|
|
Alcuni files sono in formato Acrobat (pdf): se non riesci a leggerli, scarica
gratuitamente il programma Acrobat Reader (clicca sull'icona a fianco riportata).
-
segnala un
errore nei links
|
|
AGGIORNAMENTO AL 26.11.2012 |
ã |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
URBANISTICA:
G. Vitella,
Brevi osservazioni alla deliberazione di Giunta Regionale n.
IX/4300, seduta 26.10.2012 (26.11.2012 -
tratto da www.ordinearchitettivarese.it). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
T. Grandelli e M. Zamberlan,
I compensi per la progettazione tra vecchi e nuovi problemi
(Risorse Umane n. 4-5/2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: P.
Terracciano,
Il Parere di regolarità contabile è un parere
di legittimità secondo la CdC a nulla servono i chiarimenti
del Ministero dell’Interno ed i principi emanati
dall’Osservatorio della Finanza Locale. Solo al giudice è
affidato il compito di interpretare le disposizioni
dell’ordinamento (Sezioni Unite Corte di Cassazione,
decisione 23031/2007) (14.07.2012 - tratto da
www.pinoterracciano.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
M. Lucca,
Parere di regolarità contabile e viaggi all’estero (01.02.2012
- link a www.mauriziolucca.com). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Oggetto: iscrizione all'albo pubblici dipendenti
(Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati,
nota 20.11.2012 n. 11925 di prot.).
---------------
Finalmente: anche i geometri pubblici dipendenti -a tempo
pieno- possono iscriversi all'albo professionale siccome già
avviene per gli architetti e gli ingegneri.
Potremmo dire che è stata eliminata quella disparità di
trattamento che sussisteva tra i laureati ed i diplomati:
tuttavia, ci sembra un "conquista" improduttiva poiché nulla
cambia sul piano pratico. Né prima, né adesso, i pubblici
dipendenti diplomati a tempo pieno (ed anche i laureati)
possono svolgere la libera professione !!
Quindi ?? Perché un geometra a tempo pieno dovrebbe
iscriversi all'albo pagando annualmente (per far nulla) la
relativa quota ??
26.11.2012 - LA SEGRETERIA PTPL |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: Modulistica di presentazione delle istanze,
delle segnalazioni ed elle dichiarazioni, prevista nel
decreto del Ministro dell'Interno 07.08.2012
(Ministero dell'Interno,
nota 31.10.2012 n. 13552 di prot.).
---------------
Tutta la modulistica, vecchia (sino al 26.112012) e nuova
(dal 27.11.2012), è scaricabile
cliccando qui. |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
PUBBLICO
IMPIEGO: Permessi,
ok di Patroni Griffi.
I permessi previsti dalla legge 104 per i disabili gravi
sono cumulabili con quelli per l'assistenza ad altro
portatore di handicap grave: 3 giorni + 3 giorni per ogni
mese.
E' quanto si evince dalla
nota 05.11.2012 n. 44274 di prot. della funzione
pubblica.
Il
dipartimento ha fatto presente che, di solito, la fruizione
dei permessi previsti dall'articolo 33, comma 3, avviene
nella medesima giornata. E quindi, il disabile grave fruisce
contemporaneamente sia del permesso per se stesso che quello
per assistere l'altro portatore di handicap grave.
Ma può
succedere che la fruizione dell'assenza sia necessitata
dallo svolgimento di attività per conto dell'altro disabile,
senza che esse avvengano in presenza del disabile medesimo.
Di qui la liceità del cumulo. Va detto subito che palazzo Vidoni
ha menzionato questo caso solo a titolo esemplificativo.
Pertanto, esso non va inteso in senso tassativo. Tanto più
che la casistica in cui potrebbe giustificarsi il cumulo è
molto ampia e «una limitazione da questo punto di vista
difficilmente potrebbe giustificarsi in base alla legge».
Dunque, il dipartimento ha preso atto che non sussistono
elementi giuridicamente validi per impedire il cumulo dei
permessi
(articolo ItaliaOggi del
20.11.2012). |
SINDACATI |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Tornare a tempo pieno è un diritto soggettivo del
dipendente pubblico
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 19.11.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
TFS-TFR.
DOPO LA POSITIVA CONCLUSIONE DELLA VERTENZA SUL TFR ED IL
RIPRISTINO DELL'INDENNITA' DI BUONUSCITA, SI PARTE CON I
RICORSI PER LA RESTITUZIONE DELLE SOMME INDEBITAMENTE
TRATTENUTE AI LAVORATORI GIA' IN REGIME DI TFR.
Dopo la nota sentenza della Corte Costituzionale, emanata a
seguito dei numerosi ricorsi presentati e la pronta
emanazione, da parte del Governo, del DL 185 che ha di fatto
ripristinato per tutti i lavoratori già in servizio al
31.12.2000 il trattamento di fine servizio o buonuscita, la
UIL PA intende procedere alla verifica, in sede giudiziaria,
della legittimità delle trattenute operate da molte
amministrazioni sulle retribuzioni dei lavoratori assunti
dopo il 31.12.2000, in regime di Trattamento di Fine
Rapporto ai sensi dell'art. 2120 CC.
Da accertamenti effettuati sui cedolini dello stipendio di
molti di questi colleghi sembra che continui ad essere
operata la trattenuta del 2,5% in favore delle gestioni
previdenziali ex INPDAP.
D'intesa con il nostro studio legale convenzionato Avv.
Galleano, stiamo predisponendo una serie di ricorsi ai
Tribunali del Lavoro di alcune città campione (Roma, Milano,
Foggia, Torino, Venezia, Napoli) per l'accertamento della
illegittimità della trattenuta.
I costi dei ricorsi pilota, come sempre, sono a totale
carico della UIL PA ed i lavoratori iscritti non dovranno
versare alcun contributo.
In allegato
una illustrazione della situazione vigente, commentata alla
luce delle recenti novità intervenute (19.11.2012
- link a www.uilpa.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 26.11.2012, "Nuove
misure fitosanitarie obbligatorie contro il cinipide del
castagno Dryocosmus Kuriphilus Yasumatsu in Lombardia" (decreto
D.U.O. 21.11.2012 n. 10528). |
EDILIZIA
PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 26.11.2012, "Certificazione
energetica degli edifici: modifiche ed integrazioni alle
disposizioni allegate alla d.g.r. 8745 del 22.12.2008 e alla
d.g.r. 2555 del 24.11.2011" (deliberazione
G.R. 21.11.2012 n. 4416). |
TRIBUTI: G.U.
23.11.2012 n. 274 "Regolamento da adottare ai sensi
dell’articolo 91-bis, comma 3, del decreto-legge 24.01.2012,
n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.03.2012,
n. 27 e integrato dall’articolo 9, comma 6, del
decreto-legge 10.10.2012, n. 174"
(Ministero dell'Economia e delle Finanze,
decreto 19.11.2012 n. 200).
---------------
NDR: Le disposizioni del presente regolamento sono
dirette a stabilire, ai sensi dell’articolo 91-bis , comma
3, del decreto-legge 24.01.2012, n. 1, convertito, con
modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n. 27, le modalità e
le procedure per l’applicazione proporzionale, a decorrere
dall'01.01.2013, dell’esenzione dall’IMU per le unità
immobiliari destinate ad un’utilizzazione mista, nei casi in
cui non sia possibile procedere, ai sensi del comma 2 del
citato articolo 91-bis , all’individuazione degli immobili o
delle porzioni di immobili adibiti esclusivamente allo
svolgimento delle attività istituzionali con modalità non
commerciali. |
EDILIZIA
PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 23.11.2012, "Aggiornamento
e modifica del decreto n. 6154 dell’11.07.2012" (decreto
D.G. 15.11.2012 n. 10267).
---------------
NDR: il suddetto decreto approva il documento dal titolo "L’impiego
di apparecchiature per il trattamento dell’acqua destinata
al consumo umano: linee guida per l’attività di vigilanza e
controllo – aggiornamento e modifica del Decreto n. 6154
dell'11.07.2012". |
CORTE DEI
CONTI |
LAVORI PUBBLICI: Corte
dei conti. Contratti di disponibilità.
Vincoli di bilancio «pesati» sul rischio.
È la ripartizione del rischio il criterio per la valutazione
degli aspetti contabili del contratto di disponibilità.
Lo
ha affermato la Corte dei conti, sezione Lombardia, nel
parere 23.10.2012 n. 439.
Un ente ha chiesto se il contratto di disponibilità possa
comportare la violazione dei tetti agli interessi passivi, e
se per il Patto il canone vada imputato alla spesa corrente
(Titolo I, int. 4) o in conto capitale imputarsi alla spesa
corrente o a quella in conto capitale
Il contratto di disponibilità rientra nell'ambito del
partenariato pubblico-privato contrattuale, che pone il
rischio in capo al privato. Il contratto prevede
l'affidamento, a rischio e spesa del privato, della
costruzione e messa a disposizione della Pa aggiudicatrice
di un'opera di proprietà privata destinata all'esercizio di
un pubblico servizio a fronte di un corrispettivo.
La legge, secondo la Corte, riconosce la possibilità di
personalizzare la causa giuridica del contratto in base alle
esigenze dell'opera, potendosi integrare il canone con altri
corrispettivi monetari. Di conseguenza, spetta
all'interprete valutarne le caratteristiche anche per
definire i corretti profili di finanza pubblica, verificando
che, nella ripartizione del rischio, siano rispettati gli
indirizzi di Eurostat. In particolare va tenuta presente la
decisione 11/02/2004 sul trattamento contabile delle
partnership, dove si chiarisce che non rilevano nei conti
delle Pa, ai fini dell'indebitamento netto e del debito, i
contratti che prevedano un sostanziale trasferimento di
rischio al privato.
Perché questo accada, il privato deve
assumersi il rischio costruzione e uno fra il rischio
disponibilità (impossibilità di pagamenti costanti in caso
di scadenti o insufficienti modalità di gestione dell'opera
in termini di quantità e qualità del servizio) e il rischio
domanda (impossibilità di pagamenti garantiti per
prestazioni non erogate a causa della minore domanda del
servizio).
Nello specifico dei quesiti, la Corte ritiene che se non vi
sia il trasferimento del rischio al privato, il contratto
debba essere considerato indebitamento, rilevando così anche
sui limiti agli interessi passivi. L'impatto dovrebbe però
essere limitato agli oneri riferibili alla parte di
finanziamento.
Circa la rilevanza ai fini del patto, invece, dal parere
(sibillino) si può dedurre che se c'è un corretto
trasferimento del rischio, non essendo il contratto
qualificabile come indebitamento, il canone possa essere
imputato a spesa corrente
(articolo Il Sole 24 Ore del
19.11.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
QUESITI &
PARERI |
APPALTI:
Giudizio di non anomalia.
Domanda
Quali sono i limiti e la sindacabilità delle scelte
dell'Amministrazione da parte del Giudice Amministrativo
riguardo al giudizio di non anomalia?
Risposta
Nelle gare di appalto, riguardo al giudizio di non anomalia,
in relazione alla natura, all'oggetto ed ai limiti del
sindacato esercitabile dal Giudice Amministrativo, bisogna
sottolineare che vi è un'ampia espressione di quello che è
definito un potere ampiamente discrezionale, connotato da
elementi di tecnicismo non direttamente sindacabili dal
Giudice Amministrativo.
Viene, ovviamente, fatto salvo e tutelato il limite della
manifesta abnormità; inoltre, la discrezionalità tecnica è
assimilabile al merito, vale a dire al concetto di
opportunità dell'azione amministrativa, con conseguente
preclusione al Giudice Amministrativo di qualsiasi sindacato
di tipo intrinseco.
Infine, la positiva valutazione di congruità della presunta
offerta anomala è sufficientemente istruita e motivata
per relationem alle giustificazioni rese dall'impresa
offerente, sempre che queste ultime non siano manifestamente
illogiche (21.11.2012 - tratto da www.ipsoa.it). |
APPALTI: Responsabilità
solidale negli appalti.
Domanda
Quale titolare di un'azienda di trasporti chiedo se prima di
pagare le fatture ai miei subappaltatori devo farmi
rilasciare da ciascuno una dichiarazione asseverata del loro
commercialista che hanno regolarmente versato l'Iva e
l'Irpef dei loro lavoratori dipendenti impegnati
nell'appalto. E se in mancanza di questa, posso rifiutarmi
di pagare.
Risposta
Con circolare n. 40 dello scorso 8 ottobre, l'Agenzia delle
entrate ha innanzitutto precisato che le disposizioni che
prevedono l'obbligo dell'appaltatore di verificare gli
adempimenti fiscali consistenti nel versamento delle
ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente e nel
versamento dell'Iva per le prestazioni effettuate
nell'ambito del subappalto, trovano applicazione solo per i
contratti stipulati a decorrere dal 12.08.2012, data di
entrata in vigore della nuova normativa (art. 13-ter dl n.
83/2012).
Inoltre, in base allo statuto del contribuente, si deve
ritenere che tali adempimenti siano esigibili a partire dal
sessantesimo giorno successivo, con la conseguenza che la
certificazione deve essere richiesta solamente in relazione
ai pagamenti effettuati a partire dall'11.10.2012, in
relazione ai contratti stipulati a partire dal 12.08.2012.
Per quanto riguarda la documentazione che i subappaltatori
devono produrre per dimostrare di aver adempiuto ai propri
obblighi, l'Agenzia delle entrate ritiene valida, in
alternativa alle asseverazioni prestate dai professionisti
abilitati, una dichiarazione sostitutiva, resa ai sensi del
dpr n. 445 del 2000, con cui i subappaltatori attestino
l'avvenuto adempimento degli obblighi richiesti dalla
disposizione.
La mancanza di tale documentazione autorizza l'appaltatore a
non pagare i subappaltatori (articolo
ItaliaOggi Sette del 19.11.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Esiste
una proposta di direttiva che modifica la disciplina della
VIA? Perché?
(06.11.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Quali
sono i termini della proposta di modifica della Commissione
UE alla disciplina della VIA?
(06.11.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Nelle
zone terremotate dell’Emilia è applicata la disciplina della
terre e rocce da scavo da ultimo introdotta con DM 61/2012?
(06.11.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Personale degli enti locali. Parere di regolarità
tecnica/contabile.
Il parere di regolarità
tecnica/contabile prescritto dall'art. 49 del d.lgs.
267/2000 deve essere richiamato nelle deliberazioni ed
acquisito preventivamente all'adozione degli atti.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla competenza a
firmare il parere di regolarità tecnica/contabile
sull'originale atto di Consiglio o di Giunta, qualora alla
data di adozione dell'atto il rispettivo responsabile
risulti assente, ancorché il parere sia stato reso
preventivamente.
Com'è noto, l'art. 49 del d.lgs. 267/2000 prescrive che, su
ogni proposta di deliberazione sottoposta al Consiglio e
alla Giunta che non sia mero atto di indirizzo deve essere
richiesto il parere in ordine alla sola regolarità tecnica
del responsabile del servizio interessato e, qualora
comporti impegno di spesa o diminuzione di entrata, del
responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità
contabile.
I predetti pareri debbono essere acquisiti preventivamente
all'adozione degli atti deliberativi, sono inseriti nella
deliberazione cui si riferiscono, e la funzione dei medesimi
è quella di individuare, sul piano formale, i funzionari
responsabili, in via amministrativa e contabile ed
eventualmente in solido con i componenti degli organi
deliberanti, delle deliberazioni da questi assunte [1].
Il parere tecnico comporta la responsabilità di attestare
che l'atto corrisponde all'attività istruttoria compiuta, ai
fatti acquisiti nell'attività istruttoria, e che, nella sua
composizione formale, è conforme a quanto disposto dalla
normativa sulla formazione della deliberazione nel suo
aspetto estrinseco. Con l'espressione del suddetto parere,
inoltre, nulla si attesta in ordine alla legittimità delle
ragioni di merito che sottostanno alla deliberazione
adottata.
La giurisprudenza peraltro è concorde nel ritenere che i
pareri espressi dai responsabili dell'area tecnica e del
servizio finanziario dei comuni costituiscono atti
preparatori che non possono certo interferire sull'autonomo
e corretto esercizio dei poteri spettanti all'organo
deliberante; a quest'ultimo compete, infatti, la
ponderazione concreta e corretta dei pubblici interessi in
gioco, al di là della mera relazione funzionale dei pareri
resi, che sono formulati 'ex ante' sulla proposta di
deliberazione e costituiscono il presupposto al corretto
esercizio dei poteri amministrativi dell'organo deliberante,
senza condizionare la volontà dello stesso [2] .
Premesso un tanto, si evince come i pareri in argomento
siano acquisiti in una fase comunque precedente all'adozione
delle deliberazioni di riferimento e non debbano, quindi,
essere necessariamente resi nella stessa giornata in cui
l'organo deliberante adotta il formale atto.
Conseguentemente, al momento dell'adozione dell'atto il
parere richiamato nella deliberazione reca già la firma del
funzionario competente, che ha provveduto in precedenza ad
effettuare le verifiche del caso, assumendosi la
responsabilità di quanto attestato e ha apposto la firma
prescritta in tale sede.
Il fatto che poi lo stesso funzionario responsabile risulti
assente il giorno dell'adozione dell'atto deliberativo si
ritiene non assuma rilevanza, in quanto l'attività
istruttoria si è già conclusa con l'emissione del parere
firmato dal medesimo in una determinata data.
In conclusione, il responsabile competente provvederà a
firmare poi l'originale dell'atto non appena consentitogli
materialmente.
---------------
[1] Cfr. TAR Napoli, Campania, sez. I, n. 1320 del 2009.
[2] Cfr. Corte dei conti, sez. giur. d'appello per la
Sicilia, n. 1 del 13.01.2009 (29.02.2012 - link a
link a www.regione.fvg.it). |
NEWS |
CONDOMINIO: LA
RIFORMA DEL CONDOMINIO/ La distinzione tra decisioni
contrattuali e deliberative. Nuovi millesimi, serve unanimità.
La rettifica per errore può invece avvenire a maggioranza.
Per cambiare le tabelle millesimali condominiali non ci
vuole sempre l'unanimità; la rettifica per errore o
mutamento dello stato dell'immobile può avvenire a
maggioranza.
