscendo l’incentivo in argomento con spese a
carico del soggetto promotore.
RISPOSTA:
La sistematica proposta nel quesito di fare partecipare il
RUP al compenso incentivante previsto dall’art. 92 del
codice dei contratti pubblici in relazione alle attività
progettuali e di pianificazione svolte da un promotore
privato avvalendosi di professionisti esterni, desta
perplessità risultando di dubbia ammissibilità e fondamento
giuridico.
Si ricorda infatti che l’attività che deve svolgere il
“promotore” assume natura essenzialmente privatistica e non
può essere ricondotta all’ipotesi di cui al comma 1 di tale
articolo che si riferisce esclusivamente alle opere o lavori
pubblici, né all’ipotesi di cui al comma 2 che presuppone la
redazione di un atto di pianificazione all’interno della PA.
Si deve ricordare la riguardo innanzitutto l’orientamento
restrittivo assunto dalla la Corte dei Conti con il parere
n. 290/2012 con cui ha ritenuto che anche la previsione di
cui al comma 6 del’art. 92 del codice dei contratti
pubblici, laddove dispone che “Il trenta per cento della
tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di
pianificazione comunque denominato è ripartito, con le
modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al
comma 5 tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice
che lo abbiano redatto” sia da intendersi comunque riferita
ad atti di pianificazione solo di “oo.pp.” (ad es. variante
necessaria per la localizzazione di un’opera) (Corte conti,
sez. contr. Toscana, 18.10.2011, n. 213) e non ad atti
di pianificazione generale.
Inoltre va anche ricordato che la stessa Corte dei Conti ove
abbia ammesso la riconoscibilità del compenso al RUP lo ha
fatto solo nei limiti in cui vi sia stata una progettazione
svolta all’interno, (proprio in considerazione della
finalità essenziale delle norma che si fonda sul presupposto
di favorire lo sviluppo di progettualità interne la Corte ha
infatti affermato che “la norma àncora chiaramente il
riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso
incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di
pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di
pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno
dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a
far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai
dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente (come
riconosciuto, in più occasioni, dalla giurisprudenza
contabile, in sede consultiva. Per tutte: Corte conti, sez.
contr. Lombardia, 30.05.2012, n. 259; 06.03.2012, n.
57; Sez. contr. Puglia, 16.01.2012, n. 1; Sez. contr.
Toscana, 18.10.2011, n. 213), anche se in contrario (V. AVCP determinazione n. 43/2000) è stato pure rilevato che
l’opera del RUP di coordinamento e sorveglianza e direzione
permane in tutta sua rilevanza anche in presenza di
affidamenti esterni".
Si è tuttavia osservato che anche in caso di affidamento
(solo in parte) esterno della progettazione rimane comunque
nella discrezionalità della PA di stabilire i criteri di
ripartizione correttamente applicabili e la cui definizione
dovrebbe indurre, al più, solo ad un moderato riconoscimento
del compenso al RUP, considerata la rilevanza e la
conseguente responsabilità dell’attività svolta ma anche i
doveri d’ufficio del dipendente ed il fatto che un eventuale
affidamento all’esterno della progettazione e direzione
lavori sminuisce senz’altro di molto lo scopo della norma
che è proprio quello di favorire lo sviluppo delle
professionalità progettuali interne e non di riconoscere
comunque un compenso incentivante a tutte le figure che,
come il RUP, in qualche modo devono svolgere attività in
rapporto alla progettazione (v. anche la sentenza n. 46/2007
(12.12.2006 – 13.03.2007) con cui la Sez. Basilicata della Corte
ha censurato, ritenendolo causa di responsabilità
patrimoniale, la liquidazione del compenso incentivante di
cui all’art. 18 della l. n. 109/1994 (ora sostituito dall’art.
92, comma 5, del codice dei contratti pubblici) a dipendente
interno che aveva svolto il ruolo di RUP, laddove effettuato
in presenza di contestuale e rilevante affidamento
all’esterno della progettazione.
In particolare la Corte, pur ammettendo nel caso di specie,
la possibilità del ricorso a professionisti esterni per
dimostrata carenza di adeguate professionalità interne, ha
rilevato che “la registrata opzione gestionale dell'attività
progettuale, tuttavia, si pone oggettivamente in stridente
contrasto con le finalità premiali esaltate dal
riconoscimento e dalla previsione di incentivi economici in
favore di chi, all'interno dell'Amministrazione comunale, si
carica di significativi e qualificati oneri professionali,
giusta quanto descritto nel corpo dell'art. 18 della legge
n. 109/1994”.
Ed infatti in quella ipotesi “il responsabile di settore, o
di area, titolare del potere di determinazione e di
liquidazione dei compensi dovuti a soggetti che, a diverso
titolo, avevano concorso alla fase di progettazione, ben
poteva -e doveva- sensibilmente ridurre, se non eliminare
del tutto, la quota del c.d. “premio incentivante” peraltro
attribuita a sé medesimo; e ciò ancor più in considerazione
dell'elevato apporto, qualitativo e quantitativo, recato
nella stessa fase progettuale dai numerosi professionisti
esterni all'uopo incaricati, ed il cui contributo nella
definizione delle ipotesi progettuali è stato sì
determinante da collocare su un piano di assoluta
secondarietà quello conferito ……” allo stesso responsabile
interno.
Pertanto ad avviso del Collegio occorre “… giungere
serenamente ad affermare che, in presenza della
utilizzazione di qualificate ed importanti professionalità
esterne nella definizione della fase progettuale dell'opera
pubblica, normativamente ed operativamente giustificate
dalla carenza di idonee risorse tecniche rinvenibili
all'interno dell'Ente comunale committente ed appaltante,
assolutamente ingiustificato si rivela il ricorso allo
strumento economico premiante di cui all'art. 18 della legge
n. 109 del 1994: la scelta di avvalersi di significative e
rilevanti forme di collaborazione esterna, per potersi
informare a corretti principi di efficienza ed efficacia
dell'azione amministrativa, non può tollerare alcuna forma
di coesistenza con soluzioni normative ed operative che
invece privilegiano ed esaltano, in chiave di “premialità
economica e retributiva”, la piena valorizzazione delle
professionalità interne”.
Né sembra ammissibile ipotizzare che l’eventuale compenso
incentivante per il RUP venga messo a carico del promotore
privato il che contraddirebbe infatti le stesse disposizioni
di ordine finanziario di cui al comma 7 del cit. art. 92 e
porrebbe seri dubbi di trasparenza ed autonomia di tale
soggetto che, pur dovendo svolgere istituzionalmente
funzioni essenzialmente rivolte a favore della PA, verrebbe
pagato dal soggetto privato interessato (13.12.2012 -
tratto da www.ancirisponde.ancitel.it). |
CORTE DEI
CONTI |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE: Comune
di Reggello - richiesta di parere formulata dal Sindaco
contenente tre quesiti in tema di incentivi alla
progettazione di cui ai commi 5 e 6 dell’art. 92 del codice
dei contratti e in tema di limite alla spesa per incarichi.
Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla
Sezione, con nota in data 08.11.2012 prot. n. 18449/1.13.9,
richiesta di parere formulata dal Sindaco del Comune di
Reggello in materia di incentivi alla progettazione di cui
all’art. 92 del D.Lgs. 163/2006.
In particolare, ai fini della corretta applicazione delle
norme in materia di incentivi al personale, formula tre
quesiti:
1. se, con riguardo al parere n. 213/2011
della Sezione Toscana, ai sensi dell’art. 92, comma 6, del
codice dei contratti (D.Lgs. 163/2006), si possa procedere
con l’erogazione degli incentivi nel caso di redazione di
singole varianti al Piano Strutturale o al Regolamento
urbanistico;
2. se, con riguardo al parere n. 213/2011 della Sezione
Toscana, ai sensi dell’art. 92, comma 5, del codice dei
contratti (D.Lgs. 163/2006), si possa applicare l’incentivo
medesimo anche nel caso in cui l’attività da retribuire sia
prodromica alla realizzazione di un lavoro pubblico,
intendendo per tale anche la realizzazione di lavori di
ordinaria o straordinaria manutenzione di immobili comunali
o lavori di sistemazione della segnaletica stradale;
3. se, dovendo conferire un incarico ad un professionista
esterno per redigere un nuovo piano strutturale e
conseguente regolamento urbanistico, il relativo incarico
debba ricomprendersi nei servizi di architettura ed
ingegneria di cui all’allegato 2b del D.Lgs. 163/2006 e se,
indipendentemente dalla qualificazione giuridica, siffatto
incarico debba rientrare o meno nel taglio di cui all’art.
7, comma 6, del DL 78/2010 convertito dalla L. 122/2010. A
questo proposito rappresenta che al suo interno manca una
figura professionale che possa svolgere questa prestazione.
---------------
Nel merito del primo quesito, l’art. 92, comma 6, del
D.Lgs. 163/2006 (codice degli appalti) recita: “Il trenta
per cento della tariffa professionale relativa alla
redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è
ripartito, (…) tra i dipendenti dell'amministrazione
aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
La Sezione si è già espressa sull’argomento, con
parere 18.10.2011 n. 213 (come ricordato
dall’ente richiedente) e ancor più di recente con il
parere 27.11.2012 n. 389, nella
quale ha chiarito che, a parere del collegio, “un
atto regolamentare non può essere assimilato, per il suo
contenuto intrinseco, ad un progetto di lavori comunque
denominato mentre l’art. 90 del D.lgs. n. 163/2006 sia alla
rubrica che al c.1, fa riferimento esclusivamente ai lavori
pubblici, e l’art. 92, c1, presuppone l’attività di
progettazione nelle varie fasi, expressis verbis come
finalizzata alla costruzione dell’opera pubblica progettata.
A fortiori, lo stesso comma 6 dell’art. 92 prevede che
l’incentivo alla progettazione venga ripartito <tra i
dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo
abbiano redatto ”e, dunque, è di palmare evidenza come il
riferimento normativo e la conseguente voluntas legis sia
ascrivibile solo alla materia dei lavori pubblici,
presupponendosi una procedura ad evidenza pubblica
finalizzata alla realizzazione di un’opera di pubblico
interesse>”
riprendendo anche un parere di altra sezione della Corte dei
conti (parere
30.08.2012 n. 290 Piemonte), che, in riferimento
alla disciplina normativa di cui trattasi, recita: “La
norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad
ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la
redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere
pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio,
sia avvenuta all’interno dell’Ente”.
In merito al secondo quesito, l’art. 92, comma 5, del
D.Lgs. 163/2006 (codice degli appalti) recita: “Una somma
non superiore al due per cento dell'importo posto a base di
gara di un'opera o di un lavoro, (…) è ripartita, per ogni
singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti
in sede di contrattazione decentrata e assunti in un
regolamento adottato dall'amministrazione, tra il
responsabile del procedimento e gli incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo
del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto
all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare(…)”.
Anche in questo caso la Sezione si è già espressa su un caso
analogo, oltre che con
parere 18.10.2011 n. 213
già citato, anche con il
parere
13.11.2012 n. 293, con il quale si è espressa
ritenendo che determinati voci (in quella
circostanza: taglio del verde, sostituzione infissi,
sostituzione apparati termoidraulici) non parevano
riconducibili alle opere o lavori pubblici per le quali la
legge prescrive la facoltà di erogazione degli incentivi di
cui trattasi. Anche nel caso di specie, i lavori di
ordinaria o straordinaria manutenzioni di edifici o di
sistemazione della segnaletica stradale non paiono rientrare
nelle fattispecie che prevedono la facoltà di incentivare il
personale interno.
In merito al terzo quesito, come ricordato dall’ente
richiedente questa Sezione, con
deliberazione n. 301/2009, chiariva che gli incarichi
relativi ai servizi di architettura e ingegneria, quali
incarichi di progettazione, direzione lavori, collaudi, (D.Lgs.
163/2006) fossero
(si vedano anche le deliberazioni: Piemonte 3/2008; Abruzzo
262/2008, Toscana 198/2009 e 10/2009)
esclusi dalla disciplina generale degli incarichi esterni
(art. 7 D.Lgs 165/2001) sul presupposto
(chiarito nella deliberazione n. 198/2009 della Toscana)
che la natura della spesa cui si riferiscono gli
incarichi in tema di lavori pubblici è diversa rispetto a
quella delle altre collaborazioni esterne: spesa in conto
capitale, la prima, di parte corrente, la seconda. Il
presupposto della loro esclusione è legato al loro
inquadramento nell’ambito di una specifica opera o lavoro da
realizzare, mentre gli incarichi di consulenza legati alla
realizzazione di un piano urbanistico o similari, non avendo
alcuna connessione diretta con un’opera pubblica, sono da
considerarsi rientranti nel concetto di incarico esterno e,
di conseguenza, nella disciplina, di cui all’art. 7, comma
6, del D.Lgs. 165/2001.
Discorso a parte va fatto in riferimento alla spesa e ai
limiti derivanti, in particolare dall’art. 6, comma 7, del
DL 78/2010, convertito dalla L. 122/2010. Su quesito del
tutto analogo la Sezione si è già espressa con deliberazione
n. 183 del 06.07.2011, con le conclusioni che si riportano:
“Aldilà della individuazione della fattispecie in esame
quale incarico esterno e per giunta relativo ad un
adempimento obbligatorio per legge e inquadrabile
nell’ambito della normativa di cui all’art. 7 D.Lgs.
165/2001, il cui corretto inquadramento spetta all’ente
richiedente nell’ambito nell’esercizio della sua autonomia,
già le Sezioni Riunite della Corte dei conti, nell’adunanza
del 15.02.2005, avevano precisato, in riferimento alla
disciplina di cui all’art. 1, comma 42, della L. 311/2004
poi in parte superata dall’art. 1, comma 173, della L.
266/2005, che gli incarichi per la “resa di servizi o
adempimenti obbligatori di legge” non rientrassero nella
disciplina legislativa sul conferimento di incarichi
esterni. Dello stesso avviso è stata anche la Sezione
centrale di controllo di legittimità su atti del Governo e
delle Amministrazioni dello Stato che, con deliberazione n.
20 adottata nell’adunanza del 12.11.2009, ha escluso tali
fattispecie dalla normativa in materia di conferimento di
incarichi esterni, ai fini del nuovo controllo preventivo di
legittimità introdotto per gli atti dello stato e delle sue
articolazioni periferiche.
Ai fini della risoluzione della richiesta in esame, resta da
valutare se possa estendersi la medesima interpretazione
anche alla norma di cui all’art. 6, comma 7, della L.
122/2010 e cioè se anche in riferimento a questa norma e al
conseguente limite di spesa imposto, possa concludersi per
l’esclusione degli incarichi consistenti nella resa di
servizi o adempimenti obbligatori per legge.
A tal proposito, è già stato osservato da altra sezione che
la disciplina di cui all’art. 6, comma 7, citato, si
riferisce alla spesa per studi ed incarichi di consulenza,
mentre la disciplina di cui all’art. 7 del D.Lgs. 165/2001 e
di altre norme in materia di incarichi esterni abbracciano
una dizione comprensiva anche di incarichi di ricerca e di
collaborazione coordinata e continuativa; in tale
circostanza (deliberazione Sezione Lombardia n. 6 del
10.01.2011) si è concluso con il ritenere prevalente
l’interpretazione letterale più restrittiva della norma di
cui all’art. 6, comma 7, e quindi non coincidente con le
altre normative, pur riconoscendo la possibilità di ritenere
assimilabili le due terminologie utilizzate, confermando la
difficoltà nell’interpretazione delle norme in questione.
L’interpretazione che farebbe rientrare nella limitazione di
spesa anche gli incarichi obbligatori per legge finirebbe
con il limitare fortemente, se non addirittura impedire, a
determinati enti locali di dar corso ai medesimi nelle
ipotesi, non rare, in cui l’importo di riferimento per il
calcolo del limite di spesa per incarichi (spesa sostenuta
per incarichi nell’anno 2009) fosse nullo o talmente basso
(ricordando che la riduzione da operare è dell’80%) da non
consentire il conferimento di incarichi esterni nell’anno
2011, ciò rappresenterebbe un’irragionevole limitazione
imposta dalla norma di cui all’art. 6, comma 7, della L.
122/2010 che ostacolerebbe di fatto lo svolgimento di
servizi o adempimenti obbligatori per legge.
La Sezione ritiene, pertanto, di
escludere dai limiti di spesa imposti dalla legge 122 citata
quegli incarichi che risultano obbligatori per legge.”
Questa Sezione ritiene, pertanto, tuttora valide le
argomentazioni di cui ai precedenti pareri espressi sia da
questa sezione che da altre sezioni regionali di controllo
(Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana,
parere 12.12.2012 n. 459). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Assunzioni ex art. 110 TUEL.
La Corte dei Conti, sezione regionale Lombardia, con il
parere 27.11.2012 n. 508, risponde
ad un Comune con più di 1000 abitanti che chiede, a fronte
di un contratto ex art. 110 TUEL in scadenza al 31.12.2012, se sia corretto, in alternativa:
- procedere con una assunzione a tempo indeterminato e
parziale;
- ricorrere a contratto ex art. 110, comma 2, TUEL in deroga
ai limiti posti dall'art. 9, comma 28, d.l. 78/2010.
La sezione, dapprima, ricostruisce il quadro normativo ed
interpretativo relativo al reclutamento ex art. 110, commi 1
e 2, del TUEL e rammenta all'ente che -nel programmare i
reclutamenti dall'anno 2013- deve tenere conto del futuro
assoggettamento alla disciplina del patto di stabilità
interno e, pertanto, tenuto alla riduzione della spesa di
personale ex art. 1, comma 557, legge n. 296/2006 nonché al
contenimento nella percentuale massima del 50% il rapporto
tra spesa del personale e spesa corrente (art. 76, comma 7,
d.l. 112/2008).
Quindi, evidenzia che:
- l'ipotesi dell'assunzione a tempo indeterminato e parziale
è consentita purché avvenga nel rispetto dei limiti al turn
over contemplati dal vigente art. 76, comma 7, d.l.
112/2008, ovvero entro il 40% della spesa per cessazioni
intervenute nel precedente esercizio;
- la stipulazione, invece, di un nuovo contratto ex art.
110, comma 2, TUEL è valutabile solo se compatibile con il
limite posto dall'art. 9, comma 28, del d.l. 78/2010;
- la suddetta norma è cogente ed i margini di sua
derogabilità sono solo quelli delineati dalle Sezioni
Riunite con la deliberazione n. 11/CONTR/2012 (tratto da www.publika.it). |
SEGRETARI
COMUNALI:
Niente straordinario elettorale per i segretari
comunali.
I segretari comunali e provinciali non
possono partecipare alla erogazione dello straordinario
elettorale; la remunerazione degli incarichi dirigenziali
con la retribuzione di posizione spettante ai
dirigenti/titolari di posizione organizzativa è inibita; la
maggiorazione della retribuzione di posizione non motivata
adeguatamente e la sua fissazione nella misura massima
esclusivamente in presenza del conferimento di incarichi
aggiuntivi sono da considerare illegittime; la attribuzione
di una indennità di risultato per gli incarichi aggiuntivi e
la liquidazione della stessa nella misura massima in assenza
di una adeguata valutazione sono vietate.
Sono queste le principali indicazioni contenute nella
sentenza 19.10.2012 n. 1627 della Corte dei Conti della
Campania.
La sentenza si deve segnalare, in particolare, per
l'importanza delle indicazioni dettate in materia di aumento
della retribuzione di posizione, di criteri di valutazione
ai fini della erogazione della indennità di risultato e per
la sottolineatura del ruolo complessivo di garante della
legittimità che il segretario comunale svolge e che non deve
tradursi nella finalizzazione per esigenze di tipo
personale.
LO STRAORDINARIO
La erogazione della indennità di straordinario elettorale è
da considerare vietata sulla base delle previsioni di cui
all'articolo 41, comma 6, del CCNL 17.05.2006, che dispone
la onnicomprensività della retribuzione di posizione, ivi
compreso lo straordinario. Sia l'Aran, già dal 2001, che il
ministero dell'Interno hanno chiarito che tale divieto si
estende anche ai compensi trasferiti all'ente per lo
straordinario elettorale. Data la gravità della violazione,
la sentenza ritiene che maturino le condizioni per la
configurazione del "dolo contrattuale", in quanto
risulta un vantaggio indebito per lo stesso segretario.
Occorre aggiungere che, con riferimento ad un anno, il
segretario è stato inserito tra i beneficiari anche se non
era tra i componenti l'ufficio elettorale; per questa
illegittimità la sua responsabilità matura al 50% insieme a
quella del funzionario che lo ha inserito.
LA RETRIBUZIONE DI POSIZIONE
Le condizioni per la maggiorazione della retribuzione di
posizione sono state definite dal contratto nazionale
integrativo firmato dalla ex Agenzia per la gestione
dell'albo dei segretari e dalle organizzazioni sindacali in
data 23.01.2003.
Prima della sottoscrizione di tale intesa si potevano
consentire remunerazioni del conferimento di incarichi
ulteriori con metodi diversi, quali la retribuzione di
posizione spettante all'eventuale titolare di posizione
organizzativa; dopo la stipula di tale accordo ciò non è in
alcun modo consentito. Il non avere applicato questa
discipline viene definito dalla Corte dei Conti come "una
condotta di assoluta gravità": sia nei confronti del
segretario sia nei confronti del sindaco che ha disposto la
erogazione di tale trattamento, matura la colpa grave,
mentre la sentenza non rileva il manifestarsi del dolo.
Viene inoltre contestata la legittimità della maggiorazione
della retribuzione di posizione nella misura massima in
assenza di qualsivoglia motivazione: la semplice "menzione
dei criteri e parametri valutativi stabiliti nel contratto
integrativo di comparto si connota, pertanto, come mera
clausola di stile, funzionale alla correttezza formale
dell'atto, risultando nella sostanza palesemente elusa la
logica sottesa alla disciplina contrattuale".
L'attribuzione di incarichi aggiuntivi è solamente una delle
componenti che concorrono alla maggiorazione.
L'INDENNITA' DI RISULTATO
La sentenza censura infine il riconoscimento della indennità
di risultato per il conferimento di incarichi aggiuntivi. E'
quindi illegittimo il riconoscimento al segretario di una
specifica indennità di risultato per gli incarichi
aggiuntivi, compenso che nel caso specifico si sommava a
quello previsto per il suo ruolo di segretario. Siamo in
presenza di una violazione assai grave in quanto è "patente
la violazione di norme dal contenuto chiaro ed
inequivocabile" e la erogazione di tali somme è priva "di
qualsivoglia titolo giustificativo", tanto più che si
sono applicate le norme dettate da un contratto che non
riguarda i segretari, cioè dal CCNL del personale degli enti
locali.
La sentenza censura la erogazione della indennità di
valutazione nella misura massima, il 10% della retribuzione,
in assenza di una valutazione operata sulla base dei criteri
di carattere generale previsti per tutte le valutazioni dal
Dlgs n. 286/1999 (commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a
www.corteconti.it). |
NEWS |
PUBBLICO
IMPIEGO: LEGGE DI
STABILITÀ/ Torna la buonuscita nella p.a..
Stop al tfr. Chiuse di diritto le controversie pendenti. Un
emendamento fa salvi gli effetti del decreto legge 185/2012.
Torna la vecchia e cara buonuscita per i dipendenti
pubblici. A chi abbia percepito la prestazione in base al
regime di trattamento di fine rapporto (tfr, che aveva
sostitutivo le vecchie regole del Tfs), il trattamento sarà
riliquidato entro il 31.10.2013. Chiuse di diritto
tutte le liti pendenti; nessun recupero di eventuali somme
erogate in eccedenza ai lavoratori dipendenti.
La novità,
prevista dal dl n. 185/2012, è salvata da un emendamento
introdotto al ddl Stabilità.
Torna la buonuscita. Il decreto legge n. 78/2010, con
effetto dal 01.01.2011, aveva stabilito il cambio di
regole per il calcolo della buonuscita dei dipendenti
pubblici al fine di equipararle a quelle dei dipendenti del
settore privato. Sulla base di tanto, dal 2011, tutti i
lavoratori dipendenti, pubblici e privati, ricevevano la
prestazione di fine rapporto lavoro calcolata secondo le
regole del codice civile.
Poi è arrivata la marcia indietro
per i dipendenti pubblici, fissata dal decreto legge n.
185/2012 in vigore dal 31 ottobre, in conseguenza della
sentenza della corte costituzionale che ha dichiarato
illegittimo il permanere della ritenuta del 2,5% a carico
dei lavoratori, una volta cambiate le regole di calcolo del
trattamento di fine servizio. Il dl n. 185/2012 ha stabilito
la riliquidazione d'ufficio, entro un anno, di tutti i Tfs
liquidati in base alle nuove, e adesso abrogate, regole, ma
senza procedere al recupero delle eventuali somme erogate in
eccedenza al dipendente.
Con il dietrofront, inoltre, è stata disposta anche
l'estinzione di diritto di tutti i processi pendenti, nonché
l'inefficacia di tutte le sentenze emesse (tranne quelle
passate in giudicato) in materia di restituzione del
contributo previdenziale obbligatorio nella misura del 2,5%
della retribuzione. Le novità, come accennato, sono raccolte
in un emendamento al ddl Stabilità, il quale fissa inoltre,
l'estinzione di diritto di tutti i processi pendenti aventi
ad oggetto la restituzione del contributo previdenziale
obbligatorio e fa salvi gli atti e i provvedimenti prodotti
sulla base delle disposizioni del decreto legge n. 185/2012
che non verrà convertito in legge.
Testo unico maternità. Oltre alle imprenditrici agricole
anche le pescatrici autonome della piccola pesca marittima e
delle acque interne avranno diritto all'indennità di
maternità. La novità, anch'essa prevista da un emendamento
al disegno di legge Stabilità, arriva da una modifica al
Testo unico maternità (decreto legislativo n. 151/2001).
L'indennità verrà corrisposta per i due mesi antecedenti la
data del parto e per i tre successivi, in misura pari
all'80% della misura giornaliera del salario convenzionale.
Sempre in tema di maternità, infine, una modifica
all'articolo 32 del Tu autorizza la contrattazione
collettiva a stabilire le modalità di fruizione del congedo
parentale su base oraria, nonché i criteri di calcolo della
base oraria e l'equiparazione di un determinato monte ore
alla singola giornata lavorativa
(articolo ItaliaOggi del 15.12.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: I
controlli negli enti locali. Riforma sprint sui conti dei
Comuni. Da adottare entro il 10 gennaio i regolamenti locali
con i nuovi compiti per revisori e segretari.
IL RISCHIO/ A tutti i vertici amministrativi competenze più
pesanti ma non accompagnate da tutele efficaci.
Quella scritta nel decreto legge sui «costi della
politica» è una riforma profonda dei controlli negli
enti locali. Una riforma, però, nata dall'emergenza, varata
per decreto legge e ritoccata in Parlamento nel corso di un
dibattito già scaldato dal clima pre-elettorale.
Le novità che ne sono uscite sono parecchie, hanno tempi di
attuazione spesso strettissimi, ma l'efficacia e la
praticabilità degli equilibri che disegnano fra le diverse
professionalità che lavorano in Comuni e Province sono tutte
da verificare nelle prove sul campo. Tutti i settori di
vertice dell'amministrazione locale vengono investiti di
nuovi compiti, che questa Guida prova a spiegare profilo per
profilo, all'interno però di un ridisegno che non sceglie se
puntare sui controlli interni o esterni, e non sembra
preoccuparsi troppo dell'armonia fra le musiche che i
diversi orchestrali devono suonare.
L'ampliamento dei compiti più deciso è forse quello
riservato ai revisori dei conti che, dopo l'avvio delle
nuove regole di nomina più attente all'indipendenza dalla
politica, sono ora chiamati a entrare sempre più nel merito
di tutte le scelte gestionali, comprese quelle che
riguardano le modalità di svolgimento dei servizi, in
economia o tramite società esterne. Non si è colta, però,
l'occasione di ricreare i collegi negli enti fra 5mila e
15mila abitanti, cancellati nel 2006 in uno dei primi,
malintesi, tagli ai «costi della politica»; anzi, nel primo
passaggio parlamentare una mano aveva messo a rischio nei
Comuni inseriti in Unioni il ruolo di più di mille
professionisti, cancellati da un emendamento poi caduto
prima del l'approvazione definitiva.
Nel decreto originario, invece, il Governo aveva pensato di
affidare la presidenza dei collegi negli enti sopra i 60mila
abitanti a dipendenti ministeriali, con uno slancio
centralista anch'esso cancellato per evidenti problemi di
costituzionalità.
La stessa incertezza fra spinta ai controlli centrali e
delega all'autonomia locale si nota nelle nuove regole sui
responsabili dei servizi finanziari. La loro centralità
nella gestione dell'ente diventa sempre più marcata, i loro
pareri diventano obbligatori su tutti gli atti che possano
incidere anche in modo indiretto su equilibri e patrimonio,
e cresce la loro influenza sulla politica che può
discostarsi dalle loro indicazioni solo con motivazioni
adeguate e documentate. Un ruolo, quello del ragioniere-capo
rafforzato dalla riforma, che vede crescere responsabilità e
rischi di conflitto con la politica, ma non le tutele: anche
in questo caso, dopo un iniziale impeto eccessivamente
centralista (secondo il quale la revoca dell'incarico del
ragioniere sarebbe stata possibile solo con l'assenso di
Viminale ed Economia) si è tornati indietro e non si è più
prevista alcuna tutela aggiuntiva.
Riflessioni simili possono essere svolte per i segretari
generali, che oltre a vedersi ribadito il compito di primi
attori nei controlli di regolarità amministrativa sono
chiamati a essere i primi interlocutori della Corte dei
conti con le relazioni semestrali sull'andamento della
gestione e sull'efficacia dei controlli esterni. E il fatto
che la Corte, controllore esterno per eccellenza, debba
giudicare il funzionamento delle verifiche interne denuncia
in modo palese le sovrapposizioni fra i due sistemi tra cui
la riforma non sceglie.
Riassumendo: l'agenda di revisori, segretari, ragionieri e
magistrati cresce sensibilmente e solo l'attuazione potrà
verificare l'efficacia e la praticabilità della convivenza
fra attori così pesanti. Un'attuazione che ha tempi
strettissimi, e che impegna tutti gli enti locali, dal
piccolo Comune alla grande città, a riscrivere i regolamenti
e redistribuire i compiti in pochissime settimane. Le regole
vanno adeguate entro il 10 gennaio, poi la macchina deve
partire
(articolo Il
Sole 24 Ore 14.12.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Gestioni
associate, l'unione è da preferire alla convenzione.
Convenzione o unione per gestire in forma associata le
funzioni fondamentali? È una delle domande che gli
amministratori dei piccoli comuni si pongono più spesso in
questi giorni. Entro fine anno, infatti, occorrerà
dimostrare allo Stato di avere già messo insieme almeno un
terzo del «core business», ovvero almeno tre delle nove
funzioni fondamentali individuate dall'art. 19 del dl
95/2012. Per gli enti inadempienti, potrà scattare il potere
sostitutivo dello Stato ex art. 8 della l. 131/2003, previa
diffida da parte del prefetto.
Apparentemente, la convezione è la scelta più comoda. Si
tratta di un semplice contratto di diritto pubblico (art. 30
del Tuel), mediante il quale si può prevedere o la
costituzione di uffici comuni, che operano con personale
distaccato, o la delega di funzioni ad un comune capofila.
Di norma, si opta per quest'ultima soluzione, che però
rischia di appesantire il bilancio del capofila, sul quale
si scaricano anche le quote di spesa riferite agli altri
comuni convenzionati. La questione si pone soprattutto in
relazione al Patto di stabilità interno, che dal prossimo
anno (salvo proroghe) si applicherà a tutti i comuni con più
di 1.000 abitanti e quindi a molti di quelli interessati
dall'obbligo di dare vita alle gestioni associate.
Un
recente parere (n. 26/2012) della Corte dei conti, sezione
regionale di controllo per l'Emilia-Romagna ha affermato,
infatti, che il capofila, nel determinare il proprio saldo
finanziario obiettivo, non può considerare unicamente la
propria quota di spesa relativa alla gestione dei servizi
associati, ma deve farsi carico anche delle quote di spesa
riferita agli altri comuni. Eventuali ritardi nei rimborsi
da parte di questi ultimi, inoltre, potrebbero causare anche
problemi (di Patto, per le spese in conto capitale, ma
soprattutto) di cassa al capo convenzione.
Simili difficoltà non si pongono, invece, in caso di
costituzione di un'unione di comuni (ovvero di
trasformazione di un'unione esistente). L'unione, infatti,
costituisce un ente locale a sé stante, con un proprio
bilancio separato ed autonomo. I comuni che ne fanno parte
sono posti sullo stesso piano, dovendo tutti finanziare la
propria quota di spese. Alle unioni, inoltre, competono gli
introiti derivanti dalle tasse, dalle tariffe e dai
contributi sui servizi ad esse affidati.
C'è quindi la
possibilità di far convergere (almeno in parte) su tali
soggetti le entrate e le spese, evitando complessi passaggi
di risorse fra un ente e l'altro e dribblando
(legittimamente) i vincoli del Patto. Quest'ultimo, infatti,
si applicherà (dal 2014) alle sole unioni «speciali» che i
comuni al di sotto dei 1.000 abitanti possono costituire (in
alternativa agli altri due modelli) per gestire in forma
associata tutte le loro funzioni (la relativa disciplina
contenuta nell'art. 16 del dl 138/2011). Al momento, invece,
non è prevista l'estensione del Patto alle unioni
«classiche» (art. 32 del Tuel), il che rappresenta un
ulteriore motivo per optare per questo modello, anziché per
quello della convenzione.
La scelta dell'unione, infine, è anche vantaggiosa rispetto
alla gestione delle risorse umane. L'allargamento della
platea degli enti soggetti al Patto ha come conseguenza
anche l'assoggettamento dei comuni con più di 1000 abitanti
a più restrittivi obblighi di contenimento della spesa di
personale ed a maggiori limiti alla possibilità di
effettuare nuove assunzioni (con applicazione del turn-over
al 40% della spesa delle cessazioni intervenute nell'anno
precedente, anziché di quello «per teste», che consente un
nuovo ingresso per ogni uscita).
Le unioni «classiche», invece, continueranno ad essere
soggette al più favorevole regime previsto per gli enti non
soggetti al Patto (cfr Corte dei conti, Sezione regionale di
controllo per la Toscana, parere n. 7/2012)
(articolo ItaliaOggi del 14.12.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Controlli interni subito al via.
Entro il 10 gennaio gli enti devono varare il regolamento.
Le amministrazioni inadempienti
rischiano la diffida del prefetto e lo scioglimento.
Entro il 10 gennaio i consigli comunali, provinciali, delle
unioni dei comuni e delle superstiti comunità montane devono
approvare il regolamento consiliare sui controlli interni.
Le amministrazioni inadempienti saranno diffidate dal
prefetto e, se entro i due mesi successivi non avranno
adottato tale testo, saranno sciolte.
Con queste disposizioni contenute nel dl n. 174/2012, per
come convertito dalla legge 213, vengono significativamente
accresciuti i controlli interni negli enti locali. La norma
ne ha previsti ben sei: regolarità amministrativa e
contabile, di gestione, sugli equilibri finanziari,
strategico, sulle società partecipate e non quotate e sulla
qualità dei servizi erogati. Le prime tre forme sono
obbligatorie da subito per tutte le amministrazioni locali,
le altre tre sono da subito obbligatorie solamente per gli
enti locali che hanno più di 100 mila abitanti, lo
diventeranno dal 1/1/2014 per quelli con popolazione
superiore a 50 mila abitanti e dal 01/01/2015 per quelli
superiori a 15 mila abitanti.
Tutte le forme di controllo interno vanno disciplinate
all'interno dello specifico regolamento, tranne quella sugli
equilibri di bilancio, che deve essere inserita nel
regolamento di contabilità. Per esplicita previsione
legislativa la competenza alla adozione del regolamento
appartiene al consiglio, nonostante per molti aspetti siamo
in presenza di misure aventi una natura organizzativa. Se il
regolamento non viene approvato il legislatore dispone lo
scioglimento degli organi di governo. E inoltre sono
stabilite la irrogazione delle stesse sanzioni previste per
gli amministratori e i revisori dei conti responsabili dei
dissesti e una specifica multa.
Quanto alle forme di verifica sulla adozione e sulla
applicazione del regolamento, si deve ricordare che un copia
deve essere inviata al prefetto e alla sezione regionale di
controllo della Corte dei conti e che le province ed i
comuni con popolazione superiore a 15 mila abitanti devono
semestralmente trasmettere alla stessa una relazione sulla
gestione e sull'andamento dei controlli interni.
Nel regolamento, occorre scegliere per tutte le forme di
controllo interno la struttura che è chiamata a esercitarlo,
la periodicità e la utilizzazione del report. Per i
controlli di regolarità amministrativa e contabile il
responsabile è individuato direttamente dal legislatore nel
segretario; per quello strategico nel direttore generale o,
nel caso in cui questa figura non sia presente, nel
segretario; quello sugli equilibri finanziari deve fare capo
necessariamente al dirigente economico finanziario. Invece
deve essere il regolamento ad individuare il responsabile
delle altre tre forme di controllo interno, cioè quello di
gestione, quello sulle società partecipate non quotate e
quello di qualità sui servizi erogati. Per tutte le forme di
controllo deve essere il regolamento a individuare la
struttura competente, cioè i soggetti che affiancano il
responsabile.
Da sottolineare che il legislatore prevede
necessariamente il coinvolgimento del segretario, del
direttore generale se presente, dei dirigenti e degli
organismi di controllo. Occorre inoltre fissare la cadenza
periodica con cui dovranno essere svolte le varie forme di
controllo e, quindi, con cui saranno prodotti i report; in
tale scelta è opportuno tenere presente il vincolo della
relazione semestrale, che deve dare conto anche degli esiti
delle verifiche interne, da rendere alla sezione regionale
di controllo della Corte dei conti da parte delle province e
dei comuni con più di 15 mila abitanti.
Va ricordato che, tranne il controllo preventivo di
regolarità amministrativa e contabile, tutte le forme di
controllo interno si concretizzano nella realizzazione di
una relazione. Altro aspetto comune è la disciplina delle
modalità di utilizzazione dei report. Essi vanno trasmessi,
sulla base del vincolo dettato dal legislatore, alla giunta
ed al consiglio dell'ente: il regolamento può dettare
specifiche regole, come ad esempio la necessità che i suoi
esiti siano necessariamente esaminati dagli organi di
governo, anche individuandone le modalità e la tempistica.
La verifica di regolarità amministrativa e contabile si
suddivide in 2 parti: quella preventiva, che si esercita
tramite i pareri di regolarità tecnica e contabile e quella
successiva. Per questa seconda forma è necessario
disciplinare le modalità con cui vengono scelte le
determinazioni, i contratti e gli altri atti amministrativi
da sottoporre a verifica. Si può usare la tecnica della
scelta a campione, ma si può anche prevedere (in alternativa
o a integrazione) che alcuni atti siano comunque sottoposti
a tale verifica, ad esempio quelli di importo rilevante.
Occorre inoltre disciplinare il contenuto della direttiva
che il segretario può impartire ai dirigenti attraverso il
report.
Per il controllo di gestione la disciplina deve riguardare
soprattutto i contenuti e le modalità di rilevazione delle
informazioni.
Per quello sugli equilibri della gestione finanziaria la
regolamentazione deve avere come oggetto soprattutto la
definizione delle modalità di intervento e coinvolgimento
del collegio dei revisori dei conti. Ad esempio essi possono
svolgere tanto ruoli attivi, quanto esser chiamati alla
verifica degli esiti. E ancora è necessario prevedere le
modalità di effettuazione delle verifiche sulle società,
così da evitare il maturare di improvvise condizioni di
deficit: per cui appare utile stabilire un nesso diretto con
le verifiche sulle società.
Per il controllo strategico le scelte di maggiore rilievo
sono quelle legate alla definizione del suo contenuto, che
per molti versi comprende gli esiti di tutte le forme di
controllo interno. Per cui appare necessario che si
stabiliscano forme di interrelazione con tutte le altre
forme di verifica. Appare inoltre opportuno che esso
comprenda anche la relazione sulle performance di cui al
dlgs n. 150/2009, cd legge Brunetta.
Il monitoraggio della gestione delle società non partecipate
deve essere esattamente puntualizzato nei contenuti ed
occorre inoltre disciplinare le modalità di interrelazione
con i controlli strategico e sulla qualità dei servizi
erogati.
Infine, si deve definire il contenuto del controllo sulla
qualità dei servizi erogati. Esso deve fare riferimento sia
a quelli gestiti dall'ente che a quelli gestiti dalle
società partecipate che a quelli gestiti da soggetti
aggiudicatari. Appare necessario che esso comprenda anche
gli esiti della customer satisfaction prevista dalla
legge Brunetta tra gli elementi caratterizzanti le
performance organizzative
(articolo ItaliaOggi del 14.12.2012). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Ammessa la consultazione dell'anagrafe degli
stranieri residenti. Diritto di accesso a 360°.
Il consigliere può visionare ogni documento.
Può un consigliere comunale avere accesso agli elenchi
anagrafici di tutti gli stranieri residenti con relativi
indirizzi?
L'art. 43, comma 2, del dlgs n. 267/2000 prevede che «i
consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere
dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia,
nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le
notizie e le informazioni in loro possesso, utili
all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al
segreto nei casi specificamente determinati dalla legge». Il
diritto di accesso dei consiglieri comunali agli atti
amministrativi dell'ente locale è stato definito dal
Consiglio di stato (sent. n. 4471/2005) «diritto soggettivo
pubblico funzionalizzato», come tale strumentale al
controllo politico-amministrativo sull'ente nell'interesse
della collettività.
In considerazione di ciò, il diritto dei consiglieri
comunali di ottenere, dai competenti uffici comunali, tutte
le informazioni utili all'espletamento del loro mandato non
incontra neppure alcuna limitazione derivante dalla loro
eventuale natura riservata. Infatti, tale limite
all'accesso, operante in base alla disciplina posta in via
generale dagli articoli 22 e seguenti della legge n.
241/1990, non è previsto dall'art. 43, comma 2, del Tuel,
che opera quale norma speciale e, anzi, risulta
implicitamente escluso in quanto il consigliere è vincolato
al segreto d'ufficio (cfr. Consiglio di stato, sez. V, n.
6963/2010 e n. 2716/2004).
In merito a ciò la Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi, nel parere dell'11.01.2011, ha
affermato che «gli uffici comunali non possono limitare in
alcun caso il diritto di accesso del consigliere comunale,
ancorché possa sussistere il pericolo di divulgazione di
dati di cui il medesimo entri in possesso. La responsabilità
di aver messo in condizione il consigliere comunale di
conoscere dati sensibili cede di fronte al diritto di
accesso incondizionato del medesimo, ma può essere invocata
dal terzo eventualmente danneggiato solo nei confronti di
chi (consigliere comunale) del suo diritto ha fatto un uso
contra legem».
Inoltre, nel parere del 06.04.2011 ha
precisato che «l'eventuale segretezza che pure opera nei
confronti del consigliere comunale non è quella legata alla
natura dell'atto, ma al suo comportamento che non può essere
divulgativo del contenuto degli atti ai quali ha avuto
accesso, stante il vincolo previsto in capo al consigliere
comunale dall'art. 43 all'osservanza del segreto d'ufficio
nelle ipotesi specificamente determinate dalla legge, nonché
al divieto di divulgazione dei dati personali ai sensi del dlgs n. 196/2003».
In definitiva, gli unici limiti all'esercizio del diritto di
accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi, da un
lato, nel fatto che esso deve avvenire in modo da comportare
il minore aggravio possibile per gli uffici comunali,
dall'altro, nel fatto che esso non deve sostanziarsi in
richieste assolutamente generiche o meramente emulative,
fermo restando che la sussistenza di tali caratteri deve
essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto
al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili
limitazioni al diritto stesso (Consiglio di stato, sez. V,
n. 6963/2010).
Deve essere, pertanto, sottolineata la peculiarità del
diritto di accesso del consigliere comunale, di più ampia
astensione rispetto a quello disciplinato dalla legge n.
241/1990, in quanto strumento di verifica e controllo del
comportamento degli organi istituzionali decisionali
dell'ente locale, non per finalità personali, ma per la
tutela degli interessi pubblici, configurandosi come
espressione del principio democratico dell'autonomia locale
e della rappresentanza esponenziale della collettività
(C.d.S., sez. V, 08.09.1994, n. 976).
Con specifico riferimento al caso in esame, la Commissione
per l'accesso ai documenti amministrativi, con il parere
reso in data 20.12.2011, ha ritenuto sussistere «il
diritto del consigliere comunale di accedere agli elenchi e
alle cancellazioni anagrafiche richieste al fine di
esercitare le prerogative connesse all'esercizio del proprio
mandato politico», non rilevando in tal senso «il fatto che
le informazioni richieste concernano dati riservati trattati
dal sindaco nell'esercizio delle funzioni di ufficiale di
governo».
Alla luce di quanto affermato in precedenza, si
ritiene che ai sensi dell'art. 43, comma 2, del Tuel al
consigliere comunale non si possa negare l'accesso a nessun
atto o documento in ragione della sua eventuale segretezza o
riservatezza, ferma restando la necessità che i dati in tal
modo acquisiti siano utilizzati esclusivamente per le
finalità strettamente connesse con l'espletamento del
mandato
(articolo ItaliaOggi del 14.12.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI SERVIZI: Per
gli affidamenti in house salta il limite di 200mila euro.
Anche la gestione dei rifiuti rientra tra i «servizi a
rete», per i quali tutte le attività di organizzazione e
gestione devono essere trasferiti agli ambiti territoriali
ottimali previsti dalla manovra-bis del Ferragosto 2011
(articolo 3-bis del Dl 138/2011). Scompare del tutto il
limite dei 200mila euro annui per gli affidamenti in house,
che sarebbe dovuto entrare in vigore a inizio 2014 e avrebbe
lasciato sopravvivere gli affidamenti di valore superiore
fino alla fine dello stesso anno secondo le previsioni del
decreto legge sulla revisione di spesa.
La versione definitiva del decreto «Sviluppo-bis», che ha
ottenuto ieri l'ultimo disco verde dalla Camera, porta molte
novità al mondo dei servizi pubblici locali e delle società
partecipate.
Oltre alla scomparsa del limite dei 200mila euro all'in-house (si veda anche Il Sole 24 Ore del 7 dicembre), che
riporta integralmente la disciplina degli affidamenti
nel'ambito delle regole Ue sull'in house, il ritocco di
maggior peso è quello sugli ambiti territoriali previsti
dalla manovra-bis dello scorso anno, ma accolti con più di
un'incertezza da parte delle Regioni che in qualche caso non
ne hanno completato il disegno o l'attuazione.
Ora i
ritardatari devono affrettarsi perché agli ambiti, secondo
la legge di conversione approvata ieri, vanno trasferiti
subito tutti i compiti relativi a «scelta della forma di
gestione, di determinazione delle tariffe all'utenza per
quanto di competenza, di affidamento della gestione e
relativo controllo». Insomma, esce dai singoli enti locali
l'intera organizzazione dei servizi pubblici a rete,
famiglia nella quale il decreto Sviluppo-bis fa rientrare
anche la raccolta e smaltimento di rifiuti urbani superando
così i dubbi interpretativi sollevati da molti operatori.
In nome della concorrenza, o di quel che ne rimane dopo la
sentenza 199/2012 della Corte costituzionale che ha
cancellato le "liberalizzazioni" dell'anno scorso, si
prevede poi che la disciplina del Codice appalti si applichi
anche ai servizi di illuminazione votiva.
In ogni caso, chi
sceglie la strada dell'in house dovrà motivare in una
relazione, da pubblicare sul sito Internet, le ragioni della
scelta. Una semplificazione interviene poi sul fronte dei micro-pagamenti
pubblici alle imprese, che devono essere effettuati in forma
elettronica se il creditore lo richiede
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.12.2012). |
APPALTI: Banca
dati sugli appalti, partenza dal 1° aprile.
Parte il conto alla rovescia per l'avvio della banca dati
appalti gestita dell'Autorità di vigilanza sui contratti
pubblici. L'obbligo per le stazioni appaltanti di servirsi
del portale battezzato «Avcpass» per la verifica dei
requisiti di costruttori, progettisti e fornitori di beni e
servizi scatterà il 01.04.2013 e sarà limitato alle
gare di importo superiore a un milione di euro.
Dal primo gennaio il sistema partirà in forma sperimentale.
Lo slittamento di tre mesi rispetto al termine previsto dal
Dlgs 163/2006 (articolo 6-bis) servirà per permettere a enti
e imprese di prendere confidenza con la nuova procedura di
gestione delle gare, evitando di mandare in tilt il mercato.
Una volta diventato operativo il servizio costituirà una
vera e propria rivoluzione per il settore degli appalti, in
cui operano circa 40mila amministrazioni, con oltre 1,2
milioni di gare bandite ogni anno.
Lo scopo di Avcpass è di dare alle amministrazioni la
possibilità di verificare in via telematica e in un colpo
solo tutti i requisiti di chi parteciperà alle gare: dalla
regolarità contributiva (Inarcassa, Inail) alla
documentazione antimafia (ministero dell'Interno), dalla
certificazione di qualità (Accredia) a quella di regolarità
fiscale rilasciata dall'Agenzia delle Entrate.
Perché tutto ciò si tramuti in realtà bisognerà però
attendere ancora. Per ora la possibilità di accesso diretto
ai dati telematici da parte dell'Autorità funziona solo con
Inarcassa, in tutti gli altri casi sarà comunque l'Autorità
a "mediare" tre le Pa, verificando la sussistenza dei
requisiti e dandone comunicazione, ancora in forma cartacea,
agli enti interessati.
Lo schema di delibera con le indicazioni operative per
stazioni appaltanti e imprese è stato posta ieri in
consultazione. Associazioni e amministrazioni coinvolti
nell'operazione avranno a disposizione pochissimo tempo per
far pervenire le proprie valutazioni utilizzando il modulo
scaricabile dal sito dell'Autorità. Il termine ultimo scade
lunedì 17 dicembre. Poi, dopo aver incassato il parere del
Garante della privacy sulla gestione dei dati sensibili
forniti dalle imprese Via Ripetta darà l'ok definitivo al
documento.
Confermate le anticipazioni pubblicate sull'ultimo numero
del settimanale Edilizia e Territorio. Dopo la fase
sperimentale il sistema diventerà obbligatorio per i bandi
al di sopra di un milione dal primo aprile 2013. Nel terzo
trimestre il sistema diventerà vincolante i bandi oltre
150mila euro. Infine da ottobre non ci saranno sconti: il
servizio sarà obbligatorio per tutti i bandi da 40mila euro
in su, pena la nullità della gara
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.12.2012). |
APPALTI: DECRETO
CRESCITA/ Più flessibile la qualificazione delle imprese di
costruzioni. Appalti, una mini-rivoluzione. Credito
d'imposta per partenariati e Anagrafe unica.
Credito di imposta ed esenzione dal
pagamento del canone di concessione per i Ppp (partenariati
pubblico-privati) oltre i 500 milioni; creazione
dell'anagrafe unica delle stazioni appaltanti presso
l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici; più
flessibile la qualificazione delle imprese di costruzioni.
Sono queste alcune delle principali novità contenute nel
decreto-legge 179/2012 come approvato dalla camera ieri,
anche se alcune modifiche chieste da più parti, come
l'esclusione degli appalti dalla «responsabilità fiscale»
e l'ampliamento fino a 100 milioni dei crediti di imposta
non sono passate.
Anagrafe unica delle stazioni appaltanti
Le stazioni appaltanti di contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture saranno tenute a richiedere l'iscrizione
all'Anagrafe Unica presso la Banca dati nazionale dei
Contratti pubblici istituita presso l'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici (e a tenere aggiornati i
dati immessi). Sarà l'Autorità a stabilire, poi, con una
propria delibera, le modalità operative e di funzionamento
della Anagrafe. L'inadempimento agli obblighi di iscrizione
e successivo aggiornamento è previsto che dia luogo alla
nullità degli atti adottati e alla responsabilità
amministrativa e contabile dei funzionari responsabili.
Defiscalizzazione per nuove infrastrutture
Sarà possibile la defiscalizzazione a favore del soggetto
realizzatore in partenariato pubblico-privato di nuove opere
pubbliche infrastrutturali (con progetto approvato entro il
31.12.2015 e di importo superiore a 500 milioni di euro) per
le quali non siano previsti contributi pubblici a fondo
perduto e per le quali sia certa la non sostenibilità del
piano economico finanziario. Si tratterà di un credito di
imposta a valere sull'Ires e sull'Irap direttamente generate
dalla costruzione e gestione dell'opera, nel limite del 50%
del costo dell'investimento. Per le stessa tipologia di
opere, e sempre in caso di non sostenibilità del piano
economico, è anche prevista l'esenzione dal pagamento del
canone di concessione nella misura necessaria al
raggiungimento dell'equilibrio del piano
economico-finanziario.
Contratti di rete
Alle aggregazioni di imprese che si basano sui contratti di
rete si prevede che siano applicabili le disposizioni
dell'articolo 37 del Codice dei contratti pubblici che, a
sua volta, detta le regole per la costituzione e il
funzionamento dei raggruppamenti temporanei di imprese e dei
consorzi ordinari di concorrenti. Ciò dovrebbe significare
che le imprese che hanno sottoscritto il contratto di rete
dovranno configurare la propria «aggregazione» secondo le
regole proprie di queste due tipologie di soggetti
raggruppati, quanto meno, quindi, secondo lo schema del
mandato con rappresentanza.
Qualificazione delle imprese
Fino al 31.12.2015 sarà possibile dimostrare il requisito
della cifra di affari realizzata in lavori (richiesta nelle
gare oltre i 20 milioni di euro) avendo riguardo a un
periodo di attività riferito ai migliori cinque anni del
decennio antecedente la data di pubblicazione del bando. Si
proroga di un anno il termine (oggi stabilito al 31.12.2012)
fino al quale, ai fini della verifica di congruità tra cifra
d'affari in lavori, costo delle attrezzature e costo del
personale dell'impresa (in sede di revisione triennale
dell'attestazione Soa), è ammessa la tolleranza del 50%
(invece che del 25%) e si procede alla riduzione della cifra
d'affari in misura pari al 50%.
Conferenze di servizi
Per il superamento del dissenso nelle conferenze di servizi,
si prevede che i partecipanti formulino soluzioni anche
volte a modificare il progetto originario e non si limitino
a esprimere dissenso, con la previsione aggiuntiva di una
ulteriore riunione di mediazione e di una ulteriore riunione
per definire comunque i punti di dissenso. Se non si trova
ancora una soluzione, è prevista l'adozione comunque di un
Dpcm con la decisione finale, con la partecipazione dei
presidenti delle regioni o delle province autonome
interessate.
Svincolo garanzie
La quota dell'importo della garanzia non svincolabile in
corso di esecuzione del contratto passa dal 25 al 20%
dell'iniziale importo garantito, consentendo quindi alle
imprese di avere un livello minore di impegni. Per le opere
in esercizio da oltre un anno, si prevede anche prima del
collaudo e a determinate condizioni, lo svincolo automatico
delle garanzie di buona esecuzione prestate a favore
dell'ente aggiudicatore, senza necessità di alcun benestare,
ferma restando una quota massima del 20% da svincolare
all'emissione del certificato di collaudo
(articolo ItaliaOggi del 13.12.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI - EDILIZIA
PRIVATA: Nella casella e-mail c'è il Durc.
Al via la consegna con posta elettronica certificata.
In una nota Inail le indicazioni per le
richieste. Si parte con le stazioni appaltanti.
Adesso il Durc viaggia anche per posta elettronica. Da
stamattina, infatti, si può chiedere all'Inail di ricevere
il documento unico di regolarità contributiva per posta
elettronica certificata (Pec), firmato digitalmente. Le
operazioni si effettuano tutte su internet
(www.sportellounicoprevidenziale.it), ma per ora sono
abilitati unicamente le stazioni appaltanti e le
amministrazioni procedenti in relazioni a imprese non edili.
Lo spiega, tra l'altro, l'Inail nella
nota
10.12.2012 n.
8798 di prot..
Il Durc via Pec. Il nuovo canale di consegna del Durc riceve
operatività da stamattina (12 dicembre). Infatti, da oggi è
disponibile la nuova versione dell'applicativo telematico
www.sportellounicoprevidenziale.it che consente di
richiedere all'Inail il recapito tramite Pec del Durc
firmato digitalmente. Il servizio, precisa l'Inail, sarà
operativo per le richieste effettuate a partire dal oggi
(sono esclusi, quindi, i Durc ancora da ricevere).
In sede
di prima applicazione, spiega l'Inail, i Durc trasmessi via
Pec sono soltanto quelli richiesti dalle stazioni appaltanti
e dalle amministrazioni procedenti; per gli altri soggetti,
l'Inail fa riserva di successive istruzioni. Per richiedere
il recapito del Durc tramite Pec da parte dell'Inail è
indispensabili il possesso di alcune condizioni (si veda
tabella).
Istruzioni operative. Per utilizzare il nuovo servizio di
recapito tramite Pec, i soggetti che sono in possesso di
un'utenza come «stazione appaltante/amministrazione
procedente» (Sa/Ap) devono verificare nel proprio profilo
anagrafico all'interno di sportellounicoprevidenziale:
●
che la struttura di appartenenza sia correttamente e
puntualmente identificata e, cioè, che sia specificato,
oltre alla denominazione dell'ente, sia
dipartimento/direzione che settore/ufficio/sede
● che l'indirizzo di Pec della struttura di appartenenza sia
inserito e sia corretto.
A tal fine, per aggiornare eventualmente i dati, dopo
l'accesso al sito, l'utente Sa/Ap deve seguire il percorso
«gestione anagrafiche», «stazioni appaltanti/amministrazioni
procedenti», inserire il dato e-mail Pec mancante o
modificare quello presente e, quindi, confermare
l'operazione. In mancanza degli aggiornamenti, qualora vi
siano più Sa/Ap facenti capo a uno stesso
ente/amministrazione, il Durc verrà recapitato all'indirizzo
Pec che risulta registrato.
Nel caso in cui la singola Sa/Ap
non sia dotata di un proprio indirizzo Pec, deve indicare
quello della struttura ad essa gerarchicamente sovraordinata,
fermo restando che, in tal caso, sarà onere di quest'ultima
struttura trasmettere il Durc ricevuto dallo a quella (Sa/Ap)
che ha effettuato la richiesta.
Come effettuare la richiesta. Per ricevere il Durc tramite
Pec, in fase di compilazione della richiesta, l'utente Sa/Ap,
dopo aver verificato che il campo «e-mail Pec» è
correttamente valorizzato, deve compilare la sezione (tab)
«Impresa» nel seguente modo:
► alla sezione «sede operativa», va selezionata la casella
«sede operativa coincidente con la sede legale»;
► alla sezione «recapito corrispondenza», va selezionata la
casella «Pec».
A conclusione della richiesta, nella sezione «inoltro», va
selezionato «Inail» come ente emittente. L'Inail sottolinea
che è opportuno verificare a video, prima della conferma e
dell'inoltro della pratica, l'esattezza dell'indirizzo Pec
al quale il Durc sarà recapitato.
Infine, l'Inail ricorda
che per ogni ulteriore informazione o per segnalare problemi
in ordine alla richiesta o al rilascio del Durc via Pec deve
essere utilizzata esclusivamente l'apposita funzione di
assistenza disponibile sul sito di «sportellounicoprevidenziale»
(link «assistenza» posto sul toolbar in alto alla homepage)
(articolo ItaliaOggi del 12.12.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Decreto enti locali. Cancellata la salvaguardia
degli incarichi. Per i ragionieri dei Comuni nuovi compiti e
meno tutele.
Una correzione di qua e un ritocco di là, alla
fine i responsabili finanziari degli enti locali incontrano
nella legge di conversione del decreto sui costi della
politica solo un deciso ampliamento dei loro compiti, ma
nessuna tutela aggiuntiva.
Nel maxiemendamento del Governo, infatti, si è persa per
strada la clausola di salvaguardia che mirava a metterli al
riparo da revoche "ingiustificate" dell'incarico,
magari dettate dal fatto che il loro ruolo rafforzato nelle
verifiche intralciasse troppo i programmi politici
dell'amministrazione. Una novità, quest'ultima, che fa
storcere il naso ai diretti interessati, e che denuncia
ulteriormente i problemi dettati dalla nuova architettura
dei controlli negli equilibri spesso delicati degli
organismi di vertice degli enti locali.
La prima versione della clausola, scritta nel testo
originario del decreto legge 174/2012 approvata dal Governo,
in un afflato centralista di problematica attuazione,
metteva addirittura i responsabili finanziari di Comuni e
Province sotto la tutela del Governo. Si prevedeva infatti
che l'incarico di responsabile del servizio finanziario
potesse essere revocato dal sindaco o dal presidente della
Provincia solo «in caso di gravi irregolarità»
riscontrate nell'esercizio delle sue funzioni; per avere
effetto, però, l'ordinanza di revoca avrebbe dovuto passare
un doppio vaglio centrale, da parte del ministero
dell'Interno e della Ragioneria generale dello Stato. Una
tutela, questa, che aveva fatto sollevare più di un dubbio
sulla sua costituzionalità, perché re-introduceva un
controllo centrale su enti che in base al Titolo V della
Costituzione sono equiordinati allo Stato.
Proprio su questo aspetto avevano agito gli emendamenti nel
primo passaggio parlamentare, che avevano sostituito la
tutela da parte di Viminale ed Economia con quella garantita
dal giudizio dell'organo interno di revisione, che avrebbe
dovuto avallare o meno la decisione del sindaco di mettere
alla porta il ragioniere capo.
La polemica, però, era scoppiata anche su un piano più
politico: i segretari generali, anch'essi investiti di nuovi
compiti nella macchina dei controlli interni, avevano
raccolto in pochi giorni oltre mille firme in fondo a una
petizione per chiedere tutele analoghe, mentre i sindaci si
erano detti contrari alla blindatura di un incarico che non
può prescindere da una base collaborativa e fiduciaria.
Risultato finale: i ragionieri-capo dovranno dare pareri su
tutti gli atti che possano incidere su equilibri di bilancio
e patrimonio, ma potranno essere revocati senza troppi
problemi (articolo Il Sole 24 Ore
dell'11.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA: Va
confermata la motivazione già resa da questo TAR
nell’ordinanza cautelare, con riferimento al legittimo
affidamento che la ricorrente –dopo il lungo lasso di tempo
trascorso dal completamento dei lavori– ormai riponeva in
ordine al mantenimento dell’opera.
Quest’ultima, in effetti, risulta compiuta nel 1994, laddove
solo 14 anni dopo (ossia nel 2008, allorché per la prima
volta fu adottata un’ordinanza di ripristino, sia pure
successivamente revocata) l’amministrazione è intervenuta
per sanzionare la difformità dal titolo: il tempo così
trascorso è tale, nella sua oggettiva consistenza, da
consolidare l’aspettativa della proprietaria in ordine
all’insussistenza di alcuna ragione di pubblico interesse
alla rimozione del manufatto.
Va, anzitutto, confermata la motivazione
già resa da questo TAR nell’ordinanza cautelare, con
riferimento al legittimo affidamento che la ricorrente –dopo il lungo lasso di tempo trascorso dal completamento dei
lavori– ormai riponeva in ordine al mantenimento
dell’opera. Quest’ultima, in effetti, risulta compiuta nel
1994, laddove solo 14 anni dopo (ossia nel 2008, allorché
per la prima volta fu adottata un’ordinanza di ripristino,
sia pure successivamente revocata) l’amministrazione è
intervenuta per sanzionare la difformità dal titolo: il
tempo così trascorso è tale, nella sua oggettiva
consistenza, da consolidare l’aspettativa della proprietaria
in ordine all’insussistenza di alcuna ragione di pubblico
interesse alla rimozione del manufatto (cfr., per precedenti
analoghi della Sezione, TAR Piemonte, sez. II, sentt. n. 967
e 1142 del 2012).
Né, del resto, alcuna ragione in tal senso
è stata esplicitata dall’ordinanza impugnata: questa,
dunque, si mostra carente lungo il profilo della
motivazione, in quanto non ha esplicitato le ragioni di
pubblico interesse –evidentemente diverse dal mero
ripristino della legalità– che conducevano, nella specie, al
sacrificio della posizione consolidata in capo al privato
proprietario
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 13.12.2012 n. 1355 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: Attesa
la natura ampiamente discrezionale del provvedimento di
revoca dell'incarico di assessore, la relativa motivazione
può basarsi sulle più ampie valutazioni di opportunità
politico-amministrativa, rimesse in via esclusiva al vertice
dell'ente, in quanto aventi ad oggetto un incarico
fiduciario; pertanto, la motivazione dell'atto di revoca può
anche rimandare esclusivamente a valutazioni di opportunità
politica e il sindaco ha solo l'onere formale di comunicare
al Consiglio comunale la decisione di revocare un assessore,
visto che è soltanto quest'ultimo organo che potrebbe
opporsi, con una mozione di sfiducia, all'atto di revoca.
Non avendo carattere sanzionatorio e potendo rispondere
anche ad esigenze di carattere generale come il riequilibrio
dei rapporti interni alla maggioranza consiliare o di quelli
con l’opposizione o come la necessità di migliorare
l’efficienza di specifici settori dell’Amministrazione
locale, tale tipo di provvedimento -che proprio per la sua
natura non deve necessariamente “specificare i singoli
comportamenti addebitati all’interessato”- risulta
difficilmente sindacabile in sede di legittimità se non per
profili formali, quali la violazione di specifiche
disposizioni normative o la evidente abnormità del
provvedimento sindacale o il suo carattere discriminatorio.
Come affermato dalla più recente
giurisprudenza del Consiglio di Stato e come già evidenziato
dal Collegio nell’ordinanza di rigetto dell’istanza
cautelare, “attesa la natura ampiamente discrezionale del
provvedimento di revoca dell'incarico di assessore, la
relativa motivazione può basarsi sulle più ampie valutazioni
di opportunità politico-amministrativa, rimesse in via
esclusiva al vertice dell'ente, in quanto aventi ad oggetto
un incarico fiduciario; pertanto, la motivazione dell'atto
di revoca può anche rimandare esclusivamente a valutazioni
di opportunità politica e il sindaco ha solo l'onere formale
di comunicare al Consiglio comunale la decisione di revocare
un assessore, visto che è soltanto quest'ultimo organo che
potrebbe opporsi, con una mozione di sfiducia, all'atto di
revoca” (cfr. ex multis, Cons. St., Sez. V, 23.02.2012 n.
1053; Cons. St., Sez. V, 10.07.2012, n. 4057).
Non avendo carattere sanzionatorio e potendo rispondere
anche ad esigenze di carattere generale come il riequilibrio
dei rapporti interni alla maggioranza consiliare o di quelli
con l’opposizione o come la necessità di migliorare
l’efficienza di specifici settori dell’Amministrazione
locale (Cons. St. Sez. V, 27.04.2010 n. 2357), tale tipo di
provvedimento -che proprio per la sua natura non deve
necessariamente “specificare i singoli comportamenti
addebitati all’interessato” (TAR Lombardia, Brescia, Sez. II;
28.10.2010 n. 4466; TAR Molise, Sez. I, 12.10.2012 n. 547)-
risulta difficilmente sindacabile in sede di legittimità se
non per profili formali, quali la violazione di specifiche
disposizioni normative o la evidente abnormità del
provvedimento sindacale o il suo carattere discriminatorio,
circostanze che non ricorrono nel caso di specie
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 13.12.2012 n. 1354 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
destinazione d’uso:
- caratterizza funzionalmente l’immobile ed è segnata dagli
strumenti urbanistici di pianificazione o di attuazione
della pianificazione, nell’ambito delle categorie generali
di uso urbanistico previste dalle norme vigenti;
- non si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il
soggetto utilizzatore, ma con la destinazione impressa dal
titolo abilitativo, e ciò in quanto la nozione di “uso”
urbanisticamente rilevante è ancorata alla tipologia
strutturale dell’immobile – quale individuata nel titolo
edilizio – senza che essa possa essere influenzata da
utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti
autorizzatori e/o pianificatori;
- solo in caso di assenza o indeterminatezza del titolo
edilizio è ritraibile dalla classificazione catastale
attribuita in sede di primo accatastamento o da altri
documenti probanti.
---------------
Il mutamento di destinazione d’uso senza opere assume
rilievo solo se si sostanzia in un mutamento
urbanistico-edilizio ovvero solo se sconvolge l’assetto
dell’area in cui è ricaduto l’intervento edilizio.
---------------
Il mutamento di destinazione d’uso è ammesso solo se
compatibile con la caratterizzazione urbanistica impressa
all’area in cui è ubicato l’immobile.
► Ritenuto, peraltro, pacifico che la
destinazione d’uso:
- caratterizza funzionalmente l’immobile ed è segnata dagli
strumenti urbanistici di pianificazione o di attuazione
della pianificazione, nell’ambito delle categorie generali
di uso urbanistico previste dalle norme vigenti;
- secondo un costante orientamento giurisprudenziale, non si
identifica con l’impiego che in concreto ne fa il soggetto
utilizzatore, ma con la destinazione impressa dal titolo
abilitativo (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 09.02.2001 n.
583; TAR Liguria, Sez. I, 25.01.2005 n. 85), e ciò in quanto
la nozione di “uso” urbanisticamente rilevante è ancorata
alla tipologia strutturale dell’immobile – quale individuata
nel titolo edilizio – senza che essa possa essere
influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al contenuto
degli atti autorizzatori e/o pianificatori (tra le altre,
TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 07.05.1992 n. 219 e TAR
Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, sentenza 07.09.2012 n.
537);
- solo in caso di assenza o indeterminatezza del titolo
edilizio è ritraibile dalla classificazione catastale
attribuita in sede di primo accatastamento o da altri
documenti probanti;
► Ritenuto che, per costante orientamento giurisprudenziale
(ex multis Cons. Stato, sez. V, 23.2.2000 n. 949, TAR
Liguria, sez. I, 28.01.2004 n. 102, TAR Veneto, Sez. III,
13.11.2001 n. 3699, Cass. Penale, Sez. III, 01.10.1997 n.
3104 e, più di recente, TAR Lazio, sez. II, 07.10.2005 n.
8002, TAR Abruzzo, sede l'Aquila, 02.04.2009 n. 236 e
TAR Lazio, Roma, I-quater, 24.05.2011, n. 4622), il
mutamento di destinazione d’uso senza opere assume rilievo
solo se si sostanzia in un mutamento urbanistico-edilizio
ovvero solo se sconvolge l’assetto dell’area in cui è
ricaduto l’intervento edilizio;
► Ritenuto, in ogni caso, che il mutamento di destinazione
d’uso è ammesso solo se compatibile con la caratterizzazione
urbanistica impressa all’area in cui è ubicato l’immobile
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 13.12.2012 n. 1346 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Ove
una concessione edilizia o permesso di costruire sia stato
legittimante assentito, ma in fase di realizzazione del
relativo progetto il privato destinatario ponga in essere
delle difformità dal medesimo,… siffatti abusi devono essere
sanzionati attivando il procedimento sanzionatorio definito
dal T.U di cui al D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (artt. 31 ss.),
ma giammai possono legittimante costituire motivo di
annullamento in autotutela della concessione edilizia
legittimamente assentita.
Presupposto indefettibile del legittimo esercizio del potere
di autotutela c.d. decisoria culminante nell’adozione di
provvedimenti di secondo grado di annullamento di precedenti
provvedimenti, è, infatti, ai sensi dell’art. 21-nonies
della L. n. 241/1990 ricettivo di un radicato costrutto
pretorio di origine giurisprudenziale, l’esistenza e l’acclaramento
di un vizio di legittimità originario che affligga il
provvedimento oggetto dell’autotutela decisoria. Laddove,
invece, il provvedimento sia e rimanga all’attualità del
tutto legittimo, l’eventuale contegno del privato che
sostanzi una difformità esecutiva rispetto al contenuto
delle facoltà concesse con il provvedimento, può rilevare
unicamente ai fini del’adozione di misure sanzionatorie
repressive, non potendo, invece, infirmare ex post la
legittimità del provvedimento e correlativamente legittimare
il ricorso dal potere di annullamento in autotutela.
Come evidenziato dalla costante giurisprudenza
anche di questo Tribunale “ove una concessione edilizia o
permesso di costruire sia stato legittimante assentito, ma
in fase di realizzazione del relativo progetto il privato
destinatario ponga in essere delle difformità dal medesimo,…
siffatti abusi” devono “essere sanzionati attivando il
procedimento sanzionatorio definito dal T.U di cui al D.P.R.
06.06.2001 n. 380 (artt. 31 ss.), ma giammai possono
legittimante costituire motivo di annullamento in autotutela
della concessione edilizia legittimamente assentita.
Presupposto indefettibile del legittimo esercizio del potere
di autotutela c.d. decisoria culminante nell’adozione di
provvedimenti di secondo grado di annullamento di precedenti
provvedimenti, è, infatti, ai sensi dell’art. 21-nonies
della L. n. 241/1990 ricettivo di un radicato costrutto
pretorio di origine giurisprudenziale, l’esistenza e l’acclaramento
di un vizio di legittimità originario che affligga il
provvedimento oggetto dell’autotutela decisoria. Laddove,
invece, il provvedimento sia e rimanga all’attualità del
tutto legittimo, l’eventuale contegno del privato che
sostanzi una difformità esecutiva rispetto al contenuto
delle facoltà concesse con il provvedimento, può rilevare
unicamente ai fini del’adozione di misure sanzionatorie
repressive, non potendo, invece, infirmare ex post la
legittimità del provvedimento e correlativamente legittimare
il ricorso dal potere di annullamento in autotutela” (TAR
Piemonte, Sez. I, 7.05.2010 n. 2356).
Nel caso in questione proprio dalla realizzazione di opere
in difformità dal permesso rilasciato l’Amministrazione ha
fatto scaturire la revoca del titolo stesso.
Né può essere condivisa la tesi della difesa del Comune
relativa al fatto che il provvedimento impugnato, (pur
disponendo la “revoca” del permesso di costruire) avrebbe,
in realtà, inteso “esprimere il concetto
dell’inutilizzabilità del titolo edilizio -ottenuto per la
demolizione e ricostruzione solo parziale dell’immobile- al
fine di operare un intervento interamente sostitutivo”.
Come già ricordato e come osservato anche dalla ricorrente,
la successiva realizzazione di opere in difformità da quanto
autorizzato non può, in verità incidere sulla legittimità
del titolo originario, ma solo comportare l’eventuale
applicazione delle sanzioni previste dal DPR n. 380/2001
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 13.12.2012 n. 1340 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
I gazebo non proprio precari, ma funzionali a
soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come
manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con un sicuro
incremento del carico urbanistico.
Ancora, i gazebo non proprio precari, ma funzionali a
soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come
manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con un sicuro
incremento del carico urbanistico (cfr. Cons. Stato, V,
01.12.2003, n. 7822) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 12.12.2012 n. 6382 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nel caso di previsioni inequivoche della lex
specialis non si può far ricorso al meccanismo della
integrazione documentale o dei chiarimenti di cui all'art.
46 del d.lgs. 12.04., n. 163.
Il ricorso al meccanismo della integrazione documentale o
dei chiarimenti di cui all'art. 46 del d.lgs. 12.04.2006, n.
163 (Codice dei contratti pubblici), anche in base alla
costante interpretazione datane dalla giurisprudenza, non
può essere utilizzato dalle stazioni appaltanti, pena la
violazione del principio della par condicio competitorum,
per colmare eventuali carenze documentali o inadempienze dei
concorrenti nei casi in cui, come nel caso di specie, si è
in presenza di previsioni della lex specialis dalla
portata inequivoca rimaste inadempiute (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 12.12.2012 n. 6373 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
LAVORI PUBBLICI: Il
Collegio è ben a conoscenza del costante orientamento
giurisprudenziale secondo cui le soluzioni progettuali
diverse rispetto alle indicazioni del preliminare debbono
essere evidenziate in modo tale da consentire anzitutto
l'espressione di un giudizio di puntuale, quanto
dimostrabile, di rispondenza funzionale del progetto
definitivo e, poi, di miglioramento dello stesso rispetto a
parametri chiari, certi e significativi.
Al fine di valutare tale conformità delle varianti proposte
debbono essere considerate le indicazioni della
progettazione preliminare, posto che “la previsione
esplicita della possibilità di presentare varianti
progettuali in sede di offerta è oggi generalizzata
dall'art. 76 del codice degli appalti per qualsivoglia
appalto, come derivante dalle direttive comunitarie 2004/17
e 2004/18; detta norma demanda all'Amministrazione di
indicare nel bando se le varianti sono ammesse e quali sono
i "requisiti minimi" ai quali attenersi; la possibilità di
proporre variazioni migliorative significa che il progetto
proposto dalla stazione appaltante può subire modifiche,
purché non si alterino i caratteri essenziali (i cd.
"requisiti minimi") delle prestazioni richieste dalla "lex
specialis" per non ledere la "par condicio"”.
Pertanto, debbono considerarsi “ammissibili le varianti
migliorative riguardanti le modalità esecutive dell'opera o
del servizio, purché non si traducano in una diversa
ideazione dell'oggetto del contratto, che si ponga come del
tutto alternativo rispetto a quello voluto
dall'amministrazione appaltante; è stato poi ritenuto
essenziale che la proposta tecnica sia migliorativa rispetto
al progetto proposto, che l'offerente dia contezza delle
ragioni che giustificano l'adattamento proposto e le
variazioni alle singole prescrizioni progettuali, che si dia
la prova che la variante garantisca l'efficienza del
progetto e le esigenze della pubblica amministrazione
sottese alla prescrizione variante; è stato infine
evidenziato che sussiste un ampio margine di discrezionalità
della commissione giudicatrice nel valutare le varianti
migliorative”.
Invero, il Collegio è ben a
conoscenza del costante orientamento giurisprudenziale
secondo cui le soluzioni progettuali diverse rispetto alle
indicazioni del preliminare debbono essere evidenziate in
modo tale da consentire anzitutto l'espressione di un
giudizio di puntuale, quanto dimostrabile, di rispondenza
funzionale del progetto definitivo e, poi, di miglioramento
dello stesso rispetto a parametri chiari, certi e
significativi (Cons. Stato Sez. IV, Sent., 07.09.2010, n.
6485).
Al fine di valutare tale conformità delle varianti
proposte debbono essere considerate le indicazioni della
progettazione preliminare, posto che “la previsione
esplicita della possibilità di presentare varianti
progettuali in sede di offerta è oggi generalizzata
dall'art. 76 del codice degli appalti per qualsivoglia
appalto, come derivante dalle direttive comunitarie 2004/17
e 2004/18; detta norma demanda all'Amministrazione di
indicare nel bando se le varianti sono ammesse e quali sono
i "requisiti minimi" ai quali attenersi; la possibilità di
proporre variazioni migliorative significa che il progetto
proposto dalla stazione appaltante può subire modifiche,
purché non si alterino i caratteri essenziali (i cd.
"requisiti minimi") delle prestazioni richieste dalla "lex
specialis" per non ledere la "par condicio"” (così Cons.
Stato Sez. V, Sent., 17.09.2012, n. 4916).
Pertanto, debbono considerarsi “ammissibili le varianti
migliorative riguardanti le modalità esecutive dell'opera o
del servizio, purché non si traducano in una diversa
ideazione dell'oggetto del contratto, che si ponga come del
tutto alternativo rispetto a quello voluto
dall'amministrazione appaltante; è stato poi ritenuto
essenziale che la proposta tecnica sia migliorativa rispetto
al progetto proposto, che l'offerente dia contezza delle
ragioni che giustificano l'adattamento proposto e le
variazioni alle singole prescrizioni progettuali, che si dia
la prova che la variante garantisca l'efficienza del
progetto e le esigenze della pubblica amministrazione
sottese alla prescrizione variante; è stato infine
evidenziato che sussiste un ampio margine di discrezionalità
della commissione giudicatrice nel valutare le varianti
migliorative (C.d.S., sez. V, 19.02.2003, n. 923; 09.02.2001, n. 578; sez. IV,
02.04.1997, n. 309)” (così Cons. Stato Sez. V,
10.09.2012, n. 4772)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 10.12.2012 n. 1929 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
convenzioni di lottizzazione di cui alla L. 06/08/1967 n.
765 non costituiscono atti di pianificazione generale bensì
strumenti urbanistici di tipo attuativo del P.R.G.,
rivestendo la natura degli accordi sostitutivi del
provvedimento disciplinati dall'art. 11 della L. 07/08/1990
n. 241, il cui comma 5 prevede che le relative controversie
rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo anche se afferiscono alla fase esecutiva del
rapporto.
E’ noto che, come ormai riconosciuto dalla giurisprudenza
delle Sezioni unite della Corte di cassazione, le
convenzioni di lottizzazione di cui alla L. 06/08/1967 n.
765 non costituiscono atti di pianificazione generale bensì
strumenti urbanistici di tipo attuativo del P.R.G.,
rivestendo la natura degli accordi sostitutivi del
provvedimento disciplinati dall'art. 11 della L. 07/08/1990
n. 241, il cui comma 5 prevede che le relative controversie
rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo anche se afferiscono alla fase esecutiva del
rapporto (Cfr. Corte di Cassazione, Sezioni unite civili –
15/12/2000 n. 1262; 11/12/2001 n. 15641; 07/02/2002 n. 1763;
TAR Toscana, sez. I – 18/01/2005 n. 153)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 10.12.2012 n. 1925 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Mediante il
raggruppamento, le singole imprese assumono il mero impegno
(reciproco) di costituirsi in associazione nel caso di
aggiudicazione della gara per l’esecuzione dell’appalto,
senza l’insorgenza di ulteriori e specifici obblighi (nella
specie riferibili alla messa a disposizione di mezzi tecnici
e/o finanziari) esorbitanti l’assunzione delle
responsabilità di cui sopra.
Ne deriva che l’impresa che intenda avvalersi dei requisiti
di un’altra, deve necessariamente darne atto in sede di
presentazione dell’offerta, e ciò in quanto
l’Amministrazione deve poter verificare ab initio la
sussistenza in capo ad ogni partecipante dei requisiti
richiesti dal bando.
Né può ritenersi che l’Amministrazione sia obbligatoriamente
chiamata ad effettuare indagini ulteriori rispetto alla
verifica dei contenuti esplicitati nelle domande presentate,
al fine specifico di accertare se i requisiti di cui la
singola impresa risulti carente siano rinvenibili in altro
soggetto del raggruppamento.
Oltre a non essere previsti dalla normativa di settore,
infatti, tali indagini risulterebbero comunque inconducenti
in quanto, come già precisato, mediante il raggruppamento le
singole imprese assumono il mero impegno di costituirsi in
associazione nel caso di aggiudicazione della gara ai fini
della esecuzione dell’appalto, e non di certo l’obbligo di
mettere a disposizione di altri soggetti i propri mezzi
tecnici e/o finanziari.
Di qui la necessità che l’impresa manifesti espressamente la
volontà di avvalersi dei requisiti di un’altra già in sede
di presentazione dell’offerta.
---------------
La costituzione di un raggruppamento in funzione
dell’aggiudicazione di un appalto non presuppone per le
partecipanti obblighi ulteriori rispetto all’impegno di
costituirsi in associazione e eseguire le opere secondo le
percentuali rispettivamente assunte.
Ne consegue che l’estensione e l’ampliamento, solo
eventuale, degli obblighi intercorrenti tra le imprese del
costituendo R.T.I., deve avvenire con apposito atto formale
che consenta all’impresa ausiliata di esigere la messa a
disposizione del requisito di cui è carente, facoltà che in
base al mero vincolo associativo invece non avrebbe.
La costituzione di un
raggruppamento in funzione dell’aggiudicazione di un
appalto, infatti, non presuppone per le partecipanti
obblighi ulteriori rispetto all’impegno di costituirsi in
associazione e eseguire le opere secondo le percentuali
rispettivamente assunte.
Ne consegue che l’estensione e l’ampliamento, solo
eventuale, degli obblighi intercorrenti tra le imprese del
costituendo R.T.I., deve avvenire con apposito atto formale
che consenta all’impresa ausiliata di esigere la messa a
disposizione del requisito di cui è carente, facoltà che in
base al mero vincolo associativo invece non avrebbe.
Quanto al primo profilo, il Comune sostiene che
l’istituto opererebbe ex se, a prescindere da
un’apposita dichiarazione o manifestazione di volontà,
dovendosi privilegiare l’aspetto sostanziale del rapporto,
ovvero l’effettiva disponibilità del requisito da parte
della società ausiliata. Assume, pertanto, che la mera
partecipazione di Sima Impianti s.r.l. al raggruppamento
rendeva immediatamente apprezzabile la possibilità dell’avvalimento
in capo a Monfenera. Inoltre, la sussistenza di un vincolo
associativo tra le due, derivante dalla partecipazione al
medesimo raggruppamento, rendeva ininfluente ogni
formalizzazione, dovendosi desumere la disponibilità del
requisito in ragione della mera sussistenza del vincolo
associativo.
L’assunto non è condivisibile .
Ed invero, pur non essendo nella specie applicabili
ratione temporis gli obblighi formali richiesti dal
sopravvenuto art. 49 del D.lgs. n. 163/2006, ciò non di meno
resta escluso che l’istituto possa operare automaticamente,
per la semplice sussistenza di un vincolo associativo
scaturente dall’A.T.I.
Infatti, mediante il raggruppamento, le singole imprese
assumono il mero impegno (reciproco) di costituirsi in
associazione nel caso di aggiudicazione della gara per
l’esecuzione dell’appalto, senza l’insorgenza di ulteriori e
specifici obblighi (nella specie riferibili alla messa a
disposizione di mezzi tecnici e/o finanziari) esorbitanti
l’assunzione delle responsabilità di cui sopra.
Ne deriva che l’impresa che intenda avvalersi dei requisiti
di un’altra, deve necessariamente darne atto in sede di
presentazione dell’offerta, e ciò in quanto
l’Amministrazione deve poter verificare ab initio la
sussistenza in capo ad ogni partecipante dei requisiti
richiesti dal bando.
Né può ritenersi che l’Amministrazione sia obbligatoriamente
chiamata ad effettuare indagini ulteriori rispetto alla
verifica dei contenuti esplicitati nelle domande presentate,
al fine specifico di accertare se i requisiti di cui la
singola impresa risulti carente siano rinvenibili in altro
soggetto del raggruppamento.
Oltre a non essere previsti dalla normativa di settore,
infatti, tali indagini risulterebbero comunque inconducenti
in quanto, come già precisato, mediante il raggruppamento le
singole imprese assumono il mero impegno di costituirsi in
associazione nel caso di aggiudicazione della gara ai fini
della esecuzione dell’appalto, e non di certo l’obbligo di
mettere a disposizione di altri soggetti i propri mezzi
tecnici e/o finanziari.
Di qui la necessità che l’impresa manifesti espressamente la
volontà di avvalersi dei requisiti di un’altra già in sede
di presentazione dell’offerta.
---------------
Quanto al secondo profilo,
il Comune sostiene che non sarebbe stata necessaria alcuna
formalizzazione dell’avvalimento, dovendosi attribuire
prevalenza al dato sostanziale dell’effettiva disponibilità
del requisito in capo a Monfenera, in forza del vincolo
associativo esistente con Sima Impianti.