La riforma del condominio precisa quando la decisione sui
valori proporzionali delle singole unità immobiliari ha
natura contrattuale (e ci vuole l'accordo di tutti) e
quando, invece, ha natura deliberativa (e basta la
maggioranza). Vediamo, dunque, il nuovo articolo 69 delle
disposizioni per l'attuazione del codice civile, partendo
dalla situazione del codice civile previgente.
Nella normativa previgente, spiegano gli atti parlamentari,
secondo l'orientamento tradizionale, l'approvazione o la
revisione delle tabelle millesimali non poteva essere
deliberata a maggioranza dall'assemblea condominiale. Come
accade per il regolamento contrattuale, si riteneva invece
necessario il consenso di tutti i condomini; in assenza di
tale consenso unanime, alla formazione delle tabelle
provvedeva il giudice su istanza degli interessati, in
contraddittorio con tutti i condomini.
Tra gli argomenti a sostegno della tesi dell'unanimità, si
affermava che la materia non rientrava tra le competenze
della assemblea e che l'approvazione delle tabelle si
risolverebbe in un atto negoziale di accertamento, cioè una
manifestazione di volontà volta ad accertare il contenuto di
diritti reali spettanti a ciascun condomino.
Una sentenza della Corte di cassazione si è pronunciata, a
Sezioni Unite, in materia di approvazione e modifica delle
tabelle millesimali allegate al regolamento di condominio
rendendo più facile l'intervento dell'assemblea condominiale
(Cassazione civile, S.U., sentenza 09.08.2010, n. 18477).
Per la Cassazione, infatti, «le tabelle millesimali non
devono essere approvate con il consenso unanime dei
condomini, essendo sufficiente la maggioranza qualificata di
cui all'articolo 1136 codice civile, comma 2 (voto a
maggioranza degli intervenuti e che rappresenti almeno la
metà del valore dell'edificio)».
Il nuovo articolo 69 citato comincia con il disporre che i
valori proporzionali delle singole unità immobiliari
espressi nella tabella millesimale possono essere
rettificati o modificati all'unanimità.
L'assemblea totalitaria è sovrana e può decidere la misura
dei millesimi, anche eventualmente, se i condomini lo
vogliono, senza corrispondenza precisa con lo stato di
fatto. No si può escludere ì, infatti che i condomini
intendano modificare la portata dei loro rispettivi diritti
e obblighi di partecipazione alla vita del condominio. Ma
questa non è l'unica via per la modifica dei millesimi.
La norma prosegue prescrivendo che in alcuni casi i valori
possono essere rettificati o modificati anche nell'interesse
di un solo condomino, con la maggioranza prevista
dall'articolo 1136, secondo comma, del codice civile
(maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore
dell'edificio).
I casi di modifica a maggioranza sono: valori conseguenza di
un errore; alterazione per più di un quinto del valore
proporzionale dell'unità immobiliare anche di un solo
condomino, in conseguenza di mutate condizioni di una parte
dell'edificio, in conseguenza di sopraelevazione, di
incremento di superfici o di incremento o diminuzione delle
unità immobiliari.
In questo caso il costo è sostenuto da chi ha dato luogo
alla variazione.
A questo proposito va sottolineato che per errore si intende
la obiettiva divergenza tra il valore effettivo delle
singole unità immobiliari e il valore proporzionale ad esse
attribuito.
Inoltre, allo scopo di rivedere i valori proporzionali
espressi nella tabella millesimale allegata al regolamento
di condominio, può essere convenuto in giudizio unicamente
il condominio in persona dell'amministratore. Questi è
tenuto a darne senza indugio notizia all'assemblea dei
condomini. L'amministratore che non adempie a quest'obbligo
può essere revocato ed è tenuto al risarcimento degli
eventuali danni.
Le norme richiamate si applicano per la rettifica o la
revisione delle tabelle per la ripartizione delle spese
redatte in applicazione dei criteri legali o convenzionali.
Infine va ricordato che il Condominio può esperire l'azione
di indebito arricchimento per far valere le proprie ragioni
contro il singolo condomino che si è avvalso di un errore
nelle tabelle millesimali per non concorrere alle spese
(articolo ItaliaOggi del
24.11.2012). |
CONDOMINIO: LA
RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Le deliberazioni impugnabili anche
dagli astenuti. Assemblee ad assetto variabile.
Maggioranza semplice per le modifiche di minore rilievo.
Maggioranze più snelle e deliberazioni impugnabili anche
dagli astenuti. Per cambiare la tabella millesimale ci vuole
l'unanimità, ma basta la maggioranza se la variazione
riguarda una rettifica per un solo condomino, anche a
seguito di sopraelevazione o aumento delle unità.
Queste le
novità della legge di riforma del condominio, che riscrive
l'articolo 1136 del codice civile, attesa alla pubblicazione
sulla Gazzetta Ufficiale.
Vediamo come.
L'assemblea in prima convocazione è regolarmente costituita
con l'intervento di tanti condomini che rappresentino i due
terzi del valore dell'intero edificio e la maggioranza dei
partecipanti al condominio.
Nella vecchia versione occorreva il medesimo quorum di
millesimi, ma un più alto quorum per teste: questo significa
che sarà più facile far svolgere l'assemblea in prima
convocazione.
Per l'approvazione delle deliberazioni occorre un numero di
voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e
almeno la metà del valore dell'edificio. Il computo della
maggioranza per l'assemblea in prima convocazione è rimasto
invariato (ma calcolato su un diverso quorum partecipativo).
Se l'assemblea in prima convocazione non può deliberare per
mancanza di numero legale, l'assemblea in seconda
convocazione delibera in un giorno successivo a quello della
prima e, in ogni caso, non oltre dieci giorni dalla
medesima.
Quindi non ci possono essere prima e seconda convocazione
nello stesso giorno. La riforma inserisce una soglia per
considerare regolarmente costituita l'assemblea in seconda
convocazione: occorre l'intervento di tanti condomini che
rappresentino almeno un terzo del valore dell'intero
edificio e un terzo dei partecipanti al condominio. Per
l'approvazione delle deliberazioni occorre la maggioranza
degli intervenuti con un numero di voti che rappresenti
almeno un terzo del valore dell'edificio.
Una maggioranza qualificata ci vuole per le deliberazioni
che concernono la nomina e la revoca dell'amministratore o
le liti attive e passive relative a materie che esorbitano
dalle attribuzioni dell'amministratore medesimo, quelle che
concernono la ricostruzione dell'edificio o riparazioni
straordinarie di notevole entità e le deliberazioni di cui
agli articoli 1117-ter (tutela delle destinazioni di uso),
1120, secondo comma (opere per sicurezza impianti,
eliminazione barriere architettoniche, contenimento consumo
energetico, realizzazione parcheggi, installazione pannelli
solari, impianti centralizzati di ricezione televisiva e
dati), 1122-ter (impianti di videosorveglianza) nonché 1135,
secondo comma (manutenzione straordinaria): devono essere
sempre approvate con la maggioranza stabilita dal secondo
comma, e cioè maggioranza degli intervenuti rappresentante
almeno la metà del valore dei millesimi.
Le deliberazioni di cui all'articolo 1120, primo comma
(innovazioni), e all'articolo 1122-bis, terzo comma
(prescrizioni e cautele per impianti individuali di
ricezione televisiva e di produzione di energia da fonti non
rinnovabili), devono essere approvate dall'assemblea con un
numero di voti che rappresenti la maggioranza degli
intervenuti e almeno i due terzi del valore dell'edificio.
L'articolo 1136 nuova versione conferma che l'assemblea non
può deliberare, se non consta che tutti gli aventi diritto
sono stati regolarmente convocati.
Infine, delle riunioni dell'assemblea si redige processo
verbale da trascrivere nel registro tenuto
dall'amministratore.
IMPUGNAZIONI
La regola della maggioranza impone che le deliberazioni
prese dall'assemblea sono obbligatorie per tutti i
condomini.
La riforma allarga la platea dei soggetti che possono
impugnare la deliberazione. Il codice civile, nella vecchia
versione, si riferiva ai condomini assenti e a quelli
dissenzienti. Si aggiunge ora la categoria degli astenuti.
Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al
regolamento di condominio ogni condomino assente,
dissenziente o astenuto, dunque, può rivolgersi all'autorità
giudiziaria chiedendone l'annullamento.
Rimane il termine di decadenza di 30 giorni, trascorsi i
quali la deliberazione si consolida.
Il termine di 30 giorni decorre dalla data della
deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di
comunicazione della deliberazione per gli assenti.
L'azione di annullamento non sospende l'esecuzione della
deliberazione, salvo che la sospensione sia ordinata
dall'autorità giudiziaria.
L'istanza per ottenere la sospensione proposta prima
dell'inizio della causa di merito non sospende né interrompe
il termine per la proposizione dell'impugnazione della
deliberazione.
MILLESIMI
Per la rettifica e modifica della tabelle dei millesimi
(valori proporzionali delle singole unità immobiliari) di
regola ci vuole l'unanimità.
Tuttavia in alcuni casi basta la maggioranza degli
intervenuti e la metà del valore dell'edificio: ciò vale per
rettificare o modificare i millesimi anche nell'interesse di
un solo condomino. Questo capita quando i valori sono
conseguenza di un errore e a seguito di sopraelevazione,
incremento di superfici o di incremento o diminuzione delle
unità immobiliari, con conseguente alterazione di più di un
quinto il valore proporzionale dell'unità immobiliare anche
di un solo condomino. In questa ipotesi il relativo costo è
sostenuto da chi ha dato luogo alla variazione
(articolo ItaliaOggi del
23.11.2012). |
LAVORI PUBBLICI: Direttiva
pagamenti, Tajani: si applica ai lavori pubblici.
La disciplina europea sui ritardati pagamenti si applica
anche al settore dei lavori e in particolare alla
progettazione e all'esecuzione di opere e edifici pubblici,
nonché ai lavori di ingegneria civile.
È quanto conferma il
vicepresidente della Commissione europea, Antonio Tajani,
nella
lettera 14.11.2012 con la quale risponde al
presidente dell'Ance, Paolo Buzzetti, rispetto al problema
dell'inclusione del settore delle costruzioni nell'ambito
applicativo della nuova disciplina comunitaria sui ritardati
pagamenti (direttiva 7/2011) recepita dal decreto 192 del 09.11.2012.
Il punto delicato, sollevato nei giorni scorsi non soltanto
dall'Ance, ma anche da Confartigianato, Cna, Aniem, Ancpl e
Oice, riguarda la nozione di «transazione commerciale» che
il decreto prevede sia riferita ai contratti che hanno a
oggetto «la consegna di merci o la prestazione di servizi
contro il pagamento di un prezzo». Da ciò il timore che
interpretazioni restrittive possano escludere la
realizzazione di opere pubbliche, nonostante la direttiva,
in un «considerando», preveda esplicitamente che i settori
cui si applica la disciplina «dovrebbero anche includere la
progettazione e l'esecuzione di opere e edifici pubblici,
nonché i lavori di ingegneria civile».
Nella lettera di
risposta all'Ance il commissario europeo, dopo avere
espresso apprezzamento per il fatto che l'Italia ha recepito
la direttiva n. 7 ben prima del termine del 16.03.2013
(le norme del decreto 192 entreranno in vigore il 01.01.2013), afferma che il campo di applicazione della direttiva
«riguarda tutti i settori produttivi senza eccezioni incluso
il settore edile».
Per Tajani, «la nozione di fornitura di
merci e di prestazione di servizi dietro corrispettivo
include anche la progettazione e l'esecuzione di opere e
edifici pubblici, nonché i lavori di ingegneria civile»,
come dice anche il considerando. Nei giorni scorsi, in
alcune dichiarazioni alla stampa, anche il viceministro Ciaccia
aveva confermato che le norme del decreto 192 sono da
ritenersi applicabili anche ai lavori. A questo punto, per
fugare ogni residuo e possibile dubbio, manca soltanto un
piccolo intervento integrativo o interpretativo sul decreto
192
(articolo ItaliaOggi del
23.11.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Dimissioni,
niente convalida nella p.a..
La nuova procedura sulle dimissioni introdotta dalla riforma
Fornero non si applica ai dipendenti pubblici almeno fino a
quando non verrà recepita con appositi provvedimenti. Lo
spiega il ministero del lavoro nell'interpello n. 35/2012,
rispondendo all'Università di Firenze. Dal 18 luglio, la
legge n. 92/2012 ha introdotto una nuova procedura di
convalida delle dimissioni dal lavoro finalizzata a
contrastare il cosiddetto fenomeno delle «dimissioni in
bianco». La stessa legge, tuttavia, precisa che le nuove
disposizioni «costituiscono principi e criteri per la
regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle
pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del
dlgs n. 165/2001». Da tale norma, spiega il ministero, si
evince che la nuova disciplina sulle dimissioni trova
applicazione pure nei confronti del personale delle
pubbliche amministrazioni ma soltanto una volta che saranno
stati emessi i necessari provvedimenti di attuazione
(articolo ItaliaOggi del
23.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Anticorruzione con armi
spuntate.
Il segretario è il responsabile. Ma non può essere
sanzionato. Il sistema di
prevenzione disegnato dalla legge 190 appare tarato solo sui
dirigenti pubblici.
Inapplicabili ai segretari comunali le sanzioni previste
dalla legge 190/2012 in capo alla figura del responsabile
della prevenzione della corruzione.
La «legge anticorruzione» stabilisce che il responsabile
della prevenzione negli enti locali coincida col segretario
comunale, a meno che motivatamente non si assegni la
funzione a un altro soggetto.
Tuttavia, il sistema delle sanzioni per il responsabile
appare disegnato solo ed esclusivamente per i dirigenti
pubblici e non si attaglia alla figura del segretario.
Per il responsabile sono elementi di valutazione della
responsabilità dirigenziale «la mancata predisposizione del
piano e la mancata adozione delle procedure per la selezione
e la formazione dei dipendenti». Ma si vede subito come
questa indicazione valga poco o nulla per il segretario
comunale.
Il sistema della responsabilità dirigenziale è regolato
dall'articolo 21, comma 1, del dlgs 267/2000, ai sensi del
quale «il mancato raggiungimento degli obiettivi accertato
attraverso le risultanze del sistema di valutazione di cui
al Titolo II del decreto legislativo di attuazione della
legge 04.03.2009, n. 15, in materia di ottimizzazione
della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e
trasparenza delle pubbliche amministrazioni ovvero
l'inosservanza delle direttive imputabili al dirigente
comportano, previa contestazione e ferma restando
l'eventuale responsabilità disciplinare secondo la
disciplina contenuta nel contratto collettivo,
l'impossibilità di rinnovo dello stesso incarico
dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi,
l'amministrazione può inoltre, previa contestazione e nel
rispetto del principio del contraddittorio, revocare
l'incarico collocando il dirigente a disposizione dei ruoli
di cui all'articolo 23 ovvero recedere dal rapporto di
lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo».
Come si nota, esso si fonda su tre livelli di sanzioni,
connesse alla gravità della responsabilità dirigenziale
rilevata: l'impossibilità di rinnovare, alla scadenza,
l'incarico dirigenziale, oppure la revoca anticipata o,
ancora, il recesso dal rapporto di lavoro.
Si tratta di una disciplina in gran parte incompatibile con
la regolazione del rapporto dei segretari comunali, i quali
dipendono, ancora per poco, dall'Agenzia per poi tornare nei
ruoli del ministero dell'interno. Il recesso, dunque, non
appare attivabile.
Ma, anche l'impossibilità del rinnovo dell'incarico non ha
alcun senso. Il segretario comunale non può che avere
l'incarico da segretario comunale. Semmai, la responsabilità
dirigenziale connessa al ruolo di responsabile della
prevenzione della corruzione potrebbe essere utile per
levarsi il peso da dosso di tale incarico, ma ovviamente
l'ente non potrebbe «non rinnovare l'incarico», posto che
tale eventualità rimane esclusivamente legata al succedersi
dei sindaci e dei presidenti delle province, dato lo spoils
system particolarmente spinto che caratterizza lo status dei
segretari.
Pertanto, l'unica vera e concreta sanzione attivabile per il
segretari potrebbe essere quella della revoca dell'incarico.
Ma tale istituto è regolato dal dlgs 267/2000 ed è connesso
soprattutto alle funzioni tipicamente proprie del
segretario.
Nella sostanza, questo primo lotto di responsabilità ha
senso solo per i dirigenti veri e propri, molto meno, quasi
riducendosi a pura forma, per i segretari comunali. Un
secondo tipo di responsabilità, quella oggettivamente più
sorprendente e meno giustificabile, è quella che rende il
responsabile responsabile, appunto, per la condotta altrui.
La legge prevede che «in caso di commissione, all'interno
dell'amministrazione, di un reato di corruzione accertato
con sentenza passata in giudicato, il responsabile
individuato ai sensi del comma 7 del presente articolo
risponde ai sensi dell'articolo 21 del decreto legislativo
30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, nonché
sul piano disciplinare, oltre che per il danno erariale e
all'immagine della pubblica amministrazione».
La norma scarica sul responsabile, in primo luogo, la già
vista «responsabilità dirigenziale», replicando gli stessi
problemi di applicabilità ai segretari comunali visti prima.
Vi è poi la responsabilità disciplinare, che nel sistema
degli enti locali, data la posizione di autonomia
spiccatissima del segretario, non si capisce bene chi
potrebbe mai contestare.
Insomma, proprio con riferimento alle responsabilità del
segretario, la legge 190/2012 rivela il suo eccessivo
formalismo burocratico, che lascia pochi spazi alla concreta
efficacia
(articolo ItaliaOggi del
23.11.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Giro di
vite su chi svolge una seconda attività.
Responsabilità erariale oltre all'obbligo di
restituire i compensi.
Limitazioni alla possibilità di autorizzare i dipendenti e i
dirigenti pubblici allo svolgimento di una seconda attività;
maturazione di responsabilità erariale, oltre all'obbligo
del versamento al proprio ente, in caso di percezione di
compensi provenienti da seconde attività svolte
illegittimamente dai dipendenti pubblici, comunicazione
immediata alla Funzione pubblica degli incarichi conferiti e
di quelli autorizzati a vantaggio del personale pubblico e
divieto per i dipendenti pubblici collocati in quiescenza di
ricevere incarichi di qualunque sorta da parte dei privati
con cui si è avuto a che fare per ragioni di ufficio.
Sono
queste le principali novità per il personale dipendente
dalle p.a. contenute nel testo della legge anticorruzione.
La norma entrerà in vigore mercoledì 28 novembre, decorsi 15
giorni dalla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale,
immediatamente per questi aspetti. Non vi è ombra di dubbio
nel fatto che queste prescrizioni si applicano a regioni ed
enti locali in quanto sono dettate nella forma della
modifica del dlgs n. 165/2001 e che esse entrano
immediatamente in vigore
Ogni singola amministrazione dovrà darsi uno specifico
regolamento per la disciplina del conferimento di incarichi
a dipendenti pubblici e per il rilascio delle autorizzazioni
a svolgere una seconda attività per i propri dipendenti. Nel
regolamento deve essere prevista la maturazione la nuova
ipotesi del «conflitto, anche potenziale, di interessi» come
elemento di cui le p.a. devono tenere conto nel rilascio di
autorizzazioni in aggiunta alla incompatibilità di diritto e
di fatto ed alla tutela dell'interesse al buon
funzionamento, nella individuazione delle condizioni che
vietano sia il conferimento di incarichi sia
l'autorizzazione a svolgerne per conto di altri soggetti.
I dipendenti e dirigenti pubblici che ricevono
illegittimamente compensi erogati da altri soggetti per
seconde attività svolte in modo illegittimo, ad esempio
senza la prescritta autorizzazione, devono versare tali
somme alla propria amministrazione. Questa è la conferma di
un vincolo già operativo; l'elemento di novità è dato dal
rafforzamento della sanzione: il mancato versamento di
queste somme al proprio datore di lavoro determina la
maturazione di responsabilità erariale.
Viene stabilito che tutte le p.a. devono comunicazione alla
Funzione pubblica, in forma telematica, degli incarichi
conferiti a dipendenti pubblici e di quelli attribuiti da
altri soggetti ai propri dipendenti che hanno avuto una
specifica e preventiva autorizzazione. Con una assai
discutibile previsione si stabilisce che questo obbligo si
estende anche agli incarichi conferiti in via gratuita. In
precedenze queste informazioni dovevano essere trasmesse
entro il 30 giugno di ogni anno, dopo la legge 190/2012 tale
comunicazione deve essere effettuata entro i 15 giorni
successivi. E deve contenere l'oggetto dell'incarico ed il
compenso lordo; va corredata da una relazione con cui si
indicano le disposizioni che sono alla base del conferimento
dell'incarico, i criteri con cui i dipendenti sono stati
scelti e le misure di contenimento di questo tipo di spesa.
Viene limitata la possibilità per i dipendenti pubblici
cessati dal servizio di ricevere qualsivoglia tipo di
incarico, anche sotto la forma della assunzione, da parte
dei soggetti nei cui confronti «negli ultimi tre anni di
servizio hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali
per conto delle p.a.». Da sottolineare la durezza delle
sanzioni: nullità dei contratti che violano tale obbligo,
divieto di contattare con tutte le p.a. per le aziende che
violano il divieto e, ovviamente, restituzione dei compensi
eventualmente percepiti
(articolo ItaliaOggi del
23.11.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: La
giunta approva il Piano.
È la giunta comunale l'organo competente ad approvare il
piano anticorruzione. La legge 190/2012 demanda all'«organo
di indirizzo politico» il compito di adottare il piano, su
proposta del dirigente responsabile della prevenzione della
corruzione, che negli enti locali coincide col segretario
comunale, a meno che motivatamente non si stabilisca di
assegnare questo compito ad un altro soggetto.
La locuzione
«organo di indirizzo politico» pone il problema di
comprendere quale sia tale organo negli enti locali, in cui
la funzione di indirizzo è ripartita tra consiglio, giunta e
sindaco (nelle province a breve la giunta dovrebbe sparire).
Evidentemente il legislatore ha tenuto presente il modello
dell'organo di indirizzo politico monocratico, tipico
dell'assetto ministeriale, lasciando aperto il problema
della corretta determinazione delle competenze negli enti
locali. Ad un primo sguardo, sembrerebbe di poter concludere
che la competenza sia del consiglio, considerando che ai
sensi dell'articolo 42, comma 1, del dlgs 267/2000 «è
l'organo di indirizzo e di controllo
politico–amministrativo».
Tuttavia, non si deve dimenticare che il consiglio è
competente esclusivamente ed in via tassativa per le sole
attribuzioni ad esso assegnate dallo stesso articolo 42 del
Tuel, il quale richiama solo programmi, mentre utilizza il
lemma «piani» solo per quelli urbanistici. La tassatività
delle competenze del consiglio, allora, porta a far ritenere
che l'adozione del piano di prevenzione della corruzione
ricada nell'organo dotato di competenza generale e
residuale, ovvero la giunta, anche in relazione alla
funzione fondamentalmente esecutiva e non di programmazione
generale che riveste il piano anticorruzione.
Basti porre mente alla necessità che il responsabile della
prevenzione della convenzione controlli in corso d'opera
l'utilità e l'efficacia del piano ed al suo obbligo di
proporne tempestivamente adeguamenti e modifiche, anche
connesse a modifiche organizzative dell'ente.
L'organizzazione è strettamente connessa al regolamento
sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, unico
regolamento che il Testo unico degli enti locali assegni
alla competenza della giunta.
Considerando il valore di atto non di indirizzo generale, ma
organizzativo, del piano di prevenzione della corruzione ed
anche la non necessarietà di un dibattito tra maggioranza e
opposizione sul tema e, ancora, una rilevante snellezza del
procedimento di approvazione e revisione, sembra di poter
affermare, allora, che la competenza ricada sulla giunta e
non sul consiglio. Nel caso delle province, una volta
soppresse le giunte, sarà il presidente della provincia a
svolgerne le funzioni e dunque sarà detto organo monocratico
competente ad approvare il piano e le relative modifiche
(articolo ItaliaOggi del
23.11.2012). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Il sindaco non può porre paletti alle richieste
dei consiglieri comunali. Diritto di accesso illimitato. La
tutela della privacy passa in secondo piano.
In assenza di apposite norme regolamentari di disciplina del
diritto di accesso dei consiglieri, il sindaco può
individuare autonomamente delle limitazioni al suddetto
diritto, anche con riferimento ad esigenze di tutela dei
dati personali?
L'esercizio del diritto di accesso è previsto dal secondo
comma dell'articolo 43 del dlgs 267/2000, definito dal
Consiglio di stato (sent. n. 4471/2005) «diritto
soggettivo pubblico funzionalizzato», finalizzato al
controllo politico-amministrativo sull'ente nell'interesse
della collettività e, come tale, diverso dal diritto di
accesso previsto dalla legge n. 241/1990, riconosciuto ai
soggetti interessati allo scopo di predisporre la tutela di
posizioni soggettive lese. Il diritto del consigliere
comunale ad ottenere dall'ente tutte le informazioni utili
all'espletamento del mandato non incontra neppure alcuna
limitazione derivante dalla loro eventuale natura riservata,
in quanto il consigliere è vincolato al segreto d'ufficio.
Gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei
consiglieri comunali possono rinvenirsi, per un verso, nel
fatto che esso deve avvenire in modo da comportare il minor
aggravio possibile per gli uffici comunali (attraverso
modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento
dell'ente) e, per altro verso, che esso non deve
sostanziarsi in richieste assolutamente generiche, ovvero
meramente emulative, fermo restando tuttavia che la
sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e
approfonditamente vagliata in concreto al fine di non
introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al
diritto stesso.
Anche la Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi ha richiamato il consolidato principio
giurisprudenziale, secondo cui il diritto del consigliere di
accesso agli atti «non può subire compressioni per
pretese esigenze di natura burocratica dell'ente con l'unico
limite di poter esaudire la richiesta, qualora sia di una
certa gravosità, secondo i tempi necessari per non
determinare interruzione delle altre attività di tipo
corrente».
Il consigliere deve quindi contemperare il diritto di
accesso con l'esigenza di non intralciare lo svolgimento
dell'attività amministrativa ed il regolare funzionamento
degli uffici comunali, comportando ad essi il minor aggravio
possibile, sia dal punto di vista organizzativo che
economico. Sul tema dell'esercizio del diritto di accesso ad
atti dell'amministrazione comunale da parte del consigliere
comunale si è espressa la Commissione per l'acceso ai
documenti amministrativi.
Relativamente all'ammissibilità dell'accesso ad atti
istituzionali del comune mediante uso di tecnologie
informatiche, nonché all'acquisizione in formato digitale (a
mezzo Pec) delle deliberazioni consiliari e di giunta e dei
relativi atti preparatori, la Commissione ha ritenuto che,
sulla base del quadro normativo vigente e della oramai
generalizzata diffusione degli strumenti informatici presso
i soggetti pubblici e privati, «l'accesso telematico
debba essere sempre consentito, soprattutto ove richiesto,
non solo nei reciproci rapporti posti in essere tra le
pubbliche amministrazioni e in quelli da esse intrattenuti
con l'utenza privata, ma anche nei rapporti tra le stesse
amministrazioni locali e i componenti eletti nei loro organi
consiliari».
In merito alla problematica relativa all'accesso di un
consigliere comunale agli elenchi dei contribuenti locali e
dei cittadini morosi nel pagamento dei tributi comunali, la
Commissione osserva che «la disposizione contenuta
nell'art. 43, comma 2, Tuel riconosce al consigliere
comunale il diritto di ottenere dagli uffici comunali tutte
le notizie e le informazioni utili all'espletamento del
proprio mandato e gli impone l'obbligo del segreto nei casi
specificatamente determinati dalla legge. Indipendentemente
dall'inclusione, fra i casi soggetti al segreto, della
divulgazione dei contribuenti morosi, gli uffici comunali
non possono limitare in alcun caso il diritto di accesso del
consigliere comunale, ancorché possa sussistere il pericolo
della divulgazione dei dati di cui il medesimo entri in
possesso. La responsabilità di aver messo in condizione il
consigliere comunale di conoscere dati sensibili cede di
fronte al diritto di accesso incondizionato del medesimo, ma
può essere invocata dal terzo eventualmente danneggiato solo
nei confronti di chi (consigliere comunale) del suo diritto
abbia fatto un uso contra legem».
Circa la possibilità che al sindaco sia riconosciuta la
facoltà, in assenza di puntuali disposizioni regolamentari,
di individuare autonomamente i limiti al diritto di accesso
dei consiglieri, appare dirimente la sentenza del Tar
Campania n. 19672/2008 con la quale è stato accolto il
ricorso avverso un decreto sindacale recante la disciplina
delle modalità di esercizio del diritto di accesso ex art.
43, comma 2, del dlgs 267/2000.
Il giudice amministrativo ha ritenuto sussistente il vizio
di incompetenza considerato che la materia del diritto di
accesso dei consiglieri avrebbe dovuto trovare la propria
disciplina nel regolamento adottato dal consiglio comunale,
«tenuto conto che il potere di informazione è uno dei
tratti caratteristici del controllo affidato alla minoranza
politica»
(articolo ItaliaOggi del
23.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
SEGRETARI
COMUNALI: Botta
e risposta dopo il varo del dl 174. Sul controllo strategico
scontro tra Anci, segretari e direttori.
Tra le numerose forme di controllo sull'attività degli enti
locali previste dalla legislazione vigente, riprese e
potenziate dal decreto-legge 174 del 10 ottobre scorso,
figura il controllo strategico. Di che si tratta? Esso
rappresenta un aspetto cruciale della riforma della p.a. in
quanto mira a verificare se e in quale misura siano stati
realizzati gli obiettivi finali dell'ente intesi in termini
di servizi resi ai cittadini. È pertanto evidente che tale
forma di controllo presuppone l'esistenza di documenti di
programmazione strategica e modelli di organizzazione e di
gestione orientati al risultato. Presupposti che mancano in
quasi tutte le amministrazione tanto che la Corte dei conti
ha più volte segnalato la sostanziale inosservanza della
norma in materia.
In realtà, la pianificazione strategica,
che spetta agli organi di governo, è carente quasi ovunque e
gli stessi strumenti di programmazione previsti dalla legge
sono spesso vuoti di contenuto, inadeguati e tardivi
(programma di governo, piani di sviluppo, strumenti di
bilancio). In tale quadro, come si manifesta possibile dare
concreta attuazione all'articolo 147 del Testo unico, come
sostituito dal decreto 174, che sostanzialmente ripete la
definizione e le finalità del controllo strategico diretto a
«valutare l'adeguatezza delle scelte compiute in sede di
attuazione dei piani, dei programmi e degli altri strumenti
di determinazione dell'indirizzo politico, in termini di
congruenza tra i risultati conseguiti e gli obiettivi
predefiniti»? Come è possibile operare se i piani non ci
sono o sono carenti e i risultati non sono individuati, né
misurati?
Il decreto-legge va oltre e dispone che,
nell'ambito della loro autonomia, gli enti locali
disciplinano e organizzano il sistema dei controlli interni
cui il controllo strategico appartiene. A detta
organizzazione partecipano il segretario dell'ente, il
direttore generale laddove previsto, i responsabili dei
servizi e le unità di controllo. Un po' tutti insomma. Sul
funzionamento del sistema vigila questa volta la Corte dei
conti attraverso le sezioni regionali. A tali fini il
sindaco, o il presidente della provincia, trasmette alla
Corte un referto sulla regolarità della gestione e
sull'efficacia e sull'adeguatezza del sistema dei controlli
interni avvalendosi del direttore generale o del segretario
negli enti in cui non è prevista la figura del dg. Ancora,
il decreto 174 prevede che debba essere istituita una unità
organizzativa preposta al controllo strategico che effettua
rilevazioni ed elabora rapporti periodici da sottoporre alla
giunta e al consiglio.
E qui si innesta un'aspra querelle
tra l'Anci, l'Unione dei segretari e l'Andigel,
l'associazione dei direttori generali degli enti locali. È
accaduto infatti che in sede di esame del decreto da parte
della commissione affari costituzionali della camera è stato
approvato, tra gli altri, un emendamento che pone tout court
l'unità organizzativa suddetta «sotto la direzione del
segretario comunale». L'emendamento non fa menzione alcuna
del direttore generale laddove previsto, come nel caso della
trasmissione del referto alla Corte dei conti. L'Anci
interviene con un comunicato del presidente in cui si
rappresenta l'inopportunità di affidare la suddetta
direzione al segretario.
Con un duro comunicato, l'Unione
nazionale dei segretari stigmatizza l'intervento di Delrio,
chiede addirittura di riconsiderare la propria posizione,
conferma la proposta di un direttore operativo che supporti
e non sostituisca le funzioni e le competenze del
segretario. Non meno duro il comunicato del presidente dell'Andigel
che considera l'emendamento «un colpo di mano e un insulto a
qualsiasi principio di autonomia e che conferma una
pericolosa involuzione centralistica in corso».
Si ripropone
dunque lo scontro tra le due unità di vertice determinatosi
in seguito alla introduzione negli enti locali di maggiori
dimensioni della figura del direttore generale prevista
dalla riforma Bassanini del 1997. Oggi, a distanza di 15
anni il problema non è stato ancora risolto
(articolo ItaliaOggi del
23.11.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
CONDOMINIO: LA
RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Condomini morosi, meno privacy.
L'amministratore può svelare il nome di chi non è in regola.
Cosa cambia nelle comunicazioni con
la legge approvata.
Il condomino moroso perde un po' della sua privacy.
L'amministratore, secondo la legge di riforma del
condominio, approvata definitivamente dalle camere martedì
scorso e ora in attesa della pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale, è tenuto a comunicare i dati dei condomini morosi
ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino.
Possono essere resi noti, dunque, i nominativi dei condomini
non in regola con il pagamento della somma dovuta e delle
rispettive quote millesimali.
Questa comunicazione è propedeutica a far sapere ai
creditori del condominio l'esatta identità dei condomini,
che non avendo pagato le rate condominiali, mettono in
difficoltà il condominio nel suo complesso. Senza il
versamento di tutti i partecipanti alla compagine
condominiale, sul conto del condominio non ci sono le somme
necessarie per pagare i fornitori del condominio.
Il problema di conoscere i dati dei singoli condomini è nato
a seguito della presa di posizione della Cassazione che ha
costretto i fornitori del condominio a intentare cause
contro i singoli condomini per recuperare quanto dovuto da
ognuno: la Cassazione ha escluso il vincolo di solidarietà
giuridica.
Sul punto era già intervenuto il garante della privacy, con
un'apertura alla possibilità di comunicazione dei dati dei
morosi. Ma vediamo di riepilogare la questione.
Con nota del 26.09.2008 il garante per la protezione
dei dati personali ha dato riscontro a un'associazione di
categoria in merito agli effetti della sentenza della
Cassazione, sezioni unite, n. 9148 del 2008, che ha ritenuto
legittimo, facendo propria la tesi minoritaria, il principio
della parziarietà, ossia della ripartizione tra i condomini
delle obbligazioni assunte nell'interesse del condominio in
proporzione alle rispettive quote. In particolare, la
Suprema corte ha sottolineato che l'obbligazione, ancorché
comune, è divisibile trattandosi di somma di denaro; la
solidarietà nel condominio, al contrario, non è contemplata
da nessuna disposizione di legge e l'articolo 1123 del
codice civile non distingue il profilo esterno da quello
interno; l'amministratore vincola i singoli nei limiti delle
sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle
quote.
In sostanza, se una ditta esegue lavori per il condominio e
non riceve il pagamento, prima della sentenza del 2008
poteva fare causa al condominio e anche a uno solo dei
condomini chiedendo a uno tutto il debito. Si parlava,
infatti, di responsabilità solidale. Tutto è cambiato con la
sentenza citata. La Cassazione impone, nell'esempio, alla
ditta esecutrice dei lavori, di dividere il proprio credito
nei confronti di ciascuno dei condomini. E per recuperare il
credito si dovranno fare tante cause quanti sono i condomini
e quindi conoscere i nominativi dei condomini e sapere la
quota di debito loro attribuibile.