L’assunto non può essere condiviso per le ragioni sopra già
esposte
La costituzione di un raggruppamento in funzione
dell’aggiudicazione di un appalto, infatti, non presuppone
per le partecipanti obblighi ulteriori rispetto all’impegno
di costituirsi in associazione e eseguire le opere secondo
le percentuali rispettivamente assunte.
Ne consegue che l’estensione e l’ampliamento, solo
eventuale, degli obblighi intercorrenti tra le imprese del
costituendo R.T.I., deve avvenire con apposito atto formale
che consenta all’impresa ausiliata di esigere la messa a
disposizione del requisito di cui è carente, facoltà che in
base al mero vincolo associativo invece non avrebbe.
Nella specie, tale necessaria formalizzazione è assente,
atteso che l’ausiliaria (Sima Impianti srl) si è limitata a
sottoscrivere per adesione le controdeduzioni formulate
dall’ausiliata (Monfenera) nel corso del procedimento e
nulla più.
E tale atto, all’evidenza, non è sufficiente a garantire
alla capogruppo ed all’Amministrazione l’effettiva
disponibilità del requisito, non determinando l’insorgenza
di alcun ulteriore e specifico vincolo tra le società.
Correttamente, quindi, il primo giudice ha rilevato l’omessa
adeguata formalizzazione dell’avvalimento, come autonoma
causa ostativa all’operatività dell’istituto.
Del resto, l’art. 47 della Direttiva 2004/18/CE, riferibile
al regime previgente all’entrata in vigore del Codice dei
contratti, dispone che “un operatore economico può, se
del caso e per un determinato appalto, fare affidamento
sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura
giuridica dei suoi legami con questi ultimi. In tal caso
deve dimostrare all’amministrazione aggiudicatrice che
disporrà dei mezzi necessari, ad esempio mediante
presentazione dell’impegno a tal fine di questi soggetti”
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 06.12.2012 n. 6257 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
a) il ricorso alla trattativa privata (procedura
negoziata), nel micro ordinamento di settore (nazionale
comunitario), è vicenda assolutamente eccezionale perché
lesiva dei valori fondamentali (costituzionali e
internazionali) della libertà di impresa, del libero
mercato, della trasparenza, della imparzialità dell’azione
amministrativa e della buona amministrazione;
b) le disposizioni che consentono il ricorso a tale
procedura di affidamento di appalti (e quelle assimilabili:
ad es. varianti, atti aggiuntivi ecc.), devono essere
interpretate restrittivamente, introducendo ipotesi
tassative che costituiscono momento patologico del rapporto
contrattuale risolvendosi in affidamenti diretti senza le
garanzie delle procedura competitiva;
c) i presupposti applicativi di tale straordinaria procedura
devono essere dimostrati in modo rigoroso dalla stazione
appaltante e dall’impresa beneficiaria;
d) la portata dell’obbligo di motivazione si declina,
coerentemente, nel senso che è la scelta della p.a. di
procedere a trattativa che và adeguatamente motivata in
ordine alla sussistenza dei presupposti specifici legali che
di volta in volta la giustificano, mentre, qualora
l’amministrazione si orienti per la procedura competitiva,
non occorre addurre alcuna giustificazione, rientrando ciò
nelle normali opzioni che l’ordinamento considera di per sé
preferibili, anche quando si verifichino in astratto i
presupposti per aggiudicare l’affare mediante procedura
negoziata;
e) la stazione appaltante, anche in extremis, se rileva che
la stipula comporta la violazione di norme imperative deve
immediatamente interrompere la trattativa privata avviata e
annullare gli atti della procedura fin lì posta in essere;
l’ordinamento, invero, esige il ritorno alla legalità, anche
attraverso l’esercizio dei poteri di autotutela da parte
dell’amministrazione, mentre non prende in considerazione
favorevole -sotto il profilo di possibili pretese
risarcitorie- la posizione di coloro che, coinvolti nella
trattativa privata o nella gara finalizzate alla stipula del
contratto che si rilevi contra legem, abbiano
consapevolmente e colposamente aderito all’iniziativa
illegittima dell’amministrazione: in tali casi non è
configurabile una ipotesi di responsabilità precontrattuale
derivante da mancata stipula del contratto con la
conseguente impossibilità di accogliere la domanda di
risarcimento del danno.
In diritto è sufficiente osservare (sulla scorta di
consolidati principi giurisprudenziali, cfr. Corte giust.
CE, sez. II, 02.10.2008, n. C-157/06; grande sezione,
08.04.2008, n. C-337/05; Cons. St., sez. V, 02.11.2011, n.
5837; sez. VI, 03.02.2011, n. 780; sez. V, 24.04.2009, n.
2600; sez. IV, 10.06.2004, n. 3721), che:
a) il ricorso alla trattativa privata (procedura negoziata),
nel micro ordinamento di settore (nazionale comunitario), è
vicenda assolutamente eccezionale perché lesiva dei valori
fondamentali (costituzionali e internazionali) della libertà
di impresa, del libero mercato, della trasparenza, della
imparzialità dell’azione amministrativa e della buona
amministrazione;
b) le disposizioni che consentono il ricorso a tale
procedura di affidamento di appalti (e quelle assimilabili:
ad es. varianti, atti aggiuntivi ecc.), devono essere
interpretate restrittivamente, introducendo ipotesi
tassative che costituiscono momento patologico del rapporto
contrattuale risolvendosi in affidamenti diretti senza le
garanzie delle procedura competitiva;
c) i presupposti applicativi di tale straordinaria procedura
devono essere dimostrati in modo rigoroso dalla stazione
appaltante e dall’impresa beneficiaria;
d) la portata dell’obbligo di motivazione si declina,
coerentemente, nel senso che è la scelta della p.a. di
procedere a trattativa che và adeguatamente motivata in
ordine alla sussistenza dei presupposti specifici legali che
di volta in volta la giustificano, mentre, qualora
l’amministrazione si orienti per la procedura competitiva,
non occorre addurre alcuna giustificazione, rientrando ciò
nelle normali opzioni che l’ordinamento considera di per sé
preferibili, anche quando si verifichino in astratto i
presupposti per aggiudicare l’affare mediante procedura
negoziata;
e) la stazione appaltante, anche in extremis, se
rileva che la stipula comporta la violazione di norme
imperative deve immediatamente interrompere la trattativa
privata avviata e annullare gli atti della procedura fin lì
posta in essere; l’ordinamento, invero, esige il ritorno
alla legalità, anche attraverso l’esercizio dei poteri di
autotutela da parte dell’amministrazione, mentre non prende
in considerazione favorevole -sotto il profilo di possibili
pretese risarcitorie- la posizione di coloro che, coinvolti
nella trattativa privata o nella gara finalizzate alla
stipula del contratto che si rilevi contra legem,
abbiano consapevolmente e colposamente aderito
all’iniziativa illegittima dell’amministrazione: in tali
casi non è configurabile una ipotesi di responsabilità
precontrattuale derivante da mancata stipula del contratto
con la conseguente impossibilità di accogliere la domanda di
risarcimento del danno (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 06.12.2012 n. 6256 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Anche
dopo la modifica apportata all'art. 83, comma 4, d.lgs. n.
163 cit., deve ritenersi legittimo l'operato della
Commissione giudicatrice che, prima della apertura delle
buste, specifica in subcriteri i punteggi da assegnare con i
criteri principali prefissati dal bando ovvero integra
questi ultimi ovvero fissa gli opportuni e adeguati criteri
per la modulazione del punteggio da assegnare ad ogni
singolo elemento nei limiti del punteggio massimo stabilito
nei documenti di gara, peraltro sempre con l'unico,
fondamentale ed imprescindibile limite costituito dal
divieto di introdurre nuovi e diversi parametri di
valutazione.
Come affermato nella sentenza del Cons.
Stato Sez. V, 03.07.2012, n. 3888, esiste un consolidato
ed indiscusso principio che vieta la modifica (ivi compresa
l’integrazione) dei criteri di valutazione delle offerte da
parte della commissione giudicatrice.
Infatti, si legge
nella sentenza Cons. Stato Sez. III, 23.12.2011, n.
6804, “anche dopo la modifica apportata all'art. 83, comma 4, d.lgs. n. 163 cit., deve ritenersi legittimo l'operato della
Commissione giudicatrice che, prima della apertura delle
buste, specifica in subcriteri i punteggi da assegnare con i
criteri principali prefissati dal bando ovvero integra
questi ultimi ovvero fissa gli opportuni e adeguati criteri
per la modulazione del punteggio da assegnare ad ogni
singolo elemento nei limiti del punteggio massimo stabilito
nei documenti di gara, peraltro sempre con l'unico,
fondamentale ed imprescindibile limite costituito dal
divieto di introdurre nuovi e diversi parametri di
valutazione" (in tal senso Cons. St. VI, 17.05.2010,
n. 3052 e V, 15.02.2010, n.810).
Nel caso di specie la lex specialis prevedeva, quale
criterio di attribuzione del punteggio, la valutazione della
lunghezza del periodo di manutenzione. L’ulteriore
previsione di valorizzare anche le modalità della
manutenzione non pare configurarsi né come specificazione,
né come integrazione del criterio individuato, ma assume le
vesti, al contrario, di un inammissibile, diverso criterio
di valutazione
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 06.12.2012 n. 1884 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulla segnalazione all'Autorità di vigilanza sui
contratti pubblici e sulla comunicazione di avvio del
procedimento di iscrizione di dati nel casellario
informatico.
La segnalazione all'Autorità di vigilanza sui contratti
pubblici va fatta dalle stazioni appaltanti non solo nel
caso di riscontrato difetto dei requisiti di ordine speciale
in sede di controllo a campione, ma anche in caso di
riscontrato difetto dei requisiti di ordine generale.
La soluzione a cui è pervenuta in via esegetica la
giurisprudenza amministrativa, in applicazione dell'art. 27,
d.P.R. n. 34/2000, trova conferma nel nuovo regolamento di
esecuzione del codice dei contratti pubblici, che,
nell'indicare i dati da iscrivere nel casellario
informatico, sia per le imprese qualificate con il sistema
SOA, sia per le altre imprese, menziona i provvedimenti di
esclusione dalle gare, ai sensi delle vigenti d.P.R. n.
207/2010. Pertanto, la segnalazione da parte della stazione
appaltante e la iscrizione nel casellario informatico erano,
nel caso di specie, legittime, anche se l'esclusione era
avvenuta per difetto di un requisito generale.
---------------
L'avvio del procedimento di iscrizione di dati nel
casellario informatico presso l'Autorità deve essere
notiziato all'interessato, anche quando la trasmissione di
atti al casellario, da parte delle stazioni appaltanti, è
dovuta in adempimento di disposizioni di legge, attese le
conseguenze rilevanti che derivano da tale iscrizione e
l'indubbio interesse del soggetto all'esattezza delle
iscrizioni. Piuttosto, in alcuni casi, si può ritenere che
vi siano equipollenti dell'autonomo avviso di avvio del
procedimento. Così, quanto ai provvedimenti di esclusione,
posto che la loro comunicazione dalla stazione appaltante
all'Osservatorio è dovuta per legge, senza margini di
opinabilità o apprezzamento, si può ritenere che la
comunicazione del provvedimento di esclusione al concorrente
costituisca anche equipollente dell'avviso di avvio del
procedimento di iscrizione nel casellario informatico, che
consegue ex lege. In termini più generali, quando la
legge prescrive in via automatica la segnalazione di
determinati dati all'Osservatorio, senza alcuna possibilità
di valutazione discrezionale in ordine al se della
comunicazione e al contenuto della stessa, si possono, come
regola generale, individuare equipollenti dell'avviso di
avvio del procedimento di iscrizione.
Diverso discorso va svolto per dati la cui comunicazione non
è automatica e dovuta, ma frutto di valutazioni da parte
della stazione appaltante, su dati opinabili: ad es. nel
caso di segnalazione di episodi di grave negligenza o grave
inadempimento, e nel caso di false dichiarazioni. Infatti in
tali casi la stazione appaltante, per effettuare la
segnalazione, deve valutare se vi è o meno grave negligenza,
grave inadempimento, falsità della dichiarazione. Sicché,
l'interessato non può sapere ex ante se e quando tale
valutazione verrà svolta in senso affermativo, e se vi sarà
o meno segnalazione all'Osservatorio. Pertanto, dell'avvio
del procedimento di iscrizione nel casellario va dato avviso
all'interessato, salvo a individuare caso per caso
equipollenti idonei allo scopo (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.12.2012 n. 6210 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
presentazione dell'istanza di condono successivamente
all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce
l'effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento e,
quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta
carenza di interesse; e ciò in quanto il riesame
dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza, sia
pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto
costruito, ex se comporta la necessaria formazione di un
nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale
comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa, dal momento che, in caso di diniego del
richiesto accertamento di conformità, l'Amministrazione
comunale dovrebbe emettere una nuova ordinanza di
demolizione, con fissazione di nuovi termini per
ottemperarvi.
Questa Sezione ha più volte chiarito
che la presentazione dell'istanza di condono successivamente
all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione, produce
l'effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento e,
quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta
carenza di interesse; e ciò in quanto il riesame
dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza, sia
pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto
costruito, ex se comporta la necessaria formazione di un
nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale
comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa, dal momento che, in caso di diniego del
richiesto accertamento di conformità, l'Amministrazione
comunale dovrebbe emettere una nuova ordinanza di
demolizione, con fissazione di nuovi termini per
ottemperarvi (Cfr. fra le più recenti, Consiglio di Stato,
sez. IV, 16.04.2012, n. 2185; 16.09.2011, n. 5228)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.11.2012 n. 6097 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Vanno configurati come
conformativi i vincoli che incidono su di una generalità di
beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di
soggetti, in funzione della destinazione dell’intera zona in
cui i beni medesimi ricadono in dipendenza delle sue
caratteristiche intrinseche, ovvero del rapporto -per lo più
spaziale- con un’opera pubblica; viceversa, si configurano
quali vincoli preordinati all’espropriazione, ovvero aventi
carattere sostanzialmente espropriativo, quelli segnatamente
incidenti su beni determinati ed imposti in funzione non già
di una generale destinazione di zona ma ai fini della
localizzazione di un'opera pubblica, ovvero tali da
implicare uno svuotamento incisivo della proprietà.
In tale contesto la giurisprudenza riconosce invero natura
conformativa –con la conseguenza dell’inapplicabilità in
tale evenienza dell’istituto della decadenza di cui all’art.
2 della L. 1187 del 1968 e, ora, dell’art. 9 del T.U. 327
del 2001- alle destinazioni a “parco urbano”, “verde
pubblico”, “verde urbano” o “verde attrezzato”, posto che,
usualmente, tale destinazione non impedisce ogni possibilità
di utilizzazione dei terreni da parte dei proprietari.
Ciò, peraltro, avviene allorquando le previsioni dello
strumento urbanistico lasciano ferma la possibilità di
realizzare, anche su iniziativa privata o promiscua
pubblico-privata, attrezzature per il gioco dei bambini o
per lo svago, chioschi ed altri simili strutture.
Se viceversa, la disciplina delle N.T.A. consente di
eseguire tali interventi ad esclusiva iniziativa pubblica il
vincolo non può che rivestire la configurazione
espropriativa.
Come è ben noto, in conformità ai criteri individuati da Corte Cost., 20.05.1999 n. 179, vanno configurati come conformativi i
vincoli che incidono su di una generalità di beni, nei
confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in
funzione della destinazione dell’intera zona in cui i beni
medesimi ricadono in dipendenza delle sue caratteristiche
intrinseche, ovvero del rapporto -per lo più spaziale- con
un’opera pubblica; viceversa, si configurano quali vincoli
preordinati all’espropriazione, ovvero aventi carattere
sostanzialmente espropriativo, quelli segnatamente incidenti
su beni determinati ed imposti in funzione non già di una
generale destinazione di zona ma ai fini della
localizzazione di un'opera pubblica, ovvero tali da
implicare uno svuotamento incisivo della proprietà (cfr. sul
punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 23.09.2008
n. 4606).
In tale contesto la giurisprudenza riconosce invero natura
conformativa –con la conseguenza dell’inapplicabilità in
tale evenienza dell’istituto della decadenza di cui all’art.
2 della L. 1187 del 1968 e, ora, dell’art. 9 del T.U. 327
del 2001- alle destinazioni a “parco urbano”, “verde
pubblico”, “verde urbano” o “verde attrezzato” (cfr. sul
punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sezione IV, 19.01.2012
n. 243), posto che, usualmente, tale destinazione non
impedisce ogni possibilità di utilizzazione dei terreni da
parte dei proprietari.
Ciò, peraltro, avviene allorquando le previsioni dello
strumento urbanistico lasciano ferma la possibilità di
realizzare, anche su iniziativa privata o promiscua
pubblico-privata, attrezzature per il gioco dei bambini o
per lo svago, chioschi ed altri simili strutture.
Se viceversa, la disciplina delle N.T.A. consente di
eseguire tali interventi ad esclusiva iniziativa pubblica il
vincolo non può che rivestire la configurazione
espropriativa (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.11.2012 n. 6094 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: In
sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria per
opere ricadenti in zone sottoposte a vincolo, previsto
dall'art. 32 della citata legge n. 47 del 1985, l'esistenza
del vincolo stesso va valutata al momento in cui deve essere
presa in considerazione la domanda di condono, a prescindere
dall'epoca della sua introduzione e, quindi, anche per le
opere eseguite anteriormente all'apposizione del vincolo in
questione.
Infatti, la disposizione di portata generale di cui all'art.
32, comma 1, relativa ai vincoli che appongono limiti
all'edificazione, non reca alcuna deroga ai principi
generali sull'azione amministrativa, sempre improntati
all'art. 97 Cost.. Pertanto essa deve essere interpretata
nel senso che l'obbligo di pronuncia da parte dell'autorità
preposta alla tutela sussiste in relazione alla esistenza
del vincolo al momento in cui deve essere valutata la
domanda di sanatoria, rimanendo irrilevante il tempo in cui
il vincolo è stato introdotto. Tale valutazione corrisponde
all’esigenza di vagliare l'attuale compatibilità, con il
vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente.
Come ha affermato più volte la Sezione, in
sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria per
opere ricadenti in zone sottoposte a vincolo, previsto
dall'art. 32 della citata legge n. 47 del 1985, l'esistenza
del vincolo stesso va valutata al momento in cui deve essere
presa in considerazione la domanda di condono, a prescindere
dall'epoca della sua introduzione e, quindi, anche per le
opere eseguite anteriormente all'apposizione del vincolo in
questione (cfr., per tutte, 30.06.2010, n. 4178; 04.05.2012 n. 2576; 18.09.2012, n. 4945).
Infatti, la disposizione di portata generale di cui all'art.
32, comma 1, relativa ai vincoli che appongono limiti
all'edificazione, non reca alcuna deroga ai principi
generali sull'azione amministrativa, sempre improntati
all'art. 97 Cost.. Pertanto essa deve essere interpretata
nel senso che l'obbligo di pronuncia da parte dell'autorità
preposta alla tutela sussiste in relazione alla esistenza
del vincolo al momento in cui deve essere valutata la
domanda di sanatoria, rimanendo irrilevante il tempo in cui
il vincolo è stato introdotto. Tale valutazione corrisponde
all’esigenza di vagliare l'attuale compatibilità, con il
vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente (cfr. Cons.
Stato, Ad. plen., 22.07.1999 n. 20).
Su questi presupposti, nel caso di specie, il parere
negativo era adeguatamente motivato e dunque legittimo, in
quanto costituisce sufficiente motivazione del diniego di
sanatoria di opere realizzate in zone vincolate
l'indicazione delle ragioni assunte a fondamento della
valutazione di compatibilità dell'intervento edilizio con le
esigenze di tutela paesistica poste a base del relativo
vincolo; in tal senso anche una motivazione scarna e
sintetica, laddove rilevi gli estremi logici
dell'incompatibilità, va considerata soddisfacente (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV 30.06.2005, n. 3542; Id. Sez. IV,
18.09.2012, n. 4945)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.11.2012 n. 6082 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: L'impugnazione
“deve pur sempre ancorarsi a specifici vizi ravvisati con
riferimento alle determinazioni adottate
dall’Amministrazione in ordine al regime dei suoli in
proprietà del ricorrente, e non può fondarsi sul generico
interesse a una migliore pianificazione del proprio suolo,
che in quanto tale non si differenzia dall’eguale interesse
che quisque de populo potrebbe nutrire”, sicché “l’utilità
comunque rappresentata dal possibile vantaggio che
astrattamente il ricorrente potrebbe ottenere per effetto
della riedizione dell’attività amministrativa non è ex se
indicativa della titolarità di una posizione di interesse
giuridicamente qualificata e differenziata, idonea a
legittimare la tutela giurisdizionale”.
In particolare, nella sentenza n. 133/2011, in relazione ad
un vizio procedimentale (l’individuazione dell’autorità
competente al rilascio del parere V.A.S.) il Consiglio di
Stato ha rilevato che, per riconoscere la sussistenza
dell’interesse a ricorrere, occorreva che fosse dimostrato
se e in quale misura le doglianze relative alla fase di
V.A.S. incidessero sul “regime” riservato ai suoli di sua
proprietà (ossia se <<le “determinazioni lesive” fondanti
l’interesse a ricorrere siano effettivamente “condizionate”,
ossia causalmente riconducibili in modo decisivo, alle
preliminari conclusioni raggiunte in sede di V.A.S.>>).
Il Collegio è chiamato, in via preliminare, a
verificare la sussistenza dell’interesse al ricorso in
relazione a tale motivo, con il quale vengono dedotti vizi
di legittimità della procedura di formazione dell’atto tali
da implicarne, ove accolti, l’integrale annullamento.
Infatti, occorre rilevare che, secondo un meno recente
orientamento, si riteneva che:
- l’interesse all’impugnazione di un piano urbanistico non è
riferibile esclusivamente all’immediato vantaggio
conseguibile sul piano della destinazione urbanistica
dell’area di proprietà del ricorrente per effetto
dell’annullamento in parte qua dell’atto impugnato,
potendosi fondare ricorso anche sul vantaggio indiretto ed
eventuale ipotizzabile a seguito della rinnovazione della
procedura conseguente all’annullamento dell’intero atto di
pianificazione urbanistica.
- in simile prospettiva si considerava sufficiente a fondare
un interesse a ricorrere avverso un atto di pianificazione
urbanistica anche il solo interesse strumentale
all’annullamento in vista dei possibili ed auspicati
vantaggi desumibili dal rinnovo della procedura (cfr. Cons.
St., Sez. V, 15.11.2001 n. 5839).
Peraltro, più recentemente si è venuto consolidando presso
il Consiglio di Stato, un più restrittivo orientamento
secondo il quale:
- in tema di procedure di pianificazione urbanistica, dove
“non paiono direttamente trasferibili le ricostruzioni sulla
natura dell’interesse strumentale svolte nell’ambito delle
questioni riguardanti gli atti di una procedura concorsuale
o selettiva. Si tratta di situazioni profondamente
differenti, in quanto, in queste ultime fattispecie, il
ricorrente mira al perseguimento di un’utilità
(aggiudicazione dell’appalto o posizionamento utile in
graduatoria) che l’Amministrazione ha attribuito ad altro
soggetto o ad altri soggetti specificamente individuati,
nell’ambito di una procedura competitiva la cui ripetizione
è ex se suscettibile di formare oggetto di un interesse
giuridicamente qualificato e differenziato, mentre tali
considerazioni non possono estendersi alle pianificazione
urbanistica che, nel caso in specie, potrebbe anche non
essere ripetuta” (cfr. Cons. St., Sez. IV, 12.10.2010 n.
7439 e 13.07.2010, n. 4542);
- l’impugnazione “deve pur sempre ancorarsi a specifici vizi
ravvisati con riferimento alle determinazioni adottate
dall’Amministrazione in ordine al regime dei suoli in
proprietà del ricorrente, e non può fondarsi sul generico
interesse a una migliore pianificazione del proprio suolo,
che in quanto tale non si differenzia dall’eguale interesse
che quisque de populo potrebbe nutrire”, sicché “l’utilità
comunque rappresentata dal possibile vantaggio che
astrattamente il ricorrente potrebbe ottenere per effetto
della riedizione dell’attività amministrativa non è ex se
indicativa della titolarità di una posizione di interesse
giuridicamente qualificata e differenziata, idonea a
legittimare la tutela giurisdizionale” (cfr. Sez. IV
12.01.2011 n. 133 e precedenti ivi richiamati).
In particolare, nella cit. sentenza n. 133 del 2011, in
relazione ad un vizio procedimentale (l’individuazione
dell’autorità competente al rilascio del parere V.A.S.) il
Consiglio di Stato ha rilevato che, per riconoscere la
sussistenza dell’interesse a ricorrere, occorreva che fosse
dimostrato se e in quale misura le doglianze relative alla
fase di V.A.S. incidessero sul “regime” riservato ai suoli
di sua proprietà (ossia se <<le “determinazioni lesive”
fondanti l’interesse a ricorrere siano effettivamente
“condizionate”, ossia causalmente riconducibili in modo
decisivo, alle preliminari conclusioni raggiunte in sede di
V.A.S.>>)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 28.11.2012 n. 1859 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
scelte di pianificazione urbanistica appartengono alla sfera
degli apprezzamenti di merito dell'Amministrazione. La
valutazione dell'idoneità delle aree a soddisfare, con
riferimento alle possibili destinazioni, specifici interessi
urbanistici, rientra nei limiti dell'esercizio del potere
discrezionale dell'Amministrazione, non sindacabile neppure
sotto il profilo di eccesso di potere, a meno che non siano
riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità.
Ne deriva che, in ordine a tali scelte, non sono
ipotizzabili censure di disparità di trattamento basate
sulla comparazione con la destinazione impressa ad immobili
adiacenti, dovendo tali scelte obbedire solo al superiore
criterio di razionalità nella definizione delle linee
dell'assetto territoriale, nell'interesse pubblico alla
sicurezza delle persone e dell'ambiente, e non anche ai
criteri di proporzionalità distributiva degli oneri e dei
vincoli.
---------------
Le osservazioni presentate in occasione dell'adozione di un
nuovo strumento di pianificazione del territorio
costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento
di formazione dello strumento medesimo.
Conseguentemente in capo all'Amministrazione a ciò
competente non sussiste un obbligo puntuale di motivazione
-oltre a quella evincibile dai criteri desunti dalla
relazione illustrativa del piano stesso- in ordine alle
proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione
delle singole aree, tranne i casi di affidamenti qualificati
scaturenti da convenzioni urbanistiche già sottoscritte, di
superamento degli standards minimi di cui al D.M. 02.04.1968
n. 1444, di giudicato conseguente ad annullamento di un
diniego di rilascio di un titolo edilizio o di un silenzio
rifiuto su una domanda di concessione, ovvero di
sopravvenuta inedificabilità di un'area non ancora edificata
e interclusa da altre aree legittimamente edificate.
Deve ricordarsi come,
secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato, le
scelte di pianificazione urbanistica appartengono alla sfera
degli apprezzamenti di merito dell'Amministrazione. La
valutazione dell'idoneità delle aree a soddisfare, con
riferimento alle possibili destinazioni, specifici interessi
urbanistici, rientra nei limiti dell'esercizio del potere
discrezionale dell'Amministrazione, non sindacabile neppure
sotto il profilo di eccesso di potere, a meno che non siano
riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità.
Ne deriva che, in ordine a tali scelte, non sono
ipotizzabili censure di disparità di trattamento basate
sulla comparazione con la destinazione impressa ad immobili
adiacenti, dovendo tali scelte obbedire solo al superiore
criterio di razionalità nella definizione delle linee
dell'assetto territoriale, nell'interesse pubblico alla
sicurezza delle persone e dell'ambiente, e non anche ai
criteri di proporzionalità distributiva degli oneri e dei
vincoli (cfr., relativamente ad impugnazioni volte a
contestare, in chiave comparativa, una ingiustificata
diversità delle destinazioni di zona, Cons. Stato, III, 17.09.2010, n. 2536; IV, 21.04.2010, n. 2264; 18.06.2009, n. 4024;
07.07.2008, n. 3358, TAR
Lombardia sez. II, 06.02.2009 n. 1158).
---------------
Secondo pacifico
orientamento giurisprudenziale (cfr. da ultimo Cons. St..
Sez. IV, 11.09.2012 n. 4806) le osservazioni
presentate in occasione dell'adozione di un nuovo strumento
di pianificazione del territorio costituiscono un mero
apporto dei privati nel procedimento di formazione dello
strumento medesimo.
Conseguentemente in capo
all'Amministrazione a ciò competente non sussiste un obbligo
puntuale di motivazione -oltre a quella evincibile dai
criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano
stesso- in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte
per la destinazione delle singole aree, tranne i casi di
affidamenti qualificati scaturenti da convenzioni
urbanistiche già sottoscritte, di superamento degli standards minimi di cui al D.M.
02.04.1968 n. 1444, di
giudicato conseguente ad annullamento di un diniego di
rilascio di un titolo edilizio o di un silenzio rifiuto su
una domanda di concessione, ovvero di sopravvenuta inedificabilità
di un'area non ancora edificata e interclusa da altre aree
legittimamente edificate (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 28.11.2012 n. 1859 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Ai sensi dell'articolo 1,
n. 3 e 4 della legge 29.06.1939 n. 1497, come poi trasfuso
del testo unico n. 490 del 1999 e nel codice n. 42 del 2004,
le determinazioni dell'amministrazione in tema di
delimitazione dei confini di una zona da sottoporre a
vincolo paesaggistico quale bellezza di insieme costituisce
tipica espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile
in sede di giudizio di legittimità solo sotto il profilo
della manifesta arbitrarietà ed illogicità della scelta
operata.
E’ del tutto evidente che il principio in questione trovi
applicazione (per palese identità di ratio) anche nelle
ipotesi in cui le valutazioni tecnico-discrezionali non
siano state operate nella fase –per così dire– ‘genetica’
dell’apposizione del vincolo, bensì nella fase –per così
dire– ‘funzionale’ della sua concreta gestione (al cui
ambito deve essere ricondotta la richiesta di riduzione del
vincolo all’origine dei fatti di causa).
---------------
L'avvenuta edificazione di un'area o le sue condizioni di
degrado non costituiscono ragione sufficiente per recedere
dall'intento di proteggere i valori estetici o paesaggistici
ad essa legati, poiché l'imposizione del vincolo costituisce
il presupposto per l'imposizione al proprietario delle
cautele e delle opere necessarie alla conservazione del bene
e per la cessazione degli usi incompatibili con la
conservazione dell'integrità dello stesso.
Siccome la qualificazione di rilevanza
paesaggistico-ambientale di un sito non è determinata dal
suo grado di degrado o di inquinamento -ché, allora, in
tutti i casi di degrado ambientale sarebbe preclusa ogni
ulteriore protezione del paesaggio riconosciuto meritevole
di tutela- ne consegue che l’imposizione (o il mantenimento)
del relativo vincolo –ovvero l’emanazione di atti preclusivi
di ulteriori modifiche dello stato dei luoghi- serve
piuttosto a prevenire l’aggravamento della situazione ed a
perseguirne il possibile recupero.
Ora, sotto il profilo generale, il Collegio ritiene che la vicenda di
causa debba essere esaminata facendo applicazione del
principio (dal quale non si rinvengono ragioni per
discostarsi) secondo cui, ai sensi dell'articolo 1, n. 3 e 4
della legge 29.06.1939 n. 1497, come poi trasfuso del
testo unico n. 490 del 1999 e nel codice n. 42 del 2004, le
determinazioni dell'amministrazione in tema di delimitazione
dei confini di una zona da sottoporre a vincolo
paesaggistico quale bellezza di insieme costituisce tipica
espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile in sede
di giudizio di legittimità solo sotto il profilo della
manifesta arbitrarietà ed illogicità della scelta operata
(in tal senso: Cons. Stato, IV, 20.03.2006, n. 1470).
E’ del tutto evidente che il principio in questione trovi
applicazione (per palese identità di ratio) anche nelle
ipotesi in cui le valutazioni tecnico-discrezionali non
siano state operate nella fase –per così dire– ‘genetica’
dell’apposizione del vincolo, bensì nella fase –per così
dire– ‘funzionale’ della sua concreta gestione (al cui
ambito deve essere ricondotta la richiesta di riduzione del
vincolo all’origine dei fatti di causa).
---------------
Quanto al terzo aspetto,
il Collegio ritiene di richiamare il consolidato (e qui
condiviso) orientamento, già sopra richiamato, secondo cui
l'avvenuta edificazione di un'area o le sue condizioni di
degrado non costituiscono ragione sufficiente per recedere
dall'intento di proteggere i valori estetici o paesaggistici
ad essa legati, poiché l'imposizione del vincolo costituisce
il presupposto per l'imposizione al proprietario delle
cautele e delle opere necessarie alla conservazione del bene
e per la cessazione degli usi incompatibili con la
conservazione dell'integrità dello stesso (cfr. Cons. Stato, VI, 11.06.2012, n. 3401).
Si è condivisibilmente osservato al riguardo che, siccome la
qualificazione di rilevanza paesaggistico-ambientale di un
sito non è determinata dal suo grado di degrado o di
inquinamento -ché, allora, in tutti i casi di degrado
ambientale sarebbe preclusa ogni ulteriore protezione del
paesaggio riconosciuto meritevole di tutela- ne consegue
che l’imposizione (o il mantenimento) del relativo vincolo –ovvero l’emanazione di atti preclusivi di ulteriori
modifiche dello stato dei luoghi- serve piuttosto a
prevenire l’aggravamento della situazione ed a perseguirne
il possibile recupero (Cons. Stato, VI, 27.04.2010, n. 2377)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.11.2012 n. 5989 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La funzione
dell’autorizzazione di cui all’art. 146 d.lgs. n. 42 del
2004 (è) quella di verificare la compatibilità dell’opera
che si intende realizzare con l’esigenza di conservazione
dei valori protetti dal vincolo.
---------------
L'annullamento dell'autorizzazione paesistica disposto in
sede ministeriale ex art. 159 d.lgs. n. 42 del 2004, non è
soggetto all'obbligo di comunicazione preventiva del
"preavviso" di rigetto ex art. 10-bis, legge n. 241/1990,
come introdotto dalla legge 11.02.2005, n. 11, in quanto
costituisce esercizio, entro un termine decadenziale, di un
potere che integra una fase ulteriore, di secondo grado, del
medesimo procedimento svolto, in prima battuta, davanti
all’Amministrazione comunale.
---------------
Il procedimento di cogestione del vincolo da parte della
Soprintendenza è connotato da particolare celerità e
l'adempimento procedimentale di cui all'art. 10-bis citato è
in contraddizione con la logica di tale sub procedimento,
dai tempi stretti e perentori. Per effetto dell’adempimento
stesso, il termine già breve dato alla Soprintendenza per il
controllo di legittimità ad essa demandato verrebbe
ulteriormente ridotto, vanificandone la celerità in danno
dello stesso interessato, dato che la comunicazione
interrompe il termine per la conclusione del procedimento.
La legge prevede il preavviso solo "nei procedimenti ad
istanza di parte" e non trova applicazione per questa
sequenza di secondo grado che è avviata d'ufficio e che, pur
configurando un secondo tratto di un'unica vicenda
amministrativa di cogestione del vincolo, segue la cesura
procedimentale del già avvenuto rilascio del provvedimento
di base che conclude la fase ad istanza di parte (mentre la
fase soprintendentizia concreta una sequenza officiosa,
avviata con la trasmissione degli atti da parte del Comune).
In particolare, come esattamente rileva la motivazione del
provvedimento impugnato in primo grado, “la funzione
dell’autorizzazione di cui all’art. 146 d.lgs. n. 42 del
2004 (è) quella di verificare la compatibilità dell’opera
che si intende realizzare con l’esigenza di conservazione
dei valori protetti dal vincolo”.
---------------
L'annullamento
dell'autorizzazione paesistica disposto in sede ministeriale
ex art. 159 d.lgs. n. 42 del 2004, non è infatti soggetto
all'obbligo di comunicazione preventiva del "preavviso" di
rigetto ex art. 10-bis, legge n. 241 citata, come introdotto
dalla legge 11.02.2005, n. 11, in quanto costituisce
esercizio, entro un termine decadenziale, di un potere che
integra una fase ulteriore, di secondo grado, del medesimo
procedimento svolto, in prima battuta, davanti
all’Amministrazione comunale.
Come ha già rilevato questo Consiglio di Stato (sez. VI, 20.12.2011, n. 6275), il procedimento di cogestione del
vincolo da parte della Soprintendenza è connotato da
particolare celerità e l'adempimento procedimentale di cui
all'art. 10-bis citato è in contraddizione con la logica di
tale sub procedimento, dai tempi stretti e perentori. Per
effetto dell’adempimento stesso, il termine già breve dato
alla Soprintendenza per il controllo di legittimità ad essa
demandato verrebbe ulteriormente ridotto, vanificandone la
celerità in danno dello stesso interessato, dato che la
comunicazione interrompe il termine per la conclusione del
procedimento. La legge prevede il preavviso solo "nei
procedimenti ad istanza di parte" e non trova applicazione
per questa sequenza di secondo grado che è avviata d'ufficio
e che, pur configurando un secondo tratto di un'unica
vicenda amministrativa di cogestione del vincolo, segue la
cesura procedimentale del già avvenuto rilascio del
provvedimento di base che conclude la fase ad istanza di
parte (mentre la fase soprintendentizia concreta una
sequenza officiosa, avviata con la trasmissione degli atti
da parte del Comune)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.11.2012 n. 5977 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Quei volumi destinati esclusivamente agli
impianti necessari per l’utilizzo dell’abitazione e che non
possono essere ubicati al suo interno -nel caso di specie
impianti di areazione e termo–idrici, l’impianto
dell’ascensore e del montacarichi- devono essere considerati
volumi tecnici, quindi non computabili nella volumetria
generale, a differenza di quanto si deve affermare per le
soffitte, gli stenditoi e i locali di sgombero o le mansarde
dotate di rilevante altezza media rispetto al piano di
gronda.
Inoltre la rilevanza urbanistica deve essere rinvenuta
nell’altezza interna, nella praticabilità del solaio, nelle
modalità di accesso e nell’esistenza o meno di finestre, con
la conseguenza, ad esempio, che un locale sottotetto con
vani distinti e comunicanti con il piano sottostante con una
scala interna deve essere ritenuto abitabile e dunque
computabile ai fini della volumetria.
Il Collegio ritiene che il sottotetto non sia da considerarsi rilevante,
viste le sue caratteristiche, che non sono contestate, e
tenendo conto delle affermazioni espresse dalla
giurisprudenza.
Quei volumi destinati esclusivamente agli impianti necessari
per l’utilizzo dell’abitazione e che non possono essere
ubicati al suo interno -nel caso di specie impianti di
areazione e termo–idrici, l’impianto dell’ascensore e del
montacarichi- devono essere considerati volumi tecnici,
quindi non computabili nella volumetria generale, a
differenza di quanto si deve affermare per le soffitte, gli
stenditoi e i locali di sgombero o le mansarde dotate di
rilevante altezza media rispetto al piano di gronda (Cons.
Stato, V, 04.03.2008 n. 918).
Inoltre la rilevanza urbanistica, ha ancora affermato la
giurisprudenza, deve essere rinvenuta nell’altezza interna,
nella praticabilità del solaio, nelle modalità di accesso e
nell’esistenza o meno di finestre (Cons. Stato, IV, 30.05.2005 n. 2767), con la conseguenza, ad esempio, che un
locale sottotetto con vani distinti e comunicanti con il
piano sottostante con una scala interna deve essere ritenuto
abitabile e dunque computabile ai fini della volumetria
(Cons. Stato,V, 31.01.2006 n. 354).
Nel caso di specie il sottotetto è privo di scale ed anche
di finestre o di luci, né l’ipotetica abusiva futura
realizzazione di scale, come affermato nella sentenza
impugnata, può essere utile per quanto meno delineare la
concretezza di un peso urbanistico (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.11.2012 n. 5965 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il Collegio ritiene di condividere l’orientamento
maggioritario che esclude la regola pretoria della
"sanatoria giurisprudenziale".
E, infatti, nel senso di una rigorosa applicazione del
canone della doppia conformità militano argomenti
interpretativi sia di carattere letterale che
logico-sistematico.
L'art. 36, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 espressamente
stabilisce che, "in caso di interventi realizzati in assenza
di permesso di costruire , o in difformità da esso, fino
alla scadenza dei termini di cui agli artt. 31, comma 3, 33,
comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle
sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o
l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il
permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento
della realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda".
Il tenore letterale della norma è inequivoco nel riferire il
requisito della conformità urbanistico-edilizia dell'opera
abusiva "sia" al momento della sua realizzazione "sia" al
momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Orbene, a fronte di siffatto dettato normativo, non appare
condivisibile l'approccio ermeneutico elaborato dal
Consiglio di Stato nella sentenza n. 2835/2009 secondo il
quale il canone della doppia conformità sarebbe preordinato
a garantire il richiedente dalla possibile variazione in
peius della disciplina urbanistico-edilizia, a seguito di
adozione di strumenti che riducano o escludano il diritto di
edificare sussistente al momento dell'istanza, mentre non
potrebbe ritenersi diretto a disciplinare l'ipotesi inversa
dello ius superveniens favorevole, rispetto al momento
ultimativo della proposizione dell'istanza.
E, infatti, una simile interpretazione abroga l'inciso "sia
al momento della realizzazione dello stesso" (e cioè
dell'immobile abusivo), mentre il legislatore, con
l'espressione "sia al momento della realizzazione dello
stesso, sia al momento della presentazione della domanda",
ha inteso chiaramente individuare l'intero arco temporale
lungo il quale si è protratto l'abuso edilizio commesso,
senza che il relativo responsabile si sia attivato per
regolarizzarlo.
Il Collegio evidenzia inoltre che l'istituto
dell'accertamento di conformità è stato introdotto,
nell'ambito di una revisione complessiva del regime
sanzionatorio degli illeciti edilizi, orientata nel senso di
una maggiore severità, con l'intento di consentire la
sanatoria dei soli abusi meramente formali, cioè di quelle
costruzioni per le quali, sussistendo ogni altro requisito
di legge e regolamento, manchi solo il necessario titolo
abilitativo. Tale interpretazione è vieppiù rafforzata dalla
considerazione che alla sanabilità degli abusi sostanziali è
dedicato il diverso istituto del condono edilizio nei
limiti, in specie temporali, in cui quest'ultimo sia
applicabile alla fattispecie concreta considerata.
Tanto premesso, se si accedesse alla tesi prospettata
dall’Amministrazione resistente e dal controinteressati, ne
conseguirebbe l'introduzione nell'ordinamento di una sorta
di condono atipico, affrancato dai richiamati limiti
temporali, condono mediante il quale il responsabile di un
abuso sostanziale potrebbe trovarsi a beneficiare degli
effetti indirettamente sananti di un più favorevole ius
superveniens, anziché di un'apposita disciplina legislativa
condonistica.
Alla luce delle suesposte considerazioni il Collegio
ritiene, quindi, che l'art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, in
quanto norma circoscritta alle ipotesi di abusi meramente
formali e derogatoria al principio per il quale i lavori
realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte
misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è suscettibile
né di applicazione analogica né di un'interpretazione
riduttiva, secondo la quale, in evidente contrasto col suo
tenore letterale, per assentire la sanatoria sarebbe
sufficiente la conformità delle opere con lo strumento
urbanistico vigente all'epoca in cui sia proposta l'istanza
di accertamento. A contrario, stante l'evidenziata portata
speciale e derogatoria della norma in esame, la sanabilità
da essa prevista postula sempre la conformità
urbanistico-edilizia dell'intervento sine titulo alla
disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua
realizzazione sia alla data della presentazione della
domanda.
---------------
Non appare condivisibile l'argomento secondo il quale
bisognerebbe accogliere l'istanza di sanatoria per tutti
quei manufatti che potrebbero essere realizzati sulla base
della disciplina urbanistica vigente al momento della
proposizione della predetta istanza, sebbene non conformi
alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione,
al fine di evitare uno spreco di attività inutili, sia
dell'amministrazione sia del privato.
Ad avviso del Collegio, infatti, merita di essere condiviso
quell'orientamento della giurisprudenza secondo il quale il
punto di equilibrio fra efficienza e legalità, è stato
individuato dal legislatore nel consentire la sanatoria dei
cosiddetti abusi formali, sottraendo alla demolizione le
opere che risultino rispettose della disciplina sostanziale
sull'utilizzo del territorio vigente sia al momento
dell'istanza di sanatoria, che all'epoca della loro
realizzazione.
Il Collegio ritiene di non aderire alla
tesi sostenuta dal’Amministrazione resistente e dal controinteressato, sebbene pregevolmente argomentata e
supportata da un autorevole orientamento giurisprudenziale
(cfr. Cons. Stato, VI, 06.02.2003, n. 592; Cons. Stato, VI,
12.11.2008, n. 5646; Cons. Stato, VI, 07.05.2009, n. 2835), e
di condividere, invece, l’orientamento maggioritario che
esclude la regola pretoria della "sanatoria
giurisprudenziale" (cfr. Cons. Stato, IV, 26.04.2006, n.
2306; Cons. Stato, 17.09.2007, n. 4838; Cons. Stato, V,
25.02.2009, n. 1126; Cons. Stato, IV, 02.11.2009, n. 6784; TAR
Veneto, II, 22.11.2010, n. 6091; TAR Sicilia, Catania, I,
09.01.2009, n. 5; TAR Campania, Napoli, VIII, 10.09.2010, n.
17398).
E, infatti, nel senso di una rigorosa applicazione
del canone della doppia conformità militano argomenti
interpretativi sia di carattere letterale che logico-sistematico.
L'art. 36, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 espressamente
stabilisce che, "in caso di interventi realizzati in assenza
di permesso di costruire , o in difformità da esso, fino
alla scadenza dei termini di cui agli artt. 31, comma 3, 33,
comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle
sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o
l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il
permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento
della realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda".
Il tenore letterale della norma è inequivoco nel
riferire il requisito della conformità urbanistico-edilizia
dell'opera abusiva "sia" al momento della sua realizzazione
"sia" al momento della presentazione della domanda di
sanatoria.
Orbene, a fronte di siffatto dettato normativo, non appare
condivisibile l'approccio ermeneutico elaborato dal
Consiglio di Stato nella sentenza n. 2835/2009 secondo il
quale il canone della doppia conformità sarebbe preordinato
a garantire il richiedente dalla possibile variazione in peius della disciplina urbanistico-edilizia, a seguito di
adozione di strumenti che riducano o escludano il diritto di
edificare sussistente al momento dell'istanza, mentre non
potrebbe ritenersi diretto a disciplinare l'ipotesi inversa
dello ius superveniens favorevole, rispetto al momento
ultimativo della proposizione dell'istanza.
E, infatti, una simile interpretazione abroga l'inciso "sia
al momento della realizzazione dello stesso" (e cioè
dell'immobile abusivo), mentre il legislatore, con
l'espressione "sia al momento della realizzazione dello
stesso, sia al momento della presentazione della domanda",
ha inteso chiaramente individuare l'intero arco temporale
lungo il quale si è protratto l'abuso edilizio commesso,
senza che il relativo responsabile si sia attivato per
regolarizzarlo.
Il Collegio evidenzia inoltre che l'istituto
dell'accertamento di conformità è stato introdotto,
nell'ambito di una revisione complessiva del regime
sanzionatorio degli illeciti edilizi, orientata nel senso di
una maggiore severità, con l'intento di consentire la
sanatoria dei soli abusi meramente formali, cioè di quelle
costruzioni per le quali, sussistendo ogni altro requisito
di legge e regolamento, manchi solo il necessario titolo
abilitativo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 29.05.2006, n. 3267).
Tale interpretazione è vieppiù rafforzata dalla
considerazione che alla sanabilità degli abusi sostanziali è
dedicato il diverso istituto del condono edilizio nei
limiti, in specie temporali, in cui quest'ultimo sia
applicabile alla fattispecie concreta considerata.
Tanto premesso, se si accedesse alla tesi prospettata
dall’Amministrazione resistente e dal controinteressati, ne
conseguirebbe l'introduzione nell'ordinamento di una sorta
di condono atipico, affrancato dai richiamati limiti
temporali, condono mediante il quale il responsabile di un
abuso sostanziale potrebbe trovarsi a beneficiare degli
effetti indirettamente sananti di un più favorevole ius
superveniens, anziché di un'apposita disciplina legislativa
condonistica (cfr. in termini TAR Campania, Napoli, sez.
VIII, 10.9.2010, n. 17398).
Alla luce delle suesposte considerazioni il Collegio
ritiene, quindi, che l'art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, in
quanto norma circoscritta alle ipotesi di abusi meramente
formali e derogatoria al principio per il quale i lavori
realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte
misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è suscettibile
né di applicazione analogica né di un'interpretazione
riduttiva, secondo la quale, in evidente contrasto col suo
tenore letterale, per assentire la sanatoria sarebbe
sufficiente la conformità delle opere con lo strumento
urbanistico vigente all'epoca in cui sia proposta l'istanza
di accertamento. A contrario, stante l'evidenziata portata
speciale e derogatoria della norma in esame, la sanabilità
da essa prevista postula sempre la conformità urbanistico-edilizia dell'intervento
sine titulo alla
disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua
realizzazione sia alla data della presentazione della
domanda (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838;
Cons. Stato, sez. IV, 02.11.2009, n. 6784).
Né, infine, appare condivisibile l'argomento secondo il
quale bisognerebbe accogliere l'istanza di sanatoria per
tutti quei manufatti che potrebbero essere realizzati sulla
base della disciplina urbanistica vigente al momento della
proposizione della predetta istanza, sebbene non conformi
alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione,
al fine di evitare uno spreco di attività inutili, sia
dell'amministrazione sia del privato.
Ad avviso del Collegio, infatti, merita di essere
condiviso quell'orientamento della giurisprudenza secondo il
quale il punto di equilibrio fra efficienza e legalità, è
stato individuato dal legislatore nel consentire la
sanatoria dei cosiddetti abusi formali, sottraendo alla
demolizione le opere che risultino rispettose della
disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio vigente
sia al momento dell'istanza di sanatoria, che all'epoca
della loro realizzazione (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII,
10.09.2010, n. 17398; TAR Sicilia, Catania, sez. I,
09.01.2009, n. 5)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza
26.11.2012 n. 4796 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Nozione di difformità totale.
L'espressione «organismo edilizio» indica sia una
sola unità immobiliare, sia una pluralità di porzioni
volumetriche e la difformità totale può riconnettersi sia
alla costruzione di un corpo autonomo, sia all'effettuazione
di modificazioni con opere anche soltanto interne tali da
comportare un intervento che abbia rilevanza urbanistica in
quanto incidente sull’assetto del territorio attraverso
l'aumento del c.d. «carico urbanistico». Difformità
totale può aversi, inoltre, anche nel caso di mutamento
della destinazione d'uso di un immobile o di parte di esso,
realizzato attraverso opere implicanti una totale
modificazione rispetto al previsto.
Inoltre, il riferimento alla «autonoma utilizzabilità»
non impone che il corpo difforme sia fisicamente separato
dall'organismo edilizio complessivamente autorizzato, ma ben
può riguardare anche opere realizzate con una difformità
quantitativa tale da acquistare una sostanziale autonomia
rispetto al progetto approvato.
Dunque, la difformità totale si verifica allorché si
costruisca «aliud pro alio» quando, cioè, i lavori
eseguiti tendano a realizzare opere non rientranti tra
quelle consentite, che abbiano una loro autonomia e novità,
oltre che sul piano costruttivo, anche su quello della
valutazione economico-sociale (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.11.2012 n. 45821
- tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Tettoia a copertura di un terrazzo.
Va esclusa la natura di pertinenza della tettoia di
copertura di un terrazzo in quanto priva del requisito della
individualità fisica e strutturale propria, appunto, della
pertinenza e costituendo tale manufatto parte integrante
dell'edificio sul quale viene realizzato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.11.2012 n. 45819 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’ordinanza di
demolizione costituisce un provvedimento dovuto e
rigorosamente vincolato in quanto volto a sanzionare opere
costruite senza il prescritto titolo edilizio, con
riferimento al quale non sono richiesti apporti
partecipativi del destinatario sicché non abbisogna della
preliminare comunicazione di avvio del procedimento ai sensi
dell’art. 7 della legge 241/1990.
Presupposto per l’adozione dell'ordine di demolizione di
opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un
intervento edilizio in assenza del prescritto titolo
abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un
atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con
l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una
particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico
alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato,
e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
---------------
In sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere
edilizie abusive su area vincolata non è necessario
acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal
momento che l'ordine di ripristino discende direttamente
dall'applicazione della disciplina edilizia vigente e non
costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti
dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio. Ed
ancora, in sede di emanazione di ordinanza di demolizione
delle opere edilizie abusive su area vincolata non è
necessario acquisire il parere della Commissione Edilizia
Integrata dal momento che l'ordine di ripristino discende
direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia
vigente ... e in quanto non vi è alcun obbligo di far luogo
ad accertamenti di danni ambientali, ovvero di applicazione
di sanzioni pecuniarie alternative.
A seguito dell'entrata in vigore della l. 28.01.1977 n. 10,
la quale ha previsto la vincolante obbligatorietà
dell'ordine di demolizione degli edifici abusivi, non è più
necessaria l'acquisizione del parere della Commissione
edilizia comunale ai sensi dell'art. 32, comma 3, l.
17.08.1942 n. 1150, il quale era giustificato, nel
previgente ordinamento, appunto dalla natura discrezionale
di detto ordine.
In ordine al terzo motivo di ricorso, non merita
positiva delibazione la doglianza con la quale viene
sollevata l’illegittimità del provvedimento per la mancata
comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7
della legge 241/1990, giacché l’ordinanza in questione
costituisce un provvedimento dovuto e rigorosamente
vincolato in quanto volto a sanzionare opere costruite senza
il prescritto titolo edilizio, con riferimento al quale non
sono richiesti apporti partecipativi del destinatario, tanto
più che l’interessato non ha rappresentato neppure in sede
di ricorso, argomentazioni idonee a determinare un diverso
esito del procedimento (si veda, tra le molte, TAR
Liguria, Genova, sez. I, 08.06.2009 n. 11289).
Parimenti infondata è la censura di carenza di
motivazione (quarto motivo) sotto l’ulteriore profilo
dell’interesse pubblico alla demolizione. Come costantemente
affermato dalla giurisprudenza di questo Tribunale che
questo Collegio condivide “…presupposto per l’adozione
dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la
constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza
del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che,
essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente
motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di
una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico
alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato,
e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi”
(fra molte, TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 1999).
Va pure respinta la censura di violazione dell’art. 82
della legge 616/1997 e della legge regionale 10/1982,
articolata con il terzo motivo di doglianza, con la quale il
ricorrente ha censurato la mancata acquisizione del parere
della Commissione Edilizia Integrata.
Infatti, come costantemente ribadito in giurisprudenza, “...
in sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere
edilizie abusive su area vincolata non è necessario
acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal
momento che l'ordine di ripristino discende direttamente
dall'applicazione della disciplina edilizia vigente e non
costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti
dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio”
(così, da ultimo, TAR Liguria, Genova, sez. I, 21.09.2011, n. 1393, nello stesso senso vedi pure TAR
Campania, Napoli, sez. VI, 05.03.2012, secondo cui “…in
sede di emanazione di ordinanza di demolizione delle opere
edilizie abusive su area vincolata non è necessario
acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal
momento che l'ordine di ripristino discende direttamente
dall'applicazione della disciplina edilizia vigente ... e in
quanto non vi è alcun obbligo di far luogo ad accertamenti
di danni ambientali, ovvero di applicazione di sanzioni
pecuniarie alternative”).
Va infine respinta la censura di violazione dell’art.
32 della legge 1150/1942 e dell’art. 15 della legge 10/1977,
articolata con il sesto motivo di doglianza, con la quale il
ricorrente ha censurato la mancata acquisizione del parere
della Commissione Edilizia Comunale.
Infatti, a seguito dell'entrata in vigore della l. 28.01.1977 n. 10, la quale ha previsto la vincolante
obbligatorietà dell'ordine di demolizione degli edifici
abusivi, non è più necessaria l'acquisizione del parere
della Commissione edilizia comunale ai sensi dell'art. 32,
comma 3, l. 17.08.1942 n. 1150, il quale era
giustificato, nel previgente ordinamento, appunto dalla
natura discrezionale di detto ordine (cfr., TAR Campania
Napoli, sez. VI, 24.09.2009, n. 5071 e sez. III, 05.06.2008, n. 5255, TAR Lazio Roma, sez. II, 11.09.2009,
n. 8644)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza
22.11.2012 n. 4735 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Le strutture alberghiere
in generale devono essere annoverate tra gli "edifici ed
impianti … di interesse pubblico" e, quindi, essere
ricomprese nell'ambito di applicazione dell'art. 14 del DPR
06.06.2001 n. 380 (permesso di costruire in deroga agli
strumenti urbanistici generali) "trattandosi di un servizio
offerto alla collettività, caratterizzato da una pubblica
fruibilità, con la correlativa possibilità di concessioni in
deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici in
vigore".
Nel caso in cui il territorio interessato possieda una
spiccata vocazione turistica, la riconduzione all'interesse
pubblico dell'edificio alberghiero non concerne affatto
un'interpretazione estensiva perché le strutture alberghiere
offrono un servizio alla collettività che è caratterizzato
da una pubblica fruibilità e che soddisfa un'importante e
rilevante esigenza della collettività.
In linea generale si deve ricordare che l'art. 14 del DPR 06.06.2001
n. 380 prevede testualmente che "Il permesso di costruire in
deroga agli strumenti urbanistici generali è rilasciato
esclusivamente per edifici ed impianti pubblici o di
interesse pubblico, previa deliberazione del consiglio
comunale, nel rispetto comunque delle disposizioni contenute
nel decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, e delle
altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina
dell'attività edilizia".
Al riguardo la Sezione ha da tempo affrontato, e risolto, la
più generale questione dell'applicazione della predetta
deroga, affermando in particolare che le strutture
alberghiere in generale devono essere annoverate tra gli
"edifici ed impianti … di interesse pubblico" e quindi
essere ricomprese nell'ambito di applicazione dell'anzidetta
previsione "trattandosi di un servizio offerto alla
collettività, caratterizzato da una pubblica fruibilità, con
la correlativa possibilità di concessioni in deroga alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici in vigore" (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 29.10.2002 n. 5913; Consiglio
Stato, sez. IV, 28.10.1999, n. 1641).
Nel caso in cui il territorio interessato possieda una
spiccata vocazione turistica, la riconduzione all'interesse
pubblico dell'edificio alberghiero non concerne affatto
un'interpretazione estensiva perché le strutture alberghiere
offrono un servizio alla collettività che è caratterizzato
da una pubblica fruibilità e che soddisfa un'importante e
rilevante esigenza della collettività.
In definitiva del tutto legittimamente l’Amministrazione
Comunale ha ritenuto possibile inserire le strutture
alberghiere, tra gli edifici ed impianti pubblici di
interesse pubblico che danno titolo alla possibilità di
rilasciare il permesso di costruire in deroga agli strumenti
urbanistici generali ex art. 14 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.11.2012 n. 5904 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Ordinanze contingibili e urgenti. Vana
l'ordinanza del sindaco senza pericoli gravi per
l'incolumità o l'ordine pubblico.
Illegittima, per difetto dei presupposti
previsti dagli artt. 50 e 54, D.Lgs. n. 267/2000,
un'ordinanza contingibile e urgente con la quale il Sindaco
ha ingiunto la rimozione di una sbarra di impedimento di
transito installata su un'area privata, asseritamente di uso
pubblico, nel caso in cui il provvedimento extra ordinem sia
sostanzialmente diretto a evitare la limitazione dell'uso
pubblico, senza alcuna prospettazione in merito alla
sussistenza di pericoli gravi per l'ordine pubblico ovvero
per la pubblica incolumità.
Il deducente ha impugnato l’ordinanza con cui il Sindaco del
Comune di residenza aveva lui ingiunto l’immediata rimozione
di una sbarra di impedimento al traffico posizionata dallo
stesso su una strada ritenuta di proprietà privata e non di
uso pubblico.
Segnatamente, ha esposto di aver collocato il contestato
paletto per impedire ai proprietari confinanti di usufruire
sine titulo del passaggio sul proprio appezzamento.
Insorto avverso la predetta ordinanza, il ricorrente ha
dedotto la violazione e falsa applicazione degli artt. 50 e
54, T.U.E.L. a cagione dell’inesistenza dei presupposi ex
lege previsti per l’adozione del menzionato
provvedimento sindacale.
In particolare, ha precisato non solo la circostanza per cui
la strada interessata non era destinata all’uso pubblico, ma
anche -e soprattutto- che la confinante avrebbe potuto
raggiungere la propria masseria attraverso l’esistente
strada comunale.
Parallelamente, ha spiegato domanda risarcitoria al fine di
conseguire il ristoro dei danni derivati dalla mancata,
libera tutela della proprietà privata.
La civica P.A., da par sua, ha opposto che l’impugnata
ordinanza sindacale era stata adottata sulla base del motivo
per cui lo sbarramento realizzato dal ricorrente aveva
determinato la limitazione dell’esercizio di una via
pubblica, rispetto alla quale la rimozione di detta
limitazione avrebbe rivestito “carattere di urgenza e
indifferibilità".
Il TAR de l’Aquila, in primis, ha evidenziato che il
contestato provvedimento era stato adottato sulla base di
una presunta limitazione dell’esercizio pubblico di un bene
demaniale, senza alcuna ulteriore prospettazione di pericoli
gravi per l’ordine pubblico ovvero per la pubblica
incolumità che, invero, l’impugnata ordinanza contingibile e
urgente avrebbe dovuto scongiurare.
Dunque, a opinione del giudicante, è risultata palese
l’incongruità dello strumento adottato rispetto allo scopo
che esplicitamente il provvedimento intendeva perseguire.
In realtà, ha precisato che, in linea di principio,
l’ordinanza contingibile e urgente costituisce strumento
extra ordinem utilizzabile, nei casi previsti dalla
legge e resi espliciti dal testo motivazionale del
provvedimento, ove non sia possibile ottenere lo stesso
effetto con gli altri mezzi a disposizione dell’ordinamento.
Orbene, avuto riguardo alla vicenda, il TAR abruzzese ha
rilevato che, ove la strada fosse stata effettivamente di
uso pubblico, il Comune avrebbe potuto utilizzare gli
strumenti propri dell’autotutela possessoria, nel rispetto
delle garanzie procedimentali e delle competenze ordinarie e
non il diverso strumento dell’ordinanza contingibile e
urgente in assenza di pericoli gravi all’ordine e alla
sicurezza pubblici.
Sicché, ha concluso ritenendo che proprio la circostanza per
cui la strada era di uso pubblico, avrebbe consentito
interventi più puntuali e non “eccentrici” per la
tutela dell’interesse alla sua pubblica fruizione.
Né siffatta motivazione avrebbe potuto recuperarsi ex post
dall’assunto opposto dalla P.A. in corso di causa, secondo
cui l’interruzione del passaggio di quel tratto di strada,
destinato al pubblico uso e liberamente transitabile dalla
collettività, avrebbe rappresentato un pericolo grave che
minacciava l’incolumità dei cittadini, limitando il transito
ai mezzi di pubblica sicurezza, di pronto intervento e di
chiunque avesse voluto esercitare un servizio per la
collettività.
In realtà, il Collegio ha osservato che l’esame dello stato
dei luoghi ha rivelato che la strada in questione era
accessibile e utilizzabile unicamente dai proprietari dei
fondi interessati dal tracciato, circostanza, quest’ultima,
che ha fatto retrocedere la controversia a questione
meramente civilistica.
Alla stregua di siffatte considerazioni, il TAR de l’Aquila
ha dichiarato l’assoluta inutilizzabilità dello strumento
extra ordinem per ottenere l’effetto inteso e, così,
l’illegittimità dell’emanata ordinanza.
Al contempo, ha respinto la domanda risarcitoria formulata
dal ricorrente in quanto ritenuta priva di idonea
allegazione e prova circa i danni asseritamente patiti per
effetto dell’impugnato provvedimento demolitorio (comemnto
tratto da www.ispoa.it - TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 20.11.2012 n. 789 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
In sede di risarcimento
del danno derivante da procedimento amministrativo
illegittimo, il privato danneggiato può limitarsi ad
invocare l’illegittimità dell’atto quale indice presuntivo
della colpa, perché resta ognora a carico
dell’Amministrazione l’onere di dimostrare che si è trattato
di un errore scusabile derivante da contrasti
giurisprudenziali sull’interpretazione della norma o dalla
complessità dei fatti, ovvero ancora dal comportamento delle
parti del procedimento.
Quanto al profilo (generale) dell’ascrizione della colpa, è
agevole osservare, in consonanza con la prevalente
giurisprudenza di questo Consiglio, che, in sede di
risarcimento del danno derivante da procedimento
amministrativo illegittimo, il privato danneggiato può
limitarsi ad invocare l’illegittimità dell’atto quale indice
presuntivo della colpa, perché resta ognora a carico
dell’Amministrazione l’onere di dimostrare che si è trattato
di un errore scusabile derivante da contrasti
giurisprudenziali sull’interpretazione della norma o dalla
complessità dei fatti, ovvero ancora dal comportamento delle
parti del procedimento (cfr. tra le tante sez. V, n. 4527
del 2009 e n. 3815 del 2011) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.11.2012 n. 5761 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La procedura di cui all’art. 5 del DPR 447/1998
(norma che nella Regione Lombardia è integrata dall’art. 97
della legge regionale 12/2005 sul governo del territorio), è
volta a favorire, in maniera semplificata, l’insediamento o
la riorganizzazione di attività produttive, da intendersi in
senso ampio, per cui nelle stesse sono comprese anche quelle
agricole, commerciali, artigiane, turistiche, alberghiere e
finanziarie; in pratica pressoché tutte le attività
d’impresa di cui all’art. 2082 del codice civile.
---------------
La perentorietà del termine di 60 giorni (ex art. 5, comma
2, del DPR 447/1998) non solo non è prevista espressamente
dalla norma, ma neppure sembra rispondere ai principi
dell’ordinamento, in forza dei quali (cfr. l’art. 2 della
legge 241/1990), i termini per la conclusione dei
procedimenti amministrativi sono di regola ordinatori,
soprattutto allorché si tratta di complessi procedimenti che
vedono la partecipazione di una pluralità di soggetti, a
garanzia del contemperamento di tutti gli interessi,
pubblici o privati, coinvolti.
La procedura di cui all’art. 5 del DPR 447/1998 (norma che nella Regione
Lombardia è integrata dall’art. 97 della legge regionale
12/2005 sul governo del territorio), è volta a favorire, in
maniera semplificata, l’insediamento o la riorganizzazione
di attività produttive, da intendersi in senso ampio, per
cui nelle stesse sono comprese anche quelle agricole,
commerciali (come nel caso di specie, trattandosi
dell’insediamento di un ristorante con l’insegna “McDrive”),
artigiane, turistiche, alberghiere e finanziarie; in pratica
pressoché tutte le attività d’impresa di cui all’art. 2082
del codice civile (cfr. art. 1, comma 1-bis del DPR
447/1998; in giurisprudenza si veda TAR Puglia, Lecce, sez.
I, 24.03.2005, n. 1601, che ha ammesso la legittimità della
variante di cui è causa, anche se nella zona esistono
impianti produttivi preesistenti dello stesso genere o di
genere diverso, con evidente favore per l’applicazione del
menzionato art. 5).
---------------
Nel quarto mezzo è
denunciata in primo luogo la presunta violazione dell’art.
5, comma 2, del DPR 447/1998, in quanto il Consiglio
Comunale non si è pronunciato sulla proposta di variante
risultante dalla Conferenza di Servizi entro il termine
previsto dalla citata disposizione normativa (sessanta
giorni), termine che i ricorrenti asseriscono essere
perentorio.
La doglianza non merita condivisione, in quanto la
perentorietà del citato termine di sessanta giorni non solo
non è prevista espressamente dalla norma, ma neppure sembra
rispondere ai principi dell’ordinamento, in forza dei quali
(cfr. l’art. 2 della legge 241/1990), i termini per la
conclusione dei procedimenti amministrativi sono di regola
ordinatori, soprattutto allorché si tratta di complessi
procedimenti che vedono la partecipazione di una pluralità
di soggetti, a garanzia del contemperamento di tutti gli
interessi, pubblici o privati, coinvolti (si consenta di
rinviare, sul punto, alle sentenze del Consiglio di Stato,
sez. IV, 12.06.2012, n. 2264 e del TAR Lombardia, Milano,
sez. I, 13.06.2012, n. 1633 e sez. II, 20.12.2010, n. 7614)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.11.2012 n. 2750 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Tornare a tempo pieno è un diritto
soggettivo del dipendente pubblico.
Con
sentenza 14.11.2012 il TRIBUNALE di Bergamo ha
condannato il Sindaco pro-tempore di un comune bergamasco:
1) a disporre l'immediata trasformazione del rapporto di
lavoro del dipendente S.A. da tempo parziale a tempo pieno;
2) a corrispondere allo stesso dipendente la differenza fra
il trattamento economico contrattuale a tempo pieno e quello
a tempo parziale, dal 01.01.2011 sino alla data della
sentenza, oltre interessi e rivalutazione;
3) al rimborso delle spese di lite liquidate in complessivi
1.550 euro oltre gli accessori di legge. |
EDILIZIA
PRIVATA:
Secondo un preciso orientamento la legittimazione
ad impugnare va riconosciuta ai proprietari di fondi
confinanti con l’area interessata ad un intervento edilizio
in ragione della semplice “vicinitas”, trovandosi, il terzo
in una situazione di stabile collegamento con la zona
interessata dall’edificazione, senza che sia necessario
dimostrare ulteriormente la sussistenza di un interesse
qualificato alla tutela giurisdizionale, giacchè tale
situazione vale a differenziare una posizione di interesse
qualificato rispetto al “quisque de populo”.
Questo arresto giurisprudenziale è stato per il vero più
volte integrato e temperato da statuizioni che mettono la
vicinitas in più stretta correlazione con la legitimatio ad
causam intesa come l’interesse ad agire affermandosi che la
legittimazione attiva sussiste ogni qual volta in il
progettato intervento urbansitico-edilizio pur concernente
un’area non di appartenenza del ricorrente, incida
negativamente sul bene di proprietà o in godimento del
vicino sì da comprometterne la fruizione o il valore.
Così, si è detto, occorre che dall’approvazione e
dall’esecuzione delle scelte urbanistiche derivi al
ricorrente un pregiudizio certo e concreto in relazione ai
molteplici aspetti e ai vari interessi costitutivi della sua
sfera giuridica.
In tali sensi, questa Sezione pur non obliterando il
principio della “vicinitas” tout court, ha avuto cura di
sottolineare, ai fini del radicamento delle condizioni
legittimanti l’azione, la necessità che per i vicini si
verifichi uno specifico vulnus alla loro sfera giuridica sub
specie della sussistenza di un detrimento
economico-patrimoniale comunque derivante per il bene.
La problematica relativa alla legittimazione dei vicini ad impugnare atti
riguardanti il regime urbanistico-edilizio di aree
confinanti è stata ed è tuttora oggetto di ampio dibattito
giurisprudenziale, sulla quale si è più volte soffermata
significativamente anche la giurisprudenza di questa
Sezione.
Secondo un preciso orientamento la legittimazione ad
impugnare va riconosciuta ai proprietari di fondi confinanti
con l’area interessata ad un intervento edilizio in ragione
della semplice “vicinitas”, trovandosi, il terzo in una
situazione di stabile collegamento con la zona interessata
dall’edificazione, senza che sia necessario dimostrare
ulteriormente la sussistenza di un interesse qualificato
alla tutela giurisdizionale, giacchè tale situazione vale a
differenziare una posizione di interesse qualificato
rispetto al “quisque de populo” (Cons. Stato Sez. VI 26.07.2001 n. 4123; idem 15.06.2010 n. 3744; Cons. Stato
Sez. V 07.05.2008 n. 2086; Cons. Stato Sez. IV 17.09.2012 n. 4926; idem 30.11.2009 n. 7491; 16.03.2010 n. 1535; 20.05.2004 n. 3263).
Questo arresto giurisprudenziale è stato per il vero più
volte integrato e temperato da statuizioni che mettono la
vicinitas in più stretta correlazione con la legitimatio ad
causam intesa come l’interesse ad agire affermandosi che la
legittimazione attiva sussiste ogni qual volta in il
progettato intervento urbansitico-edilizio pur concernente
un’area non di appartenenza del ricorrente, incida
negativamente sul bene di proprietà o in godimento del
vicino sì da comprometterne la fruizione o il valore.
Così, si è detto, occorre che dall’approvazione e
dall’esecuzione delle scelte urbanistiche derivi al
ricorrente un pregiudizio certo e concreto in relazione ai
molteplici aspetti e ai vari interessi costitutivi della sua
sfera giuridica (Cons. Stato Sez. IV 24.12.2007
n. 6619; 22.06.2006 n. 3947; idem 10.06.2004 n. 3755; 05.09.2003 n. 4980;
09.11.2010 n. 8364).
In tali sensi, questa Sezione pur non obliterando il
principio della “vicinitas” tout court, ha avuto cura di
sottolineare, ai fini del radicamento delle condizioni
legittimanti l’azione, la necessità che per i vicini si
verifichi uno specifico vulnus alla loro sfera giuridica sub
specie della sussistenza di un detrimento economico-patrimoniale comunque derivante per il bene (in tal senso
decisione n. 8364/2010 già citata).
A fronte dei suindicati “paletti” interpretativi che hanno
meritevolmente delimitato la portata della nozione di
“vicinitas” quale fattore legittimante l’azione, ritiene pur
sempre il Collegio che il caso de quo possa farsi
ragionevolmente rientrare nell’ambito della opzione
esegetica posta a fondamento del riconoscimento della legitimatio ad agendum.
Se è vero infatti che ai fini dell’impugnativa la verifica
del vulnus alla propria posizione va effettuata alla stregua
di un giudizio che tenga conto della natura e delle
dimensioni dell’opera in progettazione, della sua
destinazione, delle sue implicazioni urbanistiche, e delle
conseguenze prodotte dal nuovo insediamento sulla qualità
della vita di coloro che per residenza sono in durevole
rapporto con l’area interessata (Cons. Stato sez. IV 31.05.2007 n. 2849; idem 12.05.2009 n. 2908), nella
specie non può negarsi l’esistenza di un interesse
differenziato e qualificato anche sulla scorta della
considerazione per cui in relazione alla prevista ubicazione
in situ di un compendio edilizio di un certa consistenza (14 villette a due piani, quattro ville a due piani e due
condomini a tre piani) una cosa è avere di fronte la
propria residenza un parco a verde e altra cosa ancora
essere fronteggiati da un insediamento residenziale con
tutti i consequenziali riflessi i tema di spazi occupati da
opere infrastrutturali strumentali all’edificazione, di
aumento del carico urbanistico e connesso aumento del
traffico veicolare e pedonale, etc..
Invero al di là della possibile incidenza della nuova
destinazione urbanistica sul valore dei beni immobili di cui
sono titolari i Branzoli, non si può in primo luogo
escludere per costoro un pregiudizio in tema di sottrazione
di visuale, luce ed aria; in ogni caso, appare configurabile
nella fattispecie una lesione a godere della veduta (nella
specie un parco a verde ) che è stata considerata dalla
giurisprudenza amministrativa posizione giuridica
suscettibile di pregiudizio e restaurabile patrimonialmente
(Cons. Stato Sez. V 27.03.1081 n. 113; Sez. VI 15.06.2010 n. 3744 già citata).
Rebus sic stantibus, avuto riguardo alle circostanze di
fatto che connotano la vicenda e alla luce dei parametri
giurisprudenziali fissati in subjecta materia, nel caso di
che trattasi appaiono riscontrabili le condizioni
legittimanti la proposizione della domanda giudiziale sia
sotto il profilo di posizione qualificata (vicinitas) sia
sotto l’aspetto del requisito dell’interesse a ricorrere ex
art.100 c.p.c. (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.11.2012 n. 5715 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
I bandi di gara d'appalto e per gli affidamenti
dei servizi pubblici possono prevedere requisiti di capacità
più rigorosi di quelli indicati dalla legge, purché non
discriminatori od abnormi rispetto alle regole proprie del
settore.
Pertanto, rientra nel potere discrezionale
dell'amministrazione aggiudicatrice la fissazione di
requisiti di partecipazione alla gara anche superiori a
quelli previsti dalla legge che rappresentano un minimum che
può essere incrementato, sotto l'aspetto qualitativo e
quantitativo, dall'amministrazione in relazione alle
peculiari caratteristiche del servizio da appaltare.
Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale (C. St.,
V. n. 3809/2011; C.d.S., sez. V, 19.11.2009, n. 7247;
06.04.2009, n. 2138; 15.12.2005, n. 7139; sez. IV,
12.06.2007, n. 3103, 22.10.2004, n. 6972; sez. VI,
23.07.2008, n. 3655; 10.01.2007, n. 37), i bandi di gara
d'appalto e per gli affidamenti dei servizi pubblici possono
prevedere requisiti di capacità più rigorosi di quelli
indicati dalla legge, purché non discriminatori od abnormi
rispetto alle regole proprie del settore.
Pertanto, rientra nel potere discrezionale
dell'amministrazione aggiudicatrice la fissazione di
requisiti di partecipazione alla gara anche superiori a
quelli previsti dalla legge che rappresentano un minimum
che può essere incrementato, sotto l'aspetto qualitativo e
quantitativo, dall'amministrazione in relazione alle
peculiari caratteristiche del servizio da appaltare.
La già citata giurisprudenza (C. St., V. n. 3809/2011)
ritiene di conseguenza che le scelte così operate
dall'amministrazione impingono nel merito dell'azione
amministrativa e si sottraggono al sindacato del giudice
amministrativo, salvo che non siano manifestamente
irragionevoli, irrazionali, arbitrarie o sproporzionate, con
riguardo alla specificità dell'oggetto ed all'esigenza di
non restringere, oltre lo stretto indispensabile, la platea
dei potenziali concorrenti e di non precostituire situazioni
di privilegio.
La richiamata giurisprudenza, che il collegio condivide,
ritiene altresì che i bandi di gara, quali atti generali,
rivolti ad un numero imprecisato di destinatari, si
sottraggono all'obbligo di motivazione, così che il
sindacato sulla scelta dell'amministrazione di fissare
requisiti di partecipazione, ulteriori e più stringenti
rispetto a quelli fissati dalla legge, non può che
riguardare il corretto esercizio del potere amministrativo
sotto il profilo della ragionevolezza, razionalità, logicità
e non arbitrarietà in relazione all'oggetto del contratto e
all'interesse pubblico perseguito (TAR
Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 13.11.2012 n. 679 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Ai sensi dell'art. 32,
comma 27, lettera d), del decreto-legge 30.09.2003, n. 269,
convertito dalla legge 24.11.2003 n. 326, sono sanabili le
opere abusive realizzate in aree sottoposte a specifici
vincoli (tra cui quello idrogeologico, ambientale e
paesistico) purché ricorrano "congiuntamente" determinate
condizioni:
a)- che si tratti di opere realizzate prima dell'imposizione
del vincolo: in proposito la Corte Costituzionale (ordinanza
n. 150 del 2009) ha negato che debba trattarsi solo dei
vincoli che comportino l'inedificabilità assoluta;
b)- che, pur realizzate in assenza o in difformità del
titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni
urbanistiche;
c)- che siano opere di minore rilevanza, corrispondenti alle
tipologie di illecito di cui ai nn. 4, 5 e 6 dell'allegato 1
del d.l. n. 269 del 2003 (restauro, risanamento conservativo
e manutenzione straordinaria) senza quindi aumento di
superficie;
d)- che vi sia il previo parere favorevole dell'autorità
preposta al vincolo.
Va rilevato che il diniego di condono si fonda sul disposto di cui
all’art. 27, lettera d), del decreto-legge 30.09.2003, n. 269, convertito dalla legge 24.11.2003, n.
326.
La citata disposizione stabilisce che: "Fermo restando
quanto previsto dagli articoli 32 e 33 della legge 28.02.1985, n. 47, non sono condonabili le opere che
siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli
imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela
degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei
beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree
protette nazionali, regionali e provinciali qualora
istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza
o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non
conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici”.
Il Collegio ritiene utile, preliminarmente, porre in
evidenza, in merito alle disposizioni applicate che, come ha
riconosciuto la Corte costituzionale (sentenza n. 196 del
2004), l'oggetto fondamentale dell'art. 32, commi 25-27, del
d.l. n. 269 del 2003, convertito nella legge n. 326 del
2003, è la previsione e la disciplina di un nuovo condono
edilizio esteso all'intero territorio nazionale, di
carattere temporaneo ed eccezionale rispetto all'istituto a
carattere generale e permanente del "permesso di costruire
in sanatoria", disciplinato dagli artt. 36 e 45 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia), ancorato a
presupposti in parte diversi e comunque sottoposto a
condizioni assai più restrittive.
La giurisprudenza ordinaria e amministrativa ormai
consolidata, dalla quale il Collegio non ha motivo di
discostarsi, (ex multis, Cass. Penale, Sezione III, n. 24647
del 2009 e C.d.S., Sez. VI, n. 1200 del 2010, Tar Puglia,
Bari, Sezione III, 25.05.2011, n. 805 - Tar Bari Puglia
sez. III 15.12.2011 n. 1884 - Tar Campania, Napoli, sez. VII, 15.02.2010 n. 940; Tar Liguria, Genova, sez. I,
01.02.2010 n. 199; Tar Trentino Alto Adige, Trento, sez.
I, 07.01.2010 n. 4),
ha riconosciuto che, ai sensi del suddetto art. 32, comma
27, lettera d), sono sanabili le opere abusive realizzate in
aree sottoposte a specifici vincoli (tra cui quello
idrogeologico, ambientale e paesistico) purché ricorrano
"congiuntamente" determinate condizioni:
a)- che si tratti di opere realizzate prima dell'imposizione
del vincolo: in proposito la Corte Costituzionale (ordinanza
n. 150 del 2009) ha negato che debba trattarsi solo dei
vincoli che comportino l'inedificabilità assoluta;
b)- che, pur realizzate in assenza o in difformità del
titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni
urbanistiche;
c)- che siano opere di minore rilevanza, corrispondenti alle
tipologie di illecito di cui ai nn. 4, 5 e 6 dell'allegato 1
del d.l. n. 269 del 2003 (restauro, risanamento conservativo
e manutenzione straordinaria) senza quindi aumento di
superficie;
d)- che vi sia il previo parere favorevole dell'autorità
preposta al vincolo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 09.11.2012 n. 2733 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
A seguito della decadenza
di vincolo preordinato ad esproprio e alla inerzia dell’ente
territoriale nell’attribuire al terreno una nuova
destinazione, il proprietario non resta senza tutela ma può
promuovere gli interventi sostitutivi oppure attivare la
procedura di messa in mora e tipizzazione giurisdizionale
del silenzio davanti al giudice amministrativo.
Tale obbligo di ripianificazione sussiste soltanto in
relazione alla decadenza dei vincoli espropriativi e non
anche in caso di vincoli conformativi.
Non hanno carattere espropriativo, ma soltanto conformativo,
e perciò non sono soggetti a decadenza e all’obbligo di
indennizzo -né emerge l’obbligo di ritipizzazione e
l’inadempimento all’obbligo di provvedere (che non
sussiste)- tutti i vincoli di inedificabilità imposti dal
piano regolatore, a qualsivoglia titolo, per ragioni lato
sensu ambientali.
Tra tali ipotesi, rientrano il vincolo di inedificabilità
(c.d. di rispetto) a tutela di una strada esistente, il
vincolo di verde attrezzato, il vincolo di inedificabilità
per un parco e per una zona agricola di pregio, la
destinazione a verde e così via.
---------------
In relazione al verde attrezzato, si ritiene generalmente
che le “Norme Tecniche di attuazione”, che consentono
l’intervento diretto dei privati per il verde costituiscano
disposizioni che hanno natura tipicamente conformativa.
La zonizzazione del territorio, con i vincoli di generalità
e in modo obiettivo su intere categorie di beni, è
connaturata normalmente alla pianificazione urbanistica, per
cui non può essere ex se considerata di natura ablatoria.
La possibilità che il diritto di proprietà subisca alcune
limitazioni in ragione dell’interesse pubblico costituisce
d’altronde un rischio fisiologico connesso al diritto stesso
secondo il giudice delle leggi.
La previsione di una tipologia a “verde pubblico” non
configura un vincolo preordinato ad esproprio né una
inedificabilità assoluta, in quanto si tratta di
prescrizione normalmente diretta a regolare concretamente
l’attività edilizia, che attiene ad una potestà conformativa
propria dello strumento urbanistico generale, la cui
validità è a tempo indeterminato, come stabilito dall’art.
11 l. 17.08.1942, n. 1150.
---------------
Sono conformativi e al di fuori della schema
ablatorio-espropriativo (non comportano indennizzo, non
decadono al quinquennio e quindi non sussiste un dovere di
ritipizzazione) i vincoli che importano una destinazione
(anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa
privata o promiscua pubblico-privata, che non comportino
necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva
iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal
soggetto privato e senza necessità di ablazione del bene.
Va in via logica chiarito che la controversia resta limitata alla natura
dei vincoli –se conformativi o espropriativi– decaduti per
quinquennio, in quanto solo in caso di decadenza di vincoli
espropriativi, ricorre l’obbligo del Comune di procedere
alla riqualificazione urbanistica dell’area, risultando
illegittimo il silenzio serbato sulla istanza-diffida
dell’interessato.
E’ noto che a seguito della decadenza di vincolo preordinato
ad esproprio e alla inerzia dell’ente territoriale
nell’attribuire al terreno una nuova destinazione, il
proprietario non resta senza tutela ma può promuovere gli
interventi sostitutivi oppure attivare la procedura di messa
in mora e tipizzazione giurisdizionale del silenzio davanti
al giudice amministrativo (così Cassazione civile sezioni
unite, 06.05.2009, n. 10362).
La giurisprudenza di questo Consesso ha già avuto modo di
affermare come tale obbligo di ripianificazione sussista
soltanto in relazione alla decadenza dei vincoli
espropriativi e non anche in caso di vincoli conformativi
(tra tante, Consiglio Stato, IV, 27.06.2012, n. 3804).
Si è altresì sostenuto che non hanno carattere
espropriativo, ma soltanto conformativo, e perciò non sono
soggetti a decadenza e all’obbligo di indennizzo -né emerge
l’obbligo di ritipizzazione e l’inadempimento all’obbligo di
provvedere (che non sussiste)- tutti i vincoli di inedificabilità imposti dal piano regolatore, a qualsivoglia
titolo, per ragioni lato sensu ambientali.
Tra tali ipotesi, rientrano il vincolo di inedificabilità
(c.d. di rispetto) a tutela di una strada esistente, il
vincolo di verde attrezzato, il vincolo di inedificabilità
per un parco e per una zona agricola di pregio, la
destinazione a verde e così via (tra tante, Consiglio di
Stato, IV, 23.12.2010, n. 9372).