La sentenza della Cassazione è stata smentita da alcune
successive sentenze di merito, ma l'orientamento delle
sezioni unite non è stato successivamente ribaltato dalla
Suprema corte.
Si è posto dunque il problema di privacy dei singoli
condomini e cioè se può l'amministratore passare i dati dei
condomini alle ditte. Con la nota del 2008 il garante ha
risposto a una richiesta dall'Anaci, associazione degli
amministratori, e ha risolto in senso positivo il quesito.
L'Autorità garante ha innanzitutto richiamato l'attenzione
su quanto affermato in occasione del proprio provvedimento
generale del 18 maggio 2006, relativo al trattamento dei
dati personali connessi all'attività di gestione di
condomini: al punto 2.1 veniva precisato che le informazioni
trattate, per finalità di gestione e amministrazione del
condominio ai sensi dell'articolo 24, comma 1, lettere a),
b) o c), del codice privacy, possono essere riferite a
ciascun partecipante condominiale in quanto funzionali
all'amministrazione comune.
Pertanto, concludeva il garante, anche a seguito della
sentenza della Suprema corte, non sussiste alcun vincolo
nella normativa privacy alla comunicazione di detti dati.
Infatti, fermo restando che le informazioni oggetto del
trattamento devono essere pertinenti e non eccedenti, i dati
personali riferiti ai singoli condomini possono essere
trattati dai fornitori di beni e servizi condominiali in
assenza del consenso degli interessati per dare esecuzione
agli obblighi derivanti da un contratto stipulato dai
partecipanti alla compagine condominiale, ancorché di regola
tramite amministratore ed eventualmente ex articolo 24,
comma 1, lettera f), del codice privacy per far valere o
difendere un diritto in sede giudiziaria.
Questo significa che ricorre la causa di esonero dal
consenso derivante dalla necessità di eseguire contratti: il
rapporto contrattuale intrattenuto dal condominio si può
riferire, infatti, ai singoli condomini. E dove c'è
necessità di eseguire un rapporto contrattuale non ci sono
restrizioni poste dalla legge sulla privacy. In sede di
esemplificazione nella nota in questione il garante cita
come dati suscettibili di tale trattamento quelli che
consentono di identificare i condomini obbligati al
pagamento del corrispettivo per l'esecuzione dei contratti
di fornitura di beni e servizi, le rispettive quote
millesimali e, se del caso, le ulteriori informazioni
necessarie a determinare le somme individualmente dovute.
Stando alla legge di riforma del condominio, dalla facoltà
si è passati all'obbligo di comunicare le informazioni
necessarie ai creditori.
L'articolo 63 delle disposizioni per l'attuazione del codice
civile e disposizioni transitorie, riformulato dalla
novella, prevede infatti che l'amministratore è tenuto a
comunicare ai creditori non ancora soddisfatti i dati dei
condomini morosi. L'unica condizione è che i creditori lo
chiedano, non potendo l'amministratore fare comunicazioni
unilaterali di sua iniziativa.
Il condomino moroso non può invocare più la privacy e
l'amministratore, osservando la legge, non ha nulla da
temere quanto al rispetto della riservatezza.
Peraltro l'amministratore deve limitarsi a dare i dati dei
condomini morosi e non altro. Va aggiunto, però, che
l'articolo 63, nella nuova formulazione, prevede che
l'escussione dei condomini, quelli in regola con i
pagamenti, può avvenire solo dopo che i creditori abbiano
esperito le cause contro i morosi. A quel punto il creditore
ha l'esigenza di conoscere i dati dei condomini in regola,
ma la norma non lo contempla esplicitamente
(articolo ItaliaOggi del
22.11.2012). |
APPALTI: Gare, flop stazioni uniche.
Accorpamenti p.a. al ralenti per gestire gli appalti.
I
dati del ministero dell'interno sulla natalità delle Sua.
Aumentano i contenziosi.
Sono soltanto tredici le stazioni uniche appaltanti in tutta
Italia che hanno consentito di accorpare 477 stazioni
appaltanti di cui 205 comuni per gestire 729 gare, per un
importo di 3,2 miliardi; il contenzioso, pari al 5,6% delle
gare svolte, è però più alto della media nazionale (4,3%).
Sono questi alcuni dei dati, in verità deludenti, diffusi
nei giorni scorsi dal gabinetto del ministro dell'interno
(Ufficio II - Ordine e sicurezza pubblica) per fare il
punto, a seguito di una circolare ministeriale del 12.05.2012, sul funzionamento dello strumento della stazione unica
appaltante (la cosiddetta Sua). In realtà si tratta di dati
assolutamente inidonei a realizzare quella auspicabile
concentrazione degli enti appaltanti che da più parti viene
richiesta, ma il problema nasce dal fatto che il ricorso
alla stazione unica appaltante, nelle sue varie forme, è da
sempre facoltativa.
Qualcosa è probabile che potrà cambiare in applicazione di
quanto previsto dall'articolo 14, commi 12-31 del decreto
78/2010, come modificato dal decreto 95/2012 (legge
135/2012) che ha introdotto l'obbligo a partire dal mese di
marzo 2013, per tutti i comuni con popolazione inferiore a
5.000 abitanti di svolgere le funzioni di stazioni
appaltanti in una dimensione ottimale il cui limite
demografico minimo è stato fissato in 10.000 abitanti.
L'applicazione di questa norma dovrebbe quindi accelerare il
ricorso alla diverse tipologie di stazione unica appaltante
per venire incontro all'esigenza di riduzione del numero
delle stazioni appaltanti al fine di migliorare l'efficienza
e la trasparenza dell'azione amministrativa. La rilevazione
del Viminale prende in considerazione diverse tipologie
partendo da quella disciplinata dal dpcm 30.06.2011
(pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 200 del 29.08.2011) in attuazione dell'articolo 13 della legge 13.08.2010, n. 136 relativo al Piano straordinario contro le mafie
approvato dal Consiglio dei ministri il 28.01.2010.
Si
tratta in sostanza di una centrale di committenza e, come
prevede il Codice dei contratti pubblici, ha il compito di
procedere all'acquisizione di forniture, lavori e servizi
destinati ad altre amministrazioni e all'aggiudicazione di
appalti o alla conclusione di accordi quadro. Oltre a quelle
di più recente disciplina rileva poi il modello costituito
su base provinciale (in Calabria, Campania e a Trento) che
ha visto la costituzione di cinque strutture; c'è poi il
modello della Suar su base regionale, operante in due
regioni, istituito con leggi regionali. Infine c'è il
modello che fa capo ai provveditorati regionali alle opere
pubbliche, a valenza generale e inquadrato nell'articolo 33
del Codice dei contratti pubblici.
Caso a parte è quello
dell'Ufficio regionale per la gestione delle gare d'appalto
(Urega) istituito in Sicilia con la legge 7/2002, primo
esempio di stazione unica appaltante. Dai dati forniti dal
ministero si ricava quindi che in tutto sono state
costituite 13 stazioni uniche che hanno raccolto 477
stazioni appaltanti di cui 205 comuni; le strutture
costituite utilizzano personale degli enti convenzionati o
di appartenenza. La rilevazione mette però in luce che sono
in fase di costituzione nuove stazioni uniche appaltanti
(per esempio, a Genova e nella regione Liguria).
I loro compiti sono quelli di espletare le procedure di
gara, dal bando all'aggiudicazione provvisoria, ma 11
strutture su 13 dichiarano di svolgere anche altre funzioni
(acquisizione informazioni antimafia, validazione dei
progetti e predisposizione del contratto). Nove strutture su
13 si attivano, oltre che sulle procedure aperte, anche
sulle procedure ristrette e negoziate, mentre soltanto
quattro affidano cottimi fiduciari. Le 13 stazioni operative
hanno gestito 729 gare (erano 130 nel 2009) per un importo
complessivo dei contratti pari a 3,247 miliardi. Per quanto
riguarda la gestione del contenzioso nei confronti delle
gare esperite sono stati registrati ricorsi per una
percentuale pari al 5,6%, dato più elevato del 4,3% della
media nazionale.
Fra le proposte che il ministero avanza per promuovere il
ricorso alle Sua vengono citate: l'obbligo di adesione per
gli enti locali i cui organi sono stati sciolti «per
mafia»; l'obbligo di ricorso alla Sua quando sono
coinvolte più stazioni appaltanti in relazione alla
costruzione di grandi opere e di interventi a esse
assimilabili per tipologia (ricostruzioni post sisma)
(articolo ItaliaOggi del
22.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI -
INCARICHI PROFESSIONALI: Dal
primo gennaio 2013 parcelle pagate puntualmente.
«Finalmente i liberi professionisti non saranno più
costretti ad aspettare mesi e mesi per vedere onorata la
loro prestazione professionale. Con la pubblicazione in
Gazzetta Ufficiale del decreto legislativo sulle transazioni
commerciali si colma l'ennesima lacuna normativa che fino a
oggi ha penalizzato il lavoro dei professionisti, perché il
ritardo dei pagamenti è un grosso problema che coinvolge le
pmi, ma soprattutto i liberi professionisti che lavorano con
la pubblica amministrazione e con le imprese».
Con queste parole, il presidente di Confprofessioni saluta
il varo definitivo del decreto legislativo 09.11.2012,
n. 192 recante «Modifiche al decreto legislativo 09.10.2002, n. 231, per l'integrale recepimento della direttiva
2011/7/Ue relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento
nelle transazioni commerciali, a norma dell'articolo 10,
comma 1, della legge 11.11.2011, n. 180», che è stato
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 267 del 15.11.
scorso.
«Si tratta di un provvedimento che va nella stessa
direzione cui Confprofessioni lavora da mesi, richiedendo
l'estensione ai professionisti del diritto di compensare i
crediti con la pubblica amministrazione», aggiunge Stella,
«come confermano gli emendamenti presentati da Confprofessioni al decreto sulla crescita in Commissione
industria al Senato».
Dal 01.01.2013, dunque, i liberi professionisti
potranno contare su regole più severe per la riscossione dei
propri crediti nei confronti della p.a. Il decreto sulle
transazione commerciali, infatti, riformula la definizione
di «pubblica amministrazione» ai fini della tempestività dei
pagamenti, estendendo le nuove regole a tutti i soggetti che
già oggi rientrano nella disciplina del codice degli
appalti.
Parecchie le altre novità introdotte con il decreto 192/2012
che coinvolgono i liberi professionisti. Decorso il termine
di pagamento, che rimane fissato in 30 giorni dal
ricevimento della fattura o della parcella, scatta
automaticamente la decorrenza degli interessi moratori,
senza la necessità di costituzione in mora. Il tasso minimo
di interesse legale moratorio passa dal 7 all'8%, oltre al
saggio fissato dalla Bce per le operazioni di
rifinanziamento.
Più strette anche le regole per derogare i
termini di pagamenti e tempi certi per la verifica della
congruità della prestazione professionale. Infine, è
prevista una somma forfettaria di 40 euro da aggiungere
all'importo dovuto al creditore in caso di ritardato
pagamento, a titolo di rimborso per le spese di recupero
(articolo ItaliaOggi del
22.11.2012). |
CONDOMINIO: LA
RIFORMA DEL CONDOMINIO/ La legge è stata approvata in via
definitiva dal senato. Nuove regole per la vita in comune.
Ingiunzione ai proprietari morosi senza l'ok dell'assemblea.
La riforma del condominio è legge. Il via libera definitivo
è arrivato ieri dalla commissione giustizia del senato che
ha approvato in sede deliberante e senza apportare modifiche
il testo varato il 27 settembre scorso dalla camera dei
deputati.
Per la prima volta, dal lontano 1942, cambiano le
regole del codice civile che disciplinano la convivenza in
condominio e che interessano circa 30 milioni di italiani.
Ma vediamo le principali novità a cominciare dalla figura
dell'amministratore che esce profondamente ridisegnata dalla
riforma.
Amministratore. Il provvedimento rende più snelle le
decisioni e valorizza la figura dell'amministratore che
resterà in carica due anni, dovrà avere requisiti di
formazione e onorabilità, non dovrà essere stato condannato
per delitti contro la pubblica amministrazione, dovrà avere
conseguito almeno il diploma di maturità, aver frequentato
un apposito corso e, ove ciò sia richiesto dall'assemblea,
aver stipulato una speciale polizza assicurativa a tutela
dai rischi derivanti dal proprio operato. L'amministratore
potrà essere licenziato prima della fine del mandato qualora
abbia commesso gravi irregolarità fiscali o non abbia aperto
o utilizzato il conto corrente condominiale.
Nei confronti dei condòmini morosi l'amministratore potrà
procedere con l'ingiunzione senza chiedere una preventiva
autorizzazione dell'assemblea e potrà comunicare ai
creditori i dati di chi non paga. Questi così potranno agire
in prima battuta sui «morosi». Se la mora dura più di sei
mesi, l'amministratore dovrà sospendere il condomino
debitore dalla fruizione dei servizi comuni qualificato.
Riscaldamento. Chi si vuole «staccare» dall'impianto
centralizzato può farlo senza dover attendere il benestare
dell'assemblea, ma a patto di non creare pregiudizi agli
altri e di continuare a pagare la manutenzione straordinaria
dell'impianto condominiale.
Nuovi quorum. Quorum più basso (dovrà essere pari alla
maggioranza degli intervenuti in assemblea, che
rappresentino almeno la metà dei millesimi) per deliberare,
ad esempio, l'installazione di impianti di videosorveglianza
sulle parti comuni dell'edificio. Uguale il quorum per
deliberare l'installazione di impianti per la produzione di
energia eolica, solare o comunque rinnovabile, anche da
parte di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto
reale o personale di godimento del lastrico solare o di
altra idonea superficie comune. Stessa maggioranza anche per
deliberare l'attivazione, a cura dell'amministratore e a
spese dei condomini, di un sito internet del condominio, ad
accesso individuale protetto da una password, per consultare
e stampare in formato digitale i rendiconti mensili e gli
altri documenti dell'assemblea.
Basteranno i 4/5 dei consensi, infine, per il cambio di
destinazione d'uso dei locali comuni. Potranno impugnare le
delibere assembleari, per annullarle, anche i condomini che
si sono astenuti. Mediazione obbligatoria in caso di
controversie.
Nessun divieto per gli animali. Il regolamento condominiale
non potrà più vietare di tenere animali in casa. Ma questi
dovranno essere «domestici».
Condòmini molesti. Maggior rigore contro chi arreca danni o
disturba. Per chi viola il regolamento condominiale la
sanzione è stata aggiornata: da 0,052 euro (pari a 100 lire)
a 200 euro. In caso di recidiva si arriva a 800 euro
(articolo ItaliaOggi del
21.11.2012). |
CONDOMINIO: LA
RIFORMA DEL CONDOMINIO/ La legge ridisegna i requisiti
morali e professionali. Bollino blu per l'amministratore.
Obbligatori diploma, formazione iniziale e aggiornamento.
Amministratore con il bollino blu. Dovrà essere diplomato e
deve avere seguito un corso di formazione; ma deve anche
possedere severi requisiti morali: non deve essere stato
condannato per delitti puniti con reclusione da due a cinque
anni.
La riforma del condominio ridisegna l'identikit
dell'amministratore, codificando che la carica può essere
svolta anche da una società e ridefinisce i compiti e i
poteri.
Requisiti. Per diventare amministratore di condominio
occorre godere dei diritti civili e non essere stati
condannati per
delitti contro la p.a., la giustizia, la fede
pubblica, il patrimonio e per ogni altro delitto non colposo
per il quale la legge commina la pena della reclusione non
inferiore, nel minimo, a due anni e, nel massimo, a cinque
anni.
È ostativa alla funzione l'avere subito una misura di
prevenzione (salvo riabilitazione) e non essere sottoposti a
tutela o curatela. La strada è bloccata anche per i
protestati. Passando ai requisiti professionali bisogna
avere un diploma di scuola superiore e avere frequentato un
corso di formazione iniziale e aggiornarsi periodicamente.
Ultimo requisito è la sottoscrizione di un'assicurazione per
responsabilità professionale.
La novella esclude i requisiti
professionali quando l'amministratore è un interno, nominato
tra i condomini dello stabile. Anche le società possono
svolgere l'incarico di amministratore di condominio: i
requisiti morali e professionali dovranno essere posseduti
dai soci illimitatamente responsabili, dagli amministratori
e dai dipendenti incaricati di svolgere le funzioni di
amministrazione. La perdita dei requisiti morali comporta la
cessazione dall'incarico. La norma stabilisce una
disposizione transitoria: chi ha svolto attività di
amministrazione di condominio per almeno un anno nell'arco
dei tre anni precedenti è consentito lo svolgimento
dell'attività di amministratore anche in assenza dei
requisiti di titolo di studio e di frequenza del corso di
formazione iniziale (ma rimane l'obbligo di formazione
periodica).
Obblighi. L'obbligo di nomina scatta quando i condomini sono
più di otto. L'amministratore deve essere rintracciabile dai
condomini e deve fornire orari nei quali è a disposizione,
anche per far visionare i documenti dell'amministrazione. Un
obbligo specifico concerne le somme versate dai condomini:
si deve aprire un apposito conto e i relativi estratti sono
a disposizione degli interessati. Altro obbligo di natura
gestionale è quello di agire per recuperare le rate non
pagate dai morosi: l'amministratore deve farlo entro sei
mesi chiusura dell'esercizio.
L'incarico di amministratore
ha durata di un anno e si intende rinnovato per uguale
durata. L'amministratore può essere licenziato
dall'assemblea in qualunque momento oppure dal giudice,
anche su richiesta di un solo condomino per gravi
irregolarità. La riforma codifica i casi di gravi
inadempienze: ad esempio mancata rendicontazione, mancata
esecuzione di provvedimenti giudiziari e amministrativi e di
deliberazioni dell'assemblea, mancata apertura e
utilizzazione del conto corrente dedicato al condominio.
Compiti. Tra i compiti dell'amministratore, introdotti dalla
novella, si segnalano la tenuta di alcuni registri, tra cui
il registro di anagrafe condominiale e il registro di
contabilità. Il registro dell'anagrafe contiene le
generalità dei condomini, i dati catastali di ciascuna unità
immobiliare, ogni dato relativo alle condizioni di
sicurezza.
Nel registro di contabilità sono annotati in ordine
cronologico, entro 30 giorni da quello dell'effettuazione, i
singoli movimenti in entrata e in uscita. Il registro può
tenersi anche con modalità informatizzate.
Altri registri
sono quello dei verbali delle assemblee e quello del
registro di nomina e revoca dell'amministratore. Nel
registro dei verbali delle assemblee sono annotate le
deliberazioni e le brevi dichiarazioni rese dai condomini
che ne hanno fatto richiesta. Nel registro di nomina e
revoca dell'amministratore sono annotate, in ordine
cronologico, le date della nomina e della revoca di ciascun
amministratore del condominio e gli estremi dei
provvedimenti giudiziari. Specifico obbligo
dell'amministratore è la redazione del rendiconto
condominiale annuale.
Il rendiconto.
A proposito del rendiconto, la riforma prevede per
l'assemblea condominiale di nominare un revisore che
verifichi la contabilità del condominio. Per ragioni di
auditing interno l'assemblea può anche nominare, oltre
all'amministratore, un consiglio di condominio composto da
almeno tre condomini negli edifici di almeno dodici unità
immobiliari. Il consiglio ha funzioni consultive e di
controllo
(articolo ItaliaOggi del
21.11.2012). |
CONDOMINIO: LA
RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Le nuove regole puntano ad
assicurare stabilità finanziaria. Il rendiconto come un
bilancio.
Entrate e uscite da evidenziare col criterio della
competenza.
Il rendiconto condominiale dovrà somigliare sempre di più al
bilancio delle società ed evidenziare in maniera trasparente
le somme in entrata e quelle in uscita secondo il criterio
di competenza. Queste ultime dovranno necessariamente
transitare su un conto corrente intestato al condominio e
l'amministratore, che potrà essere anche una società, dovrà
curare i necessari adempimenti fiscali. Questi avrà a sua
disposizione nuovi ed efficaci strumenti per contrastare il
dilagante fenomeno della morosità condominiale e dovrà
attivarsi senza indugio per recuperare le somme non versate
nelle casse condominiali.
La maggiore stabilità finanziaria del condominio costituirà
quindi una garanzia in più per i fornitori esterni: in caso
di lavori di manutenzione straordinaria o di innovazioni
dovrà infatti obbligatoriamente essere costituito un fondo
speciale di ammontare pari a quello dell'appalto deliberato
dall'assemblea. I singoli condomini avranno a loro volta
qualche tutela in più nei confronti delle imprese che
vantino crediti nei confronti del condominio, in quanto le
stesse dovranno necessariamente provare a recuperare le
somme dovute dai comproprietari in mora nel versamento degli
oneri condominiali (previa obbligatoria indicazione della
loro identità da parte dell'amministratore) e solo in caso
di insuccesso potranno agire nei confronti dei condomini in
regola con i pagamenti.
Queste alcune delle novità introdotte dalla legge di riforma
della disciplina condominiale approvata ieri in via
definitiva dalla commissione giustizia del senato, che ha
riscritto in maniera quasi completa gli articoli 1117 e
seguenti del codice civile e 61 e seguenti delle relative
disposizioni di attuazione (si veda la tabella relativa alle
principali novità introdotte). Ma la nuova normativa
interviene in modo rilevante anche sui requisiti, i poteri e
i doveri dell'amministratore condominiale (la cui figura si
avvia a diventare sempre più professionale per allontanare
dal mercato operatori improvvisati), sulle modalità di
costituzione, partecipazione ed espressione della volontà
dell'assemblea condominiale (le maggioranze necessarie
all'adozione delle delibere vengono generalmente abbassate
per migliorare il relativo processo decisionale),
sull'utilizzo delle parti comuni (viene ammesso il distacco
dall'impianto comune di riscaldamento o condizionamento,
purché ciò non influisca negativamente sul suo
funzionamento), sulla disciplina di nuove fattispecie quali
il supercondominio e il cosiddetto condominio orizzontale
(articolo ItaliaOggi del
21.11.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: Prevenzione incendi al restyling.
Dal 27 novembre prossimo cambia la
modulistica per i vigili.
Dal 27 novembre per la presentazione delle istanze ai Vigili
del fuoco relative ai procedimenti di prevenzione degli
incendi è necessario utilizzare la nuova modulistica
definita con decreto dirigenziale del direttore centrale per
la prevenzione e la sicurezza tecnica del ministero
dell'interno 31.10.2012, n. 200.
I nuovi moduli tengono conto dell'avvento della Scia (legge
n. 122/2010) sui procedimento di spettanza del Corpo
nazionale dei Vigili del fuoco nonché di quanto previsto in
materia di Sportello unico per le attività produttive (Suap,
dpr n. 160/20101).
Per la prima volta, in una materia così difficile come
quella della prevenzione incendi, viene concretamente
preferita un'impostazione fondata sul principio della
proporzionalità, in base al quale gli adempimenti
amministrativi vengono diversificati in relazione alla
grandezza dell'impresa, al settore in cui esercita
l'attività principale e soprattutto viene perseguita
l'effettiva esigenza di tutela degli interessi pubblici
collettivi.
È con il decreto del ministero dell'interno 07.08.2012
che viene stabilita la data del 27 novembre per l'utilizzato
della nuova modulistica sostitutiva di quella contenuta nel
decreto del ministro dell'interno 04.05.1998.
La modulistica di prevenzione e incendi valida dal 27
novembre è la seguente: valutazione dei progetti (richiesta
di esame del progetto); Scia (Scia; asseverazione per Scia;
Scia Gpl; asseverazione per Scia Gpl); rinnovo periodico di
conformità antincendio (attestato di rinnovo periodico,
asseverazione per rinnovo periodico, attestato di rinnovo
periodico per Gpl); domanda di deroga (richiesta di deroga);
nulla osta di fattibilità (richiesta di nulla osta di
fattibilità); verifiche in corso d'opera (richiesta di
verifica in corso d'opera, certificazione di resistenza al
fuoco di prodotti/elementi costruttivi in opera,
dichiarazione di corretta installazione e funzionamento
dell'impianto, certificazione di corretta installazione e
funzionamento dell'impianto, dichiarazione inerente i
prodotti impiegati, Pin 7 2012 voltura, Pin 2.7 Gpl 2012
dichiarazione, Pin 2.6 dichiarazione non aggravio rischio).
Va ricordato che il 07.10.2011 era entrato in vigore il
dpr 01.08.2011, n. 151 contenente il regolamento recante
la semplificazione della disciplina dei procedimenti di
prevenzione degli incendi e all'articolo 2, comma 7, dello
stesso dpr veniva stabilito che per garantire l'uniformità
delle procedure, nonché la trasparenza e la speditezza
dell'attività amministrativa, le modalità di presentazione
delle istanze e la relativa documentazione, da allegare,
sarebbero state definite con un successivo decreto del
ministro dell'interno.
Nell'art. 11, 1 comma, del dpr n. 151/2011 era, inoltre,
fissato un periodo transitorio ed era stabilito che fino
all'adozione del decreto ministeriale di cui al comma 7
dell'articolo 2, si applicano le disposizioni normative
contenute nel decreto del ministro dell'interno del 04.05.1998 riguardante le modalità di presentazione e il contenuto
delle domande per l'avvio di procedimenti di prevenzione
incendi, nonché l'uniformità dei connessi servizi resi dai
comandi provinciali dei vigili del fuoco. Il dpr n.
151/2011, recependo quanto stabilito dalla legge del 30.07.2010,
n. 122 in materia di semplificazione amministrativa ha
individuato le attività soggette alla disciplina della
prevenzione incendi e contemporaneamente ha semplificato gli
adempimenti per i soggetti interessati
(articolo ItaliaOggi del
20.11.2012). |
ENTI LOCALI: Le
novità previste nel dm al vaglio della conferenza
stato-regioni. Rendicontazione online. Autovelox, contabilità
separata.
Dal 2013 i proventi vanno divisi dalle altre multe stradali.
Nel 2013 i proventi connessi alle sanzioni per autovelox e
telelaser dovranno essere contabilizzati separatamente dai
proventi derivanti in generale dalle multe stradali, con
apposita rendicontazione da inviare per via informatica al
ministero delle infrastrutture e dei trasporti e al
ministero dell'interno.
Disciplina più dettagliata per l'utilizzo dei misuratori di
velocità, con indicazioni supplementari rispetto a quelle
contenute nella direttiva del 14.08.2009.
Sono queste le
importanti novità previste dalla bozza di un decreto
ministeriale che attende il via libera della conferenza
stato-regioni prima della pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale.
La legge n. 120 del 29.07.2010 aveva
riscritto l'art. 142 del codice della strada in materia di
eccesso di velocità e proventi delle multe, prevedendo che
per tutte le violazioni dei limiti di velocità accertate
mediante l'impiego di apparecchi o di sistemi di rilevamento
oppure attraverso l'utilizzazione di dispositivi o di mezzi
tecnici di controllo a distanza delle violazioni i relativi
proventi devono essere ripartiti in misura uguale fra l'ente
dal quale dipende l'organo accertatore e l'ente proprietario
della strada restando comunque escluse le strade in
concessione.
Le somme derivanti dall'attribuzione delle
quote dei proventi ripartiti devono essere destinate alla
manutenzione e messa in sicurezza delle infrastrutture
stradali e al potenziamento delle attività di controllo e
accertamento delle violazioni in materia di circolazione
stradale, comprese le spese relative al personale. Ma queste
nuove disposizioni non sono mai diventate operative, in
quanto non è stato emanato il decreto attuativo. In sede di
conversione, con modificazioni, del decreto legge n. 16 del
02.03.2012, la legge n. 44 del 26.04.2012 ha disposto
che il decreto ministeriale di cui all'art. 25, comma 2,
della legge 120/2010 deve essere emanato entro 90 giorni dal
29.04.2012 e che, in caso di mancata emanazione, saranno
comunque applicate le disposizioni sulla ripartizione dei
proventi di cui ai commi 12-bis, 12-ter e 12-quater
dell'art. 142.
Sul punto, però, l'Anci aveva immediatamente chiarito che,
in ogni caso, non essendo stato abrogato il comma 3
dell'art. 25 della legge 120/2010, la nuova disciplina non
avrebbe trovato immediata applicazione, ma si sarebbe dovuto
attendere il 01.01.2013. Dunque, alla luce di questo
complesso iter normativo, manca solo il tanto atteso decreto
ministeriale attuativo, che, finalmente, sembra essere in
dirittura d'arrivo. Infatti, la bozza, già predisposta dai
tecnici del ministero delle infrastrutture e dei trasporti e
del ministero dell'interno, deve attendere solo il parere
della conferenza stato-regioni prima di poter essere
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, con entrata in vigore
fissata per il 01.01.2013.
La bozza del decreto ministeriale prevede che gli enti
locali dovranno trasmettere per via informatica al ministero
delle infrastrutture e dei trasporti e al ministero
dell'interno entro il del 31 maggio di ogni anno (con prima
scadenza il 31.05.2014) una relazione relativa al periodo
intercorrente tra il 1° gennaio e il 31 dicembre dell'anno
precedente, una relazione, suddivisa su tre sezioni,
indicando le informazioni generali, i proventi delle
sanzioni amministrative pecuniarie di propria spettanza di
cui all'art. 208, comma 1, e all'art. 142, comma 12-bis, del
codice della strada e le informazioni relative alla
destinazione dei proventi stessi. Deve essere tenuta una
contabilità separata fra i proventi in generale e quelli
derivanti da accertamenti delle violazioni dei limiti
massimi di velocità.
In particolare, per questi ultimi deve risultare la
distinzione a seconda che siano di intera spettanza
dell'ente locale, oppure siano soggetti a ripartizione al
50% con l'ente proprietario della strada, oppure derivino
dagli accertamenti eseguiti da organi accertatori di altri
enti locali. Con qualche perplessità sulla conformità al
dettato normativo, il decreto esclude dall'obbligo di
ripartizione i proventi delle sanzioni derivanti dalle multe
elevate dagli organi di polizia stradale dipendenti dallo
stato.
Le somme introitate per i verbali di contestazione
dell'eccesso di velocità rilevato con misuratori elettronici
sono attribuiti interamente all'ente da cui dipende l'organo
accertatore per gli accertamenti eseguiti su strade e
autostrade in concessione (fra le quali sia le autostrade e
le strade statali di interesse nazionale che le strade di
interesse statale a gestione regionale), su strade di
interesse regionale gestite direttamente dalle regioni o da
queste date in concessione e su tutte le altre strade non di
proprietà degli enti locali.
In via provvisoria, nel 2013 per i proventi da ripartire si
dovrà fare riferimento alle somme incassate per pagamento di
sanzioni accertate nel corso dell'anno. La ripartizione, da
rendicontare entro il 31.01.2014, interesserà il totale
delle somme incamerate, al netto delle spese sostenute per
tutti i procedimenti amministrativi connessi. Per gli anni
successivi saranno contabilizzati anche i proventi
incassati, derivanti da accertamenti di violazioni relative
ad anni precedenti (articolo
ItaliaOggi Sette del 19.11.2012). |
APPALTI: Pubblicato
in G.U. il decreto che recepisce la norma Ue. Regole al via
dal 01.01.2013. Giorni contati ai pagamenti lenti.
La p.a. dovrà saldare i conti dei fornitori entro un mese.
Tempi certi nei pagamenti alle imprese fornitrici di beni o
servizi alla p.a..
È stato pubblicato, infatti, sulla G.U. n.
267 del 15 novembre scorso il decreto 09.11.2012, n.
192 che fissa a trenta giorni il termine di pagamento (con
possibilità di deroghe distinte a seconda che si tratti di
contratti tra privati o di transazioni tra imprese e
pubbliche amministrazioni), eleva il tasso minimo degli
interessi legali moratori (da sette a otto punti percentuali
della maggiorazione del tasso fissato dalla Bce) e chiarisce
cosa si intende per «grave iniquità» che fa scattare la
sanzione della nullità del contratto tra le parti.
Le nuove regole, che entrano in vigore il 30.11.2012,
ma si applicheranno a partire dal 01.01.2013,
riguardano tutti i «contratti, comunque denominati, tra
imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni, che
comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di
merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un
prezzo».
Il decreto, in attuazione della delega contenuta
nel cosiddetto Statuto delle imprese (legge 11.11.2011, n. 180), recepisce con largo anticipo rispetto alla
scadenza (fissata al 16.03.2013) la direttiva 2011/7/Ue
del 16.02.2011 relativa alla lotta contro i ritardi di
pagamento nelle transazioni commerciali e per farlo modifica
le norme dettate dal precedente decreto legislativo n. 231
del 09.10.2002 che aveva recepito la prima direttiva
comunitaria sul tema (direttiva 2000/35/Ce del 29.06.2000).
L'urgenza di approntare una soluzione al problema della
tempestività dei pagamenti fra imprese e, soprattutto, di
quelli della pubblica amministrazione alle imprese non è una
novità. Lo stesso governo, nella relazione illustrativa del
decreto, parte dalla constatazione che Italia è all'ultimo
posto nelle classifiche europee in relazione a questo
problema, «che riguarda tutte le imprese ma finisce per
colpire principalmente le piccole e medie imprese e gli
artigiani, che costituiscono l'ossatura del tessuto
produttivo italiano, che hanno minore capacità finanziaria e
di ricorso al credito e minore forza contrattuale nei
rapporti con le grandi aziende e con la pubblica
amministrazione, così da essere spesso indotti a rinunciare
contrattualmente ai diritti ad essi spettanti per legge».
La
nuova disciplina si applica alla pubblica amministrazione,
per tale intendendosi «l'amministrazione aggiudicatrice»
prevista dal cosiddetto Codice dei contratti pubblici
(decreto legislativo n. 163/2006), ma ricomprendendo anche
soggetti di diritto privato quando svolgano attività per la
quale sono tenuti al rispetto della disciplina sui contratti
pubblici. Restano, invece, esclusi: a) i debiti oggetto di
procedure concorsuali aperte a carico del debitore, comprese
le procedure finalizzate alla ristrutturazione del debito;
b) i pagamenti effettuati a titolo di risarcimento del
danno, compresi i pagamenti effettuati a tale titolo da un
assicuratore.
Il sistema approntato dal decreto distingue i
contratti tra imprese da quelli tra imprese e pubbliche
amministrazioni quando definisce i termini di pagamento
imposti, mentre il precedente decreto fissava a 30 giorni il
pagamento per ogni tipo di transazione commerciale e con
libertà delle parti di accordarsi per un termine superiore
rispetto a quello legale a condizione che le diverse pattuizioni fossero stabilite per iscritto e rispettassero i
limiti concordati nell'ambito di accordi sottoscritti dalle
organizzazioni maggiormente rappresentative a livello
nazionale. A partire da gennaio prossimo, invece, il termine
di 30 giorni indicato nei contratti tra le imprese potrà
essere derogato fino a un massimo di 60 giorni, sempre che
l'accordo sia in forma espressa (per iscritto) e non risulti
«gravemente iniquo» per il creditore.
Per quanto riguarda i
contratti in cui il debitore è una pubblica amministrazione
sarà possibile fissare un termine legale di pagamento fino a
un massimo di sessanta giorni in due casi: (1) per le
imprese pubbliche che svolgono attività economiche di natura
industriale o commerciale, offrendo merci o servizi sul
mercato; (2) per gli enti pubblici che forniscono assistenza
sanitaria; fatta eccezione per tali casi, è lasciata facoltà
alle parti di concordare, anche in questo caso in forma
(scritta) espressa, un termine superiore a 30 giorni ma
comunque non superiore a 60 giorni, se questo termine
risulta oggettivamente giustificato dalla natura o
dall'oggetto del contratto o da particolari circostanze
esistenti al momento della conclusione dell'accordo.