---------------
In relazione al verde
attrezzato, si ritiene generalmente che le “Norme Tecniche
di attuazione”, che consentono l’intervento diretto dei
privati per il verde costituiscano disposizioni che hanno
natura tipicamente conformativa (Corte Costituzionale n. 20.05.1999, n. 179; da ultimo Consiglio Stato, IV, 13.07.2011, n. 4242 e 19.01.2012, n. 244).
La zonizzazione del territorio, con i vincoli di generalità
e in modo obiettivo su intere categorie di beni, è
connaturata normalmente alla pianificazione urbanistica, per
cui non può essere ex se considerata di natura ablatoria.
La possibilità che il diritto di proprietà subisca alcune
limitazioni in ragione dell’interesse pubblico costituisce
d’altronde un rischio fisiologico connesso al diritto stesso
secondo il giudice delle leggi (n. 179 del 1999 su
menzionata).
La previsione di una tipologia a “verde pubblico” non
configura un vincolo preordinato ad esproprio né una inedificabilità assoluta, in quanto si tratta di
prescrizione normalmente diretta a regolare concretamente
l’attività edilizia, che attiene ad una potestà conformativa
propria dello strumento urbanistico generale, la cui
validità è a tempo indeterminato, come stabilito dall’art.
11 l. 17.08.1942, n. 1150 (tra tante Consiglio Stato, IV,
10.06.2010, n. 3700).
Sotto l’altro profilo evidenziato, non può aderirsi alla
tesi di parte appellante secondo cui l’area in questione
permetterebbe la realizzazione di opere soltanto ad
iniziativa pubblica.
Al contrario, i richiamati articoli 69 e 71 NTA prevedono
l’acquisizione da parte del Comune, ma anche interventi
esecutivi diretti di iniziativa pubblica mediante progetti
esecutivi approvati dall’amministrazione comunale.
In generale, inoltre, e ciò vale per tutte le destinazioni
per le quali il primo giudice ha escluso la natura
espropriativa dei vincoli, deve osservarsi che l’attività di
realizzazione poteva avvenire sia in via ordinaria che
attraverso gli strumenti urbanistici esecutivi di iniziativa
privata (“progetti esecutivi approvati dall’Amministrazione
comunale”).
Sono conformativi e al di fuori della schema
ablatorio-espropriativo (non comportano indennizzo, non
decadono al quinquennio e quindi non sussiste un dovere di
ritipizzazione) i vincoli che importano una destinazione
(anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa
privata o promiscua pubblico-privata, che non comportino
necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva
iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal
soggetto privato e senza necessità di ablazione del bene
(così, Consiglio Stato, IV, 22.06.2011, n. 3797)
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.11.2012 n. 5666 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Aree protette: l'Ente gestore può "contraddirsi".
I beni ambientali protetti possono essere oggetto di una
valutazione graduata alla tipologia ed al dettaglio
dell’intervento, il quale, anche se ad una prima verifica
generale mostra di coordinarsi con le esigenze di protezione
dell’area stessa, nella successiva fase di realizzazione,
può rivelare aspetti specifici che lo rendono inopportuno, o
comunque, non conforme alle esigenze di tutela individuate
dalla norma.
La questione affrontata dalla VI Sez. del Consiglio di
Stato, con la
sentenza 07.11.2012 n. 5630, ripercorre nella sostanza
il principio sopra descritto, evidenziando come, in presenza
di un parere favorevole reso dall’Ente Parco circa un piano
di lottizzazione per la realizzazione dell’insediamento
residenziale, turistico e commerciale, possa poi seguire una
provvedimento negativo, reso nel procedimento relativo alla
richiesta dei previsti titoli abilitativi al Comune
competente.
Secondo i Giudici amministrativi l’oggetto della valutazione
propria del nulla–osta richiesto all’Ente Parco, di cui
all’art. 13 l. n. 394 del 1991 (legge quadro sulle aree
protette) è costituito, oltreché dall’impatto dell’opera sul
contesto ambientale oggetto di tutela, da tutti gli aspetti
di protezione del territorio, anche relativi alla disciplina
di natura urbanistica ed edilizia recepita.
Osserva il Consiglio di Stato che i particolari
dell’intervento edificatorio conseguente al piano di
lottizzazione sono apprezzabili nella loro effettiva entità
e consistenza solo alla luce del maggior grado di dettaglio
e livello di approfondimento connotanti gli elaborati
progettuali e plani-volumetrici allegati alla richiesta del
permesso di costruire.
Di converso il parere positivo, originariamente reso
dall’Ente, espresso sul piano di lottizzazione, si basa su
una valutazione di principio attorno alla compatibilità
dell’intervento con il contesto vincolato in cui viene a
collocarsi, nonché attorno all’incidenza della sua
percezione visiva sulle caratteristiche del sito, resa
possibile sulla base degli elaborati di massima da allegare
a corredo del piano di lottizzazione.
Tali indicazioni escludono, conseguentemente, che la vicenda
possa essere connotata da contraddittorietà, essendo invece
legittima la determinazione dell’Ente Parco che,
evidenziando dal dettaglio dei documenti successivamente
presentati dall’impresa affidataria delle aree lottizzate le
altezze e le distanze non conformi al regolamento edilizio
tipo al quale rinvia quello comunale ed il Piano del Parco,
ha conseguentemente escluso di dover emanare il necessario
nulla–osta (commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Alla
stregua della disciplina introdotta dal dm 24.10.2007, e pur
nel quadro normativo precedente all’entrata in vigore del
decreto legge n. 70 del 13/05/2011 (la cui modifica all’art.
38, co. 2, del d.lgs. n. 163 del 2006 non è applicabile alla
procedura in questione, bandita anteriormente), la presenza
di un DURC negativo alla data di presentazione della domanda
di partecipazione alla gara, obbliga la stazione appaltante
ad escludere dalla procedura l'impresa interessata, senza
che si possano effettuare apprezzamenti in ordine alla
gravità degli adempimenti ed alla definitività
dell'accertamento previdenziale (cfr. Cons. St., sez. V,
30/06/2011, n. 3912).
Sicché la verifica della regolarità contributiva delle
imprese partecipanti a procedure di gara per
l’aggiudicazione di appalti con la pubblica amministrazione
è demandata agli istituti di previdenza, le cui
certificazioni si impongono alle stazioni appaltanti, che
non possono sindacarne il contenuto.
Orbene, in materia di accertamento della regolarità
contributiva per la partecipazione ad una gara pubblica,
prima del decreto ministeriale 24/10/2007, il mero fatto che
il DURC non fosse regolare non costituiva di per sé prova di
una grave violazione contributiva definitivamente accertata,
posto che era ostativo alla dichiarazione di regolarità
contributiva qualsiasi inadempimento, a prescindere da
qualsivoglia soglia di gravità.
In particolare, prima del citato decreto ministeriale e del
regolamento attuativo del codice dei contratti pubblici,
l'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 creava una differenza
tra la regolarità contributiva richiesta al partecipante
alla gara e la regolarità richiesta all'aggiudicatario al
fine della stipula del contratto, tant’è che il concorrente
poteva essere escluso solo in presenza di gravi violazioni
definitivamente accertate, sicché le violazioni non gravi e
quelle non definitivamente accertate non erano causa di
esclusione, mentre, al fine della stipula del contratto,
l'aggiudicatario doveva presentare la certificazione di
regolarità ai sensi dell'art. 2 del decreto legge n. 210 del
2002.
Sennonché, il decreto ministeriale 24/10/2007, emanato in
attuazione dell’art. 1, co. 1176, della legge n. 296 del
2006, definisce le modalità di rilascio ed i contenuti
analitici del documento unico di regolarità contributiva,
nonché le tipologie di pregresse irregolarità di natura
previdenziale ed in materia di tutela delle condizioni di
lavoro da non considerare ostative al rilascio del documento
medesimo.
La nuova disciplina, come si evince dal preambolo, si
riferisce a tutti gli utilizzi del DURC, ivi compreso quello
relativo alla normativa sugli appalti di lavori, servizi e
forniture pubbliche.
L’art. 5 del citato decreto ministeriale precisa che la
regolarità contributiva è attestata dagli istituti
previdenziali quando vi sia correntezza degli adempimenti
periodici, corrispondenza tra versamenti effettuati e
versamenti accertati come dovuti ed inesistenza di
inadempienze in atto, fatte salve le richieste di
rateizzazione munite di parere favorevole, le sospensioni
dei pagamenti a seguito di disposizioni legislative e le
istanza di compensazione con credito documentato. L’art. 8
precisa altresì che il DURC è rilasciato anche qualora vi
siano crediti iscritti a ruolo per i quali sia stata
disposta la sospensione della cartella amministrativa a
seguito di ricorso amministrativo o giudiziario nonché,
relativamente ai crediti non ancora iscritti a ruolo, in
pendenza di contenzioso amministrativo o giudiziario, sino
alla decisione della vertenza, fatta salva l'ipotesi in cui
l'autorità giudiziaria abbia adottato un provvedimento
esecutivo che consente l'iscrizione a ruolo.
Inoltre, ai soli fini della partecipazione a gare di
appalto, l’art. 8, co. 3, del decreto ministeriale definisce
la gravità della irregolarità prevedendo che non osta al
rilascio del DURC uno scostamento tra le somme dovute e
quelle versate, con riferimento a ciascun istituto
previdenziale, inferiore o pari al 5%, con riferimento a
ciascun periodo di paga o di contribuzione o, comunque, uno
scostamento inferiore ad euro 100,00, fermo restando
l'obbligo di versamento del predetto importo entro i trenta
giorni successivi al rilascio del DURC.
In definitiva è stata normativamente regolata, in maniera
esaustiva, la nozione di violazione grave definitivamente
accertata prevista dall’art. 38, co. 1, lett. i), del codice
dei contratti pubblici.
Ne consegue che, alla stregua della disciplina introdotta
dal ripetuto decreto ministeriale, e pur nel quadro
normativo precedente all’entrata in vigore del decreto legge
n. 70 del 13/05/2011 (la cui modifica all’art. 38, co. 2, del
d.lgs. n. 163 del 2006 non è applicabile alla procedura in
questione, bandita anteriormente), la presenza di un DURC
negativo alla data di presentazione della domanda di
partecipazione alla gara, obbliga la stazione appaltante ad
escludere dalla procedura l'impresa interessata, senza che
si possano effettuare apprezzamenti in ordine alla gravità
degli adempimenti ed alla definitività dell'accertamento
previdenziale (cfr. Cons. St., sez. V, 30/06/2011, n. 3912).
Sicché la verifica della regolarità contributiva delle
imprese partecipanti a procedure di gara per
l’aggiudicazione di appalti con la pubblica amministrazione
è demandata agli istituti di previdenza, le cui
certificazioni si impongono alle stazioni appaltanti, che
non possono sindacarne il contenuto (TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 31.10.2012 n. 4336 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
Comune commissariato se non paga l'avvocato.
Comune commissariato se non paga all'avvocato le spese di
lite del decreto ingiuntivo che il legale, in qualità di
procuratore antistatario, ha ottenuto per conto del cliente
e che nel frattempo è divenuto esecutivo. L'ente è obbligato
a conformarsi al giudicato e non può trincerarsi dietro il
mero atto di liquidazione emesso, che di per sé non prova
affatto l'avvenuto pagamento delle spettanze al
professionista.
È quanto emerge dalla
sentenza
26.10.2012 n. 4274, pubblicata dal TAR Campania-Napoli, Sez.
IV.
Accolto il ricorso del legale per l'ottemperanza. Sono
passati ormai quasi tre anni da quando il titolo in forma
esecutiva è stato rinotificato all'amministrazione dopo che
il provvedimento monitorio risulta divenuto definitivo per
non essere stata proposta opposizione.
Il Comune ha riconosciuto il relativo debito fuori bilancio
ed emesso l'atto di liquidazione, ma questo non dimostra che
ha pagato. Ora dovrà farlo entro 60 giorni e, se non
provvede, lo farà a spese dell'ente locale il commissario
ad acta nominato dal giudice: il direttore della
Ragioneria territoriale dello Stato, con facoltà di delega a
un funzionario dell'ufficio. Unico neo per l'avvocato: i
conteggi sono sbagliati, la somma proposta va depurata di
quanto indicato come spese dell'atto di precetto.
Nel giudizio di ottemperanza, infatti, le ulteriori somme
richieste in relazione a spese diritti e onorari successivi
al decreto ingiuntivo sono dovute soltanto in relazione alla
pubblicazione, all'esame ed alla notifica del medesimo, alle
spese relative ad atti accessori, quali le spese di
registrazione (se versate), di esame, copia e notificazione,
in quanto hanno titolo nello stesso provvedimento
giudiziale. Le spese, diritti e onorari accessorie
successive al decreto ingiuntivo azionato sono quindi
dovute, nei limiti delle voci indicate, ma in quanto
funzionali all'introduzione del giudizio di ottemperanza
sono liquidate, in modo omnicomprensivo, nell'ambito delle
spese di lite del giudizio di esecuzione del giudicato.
Al Comune, dunque, non resta che pagare anche le spese di
giudizio. Le spese per l'eventuale funzione commissariale
andranno poste a carico del Comune intimato e sono liquidate
fin da subito nella misura complessiva di euro 300,00. Il
commissario ad acta potrà esigere la suddetta somma
all'esito dello svolgimento della funzione commissariale,
sulla base di adeguata documentazione fornita all'ente
debitore
(articolo ItaliaOggi del 13.12.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione di
opere edilizie non costituisce una attività del tutto libera
e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione
di ogni previsione urbanistica che disciplini l'uso nel
territorio nel singolo comune. Una diversa soluzione, non
solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile
vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità
sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in
concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad
assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio,
con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli
modificazioni degli equilibri prefigurati dalla
strumentazione urbanistica.
Nel caso di specie, il capannone di proprietà della
ricorrente è stato in concreto adibito ad un uso
(commerciale) incompatibile con l’assetto urbanistico
(agricolo) di zona, e dunque correttamente esso è stato
sanzionato con l’ordine di ripristino.
Come giustamente ha osservato la difesa comunale, la tesi di
parte ricorrente, se portata alle sue estreme conseguenze,
condurrebbe alla inammissibile conclusione per cui chiunque,
pagando una semplice sanzione pecuniaria, sarebbe
legittimato a stravolgere le linee di pianificazione dettate
dall’amministrazione, mutando a suo piacimento la
destinazione di un determinato sito.
Al riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che il
cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione di
opere edilizie non costituisce una attività del tutto libera
e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione
di ogni previsione urbanistica che disciplini l'uso nel
territorio nel singolo comune. Una diversa soluzione, non
solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile
vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità
sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in
concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad
assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio,
con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli
modificazioni degli equilibri prefigurati dalla
strumentazione urbanistica (Consiglio di Stato sez. I,
25.05.2012 n. 759; in senso conforme Cons. Stato, sez. V,
10.07.2003, n. 4102; 03.01.1998, n. 24; Cons. Stato, V,
28.05.2010, n. 3420)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 19.10.2012 n. 1110 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Concorsi - Ius superveniens - Ammissione di un
diverso inquadramento giuridico - Legittimità - Sussiste.
Il diritto del candidato vincitore ad assumere
l’inquadramento previsto dal bando di concorso, espletato
dall’amministrazione per il reclutamento di nuovi
dipendenti, è subordinato alla permanenza, al momento
dell’adozione del provvedimento di nomina, dell’assetto
organizzativo degli uffici in forza del quale il bando era
stato emesso. Il mutamento del quadro normativo e
contrattuale di riferimento in ordine allo stato giuridico
del personale, intervenuto successivamente, vincola
l’amministrazione al rispetto del nuovo contesto
organizzativo.
Concorsi:
legittimo un inquadramento diverso da quello previsto nel
bando.
L'approfondimento
In massima l’importante e innovativo principio sancito dalle
sezioni unite civili della Corte di Cassazione che, con la
sentenza 02.10.2012 n. 16728, hanno rigettato il
ricorso presentato da una candidata di un concorso,
utilmente collocata in graduatoria, avverso la decisione
della Corte d’appello che aveva dichiarato legittimo
l’operato della PA di assegnare alla ricorrente un
inquadramento giuridico diverso da quello indicato nel bando
a fronte del mutato quadro normativo di riferimento.
Il fatto
Nel caso di specie, una candidata, che aveva vinto il
concorso da dirigente presso una PA, era stata assunta come
funzionaria, in quanto, al momento della nomina, l’organico
degli uffici previsto dal bando era stato soppresso.
Dopo la pubblicazione del bando di concorso, e nelle more
della sua esecuzione, era entrata in vigore la legge di
riforma dello stato giuridico del personale
dell’amministrazione interessata che aveva modificato
l’inquadramento del personale da assumere attraverso
l’espletamento della selezione concorsuale.
L’intervenuto mutamento del quadro normativo di riferimento,
infatti, aveva comportato il cambiamento della
classificazione del personale, attraverso la soppressione
dei ruoli oggetto del concorso e corrispondenti alla
qualifica dirigenziale (ex VIII fascia funzionale) e il
conseguente inquadramento dei vincitori nella categoria
professionale D di nuova istituzione, determinata in sede di
contrattazione collettiva.
L’interessata aveva presentato ricorso avverso l’atto di
assegnazione al giudice del lavoro, il quale lo aveva
rigettato. La ricorrente aveva allora presentato ricorso in
appello.
Il giudice di secondo grado aveva rilevato che, a fronte del
mutato quadro normativo di riferimento, l’inquadramento
dirigenziale originariamente riconosciuto per il profilo
professionale oggetto di concorso, e posto a fondamento
della pretesa della ricorrente, non poteva essere ricondotto
all’interno del ruolo unico della dirigenza previsto dalla
normativa sopravvenuta.
Inoltre, nel caso di specie, non poteva essere neppure
invocato il regime derogatorio previsto in via transitoria,
in quanto la norma sopravvenuta escludeva “i concorsi già
banditi”, rispetto ai quali l’eccezione era
rappresentata dalla possibilità di evitare il generale
divieto di assunzione dalla medesima stabilito.
La Corte d’appello aveva escluso che esistesse affinità
sostanziale o coincidenza di mansioni tra la “vecchia”
dirigenza, nella quale veniva ricompreso il profilo in esame
avente rilevanza meramente professionale, dalla “nuova”
dirigenza dotata di più ampi ed autonomi poteri di spesa, di
organizzazione delle risorse umane e di controllo, con
correlativa responsabilità per la gestione e per i risultati
conseguiti.
Le attività proprie dei dirigenti tecnici, oggetto della
selezione precedentemente inquadrate nell’ottava fascia
funzionale, in quanto aventi contenuto professionale di
carattere prettamente tecnico, alla luce del nuovo
inquadramento giuridico risultavano correttamente inserite
nella categoria apicale del personale non dirigenziale (cat.
D), al pari di altre figure professionali (ingegneri,
geologi, avvocati ecc.).
Tali argomentazioni avevano indotto la Corte d’appello a
ritenere corretto l’operato dell’amministrazione e
conseguentemente infondato il ricorso dell’interessata.
La ricorrente ha così presentato ricorso alla Corte di
cassazione, denunciando la violazione dei principi
civilistici in materia contrattuale, in quanto l’assunzione
sarebbe stata effettuata in difetto della disciplina della
lex specialis del concorso, non sarebbe stata
rispondente ai canoni buona fede, correttezza e parità di
trattamento e che non sarebbe stato possibile modificare, da
parte della PA, la proposta contrattuale in base a norme
sopravvenute.
Norme, peraltro, che introducendo nuovi criteri di
classificazione del personale, non avrebbero consentito la
modifica in peius delle condizioni contrattuali
stabilite dal bando di concorso, atteso che né la legge, né
altro atto normativo, né provvedimento amministrativo di
autotutela successivo avrebbe potuto modificare l’offerta
del contratto di lavoro ivi stabilita.
La questione di fondo
La problematica sottoposta all’attenzione della Corte di
cassazione ha riguardato la disamina delle conseguenze che
possono prodursi nei confronti del vincitore di un concorso
nel caso in cui, successivamente all’emanazione del bando e
prima della conclusione delle operazioni concorsuali, cambi
il quadro normativo di riferimento e la posizione
funzionale, in cui il vincitore avrebbe dovuto essere
collocato, venga soppressa per l’introduzione di una nuova
disciplina del rapporto di lavoro.
I giudici di legittimità hanno preliminarmente ricordato che
il bando di concorso, essendo preordinato alla stipulazione
del contratto, costituisce, ove contenga gli elementi del
contratto alla cui conclusione è diretto, un’offerta al
pubblico, ai sensi dell’art. 1336 c.c., la quale è
revocabile solo finché non sia intervenuta l’accettazione da
parte degli interessati.
Tale offerta si perfeziona con l’accettazione del candidato
che sia utilmente inserito nella graduatoria degli idonei.
La PA, nell’ambito del pubblico impiego privatizzato, non
esercita più poteri di supremazia speciale ed opera, anzi,
con la capacità del datore di lavoro privato, nell’ambito di
un rapporto di lavoro paritario. In particolare, per
l’assunzione di nuovo personale, il bando indica il
contratto di lavoro che l’amministrazione intende
concludere, nonché il tipo e le modalità della procedura
concorsuale, partecipando agli interessati l’intento di
giungere alle assunzioni.
In tal senso, il bando riveste la duplice natura giuridica
di provvedimento amministrativo, in quanto rappresenta un
atto del procedimento di evidenza pubblica di cui regola il
successivo svolgimento, e di atto negoziale per gli aspetti
sostanziali, in ragione della proposta di assunzione
condizionata negli effetti all’espletamento della procedura
concorsuale ed all’approvazione della graduatoria (Cass.,
sez. un., sentenza n. 23327/2009; Cass., sez. Lavoro,
sentenza n. 1399/2009).
In generale, è possibile affermare che anche nel pubblico
impiego privatizzato, l’espletamento della procedura
concorsuale, con la compilazione della graduatoria finale e
la sua approvazione, fa sorgere nel candidato utilmente
collocato il diritto soggettivo all’assunzione secondo le
modalità fissate dal bando di concorso.
Nel caso di specie, tuttavia, successivamente all’emanazione
del bando e prima della conclusione delle operazioni
concorsuali, è cambiato il quadro normativo e la posizione
funzionale, in cui il vincitore avrebbe dovuto essere
collocato, è stata soppressa.
Secondo la Corte, è legittimo il diverso inquadramento del
vincitore del concorso nel caso in cui, a seguito di
riorganizzazione interna e prima del formale provvedimento
di nomina, sia soppressa la qualifica funzionale per cui il
candidato ha partecipato.
Il diritto del vincitore all’inquadramento nel livello
previsto dal bando di concorso è, infatti, subordinato al
mantenimento dell’organizzazione interna, in quanto
l’intervenuta soppressione dell’area di attività per cui il
concorrente ha partecipato alla selezione esime l’ente dal
rispetto degli obblighi che scaturivano dall’avviso (Cass.
sez. Lavoro, sentenza n. 9384/2006).
In questi casi, secondo le sezioni riunite, l’obbligo di
assunzione nei limiti fissati dal nuovo assetto
organizzativo non impone la valutazione, alla luce dei
principi di buona fede e di correttezza, i quali non operano
come fonti autonome e ulteriori di diritti se non nei limiti
della previsione contrattuale.
Tale interpretazione risulta, altresì, conforme all’art. 97
della Costituzione, secondo cui la PA, nell’organizzare i
suoi uffici è tenuta a conformare la propria azione ai
principi di imparzialità, efficienza e legalità.
Sussiste, pertanto, un potere-dovere dell’ente pubblico di
annullare i provvedimenti che abbiano disposto eventuali
inquadramenti illegittimi.
Tale obbligo, secondo la Cassazione, nel caso di ius
superveniens, impone all’amministrazione -ove non abbia
ritenuto di ricorrere alla revoca o all’annullamento della
procedura concorsuale, intervenuta prima della nomina dei
vincitori- di adottare il provvedimento di inquadramento del
vincitore del concorso sulla base della norma (di natura
legislativa o collettiva) vigente al momento dell’adozione
dell’atto.
Pertanto, il diritto del candidato vincitore ad ottenere
l’inquadramento previsto dal bando di concorso espletato
dalla PA per il reclutamento dei propri dipendenti, resta
subordinato alla permanenza, al momento dell’adozione del
provvedimento di nomina, dell’assetto organizzativo degli
uffici in forza del quale il bando era stato emesso.
A tal proposito, la Corte di cassazione, sulla base del
mutato quadro che ha riformato il rapporto di impiego del
personale dell’amministrazione interessata, ha ritenuto
corretta la decisione dell’ente di non inquadrare nel ruolo
dirigenziale i lavoratori assunti successivamente
all’entrata in vigore della legge e la conseguente
assegnazione alla categoria D/l della ricorrente a seguito
dell’abolizione della qualifica per la quale era stato
bandito il concorso, ciò in ragione del carattere comunque
apicale della categoria assegnata.
A ulteriore giustificazione della ritenuta validità del
comportamento tenuto dall’amministrazione, la suprema Corte
ha chiarito che in tale situazione non era ulteriormente
possibile l’inquadramento previsto dal bando e l’unica
soluzione possibile al fine di adempiere al suo obbligo di
assunzione non poteva che essere quella di inserire il
vincitore del concorso nella qualifica non dirigenziale di
livello apicale, non potendo creare un’ulteriore qualifica,
facoltà quest’ultima spettante alla contrattazione
collettiva.
È conseguentemente nullo l’atto in deroga, anche in
melius, alle disposizioni del contratto collettivo,
dovendosi escludere che la PA possa intervenire con atti
autoritativi nelle materie a essa demandate (Cass., sez.
un., sentenza n. 21744/2009).
La riqualificazione del personale è frutto di una trattativa
sindacale procedimentalizzata dalla legge, il cui esito non
è censurabile in sede giudiziale, in quanto non è consentito
al giudice valutare la razionalità del regolamento di
interessi realizzato dalle parti sociali con la
contrattazione collettiva (Cass., sez. Lavoro, sentenze n.
13869/2011 e n. 9313/2011).
L’unica alternativa che poteva essere adottata
dall’amministrazione, a fronte del mutamento del quadro
normativo e sindacale di riferimento, era quella di revocare
o modificare il bando di concorso in considerazione della
nuova situazione.
Una volta scelta la soluzione di mantenere fermo il
concorso, non era possibile procedere in modo diverso.
Conclusioni
La Corte di cassazione ha sancito, con una pronuncia
innovativa, che è legittima la decisione di una PA di
modificare l’inquadramento del vincitore di un concorso
rispetto a quello originariamente previsto dal bando a
seguito di norme entrate in vigore dopo la pubblicazione
dell’atto di selezione.
Il diritto del candidato vincitore a essere assunto
nell’inquadramento previsto dal bando di concorso, espletato
da un ente pubblico, è infatti subordinato alla permanenza,
al momento dell’adozione del provvedimento di nomina,
dell’assetto organizzativo degli uffici in forza del quale
il bando era stato emesso.
Pertanto, l’eventuale mutamento del quadro normativo e
contrattuale di riferimento, in ordine allo stato giuridico
del personale, intervenuto successivamente alla
pubblicazione del bando di concorso, vincola
l’amministrazione al rispetto del nuovo contesto
organizzativo (commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com). |
ESPROPRIAZIONE: INDENNITA' DI ESPROPRIO.
Nei giudizi aventi ad oggetto la determinazione dell’indennità
di espropriazione, relativi a procedimenti in cui
la dichiarazione di pubblica utilità sia stata emessa prima
del 30.06.2003, data di entrata in vigore del
D.P.R. 08.06.2001 n. 327, una volta venuto meno -a
seguito della sentenza n. 348 del 2007 della Corte
costituzionale- il criterio di indennizzo di cui all’art. 5-bis
D.L. 11.07.1992 n. 333, conv., con modif., nella L. 08.08.1992 n. 359, trova applicazione il criterio del
valore
venale del bene previsto dall’art. 39 L. 25.06.1865 n. 2359, e non si applica l’art. 2, comma 89, lett. a),
L. 24.12.2007 n. 244 che, avendo introdotto modifiche
all’art. 37, commi 1 e 2, D.P.R. 08.06.2001 n.
327, segue la disciplina transitoria prevista dall’art. 57
D.P.R. cit., ed è quindi inapplicabile nei procedimenti
espropriativi in cui la dichiarazione di pubblica utilità
sia
stata emessa prima del 30.06.2003, mentre la norma
intertemporale di cui all’art. 2, comma 90, L. n. 244
cit. prevede la retroattività della nuova disciplina di
determinazione
dell’indennità espropriativa solo per i procedimenti
espropriativi in corso, e non anche per i giudizi.
La sentenza in rassegna, occupandosi della controversia
insorta
in ordine alla determinazione dell’indennità d’esproprio
di un fondo, avente in parte destinazione edificabile e in
parte
destinazione non edificabile, si è collocata, con
riferimento
alla prima, nel solco dell’orientamento espresso da Cass.
n. 11480 del 2008, n. 28341 del 2008 e n. 13479 del 2012, a
mente del quale nei giudizi aventi ad oggetto la
determinazione
dell’indennità di espropriazione, relativi a procedimenti
in cui la dichiarazione di pubblica utilità sia stata
emessa prima
del 30.06.2003, data di entrata in vigore del D.P.R. 08.06.2001 n. 327, una volta venuto meno -a seguito della
sentenza n. 348 del 2007 della Corte costituzionale- il
criterio
di indennizzo di cui all’art. 5-bis D.L. 11.07.1992 n.
333, conv., con modif., nella L. 08.08.1992 n. 359, trova
applicazione il criterio del valore venale del bene previsto
dall’art. 39 L. 25.06.1865 n. 2359, e non si applica
l’art.
2, comma 89, lett. a), L. 24.12.2007 n. 244 che,
avendo
introdotto modifiche all’art. 37, commi 1 e 2, D.P.R. 08.06.2001 n. 327, segue la disciplina transitoria prevista
dall’art. 57 D.P.R. cit., ed è quindi inapplicabile nei
procedimenti
espropriativi in cui la dichiarazione di pubblica utilità
sia stata emessa prima del 30.06.2003, mentre la norma
intertemporale di cui all’art. 2, comma 90, L. n. 244 cit.
prevede la retroattività della nuova disciplina di
determinazione
dell’indennità espropriativa solo per i procedimenti
espropriativi
in corso, e non anche per i giudizi.
Con riferimento alla parte di suolo non edificabile, la
Corte è
giunta alla stessa conclusione, valorizzando l’orientamento
confermato da Cass. n. 2998 del 2012, secondo il quale,
qualora l’espropriato contesti, seppur limitatamente al
presupposto
della natura agricola o non edificatoria del terreno,
la stima operata dalla corte di appello con il criterio del
VAM
(valore agricolo medio) previsto dagli artt. 16 della L. n.
865
del 1971 e 5-bis, comma 4, della L. n. 359 del 1992 e
dichiarato
incostituzionale dalla sopravvenuta sentenza della Corte
costituzionale n. 181 del 2011, la stima dell’indennità dev’essere
effettuata applicando il criterio generale del valore venale
pieno, potendo l’interessato anche dimostrare che il
fondo è suscettibile di uno sfruttamento ulteriore e
diverso
da quello agricolo, pur senza raggiungere il livello dell’edificatorietà
e che, quindi, ha una valutazione di mercato che rispecchia
possibilità di utilizzazione intermedie tra l’agricola e
l’edificatoria (ad esempio, parcheggi, depositi, attività
sportive
e ricreative, chioschi per la vendita di prodotti) (Corte
di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 21.09.2012 n.
16103 - tratto
da Urbanistica e appalti n. 12/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: ABUSIVO
INIZIO LAVORI IN ZONA SISMICA E PERMANENZA
DEL REATO.
La contravvenzione di cui agli artt. 94, comma 1,
e 95
del D.P.R. n. 380 del 2001 (inizio dei lavori senza
preventiva
autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico
della Regione) permane sino a quando chi intraprende
un lavoro edile in zona sismica termina il lavoro ovvero
ottiene la relativa autorizzazione.
Il tema su cui la Corte viene chiamata a pronunciarsi nel
caso
in esame concerne l’individuazione della natura giuridica
dei reati in materia antisismica e, più specificamente, del
reato consistente nell’iniziare dei lavori in zona sismica
senza
preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio
tecnico della Regione.
La vicenda processuale vedeva
imputato
del reato di cui agli artt. 94, comma 1 e 95 del D.P.R. n.
380 del 2001 il proprietario di un immobile, cui era stato
contestato
di avere realizzato la sopraelevazione di un fabbricato
e la costruzione di n. 3 piccoli manufatti, senza avere
ottenuto
la preventiva autorizzazione necessaria per le opere da
eseguirsi in zona sismica. Avverso tale sentenza proponeva
ricorso il difensore, il quale -per quanto qui di interesse- eccepiva
la prescrizione del reato sul presupposto, in sostanza,
che il reato fosse da considerarsi istantaneo e non
permanente.
La prospettazione difensiva è stata però disattesa dai
giudici
di legittimità, che hanno dichiarato inammissibile il
ricorso affermando
il principio secondo cui la contravvenzione oggetto
di contestazione ha natura di reato permanente, sicché la
stessa permane sino a quando chi intraprende un lavoro edile
in zona sismica termina il lavoro ovvero ottiene la relativa
autorizzazione. Nelle more il contravventore, secondo gli
Ermellini,
esegue e prosegue lavori non autorizzati in relazione
ai quali l’ufficio tecnico regionale non ha verificato la
conformità
alle norme tecniche di sicurezza stabilite per le zone
sismiche.
La soluzione offerta dalla Cassazione non è però del tutto
pacifica nella giurisprudenza di legittimità. Ed infatti,
seppur
autorevolmente sostenuta nel passato dalle Sezioni Unite
(che, in particolare, sotto la vigenza dell’abrogata L. n.
64/1974 ritennero che i reati consistenti nell’omissione della
presentazione della denuncia dei lavori, e dell’avviso di
inizio
dei lavori, avessero natura di reati istantanei: Cass. pen.,
Sez. Un., 14.07.1999, n. 18, in CED Cass., n. 213933),
la
stessa è stata convincentemente contrastata dalla più
recente
giurisprudenza di legittimità, secondo cui i reati
previsti
dagli artt. 93 e 94 del D.P.R. n. 380/2001, sanzionati
dall’art.
95, avrebbero invece natura di reati permanenti, in quanto
il
primo (art. 93) permane sino a quando chi intraprende
l’intervento
edilizio in zona sismica non presenta la relativa denuncia
con l’allegato progetto ovvero non termina l’intervento e,
il secondo (art. 94), permane sino a quando chi intraprende
l’intervento edilizio in zona sismica lo termina ovvero
ottiene
la relativa autorizzazione (Cass. pen., sez. 3, 05.12.2007, n. 3069/2008, in CED Cass., n. 238629).
Poiché la loro
natura istantanea è sta anche di recente affermata dalla
Suprema
Corte (v., ad es.: Cass. pen., sez. III, 26.05.2001,
n. 23656, in CED Cass., n. 250487), sarebbe auspicabile che
su tale questione intervengano nuovamente le Sezioni Unite
penali per fornire un contributo esegetico risolutivo,
eliminando
i dubbi sorti in giurisprudenza (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.09.2012 n. 36037
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 12/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: REATO
PAESAGGISTICO E PRINCIPIO DI OFFENSIVITA'.
Il reato di cui all’art. 181, comma 1, D.Lgs. 22.01.2004, n. 42,
è reato di pericolo e, pertanto, per la configurabilità
dell’illecito, non è necessario un effettivo pregiudizio
per l’ambiente, potendo escludersi dal novero
delle condotte penalmente rilevanti soltanto quelle che
si prospettano inidonee, pure in astratto, a compromettere
i valori del paesaggio e l’aspetto esteriore degli edifici;
il principio di offensività deve, infatti, essere inteso
in termini non di concreto apprezzamento di un danno
ambientate, bensì dell’attitudine della condotta a porre
in pericolo il bene protetto.
La Suprema Corte è intervenuta, con la sentenza in
commento,
su un tema assai discusso nella giurisprudenza di
legittimità, vertente sulla natura giuridica del reato paesaggistico
e sul conseguente riflesso del medesimo sul principio di
offensività.
La vicenda processuale vedeva imputato il
proprietario
di un immobile cui era stato addebitato il reato di
cui all’art. 181 del D.Lgs. n. 42 del 2004, per avere
realizzato,
in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, in assenza
dell’autorizzazione dell’autorità preposta alla tutela del
vincolo,
una tettoia in legno di circa 20 mq, sul lastrico solare di
un manufatto preesistente.
Contro la sentenza di condanna
presentava ricorso per cassazione la difesa dell’imputato,
sotto i profili della violazione di legge e del vizio di
motivazione,
in particolare eccependo, per quanto qui di interesse, la
incongrua valutazione della necessità del permesso di
costruire
per la realizzazione del manufatto in oggetto, attesa
la natura pertinenziale di tale struttura.
Tesi, questa, che è stata ritenuta infondata dalla
Cassazione
che ha dichiarato inammissibile il ricorso. In particolare,
gli
Ermellini, nell’affermare il principio di cui in massima,
hanno
richiamato quella giurisprudenza secondo cui nelle zone
paesisticamente
vincolate è inibita -in assenza dell’autorizzazione
già prevista dalla L. n. 1497 del 1939, art. 7 le cui
procedure
di rilascio sono state innovate dalla L. n. 431 del 1985,
art. 7 e sono attualmente disciplinate dal D.Lgs. n. 42 del
2004, art. 146- ogni modificazione dell’assetto del
territorio,
attuata attraverso lavori di qualsiasi genere, non soltanto
edilizi
(con le deroghe eventualmente individuate dal piano
paesaggistico,
del D.Lgs. n. 42 del 2004, ex art. 143, comma 5,
lett. b, nonché ad eccezione degli interventi previsti dal
successivo
art. 149).
La fattispecie incriminatrice e` rivolta a
tutelare,
dunque, sia l’ambiente sia, strumentalmente e mediatamente,
l’interesse a che la p.a. preposta al controllo venga
posta in condizioni di esercitare efficacemente e
tempestivamente
detta funzione: la salvaguardia del bene ambientale,
in tal modo, viene anticipata mediante la previsione di
adempimenti
formali finalizzati alla protezione finale del bene
sostanziale
ed anche a tali adempimenti è apprestata tutela penale.
La Corte costituzionale, ricordano i giudici di legittimità,
ha precisato (sentenza n. 247 del 1997) che anche per i
reati
ascritti alla categoria di quelli formali e di pericolo
presunto
od astratto è sempre devoluto al sindacato del giudice
penale
l’accertamento in concreto dell’offensività specifica della
singola condotta, dal momento che, ove questa sia
assolutamente
inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato,
viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a
quella astratta e si verte in tema di reato impossibile, ex
art.
49 c.p. (sentenza n. 360 del 1995).
Nella fattispecie in
esame,
pertanto, a fronte dell’esecuzione di opere oggettivamente
non irrilevanti ed astrattamente idonee a compromettere
l’ambiente, sussiste per la Corte un’effettiva messa in
pericolo del paesaggio, oggettivamente insita nella minaccia
ad esso portata e valutabile come tale ex ante, nonché una
violazione dell’interesse dalla p.a. ad una corretta
informazione
preventiva ed all’esercizio di un efficace e sollecito
controllo
(in precedenza, nel senso che il reato de quo non viene
integrato da qualsiasi opera o attività compiuta senza il
preventivo
rilascio dell’autorizzazione da parte dell’autorità
preposta
alla tutela del vincolo, atteso che anche in presenza di
un reato formale e di pericolo presunto è riservata al
giudice
la verifica dell’offensività specifica della condotta
tenuta, con
valutazione ex ante e che perciò deve essere diretta ad
accertare
non già se vi sia stato un danno al paesaggio ed
all’ambiente,
bensì se il tipo di intervento fosse astrattamente
idoneo a ledere il bene giuridico tutelato: Cass. pen., sez.
III,
20.03.2003, n. 12850, in CED Cass., n. 224366) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.09.2012 n. 35801
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 12/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: ESCLUSIONE
DELLA RESPONSABILITA' ‘‘DI POSIZIONE’’
DEL PROPRIETARIO PER I LAVORI ABUSIVI.
Il semplice fatto di essere proprietario o comproprietario
del terreno (o comunque della superficie) sul quale vengono
svolti lavori edili illeciti, pur potendo costituire un
indizio grave, non è sufficiente da solo ad affermare la
responsabilità penale, nemmeno qualora il soggetto che
riveste tali qualità sia a conoscenza che altri eseguano
opere abusive sul suo fondo, essendo necessario, a tal
fine, rinvenire altri elementi in base ai quali possa
ragionevolmente
presumersi che egli abbia in qualche modo
concorso, anche solo moralmente, con il committente o
l’esecutore dei lavori abusivi.
La Corte Suprema ritorna con la sentenza in esame sul tema
dell’individuazione degli elementi in presenza dei quali
può
ritenersi sussistere la responsabilità del proprietario di
un
manufatto su cui siano stati eseguiti lavori abusivi.
La
vicenda
processuale vedeva imputato il proprietario di un immobile
cui era stato addebitato il reato di cui all’art. 44, lett.
c),
del D.P.R. n. 380 del 2001 per avere realizzato, in zona
assoggettata
a vincolo paesaggistico, in assenza del prescritto
permesso di costruire, un fabbricato in duplice elevazione,
ciascuna avente superficie di mt. 17 x 8,50 circa.
Contro la
sentenza di condanna presentava ricorso per cassazione
l’imputato sotto i profili della violazione di legge e della
illogicità
della motivazione, in particolare, per quanto di interesse
in questa sede, eccependo la carenza assoluta di prova in
ordine
alla riconducibilità dell’attività di edificazione abusiva
alla
persona dell’imputato.
La tesi non è stata però accolta dalla Cassazione che ha,
invece,
dichiarato inammissibile il ricorso.
Riguardo alla ritenuta
responsabilità per l’esecuzione della costruzione abusiva,
la giurisprudenza ormai assolutamente prevalente è,
invero,
orientata nel senso che non può essere attribuito ad un
soggetto,
per il solo fatto di essere proprietario di un’area, un
dovere di controllo dalla cui violazione derivi una
responsabilità
penale per costruzione abusiva.
Occorre considerare, in
sostanza, la situazione concreta in cui si è svolta l’attività
incriminata,
tenendo conto non soltanto della piena disponibilità, giuridica e di fatto, della superficie edificata e
dell’interesse
specifico ad effettuare la nuova costruzione (principio del
‘‘cui prodest’’) bensì pure una serie di elementi
sintomatici:
a) rapporti di parentela o di affinità tra l’esecutore
dell’opera
abusiva ed il proprietario;
b) l’eventuale presenza in loco
di
quest’ultimo durante l’effettuazione dei lavori;
c) lo
svolgimento
di attività di materiale vigilanza sull’esecuzione dei
lavori;
d) la richiesta di provvedimenti abilitativi anche in
sanatoria;
e) il regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari;
f)
in definitiva, tutte quelle situazioni e quei comportamenti,
positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi
integrativi
della colpa e prove circa la compartecipazione, anche
morale,
all’esecuzione delle opere, tenendo presente pure la
destinazione
finale della stessa.
Alla stregua di tali principi, nella
fattispecie in esame, i giudici hanno ricondotto
all’imputato
l’attività di edificazione illecita in oggetto sui rilievi
che egli
era proprietario del fondo su cui sono state realizzate le
opere
abusive, ne aveva la disponibilità giuridica e di fatto,
era
presente in cantiere al momento dell’accertamento degli
abusi e non ha prospettato né dimostrato che la costruzione
sia avvenuta con il suo dissenso ovvero a sua insaputa (v.,
nello stesso senso: Cass. pen., sez. III, 25.10.2002,
n.
35855, in CED Cass., n. 222511; difforme, però, da ultimo:
Cass. pen., sez. IV, 08.05.2009, n. 19714, in questa
Rivista
2009, 1390, con nota critica di Scarcella Obbligo giuridico
di impedire l’evento e responsabilità del proprietario ex
art.
41 Cost.) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.09.2012 n. 35797
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 12/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: RELAZIONE DI ACCOMPAGNAMENTO ALLA DIA,
NATURA DI ‘‘CERTIFICATO’’ E FALSITA` DEL PROGETTISTA.
La relazione di accompagnamento alla DIA edilizia (che
costituisce parte integrante ed essenziale della
dichiarazione
stessa di inizio dell’attività) ha natura di
‘‘certificato’’
per quanto riguarda sia la descrizione dello stato attuale
dei luoghi, sia la ricognizione degli eventuali vincoli
esistenti sull’area o sull’immobile interessati
dall’intervento,
sia la rappresentazione delle opere che si intende
realizzare e l’attestazione della conformità delle stesse
agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio.
Interessante questione quella oggetto di esame da parte
della Corte di Cassazione con la sentenza in esame. Il tema
è quello della natura giuridica della cd. relazione di
accompagnamento
alla DIA edilizia, su cui è sorto un contrasto nella
giurisprudenza di legittimità.
La vicenda processuale
vedeva
imputato del delitto di cui agli artt. 81 cpv. e 481 c.p. un
geometra
progettista, cui era stato addebitato di aver, in relazione
ad un intervento edilizio di ricostruzione di un manufatto:
a) asseverato falsamente, in una DIA presentata al Comune,
che gli eseguendi lavori avrebbero riguardato la
manutenzione
straordinaria di un fabbricato che però era già
semidemolito
nel 2002 e che tale intervento non si poneva in contrasto
con gli strumenti urbanistici, che invece non consentivano
nuove costruzioni in area classificata come agricola;
b) in
una successiva domanda di permesso di costruire per
ristrutturazione,
attestato falsamente l’esistenza del medesimo
edificio ormai ridotto allo stato di rudere. Avverso tale
sentenza aveva proposto ricorso per cassazione il geometra,
il quale deduceva -per quanto di interesse in questa sede-,
l’inconfigurabilità del reato di cui all’art. 481 c.p.,
riferito alla
DIA, poiché la relazione ad essa allegata non avrebbe
natura
di ‘‘certificato’’, in quanto ‘‘non è destinata a provare
la oggettiva
verità di ciò che in essa è stato affermato e, per la
parte progettuale, essa manifesta una semplice intenzione e
non registra una realtà oggettiva’’.
La tesi è stata però respinta dalla Cassazione, che ha
dichiarato
il ricorso inammissibile.
In particolare, la Corte si mostra assolutamente consapevole
dell’esistenza del contrasto, precisando come tesi non
convergenti
sono state espresse quanto alla parte progettuale
detta relazione allegata alla DIA edilizia. In relazione a
tale
parte del documento si è sostenuto, infatti, che essa
rifletterebbe
non una realtà oggettiva ma una semplice intenzione
dell’interessato di realizzare le opere in essa descritte ed
ancora
inesistenti e, per quanto riguarda l’eventuale attestazione
dell’assenza di vincoli, solamente un giudizio espresso
dal dichiarante, come tale non necessariamente fondato su
dati di fatto certi e sicuri (v., tra le tante: Cass. pen.,
sez. V,
24.02.2010, n. 7408, in CED Cass., n. 246094).
A
divergenti
conclusioni è pervenuta, invece, la stessa Sezione
III (v., sul punto, Cass. pen., sez. III, 08.06.2011, n.
23072, inedita) - ove, in adesione alle argomentazioni
svolte
da una precedente decisione (Cass. pen., sez. III, 19.01.2009, n. 1818, in CED Cass., n. 242478),
è stato
evidenziato
che, dalla lettura coordinata e sistematica della normativa
di
riferimento (D.P.R. n. 380 del 2001, art. 23, commi 1 e 6, e
art. 29, comma 3), emerge un ‘‘sostanziale affidamento’’
riposto
dall’ordinamento sulla relazione tecnica che accompagna
il progetto e sulla sua veridicità, atteso che ‘‘quella
relazione
si sostituisce, in via ordinaria, ai controlli dell’ente
territoriale
ed offre le garanzie di legalità e correttezza
dell’intervento’’.
In tale prospettiva la relazione del tecnico abilitato,
per la Cassazione, costituisce un atto non solo idoneo ad
integrare
la dichiarazione di inizio dell’attività, ma anche dotato
di piena autonomia e di valore pubblicistico, assumendo
valore
sostitutivo dei titolo edilizio abilitante e quindi
certificativo.
La Corte, in adesione a tale ultimo orientamento, delinea
la DIA, come atto fidefaciente a prescindere dal controllo
della p.a. e riconnesso alla delega di potestà pubblica ad
un
soggetto qualificato; ne consegue, dunque, che la relazione
asseverativa del progettista, sulla quale si fonda
l’eliminazione
dell’intermediazione del potere autorizzatorio) dell’attività
del privato da parte della pubblica amministrazione, assume
valore sostitutivo del provvedimento amministrativo e quindi
‘‘certificativo’’ (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.09.2012 n. 35795
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 12/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: TOTALE
DIFFORMITA' E ‘‘SUPERFICIE COPERTA’’
PER IMPIANTO INDUSTRIALE.
Il concetto di superficie coperta, con riferimento alla
realizzazione
di impianti industriali, non deve essere inteso
in senso tecnico-costruttivo, bensì in quello più lato
urbanistico-edilizio, quale superficie direttamente impegnata
da un impianto fisso anche tenendo conto della
superficie occupata per il suo funzionamento, in quanto
detta superficie viene sottratta ad ogni altra possibilità
di utilizzazione.
Interessante questione quella affrontata dalla Cassazione
con la sentenza in commento, in cui i giudici di
legittimità sono
chiamati a risolvere un problema tecnico-giuridico
particolare:
come deve intendersi il concetto di superficie ‘‘coperta’’
ove il titolo abilitativo consenta al richiedente la
realizzazione
di interventi edilizi per una determinata estensione.
La
vicenda processuale vedeva indagati del reato di cui
all’art.
all’art. 44, lett. b), D.P.R. 06.06.2001, n. 380, due
soggetti
cui era contestata, la realizzazione in corso d’opera, nella
rispettiva
qualità, la prima di amministratore delegato di una
s.r.l., ed il secondo, di progettista e direttore dei
lavori, opere
edilizie per la costruzione di un parco elettroeolico
costituito
da 16 generatori su un’estensione complessiva di terreno di
ha 01.14.43 in totale difformità dei permessi di costruire
n.
173/2002 rilasciato il 29.10.2007 dal Comune di XXX e
n. 197 rilasciato l’11.10.2007 dal Comune di YYY.
Secondo
l’ipotesi accusatoria che aveva portato il GIP a disporre
il sequestro di alcuni aerogeneratori e delle aree su cui
gli
stessi insistono, facenti parte di un parco eolico in corso
di
realizzazione, in sintesi, i citati permessi di costruire
prevedevano
che per la realizzazione del parco venisse utilizzata
un’area complessiva di circa ha 91.61.83, mentre nel caso in
esame era stata utilizzata un’area di ha 01.14.43. Gli
impianti
inoltre occupavano una superficie di gran lunga superiore al
limite dei 40% di quella totale, come stabilito dall’art.
11.5
del Piano Regolatore Territoriale del Consorzio Industriale
del CASIC, approvato dalla Regione Autonoma della S.; non
sarebbero poi state osservate le distanze minime, stabilite
dall’art. 51, punto 2.2 della deliberazione della Giunta
Regionale
n. 28/56 del 26.07.2007, delle turbine degli impianti
eolici dai confini delle T., nonché dai confini delle
strade provinciali;
infine, non era stata chiesta preventivamente la valutazione
di impatto ambientale per la realizzazione di impianti
eolici.
Impugnato il provvedimento davanti al Tribunale del
riesame, i giudici della cautela hanno -per quanto qui di
interesse- ritenuto insussistente la violazione delle previsioni
dei permessi di costruire, con riferimento alle dimensioni
della superficie destinata alla realizzazione del Parco
Eolico,
osservando che i provvedimenti citati facevano riferimento
al negozio costitutivo del diritto di superficie, così come
condizionato
alla successiva verifica della effettiva estensione
sulla quale sarebbe stato esercitato il diritto. Il
Tribunale ha,
sul punto, rilevato che la superficie occupata da ogni
singolo
impianto, da rapportarsi alla base dei tralicci che
sorreggono
la struttura, e` pari a circa mq 151, sicché risulterebbe
rispettato
il rapporto massimo del 40%, tenuto conto della superficie
del lotto pari a 625 mq destinata ad ogni singolo impianto.
Tale rapporto secondo l’ordinanza risulterebbe rispettato
anche se si dovesse configurare come superficie occupata
quella sorvolata dalle pale, risultante inferiore a mq 250.
Proponeva ricorso per cassazione per violazione di legge il
P.M., contestandosi, sul punto, il criterio in base al quale
il
Tribunale ha calcolato la superficie occupata dai singoli
aerogeneratori,
dovendosi tener conto -secondo l’Accusa- non
solo della superficie occupata dai tralicci che sostengono
le
pale, ma anche del diametro di queste ultime, che è di 80
metri, e, in particolare, della superficie occupata in
conseguenza
del movimento rotatorio di 360 gradi che le stesse
effettuano seguendo la direzione del vento, con la
conseguenza
che rapportata la superficie occupata a quella dei singoli
lotti risulta occupato il 98% della superficie su cui
insiste
ogni singolo aerogeneratore.
La tesi è stata accolta dalla Cassazione che ha annullato
il
provvedimento di dissequestro del Tribunale del riesame.
Sulla questione, in particolare, i giudici di legittimità
hanno
affermato che, ai fini della determinazione della superficie
occupata da ogni singolo impianto, deve tenersi conto della
proiezione della parte aerea sull’area sottostante. Ai fini
di tale
valutazione, infatti, non può non tenersi conto del
movimento
rotatorio dell’Impianto stesso.
Il concetto di superficie
coperta, con riferimento alla realizzazione di impianti
industriali,
infatti, per la Corte, non deve essere inteso in senso
tecnico-costruttivo, bensì in quello più lato
urbanistico-edilizio,
quale superficie direttamente impegnata da un impianto
fisso anche tenendo conto della superficie occupata
per il suo funzionamento, in quanto detta superficie viene
sottratta ad ogni altra possibilità di utilizzazione (sulla
questione
non constano precedenti) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.08.2012 n. 33365
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 11/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: RISTRUTTURAZIONE
EDILIZIA ED INDIVIDUAZIONE DEI TITOLI
ABILITATIVI.
Sono realizzabili con denuncia d’inizio attività gli
interventi
di ristrutturazione edilizia di portata minore, ovvero
che comportano una semplice modifica dell’ordine in
cui sono disposte le diverse parti dell’immobile, e con
conservazione della consistenza urbanistica iniziale,
classificabili diversamente dagli interventi di
ristrutturazione
edilizia descritti dall’art. 10, comma 1, lett. c),
D.P.R. n. 380 del 2001, che portano ad un organismo in
tutto o in parte diverso dal precedente con aumento
delle unità immobiliari, o modifiche del volume, sagoma,
prospetti o superfici, e per i quali e` necessario il
preventivo
permesso di costruire.
Questione ricorrente quella oggetto di esame da parte della
Suprema Corte nella sentenza in esame. Gli Ermellini,
infatti,
sono stati chiamati nuovamente a pronunciarsi sul tema della
individuazione di quale sia il titolo abilitativo richiesto
nel caso
in cui gli interventi da eseguirsi sull’unità immobiliare
siano
qualificabili come di ‘‘ristrutturazione edilizia’’.
La
vicenda processuale
vedeva imputati tre soggetti i quali erano stati condannati
per avere, la prima, quale proprietaria e committente,
il secondo, quale direttore dei lavori, ed il terzo, quale
legale
rappresentante della ditta esecutrice dei lavori, eseguito,
senza
permesso di costruire e senza autorizzazione paesaggistica,
la ristrutturazione di alcuni annessi agricoli. In
particolare,
dagli atti dibattimentali era emerso che la committente,
quale
legale rappresentante del ‘‘Borghetto di C.’’ che svolge attività
agricola e turistica, aveva chiesto di eseguire lavori
edilizi,
ottenendo la concessione n. 239/2004 e la variante n. 128/2006, nonché autorizzazione paesaggistica. Nel corso di un
sopralluogo era stato però constatato che altri fabbricati
(oltre
quelli oggetto dei provvedimenti sopra indicati) erano stati
oggetto di lavori di ristrutturazione. E per taluni dei
predetti lavori,
che necessitavano indiscutibilmente di permesso di
costruire,
questo non era stato rilasciato neppure in sanatoria.
A prescindere dal fatto che detti lavori, come sostenuto
dalla
difesa, fossero in astratto assentibili, gli imputati
avrebbero
dovuto astenersi dall’eseguirli fino a quando non fossero
stati
rilasciati i permessi di costruire e le autorizzazioni
paesaggistiche.
L’esistenza poi dei vincoli paesaggistici non era stata
oggetto
di specifica ed argomentata contestazione; né i
provvedimenti
del Comune erano stati mai contestati davanti al Giudice
amministrativo. Censuravano la sentenza di condanna
gli imputati, sostenendo, per quanto qui di interesse, che i
giudici di merito fossero pervenuti alla condanna ritenendo
pacifico che vi fosse stato un mutamento della destinazione
d’uso, con conseguente necessità di permesso di costruire.
Tale assunto però, a giudizio della difesa, era smentito
dalle
risultanze processuali, avendo i testi parlato di
probabilità. Lo
stato dei lavori, al momento del sopralluogo, non consentiva
in alcun modo di desumere la natura e la destinazione delle
opere al momento della ultimazione. Trattandosi di lavori di
ristrutturazione
senza mutamento della destinazione d’uso e
non essendovi prova dell’esistenza del vincolo ambientale,
non era dunque necessario per i ricorrenti il permesso di
costruire
ma una DIA (la cui mancanza era sanzionabile solo in
via amministrativa).
La prospettazione difensiva non ha però avuto fortuna
davanti
ai giudici della Suprema Corte. Ed infatti, i giudici di
Piazza Cavour hanno convenuto sul fatto che l’opera
realizzata
e di cui alla contestazione costituisse ‘‘nuova
costruzione’’.
Hanno, in particolare rilevato che, a prescindere dalla
riconoscibilità
o meno della modifica della destinazione d’uso,
risultava provato che si trattava di «ristrutturazioni che
hanno
determinato modifiche prospettiche e aumenti di volumi e
superfici utili», per cui, a norma del D.P.R. n. 380 del
2001,
art. 10, comma 1, lett. c), occorreva permesso di costruire,
pacificamente non conseguito.
Corretta, quindi, era stata
l’applicazione, da parte dei giudici di merito, del
principio di
diritto, più volte affermato dalla Cassazione, secondo cui
sono
realizzabili con denuncia di inizio attività gli interventi
di ristrutturazione
edilizia di portata minore, ovvero che comportano
una semplice modifica dell’ordine in cui sono disposte
le diverse parti dell’immobile, e con conservazione della
consistenza
urbanistica iniziale, classificabili diversamente dagli
interventi di ristrutturazione edilizia descritti dall’art.
10, comma
1, lett. c), D.P.R. n. 380 del 2001, che portano ad un
organismo
in tutto o in parte diverso dal precedente con aumento
delle unità immobiliari, o modifiche del volume, sagoma,
prospetti o superfici, e per i quali è necessario il
preventivo
permesso di costruire (v., in termini: Cass. pen., sez. III,
23.01.2007, n. 1893, in Ced Cass., n. 235871) (Corte
di
Cassazione, Sez. Sez. III penale, sentenza 26.07.2012 n. 30479
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 11/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: INESTENSIBILE
L’EFFETTO ESTINTIVO DELLA SANATORIA
AI REATI ANTISIMICI O IN TEMA DI CEMENTO ARMATO.
L’estinzione delle contravvenzioni a seguito di rilascio di
concessione in sanatoria ex D.P.R. n. 380 del 2001, art.
36 opera solo in ordine al reato urbanistico per il quale
la concessione stessa è prevista: con la ulteriore
conseguenza
che, se con il reato urbanistico concorrono altri
reati di diversa natura, come la violazione della normativa
antisismica o della normativa sulle opere in cemento
armato, tali ultimi reati non possono ritenersi estinti,
per la diversa oggettività giuridica.
La Corte Suprema ritorna con la sentenza in esame sul tema
della delimitazione dell’effetto estintivo del permesso di
costruire
in sanatoria, ribadendo il proprio tradizionale orientamento
giurisprudenziale secondo cui la sanatoria estingue i
soli reati urbanistici e non anche quelli in materia
antisismica
o in materia di violazioni sul cemento armato. La vicenda
processuale
segue ad una sentenza di condanna emessa nei
confronti di due soggetti, imputati di violazione della
normativa
edilizia ed antisismica (D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 83,
84,
93, 94 e 95), in relazione ad alcune opere edilizie
realizzate all’interno
di un capannone industriale.
Gli stessi proponevano
ricorso per cassazione, lamentando l’erroneità della
decisione
per non avere il Tribunale tenuto conto che nei confronti
degli
stessi era intervenuta sentenza di proscioglimento per
estinzione
del reato urbanistico a seguito di rilascio di concessione
in sanatoria: con la conseguenza che l’affermazione
contenuta
nella sentenza, secondo la quale era stata ritenuta la
mancanza del permesso in sanatoria era da ritenersi errata, poiché all’intervenuto rilascio della concessione in
sanatoria
sarebbe dovuta conseguire l’estinzione degli altri reati.
La tesi non ha però avuto seguito nella valutazione dei
giudici
di legittimità che hanno mantenuto ferma la tradizionale
giurisprudenza
secondo cui il rilascio in sanatoria del permesso di
costruire non determina l’estinzione dei reati relativi alle
opere
in conglomerato cementizio, o in materia antisismica, atteso
che le disposizioni dell’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001
estinguono i soli reati contravvenzionali previsti dalle
norme
urbanistiche, fra le quali non possono essere ricomprese le
disposizioni aventi oggettività giuridica diversa rispetto
alla tutela
urbanistica del territorio (v., tra le tante: Cass. pen.,
sez.
III, 21.03.2002, n. 11511, in Ced Cass., n. 221439) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.07.2012 n. 29131
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 11/2012). |
VARI: Sentenze a impatto sui privati.
Il giudicato del Tar eseguibile non solo verso la p.a..
Il Tribunale amministrativo regionale della
Puglia allarga i confini del processo.
Sentenze del Tar esecutive anche contro i privati. Il
giudicato amministrativo può essere eseguito non solo contro
una pubblica amministrazione, ma anche nei confronti di
parti private coinvolte nel processo.
Il processo amministrativo allarga i suoi confini: il
giudizio di ottemperanza può essere attivato anche nei
confronti dei privati, essendo necessario riconoscere al
giudice amministrativo la possibilità di garantire
l'attuazione del giudicato senza distinzioni date dalla
natura soggettiva della parte condannata.
È quanto ha stabilito il TAR Puglia–Bari, Sez. II, con la
sentenza
11.07.2012 n. 1410.
Nel caso concreto un lavoratore si è rivolto al giudice
amministrativo al fine di ottenere la liquidazione di alcuni
compensi per attività svolte in favore di una società in
origine pubblica, poi privatizzata. La condanna generica
emanata dal tribunale amministrativo non è bastata al
lavoratore, che ha dovuto rivolgersi allo stesso plesso
giurisdizionale per chiedere l'ottemperanza della decisione
precedentemente emessa.
La sopravvenuta privatizzazione della società condannata,
però, ha comportato la declaratoria di inammissibilità del
secondo ricorso per difetto di giurisdizione. Secondo il
giudice amministrativo la giurisdizione sarebbe spettata al
giudice ordinario. Tutto da rifare quindi.
Il tribunale civile, dal canto suo, ha negato, in contrasto
alla pronuncia del Tar, la pretesa del lavoratore. Tuttavia,
altro colpo di scena, la Corte di appello, in sede di
gravame, si è ritenuta, così come il Tar, priva di
giurisdizione.
La lite è quindi transitata innanzi la Suprema corte la
quale, facendo ordine una volta per tutte sul farraginoso
iter processuale, ha rimesso la questione al Tar, ritenuto
l'unico giudice deputato a statuire sulla vicenda.
Il Tar, per la terza volta investito della vicenda, ha
rigettato l'eccezione di inammissibilità del ricorso per
intervenuta decadenza proposta dalla società. Al contempo,
però, ha dovuto individuare il mezzo alternativo alla
(decaduta) azione di cognizione per la liquidazione della
condanna generica.
La soluzione cui è pervenuto il giudice amministrativo è
stata quella di riqualificare la domanda, convertendola nel
ricorso per l'ottemperanza del giudicato, il tutto -qui
l'interesse della pronuncia- nonostante la natura privata
della parte resistente.
In passato, infatti, la giurisprudenza amministrativa si è
dimostrata piuttosto ostile all'esperibilità del giudizio
contro i privati, ritenendolo attivabile solo in presenza di
soggetti pubblici.
La sentenza, invece, ribalta l'orientamento negativo, dando
contezza degli argomenti che militano per la tesi positiva,
alcuni dei quali già si erano fatti avanti nella
giurisprudenza del Consiglio di stato seppur con riferimento
a questioni nelle quali, dal punto di vista soggettivo, vi
era stata una mera successione fra enti (da pubblico a
privato) nella titolarità di un determinato rapporto.
L'argomento principale a sostegno dell'ammissibilità del
rimedio esecutorio ha carattere testuale, e risiede nel
codice del processo amministrativo (dlgs 104/2010), ove
all'articolo 112 si afferma che «i provvedimenti del
giudice amministrativo devono essere eseguiti dalla pubblica
amministrazione e dalle altre parti».
Secondo il Tar Puglia, detta disposizione avrebbe tre
precise funzioni: anzitutto, codificare l'obbligo di
esecuzione delle sentenze amministrative, facendo da «pendant»
(per il giudicato amministrativo) con la antica disposizione
contenuta nell'articolo 4 della legge 2248/1865, all. E,
nella parte in cui pone l'obbligo per le amministrazioni di
conformarsi al giudicato dei tribunali (ordinari); inoltre,
osserva il Tar Puglia, la disposizione estenderebbe la
declaratoria dell'obbligo di esecuzione delle decisioni
anche alle «altre parti» (in ipotesi, anche private)
che hanno partecipato al processo nel quale il giudicato si
è formato; da ultimo, attraverso la lettura combinata con il
secondo comma dell'articolo 112 c.p.a. tale da costruire un
ponte logico tra le due norme, ritenere proponibile il
giudizio di ottemperanza anche nei confronti di quei
soggetti diversi dalla pubblica amministrazione, che sono
comunque tenuti, giusto il disposto del primo comma, ad
eseguire i «provvedimenti del giudice amministrativo».
Ci sono poi argomenti di principio: in particolare, così
interpretato, il giudizio di ottemperanza sarebbe in grado
di garantire quel principio di effettività della tutela
(soprattutto nell'ambito della giurisdizione esclusiva)
tanto enfatizzato dal nuovo codice di rito, principio che
risulterebbe sensibilmente compresso laddove fossero
paralizzati i poteri di intervento esecutivo del giudice
amministrativo per il fatto che la mancata esecuzione del
giudicato sia imputabile alla parte privata.
Infine, non deve dimenticarsi, come il giudice
amministrativo non coincida con il «giudice
dell'amministrazione», ma con il giudice dell'interesse
legittimo (oltre che, in particolari materie, del diritto
soggettivo) dal che non può che risultare costituzionalmente
conforme l'attribuzione del compito di garantire
l'attuazione del giudicato (ormai vero e proprio «diritto»
della parte vincente, peraltro gestibile con i poteri della
giurisdizione di merito ex articolo 134 c.p.a.), anche nei
casi in cui l'obbligo di esecuzione gravi su una parte
privata
(articolo ItaliaOggi del 13.12.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’art.
14 del DPR 06.06.2001 n. 380, che i ricorrenti assumono
violato, stabilisce testualmente che “Il permesso di
costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali è
rilasciato esclusivamente per edifici ed impianti pubblici o
di interesse pubblico, previa deliberazione del consiglio
comunale, nel rispetto comunque delle disposizioni contenute
nel decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, e delle altre
normative di settore aventi incidenza sulla disciplina
dell'attività edilizia”.
Ai fini dell’applicazione della
predetta deroga, la questione della riconducibilità delle
strutture alberghiere tra gli “edifici ed impianti pubblici
o di interesse pubblico” è stata già affrontata e risolta
dalla giurisprudenza amministrativa nel senso di ritenerle
comprese nell’ambito di applicazione dell’anzidetta
previsione “trattandosi di un servizio offerto alla
collettività e caratterizzato da una pubblica fruibilità,
con la correlativa possibilità di concessioni in deroga alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici in vigore”.
--------------
Laddove il territorio interessato possieda una vocazione
turistica prevalente, la riconduzione all'interesse pubblico
dell'edificio alberghiero non richiede affatto
un'interpretazione estensiva ed è anzi compatibile con una
lettura restrittiva rispetto a diverse attività economiche
che non presentino le medesime caratteristiche di rilevanza
urbanistica e culturale, ma che solo possano accampare il
loro peso economico.
Sostengono ancora i ricorrenti che nel caso di specie
l’amministrazione intimata avrebbe fatto illegittimo uso
dell’istituto della concessione edilizia in deroga, non
sussistendo, nella specie, i presupposti di interesse
pubblico che avrebbero potuto legittimare il rilascio di un
titolo edilizio in contrasto con la normativa urbanistica
comunale.
L’art. 14 del DPR 06.06.2001 n. 380, che i ricorrenti
assumono violato, stabilisce testualmente che “Il
permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici
generali è rilasciato esclusivamente per edifici ed impianti
pubblici o di interesse pubblico, previa deliberazione del
consiglio comunale, nel rispetto comunque delle disposizioni
contenute nel decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, e
delle altre normative di settore aventi incidenza sulla
disciplina dell'attività edilizia”.
Osserva il Collegio che ai fini dell’applicazione della
predetta deroga, la questione della riconducibilità delle
strutture alberghiere tra gli “edifici ed impianti
pubblici o di interesse pubblico” è stata già affrontata
e risolta dalla giurisprudenza amministrativa nel senso di
ritenerle comprese nell’ambito di applicazione
dell’anzidetta previsione “trattandosi di un servizio
offerto alla collettività e caratterizzato da una pubblica
fruibilità, con la correlativa possibilità di concessioni in
deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici in
vigore” (Cons. Stato, Sez. IV, 29.10.2002 n. 5913).
Inoltre, nel caso di specie, con la delibera n. 31 del
19.07.2004, di approvazione della concessione della deroga
recante l’elevazione dell’indice di edificabilità da 0,4 mc/mq
a 0,95 mc/mq, il Consiglio comunale ha espressamente
evidenziato, in termini affatto irragionevoli, ulteriori
profili di interesse pubblico dell’opera, rilevando che la
struttura alberghiera in questione è funzionale allo
sviluppo economico del Comune di Sant’Anna Arresi con
particolare riferimento all’incremento del settore turistico
ed alle ricadute occupazionali dell’indotto; nonché con
riguardo alla sviluppo ed alla valorizzazione dell’intera
area.
In proposito la giurisprudenza ha altresì precisato che “laddove
il territorio interessato possieda una vocazione turistica
prevalente, la riconduzione all'interesse pubblico
dell'edificio alberghiero non richiede affatto
un'interpretazione estensiva ed è anzi compatibile con una
lettura restrittiva rispetto a diverse attività economiche
che non presentino le medesime caratteristiche di rilevanza
urbanistica e culturale, ma che solo possano accampare il
loro peso economico” (Consiglio Stato, sez. IV,
28.10.1999, n. 1641)
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 22.07.2009 n. 1375 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Circa
l’ammissibilità del rilascio di concessioni o permessi di
costruire in deroga, la giurisprudenza amministrativa aveva
inizialmente interpretato l’espressione “impianti di
interesse pubblico”, di cui all’art. 41-quater della L.
17.08.1942, n. 1150 (trasfuso nell’attuale art. 14 del T.U.
sull’edilizia, approvato con D.P.R. 06.06.2001, n. 380), ad
essi riconducendo solo interventi corrispondenti a compiti
assunti direttamente dalla pubblica Amministrazione.
Successivamente si è, peraltro, registrata un’evoluzione,
poi consolidatasi nel diritto vivente,nel senso di ritenere
applicabile la stessa norma anche a strutture dove venga
offerto un servizio alla collettività, caratterizzate da una
pubblica fruibilità.
E’ stato considerato, infatti, che l'art. 16 della legge
06.08.1967, n. 765 preveda la possibilità di esercizio di un
potere di deroga alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici per manufatti sia pubblici (cioè gestiti da enti
pubblici) che di interesse pubblico (ossia gestiti da
soggetti indifferentemente pubblici o privati, aventi
peraltro l’identica missione di soddisfare esigenze della
collettività di tipo economico, bancario-assicurativo,
culturale, industriale, igienico, religioso o
turistico-alberghiero).
In particolare, questa nuovo indirizzo della giurisprudenza
ha riguardato le strutture alberghiere, ritenute a pieno
titolo ricomprese tra gli impianti di interesse pubblico,
per i quali è consentito il rilascio di concessione edilizia
in deroga.
Questo peculiare interesse pubblico, in particolare, ha
trovato base e ragione nello sviluppo del turismo e della
cultura.
Passando alle considerazioni del Collegio, va premesso che,
circa l’ammissibilità del rilascio di concessioni o permessi
di costruire in deroga, la giurisprudenza amministrativa
aveva inizialmente interpretato l’espressione “impianti di
interesse pubblico”, di cui all’art. 41-quater della L.
17.08.1942, n. 1150 (trasfuso nell’attuale art. 14 del T.U.
sull’edilizia, approvato con D.P.R. 06.06.2001, n. 380), ad
essi riconducendo solo interventi corrispondenti a compiti
assunti direttamente dalla pubblica Amministrazione (vd.,
ad es.: Cons. St., V, 11.12.1992, n. 1428; IV, 25.11.1988,
n. 774).
Successivamente si è, peraltro, registrata un’evoluzione,
poi consolidatasi nel diritto vivente,nel senso di ritenere
applicabile la stessa norma anche a strutture dove venga
offerto un servizio alla collettività, caratterizzate da una
pubblica fruibilità.
E’ stato considerato, infatti, che
l'art. 16 della legge 06.08.1967, n. 765 preveda la
possibilità di esercizio di un potere di deroga alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici per manufatti sia
pubblici (cioè gestiti da enti pubblici) che di interesse
pubblico (ossia gestiti da soggetti indifferentemente
pubblici o privati, aventi peraltro l’identica missione di
soddisfare esigenze della collettività di tipo economico,
bancario-assicurativo, culturale, industriale, igienico,
religioso o turistico-alberghiero).
In particolare, questa
nuovo indirizzo della giurisprudenza ha riguardato le
strutture alberghiere, ritenute a pieno titolo ricomprese
tra gli impianti di interesse pubblico, per i quali è
consentito il rilascio di concessione edilizia in deroga (vd.:
Cons. St., V, 11.01.2006, n. 46; IV, 12.01.2005, n. 7031; IV,
29.10.2002, n. 5913; IV, 28.10.1999, n. 1641; V, 15.07.1998,
n. 1044).
Questo peculiare interesse pubblico, in
particolare, ha trovato base e ragione nello sviluppo del
turismo e della cultura
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 18.06.2009 n. 194 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
regola generale della decadenza del titolo edilizio in
contrasto col nuovo piano regolatore trova la sua ratio
nell’esigenza che le sopravvenute previsioni urbanistiche
devono trovare indefettibile applicazione (salva la
possibilità per l’interessato di impugnarle), in quanto
volte –per definizione– ad un più razionale assetto del
territorio, per soddisfare gli interessi pubblici e privati
coinvolti.
Infatti, quando un nuovo piano determina le aree destinate
all’edificazione e soddisfa gli standard eliminando la
natura edificatoria di alcune aree determinate nel piano
precedente, vi sarebbe l’alterazione delle previsioni
urbanistiche e un irrazionale assetto del territorio (con la
violazione della normativa sugli standard) se fossero
edificate sia le aree indicate nel nuovo piano, sia quelle
indicate nel piano precedente, ma destinate a servizi in
quello successivo.
Per contemperare gli opposti interessi, l’art. 15, comma 4,
del testo unico (così come il precedente art. 31 della legge
n. 1150 del 1942) ha previsto una eccezione alla regola
generale, che si ha quando i lavori precedentemente
assentiti –pur contrastando col piano sopravvenuto in
vigore– possano continuare ad essere realizzati se già
cominciati nel vigore del piano precedente (e se siano
completati entro il termine di tre anni dalla data di
inizio).
In assenza del dato obiettivo dell’inizio dei lavori nel
vigore del piano in base al quale è stato emesso il titolo
edilizio, la legge dispone che va dichiarata la sua
decadenza, con un atto dovuto di natura ricognitiva, avente
effetti ex tunc.
---------------
La pronuncia di decadenza è espressione di un potere
vincolato, ha natura ricognitiva con effetti ex tunc e va
emanata anche a notevole distanza di tempo, proprio perché
accerta il venir meno degli effetti del titolo edilizio
difforme dal piano sopravvenuto.
La pronuncia di decadenza –per il suo carattere di atto
dovuto– deve basarsi su una motivazione che evidenzi
l’effettiva sussistenza dei suoi presupposti di fatto (cioè
il mancato inizio dei lavori e l’entrata in vigore del piano
regolatore incompatibile col titolo in precedenza
rilasciato): la prevalenza dell’interesse pubblico alla
attuazione del piano sopravvenuto è imposta dall’art. 15,
comma 4, del testo unico n. 380 del 2001, che determina la
pronuncia di decadenza in presenza dei relativi presupposti
oggettivi.
Va premesso che, per l’art. 31, comma 11, della legge n.
1150 del 1942, “l’entrata in vigore di nuove previsioni
urbanistiche comporta la decadenza delle licenze in
contrasto con le previsioni stesse, salvo che i relativi
lavori siano stati iniziati e vengano completati entro il
termine di tre anni dalla data di inizio”.
Tale disposizione è stata trasfusa nell’art. 15, comma 4,
del testo unico n. 380 del 2001 (vigente alla data di
emanazione dell’atto impugnato in primo grado), per il quale
“il permesso decade con l'entrata in vigore di
contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori
siano già iniziati e vengano completati entro il termine di
tre anni dalla data di inizio”.
La regola generale della decadenza del titolo edilizio in
contrasto col nuovo piano regolatore trova la sua ratio
nell’esigenza che le sopravvenute previsioni urbanistiche
devono trovare indefettibile applicazione (salva la
possibilità per l’interessato di impugnarle), in quanto
volte –per definizione– ad un più razionale assetto del
territorio, per soddisfare gli interessi pubblici e privati
coinvolti.
Infatti, quando un nuovo piano determina le aree destinate
all’edificazione e soddisfa gli standard eliminando la
natura edificatoria di alcune aree determinate nel piano
precedente, vi sarebbe l’alterazione delle previsioni
urbanistiche e un irrazionale assetto del territorio (con la
violazione della normativa sugli standard) se fossero
edificate sia le aree indicate nel nuovo piano, sia quelle
indicate nel piano precedente, ma destinate a servizi in
quello successivo.
Per contemperare gli opposti interessi, l’art. 15, comma 4,
del testo unico (così come il precedente art. 31 della legge
n. 1150 del 1942) ha previsto una eccezione alla regola
generale, che si ha quando i lavori precedentemente
assentiti –pur contrastando col piano sopravvenuto in
vigore– possano continuare ad essere realizzati se già
cominciati nel vigore del piano precedente (e se siano
completati entro il termine di tre anni dalla data di
inizio).
In assenza del dato obiettivo dell’inizio dei lavori nel
vigore del piano in base al quale è stato emesso il titolo
edilizio, la legge dispone che va dichiarata la sua
decadenza, con un atto dovuto di natura ricognitiva, avente
effetti ex tunc (cfr. Sez. V, 09.09.1985, n. 288).
Ciò premesso, ritiene la Sezione che del tutto
legittimamente l’Amministrazione comunale ha dichiarato la
decadenza della concessione edilizia del 12.03.1992
(ritenuta sussistente dalla sentenza del TAR n. 10860 del
2004).
E’ decisivo considerare che l’interessato (ovvero la sua
dante causa) –pur a seguito dell’entrata in vigore del nuovo
piano regolatore- non ha mai formulato alcuna istanza di
proroga, volta a far accertare dall’Amministrazione la
sussistenza di circostanze tali da giustificare il mancato
inizio dei lavori.
Per l’art. 15, comma 2, del testo unico n. 380 del 2001
(riproduttivo di un principio desumibile dall’art. 31 della
legge n. 1150 del 1942), il termine per l’inizio e quello di
compimento dei lavori “possono essere prorogati, con
provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla
volontà del titolare del permesso”.
Per il legislatore, tali “fatti sopravvenuti” (che
possono consistere nel factum principis o in altri
casi di forza maggiore) non hanno un rilievo automatico, ma
possono costituire oggetto di valutazione in sede
amministrativa quando l’interessato proponga una domanda di
proroga, il cui accoglimento è indefettibile perché non vi
sia la pronuncia di decadenza.
Nella specie, non risulta che l’interessato abbia mai
proposto una istanza di proroga del termine di inizio dei
lavori, né prima né dopo l’entrata in vigore del nuovo piano
regolatore e nemmeno dopo la pubblicazione della sentenza
del TAR n. 18860 del 2004.
In assenza dell’atto di proroga, con l’atto impugnato in
primo grado il Comune non poteva che prendere atto della
circostanza obiettiva del mancato inizio dei lavori,
risalente alla data di entrata in vigore del nuovo piano e
successivamente perdurante.
Sono conseguentemente irrilevanti le circostanze che -ad
avviso dell’appellante– avrebbero dovuto comportare il
riconoscimento della sussistenza di un factum principis.
---------------
Per quanto riguarda il notevole
decorso del tempo intercorso tra il rilascio della
concessione edilizia e la pronuncia di decadenza e la
sussistenza di un legittimo affidamento, rilevano le
precedenti considerazioni sull’ambito di applicazione
dell’art. 15, comma 4, del testo unico n. 380 del 2001, per
il quale l’entrata in vigore di un nuovo piano regolatore
comporta la pronuncia di decadenza del titolo edilizio
basato sul piano precedente, quando i relativi lavori non
siano cominciati.
La pronuncia di decadenza è espressione di un potere
vincolato, ha natura ricognitiva con effetti ex tunc
e va emanata anche a notevole distanza di tempo, proprio
perché accerta il venir meno degli effetti del titolo
edilizio difforme dal piano sopravvenuto.
Inoltre, non sussiste il dedotto difetto di motivazione
sulla mancata indicazione della prevalenza degli interessi
pubblici, poiché la pronuncia di decadenza –per il suo
carattere di atto dovuto– deve basarsi su una motivazione
che evidenzi l’effettiva sussistenza dei suoi presupposti di
fatto (cioè il mancato inizio dei lavori e l’entrata in
vigore del piano regolatore incompatibile col titolo in
precedenza rilasciato): la prevalenza dell’interesse
pubblico alla attuazione del piano sopravvenuto è imposta
dall’art. 15, comma 4, del testo unico n. 380 del 2001, che
determina la pronuncia di decadenza in presenza dei relativi
presupposti oggettivi (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.08.2007 n. 4423 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Circa
i presupposti di gravità e urgenza fissati dall’art. 9 della
legge 447/1995 questa Sezione ha già formulato l’opinione
che il potere-dovere di intervento del sindaco sorga
direttamente con il superamento dei limiti di emissione e
immissione previsti dal DPCM 14.12.1997, anche in assenza di
un pericolo imminente per la salute delle persone, mentre la
maggiore o minore attualità del pericolo è rilevante
principalmente per la scelta delle misure da imporre in
concreto.
Le misure a disposizione dell’amministrazione spaziano
dall’ordine di bonifica (sempre ammissibile) alla chiusura
dell’attività (ammissibile solo in presenza di particolari
ragioni di pubblico interesse).
Circa i presupposti di gravità e urgenza fissati dall’art. 9
della legge 447/1995 questa Sezione ha già formulato
l’opinione che il potere-dovere di intervento del sindaco
sorga direttamente con il superamento dei limiti di
emissione e immissione previsti dal DPCM 14.12.1997,
anche in assenza di un pericolo imminente per la salute
delle persone, mentre la maggiore o minore attualità del
pericolo è rilevante principalmente per la scelta delle
misure da imporre in concreto (v. TAR Brescia 20.11.2006 n.
1467 punti 17 e 18). Le misure a disposizione
dell’amministrazione spaziano dall’ordine di bonifica
(sempre ammissibile) alla chiusura dell’attività
(ammissibile solo in presenza di particolari ragioni di
pubblico interesse).
Nel caso in esame il Comune ha quindi
agito correttamente sulla base dei verbali dell’ARPA e ha
fatto un uso equilibrato dei propri poteri imponendo la
riduzione delle immissioni senza incidere sulla prosecuzione
dell’attività aziendale.
Lasciando alla ricorrente la
possibilità di conseguire tale riduzione attraverso un
intervento edilizio di schermatura (i cui costi non sono
proibitivi) il Comune si è poi attenuto a un’interpretazione
rigorosa del principio di proporzionalità, in quanto ha
fissato l’obiettivo di pubblico interesse senza sovrapporsi
alle valutazioni del privato circa i mezzi meno onerosi per
conseguirlo.
Queste considerazioni non possono peraltro estendersi alle
sanzioni amministrative pecuniarie irrogate ai sensi
dell’art. 10 della legge 447/1995, dal momento che sotto
tale profilo la vicenda ricade nella giurisdizione ordinaria
(TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 26.06.2007 n. 578 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Sussiste
la praticabilità, sotto il profilo edilizio, di una deroga
ex art. 14 del DPR 380/2001 circa la realizzazione di una
barriera antirumore a distanza non regolamentare dal
confine.
Pur essendo stata
abbandonata l’originaria qualificazione della barriera
antirumore come recinzione, sostituita da quella più
appropriata di nuova edificazione, non è stato correttamente
impostato il problema dei presupposti per la deroga ex art.
14 del DPR 380/2001, in relazione non più all’altezza ma
alla distanza dal confine.
La tesi della ricorrente secondo
cui su questo punto avrebbe dovuto pronunciarsi il consiglio
comunale è condivisibile, in quanto la predetta norma
collega la deroga all’esame dello stesso organo avente
competenza sul PRG, introducendo un’ipotesi di variante
singolare. A questo aspetto formale si aggiunge quello più
importante di diritto sostanziale che riguarda la
possibilità di definire la barriera antirumore come opera di
interesse pubblico.
Per inciso si osserva che se la prospettazione della ricorrente fosse palesemente infondata
il Comune avrebbe potuto evitare di sottoporre la questione
della deroga al consiglio comunale, in quanto gli uffici
preposti alla materia edilizia possono fare da filtro nei
confronti delle istanze che non hanno alcuna possibilità di
essere accolte.
Nel caso in esame, tuttavia, l’opera per cui è
chiesta la deroga svolge una funzione del tutto coerente con
l’interesse pubblico al rispetto dei limiti di rumorosità
vigenti nella zona. Si tratta di un obiettivo fissato
direttamente dalla legge che il Comune ha ribadito
attraverso due ordinanze rimettendo la soluzione tecnica
alla stessa ricorrente senza individuare in astratto una
specifica modalità di abbattimento delle immissioni sonore.
In sostanza, la posizione del Comune può essere divisa in
due parti. Nelle premesse il Comune (come si è visto sopra
al punto 9) effettua un corretto bilanciamento degli
interessi coinvolti, in quanto non utilizza il problema
dell’inquinamento acustico per espellere un’attività
produttiva da una zona dove la stessa è insediata da molto
tempo. Passando alle conclusioni, tuttavia, il Comune ritiene
che la presenza di un interesse privato escluda quello
pubblico, e in questo modo incorre in un vizio logico perché
abbandona la proporzione tra il fine (abbattimento della
rumorosità) e il mezzo (limiti all’attività dei privati).
È quindi necessario cancellare la decisione negativa del
Comune e affermare coerentemente con le premesse la
praticabilità sotto il profilo edilizio di una deroga ex
art. 14 del DPR 380/2001 (TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 26.06.2007 n. 578 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: A
seguito dell'entrata in vigore del d.P.R. 06.06.2001 n. 380,
il provvedimento autorizzatorio decade ove nel termine
triennale, non prorogato, l'opera non risulti completata,
senza che tale decadenza debba essere dichiarata con
provvedimento espresso, con la conseguente illegittimità dei
lavori proseguiti oltre detto termine.
La non necessità di provvedimenti caducatori da parte della
Pubblica Amministrazione è ora introdotta dal TU 380/2001,
art. 15, comma 2, che prevede espressamente come, decorsi i
termini fissati, il permesso di costruire decada di diritto
per la parte non eseguita; la norma supera la diatriba e
rende non di attualità la copiosa giurisprudenza citata
dallo indagato che non tiene conto della novazione
legislativa.
Allo scopo di evitare che una edificazione, autorizzata in
un dato momento, venga realizzata quando la situazione
fattuale e normativa è mutata, il lavori devono essere
iniziati ed ultimati nel termine prescritto nel permesso di
costruire.
In esito al mancato rispetto del termine, il provvedimento
autorizzatorio decade per la parte di edificazione non
ultimata. Tale decadenza, secondo alcuni, deve essere
necessariamente dichiarata con espresso provvedimento che ha
natura costitutiva; secondo altri, l'effetto caducatorio
opera di diritto anche in assenza di una dichiarazione
formale che, se esistente, ha carattere dichiarativo.
La non necessità di provvedimenti da parte della Pubblica
Amministrazione è ora introdotta dal TU 380/2001, art. 15,
comma 2, che prevede espressamente come, decorsi i termini
fissati, il permesso di costruire decada di diritto per la
parte non eseguita; la norma supera la diatriba e rende non
di attualità la copiosa giurisprudenza citata dallo indagato
che non tiene conto della novazione legislativa.
Ora, nel caso concreto, è circostanza indiscussa che il
termine per la ultimazione dei lavori fosse decorso; il
ricorrente segnala -e documenta- che l'evento non gli è
addebitabile in quanto dipeso da un fatto indipendente dalla
sua volontà (interruzione dei lavori a causa della citata
ordinanza del Corpo Forestale impugnata al TAR con
procedimento ancora pendente).
Pertanto, è applicabile al caso la previsione del TU
380/2001, art. 15, comma 2, secondo la quale il termine
triennale può essere prorogato per fatti intervenuti dopo
l'inizio dei lavori, ritardanti la loro esecuzione, che non
siano imputabili al titolare del permesso di costruire.
Nella ipotesi che ci occupa, è stata tempestivamente, prima
della scadenza del termine, proposta la richiesta di proroga
sulla quale non si è ancora pronunciata la competente
autorità; non è questa la sede per valutare se sussistano, o
meno, i requisiti per il prolungamento del termine e,
quindi, i relativi motivi di ricorso sono inconferenti.
Stante la ricordata decadenza ope legis del permesso
di costruire, l'indagato, in attesa delle determinazioni
della Pubblica Amministrazione sulla proroga, non ha titolo
autorizzatorio per continuare la edificazione.
L'atto del 02.08.2006 qualificato come "variante",
per il suo contenuto intrinseco, può essere considerato un
nuovo permesso di costruire, ma inficiato la palese
illegittimità in quanto non tiene conto del vincolo di
inedificabilità introdotto con la L. n. 353 del 2000 (Corte
di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.03.2007 n.
12316). |
EDILIZIA
PRIVATA: Con
più recenti pronunce, questo Consiglio ha ritenuto
ammissibili le deroghe al vigente PRG, qualificando le
strutture alberghiere come entità di interesse pubblico,
trattandosi di un servizio offerto alla collettività e
caratterizzato da una pubblica fruibilità, con la
correlativa possibilità di concessioni in deroga alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici in vigore.
D’altra parte, l’art. 16 della legge n. 765/1967, prevede un
potere di deroga alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici per manufatti sia pubblici (cioè gestiti da enti
pubblici) che di interesse pubblico (ossia gestiti da
titolari indifferentemente pubblici o privati, ma destinati
a soddisfare comunque esigenze della collettività di tipo
economico, bancario-assicurativo, culturale, industriale,
igienico, religioso o turistico-alberghiero).
Ed in tal senso depongono la circ. min. n. 3210/1967, l’art.
8 della legge n. 217/1983, e l’art. 5 della legge reg.
Lombardia n. 39/1988, mentre la più consolidata
giurisprudenza ha costantemente riconosciuto il carattere
pubblicistico degli interessi coinvolti nella gestione del
servizio alberghiero in genere, benché gestito da soggetti
privati, in ragione appunto della sua generalizzata
fruibilità collettiva.
Infatti, da lungo tempo l’ordinamento ha disciplinato le
attività alberghiere, considerandole strettamente collegate,
in particolare, agli interessi della sicurezza e della
salute pubblica, nonché dello sviluppo turistico: cfr.
R.D.L. 02.01.1936, n. 276 (conv., con modif., nella legge
24.07.1936, n. 1692), relativo al c.d. vincolo alberghiero,
e R.D.L. 21.10.1937, n. 2180 (conv., con modif., nella legge
25.03.1950, n. 228), concernente la dichiarazione di
pubblica utilità della costruzione di nuovi alberghi e
dell’ampliamento o trasformazione di quelli già esistenti in
Comuni di spiccata rilevanza turistica.
In passato, questo Consiglio si era orientato negativamente
(cfr. Sez. IV, 25.11.1988, n. 774), ma con più recenti
pronunce (cfr. Sez. V, 15.07.1998, n. 1044) ha ritenuto
ammissibili le deroghe in questione, qualificando le
strutture alberghiere come entità di interesse pubblico,
trattandosi di un servizio offerto alla collettività e
caratterizzato da una pubblica fruibilità, con la
correlativa possibilità di concessioni in deroga alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici in vigore.
D’altra parte, l’art. 16 della legge n. 765/1967, prevede un
potere di deroga alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici per manufatti sia pubblici (cioè gestiti da enti
pubblici) che di interesse pubblico (ossia gestiti da
titolari indifferentemente pubblici o privati, ma destinati
a soddisfare comunque esigenze della collettività di tipo
economico, bancario-assicurativo, culturale, industriale,
igienico, religioso o turistico-alberghiero).
Ed in tal senso depongono la circ. min. n. 3210/1967, l’art.
8 della legge n. 217/1983, e l’art. 5 della legge reg.
Lombardia n. 39/1988, mentre la più consolidata
giurisprudenza ha costantemente riconosciuto (come si è
detto) il carattere pubblicistico degli interessi coinvolti
nella gestione del servizio alberghiero in genere, benché
gestito da soggetti privati, in ragione appunto della sua
generalizzata fruibilità collettiva.
Infatti, da lungo tempo l’ordinamento ha disciplinato le
attività alberghiere, considerandole strettamente collegate,
in particolare, agli interessi della sicurezza e della
salute pubblica, nonché dello sviluppo turistico: cfr.
R.D.L. 02.01.1936, n. 276 (conv., con modif., nella legge
24.07.1936, n. 1692), relativo al c.d. vincolo alberghiero,
e R.D.L. 21.10.1937, n. 2180 (conv., con modif., nella legge
25.03.1950, n. 228), concernente la dichiarazione di
pubblica utilità della costruzione di nuovi alberghi e
dell’ampliamento o trasformazione di quelli già esistenti in
Comuni di spiccata rilevanza turistica
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.10.2002 n. 5913 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO ALL'11.12.2012 |
ã |
IN EVIDENZA |
ATTENZIONE:
a
decorrere da ieri 10.12.2012 la gestione
amministrativa e tecnica della Procedura Abilitativa
Semplificata (PAS) e delle comunicazioni di attività
ad edilizia libera (CEL) sul territorio della
Lombardia avviene esclusivamente in modalità
telematica circa il rilascio dei titoli abilitativi
per la costruzione, installazione ed esercizio di
impianti di produzione di energia elettrica
alimentati da fonti rinnovabili. |
EDILIZIA
PRIVATA:
Linee guida per l’autorizzazione di impianti di
produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili.
Dette linee guida sono volte ad armonizzare
l’esercizio delle funzioni amministrative per
autorizzare gli impianti di produzione di energia da
fonti energetiche rinnovabili, funzioni conferite
alle Province lombarde con legge regionale n. 26 del
12.12.2003 (articolo 28, comma 1, lettera e-bis).
Regione Lombardia ha da tempo avviato un percorso
volto alla promozione e incentivazione delle fonti
rinnovabili attraverso la definizione di specifiche
azioni all’interno del Piano d’Azione per l’Energia,
mancava però un sistema di regole semplificato e
condiviso con gli enti locali preposti al rilascio
dell’autorizzazione ai sensi del d.lgs. 387/2003.
Per saperne di più
clicca qui.
Allegato:
DGR 18.04.2012 n. 3298 "Linee guida per
l’autorizzazione di impianti di produzione di
energia elettrica da fonti energetiche rinnovabili (FER)
mediante recepimento della normativa nazionale in
materia".
ENERGIA ELETTRICA DA FONTI
RINNOVABILI: LE NOVITÀ SUI TITOLI ABILITATIVI DI
COMPETENZA COMUNALE PER LA COSTRUZIONE,
INSTALLAZIONE ED ESERCIZIO DEGLI IMPIANTI DI
PRODUZIONE
A decorrere dal 10.12.2012, sul territorio della
Lombardia, la presentazione e la gestione
amministrativa e tecnica della comunicazione di
inizio lavori per attività in edilizia libera (CEL)
e dell’istanza di procedura abilitativa semplificata
(PAS) per la costruzione, installazione ed esercizio
di impianti di produzione di energia elettrica
alimentati da Fonti Energetiche Rinnovabili (FER)
dovranno avvenire esclusivamente in modalità
telematica.
Gli applicativi realizzati per la gestione in modalità
telematica sono:
- FERCEL per la comunicazione di inizio lavori per
attività in edilizia libera
- FERPAS per l’istanza di procedura abilitativa
semplificata.
FERCEL e FERPAS saranno disponibili, sempre a decorrere
dal 10.12.2012, sulla piattaforma MUTA - Modello
Unico Trasmissione Atti, raggiungibile in modalità
totalmente gratuita da parte di chiunque,
all’indirizzo internet
http://www.muta.servizirl.it.
L’entrata in vigore delle procedure FERCEL e FERPAS (di
competenza comunale) è stata approvata con
decreto 21.11.2012 n. 10545, che sarà pubblicato
sul Bollettino Ufficiale Regione Lombardia (BURL)
del 10.12.2012 (cliccare
qui per leggere il testo siccome pubblicato).
La modulistica
La modulistica disponibile negli applicativi FERCEL e
FERPAS è stata approvata con
decreto 20.11.2012 n. 10484 che sarà pubblicato
sul BURL del 10.12.2012 (cliccare
qui per leggere il il testo siccome pubblicato).
La modulistica:
- fornisce al compilatore della richiesta
-cittadino, libero professionista, azienda del
settore- un facsimile di istanza e della
documentazione da allegare
- fornisce ai Comuni lombardi un unico modello di
raccolta dati, unificando in tal modo la richiesta
su tutto il territorio lombardo.
La piattaforma MUTA
L’accesso alla piattaforma MUTA prevede
l’autenticazione degli utilizzatori e la loro
profilazione (identificazione della tipologia di
utente che utilizza la piattaforma: cittadino,
impresa, intermediario, funzionario comunale, ecc…).
L’accesso con profilo cittadino/impresa e intermediario
rende disponibile l’ambiente di compilazione, invio,
verifica dello stato d’avanzamento e conclusione
dell’iter di ciascuna modulistica compilata.
L’accesso con profilo ente aggiunge ulteriori privilegi
tipici delle funzioni di istruttoria per gli enti
coinvolti (richiesta integrazioni, espressione
pareri, determinazione esito finale, ecc…).
Le istruzioni per l’esecuzione di ogni singolo passo
delle procedure sono contenute nella documentazione
disponibile alla voce “assistenza” contestualmente
al servizio applicativo di MUTA.
L’informatizzazione delle procedure risolve il debito
informativo che le regioni hanno, in materia di dati
relativi alle fonti di energia rinnovabili, verso i
Ministeri delle Sviluppo Economico e dell’Ambiente.
La normativa impone alle regioni il trasferimento
delle informazioni richieste secondo tracciati
predefiniti. Il Registro FER , all’interno del
Sistema Informativo Regionale SIRENA (Sistema
Informativo Regionale ENergia Ambiente), sarà a sua
volta alimentato direttamente dalla piattaforma
MUTA.
Le imprese ICT, distributrici di pacchetti integrati
per la gestione di procedimenti SUAP, possono
naturalmente aggiungere analoghi applicativi, purché
nel rispetto dei tracciati predefiniti.
L’utilizzo della piattaforma MUTA e degli applicativi
dedicati ha i seguenti vantaggi:
- Realizza la dematerializzazione della
documentazione
- Permette l’archiviazione digitale e la
conservazione sostitutiva
- Consente un controllo formale e logico dei dati,
riducendo la possibilità di errori
- Guida i cittadini ed i professionisti intermediari
nella compilazione della modulistica
- Supporta i Comuni nella gestione dell’istruttoria
- Consente il monitoraggio delle istanze sul
territorio
L’attivazione delle procedure informatiche FERCEL e
FERPAS attua quanto previsto dalle Linee guida
regionali approvate con Delibera di Giunta regionale
n. 3298 del 18.04.2012.
Materiali di
approfondimento
Slides di presentazione delle Linee Guida FER
Per informazioni:
rinnovabili@regione.lombardia.it (per quesiti
normativi, procedurali e tecnici)
assistenza-fer@lispa.it (per quesiti
informatici) (testo
tratto da e link a www.ors.regione.lombardia.it). |
11.12.2012 - LA SEGRETERIA PTPL |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
EDILIZIA
PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 10.12.2012, "Approvazione
della procedura informatizzata per la presentazione della
comunicazione di inizio lavori per attività in edilizia
libera (CEL) e per la presentazione dell’istanza di
procedura abilitativa semplificata (PAS) previste dal punto
3 dell’allegato 1 della d.g.r. 3298/2012 ed entrata in
vigore delle procedure FERCEL e FERPAS per il rilascio dei
titoli abilitativi per la costruzione, installazione ed
esercizio di impianti di produzione di energia elettrica
alimentati da fonti rinnovabili di cui ai punti 1.1, 3.2 e
3.4 dell’allegato 1 della d.g.r. 3298/2012" (decreto
D.U.O. 21.11.2012 n. 10545). |
CORTE
DEI CONTI |
ENTI LOCALI:
Corte dei conti. Gli obblighi. Sulle partecipate
esame continuo dell'ente socio.
RESPONSABILITÀ/ Nel caso di deficit ripetuti il Comune deve
verificare se la società è ancora sostenuta da ragioni di
convenienza.
L'ente locale deve controllare le
società partecipate per garantire il principio di sana
gestione e per esercitare i propri poteri di socio. Il tutto
anche prima dell'entrata in vigore dei nuovi controlli
dettati dal decreto enti locali, che nel caso delle
partecipate scatteranno l'anno prossimo solo nelle città con
più di 100mila abitanti per arrivare nel 2015 ad abbracciare
tutti gli enti sopra i 15mila residenti.
La Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per il
Veneto, con il parere n. 903/2012 ha preso in esame
gli elementi che costituiscono la struttura essenziale del
monitoraggio sull'andamento degli organismi societari.
L'attività deve anzitutto concretizzarsi con una verifica
costante della permanenza dei presupposti valutativi che
hanno determinato la scelta partecipativa iniziale, nonché
con tempestivi interventi correttivi in relazione a
eventuali mutamenti che intercorrano, nel corso della vita
della società, negli elementi originariamente valutati.
Il monitoraggio consente di prevenire fenomeni patologici e
ricadute negative sul bilancio dell'ente locale socio.
Secondo la Corte dei conti del Veneto, la necessità di
effettuare una seria indagine sui costi e ricavi e sulla
stessa pertinenza dell'oggetto sociale alle finalità
dell'amministrazione, non può prescindere da un'azione
preventiva di verifica e controllo, da parte del Comune o
della Provincia, in merito alle attività svolte dalla
società.
In questa prospettiva, l'intera durata della partecipazione
deve essere accompagnata dal diligente esercizio di quei
compiti di vigilanza (ad esempio sul corretto funzionamento
degli organi societari, sull'adempimento degli obblighi
scaturenti dalla convenzione di servizio, sul rispetto degli
standard di qualità ivi previsti), di indirizzo (attraverso
la determinazione degli obiettivi di fondo e delle scelte
strategiche) e di controllo (sotto l'aspetto dell'analisi
economico finanziaria dei documenti di bilancio e della
verifica dell'effettivo valore della partecipazione
detenuta) che la natura pubblica del servizio e la qualità
di socio comportano.
Proprio questo aspetto responsabilizza gli amministratori
degli enti locali, che devono agire esercitando i propri
poteri di soci, anche operando scelte drastiche (come
l'azione di responsabilità ex articolo 2393 del Codice
civile) in caso di gestioni connotate da risultati
fortemente negativi.
Quando il quadro deficitario di bilancio sia reiterato,
questa situazione impone all'ente di valutare la permanenza
di quelle condizioni di natura tecnica o di convenienza
economica, nonché di sostenibilità politico-sociale che
giustificarono (o che comunque avrebbero dovuto
giustificare), a monte, la scelta di svolgere il servizio e
di farlo attraverso moduli privatistici.
Il sistema dei controlli sulle società partecipate è quindi
finalizzato a consentire anche un efficace supporto agli
organi di governo nell'esercizio delle attività di loro
competenza oltre che ad ottimizzare le azioni di
corporate governance (articolo
Il Sole 24 Ore del 10.12.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
NEWS |
CONDOMINIO:
Condomini, gestione in chiaro. L'amministratore
deve garantire trasparenza finanziaria.
Dalla tenuta dei registri al conto corrente: i nuovi
obblighi introdotti dalla riforma.
L'amministratore condominiale fa il
pieno di competenze. Sono, infatti, numerosi gli obblighi,
nuovi, rimodulati o semplicemente codificati, addossati a
questa figura dalla legge di riforma della disciplina
condominiale.
Eccoli in sintesi.
Obblighi di comunicazione ai condomini e di affissione delle
generalità in un luogo di pubblico accesso. In caso di
nomina e per ogni successivo mandato, c'è l'obbligo per
l'amministratore di comunicare ai condomini i propri dati
anagrafici e professionali, il proprio codice fiscale e,
qualora si tratti di società, la denominazione e la sede
legale della stessa, l'indirizzo dei locali in cui si
trovano i registri di cui ai numeri 6) e 7) dell'art. 1130
c.c. (registro dell'anagrafe condominiale, registro dei
verbali dell'assemblea, registro di nomina e revoca
dell'amministratore, registro di contabilità), nonché dei
giorni e delle ore nelle quali ciascun condomino interessato
può accedere a detti locali ed estrarre copia (firmata
dall'amministratore) dei predetti documenti (previa
richiesta a quest'ultimo e con rimborso della spesa). È poi
evidente come sia di pubblico interesse poter risalire con
immediatezza al nominativo e al recapito del soggetto
chiamato per legge a rappresentare il condominio nei
rapporti con i terzi. Ebbene, d'ora in avanti anche
l'amministratore avrà l'obbligo di esporre in uno spazio
accessibile ai terzi una targhetta con le proprie
generalità.
Obbligo di stipulare apposita polizza assicurativa per la
responsabilità professionale e di comunicarne gli estremi ai
condomini. L'amministratore, al momento dell'accettazione
della nomina, se previsto dall'assemblea, deve anche
presentare ai condomini una polizza individuale di
responsabilità civile per gli atti compiuti nell'esercizio
del mandato. L'amministratore è tenuto ad adeguare i
massimali della polizza se nel periodo del suo incarico
l'assemblea abbia deliberato lavori straordinari. Tale
adeguamento non deve essere però inferiore all'importo di
spesa deliberato e deve essere effettuato contestualmente
all'inizio dei lavori.
Obbligo di aprire un conto corrente condominiale e di far
transitare esclusivamente su quest'ultimo le entrate e le
uscite condominiali. Anche questa disposizione risponde a
un'esigenza di elementare trasparenza nell'amministrazione
delle somme di denaro di proprietà altrui. A detto conto
corrente, che potrà essere sia bancario sia postale, avranno
ovviamente diritto di accesso tutti i condomini. L'accesso
dovrà comunque essere intermediato dall'amministratore.
Obbligo di consegna della documentazione condominiale o di
singoli condomini alla cessazione dell'incarico. Viene
ulteriormente ribadito, anche in sede normativa, l'obbligo
dell'amministratore di passaggio delle consegne alla
cessazione dell'incarico. Detto obbligo potrà essere assolto
mediante consegna della documentazione condominiale o di
singoli condomini sia a questi ultimi sia al nuovo
amministratore designato dall'assemblea. Viene poi
ulteriormente specificato che l'amministratore dimissionario
resta comunque tenuto ad adottare eventuali interventi
urgenti nell'interesse delle parti comuni anche dopo la
cessazione dell'incarico, qualora non possa utilmente
attivarsi il nuovo amministratore (ad esempio, perché non
ancora nominato dall'assemblea), senza diritto a ulteriore
compenso.
Obbligo di riscuotere le somme dovute dai condomini. Viene
poi introdotto l'obbligo dell'amministratore di riscuotere
quanto dovuto dai condomini alle casse comuni entro il
termine di sei mesi dalla chiusura dell'esercizio contabile
nel quale è compreso il credito vantato. L'intervento
dell'assemblea, lungi dal costituire una condizione per il
recupero forzoso dei crediti condominiali, può invece
sollevare l'amministratore da detto obbligo normativo. Detto
obbligo va correlato a quanto specificamente previsto in
tema di morosità condominiale dall'art. 63 disp. att. c.c.
Obbligo di specificare l'ammontare del compenso al momento
della nomina. Per evitare possibili contenziosi in materia,
la legge di riforma ha previsto di obbligare
l'amministratore a dichiarare espressamente, a pena di
nullità della nomina stessa, l'ammontare del compenso
richiesto sia in occasione della prima nomina sia per i
successivi rinnovi del mandato biennale. Solitamente sarà la
deliberazione assembleare di nomina a specificare
l'ammontare del compenso richiesto dall'amministratore e
accettato dall'assemblea.
Obblighi contabili. L'art. 1130-bis c.c. prevede un
rendiconto condominiale annuale che dovrà predisposto
dall'amministratore e contenere una serie di specifiche voci
contabili indispensabili alla ricostruzione e al controllo
della gestione dell'amministratore da parte di ogni
condomino. In particolare, si prevedono come elementi
imprescindibili del rendiconto: il registro di contabilità,
il riepilogo finanziario e una relazione accompagnatoria,
esplicativa della gestione annuale, con l'indicazione anche
dei rapporti in corso e delle questioni pendenti (articolo
ItaliaOggi Sette del 10.12.2012). |
APPALTI:
Contratti d'appalto, alcune accortezze per
evitare errori. Le clausole che
impongono un periodo di prova possono influenzare il calcolo
del reddito.
Solo l'accettazione rende certo il ricavo degli appalti. Le
clausole contrattuali che impongono dopo l'accettazione un
periodo di prova possono avere influenza nel calcolo del
reddito imponibile. Se già normalmente l'individuazione del
periodo di competenza crea non pochi problemi ai
contribuenti, gli stessi sono addirittura amplificati nel
caso in cui oggetto dei rapporti è un contratto di appalto.
Sul punto vi sono alcune prese di posizioni della prassi che
possono fornire un aiuto al fine di evitare errori.
La risoluzione n. 133/E del 26.09.2005 dell'agenzia delle
entrate ha analizzato una ipotesi di appalto di opere
pubbliche in cui una società che aveva per oggetto
l'esecuzione di lavori edili e stradali in appalto con
committenti sia pubblici che privati e sia italiani che
esteri. Punto fondamentale (anche se non unico) dell'istanza
era quello di individuare il momento in cui i lavori svolti
potevano considerarsi ultimati così da individuare la
competenza fiscale dei proventi e degli oneri in forza di
quanto richiesto dall'art. 109, comma 2, lett. b), del Tuir.
Lo stesso prevede che «i corrispettivi delle prestazioni
di servizi si considerano conseguiti, e le spese di
acquisizione dei servizi si considerano sostenute, alla data
in cui le prestazioni sono ultimate, ovvero, per quelle
dipendenti da contratti di locazione, mutuo, assicurazione e
altri contratti da cui derivano corrispettivi periodici,
alla data di maturazione dei corrispettivi».
Nel caso di specie ci si riferiva al momento in cui potranno
considerarsi ultimate le opere nel caso di appalti pubblici
disciplinati dalla cosiddetta legge Merloni (legge
11.02.1994, n. 109) le cui previsioni sono state ritenute
decisive al fine di individuare la soluzione del caso
concreto.
In particolare l'articolo 28 prevede che, entro sei mesi
dall'ultimazione dei lavori, l'amministrazione pubblica
committente faccia collaudare l'opera secondo le modalità
previste dal regolamento di attuazione il quale detta una
disciplina molto dettagliata del procedimento di collaudo.
L'art. 199 prevede che l'organo di collaudo nel caso di
risultato positivo debba emettere il certificato di collaudo
che però ha carattere provvisorio e diviene definitivo solo
decorsi due anni dalla sua emissione (o in altro termine
stabilito dal capitolato). Qualora invece il collaudatore
non ritenga collaudabile l'opera eseguita dall'appaltatore,
il certificato di collaudo provvisorio non è emesso.
Secondo l'agenzia però «è possibile affermare che la
“consegna”, nell'accezione giuridica del termine, e
accettazione dell'opera, siano ricollegabili alla
conclusione del procedimento relativo all'emissione del
certificato di collaudo provvisorio, e in particolare al
momento in cui, in esito alla procedura, sorge il diritto
alla liquidazione del corrispettivo e resta a carico
dell'appaltatore solo la garanzia per vizi e difformità
dell'opera, cessando tutte altre garanzie tipiche del
contratto, mentre il rischio per il perimento dell'opera si
trasferisce in capo al committente».
In tal modo vi è un'anticipazione rispetto alla definitiva
conclusione della commessa ma in effetti la soluzione pare
conforme al reale volontà che può desumersi dalla lettura
della regole fiscale.
Secondo l'agenzia la procedura di collaudo è unica e si
esaurisce con la deliberazione sull'ammissibilità del
certificato di collaudo provvisorio da parte della stazione
appaltante. Tanto è vero che il collaudo definitivo può
anche essere omesso e può anche essere parificato (in
qualche modo) a quanto previsto dall'art. 1667 del codice
civile che fissa (anch'esso) in due anni dalla data della
consegna e accettazione dell'opera, il termine di
prescrizione dell'azione del committente nei confronti
dell'appaltatore nel caso di difformità e vizi dell'opera,
specificando che essa vale solo con riferimento alle
difformità e vizi non conosciuti e non riconoscibili e
purché denunciati a pena di decadenza entro sessanta giorni
dalla scoperta.
Nella conclusione della risoluzione n. 133/E si afferma che
«ai fini dell'applicazione dell'art. 93, comma 5, del
Tuir, l'opera si debba considerare ultimata al momento in
cui risulta avvenuta la sua “consegna” al committente nei
termini sopra indicati, a conclusione del procedimento
relativo all'emissione del certificato di collaudo
provvisorio disciplinato dal dpr n. 554 del 1999. In tale
momento sussistono tutti gli elementi (ultimazione dei
lavori, consegna delle opere, certezza e determinabilità dei
ricavi) per far partecipare alla determinazione del reddito
il corrispettivo pattuito per l'opera completata» (articolo
ItaliaOggi Sette del 10.12.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Attività di vendita. Irrilevante il compenso.
No al doppio lavoro per i dipendenti Pa.
Il dipendente pubblico non può esercitare attività di
vendita anche se collabora soltanto al commercio come
commesso, presso il negozio di una parente, con o senza
compenso, e persino in modo discontinuo è soggetto a
licenziamento.
In questo senso si è espressa la Corte di Cassazione, Sez.
lavoro, con la sentenza n. 20857/2012.
Il caso è relativo a una lavoratrice che, a volte durante il
normale orario di lavoro e talora durante l'assenza per
malattia, collaborava alla vendita nella struttura della
sorella.
Accertato il fatto, la Regione l'ha licenziata, accusandola
di aver violato il divieto assoluto di cumulo di impieghi e
di incarichi lavorativi in costanza di rapporto di lavoro
subordinato con datore pubblico.
L'impiegata ha fatto ricorso prima al tribunale e poi alla
corte d'appello, ma ha perso in entrambi i giudizi. Si è
rivolta, quindi, alla Cassazione, sostenendo che la sentenza
di secondo grado non aveva tenuto presente che lei aveva
prestato attività in modo non continuativo e non remunerato,
sostando, per qualche ora nel negozio della sorella. Poi ha
portato a sostegno la giurisprudenza secondo cui è lecita la
partecipazione in società agricole a conduzione familiare,
qualora l'impegno sia modesto, non abituale o continuato.
La Cassazione ha messo in evidenza come i giudici di merito
abbiano rilevato che la dipendente pubblica si era trovata
nel negozio sia in orario lavorativo che extralavorativo e
che essi, correttamente, non hanno valutato rilevante
l'attribuzione o meno di compenso per l'attività di vendita.
I giudici di legittimità sottolineano, quindi, che il
legislatore (articolo 60 del Testo Unico 3/1957 sulle
incompatibilità, richiamato dall'articolo 53, comma 1, del
Dlgs 165/2001) considera illecito l'esercizio, da parte
dell'impiegato pubblico, di commercio, industria o
professione, senza far riferimento alla retribuzione e che
la contrattazione collettiva pone il divieto di attendere ad
occupazioni estranee al servizio. Proprio nella lineare
interpretazione di queste regole spicca il profilo giuridico
di originalità e di maggiore interesse di questa sentenza:
il divieto di vendere è, per il dipendente pubblico,
assoluto, a prescindere del fatto che la prestazione sia
remunerata o continuativa (articolo
Il Sole 24 Ore del 10.12.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Il subprocedimento di
giustificazione dell'offerta anomala non è volto a
consentire aggiustamenti dell'offerta in itinere, ma mira
piuttosto a verificare la serietà di un'offerta consapevole
già formulata ed immutabile, con conseguente inammissibilità
di quelle giustificazioni che, nel tentativo di far apparire
seria un'offerta che invece non è stata adeguatamente
meditata, risultano tardivamente finalizzate ad
un'allocazione dei costi diversi rispetto a quella
originariamente indicata.
Né, per le stesse ragioni , deve ritenersi consentita
l'immotivata rimodulazione di voci di costo al solo scopo di
far “quadrare i conti”, al fine cioè di assicurare che il
prezzo complessivo offerto resti immutato, superando le
contestazioni della stazione appaltante su alcune voci di
costo.
Del resto, nel giudizio di congruità dell'offerta,
esplicazione paradigmatica di valutazioni tecniche e perciò
sindacabile solo in caso di illogicità manifesta o di
erroneità fattuale, non si fa questione soltanto della
generica capienza dell'offerta, ma anche della sua serietà e
tale non può essere considerata quell'offerta in relazione
alla quale si registri una trasmigrazione dei costi da una
voce all'altra.
---------------
Non può essere condiviso l’assunto secondo cui sarebbe
possibile un aggiustamento delle singole voci di costo, nel
caso in cui questo si fondi su sopravvenienze di fatto o
normative che determinano una riduzione dei costi, in questo
caso ammettendo l’impresa a dimostrare la possibilità di
compensazione tra voci sopravvalutate e voci sottovalutate .
Invero, presupposto indefettibile di tale assunto non può
che essere la serietà e la consapevolezza dell’offerta
presentata, che deve essere sempre rapportata ad una
valutazione obiettiva del rapporto costi–benefici, e non
artificialmente predisposta al fine di precostituirsi un
margine di azione da utilizzare in sede di giustificazioni
ed in vista dell’aggiudicazione.
Ciò significa che la compensazione di eventuali costi sovra
e sottodimensionati in sede di offerta e riferibili alla
medesima categoria potrebbe avvenire solo allorquando, in
presenza di un’offerta necessariamente ancorata al rigido
parametro costi–benefici, per ragioni indipendenti dalla
volontà dell’offerente si vengano a creare situazioni attive
e passive potenzialmente idonee a divenir oggetto di
compensazione.
Come la Sezione ha già avuto modo di precisare, infatti, il subprocedimento di giustificazione dell'offerta anomala non
è volto a consentire aggiustamenti dell'offerta in itinere,
ma mira piuttosto a verificare la serietà di un'offerta
consapevole già formulata ed immutabile, con conseguente
inammissibilità di quelle giustificazioni che, nel tentativo
di far apparire seria un'offerta che invece non è stata
adeguatamente meditata, risultano tardivamente finalizzate
ad un'allocazione dei costi diversi rispetto a quella
originariamente indicata.
Né, per le stesse ragioni , deve ritenersi consentita
l'immotivata rimodulazione di voci di costo al solo scopo di
far “quadrare i conti”, al fine cioè di assicurare che il
prezzo complessivo offerto resti immutato, superando le
contestazioni della stazione appaltante su alcune voci di
costo.
Del resto, nel giudizio di congruità dell'offerta,
esplicazione paradigmatica di valutazioni tecniche e perciò
sindacabile solo in caso di illogicità manifesta o di
erroneità fattuale, non si fa questione soltanto della
generica capienza dell'offerta, ma anche della sua serietà e
tale non può essere considerata quell'offerta in relazione
alla quale si registri una trasmigrazione dei costi da una
voce all'altra (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 12.09.2011
n. 5098).
Né può esser condiviso l’assunto dell’appellante, secondo
cui sarebbe possibile un aggiustamento delle singole voci di
costo, nel caso in cui questo si fondi su sopravvenienze di
fatto o normative che determinano una riduzione dei costi,
in questo caso ammettendo l’impresa a dimostrare la
possibilità di compensazione tra voci sopravvalutate e voci
sottovalutate .
Invero, presupposto indefettibile di tale assunto non può
che essere la serietà e la consapevolezza dell’offerta
presentata, che deve essere sempre rapportata ad una
valutazione obiettiva del rapporto costi–benefici, e non
artificialmente predisposta al fine di precostituirsi un
margine di azione da utilizzare in sede di giustificazioni
ed in vista dell’aggiudicazione.
Ciò significa che la compensazione di eventuali costi sovra
e sottodimensionati in sede di offerta e riferibili alla
medesima categoria potrebbe avvenire solo allorquando, in
presenza di un’offerta necessariamente ancorata al rigido
parametro costi–benefici, per ragioni indipendenti dalla
volontà dell’offerente si vengano a creare situazioni attive
e passive potenzialmente idonee a divenir oggetto di
compensazione (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 30.11.2012 n. 6117 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gare su contratti pubblici aperte a soggetti senza scopo di
lucro.
I soggetti senza scopo di lucro possono partecipare alle
procedure per l'affidamento di contratti pubblici, così
hanno stabilito i giudici della terza sezione del Consiglio
di Stato. L'assenza dello scopo di lucro, spiegano i giudici
di Palazzo Spada, non impedisce la qualificazione di un
soggetto come imprenditore e non ne giustifica l'esclusione
dalla partecipazione alle gare a priori.
E' orientamento
giurisprudenziale ormai consolidato che i soggetti senza
scopo di lucro possono partecipare alle procedure per
l'affidamento di contratti pubblici alla condizione che
esercitino anche attività d'impresa funzionale ai loro scopi
ed in linea con la relativa disciplina statutaria, giacché
l'assenza di fini di lucro non esclude che tali soggetti
possano esercitare un'attività economica e che, dunque,
siano ritenuti "operatori economici", potendo soddisfare i
necessari requisiti per essere qualificati come
"imprenditori", "fornitori" o "prestatori di servizi".
L'assenza dello scopo di lucro non impedisce la
qualificazione di un soggetto come imprenditore e non ne
giustifica l'esclusione dalla partecipazione alle gare a
priori e senza ulteriori analisi, atteso che la normativa
comunitaria, segnatamente la direttiva 2004/18/CE, osta
all'esclusione di concorrenti dall'aggiudicazione di appalti
pubblici per il solo motivo che essi non abbiano la forma
giuridica corrispondente ad una determinata categoria di
persone giuridiche, non avendo inteso restringere la nozione
di "operatore economico che offre servizi sul mercato"
unicamente agli operatori che sia dotati di
un'organizzazione d'impresa né introdurre limitazioni a
monte in ragione dell'organizzazione interna dell'operatore
stesso, bensì mirando all'apertura alla concorrenza nella
misura più ampia possibile sia nell'interesse comunitario
alla libera circolazione dei prodotti e dei servizi, sia
dell'interesse della stessa stazione appaltante.
Pertanto,
deve ritenersi consentita la partecipazione ad appalti
pubblici a soggetti i quali, autorizzati dalla normativa
nazionale ad offrire servizi sul mercato, "non perseguono un
preminente scopo di lucro, non dispongono di una struttura
organizzativa di un'impresa e non assicurano una presenza
regolare sul mercato …"; con la conseguenza che la normativa
nazionale dev'essere interpretata in senso a ciò conforme e,
all'occorrenza, disapplicata.
Inoltre, le onlus possono essere ammesse alle gare pubbliche
quali "imprese sociali", a cui il d.lgs. 24.03.2006 n. 155
ha riconosciuto la legittimazione ad esercitare in via
stabile e principale un'attività economica organizzata per
la produzione e lo scambio di beni o di servizi di utilità
sociale, diretta a realizzare finalità d'interesse generale,
anche se non lucrativa.
Pertanto, in questa occasione, non v'è dubbio sulla
qualificazione di Croce Bianca come "operatore economico",
essendo iscritta proprio in quanto tale alla Camera di
commercio, industria, artigianato ed agricoltura di Milano,
né alcuna disposizione del rispettivo statuto osta (a
differenza che per la Croce Rossa Italiana,) alla stipula
contratti o, comunque, allo svolgimento dell'attività
imprenditoriale perfettamente in linea con le finalità
istituzionali, qual è il trasporto sanitario (commento
tratto da www. documentazione.ancitel.it - Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 20.11.2012 n. 5882
- link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI:
Tar Calabria. In discussione la possibilità di
porre limiti. Sindaco sempre in giudizio anche senza lo
Statuto.
L'ORIENTAMENTO/ I giudici calabresi negano che l'autonomia
possa fissare condizioni alla presenza in giudizio del
rappresentante legale.
Non è necessaria la delibera di Giunta
per autorizzare il sindaco a rappresentare in giudizio il
Comune, anche a prescindere da eventuali limiti statutari.
A chiarire il quadro interviene la
sentenza 16.11.2012 n. 671 del TAR Calabria-Reggio
Calabria.
La sentenza accoglie la tesi difensiva del Comune in cui si
evidenziava che ai fini della rappresentanza in giudizio
dell'ente, l'autorizzazione alla lite da parte della Giunta
Comunale non costituisce più, in linea generale, un atto
necessario ai fini dell'agire o del resistere in giudizio.
I giudici del Tar rilevano che nel nuovo ordinamento delle
autonomie locali, in un sistema in cui il sindaco trae
direttamente la propria investitura dal corpo elettorale e
costituisce egli stesso la fonte di legittimazione degli
Assessori che compongono la Giunta l'autorizzazione da parte
di quest'ultima non ha più ragion d'essere.
La sentenza del Tar Calabria quindi riprende le motivazioni
della sentenza anche essa recente del Tar Salerno 1674/2012
e del Consiglio di Stato 5277/2012 perché nel nuovo
ordinamento delle autonomie locali il sindaco ha assunto un
ruolo politico ed amministrativo centrale, in quanto
titolare di funzioni di direzione e di coordinamento
dell'esecutivo comunale; l'autorizzazione del Consiglio
prima e poi della Giunta, se trovava ragione in un assetto
in cui il sindaco era eletto dal Consiglio e la Giunta
costituiva espressione del Consiglio stesso, non ha più
ragion d'essere in un sistema in cui il sindaco trae
direttamente la propria investitura dal corpo elettorale e
costituisce egli stesso la fonte di legittimazione degli
assessori, a cui l'articolo 48 del Tuel affida il compito di
collaborare con il capo dell'amministrazione municipale.
La sentenza comunque è degna di nota in quanto non sembra
prevedere margini per eventuali limiti statutari superando
l'orientamento del Tar Salerno e del Consiglio di Stato.
Queste pronunce prevedevano la possibilità di eccezioni alla
non necessità di una preventiva delibera nei casi in cui
l'autonomia statutaria dell'ente, disciplinando i modi di
esercizio della rappresentanza legale dell'ente (anche in
giudizio ex articolo 6, comma 2, del Dlgs 267/2000) preveda
l'autorizzazione della Giunta, oppure richieda una
preventiva determinazione del competente dirigente, oppure
ancora postula l'uno o l'altro intervento in relazione alla
natura o all'oggetto della controversia (articolo
Il Sole 24 Ore del 10.12.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Le cause di esclusione sono tassative anche per concessioni
di servizi.
Il principio di tassatività delle cause di esclusione ex
art. 46, c. 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006, si applica anche
alle procedure aventi ad oggetto l'affidamento di una
concessione di servizio pubblico: è questo il principio
fissato dai giudici del Tribunale amministrativo di Bari
nella sentenza in rassegna. I giudici pugliesi spiegano, più
diffusamente, che il principio di tassatività delle cause di
esclusione disposto dall'art. 46, c. 1-bis, del d.lgs. n.
163/2006, c.d. Codice dei contratti pubblici (introdotto con
il D.L. n. 70 del 2011 ed applicabile ratione temporis alla
presente controversia) si applica anche alle procedure
aventi ad oggetto l'affidamento di una concessione di
servizio pubblico.
La tassatività delle ipotesi di
esclusione, infatti, assurge ormai a principio generale
relativo ai contratti pubblici e costituisce specificazione
del principio di proporzionalità, talché la sua estensione
alla materia delle concessioni di pubblico servizio trova
esplicito fondamento nell'art. 30, c. 3, del Codice.
Diversamente opinando, secondo gli stessi giudici, si
giungerebbe ad un'ingiustificata divaricazione del regime da
seguire nella gare per l'affidamento di appalti ed in quelle
per l'affidamento di concessioni di servizi, non essendo
peraltro sempre netto il confine tra le due categorie.
Pertanto, nella circostanza in pronuncia, è illegittima, per
violazione dell'art. 46, c. 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006,
la clausola della lex specialis di gara che imponga,
a pena di esclusione, la presentazione della certificazione
di qualità, in originale o in copia autentica, trattandosi
di adempimento formale non essenziale e non previsto da
alcuna norma di legge o regolamento (commento
tratto da www. documentazione.ancitel.it - TAR Puglia-Bari,
Sez. I,
sentenza 09.11.2012 n. 1907 -
link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Per il servizio di smaltimento rifiuti non più necessaria
iscrizione Albo Naz. Gestori Ambientali.
La richiesta in una gara per l'affidamento del servizio di
raccolta e smaltimento dei rifiuti dell'iscrizione all'Albo
Nazionale Gestori Ambientali, non più prevista dalla legge,
viola i principi della par condicio e dei canoni di
ragionevolezza e proporzionalità.
Così hanno stabilito i
giudici del Tribunale amministrativo di Bari nella pronuncia
in commento. Secondo l'originaria formulazione dell'art. 212
del D.Lgs. n. 152/2006, spiegano i giudici pugliesi, le
iscrizioni all'Albo Nazionale Gestori Ambientali per
specifiche categorie e classi di attività erano effettuate
secondo la disciplina dell'art. 8 del D.M. n. 406 del 1998.
Di recente, l'art. 25 del D.Lgs. n. 205/2010 ha modificato
in molti punti l'art. 212 del D.Lgs. n. 152 del 2006 e ne
ha, tra l'altro, abrogato il c. 20, che prevedeva
l'iscrizione all'Albo per le imprese che effettuassero
attività di raccolta e trasporto di rifiuti sottoposti a
procedure autorizzatorie semplificate ed effettivamente
avviati al riciclaggio ed al recupero, attività che
corrispondeva alle categorie 2 e 3 dell'Albo.
Ne consegue
che le categorie 2 e 3 individuate dal D.M. n. 406 del 1998,
non essendo più compatibili con la nuova formulazione
dell'art. 212 del D.Lgs. n. 152 del 2006, devono ritenersi
abrogate. Pertanto, nel caso di specie, la lex specialis di
gara non poteva legittimamente richiedere ai concorrenti la
dimostrazione di un requisito non più conseguibile, a
seguito della soppressione della categ. 3 e delle relative
classi di attività.
La richiesta di un'iscrizione all'Albo non più prevista
dalla legge, e dunque preclusa agli operatori economici che
ne fossero privi, configura di per sé la violazione del
principio della par condicio e dei canoni di ragionevolezza
e proporzionalità, in quanto determina una irrazionale
restrizione della possibilità di partecipare alla gara
d'appalto, favorendo quegli operatori che tale iscrizione
avessero ottenuto anni addietro, prima della modifica
legislativa (commento tratto da www. documentazione.ancitel.it - TAR Puglia-Bari,
Sez. I,
sentenza 09.11.2012 n. 1903 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: ESCLUSIONE
DEL P.D.C. PER LE OPERE INTERNE
NON COMPORTANTI AUMENTO VOLUMETRICO.
E`
da escludersi che integri ‘‘aumento volumetrico’’, il
quale richiede il permesso di costruzione, ogni diversa
distribuzione in vani, per numero e ampiezza, dell’identica
superficie totale calpestatale, salvo, beninteso il caso
della realizzazione di ‘‘unità immobiliari’’ autonome.
Particolare interesse è destinata a suscitare la decisione
in
argomento, in cui la Cassazione si sofferma ad analizzare il
tema della rilevanza penale della categoria edilizia delle
cosiddette
‘‘opere interne’’. La vicenda processuale vedeva
imputato il proprietario di un immobile, cui era stato
contestato
il reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b) e c), del
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, per aver eseguito, senza
permesso
di costruzione, lavori in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico, in particolare consistiti nella
realizzazione, all’interno
dei preesistenti manufatti, di un bagno e di una cucina,
nel primo corpo di fabbrica, e di sette stanze (ciascuna
da trenta metri quadrati) nel secondo corpo di fabbrica.
I
giudici
di merito avevano osservato che la preesistenza
dell’edificio
non esentava l’imputato dal permesso di costruzione,
in quanto questi aveva creato all’interno degli immobili
‘‘stanze e strutture chiuse ex novo’’, così ponendo in
essere
‘‘un intervento di nuova costruzione’’; nella specie,
sostenevano
i giudici di merito, le opere avevano comportato l’aumento
della volumetria. Contro la sentenza di condanna proponeva
ricorso per cassazione, a mezzo del difensore, l’imputato,
sostenendo, per quanto qui di interesse, che non sarebbe
stato realizzato alcun ‘‘aumento volumetrico degli
immobili’’,
asserendo l’irrilevanza della realizzazione ‘‘all’interno
delle costruzioni di più ambienti rispetto a quelli
preesistenti’’.
Le c.d. ‘‘opere interne’’, secondo la difesa, non sono
sottoposte
a concessione o autorizzazione amministrativa: nella
specie, la superficie utile era rimasta inalterata, sicché
le
opere realizzate rientrerebbero nella ‘‘manutenzione
straordinaria’’,
nel ‘‘restauro o risanamento conservativo’’ o, tutt’al
più , nella ristrutturazione cd. ‘‘leggera’’, per la quale
è sufficiente
la sola denunzia di inizio dei lavori.
La tesi è stata accolta dagli Ermellini che hanno, infatti,
annullato
la sentenza di condanna dell’imputato. Osserva la
Cassazione, come la condotta del ricorrente si sarebbe
esaurita in interventi, di vario tipo, tutti all’interno dei
fabbricati
e le opere realizzate non avrebbero comportato alcun
ampliamento del perimetro esterno dei manufatti, ne´ la
elevazione
delle rispettive altezze.
Quanto all’aumento volumetrico,
l’assunto relativo (al di là del rilevo dell’omessa
quantificazione
della cubatura realizzata in eccedenza) era smentito
dal fatto che, secondo la stessa Corte di merito, la
‘‘superficie
iniziale’’ della costruzione era rimasta, in esito ai lavori
eseguiti, affatto ‘‘inalterata’’. Per tale ragione, dunque,
la
Corte afferma l’importante principio secondo cui da è da
escludersi che integri ‘‘aumento volumetrico’’, il quale
richiede
il permesso di costruzione, ogni diversa distribuzione in
vani, per numero e ampiezza, della identica superficie
totale
calpestatale, salvo, beninteso il caso della realizzazione
di
‘‘unità immobiliari’’ autonome, da escludersi nel caso
esaminato.
Nel senso che le cosiddette ‘‘opere interne’’, pur non
essendo più previste nel D.P.R. 06.06.2001, n. 380, come
categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici
esistenti,
rientrano però negli interventi di ristrutturazione
edilizia
quando comportino aumento di unità immobiliari o modifiche
dei volumi, dei prospetti e delle superfici ovvero mutamento
di destinazione d’uso, v. Cass. pen., sez. III, 21.12.2011, n. 47438, in CED Cass., n. 251637)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.10.2012 n. 37713
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 12/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La PA ha l’obbligo di pronunciarsi sempre su denunce di
abuso edilizio.
La questione oggetto della controversia sottoposta ai
giudici del Consiglio di Stato, in questa pronuncia, si
riferisce alla legittimità del silenzio dell’amministrazione
comunale su una richiesta che ne sollecita i poteri
repressivi nei confronti di un intervento edilizio, ritenuto
abusivo perché lesivo delle prerogative della proprietà
confinante.
Con la decisione impugnata il TAR si era
espresso negativamente sul dovere dell’amministrazione di
pronunziarsi, facendo riferimento al presupposto sostanziale
per ottenere la repressione dell’abuso, costituito dalla
effettiva lesione delle prerogative dominicali del soggetto
che sollecita l’esercizio dei poteri repressivi in
questione. Alla luce della giurisprudenza del Consiglio di
Stato, i giudici di Palazzo Spada hanno accolto il ricorso e
ribadendo che la causa verte esclusivamente sulla
sussistenza di un obbligo del Comune di pronunziarsi sulla
domanda, e non sul merito della controversia (la regolarità
o meno dell’intervento edilizio), spiegano che, in
circostanze come questa, in via generale, “l'obbligo
giuridico di provvedere -ai sensi dell'art. 2 della legge 07.08.1990, n. 241, come modificato dall’art. 7 della legge
18.06.2009, n. 69- sussiste in tutte quelle fattispecie
particolari nelle quali ragioni di giustizia e di equità
impongano l'adozione di un provvedimento e quindi, tutte
quelle volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e
di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il
privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e
le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano)
dell'Amministrazione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 03.06.2010, n. 3487).
In particolare, poi, il proprietario
confinante con l’immobile, nel quale si assuma essere stato
realizzato un abuso edilizio, ha comunque un interesse alla
definizione dei procedimenti relativi all’immobile medesimo
entro il termine previsto dalla legge, tenendo conto
dell’interesse sostanziale che, in relazione alla vicinanza,
egli può nutrire in ordine all’esercizio dei poteri
repressivi e ripristinatori da parte dell’organo competente
(cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 20.07.2006, n. 4609; Id., IV
Sez., 07.07.2008, n. 3384)” (Cons. di Stato, sez. IV, n.
2468/2012).
Ciò considerato, secondo gli stessi giudici la
decisione del TAR opera una commistione tra le due distinte
questioni giuridiche (pronunzia o meno sull’istanza ed
esercizio o meno dei poteri repressivi), obliterando che
oggetto del ricorso era solo la prima. E con riferimento a
questa sussistevano gli elementi legittimanti minimali per
ottenere la pronunzia del Comune, costituiti dalla
incontestata proprietà da parte istante e dallo stato dei
luoghi esposto dal ricorrente.
Come già affermato in
fattispecie analoghe (Cons. di Stato n. 2468/2012, cit.),
resta poi irrilevante la prospettiva di un esperimento
dell’azione possessoria in sede civile, ben potendo la
tutela (rimozione del presunto abuso), non conseguita in
sede civile, essere realizzarsi mediante il richiesto
esercizio dei poteri pubblicistici in materia edilizia (commento
tratto da www. documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 17.10.2012 n. 5347 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI:
I Comuni non possono limitare l'orario delle sale giochi.
Nella pronuncia in commento il Tribunale amministrativo di
Brescia svolge un’interessante disamina sui poteri comunali
in tema di sale giochi.
I giudici lombardi spiegano,
innanzitutto, che la gestione di sale giochi è un’attività
lecita, svolta sotto il rigoroso controllo delle autorità di
pubblica sicurezza, nell’ambito del gioco lecito affidato
alla cura dell’AAMS, con entrate significative per l’erario.
Come tutte le attività lecite anche la gestione di sale
giochi è tutelata dalla libertà costituzionale di iniziativa
economica (v. art. 41 Cost.).
In tale protezione è compresa,
come ineludibile corollario, la libertà dell’imprenditore di
organizzarsi nel modo ritenuto più efficace per massimizzare
la resa del proprio investimento. Sul piano costituzionale
sono legittime le limitazioni all’attività delle sale giochi
motivate da ragioni di pubblica sicurezza, ma in questa
materia le funzioni sono attribuite alle autorità statali e
non ammettono duplicazione a livello comunale. Sono poi
ammissibili altre limitazioni, parimenti richiamate
nell’art. 41 Cost., che tutelano profili di utilità sociale.
Queste ultime limitazioni (come precisato nel comma 3
dell’art. 41 Cost.) devono trovare un fondamento
legislativo: alle singole amministrazioni locali non è
consentito di impostare una propria autonoma politica di
contenimento o allontanamento delle attività imprenditoriali
collegate al gioco. Un fondamento legislativo non può essere
individuato nella norma sul potere di regolazione degli
orari delle attività commerciali e degli esercizi pubblici
(v. art. 50, comma 7, del Dlgs. 18.08.2000 n. 267), perché
manca nella legge nazionale un riconoscimento espresso della
possibilità di estendere il suddetto potere alla sfera della
pubblica sicurezza e a quella sanitaria. Per quanto riguarda
specificamente quest’ultima si deve quindi escludere che lo
strumento della regolazione degli orari possa essere
utilizzato dai comuni per prevenire e combattere la ludopatia attraverso la limitazione delle occasioni di
gioco.
La regolazione degli orari persegue in realtà scopi
più ristretti, di omogeneizzazione dei tempi di offerta dei
servizi sul territorio, e si tratta di un obiettivo ormai in
contrasto con i principi dell’ordinamento dopo che sono
stati aboliti i limiti di orario per le attività commerciali
e per gli esercizi pubblici. Si rinvia in proposito al
percorso di liberalizzazione che si è affermato
progressivamente a partire dal Dlgs. 31.03.1998 n. 114
(art. 1, comma 3, lett. a-c, art. 12-13), passando per il DL
04.07.2006 n. 223 (art. 3) e per il DL 06.07.2011 n. 98
(art. 35, comma 6), arrivando infine al DL 06.12.2011 n.
201 (art. 31).
La giurisprudenza costituzionale (v. C.Cost.
10.11.2011 n. 300) consente alle leggi regionali di
introdurre limiti all’attività delle sale giochi per
tutelare i soggetti più fragili, purché questa tutela non si
sovrapponga a quella attinente alla pubblica sicurezza. Se
ne può dedurre che nei risvolti delle materie affidate alla
legislazione regionale e alle cure amministrative degli enti
locali, e più specificamente nell’ambito della disciplina
urbanistica e della viabilità, possono essere individuati
anche poteri di regolamentazione delle sale giochi con
finalità di contenimento del “vizio del gioco”.
Tuttavia
questi poteri possono essere esercitati solo in coerenza con
i principi delle suddette materie, ossia sul piano
urbanistico imponendo (ragionevoli) distanze minime tra le
sale giochi e i siti sensibili (scuole, centri giovanili,
strutture socio-assistenziali), e sul piano della viabilità
tramite l’imposizione di una dotazione minima di parcheggi o
mediante altre soluzioni che risolvano eventuali problemi
di congestione del traffico. Per il resto valgono le regole
generali che per l’intero spazio economico comunitario
tutelano ogni iniziativa economica sotto il profilo della
prestazione di servizi (v. art. 56 TFUE) o sotto il profilo
della libertà di stabilimento (v. art. 49 TFUE).
L’applicabilità di tali principi alle attività
imprenditoriali collegate al gioco e alle scommesse è
affermata dalla giurisprudenza comunitaria, che ammette la
possibilità di restrizioni a tutela dei consumatori nonché
per la prevenzione delle frodi e dell’induzione dei
cittadini a un eccesso di spesa, ma “esclusivamente a
condizione che le suddette restrizioni, fondate su tali
ragioni e sulla necessità di prevenire turbative all’ordine
sociale, siano idonee a garantire la realizzazione dei detti
obiettivi, nel senso che tali restrizioni devono contribuire
a limitare le attività di scommessa in modo coerente e
sistematico” (v. C.Giust. Grande Sezione 08.09.2010
C-316/07, Stoß, punto 88).
Osservata dalla prospettiva comunitaria la limitazione degli
orari delle sale giochi è quindi un tassello che deve
inserirsi in una complessiva regia nazionale rivolta al
contenimento del gioco e incentrata sulla tutela di
interessi in definitiva riconducibili all’ordine pubblico,
profili che fuoriescono evidentemente dalla sfera di
attribuzioni dei comuni.
Nel caso in esame, concludono i giudici amministrativi
lombardi, risulta chiaro al contrario che una drastica
limitazione degli orari di apertura delle sale giochi
opererebbe esclusivamente come uno strumento espulsivo per
alcune attività già insediate sul territorio comunale, tra
cui quella del ricorrente, senza alcun beneficio sistemico,
in quanto vi sarebbe semplicemente un incremento del
pendolarismo dei giocatori verso altri comuni (commento
tratto da www. documentazione.ancitel.it - TAR Lombardia-Brescia,
Sez. II,
sentenza 09.10.2012 n. 1673 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Le lacune del verbale invalidano la gara solo se
determinanti.
La sezione romana del Tar Lazio si pronuncia
sull'annotazione nei verbali di gara dell'orario di apertura
e di chiusura dei lavori.
In materia di gare pubbliche di
appalto, spiegano i giudici capitolini, l'indicazione della
durata delle operazioni verbalizzate (e, quindi, dell'orario
di inizio e di chiusura della seduta collegiale) in alcuni
casi può essere considerato un elemento essenziale (ad
esempio, per i verbali delle commissioni di concorso, perché
tale dato può essere necessario per controllare la
ponderatezza delle relative determinazioni); in altri casi,
cioè nelle ipotesi in cui si evince altrimenti che la
valutazione sia stata attenta e ponderata può risultare,
invece, superflua.
In sostanza, concludono gli stessi
giudici, le lacune del verbale possano causare l'invalidità
dell'atto verbalizzato solo nel caso in cui esse riguardino
aspetti dell'azione amministrativa la cui conoscenza risulti
necessaria per poterne verificare la correttezza; mentre
quelle che riguardano aspetti diversi e non determinanti
danno luogo a mere irregolarità formali non idonee a
comportare l'illegittimità dell'atto che tali omissioni
presenti (commento
tratto da www. documentazione.ancitel.it -
TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis,
sentenza 21.09.2012 n. 8015 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: VIOLAZIONI DI LEGGE INSUFFICIENTI A CONFIGURARE
L’ABUSO D’UFFICIO DEL FUNZIONARIO.
In materia di edilizia, anche le opere eseguite dai Comuni
sono soggette all’obbligo di conformarsi alle disposizioni
urbanistiche vigenti e ai relativi controlli salvo restando
che, per effetto dell’art. 7 del D.P.R. n. 380 del
2001 e della contestuale abrogazione del D.L. n. 398 del
1993 e successive modifiche, per dette opere non è
richiesto
il previo rilascio del permesso di costruire.
Interessante la questione giuridica analizzata dalla Suprema
Corte con la sentenza in esame. I giudici di legittimità ,
infatti,
si soffermano ad analizzare il tema dell’attività edilizia
‘‘comunale’’,
ossia di quegli interventi edilizi eseguiti dagli Enti
locali, rispondendo negativamente al quesito sull’esigenza
che tali interventi siano assistiti da titolo abilitativo.
La vicenda
processuale vedeva imputati del reato di abuso d’ufficio
in concorso (artt. 110 e 323 c.p.), il responsabile
dell’ufficio
tecnico di un Comune ed il tecnico comunale in servizio
presso quell’ufficio, per aver gli stessi intenzionalmente
procurato
un ingiusto vantaggio patrimoniale ad un privato,
autorizzando illegittimamente la realizzazione di una strada
di
collegamento tra l’edificio abitato dalla stessa ed
l’attigua
strada provinciale, nonché l’utilizzazione, per detta
realizzazione,
di rifiuti non pericolosi costituiti da detriti e terra di
riporto
provenienti da favori di riqualificazione della locale
piazza.
Avverso tale sentenza hanno proposto separati ricorsi i
difensori, i quali hanno eccepito la insussistenza del reato
di
abuso di ufficio e, comunque, la carenza di efficacia
causale
dei comportamenti rispettivamente posti in essere.
La tesi è stata accolta dalla Cassazione che ha annullato
la
sentenza di condanna, pur ritenendo che nei comportamenti
degli imputati fossero sicuramente riscontrabili violazioni
di
legge. Anzitutto, profili di illegittimità presenta -per
la Corte- la procedura autorizzatoria rilasciata dal responsabile
dell’ufficio
tecnico comunale su istanza del sindaco pro-tempore.
A tal proposito, la Corte ricorda che in materia edilizia,
anche
le opere eseguite dai Comuni sono soggette all’obbligo
di conformarsi alle disposizioni urbanistico-edilizie
vigenti,
fermo restando che (a norma del D.P.R. n. 380 del 2001, art.
7, lett. c), per dette opere, non è richiesto il previo
rilascio
del permesso di costruire purché esse siano assistite dalla
validazione dei progetto ai sensi del D.P.R. n. 554 del
1999,
art. 47 (Cass. pen., sez. III, 09.05.2008, n. 18900, in
CED
Cass., n. 239918).
La relativa procedura, precisa la Corte, è
rivolta a verificare ‘‘la conformità del progetto esecutivo
alla
normativa vigente’’ e riguarda fra l’altro:
a) resistenza
delle
indagini geologiche e geotecniche nell’area di intervento e
fra congruenza dei risultati di tali Indagini con le scelte
progettuali;
b) resistenza delle dichiarazioni in merito al rispetto
delle prescrizioni normative e tecniche comunque applicabili
al progetto;
c) l’acquisizione di tutte le approvazioni ed
autorizzazioni
di legge necessarie ad assicurare l’immediata cantierabilità
del progetto. Nella vicenda in esame, invece, precisano
i giudici, illegittimamente risulta adottato un
provvedimento
autorizzatorio senza il rispetto delle condizioni di
‘‘validazione’’
previste dal D.P.R. n. 554 del 1999, art. 47 (prima
fra tutte la necessità dell’autorizzazione paesaggistica).
La
Corte, pur riscontrando l’esistenza di comportamenti
illegittimi,
ha tuttavia escluso la sussistenza dell’ingiusto vantaggio
per il privato (condizione della configurabilità dell’art.
323
c.p.), poiché a fronte di un oggettivo diritto
all’attuazione della
predisposta sistemazione urbanistica della zona, il
vantaggio
conseguito dal privato non poteva qualificarsi come
‘‘ingiusto’’,
cioè come non spettante in base alla normativa regolante
la materia, risultando irrilevante, ai fini della
configurazione
dell’esistenza di un diritto sostanziale, l’eventuale
decorso di termini di decadenza o di prescrizione delle
azioni
proponibili a tutela (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.09.2012 n. 36038
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 12/2012). |
APPALTI: Gare: l’institore non rende dichiarazione di possesso dei
requisiti.
Secondo i giudici di Palazzo Spada la dichiarazione ex art.
38 del D.lgs 163/2006, va resa dai soli amministratori della
società e non anche all'institore. Per l'esistenza e
l'operatività del contratto di avvilimento, a detta degli
stessi giudici, non sono necessari, in linea di principio,
contenuti particolari e/o predeterminati, né specifiche
tassative formalità, oltre a quelle specificate dall'art. 49
del D.lgs 163/2006. L'ambito di applicazione della
dichiarazione ex art. 38 del D.lgs 163/2006, va riferito ai
soli amministratori della società e non anche all'institore.
In ogni caso, quando il soggetto risulti in possesso di
tutti i requisiti richiesti e la lex specialis non preveda
espressamente la sanzione dell'esclusione a seguito della
mancata osservanza delle puntuali prescrizioni sulle
modalità e sull'oggetto delle dichiarazioni da fornire,
l'omissione delle dichiarazioni stesse non produce alcun
pregiudizio agli interessi presidiati dalla norma,
ricorrendo al più un'ipotesi di falso innocuo, come tale
inidoneo a legittimare l'esclusione del concorrente.
L'avvalimento
previsto dal Codice degli appalti (D.lgs 163/2006) non è
imperativamente disciplinato dalla legge nei suoi aspetti
formali e nel suo contenuto sostanziale. L'art. 49 del D.lgs
163/2006, infatti, si limita a disporre che il concorrente,
in tale ipotesi, deve semplicemente allegare "una
dichiarazione…….attestante l'avvalimento dei requisiti
necessari per la partecipazione alla gara, con specifica
indicazione dei requisiti stessi e dell'impresa ausiliaria",
nonché "una dichiarazione sottoscritta dall'impresa
ausiliaria con cui quest'ultima si obbliga verso il
concorrente e verso la stazione appaltante a mettere a
disposizione per tutta la durata dell'appalto le risorse
necessarie di cui è carente il concorrente."
Ne deriva che
per l'esistenza e l'operatività del contratto di avvalimento
non sono necessari, in linea di principio, contenuti
particolari e/o predeterminati, né specifiche tassative
formalità, oltre a quelle specificate dalla norma (commento
tratto da www. documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 19.09.2012 n. 4970 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gare: professionalità componenti Commissione non deve
coprire ogni aspetto.
I giudici del consiglio di Stato affrontano, nella pronuncia
in rassegna, il tema del requisito richiesto alla
commissione giudicatrice dell'esperienza nello specifico
settore oggetto dell'appalto, ex art. 84, c. 2, del d. lgs.
n. 163/2006.
Il requisito dell'esperienza nello specifico
settore oggetto dell'appalto, ex art. 84, c. 2, del d. lgs.
n. 163/2006, chiariscono i giudici di Palazzo Spada, deve
essere inteso in maniera coerente con la diversità delle
competenze richieste in relazione al complesso della
prestazione prevista, senza necessità che la specifica
competenza dei componenti della commissione di gara debba
coprire ogni aspetto della procedura (trattandosi di figure
idonee a garantire la competenza giuridico-amministrativa
sempre necessaria nello svolgimento di procedimenti di
evidenza pubblica).
Pertanto, non è necessario, secondo gli
stessi giudici, che l'esperienza professionale di ciascun
componente della Commissione copra tutti i possibili ambiti
oggetto di gara, in quanto è la Commissione, unitariamente
considerata, che deve garantire quel grado di conoscenze
tecniche richiesto nella specifica fattispecie, in ossequio
al principio di buon andamento della P.A. (commento
tratto da www. documentazione.ancitel.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.09.2012 n. 4916 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: SCAVO,
SBANCAMENTO E LIVELLAMENTO DI TERRENI
NECESSITANO DEL P.D.C..
In tema di reati urbanistici, le opere di scavo, di
sbancamento
e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi
da quelli agricoli, in quanto incidono sul tessuto
urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo
abilitativo
edilizio.
Questione ricorrente quella affrontata dalla Cassazione con
la
sentenza oggetto di esame. Il tema, sottoposto
all’attenzione
dei giudici di legittimità, attiene alla necessità o meno
di munirsi
di un titolo abilitativo edilizio nel caso in cui si intenda
procedere all’esecuzione di opere di movimento terra per
finalità
edilizie e non per finalità agricole.
La vicenda
processuale
vedeva imputato il proprietario di un terreno cui era stato
addebitato il reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art.
44
lett. b), per avere realizzato senza concessione opere di
trasformazione
edilizia del territorio, consistenti in spianamento
e riporto di terreno con stoccaggio di attrezzature per l’attività
edilizia. Censurava la sentenza di condanna la difesa
dell’imputato,
sostenendo che, nel caso in esame, si trattava di attività
edilizia libera o, a tutto voler concedere, assoggettata a
mera autorizzazione del D.P.R. n. 380 del 2001, ex art. 22.
La tesi non ha però convinto gli Ermellini che hanno
respinto
il ricorso. In particolare, condividendo il ragionamento del
giudice
di merito, la Corte ha sottolineato che, rispetto al
rifacimento
di una recinzione con paletti e rete metallica lungo il
confine del terreno (recinzione a sua volta difforme
rispetto all’autorizzazione
concessa e poi adeguata a seguito di controlli
successivi), lo spianamento del terreno adiacente non
riguardava
solo una porzione di superficie ristretta e funzionale
all’esecuzione
dei lavori di rifacimento della recinzione ma copriva
la quasi totalità del terreno («giungendo ad interessare
gran
parte del fondo ed anche le aree non confinanti con la
recinzione»).
Proprio per tale ragione i giudici di appello avevano
ritenuto
corretta la decisione del primo giudice individuando
nella esistenza di lavori di scavo e spianamento ed, ancora,
nella collocazione di un container di grandi dimensioni
oltre a
materiale edile una serie di opere incompatibili sia con la
costruzione
della recinzione in quanto di gran lunga sottodimensionata,
sia con la destinazione agricola del terreno (nonostante
l’attivazione di una porzione a piccolo orto).
I giudici di legittimità
hanno, conclusivamente, affermato che in tema di
trasformazione
dei suoli, versandosi nella materia urbanistica, le
opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del
terreno,
finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto
incidenti
sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a
titolo
abilitativo edilizio (v., da ultimo: Cass. pen., sez. III,
24.02.2009, n. 8064, in Ced Cass., n. 242741) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.07.2012 n. 29466
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 11/2012). |
AGGIORNAMENTO AL 10.12.2012 |
ã |
CONVEGNI
ON-LINE |
APPALTI:
Seminario on-line - “Bando tipo”, standardizzazione e
trasparenza nelle gare di appalti pubblici. Giovedì 13.12.2012.
Avcp e ForumPa hanno organizzato un webinar per illustrare
le novità contenute nella determinazione n. 4 del 10 ottobre
scorso sul "Bando tipo".
Il seminario, che prenderà in esame alcune delle cause di
esclusione dalle gare, è gratuito, previa iscrizione
cliccando qui e si
svolgerà giovedì 13.12.2012 dalle ore 12.30.
•
“Bando tipo”, standardizzazione e trasparenza nelle gare di
appalti pubblici
•
Determinazione 10.10.2012 n. 4
Vedi anche le consultazioni on-line:
Prime indicazioni sui bandi tipo: tassatività delle cause di
esclusione e costo del lavoro (link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
EDILIZIA
PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 10.12.2012, "Approvazione
della modulistica per la presentazione della comunicazione
di inizio lavori per attività in edilizia libera (CEL) e per
la presentazione dell’istanza di procedura abilitativa
semplificata (PAS) per il rilascio dei titoli abilitativi
per la costruzione, installazione ed esercizio di impianti
di produzione di energia elettrica alimentati da fonti
rinnovabili di cui ai punti 3.1 e 3.3 della d.g.r. 3298/2012"
(decreto
D.S. 20.11.2012 n. 10484). |
CONSIGLIERI
COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI
COMUNALI: G.U.
07.12.2012 n. 286 "Testo
del decreto-legge 10.10.2012, n. 174 coordinato con la legge
di conversione 07.12.2012, n. 213 recante: «Disposizioni
urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti
territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle
zone terremotate nel maggio 2012»". |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
05.12.2012 n. 284 "Regolamento concernente modifiche al
decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del
territorio e del mare 25.05.2012, n. 141 (SISTRI)" (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 17.10.2012 n. 210). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
EDILIZIA
PRIVATA:
Monitoraggio della l.r. n. 4 del 2012: on-line l'applicativo
per i Comuni.
Regione ha messo a disposizione REDIL 2.0, l'applicativo web
per monitorare l’attuazione della l.r. n. 4 del 2012 "Norme
per la valorizzazione del patrimonio esistente e altre
disposizioni in materia urbanistico-edilizia".
I Comuni hanno l'obbligo di dare notizia a Regione Lombardia
dei provvedimenti assunti e degli interventi assentiti di
riqualificazione urbanistica ed edilizia in attuazione degli
articoli da 3 a 7 della l.r. n. 4 del 2012. Per adempiere a
questo obbligo devono utilizzare il nuovo applicativo a
disposizione per trasmettere i relativi dati.
Tutti i dettagli sono disponibili all'interno di
Riqualificazione Urbana, sezione Monitoraggio (06.12.2012
- link a www.territorio.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: Inserimento dei dati relativi agli impianti a
fonte di energia rinnovabile nel Registro FER (Regione
Lombardia,
nota 06.12.2012 n. 24592 di prot.).
---------------
Per l'allegato da compilare
cliccare qui. |
INCARICHI
PROGETTUALI:
Oggetto: liquidazione dei compensi professionali
(Consiglio Nazionale degli Architetti Pianificatori
Paesaggisti e Conservatori,
circolare 05.12.2012 n. 1123 di prot.). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA
PRIVATA:
J. Cortinovis,
Impianti telecomunicazione e accatastamento: circolare Ag.
del Territorio n. 6/2012 (07.12.2012 - link a
http://studiospallino.blogspot.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L. Socal,
L'obbligo di integrazione delle fonti rinnovabili negli
edifici nuovi e ristrutturati ai sensi del Dlgs 28/2011
(Quaderni di legislazione tecnica n. 4/2012). |
LAVORI PUBBLICI: E.
De Falco,
La contabilità dei lavori a corpo negli appalti di lavori
pubblici (Quaderni di legislazione tecnica n.
4/2012). |
APPALTI:
A. Trevisani,
Solidarietà passiva in
materia di IVA e ritenute sui redditi di lavoro dipendente
nei subappalti (tratto da www.ipsoa.it). |
APPALTI:
D. Galli e C. Guccione,
La recente
giurisprudenza sui contratti della pubblica amministrazione
(tratto da www.ipsoa.it). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI -
SEGRETARI COMUNALI: CORTE
CONTI/2 Dal Piemonte. Gestioni associate. La segreteria a sé.
I comuni non sono obbligati a gestire la segreteria comunale
con le altre amministrazioni con cui hanno realizzato la
gestione associata della funzione fondamentale
«organizzazione generale dell'amministrazione, gestione
finanziaria e contabile e controllo».
È questa l'importante
e innovativa indicazione contenuta nel
parere
12.10.2012 n. 304 della sezione
regionale di controllo della Corte dei conti del Piemonte.
Con tale pronuncia vengono significativamente ampliati i
margini di autonomia attribuiti ai singoli comuni. Il parere
consente inoltre la stipula di convenzioni tra comuni e
unioni, se il segretario di tale ente è iscritto all'albo
dei segretari. Possibilità questa che è invece esclusa
espressamente dal recente parere n. 8/2012 della unità di
missione del ministero dell'interno che ha preso il posto
della disciolta Agenzia dei segretari comunali e
provinciali. Il Viminale evidenzia le nette differenze che
sussistono tra i comuni e le unioni, nonché la mancanza di
un vincolo a che le unioni abbiano un segretario iscritto
allo specifico albo.
La sezione regionale di controllo della Corte dei conti del
Piemonte ci dice che il segretario «è un distinto organo
monocratico, la cui attività e il cui ruolo e status è
disciplinato espressamente in modo unitario dalla parte I,
titolo IV, capo II del dlgs 18.08.2000, n. 267 (T.u.
Enti locali).
Secondo l'art. 97, infatti, il comune ha un
segretario titolare che svolge compiti di collaborazione e
funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei
confronti degli organi dell'ente in ordine alla conformità
dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai
regolamenti. Il segretario dipende funzionalmente dal
sindaco ex art. 99 del dlgs n. 267/2000. L'individuazione
normativa della figura del segretario comunale nei termini
indicati fa della sua attività una distinta e specifica
funzione amministrativa fondamentale per l'ente».
Tale
funzione certamente «deve essere necessariamente inquadrata
nell'ambito della organizzazione generale
dell'amministrazione, gestione finanziaria e contabile e
controllo, ma non esaurisce di per sé tale intera categoria,
che, al contrario, ricomprende altre funzioni oggettivamente
ed amministrativamente distinte». Per cui «è indubbio che la
segreteria comunale, attenendo a una distinta e specifica
funzione amministrativa fondamentale, possa essere oggetto
di una gestione associata, tramite convenzione o tramite
unione di comuni». Con ciò non si viola il divieto di
spezzettare la gestione associata di una funzione
fondamentale posto dal legislatore come vincolo alla
gestione associata.
Sulla possibilità di stipulare convenzioni di segreteria tra
comuni e unioni ha subito preso una posizione decisamente
ostile la unità di missione del ministero dell'interno che
ha preso il posto della disciolta Agenzia per la gestione
dell'albo dei segretari comunali e provinciali con il
recente parere n. 8. Leggiamo in questo documento che comuni
e unioni sono «soggetti giuridici nettamente distinti, tra
l'altro, per modalità di costituzione, finalità e funzioni
svolte. Si consideri, inoltre, che la figura del segretario
è prevista come obbligatoria esclusivamente per le province
e i comuni (questi ultimi sia in forma singola che
associata) a norma dell'art. 97 dello stesso dlgs 267/2000,
non sussistendo, pertanto, alcuna correlazione tra le sedi
di segreteria convenzionate e le unioni di comuni».
A
sostegno del divieto della gestione associata della funzione
di segretario tra un comune e una unione viene citata la
deliberazione n. 114 del 02.05.2001 con la quale il cda
nazionale dell'Agenzia autonoma per la gestione dell'albo
dei segretari comunali e provinciali ha chiarito che «il
segretario comunale e provinciale come figura professionale
esercita le proprie attribuzioni solo presso i comuni e le
province ovvero presso le convenzioni di segreteria_ ne
consegue la non estensione alle unioni di comuni e alle
comunità montane, poiché non compatibile, della
obbligatorietà della figura del segretario iscritto
all'apposito albo»
(articolo ItaliaOggi del 07.12.2012). |
UTILITA' |
SICUREZZA
LAVORO: Rumore
negli ambienti di lavoro: ecco un interessante manuale
operativo su come intervenire in maniera efficace.
Il problema del rumore costituisce da sempre uno dei fattori
che caratterizza in modo negativo l’ambiente di lavoro,
provocando, spesso, anche danni alla salute dei lavoratori.
La Commissione consultiva permanente per la salute e
sicurezza sul lavoro ha pubblicato il manuale operativo
intitolato “Metodologie e interventi tecnici per la
riduzione del rumore negli ambienti di lavoro”.
Scopo del documento è quello di mettere a disposizione degli
operatori della sicurezza nei luoghi di lavoro (datori di
lavoro, RLS, RSPP, consulenti della sicurezza) i vari
interventi realizzati sul campo, utili per garantire il
pieno controllo del rischio rumore in tutti i principali
comparti produttivi.
Il documento tratta i seguenti aspetti:
● valutazione del rischio e strategie per la sua riduzione;
●
prestazioni acustiche e criteri di progettazione e bonifica
degli stabilimenti industriali;
●
prestazioni acustiche e criteri di progettazione e bonifica
per specifici luoghi di lavoro;
●
criteri acustici di acquisto di macchine, attrezzature e
impianti;
●
bonifica acustica di macchine, attrezzature e impianti;
●
collaudo acustico in opera degli interventi di controllo del
rumore.
Oltre alla guida operativa sono state pubblicate
interessanti schede di approfondimento su:
●
propagazione del rumore;
●
isolamento acustico;
●
emissione acustica;
●
schermatura di sorgenti sonore;
●
misura e valutazione del livello di potenza sonora;
●
criteri di collaudo
(06.12.2012 - link a www.acca.it). |
LAVORI PUBBLICI: Arrivano
le linee guida per la gestione efficiente dell’illuminazione
pubblica.
L’ENEA ha pubblicato le Linee guida sull’illuminazione
pubblica, con l’obiettivo di promuovere l’efficienza
energetica in un settore caratterizzato molto spesso da
consumi di energia elettrica eccessivi e sproporzionati
rispetto alla qualità del servizio offerto al cittadino.
Nell’ambito della pubblica illuminazione, i cosiddetti “sprechi
energetici” sono stati quantificati mediamente intorno
al 30% degli attuali consumi: ciò mette in evidenza le
potenzialità dei processi di efficientamento energetico, sia
in termini di riduzione dei consumi di energia elettrica e
abbattimento delle emissioni di CO2 in atmosfera, sia in
termini di costi economici delle bollette, oggi pesantemente
gravanti sui bilanci comunali.
Pertanto, l’ENEA ritiene doveroso “intervenire ed
investire nel settore” e a tal fine fornisce delle linee
di indirizzo su come operare.
Il documento affronta in maniera dettagliata, oltre al
quadro normativo attuale sulla pubblica illuminazione, le
modalità di riqualificazione energetica del settore
(06.12.2012 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Come
accedere alle detrazioni fiscali del 50%? Quali sono gli
interventi agevolabili? Ce lo spiega il video dell’Agenzia
delle Entrate.
Le spese di ristrutturazione edilizia beneficiano di uno
sconto fiscale: in particolare il beneficio consiste in una
detrazione dall’Irpef di una percentuale pari a:
►
50%, per le spese sostenute fino al 30.06.2013
►
36%, per le spese sostenute dal 01.07.2013
La detrazione va ripartita in 10 rate e si calcola su un
importo massimo di spesa pari a:
►
96.000 euro, per le spese sostenute fino al 30.06.2013
►
48.000 euro, per le spese sostenute dal 01.07.2013
Ma come ottenere i vantaggi fiscali che spettano a chi
effettua lavori per il recupero del patrimonio edilizio? E
quali novità sono state introdotte in materia dal Decreto
Legge n. 83/2012?
Innanzitutto ricordiamo, come al solito, ai lettori di
BibLus-net la possibilità di accedere al portale web
dedicato alle detrazioni fiscali,
www.detrazione50.net,
che contiene tutto quello che c'è da sapere sulle
detrazioni, incluso un forum di discussione, in cui
scambiarsi idee, informazioni e porre quesiti.
Quindi, proponiamo al lettori di BibLus-net
il
video dell’Agenzia delle Entrate che spiega in maniera
semplice come accedere al beneficio fiscale e quali sono gli
interventi incentivabili
(06.12.2012 - link a www.acca.it). |
QUESITI &
PARERI |
LAVORI PUBBLICI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Il concorso del contributo comunale entro
limiti fissati per legge. I privati usano e pagano.
Per la manutenzione delle strade vicinali.
Quesito
Qual è l'attuale disciplina dei consorzi per le strade
vicinali a uso pubblico e la misura della partecipazione
alle spese da parte dell'ente locale, posto che l'unica
disposizione in vigore in materia sembrerebbe essere l'art.
14 della legge 12/02/1958, n. 126, sulla base del presupposto
che il d.l. lgt. 01/09/1918, n. 1446 risulterebbe abrogato dal
dl 22/12/2008, n. 200, convertito dalla legge 18/02/2009, n.
9?
Risposta
Dalla ricostruzione dei passaggi normativi che hanno
interessato la disciplina in materia, emerge che il d.l. lgt.
n. 1446/1918 era stato mantenuto in vigore dalla citata
legge 18/02/2009 n. 9 fino al 15.12.2009.
Tuttavia, il decreto legislativo 01.12.2009, n. 179, ha
sottratto all'effetto abrogativo le disposizione di cui al
suddetto d.l. lgt. 01/09/1918, n. 1446 (art. 1, comma 2, all.
2); inoltre ha ritenuto indispensabile la permanenza in
vigore dell'art. 14 della legge 12/02/1958, n. 126,
relativamente all'obbligo della costituzione di consorzi per
la manutenzione, sistemazione e ricostruzione delle strade
vicinali di uso pubblico (art. 1, comma1, in combinato
disposto con l'allegato 1 al dlgs n. 179/ 2009).
Ciò stante, la disciplina relativa alla manutenzione e
riscossione delle strade vicinali, ed alla facoltà per gli
utenti delle stesse di costituirsi in Consorzio, può essere
tutt'ora ricondotta alle disposizioni di cui al d.l. lgt.
01/09/1918, n. 1446 e all'art. 14 della legge n. 126 del 1958.
Occorre, peraltro, distinguere se si tratti di strade
vicinali soggette ad uso pubblico o esclusivamente ad uso
privato.
Nel primo caso, infatti, quando il comune è titolare di un
diritto reale di uso pubblico sulla strada vicinale, che è
sempre di proprietà privata, la costituzione di consorzi per
la manutenzione, sistemazione e ricostruzione di dette
strade, ai sensi dell'art. 14 della legge n. 126 del
12/02/1958, è obbligatoria, mentre rimane facoltativa nel
secondo caso.
Dalla sussistenza o meno del pubblico utilizzo deriva anche
l'obbligo, per il comune, di concorrere alle spese; in
applicazione, infatti, dell'art 3 del citato d.l. lgt. n.
1446 del 1918, che fissa i limiti di compartecipazione per
le strade vicinali soggette al pubblico transito, il comune
è tenuto a concorrere alle spese di manutenzione,
sistemazione e ricostruzione nella misura variabile da un
quinto sino alla metà della spesa, a seconda dell'importanza
della strada.
Detti limiti, che riguardano il comune, sono inderogabili in
quanto con tale disciplina, tenuto conto dello speciale
regime giuridico di queste strade, il legislatore ha già
contemperato a monte gli interessi pubblici e privati in
gioco, demandando ai comuni solo la possibilità di scegliere
in concreto l'ammontare della contribuzione all'interno dei
limiti minimi e massimi consentiti, motivando
esaurientemente tale scelta (in tal senso la Corte dei
conti, sez. reg. di controllo per il Veneto n. 140/2008).
Pertanto, nella fattispecie prospettata, che riguarda i
consorzi per le strade vicinali ad uso pubblico, nella
ritenuta applicazione dell'art. 14 della legge n. 126/1958 –che rende obbligatoria la costituzione della forma
associativa– e degli artt. 1 e 3 del d.d. lgt. n. 1446/1918,
si deduce che gli oneri per la manutenzione e sistemazione
delle strade vicinali gravano essenzialmente sui soggetti
privati che le utilizzano, salvo il concorso del contributo
comunale nei limiti e termini stabiliti dalla legge
(articolo ItaliaOggi del 07.12.2012). |
APPALTI:
Appalti pubblici, quando la stazione appaltante si
sostituisce all'appaltatore.