Sempre
nell'ottica di un doppio binario, il decreto distingue i
contratti tra privati da quelli tra imprese e p.a.
prevedendo che siano corrisposti, nel primo caso, «interessi
moratori» (che sono interessi legali di mora o interessi a
un tasso concordato tra le imprese) e, nel secondo caso,
«interessi legali di mora» (ossia interessi a un tasso che
non può essere inferiore al tasso legale, vale a dire il
tasso Bce maggiorato dell'8%). In aggiunta al rimborso dei
costi e fatta salva la prova del maggior danno (che può
comprendere anche i costi di assistenza per il recupero del
credito), si prevede anche la corresponsione di una somma
forfettaria di 40 euro, volta a rimborsare i costi
amministrativi e interni di recupero del credito, che si
cumula agli interessi di mora e che dovrà essere corrisposta
senza che sia necessaria la costituzione in mora ed
indipendentemente dalla dimostrazione dei costi. Il decreto
assicura la facoltà delle parti di concordare pagamenti a
rate: in tal caso, le conseguenze negative del ritardo
(interessi e risarcimento) saranno calcolate esclusivamente
sulle singole rate scadute.
Infine, la nullità del contratto
tra le parti è stabilita nei casi in cui risultano
«gravemente inique» le clausole relative al termine di
pagamento, al saggio degli interessi moratori e al
risarcimento dei costi di recupero. Mentre il precedente
decreto forniva solo degli orientamenti all'interprete per
decifrare il concetto di «grave iniquità» ora vengono
considerate ex lege gravemente inique, senza
ammettere prova contraria, le clausole che escludono il
diritto al pagamento degli interessi di mora e quelle
relative alla data di ricevimento della fattura e si
presumono gravemente inique quelle che escludono il
risarcimento dei costi di recupero (articolo
ItaliaOggi Sette del 19.11.2012). |
APPALTI: Gli
effetti della nuova disciplina sulla responsabilità solidale
Iva. Non sono esclusi i privati. Appalti, come evitare
l'impasse.
Dalle sanzioni all'entrata in vigore: le soluzioni ai nodi
irrisolti.
La nuova responsabilità solidale e sanzionatoria per Iva e
ritenute nel caso di appalti e subappalti rischia di
bloccare le attività. Una norma volutamente rigida ma
scritta forse troppo frettolosamente sta creando un numero
incredibile di difficoltà. I comportamenti da tenere non
sono ancora certi e considerando i rischi a cui si va
incontro in caso di errore, spesso le imprese stanno tenendo
un comportamento orientato alla massima prudenza. Ci si
muove con cautela con il risultato però di rallentare anche
la produttività.
Ecco allora da un esame del testo normativo le questioni di
maggiore rilevanza ancora sul tappeto con le possibili
soluzioni.
Appalto e subappalto. L'ambito oggettivo di applicazione è
delineato dal comma 28 dell'art. 35 del decreto 223/2006
come dal dl 83/2012. La locuzione utilizzata è molto secca
facendo riferimento ai casi di «appalto di opere o di
servizi». Il riferimento normativo per definire la
fattispecie è l'articolo 1655 del codice civile che dispone
«l'appalto è il contratto col quale una parte assume, con
organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio
rischio, il compimento di una opera o di un servizio verso
un corrispettivo in danaro».
Tale definizione è però
alquanto difficile da declinare nei casi concreti, i quali
non di rado non sono nemmeno formalizzati in forma scritta.
Senza contare che proprio su tale definizione la stessa
cassazione ormai da decenni fornisce interpretazioni che non
permettono di riconoscere con certezza i limiti di tale
fattispecie contrattuale. Se si cerca un aiuto nella prassi
un riferimento può essere nella circolare 7 del 07.02.2007 che ha illustrato le regole in tema di ritenute sui
corrispettivi dovuti dal condominio all'appaltatore. Anche
in questo caso la norma limiti l'ambito di intervento ai
corrispettivi «dovuti per prestazioni relative a contratti
di appalto di opere o servizi».
La prassi interpretando
questo passaggio (ed estendendo il contenuto letterale della
norma) ha affermato che «deve ritenersi che la norma trova
applicazione per le prestazioni convenute nei contratti
d'opera in generale e, in particolare, nei contratti che
comportano l'assunzione, nei confronti del committente, di
un'obbligazione avente ad oggetto la realizzazione, dietro
corrispettivo, di un'opera o servizio, nonché l'assunzione
diretta, da parte del prestatore d'opera, del rischio
connesso con l'attività, svolta senza vincolo di
subordinazione nei confronti del committente». Si può non
essere d'accordo (il contratto d'opera non è un contratto di
appalto) ma certo la posizione della prassi in assenza di
indicazioni contrarie deve essere quanto meno considerata.
I privati. Il comma 28-ter prevede che «Le disposizioni di
cui ai commi 28 e 28-bis si applicano in relazione ai
contratti di appalto e subappalto di opere, forniture e
servizi conclusi da soggetti che stipulano i predetti
contratti nell'ambito di attività rilevanti ai fini
dell'imposta sul valore aggiunto». Ciò ha fatto dire che i
privati sono esclusi da tale normativa. In realtà nononostante sia questa la soluzione da preferire sarebbe bene
un intervento che elimini qualsiasi dubbio. Infatti
fermandosi al testo i dubbi possono esistere. Il committente
infatti in base a quanto indicato nel comma 28-bis è
responsabile nel caso di irregolari inadempimenti sia
dell'appaltatore che del subappaltatore.
Se ipotizziamo una
situazione in cui con un committente privato intervengo
quali appaltatori e subappaltate due esercenti attività
d'impresa, è chiaro che il contratto tra questi ultimi due è
concluso «da soggetti che stipulano i predetti contratti
nell'ambito di attività rilevanti ai fini dell'imposta sul
valore aggiunto». Quindi la norma si applica in tutte le sue
parti e anche in quella che prevede una responsabilità
sanzionatoria del committente per le irregolarità del
subappaltatore. Almeno la prassi elimini in fretta questo
dubbio.
I non residenti. Difficile dal testo normativo escludere i
non residenti dall'ambito di applicazione. Se l'appaltatore
o il subappaltatore (più facilmente) non sono soggetti
italiani non vi sono particolari limiti di applicazione. Se
ci si ferma al modo Ue difficile ipotizzare che, ad esempio,
il subappaltatore che viene a lavorare in una cantiere in
Italia non svolga un'attività rilevante ai fini Iva (anche
se magari solo nel suo paese). Quindi anche a costoro è da
richiedere l'autocertificazione.
Il committente. È fuori di dubbio che anche il committente
abbia una responsabilità seppur di natura sanzionatoria. La
stessa è riferita alle irregolarità di tutti gli anelli
della possibile catena (appaltatore, subappaltatore 1,
subappaltatore 2 ecc.). Il comma 28-bis prevede infatti che
«il committente provvede al pagamento del corrispettivo
dovuto all'appaltatore previa esibizione da parte di
quest'ultimo della documentazione attestante (_) Il
committente può sospendere il pagamento del corrispettivo
fino all'esibizione della predetta documentazione da parte
dell'appaltatore».
Da qui una piccola notizia positiva: il
committente ha la possibilità di avere a che fare solo con
il committente. È a lui che può richiedere la documentazione
attestante la regolarità anche dei subappaltatori e
sospendere il pagamento fino al mancato ricevimento di
questa da parte dell'appaltatore. D'altra parte spesso
capita che il committente non sappia neanche o quanto
nemmeno conosce i subappaltatori.
Le sanzioni del committente. C'è un limite alle sanzioni a
carico del committente ma nonostante ciò le stesse possono
esser sproporzionate. Il comma 28-bis trattando della
sanzione a carico del committente si prevede che «ai fini
della predetta sanzione si applicano le disposizioni
previste per la violazione commessa dall'appaltatore».
Quindi deve valere la previsione secondo cui la stessa deve
rimanere «nei limiti dell'ammontare del corrispettivo
dovuto».
Oltre al dubbio a quale corrispettivo occorre
riferirsi nel caso di presenza di subappalto (a quello del
contratto di appalto in genere o del singolo subappalto)
tale locuzione lascia aperto il rischio della sproporzione.
Si pensi a un contratto che prevede corrispettivo di 5 mila
euro (con Iva 10%). L'appaltatore non versa 500 euro la
sanzione a carico del committente è quella minima che però è
di 5 mila euro (10 volte l'importo non versato!!!).
Il settore edile. Giustamente si sta cercando in via
interpretativa di limitare l'ambito di applicazione della
norma. Torna allora il riferimento al fatto che la norma in
questione è contenuta nell'art. 13-ter del dl 83/2012 e
precisante nel capo III del provvedimento titolato misure
per l'edilizia. Ma questo unico elemento per limitare
all'edilizia la nuova previsione non pare decisivo (almeno
fino a quando almeno la prassi non dovesse confermare tale
soluzione).
Si noti inoltre che la norma è «di passaggio» in
questo provvedimento in quanto l'art. 13-ter in questione va
a sostituire il comma 28 dell'articolo 35 del decreto-legge
04.07.2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla
legge 04.08.2006, n. 248 articolo titolato «Misure di
contrasto dell'evasione e dell'elusione fiscale» compreso
nel titolo III a sua volta titolato «Misure in materia di
contrasto all'evasione ed elusione fiscale, di recupero
della base imponibile, di potenziamento dei poteri di
controllo dell'Amministrazione finanziaria, di
semplificazione degli adempimenti tributari e in materia di
giochi» (e qui il riferimento al comparto edile non lo si
ritrova più).
Entrata in vigore.
La circolare 40 ha affermato che la norma si applica solo
per i contratti di appalto e subappalto stipulati a
decorrere dal 12 agosto e con riguardo ai pagamenti
effettuati dall'11.10.2012 (grazie allo statuto del
contribuente).
Una presa di posizione favorevole ma che comporta la
necessità di verificare la data di stipula del contratto.
Ora nel caso di contratto verbale (fattispecie alquanto
comune e che non pare poter essere esclusa dall'ambito di
applicazione) non è di certo facile individuare tale data e
soprattutto non sarà poi facile in futuro riuscire a provare
la stessa (articolo
ItaliaOggi Sette del 19.11.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: Le
istruzioni per accedere al finanziamento previsto dal Conto
termico sulle fonti rinnovabili. Energia, case e imprese
efficienti.
Fondi di 700 mln per chi migliora l'impianto di
riscaldamento.
Arriva il
conto termico per persone fisiche, condomini e
imprese. Uno stanziamento di 700 milioni di euro finanzierà
i soggetti privati che effettuano interventi per migliorare
le prestazioni termiche dei propri edifici. Mentre altri 200 mln di euro sono a disposizione delle pubbliche
amministrazioni.
Il decreto ministeriale congiunto tra
sviluppo economico, ambiente e tutela del territorio e del
mare e ministero delle politiche agricole, alimentari e
forestali è stato approvato negli scorsi giorni ed è ora al
vaglio della conferenza unificata. Una volta pubblicato in
Gazzetta Ufficiale potranno essere avviati gli investimenti
a seguito dei quali i soggetti interessati potranno
richiedere l'erogazione dell'incentivo.
Si tratterà di un
contributo che potrà coprire circa il 40% della spesa
sostenuta, con dei limiti massimi di potenza, e sarà erogato
in un periodo di due o cinque anni a seconda del tipo di
intervento. Il soggetto gestore dell'agevolazione sarà il Gse, a cui andranno presentate le domande di accesso
all'incentivo. Ai fini dell'accesso agli incentivi, i
beneficiari possono avvalersi dello strumento del
finanziamento tramite terzi o di un contratto di rendimento
energetico ovvero di un servizio energia, anche tramite
l'intervento di un fornitore di servizi energetici.
Finanziabili caldaie e solare termico. Il conto termico
finanzia interventi di piccole dimensioni di produzione di
energia termica da fonti rinnovabili e di sistemi ad alta
efficienza, con una potenza massima di 500 Kw (700 mq in
caso di solare termico). È possibile ottenere un contributo
per la sostituzione di impianti di climatizzazione invernale
esistenti con impianti di climatizzazione invernale
utilizzanti pompe di calore elettriche o a gas, anche
geotermiche. Inoltre, è finanziabile la sostituzione di
impianti di climatizzazione invernale o di riscaldamento
delle serre esistenti con impianti di climatizzazione
invernale dotati di generatore di calore alimentato da
biomassa. Infine, l'incentivo sostiene anche l'installazione
di collettori solari termici, anche abbinati a sistemi di
solar cooling, nonché la sostituzione di scaldacqua
elettrici con scaldacqua a pompa di calore.
Ammissibili manodopera, apparecchiature e opere murarie. Per
gli interventi impiantistici relativi alla produzione di
acqua calda, anche se destinata, con la tecnologia solar
cooling, alla climatizzazione estiva sono finanziabili le
spese per smontaggio e dismissione dell'impianto esistente,
parziale o totale, fornitura e posa in opera di tutte le
apparecchiature termiche, meccaniche, elettriche ed
elettroniche, nonché delle opere idrauliche e murarie
necessarie per la realizzazione a regola d'arte degli
impianti organicamente collegati alle utenze. Per gli
interventi impiantistici concernenti la climatizzazione
invernale, sono invece ammissibili lo smontaggio e
dismissione dell'impianto di climatizzazione invernale
esistente, parziale o totale, la fornitura e posa in opera
di tutte le apparecchiature termiche, meccaniche, elettriche
ed elettroniche, delle opere idrauliche e murarie necessarie
per la sostituzione, a regola d'arte, di impianti di
climatizzazione invernale o di produzione di acqua calda
sanitaria preesistenti nonché i sistemi di contabilizzazione
individuale. Oltre a quelli relativi al generatore di
calore, sono ammessi anche gli eventuali interventi sulla
rete di distribuzione, sui sistemi di trattamento
dell'acqua, sui dispositivi di controllo e regolazione, sui
sistemi di estrazione e alimentazione dei combustibili
nonché sui sistemi di emissione. Sono inoltre comprese tutte
le opere e i sistemi di captazione per impianti che
utilizzino lo scambio termico con il sottosuolo. L'avvio
delle spese sarà possibile solo a partire dal giorno
successivo all'entrata in vigore del decreto.
Contributo del 50% per la certificazione energetica. Sono
ammesse a contributo anche le prestazioni professionali
connesse alla realizzazione degli interventi finanziabili e
per la redazione di diagnosi energetiche e di attestati di
certificazione energetica relativi agli edifici oggetto
degli interventi. Infatti, per molti degli interventi
finanziati, la normativa richiede la presentazione della
relativa certificazione energetica. I soggetti privati
possono ottenere un contributo secco del 50% sulle spese per
la relativa certificazione.
Rata unica se il contributo è inferiore a 600 euro. Il
contributo viene erogato in rate annuali per un periodo di
due o cinque anni a seconda della complessità
dell'intervento. L'unica possibilità di ottenere
immediatamente il contributo spettante è che lo stesso sia
inferiore o uguale a 600 euro.
Possibile il cumulo con altri incentivi. L'incentivo può
essere cumulato con altri incentivi statali sotto forma di
fondi di garanzia, fondi di rotazione e contributi in conto
interesse. In caso di incentivi non statali cumulabili,
anche se in conto capitale, l'incentivo è attribuibile in
misura complementare fino al raggiungimento dei massimali
stabiliti, per specifici interventi, o al raggiungimento
dell'incentivo che sarebbe stato erogabile per il medesimo
intervento senza considerare il cumulo (articolo
ItaliaOggi Sette del 19.11.2012). |
ENTI LOCALI: Bilanci.
La legge di conversione del Dl 174/2012 prevede la decadenza
immediata con nuovi collegi.
Tagliati oltre mille revisori.
Niente professionisti nei Comuni che appartengono alle
Unioni.
EFFETTI SUI GIOVANI/
Con il riordino tutti i municipi sotto i 5mila abitanti
dovrebbero unirsi e si chiuderebbe ogni chance per chi è al
debutto.
Il decreto enti locali che dopo il voto della Camera si
avvia verso la conversione definitiva in legge al Senato
segna l'ennesimo giro di giostra per i revisori dei conti,
sia dal punto di vista del numero dei posti in gioco sia da
quello dei compiti da svolgere nelle verifiche sui bilanci
dei Comuni.
Sul primo versante, la novità più rilevante intervenuta a
Montecitorio è rappresentata dal l'abrogazione dello slancio
centralista che aveva spinto il Governo a prevedere la
scelta ministeriale del presidente del collegio nelle città
con più di 60mila abitanti e nei capoluoghi di Provincia
(oltre che nelle Province). Con gli emendamenti approvati
alla Camera, i collegi tornano a essere completamente
composti da commercialisti e revisori legali, senza
l'ingresso dei dipendenti ministeriali che avrebbe
comportato più di un problema di professionalità, e forse
anche di legittimità costituzionale visto che in base al
Titolo V gli enti locali sono allo stesso livello dello
Stato nell'architettura della Repubblica. Traducendo il
tutto in numeri, si tratta di 208 posti "riconquistati"
dalla categoria (nelle 99 città con più di 60mila abitanti,
nei 29 Comuni capoluogo di Provincia sotto quella soglia e
nelle 80 Province che sopravviveranno al riordino).
Ciò che si recupera negli enti più grandi, però, rischia di
venir perso, con gli interessi, nei Comuni più piccoli, e
sempre per effetto della legge di conversione del decreto
sugli enti locali. Il provvedimento cambia infatti la
geografia della revisione nelle Unioni di Comuni,
introducendo un collegio di tre membri in capo all'Unione
che sostituisce il revisore monocratico oggi al lavoro sia
nelle Unioni sia negli enti che le compongono. Già oggi le
Unioni sono 370 e raccolgono 1.871 Comuni per cui, come ha
calcolato per esempio Patrizio Battisti, presidente della
commissione enti locali dell'Ordine dei dottori
commercialisti e degli esperti contabili di Tivoli (Roma),
il saldo sarebbe negativo per 1.131 posti. Ma c'è di più:
anche nella versione più flessibile scritta nel decreto di
luglio sulla revisione di spesa, il riordino dei piccoli
enti porterà all'interno di nuove Unioni molti piccoli enti
che oggi vivono "in solitudine", con il risultato di ridurre
ulteriormente gli spazi per i professionisti che lavorano
con la Pa locale.