Domanda
L'Amministrazione Comunale, a seguito di appalto di lavori,
ha ricevuto richiesta di pagamento della retribuzione da
parte di operai della ditta appaltatrice che non ha
corrisposto tali emolumenti ai propri dipendenti. Inoltre
stessa richiesta è pervenuta da parte di operai che, si è
accertato, hanno rapporto di lavoro con ditta
subappaltatrice e risultano in "distacco" ex art. 30, D.Lgs.
10-09-2003, n. 276 (Legge Biagi) presso la ditta
appaltatrice. Come deve operare legittimamente il Comune in
tali casi?
Risposta
L'art. 5, comma 5, lett. r), D.Lgs. 12-04-2006, n. 163
stabilisce che: "Il regolamento, oltre alle materie per le
quali è di volta in volta richiamato, detta le disposizioni
di attuazione ed esecuzione del presente codice, quanto a:
... intervento sostitutivo della stazione appaltante in caso
di inadempienza retributiva e contributiva
dell'appaltatore".
L'art. 5, D.P.R. 05-10-2010, n. 207 stabilisce che: "1. Per
i contratti relativi a lavori, servizi e forniture, in caso
di ritardo nel pagamento delle retribuzioni dovute al
personale dipendente dell'esecutore o del subappaltatore o
dei soggetti titolari di subappalti e cottimi di cui
all'articolo 118, comma 8, ultimo periodo, del codice
impiegato nell'esecuzione del contratto, il responsabile del
procedimento invita per iscritto il soggetto inadempiente,
ed in ogni caso l'esecutore, a provvedervi entro i
successivi quindici giorni. Decorso infruttuosamente il
suddetto termine e ove non sia stata contestata formalmente
e motivatamente la fondatezza della richiesta entro il
termine sopra assegnato, i soggetti di cui all'articolo 3,
comma 1, lettera b), possono pagare anche in corso d'opera
direttamente ai lavoratori le retribuzioni arretrate
detraendo il relativo importo dalle somme dovute
all'esecutore del contratto ovvero dalle somme dovute al
subappaltatore inadempiente nel caso in cui sia previsto il
pagamento diretto ai sensi degli articoli 37, comma 11,
ultimo periodo e 118, comma 3, primo periodo, del codice.
2. I pagamenti, di cui al comma 1, eseguiti dai soggetti di
cui all'articolo 3, comma 1, lettera b), sono provati dalle
quietanze predisposte a cura del responsabile del
procedimento e sottoscritte dagli interessati.
3. Nel caso di formale contestazione delle richieste di cui
al comma 1, il responsabile del procedimento provvede
all'inoltro delle richieste e delle contestazioni alla
direzione provinciale del lavoro per i necessari
accertamenti".
L'art. 4, D.P.R. 05-10-2010, n. 207 stabilisce che: "1. Per
i contratti relativi a lavori, servizi e forniture,
l'esecutore, il subappaltatore e i soggetti titolari di
subappalti e cottimi di cui all'articolo 118, comma 8,
ultimo periodo, del codice devono osservare le norme e
prescrizioni dei contratti collettivi nazionali e di zona
stipulati tra le parti sociali firmatarie di contratti
collettivi nazionali comparativamente più rappresentative,
delle leggi e dei regolamenti sulla tutela, sicurezza,
salute, assicurazione assistenza, contribuzione e
retribuzione dei lavoratori.
2. Nelle ipotesi previste dall'articolo 6, commi 3 e 4, in
caso di ottenimento da parte del responsabile del
procedimento del documento unico di regolarità contributiva
che segnali un'inadempienza contributiva relativa a uno o
più soggetti impiegati nell'esecuzione del contratto, il
medesimo trattiene dal certificato di pagamento l'importo
corrispondente all'inadempienza. Il pagamento di quanto
dovuto per le inadempienze accertate mediante il documento
unico di regolarità contributiva è disposto dai soggetti di
cui all'articolo 3, comma 1, lettera b), direttamente agli
enti previdenziali e assicurativi, compresa, nei lavori, la
cassa edile.
3. In ogni caso sull'importo netto progressivo delle
prestazioni è operata una ritenuta dello 0,50 per cento; le
ritenute possono essere svincolate soltanto in sede di
liquidazione finale, dopo l'approvazione da parte della
stazione appaltante del certificato di collaudo o di
verifica di conformità, previo rilascio del documento unico
di regolarità contributiva".
La stazione appaltante può (e, quindi, non è tenuta) pagare
gli oneri retributivi a favore del personale, impiegato
nell'esecuzione dei lavori, dall'appaltatore o dal
subappaltatore inadempiente, secondo il meccanismo delineato
dall'art. 5, D.P.R. 05-10-2010, n. 207; mentre è tenuta al
pagamento di quelli contributivi ex art. 4.
Il Comune, in ottemperanza all'art. 4, D.P.R. cit., avrebbe
dovuto operare la ritenuta dello 0,50% sull'importo netto
progressivo da utilizzare, in caso di inadempienza dei soli
oneri contributivi, a favore dei dipendenti impiegati
nell'esecuzione dei lavori, siano essi dipendenti
dell'appaltatore o del subappaltatore. Detta ritenuta ha la
funzione di garantire la regolarità contributiva che verrà
verificata in seguito a rilascio del certificato di collaudo
o di verifica di conformità, attraverso il documento unico
di regolarità contributiva.
Per quanto riguarda il personale legato da un rapporto di
lavoro con la ditta subappaltatrice, ma in "distacco" ex
art. 30, D.Lgs. 10-09-2003, n. 276 (Legge Biagi) presso la
ditta appaltatrice (c.d. somministrazione di lavoro), si
osserva quanto segue.
L'art. 23, D.Lgs. 10-09-2003, n. 276 stabilisce che:
"L'utilizzatore è obbligato in solido con il somministratore
a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i
contributi previdenziali", ove per utilizzatore, nella
fattispecie in esame, si intende l'appaltatore e per
somministratore il subappaltatore. Pertanto, i trattamenti
retributivi e contributivi nei confornti del personale
impiegato sono dovuti in solido da entrambi. Tuttavia, deve
ritenersi che anche la stazione appaltante sia tenuta nei
confronti di questo personale somministrato, nei termini di
cui alle disposizioni sopra evidenziate. Infatti, le
obbligazioni di solidarietà nascono in capo al Comune sia
nei confronti del personale dell'appaltatore, che di quello
del subappaltatore. Trattandosi di una somministrazione di
lavoro da parte del subappaltatore, il Comune sarà obbligato
nei medesimi termini e limiti di cui nei confronti del
personale del subappaltatore.
In particolare, per quanto attiene agli oneri retributivi,
la stazione appaltante potrà operare il meccanismo di cui
all'art. 5 nei limiti in cui il subappaltatore riceva
direttamente il pagamento dal Comune stesso. Per quanto
riguarda gli oneri contributivi, il Comune sarà tenuto ad
effettuare le relative ritenute dello 0.50, ma anche in
questo caso solo ove il pagamento avvenga in via diretta
(cfr. art. 6, comma 5, D.P.R. 05-10-2010, n. 207).
Inoltre, poiché il subappaltatore può svolgere attività di
somministrazione lavoro in quanto autorizzato ex art. 20,
D.Lgs. 10-09-2003, n. 276, opera anche la garanzia di cui
all'art. 5 comma 2, lett. c), D.Lgs. 10-09-2003, n. 276
secondo cui: "2. Per l'esercizio delle attività di cui
all'articolo 20, oltre ai requisiti di cui al comma 1, è
richiesta: ...c) a garanzia dei crediti dei lavoratori
impiegati e dei corrispondenti crediti contributivi degli
enti previdenziali, la disposizione, per i primi due anni,
di un deposito cauzionale di 350.000 euro presso un istituto
di credito avente sede o dipendenza nei territorio nazionale
o di altro Stato membro della Unione europea; a decorrere
dal terzo anno solare, la disposizione, in luogo della
cauzione, di una fideiussione bancaria o assicurativa o
rilasciata da intermediari iscritti nell'elenco speciale di
cui all'articolo 107 del decreto legislativo 01.09.1993, n. 385, che svolgono in via prevalente o esclusiva
attività di rilascio di garanzie, a ciò autorizzati dal
Ministero dell'economia e delle finanze, non inferiore al 5
per cento del fatturato, al netto dell'imposta sul valore
aggiunto, realizzato nell'anno precedente e comunque non
inferiore a 350.000 euro. Sono esonerate dalla prestazione
delle garanzie di cui alla presente lettera le società che
abbiano assolto ad obblighi analoghi previsti per le stesse
finalità dalla legislazione di altro Stato membro della
Unione europea". La disposizione garantisce la stazione
appaltante in caso di esborso di somme a favore del
personale somministrato (06.12.2012 - tratto da
www.ispoa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Vetralla - Parere in merito al procedimento di
sanatoria previsto dall'art. 46, comma 5, del d.P.R.
380/2001 (Regione Lazio,
parere
04.12.2012 n. 34846 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Rocca di Papa - Parere in merito alla durata delle
misure di salvaguardia. Art. 12 del D.P.R. 380/2001 e art.
36 della L.R. 38/1999 (Regione Lazio,
parere
04.12.2012 n. 499081/2011 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Oriolo Romano - Parere in merito alla demolizione
di opere abusive risalenti ad epoca remota e sulla
possibilità di assentire un intervento in forma "impropria" (Regione Lazio,
parere
04.12.2012 n. 455466/2011 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Genzano di Roma - Parere circa l'interpretazione
ed applicazione dell'art. 15 della legge regionale 11.08.2008, n. 15 in tema di acquisizione gratuita al patrimonio
comunale delle opere realizzate abusivamente (Regione Lazio,
parere
04.12.2012 n. 36106/2011 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Nepi - Parere in merito alla irrogabilità delle
sanzioni edilizie in pendenza della definizione dell'istanza
di accertamento di conformità urbanistica (Regione Lazio,
parere
04.12.2012 n. 201747/2011 di prot.). |
VARI:
Prestito tra parenti stretti: come operare la restituzione
in mancanza di scrittura privata?
Domanda
Si ipotizza il caso di due fratelli, uno dei quali per
spirito di fratellanza, ha prestato negli ultimi 3/4 anni
circa 100.000 euro al fratello, il quale ora sarebbe in
grado di incominciare a restituire 40/50.000 euro. Per
evitare problematiche, come si dovrebbe comportare il
fratello che deve restituire la somma in oggetto,
presupponendo che non è stata registrata nessuna scrittura
privata?
Risposta
Si presume che il gentile lettore si riferisca ad un
prestito personale tra parenti stretti; occorre
preliminarmente evidenziare che è legalmente corretto e
lecito ottenere dei prestiti tra parenti ed amici e/o
conoscenti. La possibilità e liceità era implicita al
sistema, ma anche dalla giurisprudenza di legittimità è
arrivata una conferma formale ed autorevole: la Corte di
Cassazione, con la sentenza n. 2404 del 2010, ha affermato
che non costituiscono reato i finanziamenti mutui e prestiti
fatti ad un amico e/o parente che sia una persona fisica a
condizione che la erogazione sia occasionale e non diretta
al pubblico indistinto.
In sostanza i prestiti tra persone fisiche che siano tra
loro parenti o amici sono leciti solo quando non siano fatti
in modo sistematico e professionale perché se così fosse
violerebbero il D.Lgs. n. 385 del 1993 il quale prevede
l'ipotesi del reato di esercizio abusivo del credito.
Sempre la Corte di Cassazione se da un lato afferma la
possibilità del prestito tra parenti, nega non tanto il
prestito tra coniugi cioè tra moglie e marito, ma il diritto
alla restituzione. In pratica, con la sentenza n. 12551 del
2009, la Suprema Corte ha negato la restituzione del
finanziamento in capo ad una moglie che aveva prestato una
certa somma al marito motivando il tutto col fatto che i
"prestiti tra coniugi" sono non tanto dei veri e propri
finanziamenti ma piuttosto una forma di solidarietà
reciproca o mutuo soccorso esistente tra coniugi in ambito
familiare.
Occorre prestare attenzione alla normativa antiriciclaggio
in quanto coloro che intendono effettuare transazioni
commerciali tra soggetti, a prescindere che siano economici
o meno, vi è tassativo divieto di superare, nell'utilizzo
del contante o di assegni trasferibili, la soglia dei 999,99
euro per ogni singola operazione. In più, sono suscettibili
di sanzione anche più pagamenti in momenti successivi a
condizione che siano riconducibili a un'unica operazione. E
ancora. Sono soggetti alla medesima limitazione anche i
trasferimenti a titolo gratuito: un prestito tra parenti o
amici, un lascito ereditario, una donazione eccetera. Da qui
la regola per cui se il controvalore di una prestazione, di
un lascito o di qualsivoglia attività sia pari o superiore
ai 1000 euro, seppur valide le transazioni poste in essere,
si verrà assoggettati a una sanzione amministrativa dall'1
al 40% dell'importo trasferito.
Nel caso in esame sarebbe opportuno l'utilizzo di una
scrittura privata che avrebbe dovuto essere sottoscritta al
momento del prestito di denaro; eventualmente si può pensare
di retrodatarla ma di queste eventualità sarebbe opportuno
consigliarsi con un legale di fiducia anche per una serie di
aspetti personali che in questa sede è opportuno non
trattare. Secondo autorevole dottrina, inoltre, i mutui
bancari sono infatti agevolati dal fatto che, se durano
oltre 18 mesi (in tal caso sono denominati «mutui a medio o
lungo termine»), ogni imposta che normalmente sarebbe dovuta
(e cioè le imposte di registro, ipotecaria e di bollo) è
"assorbita" in un'unica imposta, detta appunto "imposta
sostitutiva", dovuta di regola nella misura dello 0,25%, da
calcolare sull'importo del mutuo erogato. Invece, per i
mutui concessi da un privato, si debbono pagare (oltre che
un bollo per ogni quattro facciate del contratto di mutuo):
a) l'imposta di registro nella misura del 3% sull'importo
del capitale erogato (a meno che i contraenti intendano
risparmiare violando l'obbligo di registrazione, ma con la
conseguenza di pagare poi una sanzione se ad esempio vi sia
una causa giudiziaria nella quale il contratto di mutuo
debba essere esibito, come accade nel caso in cui il
mutuatario non paghi le rate);
b) l'imposta di registro nella misura dello 0,50%
sull'importo dell'eventuale garanzia concessa (ipoteca o
fideiussione);
c) l'imposta ipotecaria nella misura del 2% sull'importo
dell'eventuale garanzia concessa (15.11.2012 - tratto da www.ipsoa.it). |
LAVORI PUBBLICI
- URBANISTICA: Comune di Monterotondo - Parere in merito alla procedura da
applicare al piano delle alienazioni e valorizzazioni
immobiliari di cui all'art. 58 del decreto legge 112/2008
che comporti variante urbanistica (Regione Lazio,
parere
29.10.2012 n. 423230 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Anzio - Parere in merito alla possibilità di
rilascio di un permesso di costruire sulla base di
disposizioni non più vigenti (Regione Lazio,
parere
29.10.2012 n. 544237/2011 di prot.). |
NEWS |
VARI: Incandidabilità ampia.
Fuori dalle assemblee anche chi patteggia.
Cosa prevede lo schema di decreto sulle
liste pulite appena varato.
Parlamentari e ministri incandidabili per gravi reati di
mafia e per reati contro la pubblica amministrazione.
Lo
prevede lo schema di decreto legislativo attuativo della
legge 190/2012, approvato giovedì dal Consiglio dei
ministri, precisando che starà fuori dalle assemblee e dai
governi nazionali e locali anche chi patteggia.
Parlamentari e ministri.
Sono incandidabili a deputato e senatore coloro che abbiano
riportato condanne definitive alla pena della reclusione
superiore a due anni per i delitti distrettuali e cioè
quelli di maggiore allarme sociale (associazione mafiosa,
sequestro di persona, gravi reati di droga e in materia
ambientale, delitti con finalità di terrorismo). Lo stesso
vale per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione (peculato, concussione, corruzione, abuso
d'ufficio, omissione atti d'ufficio).
Portano all'incandidabilità
anche ulteriori delitti la cui pena edittale massima è
superiore a tre anni di reclusione. Le disposizioni sull'incandidabilità
dei parlamentari valgono anche per l'assunzione ed allo
svolgimento di un incarico di governo. Prima di assumere le
funzioni di presidente del Consiglio o di ministro, si dovrà
dichiarare al presidente della Repubblica, di non trovarsi
nella condizione ostativa. Viceministri, sottosegretario di
Stato e commissario straordinari del Governo renderanno la
dichiarazione al presidente del Consiglio.
Governi e consiglieri regionali. Riprese le norme in vigore
aggiungendo quali cause ostative i reati distrettuali e
ampliando il catalogo dei delitti contro la p.a. come
modificato a seguito della legge n. 190/2012. L'elenco dei
ricomprende le condanne definitive per i delitti di
competenza delle procure distrettuali senza però il richiamo
al limite della pena in concreto erogata (superiore a due
anni), stabilita invece per l'incandidabilità dei
parlamentari nazionali. Questa scelta si motiva per il fatto
che attualmente la legge n. 55/1990 prevede l'incandidabilità
per i gravi reati, indipendentemente dalla pena in concreto
erogata.
Enti locali. Oltre a una ricognizione della normativa
vigente in materia di incandidabilità negli enti locali, il
decreto introduce ulteriori ipotesi di incandidabilità per
delitti di grave allarme sociale, parificandole a quelle
previste per il livello politico nazionale e regionale.
Sono, dunque, ampliate le ipotesi di incandidabilità con il
richiamo ai delitti distrettuali di grave allarme sociale e
ai delitti contro la pubblica amministrazione
Durata. Per l'incandidabilità «politica» la durata è
connessa al periodo di interdizione temporanea dai pubblici
uffici stabilita, come pena accessoria, con la sentenza di
condanna.Per la durata delle incandidabilità regionali e
locali, l'incandidabilità è senza termine, ed eliminabile
solo con la riabilitazione.
Patteggiamento. Tutte le ipotesi di incandidabilità operano
anche nel caso di patteggiamento della pena. Questo vale
solo per le sentenze pronunciate successivamente all'entrata
in vigore del testo unico, con riferimento alle nuove
incandidabilità: quindi per tutte quelle previste per
deputati e senatori e per quelle che si aggiungono a livello
regionale e locale
(articolo ItaliaOggi dell'08.12.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Controlli double face sugli enti.
Più poteri alla Corte conti. Verifiche interne scaglionate.
Approvato in via definitiva il dl
salva-enti con il giro di vite sulle spese delle regioni.
Più oneri sulla Corte dei conti e una tabella di marcia più
«rilassata» (soprattutto in materia di bilancio consolidato
e controlli sulle partecipate) per quanto riguarda i
controlli interni.
Si muovono lungo queste due direttrici le
novità introdotte nel corso dell'iter parlamentare al
decreto legge n. 174/2012 (cosiddetto «salva-enti locali» o
«costi della politica» come è stato ribattezzato visto che è
stato emanato all'indomani degli scandali che hanno travolto
le amministrazioni regionali di Lombardia e Lazio),
approvato ieri in via definitiva dalla camera con 268 sì, un
solo no e 153 astensioni (quelle di gran parte dei deputati
del Pdl dopo che giovedì il partito guidato da Angelino
Alfano ha deciso di uscire dalla maggioranza che sostiene il
governo Monti).
Il dl 174, nel testo emendato dalla camera prima e poi dal
senato, rafforza i poteri di controllo della Corte dei conti
sui bilanci preventivi e sui rendiconti degli enti locali.
Saranno posti ai raggi X il rispetto del Patto di stabilità
interno, l'osservanza dei limiti di indebitamento e la
sostenibilità finanziaria dell'ente. In caso di violazioni i
sindaci o i presidenti dovranno adottare provvedimenti per
rimuovere le irregolarità entro 60 giorni che dovranno
essere trasmessi alla magistratura contabile. La Corte li
esaminerà nei successivi 30. Se l'ente non provvede alla
trasmissione o la verifica da parte della Corte darà esito
negativo, le amministrazioni non potranno più spendere.
Le sezioni regionali della Corte dei conti verificheranno
con cadenza semestrale le regolarità delle gestioni. I
sindaci dei comuni con più di 15.000 abitanti e i presidenti
di provincia dovranno trasmettere ogni sei mesi un referto
sulla regolarità della gestione sulla base delle linee guida
approvate dalla Corte conti. Il bilancio consolidato e il
controllo della qualità dei servizi erogati partiranno dal
2013 solo negli enti con più di 100.000 abitanti. Dal 2014
l'asticella si abbasserà a 50.000 abitanti e solo nel 2015 a
15.000 abitanti. La stessa tempistica si applicherà ai
controlli sulle partecipate non quotate e alla definizione
di metodologie di controllo strategico finalizzate alla
rilevazione dei risultati conseguiti rispetto agli
obiettivi. La funzione di controllo strategico potrà essere
esercitata in forma associata.
Nella parte dedicata alle regioni (i primi due articoli) il
provvedimento, pur con un dietrofront rispetto al testo
iniziale (che introduceva i controlli preventivi di
legittimità da parte della Corte dei conti sugli atti dei
governatori), introduce significative novità sottoponendo i
preventivi e consuntivi regionali al controllo dei
magistrati contabili che dovranno verificare la rispondenza
col Patto di stabilità. La Corte dei conti passerà ai raggi
X anche le partecipazioni in società controllate. Tra le
novità introdotte al senato si segnala la chance, prevista
per le regioni che abbiano adottato il piano di
stabilizzazione finanziaria (per il momento solo la
Campania), di chiedere entro il 15 dicembre un'anticipazione
di cassa da destinare al pagamento della spesa corrente nei
limiti di 50 milioni per il 2012 (si veda ItaliaOggi del 30
novembre).
Per gli enti locali in dissesto e che si trovino in
condizione di grave indisponibilità di cassa è prevista la
possibilità di chiedere un anticipo pari a 5/12 delle
entrate per la durata di sei mesi. I comuni che accedono al
fondo anti-dissesto potranno ricevere un contributo di 300
euro per abitante. Le province avranno 20 euro per abitante.
Al fondo potranno accedere tutti i comuni (è stata soppressa
la norma che riservava l'accesso al fondo solo ai comuni con
più di 20.000 abitanti). I comuni sciolti per mafia e in cui
sussistono squilibri strutturali di bilancio potranno
chiedere un'anticipazione di 200 euro per abitante nel
limite massimo di 20 milioni l'anno.
La stretta sui costi della politica regionale impone ai
governatori di:
●
ridurre le indennità di funzione dei consiglieri e degli
assessori nonché l'assegno di fine mandato
● prevedere il divieto di cumulo di indennità o emolumenti
● pubblicizzare i redditi degli eletti
● definire gli importi dei contributi in favore dei gruppi
consiliari
●
erogare pensioni e vitalizi agli ex presidenti, assessori e
consiglieri solo a chi abbia compiuto i 66 anni di età e
abbiano ricoperto l'incarico per non meno di 10 anni anche
non continuativi. I governatori dovranno adeguarsi a queste
prescrizioni entro il 23 dicembre o entro sei mesi
dall'entrata in vigore della legge di conversione del dl 174
pena la perdita dell'80% dei trasferimenti non destinati a
finanziare il Ssn e il Tpl
(articolo ItaliaOggi dell'08.12.2012). |
APPALTI: DECRETO
CRESCITA/ Le imprese pagano per i bandi.
Costi di pubblicazione dell'ente rimborsati da chi vince.
Il meccanismo entrerà in vigore il
1° gennaio prossimo.
Dal 01.01.2013 le spese per la pubblicazione sui
quotidiani dei bandi e degli avvisi di gara saranno
rimborsate alla stazione appaltante dall'affidatario del
contratto; rimane sempre ferma la disciplina prevista nel
Codice dei contratti pubblici che obbliga anche dopo il 1°
gennaio le stazioni appaltanti a pubblicare i bandi e gli
avvisi, oltre che sulla Gazzetta Ufficiale, sul proprio sito
internet e su quello del ministero delle infrastrutture e
dell'Osservatorio dell'Autorità, anche per estratto su
quotidiani a diffusione nazionale e locale.
È questo il quadro che si ricava alla luce del comma 35
dell'articolo 34 del decreto legge 179/2012, introdotto con
il maxi-emendamento predisposto dal governo e sul quale è
stata votata ieri la fiducia.
La norma prende in considerazione soltanto l'onere di
pubblicità sui quotidiani di bandi e avvisi di gara che fa
capo alle stazioni appaltanti e che riguarda la
pubblicazione per estratto, ai sensi dell'articolo 66, comma
7, del Codice dei contratti pubblici, su due quotidiani a
diffusione nazionale e due a diffusione locale, se si tratta
di contratti di rilevanza comunitaria (ai sensi
dell'articolo 122, comma 5, del Codice, su un quotidiano a
diffusione nazionale e locale, se il contratto è al di sotto
delle soglie di applicazione della normativa comunitaria).
In sostanza il nuovo comma 35 dell'articolo 34 del
provvedimento stabilisce che a partire dai bandi e dagli
avvisi pubblicati successivamente al 01.01.2013, le
spese per la pubblicazione per estratto sui quotidiani
previste dalle norme del Codice (i citati articoli 66, comma
7 e 122, comma 5) «sono rimborsate alla stazione appaltante
dall'aggiudicatario, entro il termine di 60 giorni
dall'aggiudicazione».
La norma ha due effetti, ma lascia aperto un dubbio
interpretativo che dovrebbe essere in qualche modo risolto.
Il primo effetto è quello di confermare a chiare lettere che
anche dal 1° gennaio 2013 le stazioni appaltanti sono
comunque tenute alla pubblicazione sui quotidiani dei bandi
e degli avvidi di gara per estratto. Da ultimo, e prima
dell'approvazione della legge «anticorruzione», il dubbio
poteva infatti esservi. Nel 2009, infatti, il comma 5
dell'articolo 32 della legge n. 69/2009 aveva stabilito che
proprio a decorrere dal 1° gennaio 2013, le pubblicazioni
effettuate in forma cartacea non avessero più «effetto di
pubblicità legale, ferma restando la possibilità per le
amministrazioni e gli enti pubblici, in via integrativa, di
effettuare la pubblicità sui quotidiani a scopo di maggiore
diffusione, nei limiti degli ordinari stanziamenti di
bilancio». Con tutta probabilità, quindi, la pubblicazione
sui quotidiani sarebbe sparita. Con la recente legge 06.11.2012, n. 190 («anticorruzione») il legislatore ha
però previsto una disposizione «di salvezza» delle norme in
materia di pubblicità contenute nel Codice dei contratti
pubblici. In sostanza, quindi, l'aver fatte salve le due
norme del Codice dei contratti pubblici (vedi ItaliaOggi del
30.11.2012, pag. 35) ha significato implicitamente
abrogare la norma che avrebbe fato perdere efficacia legale
alla pubblicità sui quotidiani a decorrere da inizio 2013.
Appare evidente, adesso, che la disposizione del decreto
legge sulla crescita, nel testo del maxi-emendamento, nel
prendere atto della norma della legge 190/2012, non fa altro
che confermare l'obbligo di pubblicità sui quotidiani
occupandosi però di venire incontro alle difficoltà di
bilancio delle stazioni appaltanti.
Il secondo effetto è, appunto, quello di sollevare le
finanze delle amministrazioni che, seppure dovranno
sopportare inizialmente le spese di pubblicazione, si
vedranno rimborsare tali spese dall'aggiudicatario del
contratto dopo due mesi dall'aggiudicazione. Una sorta di
spending review sulle spalle delle imprese.
Il dubbio interpretativo riguarda il fatto che, dal tenore
letterale della norma, non si desume se e come chi partecipa
alla gara avrà contezza dei costi già sostenuti dalla
stazione appaltante, il che farà una certa differenza
soprattutto quando le gare sono al massimo ribasso.
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Le stazioni appaltanti dovranno iscriversi all'Anagrafe
unica.
Le stazioni appaltanti dovranno iscriversi all'anagrafe
unica istituita presso la Banca dati dei contratti pubblici,
gestita dall'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici, che dovrebbe essere attivata entro il 01.01.2013; in caso di inadempimento dell'obbligo di iscrizione
scatta la nullità degli atti e la responsabilità
amministrativa e contabile del funzionario responsabile.
È
questa una delle principali novità contenuta nel testo del
maxi-emendamento al decreto legge 179, presentato dal
governo e sul quale l'aula del senato ha votato ieri la
fiducia. Si tratta di una assolta novità l'istituzione
presso l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture dell'anagrafe unica delle
stazioni appaltanti alla quale obbligatoriamente ogni
stazione appaltante dovrà iscriversi.
La norma precisa
infatti che le stazioni appaltanti di contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture saranno tenute a richiedere
l'iscrizione all'anagrafe unica presso la banca dati
nazionale dei Contratti pubblici istituita ai sensi
dell'articolo 52-bis del codice dell'amministrazione
digitale di cui al decreto legislativo 07.03.2005 n. 82.
In sostanza ciò significa che prima dovrà essere attiva la
banca dati nazionale dei contratti pubblici (che dovrebbe
partire il 01.01.2013, quanto meno per gli affidamenti
di rilievo superiore alla soglia comunitaria, stando ad
alcune indiscrezioni filtrate nelle ultime settimane) e poi
le amministrazioni potranno iscriversi.
Sarà l'Autorità di
vigilanza presieduta da Sergio Santoro a dettare, poi, con
una propria delibera, le modalità operative e di
funzionamento della anagrafe. Gli obblighi per le
amministrazioni non si esauriscono però nella mera
iscrizione all'anagrafe, perché esse dovranno anche
procedere, ogni anno, all'aggiornamento dei rispettivi dati
identificativi. L'inadempimento di questi obblighi è
previsto che dia luogo alla nullità degli atti adottati e
alla responsabilità amministrativa e contabile dei
funzionari responsabili.
---------------
Nulla di fatto per le modifiche alla responsabilità solidale.
Nulla di fatto per la responsabilità solidale negli appalti:
rimane la disciplina attuale; ammessi i contratti di rete
nelle gare di appalto; salta all'ultimo momento l'estensione
della disciplina sui crediti di imposta per le
infrastrutture in PPP di importo superiore a 100 milioni e
per quelle già aggiudicate. È quanto emerge dal testo del
maxi-emendamento approvato dal senato che proprio per il
settore delle infrastrutture in project financing compie
alcuni significativi passi indietro.
Si parlava, con alcuni emendamenti dei relatori, di due
modifiche alla disciplina sui crediti di imposta: la
riduzione da 500 a 100 milioni della soglia minima di
applicazione e della possibilità di utilizzarli anche per le
opere aggiudicate. Le due modifiche sono però saltate e
tutto invariato. Stessa sorte per la proposta di esclusione
del settore degli appalti pubblici dalla disciplina sulla
responsabilità solidale fiscale; anche in questo caso la
norma non compare più nel testo finale.
Rappresenta invece
una novità, peraltro presa dal disegno di legge
semplificazioni-bis, riguarda i cosiddetti contratti di rete
stipulati fra aggregazioni di imprese ai sensi dell'articolo
3, comma 4-ter, del decreto legge 10.02.2009, n. 5,
convertito, con modificazioni, dalla legge 09.04.2009, n.
33.
La norma approvata ieri stabilisce che alle aggregazioni
che si basano su questi contratti si applicano le
disposizioni dell'articolo 37 del Codice dei contratti
pubblici che, a sua volta, detta le regole per la
costituzione e il funzionamento dei raggruppamenti
temporanei di imprese e dei consorzi ordinari di
concorrenti. Ciò dovrebbe significare che le imprese che
hanno sottoscritto il contratto di rete dovranno configurare
la propria «aggregazione» secondo le regole proprie di
queste due tipologie di soggetti raggruppati, quanto meno,
quindi, secondo lo schema del mandato con rappresentanza.
Infine per far fronte ai pagamenti per lavori e forniture
già eseguiti, l'Anas potrà utilizzare le risorse dell'ex
Fondo centrale di garanzia, nel limite di 400 milioni di
euro
(articolo ItaliaOggi del 07.12.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Congedi parentali anche a ore.
Nei ccnl le modalità per fruire dei permessi ai genitori.
La novità nel decreto legge
salva-infrazioni che è stato approvato ieri dal governo.
I congedi parentali potranno essere utilizzati anche a ore e
non solo su base giornaliera. Sarà la contrattazione
collettiva a definire le modalità di fruizione del congedo
nonché i criteri di calcolo della base oraria e
l'equiparazione di un determinato monte ore alla singola
giornata lavorativa.
È una delle tante disposizioni
contenute nel decreto legge salva-infrazioni, varato ieri
dal consiglio dei ministri per provare a salvare, appunto,
l'Italia dalle numerose procedure, aperte o possibili, da
parte dell'Unione europea.
I temi affrontati dal decreto spaziano dal lavoro al fisco,
dalla sanità all'ambiente. Sul fronte fiscale, si prevedono,
tra l'altro, l'unificazione dei criteri del momento di
effettuazione delle operazioni intraUe, lo stop alla
fatturazione dei pagamenti anticipati e la ridefinizione
degli adempimenti negli scambi intracomunitari. E ancora, lo
stop per i comuni alla possibilità di ampliare l'oggetto dei
contratti per la riscossione locale affidando ai
concessionari nuovi ambiti di business senza indire gare, ma
semplicemente rinegoziando i rapporti in essere.
Da
segnalare, ancora le modifiche alla normativa del quadro RW
sui beni all'estero: la previsione di una sanzione di 258
euro per chi presenta il quadro RW entro i 90 giorni
successivi alla scadenza dei termini di Unico, riduzione dal
5 al 3% della sanzione minima per l'omessa dichiarazione
degli investimenti esteri che raddoppia se i predetti
investimenti sono situati in black list, completa scomparsa
della sezione III del quadro relativo al monitoraggio
fiscale.
Accordo Italia-San Marino. Via libera del governo anche alla
Convenzione tra Italia e San Marino per evitare le doppie
imposizioni in materia di imposte sul reddito e per
prevenire le frodi fiscali (si veda ItaliaOggi del 4
dicembre). Si tratta di un ulteriore tassello della già
vasta rete di strumenti analoghi per evitare le doppie
imposizioni stipulati dall'Italia. In particolare, l'accordo
con San Marino permette di creare un valido quadro
giuridico-economico di riferimento per gli operatori
economici italiani, ed allo stesso tempo garantisce
l'interesse generale dell'Amministrazione finanziaria
italiana. La struttura della Convenzione ricalca gli schemi
più recenti accolti sul piano internazionale dall'Ocse, con
particolare riferimento allo scambio di informazioni fiscali
ed al superamento del segreto bancario
Contributi agli uffici giudiziari. Il consiglio dei ministri
ha approvato in via preliminare un provvedimento che
introduce alcune modificazioni al procedimento per la
concessione dei contributi alle spese di funzionamento degli
uffici giudiziari in favore dei comuni presso i quali questi
uffici hanno sede. Il meccanismo attuale di rimborso delle
spese (disciplinato dalla legge n. 392 del 1941 e dal dpr n.
187 del 1998) prevede l'erogazione di un anticipo all'inizio
di ogni esercizio finanziario, pari al 70% del contributo
erogato nell'anno precedente, e un successivo saldo a
consuntivo, entro il 30 settembre di ogni anno. Il nuovo
intervento rende la spesa più facilmente controllabile da
parte dell'amministrazione della giustizia e incentiva
prassi virtuose di gestione dei flussi finanziari attraverso
la destinazione dei risparmi ottenuti in favore degli enti
locali interessati.
Piano dei conti integrato delle p.a. Il consiglio ha
approvato un provvedimento che riguarda le modalità di
adozione del piano dei conti integrato delle amministrazioni
pubbliche. L'articolo 4 del decreto legislativo n. 91 del 31
maggio (disposizioni di attuazione dell'articolo 2 della
legge 196 del 2009, in materia di adeguamento ed
armonizzazione dei sistemi contabili) ha disposto che le
amministrazioni pubbliche che utilizzano la contabilità
finanziaria sono tenute ad adottare un comune piano dei
conti integrato, costituito da conti che rilevano le entrate
e le spese in termini di contabilità finanziaria e in
termini di contabilità economico-patrimoniale e da conti
economico-patrimoniali. Tale piano deve essere redatto dalle
p.a. (a eccezione dei ministeri e degli enti territoriali)
secondo comuni criteri di contabilizzazione indicati dal
provvedimento. All'esito dell'adozione del piano dei conti
integrato sarà effettuata una sperimentazione di due anni,
che consentirà alle amministrazioni aderenti di verificare
l'effettiva rispondenza del nuovo assetto contabile
Referendum. Si voterà il 10 e l'11.02.2013 nei
territori che hanno chiesto il distacco dalla regione di
appartenenza. Si tratta, in particolare, della provincia di
Piacenza che ha chiesto il distacco dall'Emilia Romagna e
l'aggregazione alla Lombardia, e dei comuni veneti di Arsiè,
di Canale d'Agordo, di Cesiomaggiore, di Falcade, di Feltro,
di Gosaldo e di Roccapietone (Belluno) che hanno invece
chiesto il distacco dal Veneto per passare al Trentino-Alto
Adige/Sudtirol
(articolo ItaliaOggi del 07.12.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: Enti associati, revisione doc.
Collegi nelle unioni che svolgono funzioni fondamentali.
Il maxiemendamento al dl 174 sui costi della
politica ha corretto la formulazione.
Il nuovo assetto dell'organo di revisione
economico-finanziaria, con la previsione di un collegio
composto da tre membri chiamati a operare anche nei comuni
associati, riguarda solo le unioni che esercitano in forma
associata tutte le funzioni fondamentali comunali.
Il maxiemendamento al disegno di legge di conversione del dl
174/2012 approvato in settimana dal senato, infatti,
corregge la formulazione del nuovo art. 234, comma 3-bis,
del Tuel uscita dalla camera.
Il testo precedente disponeva che «Nelle unioni di comuni la
revisione economico-finanziaria è svolta da un collegio di
revisori composto da tre membri, che svolge le medesime
funzioni anche per i comuni che fanno parte dell'unione».
Il riferimento, quindi, era a tutte le unioni e non solo a
quelle costituite dai piccoli comuni per assolvere
all'obbligo di gestione in forma associata delle funzioni
fondamentali.
Dopo il passaggio a palazzo Madama, invece, la portata della
novità è stata circoscritta alle sole unioni di comuni
«totalitarie», siano esse speciali (ex art. 16 del dl
138/2011), ovvero classiche (ex art. 32 del Tuel).
Sebbene nulla vieti che anche i comuni di dimensioni
medio-grandi associno la generalità del proprio «core
business», è evidente che il legislatore mira soprattutto a
quelli sotto i 5.000 abitanti (3.000 in montagna), i quali,
entro la fine del 2013 (salvo proroghe) dovranno gestire in
comunione tutte le nove funzioni fondamentali individuate
dall'art. 19, comma 1, del dl 95/2012.
Anche i piccoli comuni, peraltro, potranno agevolmente
aggirare la nuova norma, optando per il modello della
convenzione (art. 30 del Tuel), anche solo per gestire
alcune delle predette funzioni.
Ricordiamo, infatti, che l'art. 14, comma 29, del dl 78/2010
si limita a sancire il divieto di svolgere la medesima
funzione mediante più di una forma associativa, mentre
l'art. 32 del Tuel impedisce al singolo comune di far parte
di più di un'unione. Nulla osta, invece, alla possibilità di
aderire ad un'unione conferendo ad essa solo alcune funzioni
e gestendo le altre mediate convenzione.
In tali casi, l'obbligo di passare dall'attuale revisore
monocratico al collegio e di assegnare a quest'ultimo anche
la vigilanza dei conti dei comuni associati non si applica.
È stata, invece, confermata la disposizione in base alla
quale, all'atto della costituzione del nuovo collegio dei
revisori delle unioni di comuni di cui all'articolo 234,
comma 3-bis, del Tuel (ovvero, come detto, quelle
«totalitarie») decadranno i revisori in carica nei comuni
associati.
Per la scelta dei componenti occorre applicare il meccanismo
dell'estrazione dalle liste regionali, previsto dall'art.
16, comma 25, del dl 138/2011. Gli elenchi sono stati
recentemente approvati dal decreto del 27 novembre 2012 del
ministero dell'interno, dipartimento per gli affari interni
e territoriali.
In base a quanto disposto dal regolamento del Viminale n. 23
del 15.02.2012, occorrerà pescare da nominativi
inseriti almeno in fascia 2, che include i soggetti iscritti
da almeno cinque anni e che abbiano svolto almeno un
incarico di revisore dei conti presso un ente locale per
almeno tre anni.
È chiaro che, a seguito delle modifiche, si attenuano alcuni
degli effetti che sarebbero conseguiti dalla riforma come
approvata a Montecitorio, che avrebbe comportato una forte
riduzione di posti per i professionisti che lavorano nella
pa locale e una penalizzazione per quelli al primo incarico
(articolo ItaliaOggi del 07.12.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Tares, rischio di salto nel
buio.
Sono molte le perplessità dei comuni e degli operatori.
A
pochi giorni dall'effettiva entrata in vigore del tributo i
nodi da sciogliere sono molti.
A pochi giorni dall'effettiva entrata in vigore del tributo
comunale sui rifiuti e sui servizi (c.d. Tares) -come
istituito ai sensi e per gli effetti dell'art. 14 del dl n.
201/2011 conv. con modif. in legge n. 214/2011- sono
molteplici le perplessità dei comuni e degli operatori
chiamati a dare attuazione al rinnovato istituto.
È indubbio che la Tares garantirà -per un verso- il
superamento di un regime che, negli anni, per il coesistere
di differenti strumenti (Tarsu; Tia1; Tia2), ha generato un
panorama di riferimento, anche giurisprudenziale, del tutto
diversificato e -sotto altro profilo- assicurerà la
definitiva affermazione della natura «tributaria» del
prelievo.
Peraltro, proprio con riguardo a tale ultimo profilo, va
dato conto che le disposizioni normative già consentono
tuttavia al tributo di «trasformarsi» in corrispettivo del
servizio –e dunque in vera e propria tariffa– allorché
venga data attuazione a quei sistemi di «misurazione
puntuale della quantità di rifiuti conferiti al servizio
pubblico» che la stessa Corte Costituzionale - con la nota
sentenza n. 238/2009 relativa all'affermazione della natura
tributaria del regime Tarsu/Tia - aveva indicato essere i
principali motivi per cui, in ogni caso, dette entrate non
potevano avere qualifica tariffaria al riguardo rilevando
che «_ il fatto generatore dell'obbligo di pagamento è
legato non all'effettiva produzione di rifiuti da parte del
soggetto obbligato e alla effettiva fruizione del servizio
di smaltimento, ma esclusivamente all'utilizzazione di
superfici potenzialmente idonee a produrre rifiuti ed alla
potenziale fruibilità del servizio di smaltimento».
Ma come detto in apertura sono molte le perplessità relative
all'attuazione delle nuove previsioni, con molteplici
richieste di revisioni della norma –di cui si sono fatti
portavoce differenti centri di interesse– e che dovrebbero
confluire in puntuali revisioni del sistema Tares a pochi
giorni dall'attuazione di questa e soprattutto a pochi
giorni dalla scadenza della prima rata di pagamento che la
norma prevede avvenga già entro il prossimo gennaio.
A tale riguardo, senza volontà di affrontare compiutamente
la delicata questione delle richieste di modifica, data la
molteplicità dei profili trattati e il necessario
approfondimento che ogni elemento richiederebbe, è comunque
possibile valutare taluni profili della problematica ed in
tale ottica approfondire due tematiche oggetto di distinti
progetti di riforma.
In tale contesto una rilevante modificazione proposta è già
contenuta in atti ufficiali, ossia nel progetto di legge di
modifica al Codice dell'ambiente, attualmente in esame alla
commissione ambiente della camera dei deputati.
All'art. 16 di tale progetto di legge è, infatti, contenuta
una disposizione per la quale la possibilità di attuare un
sistema tariffario (in luogo di quello tributario della
Tares) non sarebbe riconnessa solo ed esclusivamente
all'approntamento dei già indicati sistemi di misurazione
puntuali della quantità di rifiuti conferiti ma anche
all'ipotesi in cui i comuni abbiano comunque realizzato
«sistemi di gestione caratterizzati dall'utilizzo di
correttivi ai criteri di ripartizione del costo del servizio
finalizzati ad attuare un effettivo modello di tariffa
commisurata al servizio reso».
È indubbio che, data la genericità della previsione, la
stessa non possa che essere apprezzata esclusivamente per
l'effetto che questa sarebbe in grado di ingenerare.
Le conseguenze più immediate (e forse anche volute)
sarebbero, infatti, quelle di sottrarre al regime di
applicazione Tares una serie di fattispecie per le quali –pur non essendo attuati meccanismi di misurazione puntuali
della quantità di rifiuti conferiti, come richiesto dalla
Corte costituzionale e come originariamente previsto dalla
stessa legg – potrebbero ugualmente valere i «correttivi»
previsti dalla norma.
Quanto detto con la conseguente applicazione di un regime
tariffario sia pure in assenza di parametri effettivi di
riferimento e, dunque, con il rischio di determinare uno
scenario di discrezionalità assoluta e totalmente
incontrollato, collegato a variabili sostanzialmente
indefinite e forse indefinibili.
E comunque in possibile contrasto con le indicazioni fornite
dalla Corte costituzionale.
A fronte di tali correttivi – imitati nella forma ma
assolutamente dirompenti per gli effetti che potrebbero
determinare– e al di là di ipotesi di mero rinvio
dell'entrata in vigore delle previsioni di legge, rispetto a
cui il dubbio maggiore risiede nella quota di contribuzione
relativa ai servizi indivisibili che il Governo conta di
ottenere già nel 2013, altri progetti di riforma riguardano
direttamente l'art. 14 del dl n. 201/2011 conv. con modif.
in legge n. 214/2011 istitutivo della Tares.
Tali ulteriori progetti di riforma affermano peraltro in
modo congiunto l'esigenza di superare i preoccupanti profili
connessi al mantenimento degli attuali livelli
occupazionali.
Si deve infatti osservare che, a fronte dell'enunciazione
chiara del Comune quale «soggetto attivo dell'obbligazione
tributaria», molti Enti Locali avevano ipotizzato la
necessità –anche nei confronti di propri gestori dei
servizi– di riacquisire ogni funzione, con ogni conseguenza
in ordine alla sorte dei dipendenti dei gestori e di
riorganizzazione delle funzioni all'interno degli Enti
locali medesimi.
In tale direzione –e premesso che in ogni caso i gestori
hanno comunque titolo a poter continuare a gestire le
attività strumentali e propedeutiche alla riscossione della Tares– i nuovi progetti di riforma si preoccupano di
prevedere che i comuni possano affidare a detti soggetti
gestori, non solo le già indicate attività strumentali, ma
anche ogni funzione connessa alle fasi di gestione,
accertamento e riscossione della Tares, con ciò assicurando
i precedenti livelli occupazionali e garantendo una fase
meno traumatica nel passaggio al nuovo regime
(articolo ItaliaOggi del 07.12.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Torna
il potere sostitutivo di Palazzo Chigi sui vincoli.
NECESSARI TRE TENTATIVI/ Per superare l'obiezione della
Corte costituzionale previste tre riunioni (in 90 giorni)
tra Governo e enti territoriali per trovare l'intesa.
In attesa del debat public alla francese o della riforma
radicale delle procedure per l'autorizzazione delle opere
pubbliche sul territorio, a questo punto rinviate alla
prossima legislatura, il Governo prova ad aggiustare –nel
decreto legge sviluppo-bis approvato ieri dal Senato– la
conferenza di servizi modello legge 241 in caso di motivato
dissenso delle amministrazioni di tutela culturale e
paesaggistica. Viene ripristinato il potere sostitutivo del
Governo, cancellato da una recente sentenza della Consulta.
L'articolo 14-quater della legge 241/1990 (riformato dal
decreto legge 78/2010) dava infatti la possibilità al
Consiglio dei ministri (alla presenza del Governatore) di
superare il dissenso motivato dell'amministrazione di
tutela, dopo aver tentato un'intesa con la Regione
interessata: la norma era stata però dichiarata
incostituzionale dalla Consulta (sentenza 11.07.2012, n.
179) perché il termine di trenta giorni per fare l'intesa
Governo-Regione era stato considerato troppo stringente.
La sentenza aveva di fatto azzerato il potere sostitutivo
del Governo. Ora il maxiemendamento al decreto sviluppo
prova a restituire al Governo il potere sostitutivo per
superare il motivato dissenso regionale, allungando però a
un massimo di 90 giorni i tempi dell'intervento governativo.
La procedura diventa molto più complessa, con l'obbligo di
esperire almeno tre tentativi di accordo con la Regione
interessata.
Il primo step prevede che sia indetta dalla Presidenza del
Consiglio una riunione «entro trenta giorni dalla data di
remissione della questione alla delibera del Consiglio dei
ministri».
Alla riunione dovranno partecipare, oltre alla Regione o
alla Provincia autonoma, anche gli enti locali e le
amministarzioni interessate al progetto sotto esame, «attraverso
un unico rappresentante legittimato, dall'organo competente,
ad esprimere in modo vincolante la volontà
dell'amministrazione sulle decisioni di competenza».
A rendere questo passaggio innovativo e l'intera procedura
più graduale è anche il fatto che «i partecipanti debbono
formulare le specifiche indicazioni necessarie alla
individuazione di una soluzione condivisa, anche volta a
modificare il progetto originario».
Se l'intesa non è raggiunta dopo questa prima riunione,
entro trenta giorni, viene indetta sempre da Palazzo Chigi
una seconda riunione che abbia le stesse modalità della
prima, «per concordare interventi di mediazione,
valutando anche le soluzioni progettuali alternative a
quella originaria».
Se anche questa seconda riunione non arriva a una soluzione
entro trenta giorni, nei successivi trenta vengono avviate
nuove trattative, stavolta «finalizzate a risolvere e
comunque a individuare i punti di dissenso». Se anche in
questo caso l'intesa non è raggiunta, la deliberazione del
Consiglio dei ministri per l'esercizio del potere
sostitutivo «può essere comunque adotatta con la
partecipazione dei presidenti delle Regioni o delle Province
autonome interessate».
L'intervento sulla conferenza di servizi ha una sua
importanza, anche se va detto che il potere sostitutivo
della Presidenza del Consiglio è stato finora utilizzato in
casi molto rari. È tuttavia un tentativo per rimettere in
moto lo strumento. Ed è una delle poche norme significative
per le infrastrutture, dopo la cancellazione degli
interventi più importanti, come l'abbassamento della soglia
di accesso al credito di imposta in favore del project
financing e l'eliminazione per il settore dei lavori
pubblici della responsabiità solidale fra appaltatore e
subappaltatore per i mancati pagamenti di quest'ultimo
relativi all'Iva e alle trattenute dei dipendenti
(articolo Il
Sole 24 Ore del 07.12.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI SERVIZI: Affidamenti
diretti «liberi». Per le partecipate salta il limite di
200mila euro annui.
IL QUADRO/ Il correttivo cancella il tetto introdotto a
luglio anche per le strumentali Confermato il blocco ad
assunzioni e stipendi.
Con la cancellazione del limite dei
200mila euro all'in house che sarebbe scattato a inizio
2014, inserita nel maxiemendamento governativo al decreto
sviluppo-bis, gli affidamenti diretti di servizi pubblici a
rilevanza economica perdono l'ultimo vincolo destinato ad
avere un impatto generalizzato.
La novità, insomma, sembra segnare la parola fine alla
storia dei tentativi di liberalizzazione avviati nel 2008,
con la prima manovra della legislatura, e colpiti dai
referendum del 2011 e dalla sentenza 199/2012 della Corte
costituzionale.
L'addio al tetto di valore per gli affidamenti diretti (si
veda anche Il Sole 24 Ore di ieri), che era stato
reintrodotto a luglio nel decreto legge sulla revisione di
spesa con un occhio particolare alle società strumentali, si
spiega anche con il rischio-contenzioso che avrebbe
accompagnato la sua applicazione. Un limite identico era
contenuto nell'articolo 4 della manovra-bis del 2011 (Dl
138), cancellato per illegittimità dalla Corte
costituzionale. E, in vista del 2014 sarebbe stata
praticamente certa una nuova ondata di ricorsi alla Consulta
da parte delle Regioni.
Con il via libera alla conversione in legge del decreto,
comunque, tirano un sospiro di sollievo molti dei titolari
attuali di affidamenti diretti (tra le strumentali, per
esempio, società come Lazio Service), che sarebbero dovuti
decadere a fine 2014, e cade l'ultimo limite «made in
Italy» all'in house: la disciplina di riferimento rimane
in pratica solo quella europea, che consente l'affidamento
diretto a società interamente pubbliche che siano
controllate dall'ente affidante e con lui svolgano la parte
rilevante della propria attività.
Un ricordo pallido dell'ondata liberalizzatrice rivive in
realtà in un altro correttivo contenuto nel maxiemendamento,
che impone di dare conto, in una relazione, delle ragioni
alla base della scelta dell'affidamento e dei contenuti del
contratto di servizio. La relazione, però, va semplicemente
pubblicata sul sito istituzionale dell'ente e non è
sottoposta a pareri dell'Antitrust che sarebbero stati
giudicati incostituzionali in seguito alla sentenza
post-referendum della Consulta. Non sono fissate sanzioni
per la mancata pubblicazione della relazione: la decadenza
automatica è prevista al 31.12.2013 solo in caso di mancato
adeguamento degli affidamenti non conformi alla disciplina
Ue (per esempio: affidamento diretto a una società mista) o
privi di data di scadenza.
Tutto questo pacchetto di regole esclude espressamente
energia elettrica, farmacie comunali e gas naturale. A
complicare la gestione c'è invece il trasferimento di tutti
i compiti di scelta della forma di gestione dei servizi,
tariffe e controlli agli ambiti territoriali ottimali
previsti dal 2011 ma non ancora costituiti ovunque. Una
regola, questa, che sottrae ai Comuni ogni compito diretto
nell'organizzazione dei servizi pubblici.
Per gli affidamenti diretti alle società quotate, viene
ribadita la decadenza a fine 2020 degli affidamenti diretti
che non prevedono scadenza (lo prevedeva già il decreto
originario) e si precisa che rientrano nella disciplina
delle quotate tutte «le società emittenti strumenti
finanziari quotati in mercati regolamentati». Queste
regole, quindi, oltre alle aziende presenti nel listino di
Borsa, dovrebbero estendersi anche alle società che emettono
obbligazioni.
La precisazione è importante anche per definire i confini
dell'estensione alle società partecipate delle regole di
contenimento di spesa pubblica imposte agli enti locali
controllanti. Il tema più spinoso, da questo punto di vista,
è rappresentato dai blocchi alle assunzioni e dai tetti agli
stipendi individuali, ribaditi nel caso delle società
strumentali anche dal decreto legge sulla revisione di
spesa. Il problema è legato al fatto che nelle aziende il
personale è assunto con contratti di diritto privato, il cui
congelamento per legge rischia di scatenare un contenzioso
ad ampio raggio.
Proprio per questa ragione, in commissione era stato
approvato un correttivo che chiedeva alle società di ridurre
le spese di personale, rispettando anche il limite del 40%
al turn over, senza bloccare gli stipendi individuali, ma il
«non possumus» della Ragioneria lo ha escluso dal
testo governativo
(articolo Il
Sole 24 Ore del 07.12.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI: Appalti,
resta la responsabilità solidale.
Nessun alleggerimento per le aziende - Le reti di imprese
potranno partecipare ai bandi
QUALIFICAZIONE/
I requisiti di fatturato per lavori oltre 20 milioni
potranno essere dimostrati pescando tra i cinque migliori
esercizi degli ultimi dieci anni.
Il mondo dell'edilizia deve dire addio ad alcune delle
misure più attese. Il decreto sviluppo non porterà in dote
l'abbassamento della soglia minima per l'ammissibilità del
credito di imposta per le opere in project financing (che
resta a 500 milioni) e non potrà neanche essere applicato
alle opere già aggiudicate. Salta anche la norma più utile
per le piccole e medie imprese dei lavori pubblici: non
viene più escluso il settore degli appalti dalla
responsabilità solidale tra appaltatore e subappaltatori
quando questi ultimi non pagano l'Iva o i contributi dei
lavoratori all'Inps e all'Inail. Scompare, infine, la
possibilità per le imprese di autoprodurre il certificato di
regolarità contributiva (Durc) in alcuni passaggi chiave del
contratto.
L'edilizia incassa però alcune novità minori, annunciate da
tempo dal Governo come capitoli delle semplificazioni: per
esempio, l'ammissione delle reti di impresa al mercato degli
appalti. Oppure l'istituzione dell'anagrafe unica delle
stazioni appaltanti.
La prima norma era stata inserita, appunto, nel Ddl
Semplificazioni bis appena sbarcato in Parlamento e ora
recuperata nel maxiemendamento presentato dal Governo.
La seconda è una novità dell'ultimora. Prevede l'istituzione
di un'anagrafe delle oltre 38mila stazioni appaltanti
italiane presso l'Autorità di vigilanza sui contratti
pubblici. Gli enti avranno l'obbligo di richiedere
l'iscrizione presso la banca dati degli appalti che
l'Autorità dovrà istituire entro il 01.01.2013, pena
«la nullità degli atti adottati e la responsabilità
amministrativa e contabile dei funzionari responsabili». Le
modalità di iscrizione e di funzionamento dell'anagrafe
saranno stabilite con una delibera della stessa autorità.
Le novità in materia di appalti non finiscono qui. Passa
anche la norma che permette alle imprese qualificate a
eseguire i lavori di maggiore dimensione (oltre 20 milioni)
di dimostrare i requisiti di fatturato pescando tra i cinque
migliori esercizi degli ultimi 10 anni.
Poi ci sono due norme anticrisi: la proroga a tutto il 2013
delle agevolazioni per la verifica triennale dei requisiti
da parte delle Soa e l'aumento dal 75 all'80% della quota di
cauzione svincolabile in corso di appalto. Per contro, a
partire dal 01.01.2013 saranno le imprese a doversi
accollare le spese di pubblicazione dei bandi di gara e
degli avvisi di aggiudicazione sui quotidiani.
A rimborsare la Pa dei costi sostenuti dovrà essere
l'aggiudicatario del contratto.
Infine, in materia di conferenza di servizi, nasce il
contraddittorio lungo in caso di dissenso di una Regione o
di una Provincia autonoma.
Se l'amministrazione locale dovesse mostrare la propria
opposizione al progetto, il Governo programmerà una serie di
tre incontri a distanza di 30 giorni l'uno dall'altro. E
solo all'esito negativo di questi potrà procedere aggirando
il veto
(articolo Il Sole 24 Ore del
06.12.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA: L’impianto
di ascensore –al pari di quelli serventi alle condotte
idriche, termiche etc. dell’edificio principale– rientra fra
i volumi tecnici o impianti tecnologici strumentali alle
esigenze tecnico-funzionali dell’immobile.
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Circa la costruzione di un vano ascensore esterno al corpo
di fabbrica, non può il Comune denegare il rilascio del
permesso di costruire per il mancato rispetto delle distanze
di cui all’art. 873 cod. cov., applicandosi in ogni caso
l’ulteriore deroga di cui all’ultima parte del comma 2
dell’art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001.
Innanzi tutto, il Collegio reputa fondato il primo motivo
di appello nella parte in cui si sostiene l’estraneità
dell’ascensore oggetto della richiesta di permesso di
costruire alla nozione di “costruzione” di cui
all’art. 873 cod. civ., e quindi l’inapplicabilità ad esso
delle disposizioni in tema di distanze dallo stesso poste.
Ed invero, alla stregua della giurisprudenza più recente
l’impianto di ascensore –al pari di quelli serventi alle
condotte idriche, termiche etc. dell’edificio principale–
rientra fra i volumi tecnici o impianti tecnologici
strumentali alle esigenze tecnico-funzionali dell’immobile
(cfr. Cass. civ., sez. II, 03.02.2011, nr. 2566).
Ma, anche al di là di quanto sopra, appare condivisibile
l’impostazione sviluppata nel secondo mezzo, secondo
cui, nell’interpretazione dell’eccezione alla regola del
rispetto delle distanze posta dall’ultima parte del comma 2
dell’art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001, non può prescindersi
dal tener conto dell’inserimento della norma –come già
rilevato- all’interno della disciplina volta
all’eliminazione delle barriere architettoniche
nell’interesse dei soggetti portatori di handicap.
Ciò rileva non solo e non tanto ai fini di un astratto
bilanciamento di interessi, come quello cui ha proceduto il
primo giudice (e al quale gli odierni appellanti,
soprattutto col terzo mezzo, contrappongono un opposto
bilanciamento), quanto soprattutto nell’accezione da dare a
locuzioni ed espressioni tecniche impiegate dal legislatore,
quali quella di “spazio o area di proprietà o di uso
comune”, le quali non possono essere recepite in
un’ottica strettamente civilistica, ma vanno calate
nell’ambito della normativa tecnica esistente in subiecta
materia.
Sotto tale profilo, soccorre il d.m. 14.06.1989, nr. 236,
contenente la normativa regolamentare a suo tempo adottata
in attuazione della legge 09.01.1989, nr. 13, e che ancora
oggi costituisce il riferimento dell’art. 79, d.P.R. nr. 380
del 2001 (nel quale la predetta legge è confluita).
L’art. 2 del citato decreto contiene una serie di
definizioni tecniche utili all’applicazione della normativa
de qua e, in particolare, qualifica come “spazio esterno
(...) l’insieme degli spazi aperti, anche se coperti, di
pertinenza dell’edificio o di più edifici” (lett. F) e
come “parti comuni dell’edificio (...) quelle unità
ambientali che servono o che connettono funzionalmente più
unità immobiliari” (lett. E).
Applicando tali coordinate interpretative all’ultima parte
del comma 2 dell’art. 79, risulta chiaro come il
legislatore, nel far riferimento a spazi o aree “di
proprietà o di uso comune”, ha inteso richiamare non
soltanto il dato giuridico dell’esistenza di una
comproprietà o di una servitù di uso comune, ma anche il
semplice dato materiale dell’esistenza di uno spazio
comunque denominato, che per le sue caratteristiche si
presti a essere impiegato dai residenti di entrambi gli
immobili confinanti; ed è appena il caso di aggiungere che
la definizione della lettera E non presuppone affatto che le
“unità immobiliari” cui essa fa riferimento debbano
necessariamente essere parte di un medesimo edificio (ché,
anzi, dal combinato disposto di detta definizione con quella
di cui alla successiva lettera F si ricava che uno spazio
esterno comune può certamente interessare anche “più
edifici”).
Con riguardo al caso di specie, se è vero che il cortile
esistente fra i due immobili e nel quale dovrebbe insistere
l’ascensore per cui è causa non risulta essere in
comproprietà fra i due condomini, non risulta però
contraddetto l’assunto degli appellanti secondo cui esso
risulta de facto utilizzato materialmente e per la sua
interezza dai residenti di entrambi gli immobili; per vero,
il TAR si è limitato a rilevare l’esistenza di un confine
catastale che dividerebbe a metà il cortile medesimo, senza
però che questo risulti tagliato da muro o recinzioni (unico
elemento che sarebbe idoneo a escluderne l’ “uso comune”
nel senso sopra precisato).
Ne discende che non poteva il Comune denegare il rilascio
del permesso di costruire per il mancato rispetto delle
distanze di cui all’art. 873 cod. cov., applicandosi in ogni
caso l’ulteriore deroga di cui all’ultima parte del comma 2
dell’art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.12.2012 n. 6253 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Diritto di accesso, legittimo il diniego se non
sussiste l’attualità dell’interesse.
Con la
sentenza 03.12.2012 n. 6162 la IV
Sez. del Consiglio
di Stato ha respinto l’appello proposto dal ricorrente, un
maggiore dell’Aeronautica, per la riforma della sentenza
pronunciata dal TAR Lazio in quanto non aveva riconosciuto
il suo diritto ad accedere alla documentazione, relativa ad
una procedura di avanzamento risalente al 1993 alla quale
egli (allora Sottotenente) aveva partecipato. L’appello è
stato ritenuto infondato confermando l’inattualità
dell’interesse ad accedere rilevata dal giudice di merito.
In particolare, nell’occasione i giudici di Palazzo Spada,
sulla scorta delle affermazioni rese da Adunanza Plenaria,
18.04.2006, ribadiscono che il diritto di accesso si
presenta, come «posizione strumentale riconosciuta ad un
soggetto che sia già titolare di una diversa situazione
giuridicamente tutelata, (diritto soggettivo o interesse
legittimo, e, nei casi ammessi, esponenzialità di interessi
collettivi o diffusi) e che abbia, in collegamento a
quest’ultima, un interesse diretto, concreto ed attuale ad
acquisire mediante accesso uno o più documenti
amministrativi». La strumentalità del diritto di accesso
nega, a tutta evidenza, la sostenibilità di una pur
sostenuta autonomia della posizione, laddove l’inerenza del
documento alla posizione giuridica sostanziale preesistente
fonda l’interesse concreto e differenziato della parte che
richiede i documenti.
Ebbene, nel caso di specie, i documenti per i quali è stato
negato l’accesso (oggetto di istanza, del dicembre 2011)
sono relativi ad un procedimento del 1993, dunque –ad
avviso del collegio- estremamente risalenti nel tempo. A
fronte di tale elemento obiettivo, l’attualizzazione
dell’interesse (collegato ad una odierna esigenza di tutela
in giudizio di posizioni giuridiche sostanziali) appare,
nell’istanza proposta, estremamente generico, in modo, cioè,
da non evidenziare fondati profili di attualità (commento
tratto da www.diritto.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive è sufficientemente motivata con riferimento
all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla
sicura assoggettabilità di queste al regime concessorio non
essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo
motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di
interesse.
In materia urbanistica, il presupposto per l'adozione
dell'ordine di demolizione di opere edilizie abusive è
soltanto la constatata esecuzione dell'opera in totale
difformità della concessione o in assenza della medesima,
con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i
predetti requisiti, è atto dovuto ed è sufficientemente
motivato con l'affermazione dell'accertata abusività
dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua
rimozione. Di conseguenza, l'ordinanza di demolizione -in
quanto atto vincolato- non richiede, in alcun caso, una
specifica motivazione su puntuali ragioni di interesse
pubblico o sulla comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti o sacrificati.
Non può ravvisarsi il lamentato difetto di motivazione in
ordine all'interesse pubblico alla rimozione, in
considerazione del fatto che, in presenza di immobile
abusivo, la demolizione è atto dovuto che non necessita di
particolari argomentazioni.
L'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e,
quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni
di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione. Non può ammettersi
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva che il tempo non può avere
legittimato.
L'ingiunzione a demolire opere edilizie abusive non deve
essere preceduta dal parere della Commissione edilizia
comunale, da previe comunicazioni di avvio del procedimento
nonché da motivazioni ulteriori rispetto al mero riferimento
all'accertata abusività dell'opera, meno che mai affermativa
della sussistenza dell'interesse pubblico attuale (alla
rimozione dell'abuso), dato che quest'ultimo è in re ipsa.
La doglianza poi sulla assente esternazione
dell’interesse pubblico non rileva (secondo mezzo), posto
che L'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è
sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo
riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura
assoggettabilità di queste al regime concessorio non essendo
necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo
motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di
interesse pubblico: TAR Campania Napoli, sez. IV, 08.07.2008, n. 7798)
In argomento, il Tribunale rileva come la motivazione sia
esaustiva con il rimando alla analitica descrizione
dell’intervento e con il congruo riferimento alla normativa
di settore. Come afferma la giurisprudenza, "In materia
urbanistica, il presupposto per l'adozione dell'ordine di
demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la
constatata esecuzione dell'opera in totale difformità della
concessione o in assenza della medesima, con la conseguenza
che tale provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti,
è atto dovuto ed è sufficientemente motivato con
l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione. Di
conseguenza, l'ordinanza di demolizione -in quanto atto
vincolato- non richiede, in alcun caso, una specifica
motivazione su puntuali ragioni di interesse pubblico o
sulla comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti o sacrificati": TAR Campania Napoli, sez. VIII,
15.05.2008, n. 4556. "Non può ravvisarsi il lamentato
difetto di motivazione in ordine all'interesse pubblico alla
rimozione, in considerazione del fatto che, in presenza di
immobile abusivo, la demolizione è atto dovuto che non
necessita di particolari argomentazioni": TAR Campania
Napoli, sez. VI, 19.06.2008, n. 6016.
Pari sorte spetta alla doglianza relativa alla mancata
ponderazione fra l’interesse pubblico e quello privato,
rispetto alla demolizione. Come statuisce la giurisprudenza,
"L'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e,
quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni
di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione. Non può ammettersi
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva che il tempo non può avere
legittimato": Consiglio Stato, sez. IV, 31.08.2010, n.
3955.
Non occorreva, infine, il parere della CEC (IV° motivo), in
presenza di valutazioni strettamente conformate a parametri
giuridici: "L'ingiunzione a demolire opere edilizie abusive
non deve essere preceduta dal parere della Commissione
edilizia comunale, da previe comunicazioni di avvio del
procedimento nonché da motivazioni ulteriori rispetto al
mero riferimento all'accertata abusività dell'opera, meno
che mai affermativa della sussistenza dell'interesse
pubblico attuale (alla rimozione dell'abuso), dato che
quest'ultimo è in re ipsa (Cfr. TAR Napoli, IV Sez., 25.05.2001 n. 2339, TAR Marche 20.04.2001 n. 553 e
TAR Basilicata 17.07.2002 n. 518)”: Tar Basilicata-Potenza nr.
103 - 20 febbraio 2004)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 29.11.2012 n. 4868 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il Rup e' il "motore" della procedura selettiva.
Rientra tra i poteri del Rup la verifica dell’anomalia delle
offerte anche nell’ambito di una procedura da aggiudicare
con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Questo il principio pronunciato dall’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato,
sentenza
29.11.2012 n. 36,
chiamata ad individuare il soggetto competente a procedere,
nell’ambito di una gara di appalto, alla verifica di
congruità delle offerte sospettate di anomalia.
Nel caso in esame, relativo ad una procedura aperta da
aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa per l’affidamento dei lavori di ristrutturazione
e ampliamento di un edificio ospedaliero, il soggetto primo
classificato aveva impugnato la sua esclusione, avvenuta a
seguito del procedimento di verifica dell’anomalia
dell’offerta diretta personalmente dal RUP.
Giunta la questione in appello, la sezione VI del Consiglio
di Stato (ordinanza 12.10.2012, n. 5270) rimetteva
all’esame dell’Adunanza Plenaria la questione relativa
all’individuazione del soggetto competente a procedere alla
verifica delle offerte sospettate di anomalia.
Sul punto è stato rilevato infatti un contrasto
giurisprudenziale.
Secondo una parte della giurisprudenza la commissione
giudicatrice costituita ai sensi dell’art. 84 del D.Lgs.
163/2006, nell’ambito delle gare da aggiudicare con il
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ha la
competenza esclusiva in merito ad ogni attività avente
carattere valutativo. “Da tale arresto discende, nelle
decisioni che hanno esaminato specificamente la questione
della competenza all’effettuazione della verifica,
l’affermazione dell’illegittimità di una verifica che non
coinvolga la commissione in modo concreto e sostanziale,
venendo essa esclusa del tutto ovvero chiamata semplicemente
a prendere atto delle conclusioni raggiunte dalla stazione
appaltante o dal R.U.P.” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 10.09.2012, n. 4772; Cons. Stato, sez. III, 15.07.2011, n. 4332; Cons. Stato, sez. VI, 15.07.2010, n.
4584).
Giurisprudenza più recente prevede invece che spetti al Rup
il potere di decidere se affidare la valutazione all’organo
collegiale o provvedere personalmente alla verifica
dell’anomalia (cons. Stato, sez. III, 16.03.2012, n.
1467).
L’Adunanza Plenaria rileva con la sentenza in esame che
anche in un periodo precedente all’entrata in vigore
dell’art. 121 del Dpr 207/2010, l’art. 88 del D.Lgs.,
163/2006 (Codice dei contratti) così come modificato dal
d.l. 01.07.2009, n. 78 (convertito con modificazioni
nella legge 03.08.2009, n. 102) prevedeva in capo al Rup
il potere di convocare la commissione o procedere
autonomamente alla verifica dell’anomalia dell’offerta, sia
in merito alle procedure da aggiudicare al prezzo più basso,
sia per quelle basate sull’offerta economicamente più
vantaggiosa.
In conclusione, il Rup assume anche in questa circostanza un
ruolo centrale. Egli infatti decide se convocare la
commissione o agire personalmente alla verifica
dell’anomalia dell’offerta, essendo egli stesso, per volere
del legislatore un soggetto caratterizzato da particolari
competenze tecniche, idoneo quindi ad effettuare delle
valutazioni ed assumere delle decisioni anche in questa
fase, assumendo il ruolo di vero e proprio “motore”
della procedura selettiva (commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Nelle zone soggette a
vincoli di cui al D.Lgs. n. 42/2004 ogni intervento non
rientrante tra quelli di cui all'art. 149 deve essere
preceduto da specifica autorizzazione paesaggistica e, in
assenza di quest'ultima, le opere senza titolo debbono
essere ridotte in pristino ai sensi dell'art. 167 dello
stesso decreto legislativo.
--------------
In caso di
ordine di demolizione non è richiesta una specifica
motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di
interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, in quanto il presupposto per l'adozione
dell'ordine de quo è costituito esclusivamente dalla
constatata esecuzione dell'opera in difformità dal titolo
abilitativo o in sua assenza, con la conseguenza che il
provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è
sufficientemente motivato con la descrizione delle opere
abusive e il richiamo alla loro accertata abusività.
In materia di demolizione di immobili abusivi, attesa la
natura vincolata del potere, non è configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in
via di fatto e, dunque, anche sotto tale profilo deve essere
disattesa la censura con la quale il ricorrente lamenta il
difetto di istruttoria in relazione all’esatta epoca di
realizzazione del manufatto.
Com'è noto nelle zone soggette a vincoli
di cui al D.Lgs. n. 42/2004 ogni intervento non rientrante
tra quelli di cui all'art. 149 deve essere preceduto da
specifica autorizzazione paesaggistica e, in assenza di
quest'ultima, le opere senza titolo debbono essere ridotte
in pristino ai sensi dell'art. 167 dello stesso decreto
legislativo.
Allo stesso modo l'art. 27 del D.P.R. n. 380/2001
prevede che "il dirigente o il responsabile, quando accerti
l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su
aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre
norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici
ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di
cui alla legge 18.04.1962, n. 167, e successive
modificazioni ed integrazioni, nonché in tutti i casi di
difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni
degli strumenti urbanistici, provvede alla demolizione e al
ripristino dello stato dei luoghi".
Nel caso di specie è incontestata la presenza di
vincoli paesaggistici sull'area in questione così come
l'insussistenza di un titolo per le opere realizzate e,
pertanto, correttamente ne è stata ordinata demolizione con
riduzione in pristino dello stato dei luoghi, ai sensi
dell’art. 27 del DPR n. 380/2001 e dell’art. 167 del D.lgs.
n. 4272004.
Secondo il consolidato orientamento della
giurisprudenza, peraltro, in caso di ordine di demolizione
non è richiesta una specifica motivazione che dia conto
della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla
demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto il
presupposto per l'adozione dell'ordine de quo è costituito
esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in
difformità dal titolo abilitativo o in sua assenza, con la
conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti
requisiti, è sufficientemente motivato con la descrizione
delle opere abusive e il richiamo alla loro accertata
abusività (cfr. TAR Puglia, Lecce, III, 04.02.2012, n. 227;
TAR Campania, Napoli, VIII, 09.02.2012, n. 693).
Deve, infine, osservarsi che in materia di demolizione
di immobili abusivi, attesa la natura vincolata del potere,
non è configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente, che
il tempo non può legittimare in via di fatto e, dunque,
anche sotto tale profilo deve essere disattesa la censura
con la quale il ricorrente lamenta il difetto di istruttoria
in relazione all’esatta epoca di realizzazione del manufatto
(cfr. Consiglio di Stato, IV, 16.04.2012, n. 2185)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza
26.11.2012 n. 4797 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La giurisprudenza ha
riportato la nozione di interventi di ripristino di edifici
diruti ad organismi edilizi dotati di sole mura perimetrali
e privi di copertura e non totalmente da ricostruire e ha
condivisibilmente negato che essi possano essere
classificati come restauro e risanamento conservativo.
A maggiore ragione si deve ritenere che, ove manchino del
tutto le mura perimetrali come è nel caso di specie laddove
rimangono solo delle impronte minimali sul terreno, la
ricostruzione non possa rientrare nel novero degli
interventi di restauro e risanamento conservativo.
Ne discende che la riconduzione dell’intervento richiesto
va, pertanto, effettuata ai sensi del citato art. 3 del
D.P.R. n. 380/2001, ove la scelta tra le possibili opzioni è
tra la nuova costruzione o la ristrutturazione edilizia e la
sussumibilità nell’una o nell’altra categoria dipende anche
dalla circostanza che la ricostruzione avvenga con la stessa
volumetria e sagoma della preesistenza oltreché dalla
ragionevole prossimità temporale della ricostruzione
rispetto alla demolizione.
Peraltro, ai fini della qualificazione di un intervento
ricostruttivo anche come ristrutturazione e non nuova
edificazione, non è sufficiente che un anteriore fabbricato
sia fisicamente individuabile in tutta la sua perimetrazione,
essendo indispensabile a soddisfare il requisito della sua
esistenza che non sia ridotto a spezzoni isolati, rovine,
ruderi e macerie.
Il Collegio rileva che l’intervento
richiesto ha ad oggetto il “restauro etico” di preesistenti
locali posti al piano terra del Castello Lauritano, crollati
molti anni fa, come dimostrato dalla documentazione
fotografica allegata, e dei quali residuano solo delle
tracce sul terreno.
Detti interventi non possono, pertanto, rientrare
nell'ambito della categoria "del consolidamento statico e
del restauro e risanamento conservativo" che, secondo la
definizione dell’art. 3, lettera c), del D.P.R. n. 380/2001,
sono quegli interventi edilizi rivolti a conservare
l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità
mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto
degli elementi tipologici, formali e strutturali
dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni d'uso con
essi compatibili. Tali interventi comprendono il
consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi
costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi
accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze
dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei
all'organismo edilizio.
E, infatti, la giurisprudenza, anche di questo TAR,
rammentata dall’Amministrazione resistente, ha riportato la
nozione di interventi di ripristino di edifici diruti ad
organismi edilizi dotati di sole mura perimetrali e privi di
copertura e non totalmente da ricostruire (cfr. TAR
Campania, Napoli, IV, 14.12.2006 n. 10553) e ha
condivisibilmente negato che essi possano essere
classificati come restauro e risanamento conservativo (cfr.
TAR Campania, Napoli, IV, 23.12.2010, n. 28002; TAR
Campania, Napoli, VIII, 04.03.2010, n. 1286; TAR Campania,
Napoli, VI, 09.11.2009 n. 7049; TAR Lazio, Latina, 15.07.2009,
n. 700).
A maggiore ragione si deve ritenere che, ove manchino
del tutto le mura perimetrali come è nel caso di specie
laddove rimangono solo delle impronte minimali sul terreno,
la ricostruzione non possa rientrare nel novero degli
interventi di restauro e risanamento conservativo.
Ne discende che la riconduzione dell’intervento
richiesto va, pertanto, effettuata ai sensi del citato art.
3 del D.P.R. n. 380/2001, ove la scelta tra le possibili
opzioni è tra la nuova costruzione o la ristrutturazione
edilizia e la sussumibilità nell’una o nell’altra categoria
dipende anche dalla circostanza che la ricostruzione avvenga
con la stessa volumetria e sagoma della preesistenza
oltreché dalla ragionevole prossimità temporale della
ricostruzione rispetto alla demolizione.
Peraltro, ai fini della qualificazione di un intervento
ricostruttivo anche come ristrutturazione e non nuova
edificazione, non è sufficiente che un anteriore fabbricato
sia fisicamente individuabile in tutta la sua perimetrazione,
essendo indispensabile a soddisfare il requisito della sua
esistenza che non sia ridotto a spezzoni isolati, rovine,
ruderi e macerie (cfr. Cassazione civile, sez. II,
27.10.2009, n. 22688; TAR Campania, Napoli,IV, 15.6.2011 n.
3184).
Alla stregua di tali considerazioni discende che
correttamente l’Amministrazione comunale ha qualificato
l’intervento sul piano urbanistico come “nuova costruzione
piuttosto che ristrutturazione edilizia”, giacché all’esito
di una rigorosa verifica sulla consistenza emergente
dall’elemento fotografico, dal quale risulta la presenza di
tracce di murature sul sedime che risalirebbero agli inizi
del secolo scorso, la soluzione progettuale proposta non può
qualificarsi come restauro del preesistente, presentando,
peraltro, profili di notevole incertezza anche
sull’effettiva consistenza delle ulteriori integrazioni
aggiunte/aggiunte che si intendono effettuare, cospicue in
termini di superfici e volumetria
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza
26.11.2012 n. 4795 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
In presenza di un abuso edilizio, la vigente
normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo
all’autorità comunale, prima di emanare l’ordinanza di
demolizione, di verificare la sanabilità ai sensi dell’art.
37 del d.P.R. n. 380 del 2001. Ciò si evince chiaramente
dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal
caso, obbligano il responsabile del competente ufficio
comunale a reprimere l’abuso, senza alcuna valutazione di
sanabilità, nonché dagli artt. 36 e 37 del d.P.R. n. 380 del
2001, che rimette all’esclusiva iniziativa della parte
interessata l’attivazione del procedimento di accertamento
di conformità urbanistica ivi disciplinato.
---------------
Il provvedimento di demolizione, in quanto atto vincolato
-al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia- non richiede una specifica motivazione, posto che
ai fini dell’accertamento della sua legittimità sono
indifferenti le ragioni in virtù delle quali
l’amministrazione è giunta alle determinazioni finali, in
quanto ciò che rileva e che può essere verificato senza
preclusioni è se tali determinazioni, in presenza dei
necessari presupposti, siano conformi o meno alle norme
applicate; né una valutazione delle ragioni di interesse
pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati.
L’ordinanza in questione costituisce un provvedimento dovuto
e rigorosamente vincolato in quanto volto a sanzionare opere
costruite in zona vincolata senza il prescritto titolo
edilizio, con riferimento al quale non sono richiesti
apporti partecipativi del destinatario.
In primo luogo, deve essere respinta la censura,
con la quale il ricorrente sostiene che l’amministrazione
avrebbe violato l’art. 37 del d.P.R. 380/2001, giacché,
prima di ingiungere la demolizione, avrebbe dovuto valutare
la sanabilità dell’opera, e eventualmente irrogare una
sanzione meramente pecuniaria.
Infatti, in presenza di un abuso edilizio, la vigente
normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo
all’autorità comunale, prima di emanare l’ordinanza di
demolizione, di verificare la sanabilità ai sensi dell’art.
37 del d.P.R. n. 380 del 2001. Ciò si evince chiaramente
dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal
caso, obbligano il responsabile del competente ufficio
comunale a reprimere l’abuso, senza alcuna valutazione di
sanabilità, nonché dagli artt. 36 e 37 del d.P.R. n. 380 del
2001, che rimette all’esclusiva iniziativa della parte
interessata l’attivazione del procedimento di accertamento
di conformità urbanistica ivi disciplinato (TAR
Campania, Napoli, sez. IV, 06.07.2007 n. 6552).
---------------
Né può essere accolta la
censura di difetto di motivazione, atteso che il
provvedimento di demolizione, in quanto atto vincolato -al
pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia- non richiede una specifica motivazione, posto che
ai fini dell’accertamento della sua legittimità sono
indifferenti le ragioni in virtù delle quali
l’amministrazione è giunta alle determinazioni finali, in
quanto ciò che rileva e che può essere verificato senza
preclusioni è se tali determinazioni, in presenza dei
necessari presupposti, siano conformi o meno alle norme
applicate; né una valutazione delle ragioni di interesse
pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati (ex multis Cons.
Stato, sez. II, 07.11.2007; TAR Campania Napoli,
sez. VIII, 29.01.2009, n. 501).
Non merita positiva delibazione la seconda doglianza, con la
quale viene sollevata l’illegittimità del provvedimento per
la mancata comunicazione di avvio del procedimento ai sensi
dell’art. 7 della legge 241/1990 e per l’asserita violazione
delle altre garanzie procedimentali, giacché l’ordinanza in
questione costituisce un provvedimento dovuto e
rigorosamente vincolato in quanto volto a sanzionare opere
costruite in zona vincolata senza il prescritto titolo
edilizio, con riferimento al quale non sono richiesti
apporti partecipativi del destinatario, tanto più che
l’interessato non ha rappresentato neppure in sede di
ricorso, argomentazioni idonee a determinare un diverso
esito del procedimento (si veda, tra le molte, TAR Liguria,
Genova, sez. I, 08.06.2009 n. 11289)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza
22.11.2012 n. 4736 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il proprietario di un
terreno confinante con un'area oggetto di interventi edilizi
ha il diritto di accedere ai relativi provvedimenti
abilitativi, sia ai sensi dell'art. 25 l. 07.08.1990 n. 241,
sia ai sensi dell'art. 31 l. 17.08.1942 n. 1150, come
modificato dall'art. 10 l. 06.08.1967 n. 765, che, proprio
tutelando l'interesse del terzo, prevede la possibilità per
“chiunque” di prendere visione presso gli uffici comunali
della concessione edilizia (all’epoca costituente il titolo
edilizio abilitativo) e dei relativi atti di progetto e di
ricorrere contro il rilascio della stessa ove in contrasto
con le disposizioni di legge o dei regolamenti o con le
prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani
particolareggiati di esecuzione.
Venendo al merito, come sostenuto in
ricorso, costituisce giurisprudenza pacifica quella secondo
cui il proprietario di un terreno confinante con un'area
oggetto di interventi edilizi ha il diritto di accedere ai
relativi provvedimenti abilitativi, sia ai sensi dell'art.
25 l. 07.08.1990 n. 241, sia ai sensi dell'art. 31 l. 17.08.1942 n. 1150, come modificato dall'art. 10 l.
06.08.1967 n. 765, che, proprio tutelando l'interesse del
terzo, prevede la possibilità per “chiunque” di prendere
visione presso gli uffici comunali della concessione
edilizia (all’epoca costituente il titolo edilizio
abilitativo) e dei relativi atti di progetto e di ricorrere
contro il rilascio della stessa ove in contrasto con le
disposizioni di legge o dei regolamenti o con le
prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani
particolareggiati di esecuzione (cfr., ex multis, in
tali sensi sostanziali, Cons. Stato, sezione quinta,
sentenze 27.04.2012, n. 2460, 26.02.2010, n. 1134,
14.05.2010, n. 2966 e 07.09.2004, n. 5873; sezione quarta,
21.11.2006, n. 6790; Tar Campania, Napoli, questa sesta
sezione, sentenze n. 2290 del 18.05.2012, 02.02.2012, n.
526, n. 16722 del 14.07.2010, n. 16700 del 27.07.2010;
sezione quinta, 05.09.2008, n. 10048; Tar Puglia, Lecce,
sezione terza, 25.03.2004, n. 2161; Tar Lazio, Latina,
11.12.2007, n. 1567)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza
20.11.2012 n. 4666 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Presupposto per
l’emanazione della ordinanza di demolizione di opere
edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di
queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo
abilitativo, con la conseguenza che, essendo la ordinanza
atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con
l’accertamento dell’abuso, e non necessita di una
particolare motivazione in ordine all’interesse pubblico
alla rimozione dell’abuso –che è in re ipsa, consistendo nel
ripristino dell’assetto urbanistico violato– ed alla
possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
Osserva il Collegio che presupposto per
l’emanazione della ordinanza di demolizione di opere
edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di
queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo
abilitativo, con la conseguenza che, essendo la ordinanza
atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con
l’accertamento dell’abuso, e non necessita di una
particolare motivazione in ordine all’interesse pubblico
alla rimozione dell’abuso –che è in re ipsa, consistendo
nel ripristino dell’assetto urbanistico violato– ed alla
possibilità di adottare provvedimenti alternativi (ex multis,
TAR Campania, Napoli, sez. IV, 04.02.2003, n. 617;
15.07.2003, n. 8246) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza
20.11.2012 n. 4659 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Irrilevante nell'appalto l'offerta con il "vantaggio" del
regime IVA esente.
Il maggior vantaggio che deriva dal fatto che una società
opera in regime di esenzione IVA negli appalti pubblici non
rappresenta una posizione di privilegio nella gara
aggiudicata con il criterio della miglior offerta economica.
E' quanto affermato dal TAR Liguria, Sez. II, con la
sentenza 15.11.2012 n. 1451.
La vicenda
Il contenzioso amministrativo nasce a seguito del fatto che
una provincia ligure aveva avviato una procedura negoziata
per l’affidamento dell’incarico di responsabile degli
impianti elettrici del patrimonio dell’Ente.
L’aggiudicazione della procedura sarebbe avvenuta secondo il
criterio dell’offerta al prezzo più basso; in caso di parità
delle offerte, la gara sarebbe stata aggiudicata al
concorrente che aveva proposto “il minor ribasso relativo
alla quota afferente l’onorario al netto delle spese” e, nel
caso di ulteriore parità, si sarebbe proceduto all’esame dei
curricula comparando le attività indicate svolte negli
ultimi 5 anni, connesse all’oggetto dell’incarico.
Dopo l’esame delle offerte emergeva che due concorrenti
avevano proposto l’identico importo; si procedeva, quindi,
alla valutazione comparativa dei curricula dei due soggetti
ed il servizio veniva conclusivamente affidato ad uno dei
due concorrente il cui curriculum, era stato giudicato
“incomparabilmente migliore” di quello del ricorrente.
Il concorrente secondo classificato si era rivolto al TAR
della Liguria per chiedere l’annullamento degli atti
conclusivi della procedura concorrenziale; il ricorrente
sosteneva che la commissione non aveva tenuto in
considerazione il fatto che il ricorrente beneficiava
dell’esenzione dall’Iva, mentre il “vincitore” della
procedura applicava l’ Iva del 20% (in quel momento
l’aliquota IVA non era ancora aumentata) e , quindi, con un
maggior onere per la Provincia.
L’analisi dei giudici amministrativi
I giudici amministrativi rilevano che nelle gare per
l’affidamento di un servizio da aggiudicarsi con il criterio
del prezzo più basso, devono essere comparati i prezzi netti
offerti dai concorrenti, senza tener conto dei benefici
fiscali di cui essi godano eventualmente, ovvero nella
comparazione delle offerte economiche si deve considerare il
regime tributario ad esse applicabile, conseguentemente
valutandole in funzione del costo finale che comportano per
l’amministrazione.
Il ricorrente è del parere che, in presenza di due offerte
identiche, la stazione appaltante avrebbe dovuto aggiudicare
la gara al concorrente che, beneficiando del regime di
esenzione Iva, le avrebbe garantito un risparmio o una
minore spesa pari all’importo dell’imposta da applicarsi
ordinariamente sul costo del servizio.
Obiettivamente, osservano i giudici amministrativi, il bando
di gara si limitava a fissare il criterio di aggiudicazione
al prezzo più basso, senza specificare nulla in merito alla
rilevanza che il regime fiscale applicabile ai singoli
concorrenti avrebbe assunto ai fini della valutazione delle
offerte economiche.
Sull’argomento i giudici del TAR ritengono di richiamare un
importante orientamento della giurisprudenza del Consiglio
di Stato; i magistrati di Palazzo Spada con la decisione n.
185 del 25.01.2008, hanno definito una controversia
generata dall’esito di una procedura negoziata nella quale
uno dei concorrenti non era soggetto all’Iva in quanto
avente natura di Onlus; in tale sentenza è stato affermato
che la stazione appaltante fosse chiamata a valutare il
costo finale del servizio e, quindi, avesse correttamente
aggiudicato l’appalto alla Onlus che, pur avendo offerto il
terzo prezzo in ordine di graduatoria, aveva formulato,
proprio in ragione della non applicazione dell’Iva sul costo
del servizio, “l’offerta economicamente più vantaggiosa per
l’amministrazione”.
Per converso, osserva il TAR della Liguria, vi è
un’importante sentenza dello stesso CdS che , con la
decisione n. 6487 del 22.11.2005, ha affermato il
principio secondo cui “il valore degli appalti e, quindi,
anche i prezzi proposti dalle imprese partecipanti alle
gare” devono essere “sempre considerati al netto dell’Iva”,
essendo evidente, tra l’altro, che “l’ipotetica valutazione
degli oneri tributari, ai fini dell’individuazione
dell’offerta più conveniente per la stazione appaltante
(…….) innescherebbe ed incentiverebbe perversi meccanismi
collusivi tra le amministrazioni e le imprese concorrenti
(……) finalizzati all’elusione della normativa fiscale”.
Il Tribunale amministrativo della Liguria è favorevole a
quest’ultima impostazione e ritiene di farne applicazione
nella fattispecie controversa.
Per il TAR corrisponde al vero che, in tal modo, si corre il
rischio di determinare oneri per la stazione appaltante
complessivamente superiori a quelli che si avrebbero
aggiudicando la gara al soggetto esente dall’Iva, ma il
semplice interesse economico dell’amministrazione è
necessariamente recessivo a fronte dei valori comunitari
posti a presidio della libera concorrenza.
Il ricorso è , pertanto, infondato e deve essere respinto;
tuttavia per la difficoltà della materia il TAR decide che
le spese del grado giudizio vanno integralmente compensate
fra le parti costituite (commento tratto da www.ipsoa.it -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Rispetto al principio
generale della non necessità di una particolare motivazione
dell'ordine di demolizione è ammessa una deroga proprio per
il caso in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla
commissione dell'abuso e il protrarsi dell'inerzia
dell'amministrazione preposta alla vigilanza, si sia
ingenerata una posizione di affidamento nel privato, ipotesi
in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua
motivazione sul pubblico interesse -tenuto conto anche alla
entità e alla tipologia dell'abuso- evidentemente diverso da
quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare
il sacrificio del contrapposto interesse privato.
Difatti, nel caso di specie, l’ordinanza con la quale è
stata ingiunta alla parte ricorrente la demolizione
dell’immobile, essendo intervenuta a più di 40 anni dalla
costruzione del fabbricato in discorso non può essere
sorretta esclusivamente dal richiamo al carattere abusivo
dell’opera realizzata: in siffatte evenienze,
l’amministrazione deve dare conto puntualmente delle ragioni
di pubblico interesse che depongono per la demolizione del
fabbricato (quali, ad esempio, il pericolo di crollo,
desunto dalla fatiscenza dell’edificio, o il pregiudizio per
l’igiene e la sanità pubblica connesso alla vetustà del
fabbricato) giacché il decorso del tempo, oltre a produrre
effetti che l’ordinamento riconosce e consacra dando vita a
istituti ampiamente disciplinati in ogni settore del
diritto, determina l’esigenza di rafforzare l’impalcatura
motivazionale di un provvedimento di natura repressiva
perché esige l’efficace rappresentazione del rinnovato
interesse della amministrazione procedente a rimuovere
situazione antigiuridiche.
Si aggiunga che tale esigenza si imponeva anche in
considerazione del carattere incolpevole dell’affidamento
della ricorrente (trattandosi di immobile acquistato dalla
istante nel 1991, quindi dopo diversi anni dall’epoca alla
quale si riferiscono gli abusi).
- invero, rispetto al principio generale
della non necessità di una particolare motivazione
dell'ordine di demolizione è ammessa una deroga proprio per
il caso, quale quello di specie, in cui, per il lungo lasso
di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso e il
protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla
vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento
nel privato, ipotesi in relazione alla quale si ravvisa un
onere di congrua motivazione sul pubblico interesse -tenuto
conto anche alla entità e alla tipologia dell'abuso-
evidentemente diverso da quello al ripristino della
legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato (Consiglio di Stato, Sez. IV,
12.04.2011 n. 2266; 06.06.2008 n. 2705; 14.05.2007 n. 2441; Sez. V, 29.05.2006 n. 3270;
04.03.2008
n. 883; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 04.05.2012 n.
2049; Sez. IV, 09.04.2010 n. 1890);
- difatti, l’ordinanza con la quale è stata ingiunta alla
parte ricorrente la demolizione dell’immobile, essendo
intervenuta a più di 40 anni dalla costruzione del
fabbricato in discorso non può essere sorretta
esclusivamente dal richiamo al carattere abusivo dell’opera
realizzata: in siffatte evenienze, l’amministrazione deve
dare conto puntualmente delle ragioni di pubblico interesse
che depongono per la demolizione del fabbricato (quali, ad
esempio, il pericolo di crollo, desunto dalla fatiscenza
dell’edificio, o il pregiudizio per l’igiene e la sanità
pubblica connesso alla vetustà del fabbricato) giacché il
decorso del tempo, oltre a produrre effetti che
l’ordinamento riconosce e consacra dando vita a istituti
ampiamente disciplinati in ogni settore del diritto,
determina l’esigenza di rafforzare l’impalcatura
motivazionale di un provvedimento di natura repressiva
perché esige l’efficace rappresentazione del rinnovato
interesse della amministrazione procedente a rimuovere
situazione antigiuridiche;
- si aggiunga che tale esigenza si imponeva anche in
considerazione del carattere incolpevole dell’affidamento
della ricorrente (trattandosi di immobile acquistato dalla
istante nel 1991, quindi dopo diversi anni dall’epoca alla
quale si riferiscono gli abusi);
- sicché, in applicazione di siffatti principi deve
riconoscersi che, nel caso di specie, in cui l’accertamento
dell’abuso edilizio è avvenuto dopo circa 40 anni dalla sua
realizzazione, l’interesse all’intervento repressivo da
parte dell’amministrazione può considerarsi cedevole
rispetto all’interesse della ricorrente
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza
13.11.2012 n. 4578 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il termine di cui
all’art. 87, comma 9, del decreto legislativo n. 259 del
2003 (codice delle comunicazioni) ha natura perentoria.
Al suo spirare si forma dunque il silenzio-assenso con
riferimento alla realizzazione dell’intervento richiesto e
l’amministrazione comunale, qualora intenda successivamente
opporsi al medesimo, può esercitare soltanto il potere di
autotutela sulla base dei presupposti, dei criteri e del
procedimento di cui all’art. 21-nonies della legge n. 241
del 1990.
Considerato che per giurisprudenza pacifica
(cfr., ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VII, 07.08.2007, n. 7365) il termine di cui all’art. 87, comma 9, del
decreto legislativo n. 259 del 2003 (codice delle
comunicazioni) ha natura perentoria.
Al suo spirare si forma dunque il silenzio-assenso con
riferimento alla realizzazione dell’intervento richiesto e
l’amministrazione comunale, qualora intenda successivamente
opporsi al medesimo, può esercitare soltanto il potere di
autotutela sulla base dei presupposti, dei criteri e del
procedimento di cui all’art. 21-nonies della legge n. 241
del 1990.
Parametri questi che nella specie non sono stati rispettati.
Di qui l’illegittimità dell’operato del Comune intimato, il
quale è dunque intervenuto una volta formatosi il
silenzio-assenso e senza soprattutto esercitare il potere di
autotutela nei limiti e nelle forme consentite dalla legge
generale sul procedimento amministrativo
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 09.11.2012 n.
4530 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La presentazione dell'istanza di accertamento di
conformità, successivamente alla impugnazione dell'ordinanza
di demolizione -o alla notifica del provvedimento di
irrogazione delle altre sanzioni per gli abusi edilizi-
produce l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione
stessa, per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il
riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di
verificarne la eventuale sanabilità, provocato dall'istanza
di sanatoria, comporta la necessaria formazione di un nuovo
provvedimento, esplicito od implicito (di accoglimento o di
rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
Conseguentemente, il ricorso giurisdizionale avverso un
provvedimento sanzionatorio proposto anteriormente
all'istanza di concessione in sanatoria è improcedibile per
sopravvenuta carenza di interesse, “spostandosi” l'interesse
del responsabile dell'abuso edilizio dall'annullamento del
provvedimento sanzionatorio già adottato, all'eventuale
annullamento del provvedimento (esplicito o implicito) di
rigetto.
CONSIDERATO:
-
quanto all’ordine di demolizione gravato, che, secondo
consolidata giurisprudenza, la presentazione dell'istanza di
accertamento di conformità, successivamente alla
impugnazione dell'ordinanza di demolizione -o alla notifica
del provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per
gli abusi edilizi- produce l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione stessa, per sopravvenuta
carenza di interesse, in quanto il riesame dell'abusività
dell'opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale
sanabilità, provocato dall'istanza di sanatoria, comporta la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito
od implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale
comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.12.1997, n. 1377; TAR Sicilia, sez. II,
05.10.2001, n.
1392; TAR Toscana, sez. II, 25.10.1994, n. 350;
TAR Campania, Sez. IV, 25.05.2001, n. 2340, 11.12.2002, n. 7994, 30.06.2003, n. 7902);
-
che, pertanto, il ricorso giurisdizionale avverso un
provvedimento sanzionatorio proposto anteriormente
all'istanza di concessione in sanatoria è improcedibile per
sopravvenuta carenza di interesse, “spostandosi” l'interesse
del responsabile dell'abuso edilizio dall'annullamento del
provvedimento sanzionatorio già adottato, all'eventuale
annullamento del provvedimento (esplicito o implicito) di
rigetto (TAR Sicilia, Catania, Sez. II, 16.03.1991,
n. 67, Palermo, Sez. II, 27.03.2002, n. 826; TAR
Campania, Sez. IV, 24.09.2002, n. 5559, 22.02.2003, n. 1310)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 06.11.2012 n.
4430 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Gare, esecuzione del contratto "parcellizzata" senza
subappalto.
Nel caso in cui il bando di gara per l'affidamento di un
appalto di servizi preveda espressamente il divieto del
ricorso al subappalto, deve ritenersi legittima
l'aggiudicazione della medesima gara in favore di una ditta
che è dotata di una struttura centrale e di numerose
articolazioni sul territorio nazionale, che è in possesso
dei requisiti richiesti dalla lex specialis e ha dichiarato
di voler eseguire il contratto tramite propri centri
logistici operativi.
La deducente, partecipante alla gara d’appalto indetta dal
Comune per “l’affidamento del servizio di ripristino delle
condizioni di sicurezza e viabilità delle strade comunali e
aree di pertinenza interessate da incidenti stradali", ha
gravato il provvedimento con cui è stata disposta
l’aggiudicazione definitiva in favore della controinteressata, nonché tutti gli atti a esso connessi,
ivi compreso il bando di gara.
Ha contestato, in un unico motivo di ricorso, la violazione
delle disposizioni di cui al bando di gara, nonché degli
artt. 34 e ss., D.Lgs. n. 163/2006 e dell’art. 97 Cost.,
contestualmente chiedendo la declaratoria di inefficacia del
contratto eventualmente stipulato dalla P.A. con l’impresa
affidataria o il subentro nel medesimo, in uno al
risarcimento dei danni subiti e subendi.
Il Collegio di Cagliari, in via preliminare, ha osservato
che la gara in parola prevedeva l’affidamento del servizio
di ripristino delle condizioni di sicurezza delle strade
comunali, il cui corrispettivo sarebbe consistito
"unicamente (nel) diritto di gestire funzionalmente e di
sfruttare economicamente il servizio".
Il concessionario, difatti, sarebbe stato delegato dal
Comune a riscuotere, dalle compagnie assicuratrici dei
soggetti responsabili di sinistri stradali, l’importo dovuto
per gli interventi di bonifica delle sedi stradali e delle
aree di pertinenza in cui fossero avvenuti gli incidenti.
Orbene, rispetto a siffatta procedura di gara, l’interessata
ha rilevato che il bando di gara prevedeva, oltre al resto,
che: "Gli operatori possono partecipare, ai sensi dell’art.
34, comma 1, lettere d) ed e), D.Lgs. n. 163/2006, oltre che
singolarmente, anche in raggruppamento temporaneo di
imprese, nel rispetto dell’art. 37 del medesimo decreto. Si
precisa che tutti gli operatori che sono stati ammessi alla
presente fase di gara dovranno partecipare o come operatori
economici singoli o, qualora intendano partecipare in
associazione temporanea d’imprese, potranno farlo
esclusivamente associandosi con altri operatori che
risultano titolari dei requisiti di ammissione previsti
dall’art. 4 del presente bando … In caso di aggiudicazione i
soggetti assegnatari dell’esecuzione del servizio non
potranno essere diversi da quelli indicati in sede di gara".
Al contempo, ha precisato che lo stesso bando di gara non
ammetteva “… né il subappalto, né la cessione, anche solo
parziale, del contratto".
Alla stregua di siffatte previsioni, la ricorrente ha
ritenuto che l’aggiudicataria, nel prevedere la delega per
lo svolgimento dell’attività di bonifica ad alcuni centri
logistici operativi, aveva sostanzialmente violato il
menzionato divieto di subappalto e che, pertanto, avrebbe
dovuto essere esclusa dalla procedura.
In virtù di tali doglianze, l’adito G.A. ha ritenuto di
dover indagare la reale natura giuridica del rapporto
intercorrente tra i predetti centri logistici operativi e la
società aggiudicataria.
Sicché, dopo aver esaminato l’offerta tecnica presentata
dalla controinteressata, il giudicante ha evidenziato che la
medesima società era dotata di una struttura centrale e di
numerose articolazioni sul territorio nazionale; al
riguardo, ha rilevato che sul territorio nazionale vi era
una rete di centri logistici operativi preposti alla
materiale esecuzione delle opere di pulitura e bonifica
stradale, che avrebbero operato utilizzando equipaggiamenti,
mezzi, risorse e protocolli aziendali propri della ditta
aggiudicataria.
Vi era, inoltre, una struttura di raccordo tra la sede
centrale e i menzionati centri, costituita da una rete -a
base provinciale o regionale- di referenti responsabili che
si sarebbero occupati della vigilanza, del monitoraggio e
del supporto ai centri.
Pertanto, sul piano della qualificazione di tali rapporti,
il Collegio ha definito il subappalto come: “… il contratto
con il quale l’appaltatore affida a un terzo la prestazione
di un servizio o l’esecuzione di un’opera che egli si sia
precedentemente impegnato a eseguire nei confronti di un
soggetto committente, in forza di un precedente contratto di
appalto con questi stipulato”.
Dunque, ha sottolineato che, nelle ipotesi di subappalto,
l’originario appaltatore resta impegnato nei confronti del
committente, atteso che al contratto di appalto preesistente
ne accede un altro, in rapporto di accessorietà rispetto al
primo, in relazione al quale tendenzialmente il committente
rimane estraneo (ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 09.02.2006, n. 518).
In altre parole, ha precisato che la figura del subappalto
ricorre nei casi in cui venga demandato a un soggetto terzo,
economicamente e giuridicamente distinto dall’appaltatore,
l’esecuzione totale o parziale dell’opera o del servizio
appaltato, con organizzazione di mezzi e rischio a carico
del subappaltatore.
Così, avuto riguardo alla vicenda, ha osservato che i centri
logistici operativi dell’aggiudicataria avrebbero operato
nell’ambito di un rapporto di rispetto delle direttive
fornite, in relazione ai singoli interventi, dalla centrale
operativa e avrebbero utilizzato mezzi, attrezzature e know
how della controinteressata.
In considerazione delle predette argomentazioni, il TAR
di Cagliari, ravvisando la mancanza di qualsivoglia profilo
di autonomia e auto-organizzazione, idoneo a inquadrare il
rapporto in parola negli schemi del subappalto, ha respinto
il gravame e, per l’effetto, dichiarato legittima
l’aggiudicazione dell’appalto in favore della controinteressata (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR
Sardegna, Sez. I,
sentenza 02.11.2012 n. 909 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Rilascio di autorizzazione unica alla costruzione di
impianto fotovoltaico: il termine (regionale) è perentorio.
Non spetta al soggetto privato inoltrare autonomamente
l'istanza di assoggettabilità a VIA all'ente provinciale
competente, al fine di promuovere la conferenza di servizi
istruttoria che delibera sulla stessa richiesta di
autorizzazione.
A seguito della richiesta -ex articolo 12 del decreto
legislativo n. 387 del 2003– di un’autorizzazione unica,
nel giugno 2010, per la realizzazione di un impianto
fotovoltaico destinato alla produzione di energia elettrica
da fonte solare rinnovabile, nel marzo del 2011 (e quindi
già con notevole ritardo rispetto ai termini di legge che
decorrono dal momento della ricezione della richiesta di
autorizzazione), l’Ufficio Industria Energetica della
regione Puglia disponeva taluni adempimenti istruttori a
carico della ditta richiedente, ai fini dell'avvio del
procedimento e della convocazione della conferenza dei
servizi. In assenza della richiesta documentazione
integrativa, il medesimo Ufficio indiceva comunque una
conferenza dei servizi istruttoria nel maggio 2011.
Quest’ultima disponeva ulteriori adempimenti istruttori a
carico della citata ditta, rimandando ad una data
indeterminata ogni ulteriore decisione sulla istanza di
autorizzazione unica.
Nel dichiarare l'illegittimità del comportamento silente
dell'amministrazione regionale sull'istanza di
autorizzazione unica presentata dalla ditta appellante, il
Consiglio di Stato ha rilevato che l'articolo 2 della legge
n. 241 del 1990, che racchiude uno dei principi fondamentali
dell'ordinamento in tema di azione amministrativa, sancisce
l'obbligo per l'amministrazione di concludere ogni
procedimento con provvedimento espresso entro un termine
certo, che è quello generale fissato dal comma 3
(attualmente di trenta giorni) o quello indicato da
specifiche disposizioni di legge. Nel caso di specie,
l’articolo 12, comma 4, del decreto legislativo n. 387 del
2003 (che è evidentemente una norma speciale), statuisce che
il procedimento per il rilascio dell’autorizzazione unica si
conclude nel termine massimo di cettontanta giorni dalla
presentazione della richiesta. Tale termine, come chiarito
di recente dalla Corte costituzionale, è di natura
perentoria in quanto costituisce principio fondamentale in
materia di produzione, trasporto e distribuzione nazionale
dell’energia e risulta ispirato "alle regole della
semplificazione amministrativa e della celerità garantendo,
in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, la
conclusione entro un termine definito del procedimento autorizzativo" (Corte costituzionale, sentenze n. 364 del
2006 e n. 282 del 2009).
Inoltre, nemmeno sulla base del regolamento disposto dalla
stessa Regione nell'allegato A della delibera di Giunta n.
35/07, in materia di procedimento per il rilascio
dell’autorizzazione unica, è possibile configurare un
diverso quadro procedimentale. Infatti, l’articolo 2.3.2 di
tale regolamento afferma che, a seguito dell’istanza
presentata dal privato per l’ottenimento dell’autorizzazione
unica, “il responsabile unico provvede ad inviare entro il
termine massimo dei successivi sette giorni lavorativi,
dalla data di ricevimento della domanda, una copia del
progetto definitivo a ciascuno degli enti individuati
dall‘Ufficio Industria Energetica, quali interessati al
rilascio dei pareri prescritti dalla legge”, lasciando
intendere che, conformemente alla normativa statale, tutti i
pareri, compresi quelli ambientali, devono essere acquisiti
all’interno dello stesso procedimento di competenza
regionale. Così come non è espressamente indicato tra i
requisiti necessari a promuovere la conferenza dei servizi,
dettati dal punto 2.3.3. dell’Allegato A della predetta
delibera n. 35/07, l’onere da parte del privato di inoltrare
autonomamente l’istanza di assoggettabilità a VIA all’ente
provinciale competente.
Di conseguenza, alla luce della normativa statale e
regionale, applicabile ratione temporis, l’adempimento in
parola risulta a carico dell’Assessorato all’Ecologia della
regione Puglia, cioè all’amministrazione competente a dare
impulso al procedimento per il rilascio dell’autorizzazione
unica. Ne consegue che la mancata adozione di un
provvedimento espresso sulla richiesta autorizzazione unica
è del tutto ingiustificata e configura un sostanziale
inadempimento, avuto riguardo al termine perentorio di
centottanta giorni entro cui doveva concludersi il relativo
procedimento.
Né, al riguardo, può assumere rilievo la circostanza che la
conferenza dei servizi si sia pronunciata disponendo
adempimenti istruttori a carico della ditta richiedente e
rinviando a data indeterminata ogni ulteriore decisione
sull'istanza, poiché il complessivo termine di centottanta
giorni per la conclusione delle procedure autorizzative in
materia di impianti di produzione di energia elettrica da
fonti rinnovabili è perentorio -in quanto principio
fondamentale in materia di produzione, trasporto e
distribuzione nazionale dell'energia, secondo le richiamate
sentenze della Corte costituzionale– e ad esso pertanto
anche le Regioni, nell'esercizio delle proprie competenze
legislative e amministrative, devono attenersi. Vi era
quindi l'obbligo della regione Puglia di condurre il
procedimento nel rispetto della normativa di settore,
espressione dei principi di economicità, e di efficacia
dell'azione amministrativa, nonché dei principi
dell'ordinamento comunitario, concludendo lo stesso nel
termine tassativamente prescritto.
Ne consegue l'erroneità della sentenza del TAR Puglia-Bari, nella parte in cui non ha rilevato l'illegittimità del
comportamento silente serbato dalla Regione Puglia, la quale
non ha provveduto sull'istanza della ditta ricorrente nel
termine perentorio di centottanta giorni assegnatole. Il
ricorso avverso la sentenza del TAR è stato pertanto
giudicato fondato ed è stato accolto, per ciò che attiene
all'azione proposta avverso il silenzio, ed
all'amministrazione regionale è stato ordinato di provvedere
sulla istanza di cui sopra con provvedimento espresso, entro
e non oltre novanta giorni dalla notifica o dalla
comunicazione in via amministrativa della sentenza del
Consiglio di Stato (commento tratto da www.ispoa.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 23.10.2012
n. 5413 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: NATURA
PRECARIA DI UN MANUFATTO E RAPPORTI
CON IL RESTAURO E RISANAMENTO CONSERVATIVO.
La natura ‘‘precaria’’ di un manufatto, ai fini
dell’esenzione
dal permesso di costruire, non può essere desunta
dalla temporaneità della destinazione soggettivamente
data all’opera dal costruttore, né dalla natura dei
materiali
utilizzati ovvero dalla più o meno facile rimovibilità
della stessa, ma deve ricollegarsi alla intrinseca
destinazione
materiale di essa ad un uso realmente precario e
temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel
tempo, con conseguente e sollecita eliminazione, non
essendo sufficiente che si tratti eventualmente di un
manufatto smontabile e/o non infisso al suolo (nella
fattispecie
la Corte ha escluso che fosse ravvisabile un’attività
di conservazione, recupero o ricomposizione di spazi, bensì la realizzazione di un ‘‘edificio’’ al posto di una
preesistente tettoia, con stravolgimento di elementi
tipologici
e formali e creazione ex novo di volumetria).
La Corte di cassazione si pronuncia nuovamente nel caso in
esame sulla questione relativa alla nozione di ‘‘precarietà’’ di
un manufatto, stavolta valutandone la compatibilità con la
tesi,
sostenuta dalla difesa dell’imputato, secondo cui la
realizzazione
di una tettoia sarebbe stata inquadrabile tra gli interventi
di restauro o risanamento conservativo.
La vicenda
processuale vedeva imputato il proprietario di un immobile
cui era contestato il reato di cui all’art. 44, lett. c) del
D.P.R.
n. 380 del 2001, per avere realizzato, in assenza del
prescritto
permesso di costruire -in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico
e ricadente nella perimetrazione di un parco- lavori
edilizi consistiti nella chiusura, per una superficie di mt.
10 x 5, di una tettoia collegata con un capannone adibito a
cantiere navale. Contro la sentenza di condanna proponeva
ricorso per cassazione l’imputato sostenendo la incongruità
del disconoscimento della precarietà delle opere di nuova
realizzazione, che non sarebbero assoggettate, per tale loro
caratteristica, al regime del permesso di costruire,
aggiungendo,
inoltre, che le stesse integrerebbero altresì un intervento
di risanamento conservativo necessario ‘‘al fine di rendere
possibile l’utilizzazione dell’aspiratore della polvere di
cantiere’’.
La tesi è stata respinta dagli Ermellini che hanno
dichiarato il
ricorso manifestamente infondato e, per tale ragione,
inammissibile.
In particolare, hanno precisato i giudici di legittimità
, la natura ‘‘precaria’’ di un manufatto, ai fini
dell’esenzione
dal permesso di costruire, non può essere desunta dalla
temporaneità della destinazione soggettivamente data
all’opera
dal costruttore, né dalla natura dei materiali utilizzati
ovvero
dalla più o meno facile rimovibilità della stessa, ma deve
ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale di essa
ad un uso realmente precario e temporaneo, per fini
specifici,
contingenti e limitati nei tempo, con conseguente e
sollecita
eliminazione, non essendo sufficiente che si tratti
eventualmente
di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo.
Nella fattispecie in esame, è stato quindi escluso il
preteso
requisito della temporaneità, logicamente rilevando che la
struttura arbitrariamente realizzata si connetteva ad un’attività
d’impresa esercitata in via continuativa e senza
predeterminazioni
temporali.
Precisano, poi, i giudici che il D.P.R. n.
380 del 2001 (art. 3, comma 1, lett. c), identifica gli
interventi
di ‘‘restauro e risanamento conservativo’’ come quelli
‘‘rivolti
a conservare l’organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità
mediante un insieme sistematico di opere che -nel
rispetto degli elementi tipologici, formati e strutturati
dell’organismo
stesso- ne consentano destinazioni d’uso con esso
compatibili’’. La finalità è di rinnovare l’organismo
edilizio
in modo sistematico e globale, ma essa deve essere attuata
-poiché si tratta pur sempre di conservazione- nel
rispetto
dei suoi elementi essenziali ‘‘tipologici, formali e
strutturali’’.
Nella fattispecie in esame, invece, non è stata ravvisata
un’attività di conservazione, recupero o ricomposizione di
spazi, secondo le modalità e con i limiti normativamente
delineati,
bensì la realizzazione di un ‘‘edificio’’ al posto di una
preesistente tettoia, con stravolgimento di elementi
tipologici e formali e creazione ex novo di volumetria.
In
precedenza,
nel senso che la ristrutturazione edilizia, poiché non
vincolata
al rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali
dell’edificio, differisce sia dalla manutenzione
straordinaria,
che non può comportare aumento della superficie utile o del
numero delle unità immobiliari, o, ancora, modifica della sagoma
o mutamento della destinazione d’uso, sia dal restauro
e risanamento conservativo, che non può modificare in
modo sostanziale l’assetto edilizio preesistente e consente
soltanto variazioni d’uso ‘‘compatibili’’ con l’edificio
conservato,
si era pronunciata la stessa Corte (Cass. pen., sez. III,
28.05.2010, n. 20350, in CED Cass., n. 247178) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.09.2012 n. 36040
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 12/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Lavori di ristrutturazione, la Soprintendenza non può
''smentire'' sé stessa.
E' illegittimo l'ordine di sospensione di lavori di
ristrutturazione fondato sul decreto impositivo di
prescrizioni di tutela indiretta laddove si riscontri che la
stessa Soprintendenza, emanante il predetto decreto, in
precedenti provvedimenti, a seguito di una dettagliata
istruttoria, aveva affermato l'insussistenza dei presupposti
per l'apposizione di vincoli, diretti o indiretti,
relativamente alla medesima area interessata dall'intervento
di ristrutturazione. In tal modo, infatti, le determinazioni
di sospendere i lavori di ristrutturazione e dare avvio al
procedimento vincolistico risultano incomprensibilmente
contraddittorie rispetto alle valutazioni anteriormente
espresse dalla stessa amministrazione ed illegittime, con
conseguente annullamento del decreto impositivo del vincolo
indiretto.
Se, a fronte delle valutazioni già espresse, l'attivazione
delle verifiche sul progetto rappresenta, da parte della
Soprintendenza, un atto sostanzialmente dovuto, lo stesso
non può dirsi, evidentemente, per l'ordine di sospensione
dei lavori adottato successivamente,, privo di qualsivoglia
indicazione circa le ragioni giustificative del ricorso a
siffatta misura cautelare, ad eccezione dell'inciso "nelle
more di ulteriore ed adeguata valutazione relativa alla
tutela dei beni culturali": inciso inammissibilmente
generico, per un verso, rispetto all'individuazione dei beni
da tutelare e, perciò, incoerente; e, per altro verso,
generico anche rispetto all'indicazione -sia pure di
massima- dell'esistenza di profili di incompatibilità fra
l'opera autorizzata dal Comune e i beni di interesse
storico-artistico ubicati nella piazza, a maggior ragione se
si considera che il Comune aveva fornito alla Soprintendenza
i chiarimenti richiesti precisando come l'edificio
ricostruito si sarebbe venuto a posizionare ad una distanza
maggiore del manufatto originale dalla facciata del
Santuario, aumentandone la visibilità.
Si aggiunga, a conferma dell'illegittimità dell'ordine di
sospensione dei lavori, che l'inadeguatezza del suo
contenuto si riflette sulla natura stessa del potere
esercitato, enfatizzando la perplessità delle scelte operate
dalla Soprintendenza.
Sul punto, sia sufficiente osservare come il riferimento
all'art. 28, co. 2, del D.Lgs. n. 490 del 1999, contenuto nel
Provv. del 26 giugno, non collimi con il rinvio all'art. 49
del medesimo D.Lgs. n. 490 del 1999 cit., dando luogo a una
discrasia non meramente formale, posto che le due
disposizioni riguardano i poteri cautelari riconosciuti
all'amministrazione, rispettivamente, in materia di
apposizione del vincolo diretto e del vincolo indiretto.
In questo senso, debbono dirsi altresì fondate le censure
dedotte con il terzo e il quarto motivo di cui al ricorso
introduttivo del giudizio, la già rilevata genericità
dell'ordine di sospensione risultando aggravata dalla
difficoltà di comprendere sul piano giuridico il titolo
dell'iniziativa assunta dalla Soprintendenza.
In ogni caso, anche a voler ritenere equivoca la prova del
denunciato sviamento di potere, il decreto impositivo del
vincolo resta viziato sotto il profilo dell'inspiegata
mutevolezza dei giudizi espressi dalle Soprintendenze
provinciale e regionale relativamente alle caratteristiche
del sito ed alle esigenze di tutela dei monumenti ivi
allocati.
L'incompletezza dell'istruttoria e della motivazione del
decreto 04.03.2003 emergono poi a maggior ragione ove si
consideri che il provvedimento, sebbene occasionato
dall'avvio dei lavori di demolizione e ricostruzione dell'ex
cinema-teatro, omette qualsivoglia considerazione circa i
potenziali aspetti pregiudizievoli derivanti dai lavori in
questione, il cui "progetto guida" -comprensivo di
localizzazione, dimensionamento, destinazione d'uso e
definizione architettonica del nuovo fabbricato- era stato
già esaminato e, lo si ribadisce, giudicato non
incompatibile con la presenza nella piazza del Santuario.
Le considerazioni esposte evidenziano l'illegittimità del
decreto impositivo del vincolo, con assorbimento dei
rimanenti motivi di gravame.
L'acclarata inadeguatezza delle ragioni addotte a sostegno
dell'imposizione del vincolo vizia, a monte, le misure
cautelari impartite con le comunicazioni di avvio del
procedimento, mentre è affetto da illegittimità derivata il
provvedimento di approvazione del progetto rilasciato dalla
Soprintendenza provinciale impugnato con il terzo atto di
motivi aggiunti.
Al contempo, ne risulta assorbita in punto di interesse ogni
questione relativa all'inserimento del monumento e del
Santuario nell'elenco descrittivo di cui all'art. 5 del
D.Lgs. n. 490 del 1999, giacché l'inserimento -che, com'è
noto, ha natura dichiarativa, e non costitutiva- di per sé
non è pregiudizievole della situazione soggettiva vantata
dalla ricorrente (commento tratto da www.ispoa.it - TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 06.09.2012 n. 1539 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: ESTENSIONE
DELLA RESPONSABILITA` PER VIOLAZIONI
URBANISTICHE ALL’ASSUNTORE E AL DIRETTORE DEI LAVORI.
Anche nella materia più propriamente edilizio-urbanistica,
soggetti non diretti destinatari del precetto penale
(quali, in particolare, l’assuntore o il direttore dei
lavori),
possono essere chiamati a rispondere del reato urbanistico
secondo le regole generali del concorso di persone
nel reato, versandosi in una particolare ipotesi di reato
cosiddetto ‘‘a soggettività ristretta’’.
Interessante questione quella oggetto di esame da parte
della Corte di Cassazione. Il tema è quello dell’estensione
della responsabilità penale delle violazioni
urbanistico-edilizie
a soggetti formalmente non qualificabili soggettivamente
come
autori del reato. La vicenda processuale vedeva imputati
alcuni soggetti, in concorso, dei reati di violazione della
legge
urbanistica (art. 110 c.p. e D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44
lett. c)), della legge edilizia ed antisismica (art. 110
c.p.; artt.
64, 65, 71 e 72; artt. 93, 94 e 95 citato D.P.R.) e
violazione
della legge paesaggistica (art. 110 c.p. e D.Lgs. n. 42 del
2004, art. 181); gli stessi erano stati condannati -nelle
rispettive
qualità di proprietario committente, esecutore dei
lavori e direttore di essi- alla pena ritenuta di
giustizia.
Contro
la sentenza di condanna ricorrevano per cassazione i tre
imputati a mezzo del loro difensore fiduciario deducendo,
con un primo motivo, nullità della sentenza per omessa
motivazione
in punto di conferma del giudizio di responsabilità a
carico dell’esecutore dei lavori e del direttore di essi,
evidenziando
come costoro -sulla base delle dichiarazioni autoaccusatorie
del committente- fossero del tutto estranei al reato
e, comunque, ignari degli eventuali abusi commessi dal
proprietario-committente.
La tesi dell’irresponsabilità non ha però avuto seguito da
parte
della Cassazione. In particolare, i giudici di legittimità, con
riferimento alla figura dell’assuntore, hanno chiarito che
questi
può essere chiamato a rispondere del reato urbanistico
secondo le regole generali del concorso di persone nel
reato,
versandosi in una particolare ipotesi di reato cd. ‘‘a soggettività
ristretta". Ancor più evidente è stata ritenuta dagli
Ermellini
la responsabilità del soggetto incaricato della direzione
dei lavori, stante la posizione di garanzia circa la
regolare
esecuzione dei lavori che ne caratterizza il ruolo in
conformità
al disposto di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 29.
Infine,
la Cassazione ha ritenuto del tutto inconsistente
l’affermazione
dei ricorrenti secondo la quale l’assunzione di
responsabilità
da parte del proprietario committente esenterebbe
da responsabilità gli altri soggetti coinvolti prevalendo
su
quelle iniziative che -secondo quanto previsto dal
menzionato
D.P.R. n. 380 del 2001, art. 29- l’assuntore ed il
direttore
lavori avrebbero dovuto porre in essere per sgravarsi da
responsabilità: è infatti -ricorda la Corte- lo specifico ruolo
riconosciuto
dalle norme edilizio-urbanistiche a vincolare determinati
soggetti, in assenza di quelle specifiche azioni ad
essi demandate in modo cogente (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.07.2012 n. 29126
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 11/2012). |
AGGIORNAMENTO AL 06.12.2012 |
ã |
IN EVIDENZA |
Il Governo fa, il
Parlamento disfa ...
I RAGIONIERI
COMUNALI NON SONO PIU' SOTTO "PROTEZIONE
LEGISLATIVA" !! |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Enti,
ragionieri senza tutele. Dietrofront sull'inamovibilità del
responsabile finanziario. Il senato
ha votato la fiducia sul dl salva-enti che torna alla camera
per l'ok definitivo.
Addio all'inamovibilità del ragioniere-capo.
È questa una delle novità più significative per gli enti
locali introdotte (ndr:
col maxiemendamento n. 1.900) nella legge di
conversione del
dl 174/2012 dopo il passaggio, completato ieri,
nell'aula del senato. È stata eliminata, infatti, la
previsione che subordinava la revoca del responsabile del
servizio finanziario, oltre che all'accertamento di gravi
irregolarità nell'esercizio delle funzioni assegnate, anche
al parere obbligatorio dei revisori dei conti.
In precedenza (ndr:
testo approvato in 1^ lettura alla Camera), la
camera aveva cancellato la norma che richiedeva addirittura
il parere conforme del Mef e che aveva causato una levata di
scudi da parte dei sindaci per difendere il primato della
politica e l'autonomia comunale. Al riguardo, quindi, tutto
torna come prima, lasciando però nuovamente nudi i «guardiani
dei conti» di fronte alle pressioni degli
amministratori.
Con 194 sì, 58 no e 4 astenuti l'aula di palazzo Madama ha
votato la fiducia sul testo (ndr:
testo approvato in 2^ lettura dal Senato) che ora
passa subito alla camera per un'approvazione lampo. E,
stando a quanto emerso dalla Conferenza dei capigruppo,
sembra scontato il ricorso alla fiducia anche a Montecitorio
(il decreto arriverà in aula oggi pomeriggio e subito
dovrebbe essere posta la fiducia che dovrebbe essere votata
domani, mentre venerdì alle 12 sono previste le
dichiarazioni di voto e il voto finale sul testo).
I ritocchi approvati a Palazzo Madama riguardano anche altri
aspetti rilevanti del provvedimento, per quanto concerne, in
particolare, i controlli interni, l'Imu degli enti non
commerciali e le agevolazioni per le zone terremotate.
Sotto il primo profilo, è stata circoscritta la platea degli
enti obbligati ad attivare il controllo strategico, quello
sulla qualità dei servizi e quello sulle partecipate:
l'obbligo (inizialmente esteso a tutte le amministrazioni
con più di 10 mila abitanti) riguarderà fin da subito solo
quelle oltre i 100 mila, soglia che scenderà a 50 mila nel
2014 per assestarsi a 15 mila dal 2015.
In materia di esenzione Imu degli enti non commerciali, è
stata inserita una disposizione che dà piena copertura
legislativa ai criteri identificati con il decreto del Mef
del 19 novembre (pubblicato sulla G.U. 274/2012). Inoltre, è
stato espressamente chiarito che l'esenzione prevista
dall'art. 7, comma 1, lett. i), del dlgs 504/1992 non si
applica alle fondazioni bancarie.
Per i comuni colpiti dal sisma del maggio scorso arrivano
piccoli aiuti sul Patto di stabilità interno e un parziale
allentamento della stretta sulle spese di personale. Quanto
al Patto, oltre all'esclusione delle risorse presenti nelle
contabilità speciali delle gestioni commissariali, è stata
prevista anche una mini-esenzione per le spese finanziate da
erogazioni liberali e donazioni da parte di cittadini
privati e imprese, fino a un massimo di 10 milioni all'anno
(9 per la regione Emilia-Romagna e mezzo milione ciascuna
per Veneto e Lombardia, che verranno distribuiti dai
rispettivi governatori). I suddetti comuni e le relative
unioni potranno, inoltre, per gli anni 2012 e 2013,
incrementare fino al 5% annuo il fondo delle risorse
decentrate, per destinare gli stanziamenti integrativi a
remunerare le prestazioni rese dal personale in relazione
alla gestione dello stato di emergenza. Sempre nelle aree
terremotate è stato prorogato al 31.05.2013 il termine per
l'accatastamento dei fabbricati rurali.
Da segnalare, ancora, la previsione che allunga i tempi per
la determinazione dei fabbisogni standard: le modifiche al
catalogo delle funzioni fondamentali saranno prese in
considerazione solo a partire dal primo anno successivo
all'adeguamento dei certificati consuntivi.
Confermate, infine, le nuove misure a favore degli enti alle
prese con pesanti criticità finanziarie (si veda ItaliaOggi
del 30 novembre), con la possibilità anche per le regioni
sotto piano di rientro dal deficit sanitario di attivare
immediatamente anticipazioni di cassa fino a 50 milioni, con
l'innalzamento da 100 a 300 euro della consistenza
pro-capite massima di quelle assegnabili agli enti locali e
con l'allungamento da 5 a 10 anni della durata massima del
piano di riequilibrio finanziario pluriennale connesso al
nuovo meccanismo di pre-dissesto.
Introdotte anche misure ad hoc per gli enti locali
sciolti per mafia e che presentino anche squilibri
strutturali di bilancio: una formulazione che sembra cucita
addosso al comune di Reggio Calabria
(articolo ItaliaOggi del 05.12.2012). |
Non c'è che dire: cari emuli dei "Fiorito", "Lusi"
e "Belsito", parrebbe che vi sia stata ridata
vita facile ... ma noi confidiamo nei colleghi "ragionieri-capo":
tenete duro, non mollate la dritta via che lavorando
insieme, giorno dopo giorno, possiamo contrastare
quegli amministratori che anziché perseguire
l'interesse collettivo perseguono l'interesse
personale !!
06.12.2012 - LA SEGRETERIA PTPL |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
URBANISTICA:
Interventi normativi per l’attuazione della
programmazione regionale e di modifica e integrazione di
disposizioni legislative – Collegato ordinamentale 2013
(Progetto
di Legge 28.11.2012 n. 0199).
---------------
L'ultimo regalo della Giunta Formigoni in materia di P.G.T.,
dapprima proposto con
dgr 26.10.2012 n. 4300 e confluito nel
PdL n. 0195/2012, è stato stralciato dall'originario PdL
in Commissione Bilancio e riproposto col suddetto nuovo PdL
n. 0199/2012.
Nel caso di specie, il nuovo articolo (che qui interessa) è
il n. 4 che di seguito si ripropone:
Art. 4 - (Modifiche alla l.r. 12/2005)
1.
Alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo
del territorio) sono apportate le seguenti modifiche:
a) dopo l’articolo 25 è aggiunto il seguente:
“Art. 25-bis (Disposizioni transitorie a far tempo dal 1°
gennaio 2013)
1. In deroga a quanto previsto dall’articolo 25, comma 1,
primo periodo, i comuni terremotati inclusi nell’elenco di
cui al decreto del Ministero dell’economia e delle finanze
01.06.2012 e successive modificazioni e integrazioni, nonché
quelli dichiarati in dissesto finanziario entro il
31.12.2012 continuano ad attuare le previsioni del vigente
PRG fino al 31.12.2013, fermo restando quanto disposto
dall’articolo 26, comma 3-quater. In caso di mancata
adozione del PGT entro il 31.12.2013, si applicano le
disposizioni di cui ai commi 4 e 5.
2.
In deroga a quanto previsto dall’articolo 25, comma 1, primo
periodo, nei comuni che entro il 31.12.2012 hanno adottato
il PGT si attuano le previsioni del vigente PRG, fermo
restando quanto disposto dagli articoli 13, comma 12, e 26,
comma 3-quater. Dal 1° gennaio 2013 i medesimi comuni non
possono in ogni caso dar corso a procedure di variante al
vigente PRG comunque denominate.
3.
In caso di mancata approvazione del PGT entro il 31.07.2013
da parte dei comuni di cui al comma 2, primo periodo, si
applicano le disposizioni previste ai commi 4 e 5.
4.
Nei comuni che entro il 31.12.2012 non hanno adottato il PGT,
dal 1° gennaio 2013 e fino all’approvazione del PGT, fermo
restando quanto disposto dall’articolo 13, comma 12, sono
ammessi unicamente i seguenti interventi:
a) nelle zone omogenee B, C e D individuate dal previgente PRG,
interventi sugli edifici esistenti nelle sole tipologie di
cui all’articolo 27, comma 1, lett. a), b) e c);
b) nelle zone omogenee A, E e F individuate dal previgente PRG, gli
interventi che erano consentiti dal PRG o da altro strumento
urbanistico comunque denominato;
c) gli interventi in esecuzione di piani attuativi approvati e
convenzionati entro il 31.12.2012, con convenzione non
scaduta.
5.
Ai comuni di cui al comma 4, dal 1° gennaio 2013 e fino
all’approvazione del PGT, non è consentito applicare le
disposizioni di cui agli articoli 3, 4, 5 e 6 della legge
regionale 13.03.2012, n. 4 (Norme per la valorizzazione del
patrimonio edilizio esistente e altre disposizioni in
materia urbanistico-edilizia); sono fatte salve le istanze
di permesso di costruire e le denunce di inizio attività
presentate entro il 31.12.2012.”. |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
APPALTI:
Decreto del Ministro dell'Economia e delle Finanze
25.06.2012 recante “Modalità di certificazione
del credito, anche in forma telematica, di somme dovute per
somministrazioni, forniture e appalti, da parte delle
Regioni, degli Enti locali e degli Enti del Servizio
Sanitario Nazionale”, come modificato dal decreto del
Ministro dell’economia e delle finanze 19.10.2012 - Modalità
applicative (Ragioneria Generale dello Stato,
circolare 27.11.2012 n. 36). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. Amendola,
Scolmatori di piena e scarichi secondo la Corte europea di
giustizia e la Corte di cassazione (link a
www.industrieambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA:
G. Amendola,
Il nuovo statuto delle terre e rocce da scavo secondo il
D.M. n. 161/2012 - Le definizioni del materiale da scavo
– Il carattere “più favorevole” dell’attuale
disciplina e la sua retroattività anche ai fini penali -
L’art. 186 non ha natura di norma “temporanea”:
rilievi critici sulla sentenza della S.C. n. 3577/2012 (link
a www.lexambiente.it). |
QUESITI &
PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Come
sono disciplinati i rifiuti derivanti da attività di pulizia
delle reti fognarie?
(03.12.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA:
La disciplina dell’utilizzo delle terre e rocce da scavo ha
trovato stesura definitiva nel D.M. n. 161/2012?
(03.12.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
NEWS |
SEGRETARI
COMUNALI:
Niente «premi» senza obiettivi.
Niente retribuzioni di risultato per i segretari se non sono
stati formalizzati in via preventiva dall'amministrazione
gli obiettivi necessari alla valutazione.
Lo spiega l'ex-Ages (agenzia dei segretari) nelle risposte
ai quesiti
30.11.2012 n. 9/2012 e
30.11.2012 n. 10/2012.
In un altra nota (la
30.11.2012 n. 8/2012) l'ex-Ages afferma che non sono
possibili le convenzioni fra Comuni singoli e Unioni
(articolo
Il Sole 24 Ore del 05.12.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
LAVORI PUBBLICI: In
dirittura d'arrivo il decreto interministeriale che mette i
paletti nelle gare pubbliche. Appalti, basta ribassi
selvaggi. La prestazione professionale troverà il suo
compenso.
Gare d'appalto con tariffe professionali certe. E con
precisi paletti di discrezionalità sugli importi per le
pubbliche amministrazioni. È finita dunque l'era in cui le
stazioni appaltanti si presentavano alle gare offrendo
progettazione ed esecuzione delle opere a prezzi stracciati
(con ribassi anche del 90% rispetto al prezzo iniziale)
svilendo anche il ruolo del professionista.
A sanare la situazione infatti ci penserà un decreto
interministeriale giustizia-infrastrutture, a giorni in
arrivo al Consiglio di stato, che definisce i parametri da
utilizzare per la determinazione dell'importo da porre a
base di gara nell'ambito dei contratti pubblici dei servizi
di ingegneria e architettura.
Dopo la definizione dei parametri (dm 01/08/2012) per la
liquidazione dei corrispettivi in caso di contenzioso,
dunque, arriva un altro provvedimento a comporre lo scenario
complessivo di riforma delle professioni che, tra i suoi
capisaldi, ha visto appunto l'abolizione delle tariffe.
Il contesto generale.
Si tratta di un testo atteso nel mondo delle professioni
tecniche (ingegneri, architetti, geometri, periti
industriali ecc.) e soprattutto necessario dopo che il
decreto legge sulle liberalizzazioni (1/12) aveva di fatto
cancellato ogni riferimento tariffario, privando le stazioni
appaltanti di regole per calcolare gli importi e per
determinare, di conseguenza, le procedure per l'affidamento
degli incarichi di progettazione. Un'assenza di regole
denunciata a gran voce dalle professioni tecniche che, tra
le altre cose, ha alimentato negli ultimi anni un'eccessiva
discrezionalità delle stazioni appaltanti. Soprattutto dopo
le lenzuolate Bersani.
Per sanare tale criticità il governo era intervenuto con il
decreto sviluppo stabilendo che per la determinazione dei
corrispettivi da porre a base di gara nelle procedure di
affidamento di contratti pubblici dei servizi tecnici si
sarebbero applicati i parametri individuati appunto con un
decreto interministeriale che avrebbe anche definito «le
classificazioni delle prestazioni professionali relative ai
predetti servizi». Il tutto con un paletto preciso: «I
parametri individuati non possono condurre alla
determinazione di un importo a base di gara superiore a
quello derivante dall'applicazione delle tariffe
professionali vigenti prima dell'entrata in vigore del
presente decreto».
I punti principali del testo.
La battaglia degli ordini sul provvedimento è stata
soprattutto mirata a eliminare gli aspetti eccessivamente
discrezionali del testo. Così è saltata, in primo luogo, la
possibilità per le pubbliche amministrazioni di aumentare o
diminuire gli importi a base di gara del 60% in maniera
completamente discrezionale come era avvenuto fino ad ora.
Allo stesso modo il parametro «G», che nel calcolo degli
importi a base di gara servirà a definire la «complessità
della prestazione», vedrà diminuire la sua portata
discrezionale.
Il decreto, infatti, non fissa più (come nelle bozze
precedenti) una forbice tra due valori (ridotto e elevato),
ma quozienti fissi e non derogabili stabiliti a seconda
della categoria e della destinazione funzionale dell'opera.
Il provvedimento richiama nella valutazione del compenso
quanto stabilito nel decreto relativo ai parametri
giudiziali prevedendo anche la classificazione dei servizi
professionali, tenendo conto della categoria dell'opera e
del grado di complessità.
Torna poi la liquidazione forfettaria delle spese, in
sostanza l'importo delle spese e degli oneri accessori,
invece si legge sul dm, è determinato «forfettariamente»
secondo percentuali standard degli oneri sostenuti dal
professionista che varieranno tra il 10 e il 25% a seconda
del valore dell'opera
(articolo ItaliaOggi del 05.12.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI: Pagamenti.
Le novità del decreto legislativo 192/2012 sui ritardi si
applicheranno ai contratti conclusi da inizio 2013.
Interessi al via senza sollecito.
La decorrenza sarà automatica per tutte le transazioni
commerciali.
NELLA RETE/
La disciplina riguarda i versamenti effettuati a titolo di
corrispettivo tra imprese, professionisti e pubbliche
amministrazioni.
Decorrenza automatica degli interessi di mora per i
contratti conclusi dal 01.01.2013 e prova scritta di
ogni patto derogatorio: così dispone il decreto legislativo
192/2012 di recepimento della direttiva 2011/7/Ue contro i
ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. I
pagamenti effettuati oltre il termine dei 30 giorni dalla
scadenza, ovvero entro il maggior termine stabilito
contrattualmente non superiore comunque a 60 giorni salvo
casi particolari, saranno quindi maggiorati di interessi
moratori senza necessità di sollecito e preavviso di
inadempimento da parte del creditore.
Dentro e fuori
La disciplina riguarda tutti i pagamenti effettuati a titolo
di corrispettivo tra imprese ovvero tra queste e le
pubbliche amministrazioni. Nella nozione di impresa
rientrano anche i professionisti e cioè i soggetti che
esercitano un'attività professionale indipendente. Sul
punto, la direttiva comunitaria precisa come la sua
operatività nei confronti delle professioni liberali non
determina la loro assimilazione alle imprese per fini
diversi da quelli sugli interessi di mora per ritardati
pagamenti. Per espressa previsione di legge, restano inoltre
esclusi solamente i debiti oggetto di procedure concorsuali
nonché i pagamenti effettuati a titolo di risarcimento del
danno. Si persegue in questo modo la finalità di contrastare
le posizioni dominanti delle imprese sui propri fornitori e
sulle imprese sub committenti, in particolare quando si
tratta di micro, piccole e medie imprese. Così, come
chiarisce la direttiva, si vuole contrastare i ritardi nei
pagamenti che, limitando la liquidità delle imprese, ne
complicano la gestione finanziaria obbligandole a ricorrere
a finanziamenti esterni in un periodo di crisi strutturale
del sistema.
I 30 e i 60 giorni
Il Dlgs 192/2012 estende a tutte le transazioni commerciali
le regole imposte nel settore agricolo e agroalimentare
dall'articolo 62 del Dl 1/2012, che dallo scorso 24 ottobre
prevede la decorrenza automatica degli interessi di mora dal
giorno successivo alla scadenza del termine di pagamento,
fissato in 30 giorni per le merci deteriorabili e in 60 per
tutte le altre a decorrere dall'ultimo giorno del mese di
ricevimento della fattura. Quest'ultima disposizione
costituisce una norma speciale rispetto alla regole generali
applicabili ai ritardi nei pagamenti dei corrispettivi per
merci o servizi resi.
Gli interessi moratori
Differenti sono anche le modalità per individuare i termini
di decorrenza degli interessi moratori. Alla luce della
normativa comunitaria, il creditore matura il diritto agli
interessi dal giorno successivo alla data di scadenza o alla
fine del periodo di pagamento stabilito nel contratto. Se
data di scadenza o di pagamento non risultano invece
contrattualizzati, gli interessi di mora decorrono comunque,
senza che sia necessaria la costituzione in mora, dal giorno
successivo alla scadenza del termine per il pagamento
individuato in 30 giorni dalla data di ricevimento da parte
del debitore della fattura o di una richiesta di pagamento
di contenuto equivalente. Nel caso in cui non è certa la
data di ricevimento della fattura o della richiesta di
pagamento, i 30 giorni decorrono dalla data di ricevimento
delle merci o dalla data di prestazione dei servizi. Invece
se il debitore riceve la fattura o la richiesta di pagamento
prima delle merci o della prestazione dei servizi, i 30
giorni decorrono dalla data di ricevimento delle merci o
dalla prestazione dei servizi. I 30 giorni vanno infine
calcolati a partire dalla data dell'accettazione o della
verifica della conformità della merce o dei servizi alle
previsioni contrattuali, se il debitore riceve la fattura o
la richiesta di pagamento in epoca non successiva a questa
data. Le imprese possono pattuire un termine superiore ai 30
giorni: tuttavia se si superano i 60 giorni, oltre alla
necessità di una pattuizione espressa con clausola da
provarsi per iscritto, non deve configurarsi un
comportamento gravemente iniquo per il creditore.
La pubblica amministrazione
Nelle transazioni commerciali in cui debitore è una pubblica
amministrazione il termine ordinario di pagamento è quello
dei 30 giorni. Tuttavia le parti possono pattuire in modo
espresso un termine per il pagamento superiore in ragione
della natura o dell'oggetto del contratto o dalle
circostanze esistenti al momento della sua conclusione. In
ogni caso i maggiori termini pattuiti, a differenza di
quanto previsto nei rapporti tra imprese, non possono
superare i 60 giorni e la relativa clausola deve essere
provata per iscritto. I termini sono invece automaticamente
raddoppiati a 60 giorni per le imprese pubbliche tenute al
rispetto dei requisiti di trasparenza delle relazioni
finanziarie tra gli Stati membri e le loro imprese pubbliche
e per gli enti pubblici che forniscono assistenza sanitaria (articolo Il Sole 24 Ore del 04.12.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI:
Revisori dei conti. L'estensione procederà a tappe, mentre
si prova ad ampliare i vincoli di assunzione alle in house.
Controlli progressivi sulle società.
Esami nel 2013 per le città oltre 100mila abitanti, nel 2015
si arriverà a quelle sopra 15mila.
L'ultima versione del Dl enti locali prevede che nel 2013 il
nuovo controllo ad hoc sulle partecipate si effettui solo
nelle città con più di 100mila abitanti, per scendere a
50mila nel 2014 e a 15mila dal 2015.
Ma tutti gli enti, in realtà, sono già oggi chiamati a molte
verifiche, a partire dalle dinamiche sul personale delle
società. Regole che provano a cambiare ancora con gli
emendamenti presentati venerdì scorso dai relatori al
decreto «Sviluppo2», al centro di una navigazione
parlamentare dagli esiti ancora incerti. I correttivi
estendono prima di tutto alle società in house le regole del
turn over, che consentono di assumere entro il tetto del 40%
dei risparmi ottenuti con le cessazioni dell'anno
precedente, e inoltre le mettono al sicuro dal blocco degli
stipendi che rischierebbero con l'estensione tout court
delle norme applicate agli enti locali: chi non supera i
tetti di spesa, secondo il correttivo, sarà chiamato a
garantire risparmi di spesa ma senza vietare a tutti
qualsiasi incremento contrattuale. Un blocco del genere si
scontrerebbe infatti con i contratti di diritto privato
tipici del personale delle società, che non possono essere
contraddetti da norme di legge. Lo stesso problema, però, si
incontra nelle società strumentali, dove il blocco dei
trattamenti economici sarà in vigore nel 2013/2014 e rischia
di generare un forte contenzioso.
Le nuove regole sui controlli contenute nel decreto enti
locali, che attende la fiducia domani al Senato per poi
tornare alla Camera per la lettura definitiva, chiamano i
revisori a verifiche puntuali anche sul mondo delle società.
Questi controlli, in base al maxiemendamento governativo,
scatteranno il prossimo anno solo nelle città sopra i
100mila abitanti, poi la soglia scenderà a 50mila nel 2014 e
a 15mila dal 2015.
La prima disposizione rilevante, in questa prospettiva, è
l'articolo 18, comma 2-bis, della legge 133/2008, che
dispone l'assoggettamento delle società a partecipazione
pubblica totale o di controllo, affidatarie senza gara di
servizi (quindi tra queste non rientrano le società miste
conformi ai parametri comunitari del partenariato
pubblico-privato) ai divieti e alle limitazioni per le
assunzioni di personale secondo il regime previsto per
l'ente controllante.
La norma fa riferimento alle società individuate dal conto
consolidato Istat, ma alcune interpretazioni (Corte dei
conti, sez. Calabria, delibera 84/2012) evidenziano che la
regola va vada intesa in via estensiva, comprendendo anche
tutte le società non incluse nell'elenco. Rispetto a questa
previsione, è evidente l'obbligo di vigilanza dell'ente
socio sul rispetto dei vincoli alle assunzioni nella
società, sancito come principio generale (Corte dei Conti.
sez. Lombardia, delibera 7/2012).
Il controllo entra in gioco anche nella relazione tra
amministrazioni e società affidatarie in house di servizi
pubblici locali, regolata dall'articolo 3, commi 5 e 6 della
legge 148/2011. Oltre all'estensione del Patto, ancora tutta
da definire, la norma prevede che le società debbano
assoggettarsi alle disposizioni che stabiliscono a carico
degli enti locali divieti o limitazioni alle assunzioni di
personale, contenimento degli oneri contrattuali e delle
altre voci di natura retributiva o indennitarie e per le
consulenze.
Il controllo risulta obbligato anche dall'articolo 76, comma
7 della legge 133/2008, in quanto le amministrazioni locali
devono calcolare, ai fini della determinazione del rapporto
tra spesa del personale e spesa corrente, anche la spesa
delle società a partecipazione totale o di controllo,
affidatarie di servizi senza gara.
Qualora, infatti, il rapporto superi il limite del 50% a
causa degli eccessivi costi delle risorse umane delle
partecipate, l'ente locale socio non può procedere ad
assunzioni.
---------------
L'evoluzione
01 | L'ESTENSIONE
Il provvedimento sugli enti locali prevede l'allestimento di
nuovi controlli ad hoc sulle società partecipate, sui
rapporti finanziari fra ente e società e sul rispetto delle
regole di personale
02 | IL CORRETTIVO
Nel maxiemendamento che sarà sottoposto domani alla fiducia
in Senato si prevede che questi controlli siano applicati
nel 2013 nei Comuni con più di 100mila abitanti, nel 2014 in
quelli superiori a 50mila abitanti e dal 2015 in quelli dai
15mila abitanti in su
03 | PERSONALE
I relatori dal decreto Sviluppo 2, intanto, hanno presentato
venerdì una serie di emendamenti sul personale delle società
in house: a queste viene estesa la regola del turn over, che
consente di assumere solo entro il tetto del 40% dei
risparmi conseguiti con le cessazioni dal servizio dell'anno
precedente
04 | BLOCCO STIPENDI
Nel 2013/2014 è previsto per le società strumentali, ma
rischia di creare contenzioso perché il personale è titolare
di contratti di diritto privato. Per la stessa ragione, gli
emendamenti presentati al decreto sviluppo escludono da
questa misura le società in house, chiamate invece a
garantire più flessibili «contenimenti» nella spesa di
personale
05 | TETTI DI SPESA
L'altro limite da sottoporre a controllo riguarda
l'impossibilità di spendere per il personale più del 50%
della spesa corrente, nella somma di ente e società (articolo
Il Sole 24 Ore del 03.12.2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
L'attuazione. Disciplina da approvare entro poche settimane.
Verifiche, tocca ai regolamenti fissare calendario e
modalità.
Tempi assai stretti per applicare le nuove regole sui
controlli interni e sanzioni molto dure in caso di
inosservanza. Tutti i Comuni e gli altri enti locali
dovranno adottare entro il 10 gennaio, cioè entro i 90
giorni successivi alla emanazione del decreto legge
174/2012, il regolamento, dando immediata comunicazione sia
al Prefetto sia alla sezione regionale di controllo della
Corte dei conti. Saranno avviate le procedure di
scioglimento degli organi politici se entro due mesi dalla
diffida da parte del Prefetto gli enti locali non lo avranno
approvato.
È quanto prevede il testo del decreto enti
locali, all'esame del Senato per la conversione in legge.
Sono competenti ad adottare il regolamento i consigli
comunali e provinciali. La disciplina del controllo sugli
equilibri finanziari deve essere inserita nell'ambito del
regolamento di contabilità. Sono tenuti a dare vita al
controllo strategico, a quello sulla gestione delle società
partecipate e a quello sulla qualità dei servizi erogati da
subito solo i Comuni con più di 100mila abitanti, dal 2014
con più di 50mila abitanti, dal 2015 con più di 15.000
abitanti. I controlli interni possono essere gestiti in
forma associata. Le nuove forme di verifica, tranne il
controllo di regolarità amministrativa e contabile per la
parte preventiva all'adozione delle deliberazioni, hanno
alcune caratteristiche unitarie: ognuno produce, come
risultato finale, una relazione e non determina conseguenze
sulla legittimità, né costituisce condizione di validità dei
singoli atti.
Il regolamento deve, in primo luogo, individuare per ogni
forma di controllo interno le modalità di effettuazione, le
interrelazioni con le altre verifiche e il soggetto
responsabile. Il decreto legge 174 assegna direttamente la
responsabilità al segretario per i controlli di regolarità
amministrativa e contabile e, ove non sia presente il
direttore generale, per quello strategico; al dirigente o
responsabile finanziario per quello sugli equilibri di
bilancio e alla struttura preposta a tali rapporti quello
sulle società non quotate partecipate. Il regolamento deve
disciplinare le modalità di coinvolgimento dei segretari,
dei direttori generali, dell'insieme dei dirigenti o
responsabili, del collegio dei revisori e dell'organismo
indipendente di valutazione. Deve inoltre disciplinare le
modalità di utilizzazione di queste relazioni da parte degli
organi di governo.
Il controllo di regolarità amministrativa e contabile va
disciplinato in modo differenziato per le sue due fasi. La
fase preventiva si concretizza nel rilascio dei pareri
tecnico e di regolarità contabile sulle proposte di
deliberazione. La fase successiva prevede la verifica delle
determinazioni, dei contratti e in generale degli atti di
gestione, anche a campione, con modalità che dovranno essere
disciplinate dal regolamento. Per esempio si possono
sottoporre a controllo solo i provvedimenti che dispongono
spese di elevato valore. I suoi esiti vanno comunicati ai
dirigenti e/o responsabili insieme alle direttive cui si
devono conformare in caso di irregolarità. Sul controllo di
gestione non vi sono novità di rilievo rispetto al decreto
legislativo 267/2000: deve verificare l'efficacia,
l'efficienza e l'economicità delle attività. Il regolamento
deve individuare la struttura preposta, le modalità
operative e l'utilizzazione dei suoi esiti, in particolare
per misurare le performance. Il controllo strategico serve a
verificare, tra l'altro, il grado di attuazione dei
programmi, la qualità delle attività, i tempi di
realizzazione, le procedure utilizzate. Il regolamento può
unificare questo controllo con la relazione sulle
performance prevista dalla legge Brunetta.
Il decreto legge 174/2012 ha poi introdotto tre forme di
controllo interno. Il controllo sugli equilibri della
gestione finanziaria ha come oggetto sia l'andamento della
competenza e dei residui, sia il rispetto del patto. Si deve
estendere anche agli effetti determinati dalle scelte
compiute dai soggetti che per conto dell'ente gestiscono i
servizi. Il controllo sulle società partecipate non quotate
si deve incentrare sulla verifica del raggiungimento degli
obiettivi prefissati dall'ente, sul rispetto degli standard
di qualità e delle condizioni dettate nei contratti di
servizio. Infine, la verifica della qualità dei servizi
erogati e del giudizio da parte degli utenti va unificata
con il decreto legislativo 150/2009, che impone a tutte le
Pa di realizzare forme di customer satisfaction, tenendone
conto per valutare le performance.
---------------
I punti chiave
01 | I REGOLAMENTI
Gli enti devono approvare un regolamento consiliare per i
controlli di regolarità amministrativa e contabile; di
gestione; strategico; sulle società partecipate e sulla
qualità dei servizi.
Nel regolamento di contabilità va inserita la disciplina del
controllo sugli equilibri della gestione finanziaria
02 | I CONTROLLI
I controlli interni producono rapporti sull'attività svolta
dall'ente. Il controllo di regolarità amministrativa e
contabile produce pareri sulle proposte di delibera e
verifica, anche a campione, su tutti gli atti di gestione.Il
controllo di gestione misura le attività in termini di
efficienza, efficacia ed economicità. Il controllo
strategico riassume tutte le verifiche e unifica la
relazione sulla performance.
Il controllo sugli equilibri
della gestione finanziaria analizza la gestione e la
condizione economica complessiva dell'ente, anche con
riferimento alle scelte delle società partecipate. Il
controllo sulle società verifica il grado di realizzazione
degli obiettivi assegnati e del rispetto dei vincoli dettati
nel contratto di servizio. Il controllo sulla qualità della
gestione misura il grado di soddisfazione degli utenti
(articolo Il Sole 24 Ore del
03.12.2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Da definire meglio l'obbligo di pareri su Peg e servizi.
I CONFINI/
Interventi necessari sul piano delle opere pubbliche e sulle
dismissioni, ma non sui piani esecutivi.
I revisori degli enti locali iniziano a misurarsi sulle
modifiche del decreto enti locali che ha rivisto le loro
funzioni scritte nell'articolo 239 del Tuel. Anzitutto è
richiesto un parere dei revisori per gli «strumenti di
programmazione economico-finanziaria». Nessun dubbio per i
documenti, come il piano delle opere pubbliche o quello
delle dismissioni, che devono essere approvati dal
consiglio: qui il parere è dovuto.
Il discorso non è
altrettanto chiaro, però, per il Peg. Si tratta di uno
strumento di programmazione o di gestione? Quando si
dovrebbe dare il parere? I pareri si fanno sugli atti, ma
qui l'unica delibera è di Giunta, visto che il segretario o
il dg semplicemente lo «predispongono». Si avrebbe perciò un
parere sulla delibera di Giunta, quindi formulato dopo
l'assunzione della decisione definitiva, e non se ne capisce
l'utilità. L'organo di revisione di regola si rivolge al
Consiglio e non ad altri soggetti, e solo quando c'è una
norma che definisce il loro compito, l'oggetto e il
destinatario del parere stesso. In sostanza, si ritiene che
qui il parere non sia dovuto.
Occorre poi che i revisori si esprimano sulle «modalità di
gestione dei servizi e proposte di costituzione o di
partecipazione ad organismi esterni». La terminologia è
generica. È indubbio che si debba dare un parere sulle
delibere di Consiglio di costituzione e di partecipazione a
organismi esterni, ma meno chiaro è il compito del collegio
sulla gestione dei servizi. Su quali servizi? E quando va
dato il parere? Da subito o all'affidamento? L'affidamento
potrebbe anche non esserci, se il servizio è in economia. Il
dubbio, quindi, è se vada fatto un "inventario" dei servizi
erogati o no. In ogni caso, il parere dovrebbe essere dato
solo se la delibera è di Consiglio.
Un parere deve essere dato anche sulle «proposte di ricorso
all'indebitamento». In questo caso si pensa che il parere
riguardi ogni singola operazione, e va formulato anche
considerando la congruità e verificando il rispetto dei
vincoli al debito. Il parere è dovuto anche in caso di
fideiussioni e, comunque, per ogni tipologia di debito,
leasing compreso. Le operazioni non rientranti
nell'indebitamento si ritrovano comunque al punto
successivo, dove si chiede di esprimersi sulle «proposte di
utilizzo di strumenti di finanza innovativa», nelle quali si
devono fare rientrare tutte le forme non tipizzate di natura
finanziaria, dagli swap alle cartolarizzazioni. L'attenzione
deve concentrarsi sia sulla convenienza sia sulla loro
ammissibilità.
Sempre in argomento, un problema riguarda le operazioni di
riduzione del debito, imposte dalla spending review. In
questo caso non viene richiesto un parere, in quanto non si
tratta di «ricorso all'indebitamento» ma di sua estinzione.
In ogni caso occorre ricordare che l'articolo 239, comma
1-bis, richiede «un motivato giudizio di congruità, di
coerenza e di attendibilità contabile delle previsioni di
bilancio e dei programmi e progetti». Trattandosi di una
variazione occorre perciò esprimersi sulla convenienza nella
scelta dei mutui da estinguere. È richiesto, infine, di
esprimersi sui debiti fuori bilancio e sulle transazioni. In
merito la questione riguarda anzitutto la congruità della
delibera, ma ci si dovrebbe interrogare anche sui motivi che
hanno portato alla soccombenza.
Anche alla luce dei tanti nuovi compiti che attendono i
professionisti, è importante che il maxiemendamento
governativo al decreto enti locali cancelli il taglio ai
revisori dei conti nei Comuni che fanno parte di Unioni. Il
correttivo applica il nuovo assetto solo alle future Unioni
dei Comuni fino a mille abitanti, dove gli enti svolgeranno
in forma associata tutte le funzioni fondamentali (articolo
Il Sole 24 Ore del 03.12.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Anticorruzione. Dipendenti pubblici.
Tagliola in tempo reale per gli incarichi esterni.
Cambiano le procedure e le modalità per l'affidamento degli
incarichi ai dipendenti pubblici.
La legge 190/2012
(anticorruzione) interviene infatti sull'articolo 53 del
decreto legislativo 165/2001 prevedendo ulteriori verifiche
e nuovi adempimenti. Il lavoratore pubblico può essere
destinatario di attività extra lavorative da parte di tre
soggetti diversi. Innanzitutto, da parte della Pa di
appartenenza, ma solo per compiti non compresi tra i doveri
d'ufficio. La legge 190/2012 precisa che verranno
individuate con appositi regolamenti alcuni tipi di attività
comunque vietati.
A un dipendente pubblico possono essere, poi, affidati
incarichi da parte di un'altra amministrazione o da privati,
purché di natura saltuaria e sporadica e non in conflitto di
interessi. È sempre richiesta la preventiva autorizzazione
dell'ente di appartenenza: in caso di inosservanza, il
dipendente incappa in una responsabilità disciplinare che si
estende all'obbligo della restituzione del compenso
eventualmente ricevuto all'ente di appartenenza. L'omissione
del versamento costituisce ipotesi di responsabilità
erariale soggetta alla Corte dei conti.
Una volta effettuata la prestazione, al dipendente viene
corrisposto il compenso pattuito. Scatta a questo punto
tutto il sistema delle rendicontazioni che si conclude con
l'adempimento dell'anagrafe delle prestazioni: in precedenza
il soggetto pubblico o privato che aveva affidato un
incarico al dipendente aveva tempo fino al 30 aprile
dell'anno successivo per comunicare alla Pa di appartenenza
l'ammontare dei compensi erogati; ora il termine è stato
ridotto a soli 15 giorni dall'erogazione delle somme
pattuite. Rimane invece fermo al 30 giugno dell'anno
successivo il termine per inserire in «PerlaPa» i compensi
relativi all'anno precedente contenuti nelle comunicazioni.
Confermato inoltre l'invio semestrale per gli incarichi di
consulenza, anche se le informazioni sono trasmesse (alla
Funzione pubblica) e pubblicate in tabelle riassuntive
liberamente scaricabili in un formato «digitale standard
aperto» che consenta di analizzare e rielaborare, anche a
fini statistici, i dati informatici. Si attendono le
indicazioni operative. Le amministrazioni inadempimenti
saranno segnalate alla Corte dei conti.
Resta confermato il regime di maggior favore per i
dipendenti part-time con prestazione lavorativa non
superiore al 50% di quella a tempo pieno e per alcune
particolari tipologie di incarichi, come la collaborazione a
giornali e riviste, la partecipazione a convegni e seminari,
l'attività di formazione diretta alla Pa e le attività per
le quali è previsto il solo rimborso delle spese documentate (articolo Il Sole 24 Ore del
03.12.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
termine di 30 giorni previsto dalla legge circa la
presentazione della D.I.A., nella specie dai citati artt.
23, comma 6, T.U. 380/2001 e 42, comma 1, l.r. Lombardia
12/2005, si intende rispettato dall’amministrazione allorché
entro lo stesso l’atto repressivo sia stato predisposto ed
avviato alla notifica, in analogia con quanto vale per il
rispetto dei termini processuali di decadenza, e ciò è nella
specie avvenuto.
Nell’ordine, è infondato il primo motivo di
ricorso, incentrato sul presunto carattere tardivo
dell’intervento del Comune, che sulla d.i.a. presentata il
19.02.2007 ha adottato il provvedimento repressivo
impugnato avviandolo alla notifica il 20.03.2007, ovvero
il ventottesimo giorno successivo.
Così come ribadito da
recente giurisprudenza –per tutte TAR Liguria sez. I 02.11.2011 n. 1511- il termine di trenta giorni previsto
dalla legge, nella specie dai citati artt. 23, comma 6, T.U.
380/2001 e 42, comma 1, l.r. Lombardia 12/2005, si intende
rispettato dall’amministrazione allorché entro lo stesso
l’atto repressivo sia stato predisposto ed avviato alla
notifica, in analogia con quanto vale per il rispetto dei
termini processuali di decadenza, e ciò è nella specie
avvenuto
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 28.11.2012 n. 1853 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Ai fini della condonabilità di un manufatto
abusivo è ininfluente l'epoca in cui è sorto il vincolo,
purché questo sia ancora in essere alla data in cui deve
essere valutata la domanda di sanatoria, sicché detta regola
vale anche per le opere eseguite anteriormente
all'apposizione del vincolo stesso.
Costituisce, dal pari, ius receptum che la già avventa
urbanizzazione dell’area sulla quale insiste in manufatto
oggetto dell’istanza di condono non ne impedisce la tutela,
ma anzi la rende ancora più pressante e necessaria al fine
di evitarne l’ulteriore degrado.
Ai fini della condonabilità di un manufatto abusivo è, infatti,
ininfluente l'epoca in cui è sorto il vincolo, purché questo
sia ancora in essere alla data in cui deve essere valutata
la domanda di sanatoria, sicché detta regola vale anche per
le opere eseguite anteriormente all'apposizione del vincolo
stesso (per tutte, Cons .Stato, sez. IV, 18.09.2012,
n. 4945).
Costituisce, dal pari, ius receptum che la già
avventa urbanizzazione dell’area sulla quale insiste in
manufatto oggetto dell’istanza di condono non ne impedisce
la tutela, ma anzi la rende ancora più pressante e
necessaria al fine di evitarne l’ulteriore degrado (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.11.2012 n. 5984 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il provvedimento di
diniego di condono, quando si limita ad una apodittica
affermazione di principio di contrarietà alla normativa
paesaggistica, è viziato da difetto di motivazione, atteso
che l’obbligo di motivazione, imposto dall’art. 3 della
legge n. 241 del 1990, presuppone adeguate argomentazioni
volte a chiarire la non compatibilità dell’opera con le
esigenze di tutela nel contesto ambientale, in modo da
consentire all’interessato da un lato di rendersi conto
degli impedimenti che si frappongono alla regolarizzazione
ed al mantenimento dell'opera abusiva, dall’altro di
confutare in giudizio, in maniera pienamente consapevole ed
esaustiva, la legittimità del provvedimento impugnato.
Considerato inoltre che per giurisprudenza pressoché
costante (cfr. TAR Campania Salerno, sez. II, 22.09.2009, n. 4978; TAR Campania Napoli, sez. VI,
05.04.2012, n. 1640; TAR Toscana, sez. III, 09.04.2009, n.
605) il provvedimento di diniego di condono, quando si
limita ad una apodittica affermazione di principio di
contrarietà alla normativa paesaggistica, è viziato da
difetto di motivazione, atteso che l’obbligo di motivazione,
imposto dall’art. 3 della legge n. 241 del 1990, presuppone
adeguate argomentazioni volte a chiarire la non
compatibilità dell’opera con le esigenze di tutela nel
contesto ambientale, in modo da consentire all’interessato
da un lato di rendersi conto degli impedimenti che si
frappongono alla regolarizzazione ed al mantenimento
dell'opera abusiva, dall’altro di confutare in giudizio, in
maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la legittimità
del provvedimento impugnato
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza
26.11.2012 n. 4801 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La notifica
dell’ordinanza (di demolizione abuso edilizio) al
proprietario consente a quest’ultimo di attivarsi a sua
volta per la rimozione dell’illecito, in considerazione
della valenza ripristinatoria e non meramente sanzionatoria
dell’ingiunzione, fatti salvi i rapporti interni con il
responsabile in ordine al risarcimento dei danni e al
rimborso delle spese sostenute.
- Considerato che l’art. 31, comma 2, del d.P.R. 380/2001 dispone che “… il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale, accertata
l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale
difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali,
determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al
proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la
demolizione” e che pertanto correttamente l’ingiunzione è
stata indirizzata sia al proprietario dell’area che al
conduttore;
-
Ritenuto, in particolare, che la notifica dell’ordinanza al
proprietario consenta a quest’ultimo di attivarsi a sua
volta per la rimozione dell’illecito, in considerazione
della valenza ripristinatoria e non meramente sanzionatoria
dell’ingiunzione, fatti salvi i rapporti interni con il
responsabile in ordine al risarcimento dei danni e al
rimborso delle spese sostenute (cfr., nel senso della
legittimità della ingiunzione al proprietario dell’immobile,
oltre che al responsabile dell’abuso, da ultimo, TAR
Campania, Napoli, sez. VII, 17.09.2012, n. 3879, TAR
Calabria, Catanzaro, sez. I, 12.04.2012, n. 369)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza
22.11.2012 n. 4742 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Gli atti di repressione
degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente
vincolata (essendo dovuti a cagione dell’insussistenza del
titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la
conseguenza che, ai fini della loro adozione, secondo
l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario.
---------------
● In caso di abuso edilizio l'ordinanza di demolizione non
richiede, in linea generale, una specifica motivazione;
l'abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente
per l'adozione della misura repressiva in argomento. Ne
consegue che, in presenza di un'opera abusiva, l'autorità
amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia
ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna
discrezionalità dell'amministrazione in relazione al
provvedere.
● L'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è
atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione
ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto
e all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi.
● Presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione
di opere edilizie abusive è soltanto la constatata
esecuzione di queste ultime in assenza o in totale
difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che,
essendo l'ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente
motivata con l'accertamento dell'abuso, essendo "in re ipsa"
l'interesse pubblico alla sua rimozione e sussistendo
l'eventuale obbligo di motivazione al riguardo solo se
l'ordinanza stessa intervenga a distanza di tempo
dall'ultimazione dell'opera avendo l'inerzia
dell'amministrazione creato un qualche affidamento nel
privato.
Infondata è la censura inerente l’omessa
comunicazione dell’avvio del procedimento: gli atti di
repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e
strettamente vincolata (essendo dovuti a cagione
dell’insussistenza del titolo per l’avvenuta trasformazione
del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro
adozione, secondo l’ormai consolidato orientamento
giurisprudenziale, non sono richiesti apporti partecipativi
del soggetto destinatario (cfr. ex multis, TAR Campania,
Napoli, sez. VIII, 23.02.2011 n.1048).
---------------
E’ noto, infatti, che in
caso di abuso edilizio “l'ordinanza di demolizione non
richiede, in linea generale, una specifica motivazione;
l'abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente
per l'adozione della misura repressiva in argomento. Ne
consegue che, in presenza di un'opera abusiva, l'autorità
amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia
ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna
discrezionalità dell'amministrazione in relazione al
provvedere” (TAR Lazio Roma, sez. I, 19.07.2006, n.
6021); infatti “l'ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di
motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei
presupposti di fatto e all'individuazione e qualificazione
degli abusi edilizi” (TAR Marche Ancona, sez. I, 12.10.2006, n. 824) ed, ancora, “presupposto per
l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime
in assenza o in totale difformità del titolo concessorio,
con la conseguenza che, essendo l'ordinanza atto dovuto,
essa è sufficientemente motivata con l'accertamento
dell'abuso, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico
alla sua rimozione e sussistendo l'eventuale obbligo di
motivazione al riguardo solo se l'ordinanza stessa
intervenga a distanza di tempo dall'ultimazione dell'opera
avendo l'inerzia dell'amministrazione creato un qualche
affidamento nel privato” (Consiglio di Stato, sez. V,
29.05.2006 n. 3270)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza
22.11.2012 n. 4728 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Tra i presupposti del legittimo svolgimento
dell’attività commerciale e, quindi, tra le condizioni
richieste ai fini della formazione del titolo abilitante
anche mediante la sola dichiarazione del privato (DIA, poi
SCIA), va senz’altro annoverata la regolarità edilizia
dell’immobile in cui l’attività viene ad essere svolta
secondo il costante insegnamento della giurisprudenza, cui
questa Sezione si è già in altre circostanze richiamata:
● la conformità dei manufatti alle norme
urbanistico-edilizie costituisce il presupposto
indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di
agibilità, come si evince dagli art. 24, comma 3, d.P.R. n.