Non è finita: nei Comuni che già oggi sono aggregati in
Unioni, il cambio della guardia dovrebbe essere rapido. Gli
emendamenti approvati la scorsa settimana alla Camera
stabiliscono infatti che i revisori attuali «decadono»
all'atto della costituzione dei nuovi collegi, che vanno
formati con il meccanismo dell'estrazione dalle liste
regionali introdotto dalla riforma in via di attuazione. In
pratica, la norma non prevede nemmeno la fine del mandato
dei professionisti attuali, incappando nello stesso errore
che caratterizzava la prima versione del taglio-Lanzillotta
del 2006 (quello che portò da tre a uno i revisori negli
enti fra 5mila e 15mila abitanti) e che fu poi costretto a
cedere il passo alle norme ordinarie del Codice civile.
La riscrittura della revisione nei piccoli enti rischia
dunque di tornare a infiammare le polemiche sul ruolo dei
professionisti nella Pa locale, e di creare più di qualche
problema applicativo. Non è solo questione di posti: in
linea teorica l'azzeramento dei revisori nei piccoli enti
può essere considerato coerente con la struttura delle
Unioni future, con il bilancio dell'Unione che diventa il
pilastro dei conti locali a scapito del bilancio del singolo
ente. Il compito, però, non si presenta facile, anche perché
lo stesso decreto sugli enti locali riempie di nuovi compiti
l'agenda dei guardiani dei conti comunali all'interno del
nuovo sistema dei controlli interni chiamato a verificare
oltre agli equilibri finanziari il grado di attuazione dei
programmi e a intervenire con «correttivi tempestivi» a
correggere i casi di inefficienza.
Ma c'è un ultimo aspetto, che rischia di avere un effetto
paradossale. In teoria, la riforma dei piccoli enti dovrebbe
aggregare in Unioni tutti i Comuni sotto i 5mila abitanti,
che sono però gli unici in cui possono debuttare i revisori
al primo incarico secondo la riforma. Se quindi l'eccezione
alle Unioni, che consente ai Comuni di legarsi in
convenzioni rimanendo però distinti, non fosse seguita da
nessuno, non ci sarebbe più una via d'accesso al ruolo di
revisore dei conti per chi non ha già altri mandati alle
spalle.
---------------
Le novità
01 | NELLE CITTÀ
Cancellata la norma, contenuta nella versione originaria del
decreto enti locali, che prevedeva nelle città sopra i
60mila abitanti, nelle Province e nei capoluoghi di
Provincia la nomina del presidente dei revisori da parte del
Governo, scegliendolo tra i dipendenti ministeriali
02 | NEI PICCOLI COMUNI
Nei Comuni inseriti in Unioni decade il revisore dei conti:
la revisione è affidata esclusivamente a un collegio in capo
all'Unione, chiamato a controllare i conti della stessa
Unione ma anche dei Comuni che la compongono
03 | EFFETTO IMMEDIATO
Si prevede che i revisori decadono all'atto della
costituzione dei nuovi collegi
04 | NUOVI REVISORI
Per la riforma i revisori al debutto possono operare solo
negli enti fino a 5mila abitanti, dunque la nuova norma
rischia di chiudere ogni accesso
(articolo Il Sole 24 Ore del
19.11.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI: Nuovi
compiti. Dopo il recepimento della direttiva Ue.
Controlli periodici estesi anche ai tempi di pagamento.
ESAME COSTANTE/ Va rilevato tempestivamente l'emergere di
possibili passività non previste a causa degli automatismi
sugli interessi di mora.
Dal primo gennaio prossimo, i revisori degli enti locali
dovranno preoccuparsi di verificare con maggiore attenzione
la dinamica dei pagamenti delle Pubbliche amministrazioni
sottoposte al loro controllo.
È questo uno degli effetti –e non certo di poco conto– del
recepimento in Italia della Direttiva 2011/7/EU del
Parlamento Europeo e del Consiglio del 16.02.2011,
relativa alla «lotta contro i ritardi di pagamento nelle
transazioni commerciali».
Con le modifiche apportate al Dlgs
231/2002, per le operazioni poste in essere dal 01.01.2013, gli enti locali saranno tenuti a onorare i propri
impegni di pagamento al massimo entro 60 giorni dal
ricevimento della fattura (o da altri particolari, specifici
momenti individuati dalla norma). Ogni possibile eccezione a
questo adempimento è stata rimossa proprio dalla Direttiva
citata, e dal conseguente provvedimento varato dal nostro
Governo lo scorso 31 ottobre. La sanzione per
l'inadempimento è l'applicazione all'intero importo dovuto
(somma scaduta e relative imposte, tasse e altri oneri
applicabili) di pesanti interessi di mora (oggi fissati a un
tasso di circa il 10% annuo).
Il Testo unico degli enti locali prevede che l'organo di
revisione vigili sulla regolarità contabile, finanziaria e –in questo caso– economica della gestione, relativamente
all'effettuazione delle spese e all'attività contrattuale,
anche con tecniche motivate di campionamento. Pertanto, sarà
compito specifico dei revisori effettuare delle verifiche
periodiche (anche a campione) sulle modalità con le quali
vengono disciplinate –in via contrattuale– le modalità di
attribuzioni di penali e risarcimenti per danni subiti da
ritardo di pagamento, tenendo a mente che il nuovo testo del Dlgs 231/2002 prevede la nullità di eventuali clausole che
stabiliscano l'impossibilità di applicare interessi di mora,
che escludano il risarcimento per i costi di recupero o che
siano finalizzate a predeterminare o modificare la data di
ricevimento della fattura.
Ancora con maggiore attenzione, l'organo di revisione dovrà
monitorare la corretta dinamica dei pagamenti, rilevando –ove ne ricorrano i presupposti– i pericoli dell'emersione
di passività non preventivate, ovvero quelle legate al
l'eventuale necessità di corrispondere i non certo
"economici" interessi di mora.
A tal fine, sarà necessario implementare –nei casi, non
infrequenti, in cui non sia stato già fatto a cura del
responsabile economico finanziario dell'ente– procedure ad
hoc che effettuino il monitoraggio costante (e automatico)
del decorso dei giorni dal recepimento ufficiale delle
fatture passive, di modo da segnalare per tempo
l'avvicinarsi del termine massimo per il pagamento (che, per
i casi "normali", è addirittura di 30 e non 60 giorni). Tale
procedura sarà, ovviamente utile per i "controlli in
itinere" –demandati agli uffici dell'ente– ma anche
all'organo di revisione che, oggi più di ieri, non potrà
esimersi dal rilevare potenziali oneri non previsti, in
tutti i casi di sforamento dei tempi massimi.
Bisogna, infatti, al riguardo rammentare che il creditore
dell'ente ben potrebbe attivare le procedure giurisdizionali
per l'ottenimento degli interessi moratori anche dopo il
soddisfacimento del credito residuo e che -dunque- l'ente
locale non è al riparo da tale evenienza nemmeno a pagamento
effettuato
(articolo Il Sole 24 Ore del
19.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
SEGRETARI
COMUNALI: La
petizione.
Spoil system, valanga di firme dai segretari.
I segretari comunali scendono in campo e si rivolgono
direttamente al Governo per lamentare lo spoil system a cui
sono soggetti.
Il fatto degno di nota è che la petizione,
circolata in rete nei giorni scorsi (http://petizionepubblica.it)
ha già ricevuto la firma di oltre mille sottoscrittori,
coinvolgendo quindi circa un terzo dei segretari oggi in
attività.
Lo spunto per la presa di posizione è la norma del decreto
legge sugli enti locali, confermata con qualche correzione
durante la conversione in legge alla Camera, che blinda la
figura dei responsabili dei servizi finanziari; con le nuove
regole, per revocare l'incarico occorre il riscontro di
«gravi irregolarità nell'esercizio delle funzioni», e
l'ordinanza di revoca firmata dal sindaco deve ricevere il
via libera da parte del collegio dei revisori dei conti
(nella versione originale del decreto 174/2012 era
addirittura previsto il timbro da parte della Ragioneria
generale dello Stato).
«Perché noi no?», si chiedono in
sostanza i segretari comunali, che rimarcano la «scarsa
considerazione prestata alla figura del segretario, a cui è
esplicitamente affidata la direzione dei controlli interni,
e che opera oggi in condizione di assoluta precarietà, dato
che il suo incarico scade alla scadenza del mandato del
sindaco». L'incongruenza agli occhi dei segretari si fa più
grave alla luce delle nuove regole scritte nello stesso
decreto legge sugli enti locali, che affidano proprio a
segretari e responsabili dei servizi finanziari compiti
gemelli nel coordinamento dei nuovi controlli interni.
Segretari e ragionieri capo, solo per fare un esempio,
devono sovrintendere alle nuove regolazioni di inizio e fine
mandato previste per sindaci e presidenti della Provincia, e
rispondono personalmente con il dimezzamento dello stipendio
per tre mesi se l'adempimento non viene effettuato. Senza
«un adeguato sistema di tutela del ruolo -sostengono però i
segretari- il potenziamento dei controlli è vanificato
nella sostanza»
(articolo Il Sole 24 Ore del
19.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Legge
anticorruzione. Forte spinta alla trasparenza delle Pa.
Nomine discrezionali e incarichi extra assegnati in chiaro.
Va attestata l'assenza di un conflitto d'interessi.
La legge anticorruzione "stringe" sulla trasparenza delle
nomine discrezionali e l'assegnazione di incarichi nella
pubblica amministrazione, imponendo una serie di nuovi
adempimenti, finalizzati a mettere in chiaro i criteri di
scelta e a garantire che l'affidamento di attività
extradoveri d'ufficio non generi conflitti di interesse.
Le amministrazioni e le società partecipate devono anzitutto
comunicare al dipartimento della Funzione pubblica –tramite
organismi indipendenti di valutazione– tutti i dati utili a
rilevare le posizioni dirigenziali attribuite a persone,
anche esterne alle Pa, individuate discrezionalmente dal
l'organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di
selezione. La previsione (articolo 1, comma 39, legge
190/2012) è finalizzata a garantire al meglio la separazione
tra indirizzo politico e gestione.
Nella prospettiva invece di ridurre il rischio di potenziali
conflitti di interesse, le nuove norme delineano un
intervento integrativo nella legge 241/1990, inserendo nella
stessa un articolo (il 6-bis) che disciplina la regolazione
generale di questa situazione.
La disposizione prevede che il responsabile del procedimento
e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri,
le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il
provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto
di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche
potenziale.
Se la norma incardinata nella legge sul procedimento
amministrativo fornisce garanzie per l'azione dei funzionari
pubblici in relazione alle attività amministrative, la legge
anticorruzione rafforza e rende più stringenti le procedure
relative all'autorizzazione di incarichi professionali ai
dipendenti pubblici da parte di soggetti privati o pubblici,
rimodulando e integrando varie parti dell'articolo 53 del
Dlgs 165/2001.
In particolare, il provvedimento con cui l'amministrazione
di appartenenza consente al dipendente di svolgere queste
attività esterne deve ora contenere l'attestazione
dell'avvenuta verifica dell'insussistenza di situazioni,
anche potenziali, di conflitto di interessi. E la linea di
tutela si estende anche a un periodo di garanzia successivo
all'eventuale cessazione del rapporto di lavoro con
l'amministrazione pubblica.
È infatti previsto che i dipendenti che, negli ultimi tre
anni di servizio, hanno esercitato poteri autoritativi o
negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni non
possono svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione
del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o
professionale presso i soggetti privati destinatari
dell'attività della pubblica amministrazione svolta
attraverso i medesimi poteri.
I contratti conclusi e gli incarichi conferiti in violazione
di quanto previsto dal presente comma sono nulli ed è fatto
divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o
conferiti di contrattare con le pubbliche amministrazioni
per i successivi tre anni con obbligo di restituzione dei
compensi eventualmente percepiti e accertati ad essi
riferiti.
La massima responsabilizzazione dei dipendenti pubblici sarà
peraltro sostenuta (comma 44) con un nuovo e più articolato
codice di comportamento generale, rispetto al quale ciascuna
amministrazione definirà un proprio codice integrativo (con
la collaborazione dell'organismo indipendente di
valutazione)
(articolo Il Sole 24 Ore del
19.11.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Cittadini.
L'accesso agli atti è garantito come i diritti sociali e
civili.
Sul web i bilanci e i costi dei servizi.
La legge anticorruzione ha elevato la trasparenza
dell'attività amministrativa a livello essenziale delle
prestazioni relative ai diritti sociali e civili in base
all'articolo 117 della Costituzione, individuando una serie
di adempimenti che permettano ai cittadini conoscere le
dinamiche operative delle Pa.
Prima di tutto, vanno pubblicate le informazioni sui
procedimenti amministrativi, in modo tale da risultare
facilmente accessibili e semplici da consultare. Nel sito
entrano poi i bilanci e i conti consuntivi, così da rendere
operativo il principio di pubblicità previsto per questi
documenti dall'articolo 151 del Tuel.
Ampia evidenza va fornita anche ai costi unitari di
realizzazione delle opere pubbliche, in base a un modello
schematico che dovrà essere approvato dall'Authority
appalti. E, allo stesso modo, vanno resi pubblici i costi
unitari di produzione dei servizi erogati ai cittadini, così
come avviene oggi per solo i servizi a domanda individuale
(peraltro in relazione alla percentuale di copertura con le
tariffe).
Per garantire appieno l'accessibilità ai cittadini, la
pubblicizzazione deve riguardare alcuni particolari tipi di
documenti e dati: i provvedimenti di autorizzazione e di
concessione, le informazioni sulla scelta dei contraenti e
sulle modalità selettive per gli appalti pubblici, le
concessioni di erogazioni e contributi, le informazioni sui
concorsi e le prove selettive del personale. Si tratta
peraltro di atti che, in forme diverse, hanno già percorsi
di pubblicizzazione strutturata, come ad esempio l'albo dei
beneficiari di contributi e di benefici economici o gli
avvisi di post-aggiudicazione degli appalti.
La legge anticorruzione prevede anche norme specifiche sulla
gestione dei procedimenti amministrativi. Scatta infatti
l'obbligo di monitoraggio periodico del rispetto dei tempi
procedimentali attraverso la tempestiva eliminazione delle
anomalie: i risultati del monitoraggio devono essere resi
consultabili nel sito web.
Ogni amministrazione deve anche rendere noto almeno un
indirizzo di Pec al quale i cittadini possono inviare le
istanze dei procedimenti e ricevere informazioni
sull'attività amministrativa che li riguarda. Questo profilo
si correla alle previsioni che rendono obbligatoria la messa
a disposizione dei cittadini di strumenti telematici e
informatici per accedere ai provvedimenti e ai procedimenti
amministrativi che li riguardano, comprese quelle relative
allo stato della procedura e ai tempi.
La formalizzazione delle decisioni delle Pa va garantita
anche in caso di istanze manifestamente irricevibili,
inammissibili, improcedibili o di domande infondate: in
tutte queste ipotesi vanno prodotti provvedimenti espressi,
redatti in forma semplificata, con una motivazione che può
consistere in un sintetico riferimento all'elemento ritenuto
risolutivo
(articolo Il Sole 24 Ore del
19.11.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI: Gare.
Arbitrati solo se autorizzati dalla giunta.
Appalti tracciabili a tutto campo sui siti istituzionali.
Gli appalti vanno pubblicizzati in modo specifico con
informazioni sulle procedure, sugli affidatari e sui tempi
di realizzazione, mentre il ricorso agli arbitrati va
motivato e autorizzato dall'organo di governo dell'ente.
La legge anticorruzione prevede che le amministrazioni
aggiudicatrici rendano disponibili in forma semplificata
molte informazioni relative alla scelta del contraente e
alla procedura selettiva. Le stazioni appaltanti hanno un
obbligo specifico di pubblicazione, sui propri siti
istituzionali, dei dati relativi al l'oggetto della gara,
all'elenco degli operatori invitati a presentare offerte,
all'aggiudicatario e all'importo di aggiudicazione. Lo
stesso pacchetto informativo deve evidenziare i tempi di
completamento dell'opera, del servizio o della fornitura,
nonché l'importo delle somme liquidate. Entro il 31 gennaio
di ogni anno, queste informazioni, relative alle gare
dell'anno precedente, vanno pubblicate in tabelle
riassuntive, liberamente scaricabili.
Una selezione di queste informazioni va trasmessa
all'Authority degli appalti (che determinerà quelle
rilevanti con proprio provvedimento), che le pubblica nel
proprio sito web in una sezione liberamente consultabile da
tutti i cittadini e che è tenuta a trasmettere alla Corte
dei conti (entro il 30 aprile di ogni anno) l'elenco delle
amministrazioni che non hanno adempiuto all'obbligo
informativo (passibili di rilevanti sanzioni).
La legge delinea un quadro di maggior trasparenza anche per
gli arbitrati sulle controversie derivanti dai contratti di
appalto. Il ricorso agli arbitri, infatti, va motivato e
autorizzato dalla giunta. L'inclusione della clausola
compromissoria, senza preventiva autorizzazione, nel bando o
nell'avviso di gara ovvero, per le procedure senza bando,
nell'invito, o il ricorso all'arbitrato, senza preventiva
autorizzazione, sono nulli (comma 19).
La nuova disciplina degli arbitrati (che si applica anche
agli appalti delle società partecipate, ma che non riguarda
quelli conferiti prima dell'entrata in vigore della legge)
prevede che la nomina degli arbitri avvenga nel rispetto dei
principi di pubblicità e di rotazione, nonché di quelli
previsti dal codice dei contratti pubblici.
Le Pa devono nominare come arbitro preferibilmente un
dirigente pubblico, prevedendo il compenso massimo. Qualora
non sia possibile individuarlo tra i dirigenti pubblici, può
essere nominato un altro soggetto, secondo le procedure del
Dlgs 163/2006 e con provvedimento motivato.
Sul piano procedurale, la legge anticorruzione contiene una
specificazione dei reati contro la pubblica amministrazione
che costituiscono causa ostativa a contrattare.