380/2001, e art. 35, comma 2, l. n. 47/1985, del resto,
risponde ad un evidente principio di ragionevolezza
escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi
destinazione, un fabbricato in potenziale contrasto con la
tutela del fascio di interessi collettivi alla cui
protezione è preordinata la disciplina urbanistico-edilizia;
● non può revocarsi in dubbio che il legittimo esercizio di
un'attività commerciale sia ancorato, sia in sede di
rilascio del relativo titolo autorizzatorio, sia per
l'intera durata del suo svolgimento, alla disponibilità
giuridica e alla regolarità urbanistico-edilizia dei locali
in cui essa viene posta in essere.
Invero, l’esercizio di un’attività commerciale
può avvenire solo in presenza di un titolo abilitante, in
passato denominato “licenza di commercio” e che attualmente,
in attuazione dei principi di semplificazione dell’azione
amministrativa, può formarsi in virtù della sola iniziativa
del privato (denuncia di inizio attività DIA, segnalazione
certificata di inizio attività SCIA), sempre che ricorrano
condizioni e presupposti richiesti dalla legge (cfr. art. 19
l. n. 241/1990 recante la disciplina generale), risolvendosi
essa, in mancanza di detti presupposti e condizioni, in
attività commerciale abusiva.
Tra i presupposti del legittimo svolgimento dell’attività
commerciale e, quindi, tra le condizioni richieste ai fini
della formazione del titolo abilitante anche mediante la
sola dichiarazione del privato (DIA, poi SCIA), va
senz’altro annoverata la regolarità edilizia dell’immobile
in cui l’attività viene ad essere svolta secondo il costante
insegnamento della giurisprudenza, cui questa Sezione si è
già in altre circostanze richiamata: «la conformità dei
manufatti alle norme urbanistico-edilizie costituisce il
presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del
certificato di agibilità, come si evince dagli art. 24,
comma 3, d.P.R. n. 380/2001, e art. 35, comma 2, l. n.
47/1985, del resto, risponde ad un evidente principio di
ragionevolezza escludere che possa essere utilizzato, per
qualsiasi destinazione, un fabbricato in potenziale
contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi
alla cui protezione è preordinata la disciplina
urbanistico-edilizia (Consiglio Stato, sez. V, 30.04.2009, n. 2760, conforme, Id., sez. V, 16.08.2010 , n.
5701)»; «non può revocarsi in dubbio che il legittimo
esercizio di un'attività commerciale sia ancorato, sia in
sede di rilascio del relativo titolo autorizzatorio, sia per
l'intera durata del suo svolgimento, alla disponibilità
giuridica e alla regolarità urbanistico-edilizia dei locali
in cui essa viene posta in essere (cfr. TAR Campania
Napoli, sez. III, 09.09.2008, n. 10058; Id., 09.08.2007, n. 7435; Id., 27.01.2003, n. 423; Id., 22.11.2001, n. 5007)».
Nel caso di specie, l’irregolarità del cespite in cui
l’attività avrebbe dovuta essere svolta è acclarata
dall’avvenuta presentazione di una domanda di sanatoria
edilizia straordinaria (cd. condono edilizio), rigettata dal
Comune di Pozzuoli (cfr. motivazione del provvedimento
impugnato)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza
22.11.2012 n. 4724 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'esistenza di un
sequestro penale non influisce sulla legittimità
dell'ordinanza di demolizione, potendo il destinatario
richiedere al giudice penale il dissequestro al fine di
ottemperare alla misura repressivo ripristinatoria, così
come l'eventuale rigetto dell'istanza di dissequestro
neppure influisce sulla legittimità dell'ordinanza di
demolizione, ma al più sull'acquisibilità del bene oggetto
dell'istanza.
Riguardo all’ultimo motivo aggiunto,
ritiene il Collegio che l'esistenza di un sequestro penale
non influisce sulla legittimità dell'ordinanza di
demolizione, potendo il destinatario richiedere al giudice
penale il dissequestro al fine di ottemperare alla misura
repressivo ripristinatoria, così come l'eventuale rigetto
dell'istanza di dissequestro neppure influisce sulla
legittimità dell'ordinanza di demolizione, ma al più sull'acquisibilità
del bene oggetto dell'istanza (TAR Campania Sezione VIII 09.02.2012 n. 693; TAR Campania sez. VII
03.11.2010 n. 22291); nel caso di specie, il ricorrente non
ha dimostrato, né allegato di avere richiesto il
dissequestro e di non averlo ottenuto, in modo da dimostrare
di aver fatto quanto nelle sue possibilità per eseguire
l’ingiunzione
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza
21.11.2012 n. 4700 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'equipollenza della
spedizione postale alla presentazione diretta costituisce
principio generale, desunto da numerose disposizioni di
legge, inteso a sollevare il privato dal rischio di
disfunzioni del servizio postale ed a consentirgli
l'integrale disponibilità del termine; secondo tale
principio, in mancanza di una regola diversa fissata nella
lex specialis della procedura, il termine finale per la
presentazione della domanda del privato alla pubblica
amministrazione deve considerarsi osservato ove tale domanda
sia inoltrata in tempo utile a mezzo raccomandata, rilevando
in tal caso la data di spedizione e non quella di ricezione
da parte della destinataria.
In merito a tale sindacato, ritiene
il Collegio di aderire all’orientamento giurisprudenziale
espresso proprio in un caso analogo, secondo cui
“l'equipollenza della spedizione postale alla presentazione
diretta costituisce principio generale, desunto da numerose
disposizioni di legge, inteso a sollevare il privato dal
rischio di disfunzioni del servizio postale ed a
consentirgli l'integrale disponibilità del termine
(Consiglio di Stato Sez. V, 10.02.2010 n. 655;
Cassazione civile Sez. II, 05.05.2008 n. 11028; Corte dei
Conti reg. Toscana, sez. giurisd., 19.04.1996 n. 199);
secondo tale principio, in mancanza di una regola diversa
fissata nella lex specialis della procedura, il termine
finale per la presentazione della domanda del privato alla
pubblica amministrazione deve considerarsi osservato ove
tale domanda sia inoltrata in tempo utile a mezzo
raccomandata, rilevando in tal caso la data di spedizione e
non quella di ricezione da parte della destinataria”
(Consiglio di Stato Sezione V, 14.09.2012 n. 6678)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza
21.11.2012 n. 4699 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'acquisizione del parere
della commissione edilizia comunale, in sede di esame
dell'istanza di conformità ex art. 36, d.P.R. n. 380 del
2001, è da reputarsi facoltativa, considerata la mancanza di
una sua espressa previsione normativa e la specialità del
procedimento di sanatoria edilizia.
Infine, non è meritevole di accoglimento
l’ultimo motivo, in quanto, secondo un orientamento
giurisprudenziale condiviso dalla Sezione (TAR Campania VIII Sezione 10.09.2010 n. 17398), l'acquisizione del
parere della commissione edilizia comunale, in sede di esame
dell'istanza di conformità ex art. 36, d.P.R. n. 380 del
2001, è da reputarsi facoltativa, considerata la mancanza di
una sua espressa previsione normativa e la specialità del
procedimento di sanatoria edilizia (Consiglio di Stato Sez.
IV, 02.11.2009, n. 6784; TAR Campania, Napoli, Sezione IV, 16.07.2003, n. 8434; Tar Campania Sezione II, 30.10.2006, n. 9243; TAR Campania Sezione VII, 21.05.2007, n. 5489; TAR Campania
05.12.2008, n. 21230; TAR
Campania Sezione VI, 22.04.2009, n. 2097; TAR Campania
Sezione VII, 03.11.2009, n. 6809)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza
21.11.2012 n. 4698 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione mediante realizzazione impianto
industriale.
Si ha
lottizzazione (materiale) abusiva, ai sensi dell'art. 30,
comma primo, del DPR n. 380/2001 "quando vengono iniziate
opere che comportino trasformazione urbanistica o edilizia
dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli
strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque
stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la
prescritta autorizzazione".
Pertanto, qualsiasi intervento edilizio realizzato in
assenza delle prescritte autorizzazioni, che, per la sua
consistenza, si palesi idoneo a conferire al territorio un
assetto diverso da quello previsto dagli strumenti
urbanistici, integra la fattispecie della lottizzazione
abusiva.
Detta fattispecie è, perciò, senz'altro integrata dalla
realizzazione di un impianto di natura industriale e di
altri manufatti in zona avente diversa destinazione d'uso,
che stravolgano l'assetto del territorio pianificato dalla
pubblica amministrazione, indipendentemente dal fatto che
tale impianto renda necessaria la realizzazione di opere di
urbanizzazione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.11.2012 n. 44908 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La precarietà di un
manufatto, la cui realizzazione non necessita di titolo
edilizio, non comportando una trasformazione del territorio,
non dipende dalla sua facile rimovibilità, ma dalla
temporaneità della funzione, in relazione ad esigenze di
natura contingente.
Per giurisprudenza costante, la precarietà di un manufatto,
la cui realizzazione non necessita di titolo edilizio, non
comportando una trasformazione del territorio, non dipende
dalla sua facile rimovibilità, ma dalla temporaneità della
funzione, in relazione ad esigenze di natura contingente
(Cons. Stato, sez. IV, 15.05.2009, n. 3029; Cons. Stato,
sez. IV, 06.06.2008, n. 2705; Cass. Pen., sez. III, 25.02.2009, n. 22054).
La precarietà va, pertanto, esclusa quando -come nella
fattispecie in esame- si tratta di un’opera destinata a dare
un’utilità prolungata nel tempo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.11.2012 n. 2755 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Nessun ordine della PA per la tinteggiatura del
fabbricato brutto.
È illegittimo, per travisamento dei
fatti e per sviamento del potere pubblico, il provvedimento
con cui un ente locale ha ordinato l’esecuzione di lavori di
tinteggiatura delle facciate di un fabbricato residenziale,
motivato con riferimento all’ubicazione dello stesso in zona
di notevole pregio storico e artistico, ove l’immobile versi
in buono stato manutentivo.
I deducenti, proprietari di un’immobile destinato a civile
abitazione e ubicato in zona residenziale esterna al centro
storico cittadino, hanno gravato il provvedimento con cui il
Sindaco del Comune ha ingiunto l’esecuzione di alcuni lavori
di tinteggiatura delle facciate del medesimo fabbricato.
Nello specifico, hanno esposto che l’adozione del predetto
atto era intervenuta nonostante le controdeduzioni formulate
dagli interessati circa l’ottimo stato di manutenzione del
medesimo immobile.
La civica P.A., infatti, aveva assunto l’impugnata ordinanza
sulla motivazione per cui l’abitazione de quo, da un
esame dello stato dei luoghi e in considerazione della sua
ubicazione, si sarebbe posta "in stridente contrasto con
il contesto circostante".
I ricorrenti, così, hanno eccepito plurimi profili di
eccesso di potere sotto il versante del difetto di
istruttoria, travisamento dei fatti e disparità di
trattamento, in quanto le disposizioni del regolamento
edilizio e delle N.T.A. richiamate dall’Amministrazione
avrebbero disciplinato le sole attività di trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio.
Il ricorso è stato accolto.
Il TAR di Brescia ha osservato che, nella vicenda, il
regolamento edilizio stabiliva espressamente che: "Le
parti delle case e degli edifici in genere prospettanti
sulle vie e spazi pubblici … devono rispondere alle esigenze
del decoro edilizio tanto per ciò che si riferisce alla
corretta armonia delle linee, quanto per i materiali da
impiegarsi nelle opere di decorazione e tinteggiature".
Al contempo, ha evidenziato che le N.T.A. del P.R.G. al
tempo vigente prevedevano che: "Quando per effetto
dell’esecuzione del P.R.G. anche una sola parte di edificio
venga a essere esposta alla pubblica vista e ne derivi un
deturpamento dell’ambiente urbano, è facoltà del Comune di
imporre ai proprietari di sistemare le fronti secondo un
progetto da approvarsi".
Alla stregua di siffatte disposizioni, il giudicante ha
rilevato che l’ordine di esecuzione dei lavori di
tinteggiatura avrebbe dovuto essere impartito previo idoneo
giudizio estetico dell’immobile interessato.
Sul proposito, ha richiamato un recente arresto
giurisprudenziale per cui: “… un giudizio estetico
negativo può aversi solo con riferimento ad aspetti
-attinenti, per esempio, all’uso di particolari materiali
e/o colori- espressamente previsti e disciplinati dalla
normativa edilizia e/o paesaggistica, i quali debbono
pertanto essere adeguatamente individuati in sede
motivazionale mediante il richiamo alle pertinenti
disposizioni" (TAR Liguria, Sez. I, 20.04.2010, n.
1834).
Orbene, avuto riguardo al caso di specie, il Collegio ha
osservato che l’edificio in proprietà dei ricorrenti non era
risultato interessato da alcuna lesione, né da alcuno "stridente
contrasto" con il contesto circostante; lo stesso,
invero, si presentava finito con un intonaco di malta
cementizia di colore uniforme, in buono stato di
manutenzione e in alcun modo ammalorato.
Parallelamente, ha riscontrato sia la sussistenza di
un’evidente somiglianza del fabbricato in parola con la
pluralità degli immobili formanti l’abitato, tutti
ugualmente terminati con intonaco "a vista", sia la
circostanza per cui lo stesso non ricadeva in zona
interessata da vincolo paesaggistico.
A siffatte conclusioni, del resto, l’adito TAR è giunto alla
luce della documentazione versata in atti dagli interessati.
Il Tribunale amministrativo lombardo, infatti, ha precisato
che il temperamento del principio dispositivo -proprio del
giudizio civile- con quello acquisitivo -peculiare del
processo amministrativo- deve essere definitivamente
rimeditato dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 104/2010,
il cui art. 64 prevede espressamente che: "Spetta alle
parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano
nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a
fondamento delle domande e delle eccezioni … Salvi i casi
previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento
della decisione le prove proposte dalle parte nonché i fatti
non specificamente contestati dalle parti costituite".
In virtù di tale disposizione, il G.A., condividendo
l’impostazione esegetica per cui: “… il tema probatorio
nel giudizio amministrativo oggidì è essenzialmente
assegnato alle parti e il giudice non deve supplire con
propri poteri istruttori a incombenti cui la parte può
diligentemente provvedere” (cfr. TAR Campania, Napoli,
Sez. VIII, 01.12.2010 n. 26440; idem, 18.03.2011, n. 438),
ha conclusivamente sottolineato che i ricorrenti hanno
esibito in corso di causa molteplici elementi idonei a
comprovare l’eccepito travisamento dei fatti e sviamento del
potere pubblico.
A quest’ultimo riguardo, ha rilevato la sussistenza di
elementi che hanno documentato non solo che l’impulso
dell’iniziativa repressiva era stato dato direttamente dal
primo cittadino in carica, ma anche che l’Amministrazione
comunale non aveva fornito alcun supporto (a titolo
esemplificativo, mediante indagini comparative sugli edifici
del territorio o relazioni di approfondimento) alla propria
decisione finale sfociata nell’adozione dell’ordinanza
sindacale.
In considerazione delle illustrate argomentazioni, il TAR di
Brescia ha accolto il gravame e, per l’effetto annullato
l’impugnato provvedimento (commento tratto da www.ipsoa.it -
TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 14.11.2012 n.
1787 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Rifacimento o sostituzione tetti di edifici.
Con riferimento al rifacimento o sostituzione di tetti di
edifici si verte in tema di manutenzione straordinaria non
assoggettata al permesso di costruire a condizione che non
venga modificata la quota di imposta ovvero alterato lo
stato dei luoghi dal punto di vista planivolumetrico
(modifica di superficie e/o sagome ovvero aumenti di volume) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.11.2012 n. 43490 -
tratto da www.lexambiente.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione in zona urbanizzata e falso del
professionista.
Si ha lottizzazione non soltanto nelle zone assolutamente
inedificate ma anche in quelle parzialmente urbanizzate
nelle quali si configuri un'esigenza di raccordo col
preesistente aggregato abitativo e di potenziamento delle
opere di urbanizzazione. Al di là della questione
nominalistica il fatto che il soggetto assuma l'impegno a
realizzare una consistente serie di opere di urbanizzazione
primaria e secondaria per l'effetto della stipula di una
convenzione urbanistica, rende evidente la necessità
sostanziale di urbanizzazione ed esclude che la zona possa
considerarsi urbanizzata.
Sia il progetto sia la relazione ad esso allegata sono atti
professionali che per legge devono essere prodotti a corredo
della domanda di permesso di costruire, che per legge
richiedono un titolo di abilitazione e che sono vietati a
chi non sia autorizzato allo esercizio della professione
specifica. É dunque pacificamente da ritenere la sussistenza
del reato di cui all'art. 481 cod. pen. anche nel caso in
cui i dati esposti e le relazioni dei tecnici riguardano
opere già eseguite e tali considerazioni non possono che
valere evidentemente anche per la documentazione allegata
alla domanda di variante in sanatoria (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.11.2012 n. 43123
- tratto da www.lexambiente.it). |
AGGIORNAMENTO AL 03.12.2012 |
ã |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
OGGETTO: Articolo 81, Decreto Legislativo n. 267/2000 –
amministratori locali in aspettativa con onere del
versamento in proprio della contribuzione a partire dal 1°
gennaio 2008. Istruzioni contabili. Variazioni al piano dei
conti (INPS,
circolare 26.11.2012 n. 133 - link a www.inps.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
EDILIZIA
PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 30.11.2012, "Aggiornamento
dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle
funzioni paesaggistiche loro attribuite dall’art. 80 della
legge regionale 11.03.2005, n. 2012" (decreto
D.G. 22.11.2012 n. 10653). |
TRIBUTI - VARI:
G.U. 23.11.2012 n. 274 "Regolamento da adottare ai sensi
dell’articolo 91-bis, comma 3, del decreto-legge 24.01.2012,
n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.03.2012,
n. 27 e integrato dall’articolo 9, comma 6, del
decreto-legge 10.10.2012, n. 174"
(Ministero dell'Economia e delle Finanze,
decreto 19.11.2012 n. 200).
---------------
Tanto per capire di che si tratta, si riporta l'art. 2:
Art. 2. - Oggetto
1. Le disposizioni del presente regolamento sono dirette a
stabilire, ai sensi dell’articolo 91-bis , comma 3, del
decreto-legge 24.01.2012, n. 1, convertito, con
modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n. 27, le modalità e
le procedure per l’applicazione proporzionale, a decorrere
dal 1º gennaio 2013, dell’esenzione dall’IMU per le unità
immobiliari destinate ad un’utilizzazione mista, nei casi in
cui non sia possibile procedere, ai sensi del comma 2 del
citato articolo 91-bis , all’individuazione degli immobili o
delle porzioni di immobili adibiti esclusivamente allo
svolgimento delle attività istituzionali con modalità non
commerciali. |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
G. Berretta,
Consulenze legali ammissibili solo in casi eccezionali -
I giudici contabili hanno confermato l’applicabilità della
c.d. “compensatio lucri cum damno”
(Diritto e Pratica Amministrativa n. 10/2012). |
ESPROPRIAZIONE:
G. G.A. Dato,
Le garanzie nel procedimento di reiterazione dei vincoli
espropriativi -
L’amministrazione nel reiterare i vincoli scaduti deve
accertare che l’interesse pubblico sia ancora attuale
(Diritto e Pratica Amministrativa n. 9/2012). |
APPALTI:
S. Toschei,
L’impenetrabile essenza del Durc
- Secondo l’Adunanza plenaria la valutazione circa la
gravità dell’irregolarità contributiva evidenziata dal Durc
“negativo” preclude una valutazione autonoma da parte
delle stazioni appaltanti (Diritto e Pratica Amministrativa
n. 9/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La nuova disciplina dei parcheggi Tognoli (Consiglio
Nazionale del Notariato, studio 18.04.2012 n. 210-2012-C). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Certificazione energetica ed espropriazione forzata
(Consiglio Nazionale del Notariato, studio 20.01.2012 n.
12-2011/E). |
URBANISTICA:
La disciplina sull’edilizia residenziale convenzionata dopo
il Decreto sullo Sviluppo 2011 (Consiglio Nazionale del
Notariato, studio 20.10.2011 n. 521/2011-C). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La disciplina dell’attività edilizia dopo il decreto sullo
sviluppo 2011 (Consiglio Nazionale del Notariato,
studio 08.06.2011 n. 325-2011-C). |
AUTORITA'
VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI:
Confermato il sì al rinnovo
del contratto se previsto sin dal principio.
Con il provvedimento in rassegna, l’Autorità di vigilanza
sui contratti pubblici, ha dapprima ripercorso le tappe
dell’annosa
questione del rinnovo dei contratti pubblici, ricordando
che, in seguito alle modifiche normative introdotte per
effetto dell’art. 23 della legge n. 62/2005, la
giurisprudenza
ha chiarito che la finalità della norma citata era quella di
adeguare l’ordinamento ai principi del diritto comunitario
attraverso un intervento di portata generale diretto a
precludere
la rinnovazione dei contratti pubblici di appalto in
deroga al principio di evidenza pubblica.
Indi, ha precisato
che, su queste basi, l’Autorità aveva già concluso nel senso
che, in seguito a detto intervento, residuavano margini per
la previsione di rinnovi o proroghe solo in forma espressa e
in presenza di determinate condizioni, distinguendo
l’ipotesi
in cui la possibilità di una prosecuzione del rapporto
contrattuale
in seguito alla scadenza sia predeterminata già nell’ambito
del bando e l’ulteriore periodo sia computato ai fini
della quantificazione dell’importo del contratto
(deliberazione
n. 183/2007 e parere n. 242/2008); d’altro canto, ha
precisato altresì l’Autorità, sebbene non possa ritenersi
che
le disposizioni di cui all’art. 29 del codice dei contratti
costituiscano il fondamento dell’istituto della proroga o
del
rinnovo, visto che la norma è diretta a fissare le regole
per la
determinazione dell’importo contrattuale (cfr. deliberazione
n. 34/2011), in base alla richiamata disposizione detto
calcolo “tiene conto dell’importo massimo stimato, ivi
compresa
qualsiasi forma di opzione o rinnovo”. Del resto, anche un
consolidato orientamento giurisprudenziale ritiene che
“laddove
una tale previsione sia contenuta nella lex specialis, essa
potrebbe consentire una limitata deroga al principio del
divieto di
rinnovo, purché con puntuale motivazione l’amministrazione
dia
conto degli elementi che conducono a disattendere il
principio
generale”.
In questo senso, si è espressa la VI sez. del
Consiglio
di Stato (sent. n. 6194/2011) alla quale era stato
sottoposto
il caso di una stazione appaltante che, pur avendo
indicato nel bando la possibilità “prevista dall’art. 7,
secondo
comma, lett. f) del Dlgs n. 157 del 17.03.1995, di
affidare
l’appalto al medesimo contraente per il successivo triennio”
aveva
poi bandito una nuova procedura di evidenza pubblica; in
queste ipotesi, secondo il Consiglio di Stato “se
l’amministrazione
opta per l’indizione della gara, nessuna particolare
motivazione
è necessaria e certamente nessun diritto può riconoscersi
in capo all’aggiudicatario. Non così, invece, se si avvale
della
possibilità di proroga prevista dal bando. Detta ultima
opzione
dovrà essere analiticamente motivata, dovendo essere
chiarite le
ragioni per le quali si sia stabilito di discostarsi dal
principio
generale”.
Più di recente, il Consiglio di Stato (sez. V,
sent. n.
2459/2012) ha anche ribadito che “All’affidamento senza una
procedura competitiva deve essere equiparato il caso in cui
a un
affidamento con gara segua, dopo la sua scadenza, un regime
di
proroga diretta che non trovi fondamento nel diritto
comunitario.
Infatti, le proroghe dei contratti affidati con gara sono
consentite
se già previste ab origine, e comunque entro termini
determinati.
Una volta che il contratto scada e si proceda a una sua
proroga
senza che essa sia prevista ab origine, od oltre i limiti
temporali
consentiti, la proroga è da equiparare a un affidamento
senza
gara (sez. VI, n. 850/2010 cit.)” (deliberazione
10.10.2012 n. 85 - commento tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 11-12/2012
- link a www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI: Parere
dell'Autorità di vigilanza sui lavori pubblici. L'asta web?
Costa.
Il gestore va pagato dalle imprese.
In un'asta elettronica per un appalto
pubblico è legittimo prevedere un compenso da corrispondere
al gestore del sistema informatico scelto
dall'amministrazione che bandisce la gara.
È quanto afferma l'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici nel
parere 12.09.2012 n. 140 reso noto in questi
giorni, relativo all'affidamento da parte di una Asl,
tramite asta elettronica, di un accordo quadro per una
fornitura.
Il punto controverso riguardava la legittimità del
corrispettivo da pagare all'amministratore del sistema
informatico dal momento che la stazione appaltante aveva
incluso, tra i documenti da allegare all'offerta, a pena
d'esclusione, il modello di apposita dichiarazione di
accettazione dell'obbligo di effettuare il pagamento, per
l'ipotesi di aggiudicazione della fornitura. Nella richiesta
di parere si eccepiva anche il fatto che il corrispettivo
fosse commisurato all'importo presunto dell'appalto
(indicato nel bando), benché non vi fosse la certezza di
eseguire la fornitura per l'intero importo. Su questa
materia le norme vigenti ammettono che le amministrazioni si
avvalgano di «un apposito soggetto per la gestione
tecnica dei sistemi informatici di negoziazione», ma
nulla dicono sul corrispettivo.
Su quest'ultimo punto solo l'art. 11, terzo comma, del
decreto legge n. 98 del 2011 ha previsto che, con decreto
del ministero dell'economia e delle finanze, saranno
regolati «i meccanismi di copertura dei costi relativi
all'utilizzo, e degli eventuali servizi correlati, del
sistema informatico di negoziazione, anche attraverso forme
di remunerazione sugli acquisti a carico degli aggiudicatari
delle procedure realizzate».
Premesso che nessun provvedimento ha colmato questa lacuna,
l'Autorità ha ritenuto che non essendo stato ancora emanato
il dm (e in assenza di provvedimenti Provincia autonoma), «deve,
allo stato, ritenersi immediatamente applicabile la
previsione legislativa di principio che consente, in termini
generali, alle stazioni appaltanti di porre a carico
dell'impresa aggiudicataria la remunerazione dei costi di
funzionamento del sistema informatico di negoziazione».
Da ciò deriva, per l'Autorità, anche la legittimità della
clausola inserita dalla Asl che impone ai concorrenti di
corrispondere al gestore informatico un compenso. Il che
significa, che oltre al contributo per la partecipazione
alla gara (previsto per tutti gli appalti e commisurato, in
base a provvedimenti dell'Autorità, al valore del contratto)
un concorrente che partecipa a una procedura gestita tramite
asta elettronica deve anche sborsare un'ulteriore «tassa»
che rappresenta un ulteriore onere di partecipazione.
Infine, per il parere risulta irrilevante anche la
circostanza che il compenso sia stato commisurato
all'importo presunto dell'appalto (indicato nel bando) e che
quest'ultimo possa in concreto risultare superiore al
corrispettivo percepito dall'aggiudicatario
(articolo ItaliaOggi del
27.11.2012). |
QUESITI &
PARERI |
LAVORI PUBBLICI:
Attestazione Soa.
Domanda.
A quali fini è richiesta l'attestazione Soa?
Risposta.
L'attestazione Soa, alla luce del disposto degli articoli 78
e 79 del decreto presidente della repubblica, numero 207,
del 2010, portante il regolamento di attuazione del Codice
dei contratti pubblici, serve a dimostrare la capacità
tecnico-organizzative, oltre a quella economico-finanziaria,
del concorrente in rapporto a prestazioni oggetto
dell'appalto. Essa non può essere surrogata da altro tipo di
attestazione o certificazione ed è, pertanto, un titolo, nel
campo dell'esecuzione di lavori pubblici, rispetto ai quali
viene rilasciata, che riveste il carattere autorizzatorio,
nel senso che i lavori pubblici possono essere eseguiti
soltanto da chi ne sia in possesso. La Soa valuta la
specifica capacità tecnica ed economica necessaria per
l'esecuzione di lavori pubblici e viene rilasciata al
termine di una procedura che valuta la struttura del
concorrente nella sua globalità.
A livello giurisprudenziale, si rimanda alle sentenze del
Tribunale regionale amministrativo (Tar) Basilicata del 03.05.2010, numero 244, di quello della Campania –Salerno,
del 29.04.2011, numero 813 e del 28.07.2011, numero
1398. Si rimanda, pure, alle sentenze del Tribunale
regionale amministrativo (Tar) Marche, Ancona, dell'08.11.2010, numero 3374, di quello del Lazio, Roma,
sezione II-ter, del 22.12.2011, numero 10080. Spunti di
giurisprudenza si trovano nella sentenza del Consiglio di
stato dell'08.10.2011, numero 5496, e nella sentenza del
Tribunale regionale amministrativo (Tar) Sicilia, Catania,
dell'11.04.2011, numero 875 (articolo ItaliaOggi Sette
del 26.11.2012). |
APPALTI SERVIZI: Certificazione di qualità.
Domanda.
L'iscrizione all'albo dei gestori ambientali è sufficiente
per partecipare alla gara per l'affidamento del servizio di
raccolta differenziata e trasporto dei rifiuti solidi
urbani?
Risposta.
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar) Lazio, Roma,
sezione II-ter, con la sentenza del 22.12.2011, numero
10080, ha affermato che l'iscrizione all'albo dei gestori
ambientali di cui all'articolo 212 del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, è requisito di carattere
«soggettivo» e, pertanto, esso non può formare oggetto di avvalimento ai fini della partecipazione alle gare di
appalti pubblici. Di conseguenza, per il predetto Tribunale
regionale amministrativo, deve essere escluso dalla gara per
l'affidamento del servizio di raccolta differenziata e
trasporto dei rifiuti solidi urbani il concorrente che, non
essendone in possesso, abbia dichiarato di volersi avvalere
dell'analoga iscrizione di cui è in possesso un'impresa
ausiliaria.
Detto requisito si distingue dalla certificazione di
qualità, che viene rilasciata in considerazione delle
caratteristiche che sono possedute dall'intera struttura
aziendale nel suo complesso. Caratteristiche che sono
inscindibili da detta struttura aziendale e che, quindi, non
possono essere trasferiti ad altre strutture aziendali.
La predetta certificazione viene rilasciata da un soggetto
esterno verificatore all'impresa, terzo e indipendente
(detto organismo di certificazione), all'uopo autorizzato.
Esso deve fornire attestazione scritta sull'attività
soggetta a valutazione, certificando che l'attività
esaminata opera con requisiti conformi alle norme tecniche.
Deve pure garantire la validità nel tempo di quanto
certificato, con l'impegno ad espletare adeguata
sorveglianza (articolo ItaliaOggi Sette del
26.11.2012). |
CONDOMINIO - EDILIZIA
PRIVATA:
Barriere architettoniche.
Domanda
Sono amministratore di un condominio nel quale alcuni
condomini hanno richiesto di installare un ascensore, taluni
sono favorevoli e altri no. Dobbiamo discuterne in una
prossima assemblea e riterrei utile avere informazioni sullo
stato della giurisprudenza.
Risposta
La recente sentenza della Corte di cassazione n. 18334/2012
(alla cui lettura, con i richiami giurisprudenziali in essa
contenuti, facciamo rinvio) è molto interessante ai fini in
questione poiché approfondisce anche il senso del rapporto
tra l'art. 1120 c.c. e le norme contro le barriere
architettoniche, in primis artt. 2 e 3 della legge n. 13/1989.
La sentenza ribadisce che per l'applicabilità del 1° comma
dell'art. 2 della legge n. 13/1989 (con i suoi quorum ridotti)
è irrilevante la presenza o meno di invalidi nel condominio
in quanto la norma è volta a consentirne l'accesso, senza
difficoltà, in tutti gli edifici e non solo presso la loro
abitazione, mentre il 2° comma consente di provvedere
direttamente alle opere in caso di rifiuto del condominio.
La sentenza chiarisce poi (rispetto alle limitazioni
previste dall'art. 1120, 2° c., fatte salve dall'art. 2, 3°
comma della legge n. 13/1989) che il giudice (e prima ancora i
condomini), per valutare se le opere determinino un
pregiudizio al decoro architettonico, oltre ad accertare se
esso sia effettivamente leso, deve valutare anche se tale
lesione determini o meno un deprezzamento dell'intero
fabbricato (non solo di alcuni appartamenti, il che non
sarebbe ragione ostativa sufficiente a precludere
l'intervento), essendo invece lecito il mutamento estetico
che non cagioni un pregiudizio economicamente valutabile o
che, pur arrecandolo, si accompagni a un'utilità che
compensi l'alterazione architettonica che non sia di grave e
appariscente entità, ciò che succede ancor più se le opere
sono interne all'edificio.
La sentenza richiama anche l'applicabilità del principio di
solidarietà condominiale (sent. 12520/2010) che impone di
accertare se le norme in tema di vicinato siano compatibili
con la concreta struttura dell'edificio condominiale o non
siano invece irragionevoli, e quindi da disapplicare, nel
contemperamento di vari interessi, ancor più se in gioco vi
siano i diritti fondamentali dei disabili, tutelati sempre
di più dalla legislazione degli ultimi decenni.
Lo stesso dicasi per la valutazione dell'eventuale minore
servibilità delle parti comuni, che non può prevalere
qualora si traduca in un semplice maggior disagio, dovendosi
avere una reale inservibilità ai fini e per gli effetti
dell'art. 1120, 2° comma, cod. civ.
Infine, sul tema della sicurezza (nel caso esaminato dalla
sentenza si era eccepito che l'ascensore rendeva
difficoltoso il passaggio di soccorsi dalle scale) occorre
operare un confronto delle condizioni ante e post operam al
fine di accertare se le opere possano determinare o meno una
lesione di tale aspetto (articolo ItaliaOggi Sette del
26.11.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Il
D.M. n. 161/2012 disciplina anche le terre e rocce da scavo
provenienti dai cantieri di piccole dimensioni?
(23.11.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
LAVORI PUBBLICI
- URBANISTICA:
Comune di Monterotondo - Parere in merito alla procedura
da applicare al piano delle alienazioni e valorizzazioni
immobiliari di cui all'art. 58 del decreto legge 112/2008
che comporti variante urbanistica (Regione Lazio,
parere 29.10.2012 n. 423230 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Tuscania - Parere in merito alla possibilità di
realizzare gli interventi previsti in un accordo di
programma del 2002 non attuato (Regione Lazio,
parere 11.06.2012 n. 189430 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Parere in materia di competenza sulla vigilanza su beni
gravati da vincolo del Ministero dei Beni Culturali
(Regione Lazio,
parere 29.05.2012 n.
235897 di prot.). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI: Sostituzione
di personale cessato nel 2012.
La Corte dei Conti, sezione regionale Lombardia, con il
parere 08.11.2012 n. 476,
risponde al Comune di Liscate che -a fronte di una
cessazione di personale intervenuta nel 2012 e del prossimo
assoggettamento dell'ente (dal 2013) alle regole del patto
di stabilità- chiede se per la sostituzione della dipendente
cessata sia possibile:
- nel 2012, procedere a nuova assunzione attingendo da
graduatoria;
- in alternativa, sempre nel 2012, procedere a nuova
assunzione attingendo alla medesima graduatoria concorsuale,
in quanto l'assunzione e a cessazione della dipendente si
sono verificate, entrambe, in corso d'anno;
- nel 2013, procedere all'assunzione calcolando il limite
del 40% della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno
precedente su base annuale e non solo per l'effettiva durata
del rapporto di lavoro della dipendente dimissionaria (due
mesi).
La sezione premette che la decisione di assumere personale
mediante procedura concorsuale o mediante ricorso alle
procedure di mobilità è rimessa alla discrezionalità degli
organi cui è demandata la gestione dell'ente;
successivamente, esplicita le seguenti indicazioni:
- "... si osserva che la cessazione anticipata del
rapporto di pubblico impiego è avvenuta a seguito della
manifestazione di volontà dell'interessato, in costanza di
procedure di assunzione già perfezionate. Soltanto la
mancata presa di servizio o la carenza d'immissione in
possesso dell'ufficio, condurrebbero all'incompletezza della
procedura di reclutamento del pubblico impiegato, tale da
evitare il verificarsi di una cessazione";
- "... l'interruzione anticipata del rapporto per
dimissioni volontarie non può che generare una cessazione
del rapporto di lavoro e dunque l'impossibilità di attingere
alla graduatoria del concorso per scorrimento in favore del
concorrente utilmente classificato, perché ciò presuppone in
linea generale la mancata assunzione del vincitore, ovvero
il verificarsi di ulteriori vacanze di organico successive
alla conclusione della procedura di reclutamento nei
ristretti termini di legge e in assenza di una disciplina di
divieto di sostituzione immediata del dipendente cessato";
- "... il particolare regime vincolistico imperniato sul
meccanismo del turn over frazinale, con effetto cronologico
differito all'anno successivo alla cessazione del
dipendente, è applicabile tanti agli enti locali non ancora
sottoposti al Patto di stabilità ai sensi dell'art. 1, comma
562, della legge 27.12.2006, n. 296, quanto agli enti locali
sottoposti al Patto di stabilità ai sensi dell'art. 14 del
D.L. 31.05.2010, n. 78, convertito nella legge 30.07.2010,
n. 122";
- "Per l'anno 2012, la sostituzione del personale è
riferita alle cessazioni verificatesi nell'anno precedente
(2011), pertanto il comune non è nelle condizioni di
applicare l'art. 1, comma 562, della legge 27.12.2006, n.
296";
- "Per l'anno 2013, alla luce del mutamento di regime
vincolistico, l'art. 14, comma 9, del citato decreto legge
31.05.2010, n. 78, oltre al rapporto percentuale fra le
spese di personale sulle spese correnti (50 per cento) ai
fini della possibilità di assunzione di dipendenti a
qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale,
ha previsto che gli enti locali (superiori a 5.000 abitanti)
possono procedere ad assunzioni di personale nel limite del
40 per cento della spesa corrispondente alle cessazioni
dell'anno precedente";
- "Ed è proprio tale sistema che impedisce al comune
richiedente il parere di attingere tout court allo
scorrimento della graduatoria per rimpiazzare il dipendente
dimissionario. Soluzione altrimenti praticabile qualora il
vincolo alle assunzioni per l'ente locale fosse riferito al
solo contenimento delle risorse economiche da impegnare per
le spese di personale";
- "Il permanere degli effetti giuridici della graduatoria
concorsuale potrà essere utilizzato dall'amministrazione
comunale qualora la medesima si trovi nella condizione di
assumere personale, essendo in linea con i parametri di
incidenza delle spese di personale sulle spese correnti e
con il vincolo del 40 per cento degli assumibili da turn
over";
- "Nello specifico, il comune potrà calcolare il limite
del 40% della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno
precedente su base annuale e non sul costo effettivamente
sostenuto nel caso di specie (due mesi), atteso che appare
conforme ai criteri di sana gestione finanziaria che la
spesa impegnata per le assunzioni abbia una base di calcolo
annuale e non risenta degli avvenimenti infrannuali che
incidono sul rapporto di lavoro individuale";
- "Infine, per il residuo periodo dell'anno in corso, il
comune richiedente può sostituire il personale cessato
unicamente mediante ricorso alla mobilità, anche
intercompartimentale, fra enti pubblici che soggiacciono
alla medesima disciplina vincolistica" (tratto da www.publika.it). |
APPALTI SERVIZI:
Servizi pubblici locali - Rinnovo
senza gara dell’affidamento
diverso per oggetto, durata e corrispettivo -
Danno
erariale - Sussiste.
C’è danno erariale nel rinnovo senza gara,
e a condizioni diverse, dell’affidamento di un
servizio pubblico locale a una società mista.
Con la decisione in rassegna, i giudici contabili lombardi
hanno accolto l’azione di responsabilità per il danno
derivante
a un comune dall’adozione della deliberazione consiliare
inerente all’affidamento diretto di servizi pubblici locali
a una società a capitale misto pubblico privato, perché in
contrasto con le regole dell’evidenza pubblica.
Nella specie, la predetta delibera consiliare aveva,
sostanzialmente,
previsto un rinnovo (novazione) del contratto
già in essere e integrato una ipotesi di (nuovo e ulteriore)
affidamento diretto, in violazione delle regole
dell’evidenza
pubblica, imposte in materia di servizi pubblici locali dal
citato art. 113, comma 5, Dlgs n. 267/2000, nel testo in
vigore all’epoca dei fatti.
Ad avviso della sezione lombarda, lo svolgimento di una
procedura pubblica di selezione del socio privato (avvenuta
diversi anni prima), non autorizzava dunque il successivo
affidamento diretto del servizio notevolmente
ampliato
nell’oggetto, nel corrispettivo e nella durata alla
società
mista, in deroga alle regole che impongono la gara ai fini
dell’affidamento del servizio medesimo. In simili casi,
peraltro,
il danno rilevante non è quello “alla concorrenza”,
riferendosi
questo, più correttamente, al danno subito dalle
imprese illegittimamente escluse dall’aggiudicazione della
gara, i cui interessi sono tutelabili dinanzi al giudice
amministrativo,
bensì è danno all’erario conseguente alla violazione
delle norme imperative, comunitarie e nazionali che
disciplinano le modalità di affidamento, a tutela della
concorrenza,
con conseguente nullità del contratto e illiceità di
qualsiasi pagamento eccedente l’arricchimento senza causa.
Di qui, la conclusione nel senso della radicale nullità del
contratto stipulato in esecuzione della delibera consiliare,
con conseguente danno per il comune, che, avendo le
prestazioni dedotte in contratto avuto comunque regolare
esecuzione, deve essere limitato ai soli pagamenti eccedenti
l’arricchimento senza causa e dunque all’utile d’impresa,
tenuto conto dell’art. 2041 del codice civile (Corte dei Conti,
Sez. giurisdiz. Lombardia,
sentenza
24.10.2012 n. 427 - commento tratto da Diritto e
Pratica Amministrativa n. 11-12/2012 - link a
www.corteconti.it).). |
ENTI LOCALI -
VARI: Corte
conti Campania esclude la responsabilità erariale. Multe
illegittime, il sindaco non paga.
Le multe elevate dagli ausiliari della sosta possono essere
annullate se il controllore con la pettorina gialla non è
posto alle dirette dipendenze della società di gestione dei
parcheggi. Ma questa irregolarità formale non determina
necessariamente anche una responsabilità amministrativa del
sindaco e del comandante dei vigili.
Lo ha chiarito la Corte dei Conti, Sez.
Campania, con la
sentenza 23.10.2012 n. 1629.
Il
comune di Castellamare di Stabia ha affidato a una propria
società in house il servizio di parcheggio negli spazi
comunali che a sua volta è ricorsa ad ente associato in
partecipazione per il reperimento di 28 ausiliari del
traffico, successivamente confermati e nominati
dall'amministrazione comunale in base all'art. 17/132 e 133
della legge 127/1997.
Il giudice di pace di Castellamare ha quindi ritenuto
illegittimo il conferimento di questi poteri e per questo
motivo ha annullato decine di contravvenzioni procurando un
ammanco contabile nelle casse comunali di quasi 20 mila
euro.
La procura regionale dei giudici contabili, successivamente
a queste determinazioni, ha citato a giudizio per il ristoro
dei danni erariali sia l'amministrazione comunale sia i
vertici della società municipalizzata, ma senza successo.
Nonostante risulti evidente che i provvedimenti assunti dal
comune di Castellamare di Stabia e dalla società
municipalizzata a totale capitale pubblico, specifica la
sentenza, «abbiano determinato una serie di contenziosi
conclusosi sfavorevolmente con l'accertamento incidentale
dell'illegittimità dei provvedimenti assunti, il collegio
ritiene tuttavia che non sia ravvisabile, nel caso di
specie, una responsabilità gravemente colposa».
La possibilità per i gestori dei parcheggi di avvalersi dei
dipendenti di un ente associato in partecipazione è
controversa perché la prestazione lavorativa di fatto
risulta comunque indirizzata verso l'ente associante che la
fa propria a tutti gli effetti. Il comune inoltre ha
regolarmente verificato in capo a tutti gli ausiliari
assunti la presenza degli altri requisiti necessari alla
nomina e pertanto non può ritenersi gravemente colposa la
responsabilità del primo cittadino e del comandante dei
vigili. Nonostante l'assoluzione già da vari anni anche gli
ausiliari del traffico del comune campano sono però stati
posti alle dirette dipendenze dell'azienda comunale
(articolo ItaliaOggi del
30.11.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Indennità
di funzione degli amministratori
locali - Determinazione
dell’importo in
misura inferiore a quella legislativamente imposta -
Legittimità -
Limiti
di applicabilità.
L’indennità di funzione agli amministratori
locali stabilita per un esercizio in misura
inferiore al limite posto dalla legge non
vincola il comune per il futuro.
Un sindaco ha chiesto lumi in merito alla corretta
determinazione
delle indennità di funzione degli amministratori
locali, qualora l’importo dell’indennità venga determinato
in misura inferiore rispetto al limite derivante dalla
riduzione
legislativamente disposta e in particolare se questa
decisione vincoli l’ente anche per il futuro o se si possa
successivamente riportare l’indennità entro i limiti
previsti
dalla legge.
Il Collegio, ha risolto il quesito posto affermando che a
far
data dal 2008, essendo stata esclusa qualsiasi possibilità
di
modifica delle indennità a seguito dell’emanazione del Dl n.
112 del 25.06.2008, convertito nella L. n. 133/2008, le
delibere contenenti eventuali riduzioni, fissate in maniera
superiore a quelle dettate dal legislatore, sono da
intendersi
come rinunce volontarie a una parte dell’indennità, le quali
non hanno alcuna influenza sugli esercizi successivi (Corte dei
Conti, Sez. reg. controllo Piemonte,
parere 06.07.2012 n.
278 - commento tratto da Diritto e
Pratica Amministrativa n. 9/2012). |
NEWS |
APPALTI: DECRETO
CRESCITA/ Gli emendamenti dei relatori in commissione al senato. Responsabilità solidale addio.
L'impresa autocertificherà che il fornitore è in regola.
Sterilizzata la responsabilità solidale nei contratti di
appalto e subappalto: al committente basterà autocertificare
che i subappaltatori e fornitori sono in regola con il
pagamento di tasse e contributi e ciò eviterà la
responsabilità solidale.
Non solo. Anche le società di revisione potranno attestare
la regolarità della posizione dell'appaltatore (o
subappaltatore). Via libera alla preventiva escussione del
patrimonio del responsabile delle irregolarità e ampliamento
dell'esclusione dalle nuove regole ai contratti stipulati ai
sensi del codice dei contratti pubblici.
Questo il contenuto
di un emendamento messo a punto dai relatori Simona Vicari (Pdl)
e Filippo Bubbico (Pd) al dl crescita 2.0 (179/2012) in
commissione industria al Senato, che sarà votato la
settimana prossima e che prevede l'entrata in vigore delle
modifiche dal 01.01.2013.
L'autocertificazione
L'emendamento introduce nel testo di legge quanto già in
parte ammesso in via amministrativa dalla circolare 40
dell'agenzia delle entrate. Si prevede infatti il venir meno
della responsabilità solidale, e anche, ai sensi dell'ultima
parte del comma 28-bis, della responsabilità sanzionatoria
prevista per il committente, qualora sia possibile
dimostrare il regolare versamento di ritenute e Iva anche
attraverso il rilascio da parte dal responsabile
dell'adempimento di una dichiarazione sostitutiva di atto
notorio «attestante la correttezza dei versamenti delle
ritenute sui redditi dei lavoratori dipendenti impiegati
nell'ambito dell'appalto e, per le prestazioni rese nel
medesimo ambito, della corrispondente Iva dovuta sulle
stesse».
Oltre a ciò l'emendamento collega i medesimi effetti anche
alla documentazione rilasciata da una società di revisione.
L'aver previsto per legge ciò che fino ad oggi lo era solo
in forza di una presa di posizione della prassi è positivo,
ma visto che si interveniva valeva la pena eliminare i dubbi
che rendono anche questo punto non del tutto chiaro. In base
alla norma l'autocertificazione deve attestare «la
correttezza dei versamenti» ma nulla dice nel caso in cui
tali versamenti non siano stati effettuati non in forza di
un comportamento irregolare ma solo in quanto non dovuti.
Gli esempi sono quelli in cui i termini di versamento
dell'Iva o delle ritenute sono successivi a quello del
pagamento, o anche quello in cui a fronte delle fatture
emesse non vi è Iva da versare in quanto il periodo si
chiude con un credito d'imposta. La locuzione che poteva
coprire tale situazioni sarebbe stata quella che richiamava
la necessità di attestare i versamenti qualora dovuti e in
caso contrario la regolarità del comportamento tenuto fino a
quel momento.
Nonostante nemmeno l'emendamento abbia messo
in chiaro tali situazioni, l'unica tesi possibile è che in
mancanza di un obbligo di versamento (si pensi alla chiusura
a credito della liquidazione Iva) devi ritenersi sufficiente
ai fini dell'esonero dalla responsabilità solidale o
sanzionatoria un autocertificazione che attesti la
regolarità del comportamento.
La preventiva escussione
L'emendamento introduce nel caso di responsabilità solidale
dell'appaltatore la possibilità di eccepire la preventiva
escussione. Anche questo è un segnale positivo che non
eviterà problemi nella pratica. Se stessa è da intendere
come la possibilità per il responsabile solidale
semplicemente di eccepire la necessità di una preventiva
escussione prima di dover rispondere allora la previsione
potrebbe cogliere nel segno. Ma se invece il responsabile
solidale potrà eccepire la preventiva escussione dovendo
anche indicare i beni del patrimonio del debitore sui quali
l'amministrazione potrà soddisfarsi, allora è lecito
avanzare dubbi sul fatto che anche ciò rappresenti una reale
forma di tutela.
Da accogliere positivamente e senza dubbi è
invece la previsione che porta a eliminare il termine
«fornitura» dal comma 28-ter, che in precedenza rendeva
l'ambito oggettivo di applicazione incerto (nel comma 28 si
faceva riferimento ai contratti di appalto di opere e
servizi mentre nel successivo a quelli di appalto di opere,
forniture e servizi.
I contratti pubblici
Ultima modifica introdotta riguarda l'estensione
dell'esclusione della normativa non più solo alle stazioni
appaltanti ma anche agli «enti aggiudicatori» da intendere
come le amministrazioni aggiudicatrici, le imprese
pubbliche, e i soggetti che, non essendo amministrazioni
aggiudicatrici o imprese pubbliche, operano in virtù di
diritti speciali o esclusivi concessi loro dall'autorità
competente secondo le norme vigenti
(articolo ItaliaOggi dell'01.12.2012). |
APPALTI SERVIZI: DECRETO
CRESCITA/ Un freno alle assunzioni e i project bond tra le novità. Dietrofront sui servizi locali.
Eliminato il tetto dei 200 mila euro per l'in house.
Eliminato il tetto dei 200 mila euro per gli affidamenti in
house di servizi pubblici previsto per il 2014 e quindi
basterà rispettare le norme e la giurisprudenza comunitaria
per gestire in house un servizio pubblico; previsto il
divieto di assunzione del personale per le società
controllate se la spesa per il personale della controllata
affidataria di un servizio pubblico locale incide per più
del 50% rispetto alla spesa corrente dell'amministrazione
controllante; previsti i project bond anche per realizzare,
potenziare o gestire un impianto o una infrastruttura
destinata a pubblico servizio. Sono queste alcune delle
novità previste per la disciplina dei servizi pubblici
locali e non dagli emendamenti dei relatori al decreto legge
179/2012 sulla crescita.
La più rilevante modifica riguarda l'ennesimo revirement
normativo sulla disciplina degli affidamenti in house di
servizi pubblici locali: Si propone infatti l'eliminazione
del limite massimo dell'importo di affidamento, pari a 200
mila euro, entro il quale era prevista, dall'articolo 8,
comma 4 del decreto-legge 95/2012 (convertito nella legge
135, cosiddetta spending review), la possibilità di
procedere ad affidamenti in house a società interamente
pubbliche.
La norma di agosto stabilisce che da inizio 2014 in house si
possano affidare servizi pubblici soltanto nel rispetto
della giurisprudenza comunitaria e del citato limite: con
l'emendamento sarà invece sufficiente rispettare i limiti
dell'ordinamento comunitario.
Il che significa nella sostanza, non cambiare in alcun modo
il quadro di riferimento precedente all'introduzione del
limite. Si prevede inoltre che gli affidamenti in essere non
conformi ai requisiti comunitari devono essere adeguati
entro il termine del 31.12.2013 pubblicando, entro la
stessa data, una relazione che dia conto delle ragioni e
della sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento
europeo.
Per gli affidamenti senza data di scadenza occorrerà
inserire nel contratto di servizio o negli altri atti che
regolano il rapporto un termine di scadenza
dell'affidamento; in caso di mancato inserimento del termine
si prevede la cessazione ex lege entro fine 2013.
Sul fronte delle spese per il personale delle società a
partecipazione pubblica locale totale o di controllo,
titolari di affidamento diretto di servizi pubblici locali
senza gara, ovvero che svolgono funzioni volte a soddisfare
esigenze di interesse generale aventi carattere non
industriale, ne commerciale, ovvero che svolgono attività
nei confronti della pubblica amministrazione a supporto di
funzioni amministrative di natura pubblicistica, si richiama
il vincolo generale a non assumere in caso di spesa per il
personale superiore al 50% delle spese correnti, ma lo si
rende più incisivo. Infatti si stabilisce che se l'incidenza
della spesa del personale sulla spesa corrente
dell'amministrazione controllante, supera il 50% delle spese
correnti, l'amministrazione controllante deve imporre un
divieto all'assunzione di personale, divieto che oggi non è
previsto. Introdotto anche il vincolo di contenimento sulle
consulenze per rispettare il vincolo del 50%
Se l'incidenza è invece inferiore al 50% si potrà procedere
a nuove assunzioni entro il limite del 40% della spesa
corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente. Una
certa perplessità su queste nuove modifiche arriva dall'Anci
che, con Filippo Bernacchi, delegato Anci alle politiche
energetiche e ai rifiuti, così commenta l'intervento
modificativo: «Spero in un ravvedimento di Governo e
Parlamento perché se si continua di questo passo non si avrà
mai un quadro stabile, certo e definito, con le
amministrazioni che continueranno a essere in bilico in
quanto fra un provvedimento e l'altro, posso trovarsi in
regola oppure essere in difetto».
Importante anche l'estensione dell'ambito di applicazione
della disciplina dei project bond anche per realizzare,
potenziare o gestire un impianto o una infrastruttura
destinata a pubblico servizio
(articolo ItaliaOggi dell'01.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI: Ampliata
la chance dei crediti d'imposta per i partenariati pubblico-privati. Chi vince la gara paga la pubblicazione del
bando.
I costi della pubblicazione sui quotidiani dei bandi e degli
avvisi di gare di appalto pubblico saranno a carico di chi
vince la gara; ampliata la possibilità dei crediti di
imposta per i Ppp (Partenariati pubblico-privati), possibile
per interventi oltre i 100 milioni e per le reti Ngn di
importo inferiore a 100 milioni; chiarito che saranno
certificabili anche i crediti vantati dai professionisti
verso le Amministrazioni.
Sono queste alcune delle novità contenute negli emendamenti
presentati dai relatori del decreto-legge 179 (c.d.
«crescita 2»).
Una prima rilevante novità riguarda i costi per la
pubblicità legale dei bandi e degli avvisi di gara. Si
prevede infatti che per i bandi e gli avvisi pubblicati
successivamente al 01.01.2013 le spese
(pubblicazione per estratto sui quotidiani, ex art. 66,
comma 2 del codice dei contratti pubblici) debbano essere
rimborsate alla stazione appaltante dall'aggiudicatario,
entro il termine di 60 giorni dall'aggiudicazione. Il costo
di pubblicazione, noto al momento della gara, verrebbe
quindi ad essere caricato sull'affidatario del contratto,
sostanzialmente riducendo anche l'utile di un appalto.
Novità anche per il credito di imposta relativo ai contratti
di partenariato pubblico-privato (deve trattarsi sempre di
interventi la cui progettazione definitiva sia stata
approvata entro il 31.12.2015 e per i quali non sono
previsti contributi pubblici a fondo): l'emendamento dei
relatori in primo luogo amplia sensibilmente il raggio di
azione della norma: se nel testo del decreto-legge
l'utilizzabilità del credito era prevista per interventi di
valore superiore a 500 milioni, adesso nella proposta dei
relatori, la norma si potrà applicare al di sopra dei 100
milioni, andando quindi a intercettare anche project finance
di minore importo.
Inoltre è previsto che la norma sia
applicabile anche per progetti finalizzati allo sviluppo
delle reti Ngn (le cosiddette «reti di prossima
generazione») sul territorio nazionale, di importo inferiore
a 100 milioni di euro Dal punto di vista tecnico-operativo,
poi, si prevede che il credito non sia più «a valere» su Ires e Irap, ma «utilizzabile in compensazione
esclusivamente dei versamenti relativi sull'Ires e
sull'Irap». Un'altra norma degli emendamenti stabilisce che
i crediti non prescritti, certi, liquidi ed esigibili, di
cui all'articolo 13 della legge n. 183 del 2011 e
all'articolo 31 del decreto-legge n. 78 del 2010, maturati
per somministrazione, forniture e appalti sono interpretati
nel senso di includere anche le somme spettanti quale
corrispettivo per prestazioni professionali eseguite da un
professionista iscritto ad albo o collegio.
La disposizione
incide sulla disciplina che consente -su istanza del
creditore di somme dovute per somministrazioni, forniture e
appalti- alle regioni e agli enti locali di certificare al
creditore la cessione pro soluto a favore di banche o
intermediari finanziari. In sostanza quindi si interviene
con una norma di carattere interpretativo, cautelativamente,
per evitare che le prestazioni rese dai professionisti
possano essere ritenuti non ricomprese nell'ambito di
applicazione oggettivo della norma.
L'emendamento dei relatori prevede che per la progettazione
e la realizzazione di interventi infrastrutturali nel
settore ferroviario sia Rfi il soggetto destinatario dei
fondi da assegnare con le delibere Cipe.
Si introduce una sanzione «a titolo di danno alla
produzione», commisurata a una percentuale che dovrà essere
stabilita dal Mef, per le stazioni appaltanti che non
prevedono nei capitolati di appalto il divieto di utilizzare
prodotti originari di paesi terzi per più del 50% del valore
della fornitura. Viene prevista anche la possibilità di
trasferimento a titolo gratuito compendio costituente
l'Arsenale di Venezia al Comune di Venezia, che ne assicura
l'inalienabilità, la valorizzazione, il recupero e la
riqualificazione, in questa operazione sarà possibile anche
realizzare, fra gli altri, il Centro operativo e servizi
accessori del Sistema Mose e sarà consentito destinare a
titolo oneroso parti del compendio per finalità diverse
dalla gestione del Mose
(articolo ItaliaOggi dell'01.12.2012). |
APPALTI: In
gara l'azienda a credito, ma per pagare gli arretrati.
Le imprese in difficoltà per i ritardati pagamenti delle
p.a. potranno aggiudicarsi gli appalti pubblici, ma per
lavorare e pagare tasse e contributi arretrati.
Lo
stabilisce il maxiemendamento dei relatori al ddl
conversione del dl sviluppo (n. 179/2012), affidando a un
decreto interministeriale la previsione di una disciplina
che: a) riconosca la possibilità alle imprese non in
possesso di Durc di partecipare agli appalti pubblici; b)
fissi criteri e modalità per il pagamento da parte delle
stazioni appaltanti agli enti previdenziali e all'Agenzia
delle entrate del debito dalle stesse imprese maturato.
Il Durc, inoltre, fa ritorno alla carta. Gli operatori
economici, infatti, avranno facoltà di produrre su carta il
documento di regolarità contributiva, così sollevando le
amministrazioni dall'obbligo di doverlo acquisire per mezzo
di strumenti informatici.
Sì agli appalti pubblici, ma per pagare i debiti. Disco
verde dunque alla partecipazione agli appalti pubblici, per
le imprese non in possesso di Durc per ritardati pagamenti
dello stato. Le regole sono affidate a un decreto
interministeriale (economia, lavoro, trasporto, sviluppo
economico) che dovrà arrivare entro 60 giorni dall'entrata
in vigore della legge di conversione del dl n. 179/2012.
La
disciplina dovrà definire le misure per consentire la
partecipazione alle procedure di affidamento, per la
fornitura di beni e servizi e per la realizzazione di
lavori, alle imprese che non sono in possesso, alla data di
entrata in vigore della predetta legge di conversione, del
documento unico di regolarità contributiva in ragione di
comprovate difficoltà economiche e finanziarie dovute anche
a ritardati pagamenti da parte della pubblica
amministrazione e che, per tali ragioni, risultino debitrici
nei confronti degli enti previdenziali e assistenziali e
dell'Agenzia delle entrate. Non tutte le imprese ne
beneficeranno, ma soltanto quelle che non sono mai state
fatte oggetto di provvedimenti per fatti riconducibili a
condotte illecite volte a evadere gli obblighi fiscali,
previdenziali e contributivi.
Lo stesso decreto, inoltre,
dovrà altresì definire:
a) i criteri e le modalità per il pagamento da parte delle
stazioni appaltanti agli enti previdenziali e assistenziali
e all'Agenzia delle entrate del credito maturato nei
confronti delle predette imprese, comprensive di ogni
sovrattassa e sanzione, a valere sugli importi definiti con
i certificati di pagamento concernenti l'esecuzione di
prestazioni relative alle procedure di affidamento di cui le
stesse imprese risultino aggiudicatarie;
b) i criteri e le modalità per garantire il totale recupero
dei crediti vantati dagli enti previdenziali e assistenziali
e dell'Agenzia delle entrate nei confronti delle predette
imprese e la loro continuità operativa.
Il Durc ritorna alla carta. La regolarità contributiva potrà
nuovamente essere certificata direttamente dall'impresa.
Infatti, il maxiemendamento modifica il dpr n. 207/2010 e il dlgs n. 163/2006 al fine di dare facoltà, agli operatori
economici (negli appalti pubblici), di produrre
autonomamente il Durc, così evitando che lo stesso venga
acquisito d'ufficio. La novità si ripercuote, evidentemente,
anche sulle modalità che oggi sono previste per la stampa
del certificato.
Il maxiemendamento, a tal fine, modifica
l'articolo 40 del dpr n. 445/2000 (solo un anno fa
modificato dalla legge n. 183/2011, la legge di stabilità
per il 2012), al fine di stabile che sulle certificazioni da
produrre ai soggetti privati sia apposta, a pena di nullità,
la dicitura «il presente certificato non può essere prodotto
agli organi della pubblica amministrazione o ai provati
gestori di pubblici servizi, a esclusione delle ipotesi di
richiesta da parte degli operatori economici interessati al
documento unico di regolarità contributiva» (questa la
novità). Infine, la possibilità di produrre il Durc su carta
è estesa anche per il pagamento degli stati di avanzamento
dei lavori e dello stato finale dei lavori
(articolo ItaliaOggi dell'01.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Il
piano delle performance diventa obbligatorio per i comuni.
Un carico di burocrazia sugli atti di gestione degli enti
locali. Oltre al Piano esecutivo di gestione si configura
l'obbligo di adottare un doppione: il piano della
performance, previsto dalla legge Brunetta.
Gli emendamenti
alla legge di conversione del dl 174/2012 rischiano di
rendere confusionario il quadro delle attività di controllo
e di programmazione di comuni e province. In particolare, un
emendamento all'articolo 3, comma 1, lettera g) del decreto
prevede di aggiungere all'articolo 169 del dlgs 256/2000 un
comma 3-bis ai sensi del quale «il piano esecutivo di
gestione è deliberato in coerenza con il bilancio di
previsione e con la relazione previsionale e programmatica.
Al fine di semplificare i processi di pianificazione
gestionale dell'ente, il piano dettagliato degli obiettivi
di cui all'articolo 108, comma 1, e il piano della
performance di cui all'articolo 10 del decreto legislativo
27.10.2009, n. 150, sono unificati organicamente nel
piano esecutivo di gestione».
La prima parte
dell'emendamento, che consente di unificare il piano
esecutivo di gestione (che aggancia le attività da svolgere
alle risorse finanziarie) col piano dettagliato degli
obiettivi è sostanzialmente inutile. I due atti di
pianificazione vengono da sempre gestiti come un unico
elemento, distinto in due sezioni dalla gran parte degli
enti locali. La seconda parte rischia di creare lavoro
pedante e inutile, laddove richiama come adempimento
obbligatorio l'approvazione del piano della performance,
previsto dall'articolo 10 del dlgs 150/2009.
Con
l'emendamento si potrebbe configurare come obbligatorio per
gli enti locali un articolo della riforma Brunetta che essa
stessa riforma ha escluso applicarsi direttamente
all'ordinamento di comuni e province. Gli articoli 16, 31 e
74 della riforma Brunetta, posti a indicare quali norme si
applichino almeno come principi agli enti locali nemmeno
menzionano l'articolo 10 del dlgs 150/2009. E non si tratta
di un caso. Il piano della performance, previsto da detto
articolo 10 è «un documento programmatico triennale, da
adottare in coerenza con i contenuti e il ciclo della
programmazione finanziaria e di bilancio, che individua gli
indirizzi e gli obiettivi strategici e operativi e
definisce, con riferimento agli obiettivi finali e intermedi
e alle risorse, gli indicatori per la misurazione e la
valutazione della performance dell'amministrazione, nonché
gli obiettivi assegnati al personale dirigenziale e i
relativi indicatori».
Tale piano della performance è
espressamente dedicato alle sole amministrazioni statali,
perché solo per esse è innovativo. I suoi contenuti sono già
e da moltissimi anni previsti in due atti di programmazione
degli enti locali: la relazione previsionale e programmatica
e il piano esecutivo di gestione. Per altro, l'articolo 10
del dlgs 150/2009 prevede anche una scadenza per l'adozione
del piano della performance, il 31 gennaio di ogni anno,
assolutamente incompatibile con gli ordinari termini di
approvazione dei bilanci e del Peg degli enti locali. Un
doppione che è auspicabile non venga inserito
nell'ordinamento locale e comunque, solo facoltativo
(articolo ItaliaOggi dell'01.12.2012). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Il
controllo strategico sotto il dg crea un cortocircuito
organizzativo.
Un cortocircuito organizzativo e istituzionale. Il disegno
di legge di conversione del dl 174/2012 rischia di creare
inestricabili problemi operativi incidendo sull'autonomia
dei segretari comunali e dei dirigenti, oltre che creando
nuovi elementi di rivalità tra i segretari e i direttori
generali.
Gli emendamenti inseriscono al comma 2
dell'articolo 147-ter del dlgs 267/2000 la previsione
secondo la quale l'unità addetta al controllo strategico «è
posta sotto la direzione del direttore generale, laddove
previsto, o del segretario comunale negli enti in cui non è
prevista la figura del direttore generale». Sono state così
accolte le lagnanze dei (pochissimi) direttori generali
degli enti locali, i quali avevano chiesto a gran vice che
la norma specificasse la loro preposizione al controllo
strategico. Quasi che il controllo strategico e la sua
direzione costituiscano una posizione di privilegio o
superiorità gerarchica, i direttori generali hanno ottenuto
questo riconoscimento espresso delle loro funzioni, a
scapito dei segretari comunali.
Una scelta discutibile,
quella del legislatore, perché dà appunto la sensazione che
il controllo strategico (forse a causa dell'aggettivo
altisonante) risulti una funzione di natura apicale, mentre
altro non è che la congiunzione tra la programmazione
politica di mandato e le relazioni revisionali e
programmatica triennali. Inoltre, si attribuisce un rilievo
a una figura, quella del direttore generale, in via di
estinzione, già eliminata in tutti i comuni con meno di 100
mila abitanti e oggettivamente vista come un doppione, anche
per effetto proprio del dl 174/2012 che certamente rilancia
il peso del segretario comunale.
Un rilancio anche oltre
misura, almeno a causa sempre degli emendamenti al disegno
di legge di conversione. I quali, se approvati, creano
ragioni di complicazione e attrito anche tra segretari e
dirigenti, con la possibilità di accrescere l'ingerenza
degli organi di governo nella gestione. Infatti, si prevede
di modificare l'articolo 147-bis, comma 3, del dlgs 267/2000
prevedendo che gli atti di controllo del segretario sui
provvedimenti dei dirigenti siano trasmessi a questi ultimi
«unitamente alle direttive cui conformarsi in caso di
riscontrata irregolarità».
A parte la circostanza che le
direttive sono atti che non implicano l'obbligo di
conformazione da parte del destinatario e che i dirigenti
dispongono di una specifica sfera di autonomia che non può
essere lesa, in ogni caso appare singolare assegnare al
segretario un potere di conformazione, visto che detto
organo risulta ancora incaricato direttamente dal sindaco o
dal presidente della provincia.
Il segretario comunale non
gode di quella posizione di terzietà di cui un organo di
controllo dotato di poteri conformativi dovrebbe disporre.
Gli emendamenti rischiano, così, di rendere la riforma dei
controlli uno strumento mediante il quale gli organi di
governo, per il tramite di segretari troppo influenzabili,
potrebbero per interposta persona e mediante i controlli
gestire indirettamente. Un risultato del tutto opposto agli
intenti della norma e alla Costituzione
(articolo ItaliaOggi dell'01.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI: Semplificazioni,
si riparte dal dl sviluppo Contratti con la Pa anche senza
Durc - Sull'Aspi le correzioni dopo l'accordo produttività.
FONDI STRUTTURALI/ Le risorse liberate con la
riprogrammazione 2007-2013 finanzieranno gli ammortizzatori
sociali in deroga.
Un passo avanti e uno di lato sul Durc, il Documento unico
di regolarità contributiva che le amministrazioni devono
acquisire d'ufficio dalle aziende che partecipano alle gare
d'appalto. E una serie di correzioni sull'Aspi,
l'assicurazione sociale per l'impiego che entrerà in vigore
tra un mese. Sono questi i contenuti forse più rilevanti sul
fronte delle semplificazioni del maxi-emendamento presentato
dai due relatori Simona Vicari (Pdl) e Filippo Bubbico (Pd)
agli articoli 33 e 34 del Dl sviluppo bis, per il quale si
prevede di arrivare alla votazione finale in commissione
Industria, al Senato, lunedì prossimo, per poi passare
all'Aula il giorno successivo.
Sul Durc si prevede, in particolare, il riconoscimento della
possibilità di partecipare a gare anche ad aziende non in
regola con i versamenti se le difficoltà sono dovute a
ritardi di pagamenti in corso da parte della Pa. A questa
apertura, però, segue anche una correzione che reintroduce
la facoltà da parte dei privati di presentare il Durc per
l'aggiudicazione dei contratti o il pagamento dello stato di
avanzamento dei lavori. Rispetto al divieto previsto
formalmente dal «Salva Italia» e dal «Semplifica Italia» si
tratterebbe di un passo indietro. E, di sicuro, la
correzione non è gradita dal ministero della Funzione
Pubblica e la semplificazione, da cui si continua a guardare
con fiducia ai destini del Ddl «Semplificazioni-due», che
dovrebbe essere messo in agenda alla Camera e che sul Durc,
in particolare, prevede l'aumento della validità da 90 a 180
giorni, oltre al divieto, ribadito, di essere richiesto per
ogni singolo contratto, visto che la sua validità è estesa a
tutte le stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori.
Passando all'Aspi, invece, va detto subito che si tratta di
piccole correzioni concordate con il Lavoro e che non
producono nuovi oneri. Gli aspetti principali riguardano la
gestione degli eventuali esodi di dipendenti più anziani in
caso di eccedenze, come previsto dal recente accordo tra le
parti sociali sulla produttività. I datori dovranno pagare
l'equivalente della pensione e i contributi ai lavoratori
fino alla maturazione del requisito e vengono confermati,
nel contempo, gli sgravi previsti dalla circolare di ottobre
sulle assunzioni di soggetti in difficoltà o la
trasformazione di contratti a termine in contratti
definitivi. Viene poi previsto che le risorse liberate dalla
riprogrammazione dei Fondi Ue 2007-2013 potranno essere
utilizzate per il rifinanziamento degli ammortizzatori
sociali in deroga e saranno affidati alle regioni (tutte,
non solo quelle del Sud). Infine per il lavoro a chiamata si
propone la soppressione della comunicazione via fax che il
datore di lavoro deve trasmettere alla direzione
territoriale del lavoro competente, lasciando solo la
comunicazione via sms o posta elettronica ...
(articolo ItaliaOggi dell'01.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI: La
legge anticorruzione, in vigore dal 28 novembre, ha abrogato
la norma del 2009. P.a., bandi di gara sui giornali.
Obbligo di pubblicità legale anche dopo il 01.01.2013.
Le amministrazioni, anche dopo il 01.01.2013, dovranno
procedere alla pubblicazione sui quotidiani dei bandi e
degli avvisi di gara per l'affidamento di contratti
pubblici.
La legge «anticorruzione», n. 190/2012 (in vigore
dal 28 novembre scorso), ha infatti implicitamente abrogato
la norma del 2009 che prevedeva la perdita di efficacia
legale della pubblicità in forma cartacea a decorrere da
inizio 2013.
Vediamo quindi di ricostruire quanto avvenuto dal 2006 ad
oggi.
La disciplina sulla pubblicità dei bandi e avvisi nel Codice
dei contratti pubblici
Attualmente la disciplina in materia di pubblicità degli
avvisi e dei bandi di gara è prevista dal dlgs 163/2006 (il
Codice dei contratti pubblici) all'articolo 66, comma 7 e,
per i contratti di importo inferiori alla soglia
comunitaria, all'articolo 122, commi 5 e 7. Al di là della
diversa tempistica di pubblicazione prevista dalle norme
citate, essenzialmente si prevedono quattro modalità di
pubblicità: in primo luogo la pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale della Repubblica Italiana serie speciale relativa
ai contratti pubblici, sul «profilo di committente» della
stazione appaltante; in secondo luogo, non oltre due giorni
lavorativi dopo, sul sito informatico del ministero delle
infrastrutture (di cui al dm 06.04.2001, n. 20) nonché
sul sito informatico presso l'Osservatorio dell'Autorità per
la vigilanza sui contratti pubblici; infine si prevede la
pubblicazione, per estratto, su almeno due dei principali
quotidiani a diffusione nazionale e su almeno due a maggiore
diffusione locale nel luogo ove si eseguono i contratti.
Allo stesso regime di pubblicità sono soggetti i risultati
delle aggiudicazioni concernenti i contratti di lavori
affidati con procedura negoziata, con invito a cinque o a
dieci soggetti, per importi inferiori a 1 milione o a 500
mila euro.
Le modifiche del 2009
L'articolo 32 della legge 18/06/2009 n. 69 interviene sulla
materia con una norma al fine di «promuovere il progressivo
superamento della pubblicazione in forma cartacea».
In particolare si prevede: che dal 01.01.2010, gli
obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti
amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si devono
intendere assolti con la pubblicazione nei propri siti
informatici da parte delle amministrazioni e degli enti
pubblici obbligati; che, in aggiunta alle ordinarie modalità
di pubblicità (si usa l'avverbio «altresì») le
amministrazioni debbano pubblicare bandi e avvisi nei siti
informatici, secondo modalità stabilite con decreto del
presidente del consiglio dei ministri, su proposta del
ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione di
concerto con il ministro delle infrastrutture e dei
trasporti per le materie di propria competenza.
Il comma 5 dell'articolo 32 stabilisce infine che «dal 01.01.2013 le pubblicazioni effettuate in forma cartacea
non hanno effetto di pubblicità legale, ferma restando la
possibilità per le amministrazioni e gli enti pubblici, in
via integrativa, di effettuare la pubblicità sui quotidiani
a scopo di maggiore diffusione, nei limiti degli ordinari
stanziamenti di bilancio».
In linea teorica, quindi, da inizio 2013 perderebbe di
efficacia legale la pubblicazione sui quotidiani, ma, come
si vedrà, in effetti non è così.
Le ulteriori modifiche apportate dalla legge
«anticorruzione» (n. 190/2012)
Il primo articolo della legge 06.11.2012 (pubblicata
sulla Gazzetta Ufficiale del 13.11.2012 n. 265) interviene
nuovamente sulla materia trattandola alla luce dell'esigenza
di assicurare la massima trasparenza all'azione
amministrativa. Quest'ultima, infatti, (comma 15)
«costituisce livello essenziale delle prestazioni
concernenti i diritti sociali e civili» ai sensi della
Costituzione; con questa qualificazione la trasparenza
dell'azione amministrativa assurge espressamente ad obbligo
di rango costituzionale (essendo peraltro già obbligo ai
sensi del diritto comunitario).
È sempre il comma 15 a declinare l'obbligo di trasparenza
nell'obbligo di pubblicazione, da parte delle singole
amministrazioni, sui siti web istituzionali (secondo criteri
di facile accessibilità, completezza e semplicità), delle
informazioni relative ad una molteplicità di procedimenti
amministrativi fra cui anche quelli relativi alla scelta del
contraente per l'affidamento di lavori, forniture e servizi
previsti dal Codice dei contratti pubblici.
Ciò detto, assume particolare rilievo quanto previsto nel
successivo comma 31, laddove da un lato si prevede la delega
al ministero della funzione pubblica, guidato da Filippo
Patroni Griffi, all'emanazione di uno o più decreti (da
adottare entro sei mesi, cioè entro metà maggio 2013) in cui
siano definite, fra le altre, le informazioni rilevanti da
pubblicare sui siti web, e «le relative modalità di
pubblicazione» e, dall'altro lato, si introduce una
disposizione «di salvezza» delle norme in materia di
pubblicità contenute nel Codice dei contratti pubblici
(«Restano ferme le disposizioni in materia di pubblicità
previste dal codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163»).
Infine il comma 32 richiama le stazioni appaltanti «in ogni
caso» a pubblicare sul sito istituzionale una serie di
informazioni riguardanti sia la procedura di affidamento,
sia l'esecuzione del contratto (oggetto dell'appalto,
importo di aggiudicazione, tempi di completamento dell'opera
ecc.), informazioni che devono anche essere trasmesse
all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici.
Cosa succede dal 01.01.2013
Il recentissimo intervento della legge anticorruzione pone
quindi un problema interpretativo sugli effetti della norma
della legge 2009 che, a fare data dal 01.01.2013,
imporrebbe la perdita di efficacia della valore legale della
pubblicità effettuata sui quotidiani, rispetto al comma 31
della legge 190/2012 laddove afferma che «restano ferme» le
norme del Codice dei contratti in materia di pubblicità.
Appare evidente che, per i principi generali della
successione delle leggi nel tempo, la norma più recente
implicitamente abroga la disposizione del 2009, ponendo nel
nulla la prevista perdita di efficacia, a decorrere dal
2013, della pubblicità effettuata «in forma cartacea».
L'avere fatto espressamente restare «ferme» le vigenti norme
del Codice, con una disposizione che entra in vigore prima
del primo gennaio 2013, automaticamente fa sì che la
disposizione del 2009 debba considerarsi «tamquam non esset»
e quindi inapplicabile per implicita abrogazione.
Pertanto le amministrazioni, anche dopo il primo gennaio
2013, sono tenute ad applicare integralmente gli articoli 66
e 122 del Codice dei contratti pubblici (ivi compresi gli
obblighi di pubblicazione sui quotidiani) e, ovviamente,
anche a pubblicare bandi e avvisi sui siti istituzionali (ma
ciò avviene già dal 2010).
La salvezza delle norme del Codice sembra, in prospettiva,
da ritenersi valida anche dopo l'emanazione (prevista nei
prossimi sei mesi) dei decreti ministeriali di cui al comma
31 dell'articolo 1 della legge 190/2012, dal momento che
l'ambito di applicazione della delega è relativo alle
modalità attuative delle pubblicazioni sui siti web, ma non
sembra intaccare le altre forme di pubblicità previste dal
Codice dei contratti pubblici
(articolo ItaliaOggi del
30.11.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
COMPETENZE
GESTIONALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Competenza sul TSO.
Qual è l'organo competente ad adottare l'ordinanza relativa
al procedimento amministrativo di trattamento sanitario
obbligatorio, in assenza del Commissario straordinario
incaricato della temporanea gestione dell'ente?
L'art. 34 della legge 23.12.1978, n. 833, attribuisce
al sindaco la competenza ad adottare le ordinanze in materia
di trattamento sanitario obbligatorio, entro 48 ore dalla
convalida della proposta da parte di un medico della unità
sanitaria locale.
Nel caso di specie, se il comune, ricompreso nel territorio
di una regione a statuto speciale, è sottoposto a gestione
commissariale e non è prevista dalla specifica normativa
regionale in materia di scioglimento degli organi la nomina
di vice o sub commissari, la competenza all'adozione del
provvedimento in argomento spetta in via esclusiva al
commissario straordinario incaricato della gestione
dell'ente
(articolo ItaliaOggi del
30.11.2012). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Nuovi gruppi consiliari.
Quali norme disciplinano la costituzione di nuovi gruppi
consiliari in ambito comunale? Sono ammissibili i gruppi
consiliari uni personali?
La materia dei gruppi consiliari è regolata dalle norme
statutarie e regolamentari adottate dai singoli enti locali
nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei consigli,
riconosciuta espressamente agli stessi dall'art. 38, comma
3, del Tuel n. 267/2000.
In linea di principio, sono ammissibili i mutamenti che
possono sopravvenire all'interno delle forze politiche
presenti in consiglio comunale, per effetto di dissociazioni
dall'originario gruppo di appartenenza, comportanti la
costituzione di nuovi gruppi consiliari, ovvero l'adesione a
diversi gruppi esistenti.
Tuttavia, sono i singoli enti locali, nell'ambito della
propria potestà di organizzazione, i titolari della
competenza a dettare norme, statutarie e regolamentari,
nella materia e le relative problematiche dovrebbero trovare
adeguata soluzione nella specifica disciplina di cui l'ente
stesso si è dotato.
Riguardo all'ammissibilità dei gruppi unipersonali, se il
regolamento comunale stabilisce che ciascun gruppo sia
costituito da almeno due consiglieri ma che, nel caso che
una lista presentata alle elezioni abbia avuto eletto un
solo consigliere, a questo siano riconosciute le prerogative
e la rappresentanza spettanti a un gruppo consiliare; ovvero
disciplina la fattispecie di distacco successivo dal gruppo,
stabilendo che il consigliere che non aderisce ad altri
gruppi non acquisisce le prerogative spettanti ad un gruppo
consiliare, potendo soltanto confluire nel gruppo misto, si
può desumere che i gruppi unipersonali possano essere
ammessi solo se coincidenti con l'unico consigliere eletto
in una lista.
Peraltro, soltanto il Consiglio comunale, nella sua
autonomia e in quanto titolare della competenza a dettare le
norme cui conformarsi in tale materia, è abilitato a fornire
un'interpretazione autentica delle norme statutarie e
regolamentari di cui l'ente è munito
(articolo ItaliaOggi del
30.11.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: Senza
marchio Ce vanno sostituiti. Nuovi maniglioni per il 18
febbraio.
Entro il 18.02.2013 è obbligatorio
provvedere alla sostituzione dei maniglioni non marcati Ce
installati sulle porte delle vie di esodo nelle attività
soggette al controllo dei vigili del fuoco ai fini del
rilascio del certificato di prevenzione incendi.
Questo è quanto previsto nel decreto del 06.12.2011 del
ministero dell'interno (pubblicato in G.U. n. 299 del
24/12/2011) che ha prorogato di 24 mesi il termine ultimo,
inizialmente fissato dal dm 03.11.2004 al 16/02/2011, per la
sostituzione dei maniglioni non marcati Ce.
Tali dispositivi devono essere conformi alle norme UNI EN
179 o UNI EN 1125 e devono essere muniti di marcature Ce
(dpr 21/4/1993 n. 246). L'art. 3 del dm 03/11/2004
disciplina i casi in cui è prevista l'installazione dei
maniglioni antipanico: sulle porte delle vie d'esodo, devono
essere installati i dispositivi conformi alla UNI EN 179
qualora si verifichi una delle seguenti condizioni:
l'attività è aperta al pubblico e la porta è utilizzabile da
meno di 10 persone; l'attività non è aperta al pubblico e la
porta è utilizzabile da un numero di persone superiore a 9 e
inferiore a 26; sulle porte delle vie d'esodo, devono essere
installati i dispositivi conformi alla UNI EN 1125 qualora
si verifichi una delle seguenti condizioni: l'attività è
aperta al pubblico e la porta è utilizzabile da più di 9
persone; l'attività non è aperta al pubblico e la porta è
utilizzabile da più di 25 persone; i locali con lavorazione
e materiali che comportino pericoli di esplosione e
specifici rischi d'incendio con più di 5 lavoratori addetti.
L'introduzione dell'obbligo di marcatura Ce, attestante
rispondenza a requisiti essenziali di sicurezza, comporta un
nuovo ruolo per tutti gli operatori interessati.
Introducendo anche un sistema di corretta identificazione
del dispositivo, in funzione di parametri, quali tipo di
attività, presenza di pericoli di esplosione e rischi di
incendio
(articolo ItaliaOggi del
27.11.2012). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: La
copertura previdenziale a carico degli amministratori. I
consiglieri comunali si pagano la pensione.
L'Inps presenta il conto ai consiglieri comunali i quali dal
2008, se vogliono la pensione devono pagarsela da soli.
Lo
ricorda l'Inps nella
circolare 26.11.2012 n. 133.
Finanziaria 2008. La legge finanziaria 2008 (n. 244/2007,
art. 2, comma 24), ha apportato alcune modifiche alle norme
del dlgs n. 267/2000 (il Testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali) in materia di
trattamento previdenziale degli amministratori locali. Nel
testo dell'art. 81 del citato Tu è stato infatti aggiunto il
seguente periodo «I consiglieri di cui all'art. 77, comma 2,
se a domanda collocati in aspettativa non retribuita per il
periodo di espletamento del mandato, assumono a proprio
carico l'intero pagamento degli oneri previdenziali,
assistenziali e di ogni altra natura previsti dall'art. 86».
Pertanto, i consiglieri dei comuni anche metropolitani e
delle province e i consiglieri delle comunità montane non
compresi nell'elenco di cui al citato art. 86 del Tu nei
confronti dei quali in quanto eletti e rispondenti ai
requisiti previsti dall'art. 31 della legge 300/1970 era già
applicato il regime dell'accredito figurativo, a partire dal
01.01.2008, non hanno più titolo all'accredito
gratuito, ma assumono a proprio carico il versamento di
tutti gli oneri previdenziali. In altre parole, l'accredito
della contribuzione figurativa utile per la pensione resta
in piedi solo per i lavoratori dipendenti eletti presidenti
di consigli comunali e provinciali ed i membri delle giunte.
Gli altri, e cioè i semplici consiglieri, la pensione
dovranno pagarsela da soli, attraverso il versamento della
normale contribuzione pari al 33% della retribuzione di
riferimento.
Poiché l'art. 81 sopra citato, nel porre
l'onere contributivo a carico degli amministratori locali in
esame nulla ha previsto in merito all'obbligatorietà dei
versamenti, si ritiene che la copertura dei periodi di
aspettativa ai fini previdenziali, assistenziali e
assicurativi sia rimessa alla libera volontà degli
interessati. Questi hanno perciò facoltà di decidere se e in
quale momento presentare istanza di autorizzazione al
versamento della contribuzione a loro carico.
La domanda. I consiglieri interessati, si legge nella
circolare, devono presentare specifica domanda a valere dal
trimestre in corso dalla data di presentazione, alla sede
dell'Inps di propria competenza, corredandola con apposite
dichiarazioni dell'amministrazione locale presso cui
esercitano il loro mandato. Tale dichiarazione deve
evidenziare la carica ricoperta, la durata del relativo
mandato e la circostanza che l'amministratore è tenuto ad
assolvere direttamente il carico contributivo; e del datore
di lavoro, redatta sotto forma di autocertificazione.
Da
tale dichiarazione devono potersi rilevare la data di
instaurazione del rapporto di lavoro, la data di
collocamento in aspettativa e l'eventuale data finale della
stessa, la categoria e la qualifica rivestita dal lavoratore
all'inizio dell'aspettativa. Per determinare la
contribuzione dovuta dai consiglieri a copertura dei periodi
di aspettativa si farà riferimento alla retribuzione
imponibile dichiarata con il flusso EMens per le 52
settimane di lavoro immediatamente antecedenti la domanda.
Ai fini del calcolo deve essere considerato l'intero
ammontare della retribuzione imponibile
(articolo ItaliaOggi del
27.11.201). |
CONDOMINIO:
LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/
La riforma del condominio piace. Piacerà un po'
meno ai morosi. ItaliaOggi Sette ha
raccolto le opinioni degli addetti ai lavori: Confedilizia,
Anaci e Sunia.
La stretta sui morosi convince gli addetti ai lavori. Sono
queste infatti le disposizioni che raccolgono i favori di
Confedilizia, Anaci e Sunia, in merito alla riforma del
condominio, diventata legge dopo l'approvazione definitiva
del ddl, martedì scorso, in commissione giustizia del
senato, che riscrive quasi del tutto gli articoli 1117 e
seguenti del codice civile e 61 e seguenti delle
disposizioni di attuazione.
Se, infatti, Confedilizia e il
Sunia (Sindacato nazionale unitario inquilini e assegnatari)
esprimono un parere sostanzialmente positivo, con qualche
riserva, più critica è la posizione dell'Anaci (Associazione
nazionale amministratori di condomini e immobili). «Il
nostro giudizio è nel complesso positivo anche se il
legislatore ha mancato di coraggio non attribuendo al
condominio la capacità giuridica come nella maggior parte
dei paesi europei», sottolinea Corrado Sforza Fogliani,
presidente di Confedilizia.
«Una norma mancata che poteva
servire a limitare la conflittualità tra i condomini
facilitandone i rapporti». Semaforo verde, invece, per le
novità in materia di requisiti che l'amministratore dovrà
possedere e che implicano l'obbligo di frequentare un corso
di formazione iniziale e il possesso del diploma di scuola
secondaria di secondo grado. A questo proposito, secondo
Sforza Fogliani, è positivo che «la nomina di un interno,
cioè di uno dei condomini dello stabile come amministratore,
non richieda a quest'ultimo il possesso di alcuna formazione
specifica. Un aspetto che va a salvaguardia di quegli
amministratori che scelgono di svolgere questo lavoro
gratuitamente».
A raccogliere i favori di Confedilizia sono
anche le nuove disposizioni in materia di condomini morosi,
in base alle quali l'amministratore potrà procedere con
l'ingiunzione (senza autorizzazione preventiva
dall'assemblea) e potrà fornire ai creditori i dati di chi
non è in regola con il pagamento delle rate. Inoltre, in
caso di mora che dura da più di sei mesi, dovrà sospendere
il debitore dalla fruizione dei servizi comuni. «Una novità
che permette di mettere tutti i condomini sullo stesso
piano». Poco utile, invece, viene considerata la possibilità
di creare un sito internet del condominio, da cui accedere
individualmente a tutti gli atti e i rendiconti mensili.
«Un'opportunità che a mio parere verrà utilizzata poco, da
un lato, per la sua dispendiosità e, dall'altro, perché
servirebbe per consultare una documentazione che può essere
visionata già presso l'amministratore con il valore aggiunto
di poter anche chiedere contestualmente delle
delucidazioni».
Più critica l'Anaci. «Qualcosa di buono in questa riforma
c'è, ma non abbiamo digerito che non sia stata prevista una
maggiore valorizzazione della figura professionale
dell'amministratore», sottolinea il presidente Pietro
Membri. Parere positivo, invece, sul tema dei requisiti
necessari che dovranno essere posseduti dall'amministratore,
sul sito internet condominiale e sulla stretta ai condomini
morosi. L'associazione considera, invece, una formalità il
tema della stipula da parte dell'amministratore di una
polizza a tutela dai rischi derivanti dalla professione
svolta (su richiesta dell'assemblea). «Per gli iscritti
alla nostra associazione, infatti, abbiamo già in automatico
una garanzia per gli errori per un milione di euro». Tra
i sindacati del settore, giudizi favorevoli arrivano dal
Sunia.
«Per noi è positivo il fatto che la riforma sia stata
fatta, abbiamo seguito il lavoro parlamentare con confronti
e audizioni, e per noi il testo presenta alcuni punti
innovativi, per esempio, riguardo alla diminuzione dei
quorum, cioè delle maggioranze richieste per le delibere
assembleari per una serie di interventi», spiega Aldo
Rossi, segretario nazionale responsabile ufficio legislativo
del Sunia. Anche se, a suo dire, si poteva fare di più sui
temi della personalità giuridica del condominio e della
partecipazione del conduttore alle assemblee per gli oneri a
suo carico. Positiva l'opinione sugli obblighi di formazione
per l'amministratore «perché ci devono essere garanzie di
professionalità» e sulla possibilità di creare un sito
internet «che potrebbe garantire maggior trasparenza ed
efficienza». Inoltre, conclude Rossi, «la possibilità di
rivalersi sui beni dei condomini morosi potrebbe portare a
una riduzione delle liti condominiali, che a oggi
rappresentano circa il 10% del contenzioso civile» (articolo ItaliaOggi Sette
del 26.11.2012). |
CONDOMINIO: LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Sulle delibere regole più chiare.
Con la legge di riforma della disciplina del condominio
approvata martedì scorso dalla commissione giustizia del
senato è stato infatti integralmente riscritto l'art. 1137
c.c., disciplinando in maniera più chiara il procedimento
giudiziale di verifica della legittimità della volontà
assembleare, in gran parte confermando le conclusioni alle
quali era giunta la più recente giurisprudenza della
Cassazione a seguito di un incessante lavorio di
interpretazione durato quasi 70 anni.
Delibere nulle e annullabili.
Il legislatore ha riscritto l'art. 1137 c.c. eliminando alla
radice qualsiasi dubbio sull'applicabilità della procedura
di impugnazione ivi disciplinata anche ai casi di nullità
delle delibere condominiali.
Nella nuova disposizione si parla infatti espressamente di
annullamento delle deliberazioni contrarie alla legge o al
regolamento di condominio da promuovere dinanzi alla
competente autorità giudiziaria nel termine perentorio di 30
giorni. Mentre in precedenza si poteva equivocare se il
ricorso diretto a fare accertare in giudizio la contrarietà
delle deliberazioni assembleari alla legge o al regolamento
di condominio comprendesse o meno anche i casi di nullità
delle stesse, la nuova versione della predetta disposizione
chiarisce in modo inequivocabile che detta azione
giudiziale, con particolare riferimento al menzionato
termine di decadenza, è finalizzata esclusivamente
all'accertamento dell'annullabilità della volontà
assembleare (occorre peraltro osservare come la stessa
giurisprudenza di legittimità abbia ormai confinato i casi
di nullità a categorie del tutto marginali).
La legittimazione ad agire. La nuova disposizione specifica
altresì che la legittimazione attiva all'impugnazione delle
deliberazioni assembleari spetta tanto ai condomini presenti
in assemblea, che abbiano votato in senso contrario
all'approvazione della delibera, quanto a quelli assenti,
quanto, infine, a quelli che, pur avendo partecipato alla
riunione condominiale, sia siano astenuti dal voto. Il
termine di decadenza di 30 giorni per l'impugnazione della
delibera condominiale decorre dalla data dell'assemblea per
i dissenzienti e gli astenuti e dalla data di comunicazione
della deliberazione per gli assenti.
Le modalità di impugnazione delle deliberazioni. Con
l'eliminazione della parola «ricorso» dall'art. 1137 c.c. il
legislatore ha poi risolto una volta per tutte l'annosa
questione se il termine in questione debba essere inteso in
senso tecnico o atecnico e se, quindi, l'impugnazione delle
deliberazioni assembleari debba avvenire con ricorso o con
atto di citazione. La nuova disposizione si limita infatti a
dire che chi intende impugnare una deliberazione assembleare
che si assuma contrarie alla legge o regolamento di
condominio deve chiederne l'annullamento all'autorità
giudiziaria entro il termine di 30 giorni, rientrando dunque
detto procedimento tra quelli ordinari, normalmente
introdotti con atto di citazione.
La sospensione dell'efficacia della delibera impugnata. Con
gli ultimi due commi del novellato art. 1337 c.c. si è
quindi voluta ulteriormente chiarire la questione della
sospensione dell'efficacia della delibera condominiale
impugnata. Detta istanza, di natura cautelare, potrà quindi
essere proposta tanto in costanza di causa quanto
anteriormente alla stessa.
Limitatamente a quest'ultimo caso il legislatore ha però
inteso specificare che l'istanza di sospensione proposta
autonomamente e anteriormente all'avvio della causa di
merito non sospende il termine di decadenza di 30 giorni di
cui al medesimo art. 1337 c.c. ovvero, detto in altri
termini, non equivale all'atto di impugnazione della volontà
assembleare.
La mediazione c.d. obbligatoria delle controversie
condominiali. L'art. 5 del dlgs n. 28/2010, normativa quadro
in materia di mediazione, obbliga le parti a far precedere
l'eventuale azione giudiziaria in materia di condominio da
un tentativo di risoluzione bonaria della controversia
presso specifici organismi iscritti in un apposito registro
tenuto presso il ministero della giustizia.
Circa il significato del concetto di «controversia
condominiale» la legge di riforma ha opportunamente chiarito
che sono tali quelle derivanti dalla violazione o
dall'errata applicazione delle disposizioni dettate dal
codice civile e dalle relative disposizioni di attuazione in
materia condominiale.
In altri termini, rientrano nella c.d. mediazione
obbligatoria le liti tra condomini e tra questi ultimi e il
condominio, non anche quelle tra il condominio e soggetti
terzi (fornitori, ecc.).
Anche in ordine alla libertà dei litiganti di scegliere
l'organismo cui inviare l'istanza di mediazione la legge di
riforma ha inserito una disposizione del tutto peculiare per
il condominio, prevedendo che la stessa debba essere
presentata, a pena di inammissibilità, presso un organismo
di mediazione ubicato nella circoscrizione del tribunale
nella quale il condominio è situato. La nuova disposizione
normativa opportunamente chiarisce inoltre che al
procedimento di mediazione è legittimato a partecipare
l'amministratore, previa delibera assembleare da assumere
con la maggioranza di cui all'art. 1136, secondo comma, c.c.
È poi stato ulteriormente previsto che se i termini di
comparizione davanti al mediatore non consentono di assumere
la delibera di cui al terzo comma, il mediatore dispone, su
istanza del condominio, idonea proroga della prima
comparizione. La proposta di mediazione deve quindi essere
approvata dall'assemblea con la maggioranza di cui all'art.
1136, secondo comma, c.c. Se non si raggiunge la predetta
maggioranza, la proposta si deve intendere non accettata.
Si tratta di disposizioni chiare e opportune che consentono
di superare molti dei dubbi fino a oggi emersi in materia di
mediazione delle liti condominiali e che dovrebbero quindi
agevolare il compito degli amministratori condominiali,
garantendo maggiori possibilità di successo a questo
particolare strumento di risoluzione delle controversie.
Occorre però evidenziare come a oggi la mediazione in
materia condominiale non possa più ritenersi obbligatoria a
seguito dell'annuncio dato dalla Corte costituzionale lo
scorso 24.10.2012 circa la dichiarazione di
illegittimità, per eccesso di delega legislativa, del dlgs
n. 28/2010. In questi giorni si rincorrono però le voci su
possibili e immediate sanatorie per via legislativa, in
attesa del deposito delle motivazioni della predetta
sentenza (articolo ItaliaOggi Sette del
26.11.2012). |
CONDOMINIO: LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/
Installazioni e modifiche veloci.
Novità in arrivo per gli impianti in ambito condominiale,
sia per quanto riguarda quelli «centralizzati», che possono
essere installati o modificati con delibere assembleari
approvate con quorum più bassi (e quindi più rapidamente),
sia per quanto riguarda quelli non centralizzati, che
possono essere installati nelle proprietà esclusive secondo
regole precise, mirate a evitare successive contestazioni da
parti degli altri condomini.
Quindi la prima importante novità introdotta dalla riforma
del condominio è la possibilità di deliberare
l'installazione di impianti comuni sulla base di un consenso
non necessariamente ampio da parte dei condomini.
Gli impianti satellitari e di produzione dell'energia
pulita. Per favorire lo sviluppo e la diffusione delle nuove
tecnologie di radiodiffusione da satellite, le opere di
installazione di nuovi impianti satellitari (i c.d.
padelloni) era prevista dalla legge una maggioranza ridotta
e cioè un numero di voti pari al terzo dei partecipanti al
condominio e almeno un terzo del valore dell'edificio.
A seguito della riforma del condominio, il cui obiettivo è
certamente quello di eliminare il più possibile il numero
esorbitante degli impianti singoli, è stata prevista la
possibilità di installare impianti centralizzati per la
ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro
genere di flusso informativo (anche da satellite o via cavo)
e i relativi collegamenti fino alla diramazione per le
singole utenze con un delibera approvata con la maggioranza
degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio.
Lo stesso quorum ridotto poi vale anche per la realizzazione
delle opere e degli interventi diretti alla produzione di
energia mediante l'utilizzo di impianti «verdi» (fonti
eoliche, solari o comunque rinnovabili) da parte del
condominio.
Per detti impianti sparisce quindi la maggioranza dei
partecipanti al condominio (che viene sostituita dalla
maggioranza degli intervenuti all'assemblea) ed il valore
millesimale scende al 50%.
Si può perciò dire che per approvare questi impianti, che
rappresentano delle innovazioni, è richiesta la stessa
maggioranza prevista per le spese straordinarie sulle parti
comuni e, conseguentemente si ridurrà in modo notevole il
contenzioso tra condomini sulla natura dell'intervento
deliberato.
Ma le novità non finiscono qui.
Anche la richiesta di installazione di detti impianti
centralizzati da parte di un solo condomino deve essere
tenuta in considerazione dall'amministratore che deve
inserire la questione all'ordine del giorno ed è tenuto a
convocare l'assemblea entro 30 giorni dalla richiesta.
Del resto costituisce grave irregolarità il comportamento
dell'amministratore che ripetutamente rifiuti di convocare
l'assemblea nei casi previsti dalla legge.
Quindi l'amministratore deve convocare, sempreché la
richiesta sia chiara e dettagliata.
È vero infatti che il singolo condomino o il gruppo di
condomini che intendono proporre l'installazione dei detti
impianti sono tenuti a indicare (evidentemente per iscritto)
il contenuto specifico e le modalità di esecuzione degli
interventi proposti (ma non sembra debba essere necessario
un vero e proprio progetto).
In mancanza, l'amministratore deve invitare il condomino
proponente a fornire le necessarie informazioni mancanti.
Naturalmente tali impianti possono essere realizzati
sempreché non compromettano la sicurezza del fabbricato, non
alterino il decoro architettonico o rendano talune parti
comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento
anche di un solo condomino.
Gli impianti non centralizzati. La riforma del condominio
introduce importanti novità anche su una questione
frequentemente oggetto di contenzioso tra i condomini e cioè
le installazioni di impianti autonomi nelle parti comuni per
la ricezione radiotelevisiva (ad esempio, parabole) e di
altri flussi informativi o per la produzione di energia da
fonti rinnovabili.
Così viene riconosciuto il diritto individuale del singolo
condomino alla ricezione radio-Tv con impianti individuali
satellitari o via cavo e ne viene confermata la libera
realizzazione, senza previo voto dell'assemblea, con
l'obbligo però di arrecare il minor pregiudizio possibile
alle parti comuni e agli immobili di proprietà di altri
condomini e prevedendo che, per la progettazione e
l'esecuzione dell'impianto, i condomini siano comunque
costretti a lasciare libero accesso alle loro proprietà
individuali.
In ogni caso deve essere rispettato il decoro architettonico
dell'edificio (ed è fatto salvo quanto previsto in materia
di reti pubbliche).
Ma è consentita anche l'installazione di impianti per la
produzione di energia da fonti rinnovabili destinati al
servizio di singole unità del condominio sul lastrico
solare, su ogni altra idonea superficie comune e sulle parti
di proprietà individuale dell'interessato.
Sarà l'assemblea, ai fini dell'installazione di detti
impianti, a provvedere, a richiesta degli interessati, a
ripartire l'uso del lastrico solare e delle altre superfici
comuni, salvaguardando le diverse forme di utilizzo previste
dal regolamento di condominio o comunque in atto.
Del resto, ciascun comproprietario potrebbe avere interesse
ad installare pannelli per produrre energia, ma potrebbe non
essere sufficiente per tutti la superficie a disposizione, o
sopportabile dalla struttura il peso di più impianti ecc.;
dette eventualità, fanno sì che la disponibilità
dell'installazione non sia affatto scontata, ma debba essere
valutata caso per caso, considerando la volontà e gli
interessi di tutti i condomini interessati.
Da tenere presente che se detti impianti comportano
necessariamente modifiche delle parti comuni, il condomino
interessato ne dà comunicazione all'amministratore indicando
il contenuto specifico e le modalità di esecuzione degli
interventi.
In tal caso l'assemblea può intervenire e imporre, con un
numero di voti che rappresenti la maggioranza degli
intervenuti ed almeno i due terzi del valore dell'edificio,
adeguate modalità alternative di esecuzione o imporre
cautele a salvaguardia della stabilità, della sicurezza o
del decoro architettonico del caseggiato, con possibilità di
subordinare l'esecuzione alla prestazione, da parte
dell'interessato, di idonea garanzia per i danni eventuali.
Tale disciplina coglie quindi in pieno l'esigenza di
tutelare la sicurezza e l'estetica del condominio (articolo ItaliaOggi Sette del
26.11.2012). |
CONDOMINIO:
LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/
Dura la vita per chi non paga.
Acceleratore premuto contro i condomini morosi, che possono
essere attaccati sia dall'amministratore sia dai creditori
del condominio.
La legge di riforma del condominio si preoccupa di
ammodernare la gestione finanziaria della compagine dei
comproprietari, anche se non le ha riconosciuto lo status di
persona giuridica.
Lo svecchiamento dell'impianto normativo prelude in alcuni a
una gestione manageriale del condominio, tanto che la stessa
può essere affidata a società e può essere nominato un
organo di auditing interno (una commissione consultiva e di
controllo formata da condomini). Manageriale o meno (va
ricordato che la riforma ammette la possibilità di forme di
amministrazione in proprio con uno dei comproprietari che si
presta) la riforma dà un impulso alla gestione dei crediti
condominiali.
Vediamo come.
Innanzi tutto, salvo che sia stato espressamente dispensato
dall'assemblea, l'amministratore è tenuto ad agire per la
riscossione forzosa delle somme dovute dagli obbligati entro
sei mesi dalla chiusura dell'esercizio nel quale il credito
esigibile è compreso.
Il nuovo articolo 1129 del codice civile detta, dunque, i
tempi all'amministratore che non può rimanere inerte.
Il termine di sei mesi, entro i quali, necessariamente,
l'amministratore deve agire e chiedere un decreto ingiuntivo
contro il moroso, è a disposizione dell'assemblea, ma se la
stessa non ha disposto nulla di diverso, allora, è
automatico.
Se l'amministratore non rispetta il termine di sei mesi e
non si rivolge a un avvocato per avviare la pratica legale
potrà essere chiamato a risponderne di fronte all'assemblea;
così come è responsabile e può essere revocato, se, quando
sia stata promossa azione giudiziaria per la riscossione
delle somme dovute al condominio, abbia omesso di curare
diligentemente l'azione e la conseguente esecuzione
coattiva.
Una causa tipica di irregolarità nella gestione del credito
e che può dare adito alla revoca dell'amministratore è aver
acconsentito, per un credito insoddisfatto, alla
cancellazione delle formalità eseguite nei registri
immobiliari a tutela dei diritti del condominio: ogni
decisione da cui può derivare una minore garanzia deve
passare dall'assemblea.
Dal punto di vista del singolo condomino il periodo di mora
tollerato è un semestre, trascorso il quale bisogna
aspettarsi la notifica dell'atto giudiziario e in
particolare di un decreto ingiuntivo.
Per la riscossione dei contributi in base allo stato di
ripartizione approvato dall'assemblea, l'amministratore,
senza bisogno di autorizzazione di questa, può, infatti,
ottenere un decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo.
Si tratta di una procedura veloce, mediante la quale il
creditore si rivolge direttamente al giudice cui porta le
prove scritte del proprio credito, per ottenere un decreto
con il quale si può passare subito alla fase del
pignoramento.
Secondo un orientamento della Cassazione, è possibile
chiedere l'emissione del decreto ingiuntivo anche solo sulla
base del bilancio preventivo regolarmente approvato
dall'assemblea.
L'esecutività non viene meno neanche nel caso in cui il
condomino moroso presenti opposizione al decreto ingiuntivo.
Terminato il semestre il condomino moroso potrà anche essere
sospeso dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di
godimento separato.
Tale sanzione, nella versione previgente del codice, si
applicava soltanto nel caso in cui vi fosse una espressa
previsione regolamentare condominiale che lo consentisse
espressamente, mentre con la nuova versione la sanzione è
prevista direttamente dalla norma e potrà risultare uno
strumento particolarmente persuasivo.
L'azione dei creditori del condominio. Il condomino moroso
non subisce solo attacchi interni, in quanto è esposto anche
all'azione dei creditori del condominio. In base
all'articolo 63 delle disposizioni di attuazione, infatti,
l'amministratore è tenuto a comunicare ai creditori non
ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini
morosi. E contro di questi il creditore esterno dovrà
rivolgersi in prima battuta.
I creditori, infatti, non possono agire nei confronti degli
obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo
l'escussione degli altri condomini (disposizione introdotta
dalla legge di riforma).
Si tratta di un beneficio di preventiva escussione a favore
dei comproprietari in regola, anche se non è chiaro se
l'obbligazione del condominio sia solidale o meno (con
obbligo in quest'ultimo caso del creditore di agire contro
ciascun condomino nei limiti della sua quota di millesimi).
La Cassazione si è schierata per quest'ultima tesi, anche se
i giudici di merito non seguono unanimemente la Suprema
corte.
Quanto ai soggetti tenuti al pagamento, la riforma ribadisce
che chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato
solidalmente con questo al pagamento dei contributi relativi
all'anno in corso e a quello precedente.
Inoltre chi cede diritti su unità immobiliari resta
obbligato solidalmente con l'avente causa per i contributi
maturati fino al momento in cui è trasmessa
all'amministratore copia autentica del titolo che determina
il trasferimento del diritto. Quindi chi compra è
responsabile per debiti pregressi al suo acquisito e chi
vende rimane obbligato anche per debiti successivi alla
vendita, fino alla data in cui non ha consegnato l'atto
all'amministratore.
Chi vende rimane, dunque, ancora coinvolto delle vicende
condominiali successive al passaggio di proprietà, a meno
che non sia diligente nel far avere all'amministratore la
copia dell'atto di vendita. Se non lo fa, il vecchio
proprietario potrà ancora essere chiamato al pagamento degli
oneri condominiali successivi alla compravendita non versati
dall'acquirente.
Una volta riscossi (spontaneamente o coattivamente) i
contributi, questi devono essere accreditati su un conto
dedicato.
La riforma scrive, infatti, la regola per cui
l'amministratore è obbligato a far transitare le somme
ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, e
quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio,
su uno specifico conto corrente, postale o bancario,
intestato al condominio. Sul punto deve essere garantita la
massima trasparenza: ciascun condomino, per il tramite
dell'amministratore, può chiedere di prendere visione ed
estrarre copia del conto (articolo ItaliaOggi Sette del
26.11.2012). |
CONDOMINIO:
LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Videosorvegliati, ok a maggioranza.
Via libera, ma a maggioranza, alla videosorveglianza
condominiale. E con alcune cautele indicate dal Garante
della privacy. La riforma del condominio, infatti, introduce
l'articolo 1122-ter del codice civile, che prevede la
facoltà dell'assemblea di decidere sull'installazione di
impianti di videosorveglianza sulle parti comuni, con la
maggioranza di cui al secondo comma dell'articolo 1136,
ossia deliberazioni approvate con un numero di voti che
rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la
metà del valore dell'edificio.
La norma arriva in un contesto, fino a oggi, di assenza di
una presa di posizione del legislatore. Tanto che con
provvedimento dell'08.04.2010 sulla videosorveglianza il
Garante aveva appurato una lacuna normativa. In quella sede
per i trattamenti effettuati dal condominio (anche per il
tramite della relativa amministrazione), il Garante aveva
evidenziato l'assenza di una puntuale disciplina che
permettesse di risolvere alcuni problemi applicativi
evidenziati nell'esperienza di questi ultimi anni. Infatti,
che non era chiaro se l'installazione di sistemi di
videosorveglianza potesse essere effettuata in base alla
sola volontà dei comproprietari, o se rilevasse anche la
qualità di conduttori; ancora non era chiaro quale fosse il
numero di voti necessario per la deliberazione condominiale
in materia (l'unanimità o una determinata maggioranza).
La legge di riforma del condominio affronta, invece,
direttamente la questione e stabilisce che le deliberazioni
concernenti l'installazione sulle parti comuni dell'edificio
di impianti volti a consentire la videosorveglianza su di
esse sono approvate dall'assemblea con la maggioranza di cui
al secondo comma dell'articolo 1136 del codice civile.
Vediamo dunque cosa prevede l'articolo 1136 del codice
civile, che è stato modificato. In prima convocazione per
l'approvazione di una delibera ci vuole il quorum di 2/3 del
valore e maggioranza per teste, e voto favorevole della
maggioranza degli intervenuti e almeno metà del valore
dell'edificio.
Poiché la norma fa riferimento esclusivamente al secondo
comma dell'articolo 1136, si deve ritenere che la
maggioranza debba sempre commutarsi secondo le soglie da
esso previste.
Una volta rispettate queste maggioranze si può passare a
installare le telecamere. Ma senza dimenticare che si devono
osservare le precauzioni previste dal citato provvedimento
generale del Garante della privacy del 2010.
Eccole, in dettaglio: le persone che transitano nelle aree
videosorvegliate del condominio devono essere informate con
cartelli della presenza delle telecamere, i cartelli devono
essere resi visibili anche quando il sistema di
videosorveglianza è attivo in orario notturno. Nel caso in
cui i sistemi di videosorveglianza installati siano
collegati alle forze di polizia è necessario apporre uno
specifico cartello che lo evidenzi.
Contro possibili aggressioni, furti, rapine, danneggiamenti,
atti di vandalismo, prevenzione incendi, sicurezza del
lavoro ecc. si possono installare telecamere senza il
consenso dei soggetti ripresi, ma sempre sulla base delle
prescrizioni indicate dal Garante.
Particolare attenzione deve essere posta quanto al termine
di conservazione delle immagini registrate.
Il provvedimento generale del Garante dell'08.04.2010
stabilisce che, nei casi in cui sia stato scelto un sistema
che preveda la conservazione delle immagini, in applicazione
del principio di proporzionalità, anche l'eventuale
conservazione temporanea dei dati deve essere commisurata al
tempo necessario e predeterminato a raggiungere la finalità
perseguita. Il provvedimento passa a indicazioni nel
dettaglio: la conservazione deve essere limitata a poche ore
o, al massimo, alle 24 ore successive alla rilevazione.
Inoltre non risulta che ricorrano circostanze tali da
consentire un allungamento del periodo di conservazione. Il
sistema impiegato deve essere programmato in modo da operare
al momento prefissato l'integrale cancellazione automatica
delle informazioni allo scadere del termine previsto da ogni
supporto, anche mediante sovra-registrazione, con modalità
tali da rendere non riutilizzabili i dati cancellati. In
presenza di impianti basati su tecnologia non digitale o
comunque non dotati di capacità di elaborazione tali da
consentire la realizzazione di meccanismi automatici di expiring dei dati registrati, la cancellazione delle
immagini dovrà comunque essere effettuata nel più breve
tempo possibile per l'esecuzione materiale delle operazioni
dalla fine del periodo di conservazione fissato dal
titolare. Il mancato rispetto dei tempi di conservazione
delle immagini raccolte e del correlato obbligo di
cancellazione di dette immagini oltre il termine previsto
comporta l'applicazione della sanzione amministrativa
stabilita dall'art. 162, comma 2-ter, del Codice della
privacy.
Altri adempimenti, previsti nel provvedimento generale del
Garante, sono la richiesta di verifica preliminare e la
nomina di responsabili e incaricati del trattamento. La
verifica preliminare è necessaria per i sistemi di raccolta
delle immagini associate a dati biometrici, per i sistemi di
videosorveglianza dotati di software che permetta il
riconoscimento della persona tramite collegamento o incrocio
o confronto delle immagini rilevate (ad esempio morfologia
del volto) con altri specifici dati personali e, infine, per
i sistemi cosiddetti intelligenti, che non si limitano a
riprendere e registrare le immagini, ma sono in grado di
rilevare automaticamente comportamenti o eventi anomali,
segnalarli, ed eventualmente registrarli. Devono essere
nominati incaricati del trattamento le persone, da mantenere
in numero ristretto, che hanno accesso alle immagini, anche
se si ritiene che per la maggioranza dei casi non sia
necessario la visione in tempo reale con un monitor. Non è
consentita alcuna forma di registrazione audio (articolo ItaliaOggi Sette
del 26.11.2012). |
APPALTI:
Rete imprese Italia: va escluso l'ambito Iva e serve un
tetto sotto il quale le norme non si
applicano. Appalti-subappalti, così non va.
La responsabilità solidale va limitata solo ad alcuni
settori.
Delimitare l'ambito di applicazione della responsabilità
solo ad alcuni settori e sopra una certa cifra ed eliminare
l'ambito Iva per l'impossibilità di effettuare controlli in
tal senso. Sono le richieste di revisione della normativa
sulla responsabilità solidale negli appalti avanzate da Rete
imprese Italia al governo. Gli spazi per intervenire non
mancano, complice la disponibilità al dialogo manifestata
dall'esecutivo, ma l'ostacolo è il fattore tempo: una volta
approvata la legge di stabilità, in parlamento scatterà il
«rompete le righe» e si penserà alla campagna elettorale in
vista delle politiche di primavera.
Le norme sulla
responsabilità solidale negli appalti e i subappalti,
introdotte con il decreto crescita (dl 83/2012, convertito
nella l. 12.08.2012, n. 134), agitano il mondo delle
imprese, soprattutto quelle di piccole e medie dimensioni,
perché introducono una serie di complicazioni che rischiano
di aggravare ulteriormente il lavoro quotidiano, obbligando
i soggetti appaltanti, per evitare la responsabilità
solidale, ad accertare il corretto pagamento dei debiti
erariali da parte dei loro fornitori (appaltatori). In caso
contrario il committente potrà esimersi dal regolare
finanziariamente le prestazioni ottenute anche in presenza
di un contratto.
«Se l'obiettivo del legislatore era portare
trasparenza nel mercato, si è prodotto l'effetto opposto»,
commenta Andrea Trevisani, responsabile delle politiche
fiscali di Confartigianato, associazione che assieme a Cna,
Casartigiani, Confcommercio e Confesercenti costituisce Rete
imprese Italia. «Un aspetto che dovrebbe far riflettere e
portare a una rapida revisione delle norme, considerato che
il tempo che resta prima che il parlamento smetta nei fatti
di decidere, in vista delle prossime elezioni, è poco».
I problemi introdotti dalle norme in questione stanno
portando a una (quasi) paralisi nel mercato, con i tempi di
pagamento tra le aziende, un problema cronico del nostro
paese, che si stanno allungando ulteriormente. Se oggi
occorre attendere 137 giorni per vedersi onorato il credito
(+44 giorni solo nell'ultimo anno), verosimilmente il dato
andrà ritoccato verso l'alto. «Se si interpreta la norma
alla lettera», prosegue Trevisani, «si arriva all'assurdo
per cui se l'azienda deve sostituire la serratura di un
capannone è chiamata a verificare che il fabbro convocato
per l'operazione abbia versato regolarmente le ritenute ai
propri dipendenti e sia a posto anche sul fronte Iva». Senza
trascurare la tentazione di rinviare capziosamente i
pagamenti proprio appellandosi alla lettera della legge.
La richiesta delle aziende, espressa tramite Rete imprese
Italia, si fonda essenzialmente su tre punti: delimitare il
settore di applicazione della norma, «che è stata
introdotta in un provvedimento legislativo riguardante
l'edilizia, ma che di fatto oggi si estende anche ad altri
ambiti», spiega Trevisani. In secondo luogo porre un
limite minimo, al di sotto del quale le misure non si
applicano (i piccoli lavori in sostanza). Infine, escludere
l'ambito Iva, caratterizzato da tempistiche che spesso
rendono impossibile i controlli. «Restiamo sul piano dei
contenuti e del buon senso», conclude il responsabile
fiscale. «Ci auguriamo che si tenga conto di questo» (articolo ItaliaOggi Sette
del 26.11.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Dl enti locali. Sanzioni fino allo scioglimento per chi non
ridefinisce le verifiche su conti, gestioni e partecipate.
Controlli, riforma in tempi stretti.
Il Parlamento non modifica la scadenza: sistema da rifare
entro il 9 gennaio.
LA PROCEDURA/
Il varo dei regolamenti deve passare dal consiglio perché la
Giunta non può approvare da sola gli «atti fondamentali».
Tempi ultra-rapidi per la «rivoluzione dei controlli» negli
enti locali prevista dal Dl 174/2012 che sta compiendo gli
ultimi passaggi parlamentari in vista della conversione in
legge. I correttivi introdotti alla Camera nel decreto
originario, che hanno ritoccato anche la nuova disciplina
dei controlli, non hanno però modificato il calendario.
L'avvio dei nuovi meccanismi, di conseguenza, dovrà
inderogabilmente avvenire entro il 9 gennaio prossimo: il
termine è quello fissato dall'articolo 3, comma 2, che anche
dopo il passaggio alla Camera continua a far riferimento a
90 giorni dall'approvazione del decreto, e non dalla sua
conversione in legge come spesso avviene quando il
Parlamento rivede i meccanismi scritti dal Governo nel testo
originario. Insomma, a meno di improbabili ripensamenti
dell'ultima ora, occorrerà fare in fretta, anche per evitare
di imboccare la strada che può portare a sanzioni
pesantissime, fino allo scioglimento dell'ente.
L'impresa non è semplice, perché la nuova disciplina chiede
di rivedere integralmente il meccanismo dei controlli
interni e le stesse procedure ordinarie che caratterizzano
la vita amministrativa degli enti locali e la decisione
sugli atti di spesa. In pratica, si tratta di riordinare
un'architettura dei controlli che poggia su tre pilastri,
rappresentati dal controllo di regolarità contabile, dal
controllo di gestione e da quello sugli equilibri di
bilancio, a cui negli enti sopra i 15mila abitanti (la
soglia era stata fissata a 10mila nel testo originario
approvato dal Governo) si aggiungono i capitoli relativi al
controllo strategico e a quello sulle società partecipate
non quotate.
Regolarità contabile ed equilibri di bilancio sono
naturalmente le due tipologie con più storia e diffusione
nei controlli negli enti locali, ma ricevono dalla riforma
importanti novità, a partire dal parere quasi vincolante
(gli organi politici devono motivare l'eventuale deroga) che
il responsabile del servizio finanziario deve dare su tutti
gli atti che abbiano «riflessi diretti e indiretti sul
bilancio».
Più innovativo il controllo strategico, che negli
enti sopra i 15mila abitanti è chiamato a verificare i
risultati conseguiti in base ai singoli obiettivi, le
performance finanziarie, i tempi di realizzazione: nei
Comuni maggiori esistono già molte esperienze di questo
tipo, ma la nuova disciplina fissa con più puntualità
caratteristiche e contenuti del controllo, che si deve
estendere anche al monitoraggio sulla qualità dei servizi
erogati e al tasso di soddisfazione degli utenti. Un analogo
sistema di monitoraggi deve estendersi alle società
partecipate, con un'analisi puntuale sui rapporti finanziari
fra Comune e società, sul quadro contabile e i contratti di
servizio, oltre che sul rispetto dei vincoli di finanza
pubblica. Un aspetto, quest'ultimo, che appare più che
problematico, come mostra l'allarme lanciato giovedì dalla
Ragioneria sull'obbligo per i Comuni di vigilare sul
deposito dei bilanci da parte di aziende speciali e
istituzioni. Il termine scade il 30 novembre, ma
praticamente nessuno ha trasmesso i dati e la vigilanza è in
carico alle amministrazioni locali controllanti.
L'approvazione delle disposizioni regolamentari volte a
disciplinare il controllo di regolarità amministrativa e
contabile, il controllo di gestione, il controllo
strategico, quello sugli equilibri di bilancio e quello
sulle società partecipate è di competenza del consiglio
comunale o provinciale, quindi viene ricondotto al novero
degli atti fondamentali individuati dalla classificazione
contenuta nell'articolo 42 del Tuel. Non sono possibili
alternative (linee-guida) e nemmeno elusioni alla competenza
dell'organo collegiale rappresentativo, in quanto la
competenza consiliare è espressamente indicata all'articolo
3, comma 2, del decreto, e quindi impedisce un intervento
della Giunta (che sarebbe viziato da incompetenza).
---------------
L'architettura dei controlli
01 | REGOLARITÀ CONTABILE
Il controllo è esercitato in fase preventiva, come parere di
regolarità tecnica e contabile degli atti, e in fase
successiva, secondo principi generali di revisione
aziendale. Il parere del responsabile dei servizi finanziari
viene esteso a tutti gli atti che abbiano «riflessi diretti
o indiretti» sugli equilibri di bilancio dell'ente locale.
Il controllo sui singoli atti va effettuato utilizzando
tecniche di campionamento
02 | CONTROLLO
DI GESTIONE
Punta a verificare l'efficacia, l'efficienza e l'economicità
dell'azione amministrativa, per ottimizzare il rapporto tra
risorse impiegate e risultati conseguiti
03 | CONTROLLO STRATEGICO
Punta a verificare lo stato di attuazione effettiva dei
programmi. L'ente deve rilevare i risultati conseguiti
rispetto agli obiettivi e i tempi di realizzazione rispetto
alle previsioni. Questa tipologia di controllo non è
prevista per i Comuni con meno di 15mila abitanti
04 | EQUILIBRI FINANZIARI
È svolto sotto la direzione e il coordinamento del
responsabile del servizio finanziario e tramite la vigilanza
dell'organo di revisione
05 | ORGANISMI ESTERNI
L'ente locale deve definire un sistema di controlli sulle
società partecipate, tramite le strutture proprie dell'ente
locale
06 | QUALITÀ DEI SERVIZI
Può essere effettuato sia direttamente, sia tramite
organismi gestionali esterni, con l'uso di metodi che
consentano di misurare la soddisfazione degli utenti esterni
e interni dell'ente (articolo
Il Sole 24 Ore del 26.11.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'art. 32, co. 27, lett.
d), d.l. 269/2003, convertito dalla l. 326/2003, fermo
restando quanto previsto dagli artt. 32 e 33 della l.
47/1985, prescrive "l'insuscettibilità della sanatoria di
opere edilizie non autorizzate, realizzate su immobili
soggetti a vincoli istituiti prima della esecuzione di dette
opere, ove le stesse non siano conformi alle norme
urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici”; condizione quest'ultima, che costituisce una
novità rispetto alle precedenti leggi sul condono edilizio,
dando vita ad un meccanismo di sanatoria che si avvicina
fortemente all'istituto dell'accertamento di conformità,
previsto dall'art. 36 T.U. 380 2001.
Costituisce invero pacifico assunto giurisprudenziale
quello secondo cui l'art. 32, co. 27, lett. d), d.l.
269/2003, convertito dalla l. 326/2003, fermo restando
quanto previsto dagli artt. 32 e 33 della l. 47/1985,
prescrive “l'insuscettibilità della sanatoria di opere
edilizie non autorizzate, realizzate su immobili soggetti a
vincoli istituiti prima della esecuzione di dette opere, ove
le stesse non siano conformi alle norme urbanistiche ed alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici”; condizione
quest'ultima, che costituisce una novità rispetto alle
precedenti leggi sul condono edilizio, dando vita ad un
meccanismo di sanatoria che si avvicina fortemente
all'istituto dell'accertamento di conformità, previsto
dall'art. 36 T.U. 380 2001 (cfr., ex multis, Cons. Stato,
sezione quarta, n. 3174 del 19.05.2010; Tar Campania,
Napoli, questa sesta sezione, sentenze n. 912 del 22.02.2011, n. 359 del 27.01.2010, n. 844 del 10.02.2010; n. 884 del 24.01.2006; sez. quarta, 19.01.2012, n. 247; sez. settima,
01.09.2011, n.
4259, 03.11.2010, n. 22299 e n. 9355 del 24.07.2008; Sezione staccata di Salerno, sez. II,
14.01.2011, n. 26; Tar Puglia, Bari, sez. terza, 12.01.2010;
Lecce, sezione terza, 10.01.2009, n. 17)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 29.11.2012 n. 4873 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE
GESTIONALI - EDILIZIA
PRIVATA:
Avuto conto che l'ordine
di demolizione è un provvedimento adottato nell'esercizio
del potere di vigilanza in materia edilizia con finalità di
prevenzione e repressione dell'abusivismo edilizio, il
medesimo rientra pacificamente nella competenza del
dirigente ai sensi dell'art. 27 d.P.R. 06.06.2001 n. 380 e
dell'art. 107, comma 3, d.lgs. 18.08.2000 n. 267.
In primo luogo, avuto conto che l'ordine di
demolizione è un provvedimento adottato nell'esercizio del
potere di vigilanza in materia edilizia con finalità di
prevenzione e repressione dell'abusivismo edilizio, il
medesimo rientra pacificamente nella competenza del
dirigente ai sensi dell'art. 27 d.P.R. 06.06.2001 n. 380
e dell'art. 107, comma 3, d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (cfr.,
ex multis, fra le ultime, Tar Campania, Napoli, questa sesta
sezione, 07.06.2012, n. 2689 e 05.06.2012, n. 2636;
sezione seconda, 11.01.2012, n. 55 e, sezione terza, 13.02.2012, n. 758; Tar Lazio, Roma, sezione seconda,
08.02.2012, n. 1236).
Né l’incompetenza può dirsi sussistere per non essere il
dirigente titolare delle funzioni delegate ai Comuni dalla
Regione Campania, ai sensi degli artt. 8 della legge
regionale n. 65/1981 e 82, comma 2, del d.P.R. 616/1977
avuto presente che il provvedimento non risulta assunto
espressamente nell’esercizio “della subdelega in materia
paesaggistica” rilasciata ai Comuni dalla cennata regione
Campania e richiama nel suo seno il cennato art. 27 del
d.P.R. 380/2001 che individua, in relazione ai poteri
repressivi degli abusi in zona vincolata, una competenza
autonoma del dirigente nel caso in cui l’abuso sia commesso
su aree sottoposte a vincolo (sul punto cfr. anche le
pronunce di questo Tribunale, questa sesta sezione, 05.06.2012, n. 2636 cit., 12.11.2010, n. 24015 e 21.04.2010, n. 2074 e, sezione seconda,
02.03.2010, n. 1263
secondo cui alle fattispecie di che trattasi è comunque è
applicabile la cennata normativa statale)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 29.11.2012 n. 4867 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
In caso di ordine di demolizione non è richiesta
una specifica motivazione che dia conto della valutazione
delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati: il presupposto per l'adozione
dell'ordine di demolizione è costituito, infatti,
esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in
difformità dal titolo abilitativo o in sua assenza, con la
conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti
requisiti, è sufficientemente motivato con la descrizione
delle opere abusive e il richiamo alla loro accertata
abusività, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla
rimozione e al ripristino dell'assetto urbanistico violato.
In materia di demolizione di immobili abusivi, in
considerazione della natura vincolata del potere, non è
configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente, che
il tempo non può legittimare in via di fatto.
Costituisce infatti
consolidata interpretazione giurisprudenziale:
- quella per cui “...in caso di ordine di demolizione non è
richiesta una specifica motivazione che dia conto della
valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla
demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati: il presupposto
per l'adozione dell'ordine di demolizione è costituito,
infatti, esclusivamente dalla constatata esecuzione
dell'opera in difformità dal titolo abilitativo o in sua
assenza, con la conseguenza che il provvedimento, ove
ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato
con la descrizione delle opere abusive e il richiamo alla
loro accertata abusività, essendo in re ipsa l'interesse
pubblico alla rimozione e al ripristino dell'assetto
urbanistico violato” (così, da ultimo, la giurisprudenza
della Sezione fin qui richiamata e, negli stessi sensi,
sezione ottava, 09.02.2012, n. 693 e Tar Puglia, Lecce,
sez. III, 04.02.2012, n. 227);
- quella convergente, secondo cui in materia di demolizione
di immobili abusivi, in considerazione della natura
vincolata del potere, non è “configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in
via di fatto” (cfr., da ultimo, Cons. Stato sezione
quarta, 16.04.2012, n. 2185 e Tar Campania, questa sesta
sezione, 07.06.2012, n. 2689 cit.) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 29.11.2012 n. 4867 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Corte
Ue. Le condizioni per la dispensa dei Comuni dalla procedura
di aggiudicazione
Appalti snelli con controllo. Verifiche effettive sulla
società che è costituita per la gestione.
I REQUISITI/ Necessaria la partecipazione non solo formale
degli enti promotori sia al capitale sia agli organi
direttivi.
La Corte di giustizia europea mette i paletti sulle modalità
di aggiudicazione degli appalti da parte delle società che
gestiscono servizi pubblici.
Così la
sentenza 29.11.2012 nelle cause C-182/11 e C-183/11
stabilisce che «quando più autorità pubbliche, nella loro
veste di amministrazioni aggiudicatrici, istituiscono in
comune un'entità incaricata di adempiere compiti di servizio
pubblico ad esse spettanti, tali autorità, per essere
dispensate dal loro obbligo di avviare una procedura di
aggiudicazione di appalto pubblico in conformità alle norme
del diritto dell'Unione, devono esercitare congiuntamente
sull'entità in questione un controllo analogo a quello da
esse esercitato sui propri servizi, ciascuna delle autorità
stesse partecipi sia al capitale sia agli organi direttivi
dell'entità suddetta».
I fatti: il Comune di Varese, per gestire il servizio di
igiene urbana, ha costituito la spa Aspem (con un capitale
sociale di 173.785 euro, corrispondente ad altrettante
azioni del valore nominale di 1 euro ciascuna), come
prestatore di servizi "in house", di cui deteneva la
quasi totalità del capitale (173.467 azioni). Nel 2005, i
Comuni di Cagno e di Solbiate hanno scelto la gestione
coordinata, con altri Comuni del servizio di eliminazione
dei rifiuti solidi urbani, e hanno concluso una convenzione
con quello di Varese. Alla Aspem hanno aderito in qualità di
azionisti pubblici (acquisendo un'azione ciascuno). Le
restanti 318 azioni sono suddivise tra 36 Comuni della
provincia di Varese, con partecipazioni individuali che
variano da 1 a 19 azioni.
Parallelamente all'acquisizione di tale partecipazione, i
Comuni di Cagno e di Solbiate hanno sottoscritto un patto
parasociale, che prevedeva il diritto di essere consultati,
di nominare un membro del collegio sindacale e di designare,
in accordo con gli altri Comuni partecipanti un consigliere
di amministrazione. La società Econord ha contestato
l'affidamento diretto dei servizi alla Aspem, facendo valere
che il controllo dei due Comuni sulla Aspem non era
garantito e, di conseguenza, l'attribuzione dell'appalto
avrebbe dovuto essere effettuata in conformità alle norme
del diritto dell'Unione.
Il Consiglio di Stato sottolinea che il Comune di Varese
esercita il pieno controllo sulla Aspem, mentre ciò non vale
per i Comuni di Cagno e di Solbiate, in quanto
l'acquisizione di una sola azione e un patto parasociale
singolarmente debole non darebbero luogo a alcun controllo
congiunto effettivo. Ha chiesto alla Corte di chiarire la
nozione di esercizio di un «controllo analogo» a
quello esercitato dall'ente pubblico sui propri servizi.
La Corte di giustizia europea chiarisce che, quando più
autorità pubbliche fanno ricorso a un'entità comune per
svolgere un compito di servizio pubblico, non è
indispensabile che ciascuna di esse detenga da sola un
potere di controllo individuale su tale entità. Tuttavia, il
controllo non può fondarsi soltanto sul controllo
dell'autorità pubblica che detiene una partecipazione di
maggioranza nel capitale dell'entità, in quanto la nozione
stessa di controllo congiunto verrebbe svuotata di
significato.
Infatti, l'eventualità che un'amministrazione abbia,
nell'ambito di un ente posseduto in comune con altre
amministrazioni, una posizione non idonea a garantirle la
benché minima possibilità di partecipare al controllo di
tale entità, aprirebbe la strada a un'elusione delle norme
del diritto Ue. Infatti, una presenza puramente formale
nella compagine di tale entità dispenserebbe
l'amministrazione dall'obbligo di avviare una procedura di
gara d'appalto. Toccherà allora al Consiglio di Stato
verificare l'effettività del controllo.
--------------
LA SENTENZA
Date tali premesse, non vi è dubbio che, ove più autorità
pubbliche facciano ricorso ad un'entità comune ai fini
dell'adempimento di un compito comune di servizio pubblico,
non è indispensabile che ciascuna di esse detenga da sola un
potere di controllo individuale su tale entità;
ciononostante, il controllo esercitato su quest'ultima non
può fondarsi soltanto sul potere di controllo dell'autorità
pubblica che detiene una partecipazione di maggioranza nel
capitale dell'entità in questione, e ciò perché, in caso
contrario, verrebbe svuotata di significato la nozione
stessa di controllo congiunto.
Infatti, l'eventualità che un'amministrazione aggiudicatrice
abbia, nell'ambito di un'entità affidataria posseduta in
comune, una posizione inidonea a garantirle la benché minima
possibilità di partecipare al controllo di tale entità
aprirebbe la strada ad un'elusione (...) - Corte di
giustizia Ue, sentenza nelle cause C-182/11 e altre
(articolo Il
Sole 24 Ore del
30.11.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Distanze sottotetti: è derogata la norma locale dal confine.
Con
ordinanza 27.11.2012 emessa nel ricorso ex artt. 1170
c.c. / 703 c.p.c. n. 359/11 R.G. Cont., il Tribunale di
Como, sezione distaccata di Menaggio, ha messo un punto
fermo su una circostanza pacifica per gli operatori di
diritto ma non per le pubbliche amministrazioni. Ossia che
l’intervento di recupero del sottotetto esistente,
autorizzato ai sensi della l.r. 12 del 2005, essendo “ammesso
anche in deroga ai limiti ed alle prescrizioni degli
strumenti di pianificazione comunale vigenti ed adottati”
(art. 64, c. II), se non deroga alle distanze di cui al D.M.
1444/1968, articolo 9, deroga invece alle locali distanze
dai confini.
In altre parole: la qualificazione di un intervento di
recupero del sottotetto come nuova costruzione ai fini della
applicazione della normativa di materia di distanze tra
edifici vale qualora si voglia verificare la corretta
applicazione del DM 1444/1968, ma è indifferente qualora la
si intenda declinare in termini di rispondenza alle
disposizioni regolamentari perché:
• l'art. 9 del DM 1444/1968 nulla dispone in materia di
distanze dai confini, trattandosi di disposizione
espressamente dedicata a pareti di edifici che si
fronteggiano;
• l’articolo 64, comma 2, L.R. 12/2005 dispone che gli
interventi di recupero di sottotetti, al di là della
qualificazione di ^ristrutturazione^ offerta, operino “anche
in deroga ai limiti ed alle prescrizioni degli strumenti di
pianificazione comunale vigenti ed adottati”, con la
sola eccezione delle normative locali relative al
reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali. Nella
fattispecie, l’articolo 16.2 delle NTA del Comune di
Menaggio (tratto e link - link a
www.studiospallino.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Per espresso disposto
normativo (art. 4, comma 6, della L. 28.01.1977 n. 10, poi
confluito nell’art. 11 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380), la
concessione edilizia (ed ora il permesso di costruire) è
irrevocabile.
Invero, come lamentato con il primo
motivo, per espresso disposto normativo (art. 4, comma 6,
della L. 28.01.1977 n. 10, poi confluito nell’art. 11 del d.P.R.
06.06.2001 n. 380), la concessione edilizia (ed ora
il permesso di costruire) è irrevocabile (cfr. Consiglio di
Stato, Sezione VI, 27.06.2005 n. 3414; TAR Lombardia,
Milano, Sezione II, 27.10.2009 n. 4929 e 19.10.2011 n. 2478).
Va aggiunto che, nel caso di specie, il provvedimento va
qualificato come revoca in senso proprio, poiché
l’amministrazione non ha inteso avvalersi della potestà di autoannullamento, consentita anche per i titoli edilizi, non
avendo posto a base dell’azione un vizio di legittimità tale
da invalidare l’atto di primo grado sin dalla sua origine
(cfr. Consiglio di Stato, sezione V, 27.11.1981 n. 609), ma
sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero un
mutamento della situazione di fatto (secondo la definizione
recepita dall’art. 21-quinquies della L. n. 241/1990,
introdotto dalla L. n. 15/2005)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza
23.11.2012 n. 4785 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Ai fini dell'esercizio del diritto di accesso
occorre la dimostrazione di una rigida "necessità" e non
mera "utilità" del documento" cui si chiede di accedere.
Ai fini dell'applicazione dell'art. 24, c. 7, della l. n.
241 del 1990, per il quale l'accesso deve essere garantito
se la conoscenza dei documenti sia "necessaria per curare
o difendere i propri interessi giuridici", occorre la
dimostrazione di una rigida "necessità" e non mera "utilità"
del documento" cui si chiede di accedere, tanto più nei casi
in cui l'accesso sia esercitato non già in relazione agli
atti di un procedimento amministrativo di cui il richiedente
è parte, ma in relazione agli atti di procedimenti
amministrativi rispetto ai quali il richiedente è terzo, non
configurandosi, di conseguenza, la posizione legittimante
quando "i documenti richiesti non sono necessari per la
difesa in giudizio ma solo utili per articolare la difesa in
giudizio secondo una particolare modalità, ossia per
articolare una particolare censura", configurandosi
altrimenti, la fattispecie del mero controllo generalizzato
dell'attività amministrativa precluso dall'art. 24, c. 3,
della l. n. 241 del 1990 (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 22.11.2012 n. 5936 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Presupposto per
l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è
soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio
in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la
conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è
sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e
non necessita di una particolare motivazione in ordine
all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che
è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto
urbanistico violato, e alla possibilità di adottare
provvedimenti alternativi.
Le censure sono destituite di fondamento: in
primo luogo, nei provvedimenti impugnati (in particolare
nell’ordinanza di sospensione n. 7087) è fatto espresso
riferimento al fatto che i lavori abusivi sono stati
realizzati in zona vincolata e che il provvedimento è
emanato ai sensi del d.lgs. 29.10.1999 n. 490 Tit. II, Capo
II e III, per cui nessuna incertezza si rinviene in ordine
al contrasto degli abusi commessi con la normativa
paesaggistico-ambientale e urbanistico-edilzia.
A ciò si aggiunga che per l’entità degli abusi contestati il
provvedimento finale di demolizione, che già in astratto
costituisce atto vincolato (come costantemente affermato
dalla giurisprudenza di questo Tribunale, condivisa da
questo Collegio: “…presupposto per l'adozione dell'ordine di
demolizione di opere abusive è soltanto la constatata
esecuzione di un intervento edilizio in assenza del
prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che,
essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente
motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di
una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico
alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato,
e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi”,
TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 1999),
nel caso di specie non richiede, a maggior ragione,
specifiche ed ulteriori motivazioni in ordine alle ragioni
di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati (tra le
molte, TAR Campania, sez. VIII, 29.01.2009, n. 501)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza
22.11.2012 n. 4747 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
La dimostrazione del possesso di una determinata
qualificazione, imposta dalla legge, deve essere fornita dai
concorrenti anche se non richiesta dal bando, entro il
termine per partecipare alla gara di appalto.
Nel caso in cui la prestazione, oggetto dell'appalto,
presupponga il possesso di una determinata qualificazione,
imposta dalla legge, la relativa dimostrazione deve essere
fornita dai partecipanti anche se non richiesta dal bando di
gara, entro il termine per partecipare al procedimento e la
sua mancanza può essere superata avvalendosi del subappalto
ma, in tal caso, la domanda di partecipazione deve indicare
espressamente il subappaltatore (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.11.2012 n. 5900 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
COMPETENZE
GESTIONALI - EDILIZIA
PRIVATA:
La competenza
all'emanazione di sanzioni demolitorie rese sino all'anno
1998 deve reputarsi appartenente al Sindaco e non all'organo
dirigenziale essendo stata la stessa trasferita
espressamente ai dirigenti solo ai sensi dell'art. 2, comma
12, l. 16.06.1998, n. 191.
Tanto, beninteso, in assenza di norme regolamentari che, nei
singoli Comuni, in forza della previgente normativa primaria
a partire dalla l. 142 del 1990, avessero già attuato “il
principio legislativo” del trasferimento delle competenze
dal sindaco agli organi dirigenziali del Comune.
Va per contro osservato come, secondo la
costante giurisprudenza della Sezione, la competenza
all'emanazione di sanzioni demolitorie rese sino all'anno
1998 deve reputarsi appartenente al Sindaco e non all'organo
dirigenziale essendo stata la stessa trasferita
espressamente ai dirigenti solo ai sensi dell'art. 2, comma
12, l. 16.06.1998, n. 191 (cfr., ex multis, Tar
Campania, Napoli, questa sesta sezione, 05.06.2012, n. 2365;
23.05.2012, n. 2373; 30.04.2008, n. 3072; 03.04.2008, n.
1832; cfr. ancora, negli stessi sensi, Tar Toscana, Firenze,
sezione terza, 26.11.2010, n. 6627).
Tanto, beninteso, in assenza di norme regolamentari che, nei
singoli Comuni, in forza della previgente normativa primaria
a partire dalla l. 142 del 1990, avessero già attuato “il
principio legislativo” del trasferimento delle
competenze dal sindaco agli organi dirigenziali del Comune
(cfr. Cons. Stato, sezione quinta, 06.03.2000, n. 1149 e Tar
Campania, sempre questa sesta sezione, 05.06.2012, n. 2365
cit.): circostanza, questa, la cui sussistenza qui non è
dedotta
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza
20.11.2012 n. 4675 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
E' riservata all'aggiudicatario, nell'ambito
della sue autonome determinazioni imprenditoriali, la scelta
se "confermare" la sua offerta ormai scaduta a seguito
dell'eccessivo prolungamento delle operazioni di gara.
La sopravvenuta scadenza del termine di validità
dell'offerta a seguito dell'eccessivo prolungamento delle
operazioni di gara (ovvero, come nel caso di specie, per
effetto di ulteriori trattative intraprese per la modifica
di alcune pattuizioni) consente all'aggiudicatario la scelta
di disimpegnarsi da ogni vincolo negoziale senza incorrere
in alcuna sanzione, ovvero di "confermare", anche
tacitamente, l'offerta stessa accettando la stipula
contrattuale.
In sostanza, è riservata all'aggiudicatario, nell'ambito
della sue autonome determinazioni imprenditoriali, la scelta
se "confermare" la sua offerta ormai scaduta,
addivenendo alla stipula, ovvero esercitare il suo diritto
di "recesso" dalla fase della stipula (TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 20.11.2012 n. 783 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
L'obbligo di produrre la dichiarazione in ordine
ai requisiti di cui all'art 38 del d.lgs. n. 163/2006, è
imposta da una norma inderogabile dell'ordinamento.
La dichiarazione ex art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, è dovuta
anche dall'amministratore che - sebbene non abbia un ruolo
operativo (in generale o rispetto alla specifica gara) - sia
comunque "munito" del potere di rappresentanza.
La necessità di produrre la dichiarazione in ordine ai
requisiti di cui all'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, trova
fonte in una norma inderogabile dell'ordinamento, con la
conseguenza che, qualora la dichiarazione sia omessa o sia
incompleta, è del tutto legittima l'esclusione dalla gara
del soggetto che non ha reso le dovute dichiarazioni, con la
conseguenza che l'omissione della dichiarazione non può
beneficiare del cosiddetto "potere di soccorso" (art.
46, c. 1, del d.lgs. n. 163/2006) tramite l'integrazione
postuma.
Nelle procedure di evidenza pubblica la completezza delle
dichiarazioni è un valore da perseguire perché consente
-anche in ossequio al principio di buon andamento
dell'amministrazione e di proporzionalità- la celere
decisione in ordine all'ammissione dell'operatore economico
alla gara. Conseguentemente una dichiarazione inaffidabile
(perché falsa o incompleta) è già di per sé stessa lesiva
degli interessi considerati dalla norma a prescindere dal
fatto che l'impresa meriti 'sostanzialmente' di
partecipare alla gara. In altri termini, nel diritto degli
appalti occorre poter fare affidamento su una dichiarazione
idonea a far assumere tempestivamente alla stazione
appaltante le necessarie determinazioni in ordine
all'ammissione dell'operatore economico alla gara o alla sua
esclusione. La dichiarazione ex art. 38, dunque, è sempre
utile perché l'amministrazione sulla base di quella può/deve
decidere la legittima ammissione alla gara e
conseguentemente la sua difformità dal vero o la sua
incompletezza non possono essere "sanate" ricorrendo
alla categoria del falso innocuo.
Gli amministratori muniti di potere di rappresentanza devono
necessariamente rendere la dichiarazione richiesta dall'art.
38 del codice dei contratti a prescindere dal fatto,
peraltro di difficile (e dubbia) prova, che nella sostanza
non svolgano attività. E', infatti, anche sulla scorta della
formula di legge ("muniti"), che la giurisprudenza
ritiene che ciò che conta è la titolarità del potere e non
anche il suo esercizio (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 19.11.2012 n. 1814 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Sulla categoria della "concessione di lavori
pubblici" e conseguenti implicazioni in tema di riparto di
giurisdizione.
Nel nuovo quadro normativo (d.lgs. n. 163 del 2006), non è
più consentita la precedente distinzione tra concessione di
sola costruzione e concessione di gestione dell'opera (o di
costruzione e gestione congiunte), ma sussiste l'unica
categoria della "concessione di lavori pubblici", ove
prevale il profilo autoritativo della traslazione delle
pubbliche funzioni inerenti l'attività organizzativa e
direttiva dell'opera pubblica, con le conseguenti
implicazioni in tema di riparto di giurisdizione "in
quanto, ormai, la gestione funzionale ed economica
dell'opera non costituisce più un accessorio eventuale della
concessione di costruzione, ma la controprestazione
principale e tipica a favore del concessionario, come
risulta dall'art. 143 del codice, con la conseguenza che le
controversie relative alla fase di esecuzione appartengono
alla giurisdizione ordinaria" (L. n. 109 del 1994, art.
31-bis; art. 133, c. 1, lett. e), n. 1 cod. proc. amm.).
Alla medesima declaratoria della giurisdizione ordinaria si
perverrebbe, nel caso di specie, pur nell'ipotesi in cui
nella convenzione potesse ravvisarsi un appalto di o.p.
posto che, contrariamente all'assunto del comune, per
effetto della L. n. 205 del 2000, artt. 6 e 7, ora trasfusi
nell'art. 133 cod. proc. amm. nelle procedure ad evidenza
pubblica aventi ad oggetto l'affidamento di lavori pubblici,
spetta alla giurisdizione esclusiva del g.a. soltanto la
cognizione di comportamenti ed atti assunti prima
dell'aggiudicazione e nella successiva fase compresa tra
l'aggiudicazione e la stipula dei singoli contratti; mentre
nella successiva fase contrattuale riguardante, come nella
fattispecie, l'esecuzione del rapporto la giurisdizione
continua ad appartenere al g.o. (Corte di Cassazione, SS.UU.
civili,
sentenza 09.11.2012 n. 19391 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il progetto presentato
per il rilascio di un permesso di costruire va esaminato
avendo riguardo e facendo applicazione unicamente della
disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento in cui
viene svolta la prescritta verifica di conformità e non di
quella ancora in corso di elaborazione.
Considerato, nel merito, che per
consolidata giurisprudenza, il progetto presentato per il
rilascio di un permesso di costruire va esaminato avendo
riguardo e facendo applicazione unicamente della disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento in cui viene svolta
la prescritta verifica di conformità (cfr. Cons. Stato, sez.
V, 31.12.1998, n. 1993; 04.02.2004, n. 268; TAR
Campania, Napoli, sez. IV, 27.01.2004, n. 503), e non di
quella ancora in corso di elaborazione (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 11.04.1995, n. 571)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 08.11.2012 n.
4489 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La procedura. Decisivo il peso dell'insediamento.
Soggette al versamento anche le aree scoperte.
INDUSTRIA E COMMERCIO/
Il Tar Emilia Romagna: per i depositi all'aria aperta
occorre fare riferimento all'attività commerciale svolta in
prevalenza.
Anche il semplice utilizzo di un'area scoperta può
comportare il pagamento di oneri urbanizzatori.
È quanto
precisato di recente dal TAR Emilia-Romagna-Bologna,
Sez. II,
sentenza 12.09.2012 n. 557,
con
riferimento a un permesso di costruire per una struttura
destinata da un concessionario di autovetture a deposito a
cielo aperto e vendita di veicoli nuovi e usati.
Il titolare della concessionaria aveva impugnato il
provvedimento comunale di determinazione della quota di
contributo afferente al costo di costruzione e di revisione
in aumento della quota relativa agli oneri di urbanizzazione
secondaria, nonché l'ingiunzione di pagamento. Il ricorrente
denunciava la violazione delle tabelle comunali per il
calcolo degli oneri urbanistici, perché effettuata con
riferimento a quelle (più onerose) per le "attività
commerciali" e non a quelle (inferiori) per i "depositi a
cielo aperto", così come previsto per la zona interessata
dalle norme di attuazione del Prg (piano regolatore
generale). Inoltre il titolare contestava anche la mancata
comunicazione di avvio del procedimento (articoli 7 e 8
della legge n. 241/1990).
I giudici hanno innanzitutto disatteso quest'ultima censura,
perché hanno classificato l'atto di determinazione del
contributo non come un provvedimento in autotutela
dell'amministrazione, ma come un atto con il quale il Comune
determina (e in questo caso rettifica) i contributi
urbanistici, che chiunque richieda un titolo edilizio è
tenuto a pagare prima del rilascio del permesso di
costruire. Si tratta di atti che non rivestono natura
provvedimentale, incidendo su posizioni di diritto
soggettivo, ed hanno carattere vincolato, rendendo inutile
la partecipazione del soggetto coinvolto.
Il Tar ha considerato infondato anche il motivo con cui la
società ricorrente ha ritenuto illegittima la
rideterminazione degli oneri concessori in base ai valori
per le attività commerciali, piuttosto che a quelli dei
depositi a cielo aperto. La sentenza osserva come
l'intervento non consista nella realizzazione di un edificio
strumentale ad una attività produttiva inerente il deposito
a cielo aperto di autoveicoli, bensì nella realizzazione di
un complesso funzionale all'attività commerciale di vendita
di autoveicoli che vede, quale ulteriore attività
collaterale a quella principale di concessionaria della casa
automobilistica, anche l'utilizzo di parte dell'area quale
deposito a cielo aperto di vetture.
Quindi è del tutto
legittimo che l'amministrazione comunale, in sede di
corretta determinazione dei contributi urbanistici, debba
necessariamente individuare e calcolare l'importo sulla base
di quanto prevedono le relative tabelle in relazione
all'esatta qualificazione del complessivo intervento
assentito e, quindi, anche in modo corrispondente
all'effettiva qualificazione dell'attività svolta dal
ricorrente nel nuovo edificio oggetto di concessione
edilizia.
Poiché l'attività svolta è quella della vendita di
autoveicoli nuovi e usati, i contributi devono essere
calcolati secondo le tabelle proprie di ciascuna categoria
di uso presente nell'intervento realizzato.
Nella specie, pertanto, in riferimento all'edificio
assentito, è dovuto sia il contributo per oneri di
costruzione (essendo esenti, secondo la normativa
urbanistica locale, solo gli interventi destinati ad usi
produttivi), sia il contributo per oneri di urbanizzazione,
commisurato, alla attività commerciale effettivamente svolta
nell'edificio (articolo
Il Sole 24 Ore del 26.11.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
I contributi di costruzione. I chiarimenti che arrivano dal
Consiglio di Stato.
La data di Scia e Dia fissa il prezzo degli oneri.
Niente aumenti dopo la presentazione dell'istanza.
GLI INTERVENTI MAGGIORI/ Solo per il permesso
di costruire i conteggi vengono differiti fino
all'approvazione del progetto.
L'obbligo di pagare gli oneri di urbanizzazione per gli
interventi edilizi non dipende solo dal rilascio del
provvedimento autorizzatorio, ma sorge anche in caso di
presentazione di una denuncia di inizio di attività edilizia
o di una Scia (segnalazione certificata di inizio attività),
insieme all'inoltro della segnalazione o alla presentazione
della denuncia. L'obbligo, infatti, è correlato all'aumento
del carico urbanistico, quindi all'attività di
trasformazione del territorio. È alla disciplina vigente al
momento di presentazione della Scia o della denuncia che
l'amministrazione dovrà fare riferimento per calcolare gli
oneri dovuti, senza considerare mutamenti tariffari
successivamente intervenuti o richiedere conguagli.
Un
principio, quest'ultimo, affermato dal Consiglio di Stato,
Sez. IV, con la
sentenza
04.09.2012 n. 4669.
In caso di rilascio del permesso di costruire, invece,
l'obbligo di pagamento sorge con l'approvazione del
progetto, anche se questo passaggio avviene a distanza di
anni dalla domanda, e si dovrà fare riferimento alle tariffe
vigenti in questo momento e non a quelle, eventualmente più
favorevoli, in vigore alla data di presentazione della
domanda (Consiglio di Stato, sezione IV, pronunce n. 3116 e
n. 1752 del 2011).
Le origini
Il principio di onerosità della concessione edilizia è stato
introdotto dalla legge Bucalossi (la n. 10/1977) e poi
trasfuso nell'articolo 16 del testo unico dell'edilizia (il
Dpr 380/2001); norma della quale la giurisprudenza ha
progressivamente definito i contenuti e la portata,
chiarendone gli aspetti più problematici.
Per orientamento ormai consolidato (da ultimo Consiglio di
Stato, sezione IV, sentenza 30.07.2012, n. 4320) il
contributo per il rilascio del permesso di costruire ha
natura di prestazione patrimoniale pubblicistica ed
obbligatoria, di tipo non tributario (Consiglio di Stato,
sezione V, sentenza 20.04.2009, n. 2359). Si tratta di
una prestazione a carattere generale, non disponibile dalle
parti, poiché prescinde dalla effettiva realizzazione
dell'intervento urbanizzatorio (Consiglio di Stato, sezione
V, 22.02.2011, n. 1108). Ad esempio, è stato escluso
che potesse omettersi il pagamento degli oneri concessori a
fronte di un asserito inadempimento del Comune della
"controprestazione" pattuita, che nel caso specifico
consisteva nella costruzione di una strada indispensabile
per assicurare l'accesso al suolo interessato dal permesso
di costruire (Consiglio di Stato, sezione V, pronuncia 15.12.2005, n. 7140).
Il presupposto del contributo viene individuato
nell'incremento del "carico urbanistico", quello, cioè, che
viene prodotto da un nuovo insediamento o dall'ampliamento
di uno preesistente, per l'aumento delle persone insediate e
la correlata domanda di ulteriori strutture ed opere
collettive (strade, fognature, eccetera) in una determinata
area.
La quantificazione del contributo è del tutto indipendente
sia dalle spese effettivamente occorrenti
all'amministrazione per realizzare le opere di
urbanizzazione, sia dall'immediata utilità che il
proprietario dell'area riceve in conseguenza di un formale
titolo edificatorio, ovvero dalla possibilità di eseguire
l'intervento costruttivo in forza di Dia o Scia.
L'aggiornamento
Gli oneri di urbanizzazione devono essere aggiornati ogni
cinque anni dai Comuni, in conformità alle relative
disposizioni regionali e in relazione ai riscontri dei
prevedibili costi delle opere di urbanizzazione primaria,
secondaria e generale. Quindi, una volta intervenuta la
delibera comunale di aggiornamento, ogni trasformazione
edilizia può essere assoggettata solo al pagamento degli
oneri di urbanizzazione tabellari previsti dal provvedimento
comunale vigente e applicati in relazione alla tipologia e
localizzazione del manufatto, oppure all'entità della
trasformazione urbanistica (Consiglio di Stato, sezione IV,
sentenza 24.12.2009, n. 8757).
La delibera del Consiglio comunale con la quale vengono
determinati gli oneri di urbanizzazione è considerata dalla
giurisprudenza un atto autoritativo e, come tale, è soggetta
all'ordinario termine di decadenza ai fini della sua
impugnazione (60 giorni). Viceversa, nel caso in cui non
vengano dedotte censure nei confronti della delibera, ma ci
si limiti a contestare la concreta quantificazione del
contributo di urbanizzazione e il suo ammontare, le
controversie riguardano posizioni di diritto soggettivo e
sono azionabili nel termine di prescrizione di cinque anni
innanzi al giudice amministrativo in sede di giurisdizione
esclusiva (Consiglio di Stato, sezione V, 28.05.2012,
n. 3122; sezione IV, 10.03.2011, n. 1565).
---------------
I punti fermi della giurisprudenza
01 | L'OBBLIGO DI PAGARE SCATTA
CON LA CONCESSIONE
Il rilascio della
concessione edilizia si configura come fatto costitutivo
dell'obbligo del concessionario di pagare il contributo per
oneri di urbanizzazione. Il privato deve contribuisce così
alle spese affrontate dal Comune per le opere indispensabili
affinché l'area diventi idonea all'insediamento autorizzato
e grazie alle quali l'area acquista un beneficio
economicamente rilevante. Il contributo va calcolato secondo
i parametri vigenti al momento del rilascio della
concessione -
Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 30.07.2012, n.
4320
02 | CON LA DIA IL PAGAMENTO
È IMMEDIATO
Nel caso di
presentazione di una denuncia di inizio di attività edilizia
(Dia), l'obbligo di pagare gli oneri di urbanizzazione e il
costo di costruzione sussiste all'atto della presentazione
della Dia stessa. L'importo è in relazione alla situazione
esistente al momento della presentazione della domanda -
Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 28.05.2012
n. 3122
03 | AL TAR I RICORSI CONTRO
IL CALCOLO DEI VERSAMENTI
La delibera del Consiglio comunale con la quale vengono
determinati i contributi concessori per gli interventi
edilizi è da considerarsi un atto autoritativo e, come tale,
è soggetta all'ordinario termine di decadenza ai fini della
sua impugnazione. Al contrario, le controversie sulla
contestazione degli oneri di urbanizzazione attengono a
posizioni di diritto soggettivo azionabili davanti al
giudice
amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva nel
termine di prescrizione -
Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 28.05.2012
n. 3122
04 | PER STABILIRE GLI IMPORTI
NON SERVE LA MOTIVAZIONE
La determinazione del contributo e degli oneri di
urbanizzazione costituisce atto vincolato, che va effettuato
sulla base di parametri prestabiliti e pertanto non richiede
una specifica motivazione sulla determinazione delle somme
Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 01.09.2011,
n. 4906
05 | VALORI DA INDIVIDUARE IN BASE ALL'ATTIVITÀ SVOLTA
L'ente locale deve necessariamente individuare e calcolare
il quantum contributivo sulla base di quanto prevedono le
tabelle e in relazione all'esatta qualificazione del
complessivo intervento assentito. Il calcolo va quindi
effettuato anche in modo corrispondente all'effettiva
qualificazione dell'attività svolta nel nuovo edificio
oggetto di concessione edilizia e di contribuzione
urbanistica -
Tar Emilia-Romagna, Bologna, sezione II, sentenza 12.09.2012, n. 557
06 | TERRAZZI, SOFFITTE E CANTINE ESCLUSI DAI CONTEGGI
Il calcolo degli oneri di urbanizzazione va effettuato
tenendo conto anche delle "superfici di calpestio",
ma per esse devono intendersi solo quelle utili, costituite
dalla somma delle aree di pavimento dei singoli vani
utilizzati per le attività e destinazioni d'uso. Vanno
escluse dal conteggio le aree destinate ai porticati, ai
pilotis, alle logge, ai balconi, ai terrazzi, ai locali
cantina, soffitte e ai locali sottotetto non agibili.
Queste esclusioni sono coerenti con il presupposto per
l'insorgenza dell'obbligo di versare gli oneri di
urbanizzazione, e cioè che vi sia un effettivo aggravio del
carico urbanistico dovuto alla incidenza dell'intervento
edilizio, che deve essere ragionevolmente considerato non
nell'insieme delle superfici "di calpestio", ma di
quelle utili, le sole in grado di comportare un maggior
incremento del carico urbanistico -
Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 15.07.2009, n.
4439
07 | ININFLUENTE LO SVILUPPO URBANISTICO DELL'AREA
Gli oneri di urbanizzazione stabiliti in via generale sono
dovuti a prescindere dalla situazione urbanizzativa delle
zone in cui ricadono i singoli interventi, in quanto essi
adempieno all'esigenza di una partecipazione patrimoniale da
parte dei privati al pregiudizio economico gravante sulla
collettività comunale per effetto della trasformazione del
territorio -
Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 24.12.2009,
n. 8757
08 | SI PAGA SOLO SULLA BASE
DEL PROGETTO PRESENTATO
L'imponibile per la liquidazione degli oneri
d'urbanizzazione deve essere valutato sulla base delle
tariffe esistenti al momento della domanda del permesso di
costruire e con esclusivo riguardo all'immobile così come
definito e autorizzato, risultando irrilevanti le istanze
edilizie quando ad esse non abbia fatto seguito il titolo
abilitativo -
Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza
22.03.2011, n. 1752
09 | IMPORTI CONTESTABILI ANCHE SENZA IMPUGNARE L'ATTO
L'azione giudiziaria, volta alla declaratoria
dell'insussistenza o di una diversa entità del debito
contributivo per oneri di urbanizzazione, è esperibile a
prescindere dall'impugnazione o dall'esistenza dell'atto con
cui è preteso il pagamento del contributo, trattandosi di un
giudizio d'accertamento di un rapporto obbligatorio
pecuniario, proponibile nel termine di prescrizione -
Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 22.03.2011,
n. 1752 (articolo
Il Sole 24 Ore del 26.11.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Demansionamento. La Cassazione delinea la fattispecie, che
entra anche nell'accordo di produttività, e i distinguo
rispetto all'intento persecutorio.
La dequalificazione non fa mobbing.
Niente automatismo anche se può scattare un indennizzo -
L'illecito va sempre provato.
Tra i temi che entreranno nella contrattazione collettiva
futura c'è anche quello della flessibilità nelle mansioni
dei lavoratori. Questo è uno dei punti previsti dall'accordo
sulla produttività sottoscritto la scorsa settimana tra
Governo e parti sociali (Cgil esclusa). Diventa quindi di
stretta attualità "fare il punto" sul demansionamento per
come viene trattato nelle aule di giustizia, soprattutto per
delinearne l'identikit e trovare la linea di demarcazione
rispetto al mobbing.
Molto spesso, infatti, le due figure
vengono richiamate in tandem, anche se sono e vanno tenute
distinte. Il "distinguo" tra la dequalificazione
professionale e il mobbing si gioca in realtà sul piano
della prova. È necessario chiedersi quale può essere
l'elemento di distinzione, indispensabile anche per
quantificare l'eventuale risarcimento del danno subito.
La necessità della prova
La giurisprudenza ha precisato che la dequalificazione non è
necessariamente mobbing se non si prova l'intento
persecutorio dell'azienda. La Corte di Cassazione, con la
sentenza
23.07.2012 n.
12770, ha affermato che la
dequalificazione professionale non è prova certa di una
volontà oppressiva e vessatoria del datore di lavoro. Non si
può escludere, tuttavia, solo per questo, il riconoscimento
di un indennizzo per il danno morale, biologico e
professionale subìto, poiché il demansionamento del
lavoratore comporta comunque uno svilimento della
professionalità acquisita dal dipendente. La vicenda vede
coinvolta un'impiegata amministrativa di un'azienda
telefonica trasferita al servizio di centralinista. La
Cassazione rigetta il ricorso della lavoratrice sulla
domanda di risarcimento del danno da mobbing.
L'estensore
motiva che i vari comportamenti assunti mobbizzanti,
complessivamente valutati, non erano tali da configurare la
nozione di mobbing, come delineata dalla consolidata
giurisprudenza (Cassazione 87/2012). Alcuni di questi,
infatti, non risultavano provati (come il divieto di
ritirare gli effetti personali) e la maggioranza di questi
risultava legittima (l'apertura della corrispondenza,
considerato il divieto di ricezione di corrispondenza
personale e quindi la riferibilità a comunicazioni
d'ufficio, il trattamento di malattia corrisposto come
previsto dal contratto collettivo, la reiterazione delle
visite di controllo data la durata dell'assenza per
malattia).
Quindi, conclude la sentenza, i singoli
comportamenti non avevano in sé, congiuntamente e
isolatamente considerati, contenuto mobbizzante, sicché
dalla loro somma, mancando una qualsiasi prova
dell'esercizio abusivo del diritto, non si poteva desumere
un disegno persecutorio, fonte di risarcimento.
Il risarcimento
In altri casi è stato escluso il risarcimento del danno, sia
da mobbing sia da demansionamento. Nella sentenza n.
2711/2012, la Cassazione ha trattato il caso di
licenziamento disciplinare, in cui il lavoratore chiedeva il
risarcimento del danno per dequalificazione professionale.
La Cassazione esclude che possa configurarsi mobbing, poiché
il dipendente non aveva fornito i nomi delle persone autrici
dei comportamenti illeciti. Non si poteva delineare, quindi,
un insieme di atteggiamenti ostili idonei per la quantità,
qualità e ripetitività a integrare la lamentata situazione
di mobbing.
In definitiva, era onere del lavoratore provare
che il danno alla salute era diretta conseguenza del
supposto comportamento datoriale persecutorio. Neanche la
dequalificazione era stata provata, poiché non era stata
dimostrata l'inattività lavorativa o l'assegnazione di un
tavolo senza mezzi di lavoro. Infatti, dopo la
ristrutturazione dei reparti produttivi, il datore di aveva
cercato invano di attribuire ulteriori mansioni al
lavoratore, che aveva sistematicamente rifiutato di
adempiere la sua prestazione, pretendendo di renderla
secondo un orario unilateralmente determinato.
Anche in
Cassazione n. 14206/2012 la Corte ha escluso il risarcimento
del danno da demansionamento da direttore amministrativo a
segretario generale, ravvedendo una sostanziale coincidenza
delle mansioni svolte. La sentenza ha esclude inoltre il
danno da mobbing. In definitiva, da un lato non vi è mobbing
se non c'è ripetitività di atti persecutori. Dall'altro, può
esserci demansionamento se le mansioni sono incompatibili
tra loro o il lavoratore rimane inattivo sul luogo di
lavoro.
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Il risarcimento. La quantificazione in via equitativa.
Danno professionale solo se aggiuntivo e autonomo.
IL PRINCIPIO/
Il pregiudizio patrimoniale non si può ravvisare
implicitamente nella potenzialità lesiva dell'atto legittimo.
Accertato il demansionamento, il giudice deve quantificare
il danno in via equitativa. È quanto emerge dalle recenti
sentenze della Cassazione. In sostanza, in caso di accertato
demansionamento professionale del lavoratore in violazione
dell'articolo 2103 del Codice civile, il giudice di merito
può desumere l'esistenza del danno, determinandone anche
l'entità in via equitativa, con processo logico-giuridico
attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in
base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità
dell'esperienza lavorativa pregressa, al tipo di
professionalità colpita, alla durata del demansionamento,
all'esito finale della dequalificazione e alle altre
circostanze del caso concreto. Il principio è chiaramente
espresso in Cassazione n. 2257 del 16 febbraio scorso, che
ha affrontato l'ipotesi di demansionamento di un lavoratore
che da responsabile di reparto di macelleria di un
supermercato era stato adibito a compiti di commesso.
La
Corte, richiamando l'insegnamento delle sezioni unite n.
6572/2006 e n. 26972/2008, chiarisce che il lavoratore che
dichiari di aver subito un danno dalla dequalificazione
professionale, deve fornire la prova dell'esistenza del
danno e del nesso di causalità con l'inadempimento. Prova
che –prosegue l'estensore– è presupposto indispensabile
per fare una valutazione equitativa del danno subito. Del
resto, il danno patrimoniale non può ritenersi
immancabilmente e implicitamente ravvisabile a causa della
potenzialità lesiva dell'atto illegittimo (nel caso di
specie il demansionamento), dovendo necessariamente prodursi
una lesione aggiuntiva e per certi versi autonoma.
Si pensi alla lesione derivante dall'impoverimento della
capacità professionale acquisita dal lavoratore o alla
mancata acquisizione di una maggiore capacità, o ancora, al
pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori
possibilità di guadagno. Perciò, la Cassazione ha confermato
la pronuncia di appello sul demansionamento poiché il
lavoratore aveva subito una perdita rilevante, sia sul piano
dell'autonomia e rilevanza delle proprie incombenze, sia del
potere di coordinamento, ossia dei tratti qualificanti che
caratterizzano la professionalità del lavoratore.
Cambio di rotta, invece, per Cassazione n. 7963 del 18
maggio scorso. Infatti, è sufficiente che il lavoratore
alleghi semplicemente la dequalificazione professionale
subìta per ribaltare la prova a carico del datore di lavoro.
Sarà poi quest'ultimo a dover dimostrare il legittimo
esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o,
comunque, l'impossibilità di destinare il dipendente ad
altre mansioni. Nel solco della giurisprudenza maggioritaria
si pone invece la sentenza della sezione lavoro del
Tribunale di Milano (giudice Ravazzoni) del 29.06.2012.
Alcuni lavoratori di una società di telecomunicazioni
ottenevano una prima sentenza di assegnazione alle mansioni
precedentemente svolte in virtù del demansionamento subito.
La vicenda arriva in tribunale: il giudice afferma che la
dequalificazione non comporta l'immediata perdita della
professionalità, ma trascorso un certo periodo di tempo si
può senz'altro ritenere che i lavoratori specializzati in
settori tecnologicamente avanzati rimangano privi
dell'indispensabile aggiornamento teorico-pratico. Il che,
da un lato impedisce l'affinarsi e lo sviluppo della
professionalità nell'esecuzione del lavoro, dall'altro
compromette una utile ricollocazione nella stessa azienda o,
in generale, sul mercato del lavoro.
In definitiva, il
magistrato quantifica il danno alla professionalità
calcolando la percentuale del 30% sulla retribuzione mensile
lorda per ogni mese di dequalificazione patita (articolo Il Sole 24
Ore del 26.11.2012). |
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