Le stazioni appaltanti possono prevedere negli avvisi, bandi
di gara o lettere di invito che il mancato rispetto delle
clausole contenute nei protocolli di legalità o nei patti di
integrità costituisce causa di esclusione dalla gara.
Proprio per potenziare il contrasto all'influenza delle
organizzazioni criminali sugli appalti, la legge prevede
(commi 52-56) la costituzione presso le prefetture di
elenchi di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di
lavori non soggetti a infiltrazioni mafiose (white list),
con riferimento alle attività a rischio
(articolo Il Sole 24 Ore del
19.11.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
INCARICHI
PROFESSIONALI: CASSAZIONE/
Specificata l'applicazione per i legali. I parametri? Subito.
Conta il momento della parcella.
I nuovi parametri per la liquidazione degli onorari
dell'avvocato sono applicabili anche per le attività
difensive svolte nel precedente regime tariffario. Quello
che conta, in sostanza, ai fini dell'uso della nuova o
vecchia disciplina, è il momento in cui sono liquidati i
compensi.
Lo ha chiarito la Sez. lavoro della Corte di Cassazione
che, con la sentenza 21.11.2012 n. 20421, che
ha quantificato secondo il nuovo metodo l'onorario di un
avvocato per l'intero giudizio di Cassazione anche se quasi
tutte le attività difensive erano state svolte nella vigenza
delle tariffe forensi.
Secondo il collegio di legittimità il
riferimento testuale al momento della liquidazione contenuto
nell'articolo 41 del dm 140/2012 «depone per la soluzione
interpretativa che porta a ritenere applicabile la nuova
disciplina anche ai casi in cui le attività difensive si
siano svolte o siano comunque iniziate nella vigenza
dell'abrogato sistema tariffario forense». Dunque la
Cassazione, nel determinare il compenso del professionista,
ha in primo luogo ritenuto che non ci fossero elementi per
giustificare un discostamento dal valore medio di
riferimento indicato per ciascuna delle tre fasi previste
per il giudizio di Cassazione e, quindi, liquidato per le
fasi di studio, introduttiva e decisoria, un importo in
misura onnicomprensiva.
La vicenda riguarda un dipendente di un consorzio di
bonifica che aveva chiesto senza successo all'azienda
l'indennità di trasferta o chilometrica.
Ma i giudici di merito avevano respinto l'istanza sostenendo
che l'uomo era stato assegnato presso la nuova sede già da
tre anni e che quindi si trattava di un trasferimento a
tutti gli effetti. Contro questa decisione lui ha fatto
ricorso in Cassazione ma senza successo. La sezione lavoro
ha confermato il verdetto di merito fornendo queste
ulteriori indicazioni circa l'applicabilità dei nuovi
parametri forensi. Questa volta ha ancora il discrimine
dell'uso fra le vecchie tariffe e i nuovi standard al
momento della liquidazione e non a quello di svolgimento
dell'attività difensiva in senso stretto.
Poco più di un mese fa le Sezioni unite della Cassazione
avevano decretato genericamente la retroattività dei
parametri senza altre indicazioni. In particolare in quella
decisione (sentenza n. 17405) è stato stabilito che
parametri di cui al dm 140/2012 per i compensi dei
professionisti e in particolare degli avvocati devono essere
applicati ogni volta che la liquidazione sia operata da un
organo giurisdizionale in epoca successiva all'entrata in
vigore del regolamento
(articolo ItaliaOggi del
23.11.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La c.d. “vicinitas” è
l’elemento sufficiente che distingue la posizione giuridica
del ricorrente da quella della generalità dei privati,
sicché a chi si trovi in tale situazione va riconosciuto la
tutela dell’interesse al rispetto delle norme procedimentali
e sostanziali di regolamentazione urbanistico-edilizia; e
nel caso in esame la ricorrente, come è pacifico in
giudizio, è proprietaria d’immobili confinanti con quelli
oggetto dei titoli edilizi da essa contestati, conseguendone
la sussistenza della sua legittimazione ad agire.
In materia d’impugnazione dei titoli edilizi
rilasciati a terzi, dopo l’abrogazione ad opera dell’art.
136 del D.P.R. n. 380/2001 dell’art. 31, comma 9, della legge
n. 1150/1942 prevedente l’impugnabilità dei detti titoli da
parte di “chiunque” inteso come coloro che abbiano uno
stabile collegamento con la zona, la giurisprudenza
(condivisa da questo Tribunale) ha avuto modo di affermare
che la c.d. “vicinitas” è l’elemento sufficiente che
distingue la posizione giuridica del ricorrente da quella
della generalità dei privati, sicché a chi si trovi in tale
situazione va riconosciuto la tutela dell’interesse al
rispetto delle norme procedimentali e sostanziali di
regolamentazione urbanistico-edilizia (Cfr. Cons. di Stato –
Sez. IV – 23/01/2012 n. 184; id. Sez. 05/01/2011 n. 18); e
nel caso in esame la ricorrente, come è pacifico in
giudizio, è proprietaria d’immobili confinanti con quelli
oggetto dei titoli edilizi da essa contestati, conseguendone
la sussistenza della sua legittimazione ad agire
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 21.11.2012 n. 2112 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Anche ai sensi dell’art.
35 d.P.R. n. 380/2001, la realizzazione sine titulo da parte
di privati di interventi su suoli di pertinenza pubblica può
essere sanzionata con la misura ripristinatoria solo qualora
essa sia avvenuta “in assenza di permesso di costruire,
ovvero in totale o parziale difformità dal medesimo”.
La sanzione demolitoria
comminata dall’Amministrazione intimata presuppone che, ai
fini della lecita realizzazione dell’opera de qua, sarebbe
stata necessaria l’acquisizione del permesso di costruire:
invero, anche ai sensi dell’art. 35 d.P.R. n. 380/2001, la
realizzazione sine titulo da parte di privati di interventi
su suoli di pertinenza pubblica può essere sanzionata con la
misura ripristinatoria solo qualora essa sia avvenuta “in
assenza di permesso di costruire, ovvero in totale o
parziale difformità dal medesimo”.
Ebbene, la giurisprudenza amministrativa, con riferimento ad
opere analoghe -per finalità e dimensioni- a quella
interessata dal provvedimento impugnato, ha affermato la
sufficienza, ai fini della loro lecita realizzazione, della d.i.a. (cfr. TAR per la Campania, Napoli, Sez. VIII, n.
95 del 14.01.2010, concernente un muro di recinzione in cls. armato di spessore mt. 0,25 ed altezza di c.a. mt.
3,00: “per quanto attiene alla contestata realizzazione del
muro -premesso che, secondo il costante orientamento della
giurisprudenza amministrativa, la valutazione in ordine alla
necessità del tipo di titolo abilitativo per la
realizzazione di opere di recinzione va effettuata sulla
scorta dei due parametri consistenti nella natura e
dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione- deve
rilevarsi come nel caso di specie le opere contestate, non
comportando significativa trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio, non richiedono il rilascio di una
concessione edilizia (oggi permesso di costruire), ma la
presentazione di una semplice dichiarazione di inizio di
attività, di tal che, in assenza, è irrogabile la sola
sanzione pecuniaria e giammai la misura della demolizione”).
Ne consegue che, a prescindere dalla effettiva insistenza
dell’opera in discorso su suolo comunale e dall’epoca della
sua realizzazione (se cioè precedente o successiva
all’acquisizione del suolo da parte del Comune di San Mango
Piemonte), fa difetto il presupposto legittimante il
provvedimento impugnato, connesso alla necessità, per la
lecita esecuzione dell’intervento contestato, del permesso
di costruire
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 21.11.2012 n. 2103 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Pur dovendosi normalmente commisurare gli oneri
concessori al momento in cui il titolo abilitativo viene
rilasciato, giusta la giurisprudenza citata dalla difesa del
Comune, nella specie detta regola deve trovare di necessità
un contemperamento, attesa l’operatività del principio
generale, immanente al sistema processuale, non solo
amministrativo, secondo il quale il tempo necessario per
pervenire ad una decisione nel merito non può andare a
detrimento di chi ha ragione.
Pur dovendosi normalmente commisurare gli
oneri concessori al momento in cui il titolo abilitativo
viene rilasciato, giusta la giurisprudenza citata dalla
difesa del Comune, nella specie detta regola deve trovare di
necessità un contemperamento, attesa l’operatività del
principio generale, immanente al sistema processuale, non
solo amministrativo, secondo il quale il tempo necessario
per pervenire ad una decisione nel merito non può andare a
detrimento di chi ha ragione.
Nella specie, alcuni dati risaltano incontrovertibili: che
il ricorrente ha chiesto il rilascio della concessione
edilizia nel 2000; che ha integrato detta richiesta nel
2001; che il nulla osta sindacale è stato rilasciato nello
stesso 2001; che non è seguito il rilascio della concessione
edilizia, perché detto nulla osta è stato annullato
dall’organo tutorio statale; che detto annullamento,
ritualmente impugnato dinanzi agli organi della giustizia
amministrativa, è stato infine dichiarato illegittimo e, a
sua volta, annullato dal Consiglio di Stato nel 2009; che,
dopo detta sentenza, il ricorrente, all’uopo interpellato
dal Comune, ha chiesto di poter proseguire proprio il
procedimento, scaturito dall’istanza del 2000, arrestatosi
per effetto dell’intervento della Soprintendenza, reputato
illegittimo dal Consiglio di Stato.
Orbene, la pretesa del Comune di Battipaglia, d’applicare
alla determinazione degli oneri concessori la disciplina,
fissata con deliberazione consiliare dell’ottobre 2010,
significherebbe svuotare di significato il principio
generale di cui sopra, il cui scopo consiste nell’impedire
che il decorso del tempo necessario all’emissione della
decisione possa vanificare la satisfattività, sotto ogni
aspetto, della pronuncia.
Di tale principio, del resto, ha implicitamente ma
sicuramente fatto applicazione la sentenza della Terza
Sezione del TAR Puglia–Bari (n. 1139/2011),
richiamata a supporto delle argomentazioni spiegate in
ricorso, allorquando in parte motiva i Giudici hanno
osservato: “Non è quindi revocabile in dubbio che
l’amministrazione potesse provvedere in modo favorevole ai
richiedenti già alla data del primo diniego poi annullato”,
dovendo quindi l’Amministrazione quantificare gli oneri
dovuti, secondo il regime vigente a tale data.
Analogamente, nella specie, gli oneri concessori andranno
quantificati dal Comune, secondo il regime vigente al
momento della proposizione del ricorso al TAR, avverso
il provvedimento della Soprintendenza, di annullamento del
nulla osta sindacale del 25.07.2001, dovendo appunto gli
effetti favorevoli della sentenza del C. di S. retroagire
alla data di esercizio dell’azione, a tutela degli effetti
conformativi del giudicato di annullamento del provvedimento
della Soprintendenza, che aveva determinato l’illegittimo
arresto del procedimento volto al rilascio del titolo
abilitativo in materia edilizia.
L’argomento è dirimente, e vale a superare anche la, pur
pertinente, osservazione di parte ricorrente, secondo cui il
Comune ben avrebbe potuto, in ogni caso, concludere il
procedimento in questione, nel tempo intercorrente tra la
domanda dello stesso ricorrente (dell’11–14.06.2010),
di voler coltivare l’originaria istanza e la successiva
emanazione della delibera consiliare, di rideterminazione
degli oneri concessori (del 06.10.2010), in tal modo
impedendo che lo stesso ricorrente dovesse corrispondere un
importo maggiorato, a titolo di pagamento degli oneri in
questione.
L’accoglimento della domanda principale, di annullamento, in
parte qua, degli atti impugnati, assorbe quella subordinata,
di risarcimento del danno, la quale va quindi dichiarata improcedibile,
per sopravvenuta carenza d’interesse (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 21.11.2012 n. 2097 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Con specifico riferimento ai poteri della Regione
(o dell’ente subdelegato), va rilevato che la funzione
dell’autorizzazione paesaggistica è quella di verifica della
compatibilità dell’opera edilizia che si intende realizzare
con l’esigenza di conservazione dei valori paesistici
protetti dal vincolo.
E’ stato, infatti, evidenziato che quest’ultimo contiene un
accertamento circa l’esistenza di valori paesistici
oggettivamente non derogabile e che è compito
dell’autorizzazione accertare in concreto la compatibilità
dell’intervento con il mantenimento e l’integrità dei
richiamati valori.
Difatti, il paesaggio è un valore costituzionale primario e,
pertanto, l’autorità amministrativa non deve svolgere una
ponderazione comparativa tra un interesse primario ed un
interesse secondario, ma unicamente operare un giudizio in
concreto circa il rispetto da parte dell’intervento
progettato delle esigenze connesse alla tutela del paesaggio
stesso.
La determinazione dell’ente locale deve, dunque, essere
motivata anche quando abbia contenuto positivo, favorevole
al richiedente.
Tale principio, già consolidato in giurisprudenza in
relazione alla peculiare natura dell’atto ed alla rilevanza
degli interessi coinvolti, trova oggi espresso fondamento
normativo nell’articolo 3 della legge n. 241/1990, secondo
il quale ogni provvedimento amministrativo, di contenuto sia
negativo che positivo, deve essere motivato, recando
l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni
giuridiche che hanno determinato la decisione in relazione
alle risultanze dell’istruttoria.
Quanto, poi, al contenuto di tale motivazione, la
giurisprudenza è ferma nel ritenere, ai fini della congruità
e sufficienza della stessa, che debba esservi l’indicazione
della ricostruzione dell’iter logico seguito, in ordine alle
ragioni di compatibilità effettive che –in riferimento agli
specifici valori paesistici dei luoghi- possano consentire
tutti i progettati lavori, considerati nella loro globalità
e non esclusivamente in semplici episodi di dettaglio.
E’, dunque, necessario motivare l’autorizzazione in modo
tale che emerga l’apprezzamento di tutte le rilevanti
circostanze di fatto e la non manifesta irragionevolezza
della scelta effettuata sulla prevalenza di un valore in
conflitto con quello tutelato in via primaria, non potendo
l’autorità amministrativa limitarsi ad affermazioni
apodittiche e dovendosi pure riferire non all’entità
atomisticamente valutata del singolo intervento, ma al
complesso strutturalmente individuato che deriva dalla
sovrapposizione con quello preesistente.
Occorre, quindi, esternare adeguatamente l’avvenuto
apprezzamento comparativo, da un lato, del contenuto del
vincolo e, dall’altro, di tutte le rilevanti circostanze di
fatto relative al manufatto ed al suo inserimento nel
contesto protetto, in modo da giustificare la scelta di dare
prevalenza all’interesse del privato rispetto a quello
tutelato in via primaria attraverso l’imposizione del
vincolo.
---------------
Ci si deve porre il problema del contenuto dell’obbligo di
motivazione facente capo all’autorità ministeriale nel
pronunziare l’annullamento dell’autorizzazione paesistica,
considerato che l’articolo 82 del DPR n. 616/1977 (di poi
l’articolo 151 del D.Lgs. n. 490/1999 ed oggi l’art. 159 del
D.Lgs. n. 42/2004) sancisce espressamente che questo possa
essere disposto “con provvedimento motivato”.
E’ evidente, peraltro, che la sufficienza e la congruità
della motivazione va individuata in relazione al potere in
concreto esercitato, che nel caso di specie si identifica
“nel quadro di un più generale potere-dovere di vigilanza
sull’esercizio delle funzioni delegate, in un potere di
annullamento di ufficio per motivi di legittimità delle
determinazioni assunte dall’autorità regionale (o
subregionale)”.
Orbene, essendo quest’ultima, per le ragioni sopra esposte,
obbligata ad esternare le ragioni per le quali ritiene
l’opera compatibile con i valori protetti dal vincolo,
risulta evidente che, nel caso di avvenuta enunciazione dei
motivi, l’autorità ministeriale che pronunzi l’annullamento
deve specificare diffusamente le ragioni della riscontrata
illegittimità, con riferimento a quanto affermato dall’ente
locale.
Al contrario, quando l’autorità regionale o subregionale
siano venute clamorosamente meno all’obbligo di motivazione,
risulta sufficiente il rilievo da parte del Ministero della
suddetta mancanza, non essendo stata in concreto esternata
alcuna verifica di compatibilità dell’opera con il valore
paesistico protetto, accertamento che costituisce funzione e
contenuto essenziale del nulla osta.
In tale situazione il riferimento, contenuto nella
determinazione statale, alla natura e consistenza dell’opera
progettata ed alle caratteristiche del luogo, lungi dal
configurare un riesame del merito, si afferma come
evidenziazione dell’esistenza di un valore paesistico
tutelato e come rilievo della necessità del giudizio di
compatibilità in concreto pretermesso in relazione ad un
intervento di trasformazione del territorio, capace di
incidere, per natura ed entità, sul bene vincolato.
Va, peraltro, precisato che il Consiglio di Stato ha, da
ultimo, affermato che:
- il potere di annullamento della Soprintendenza non
consente il riesame nel merito delle valutazioni
discrezionali compiute dalla Regione o dall’ente subdelegato
(nella specie, il Comune), ma si esprime in un controllo di
legittimità, esteso a tutte le ipotesi riconducibili
all’eccesso di potere, anche per difetto di motivazione e di
istruttoria;
- il Comune deve quindi esercitare il proprio potere
motivando adeguatamente sulla compatibilità dell’opera con
il vincolo paesaggistico dell’opera oggetto di assentimento,
in relazione a tutte le circostanze rilevanti nel caso di
specie, sussistendo in caso contrario, illegittimità per
carenza di motivazione o di istruttoria;
- l’autorità statale, se ravvisa un tale vizio nell’atto
oggetto del suo riesame, nel proprio provvedimento, perché
sia a sua volta immune da vizi di legittimità, motiva sulla
non compatibilità degli interventi programmati rispetto ai
valori paesistici compendiati nel vincolo.
Orbene, ritiene il Tribunale che
legittimamente l’autorità ministeriale ha rilevato,
ponendolo a base del disposto annullamento, il difetto di
motivazione dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata
dall’autorità comunale.
L’articolo 82 del DPR n. 616/1977 (di poi la normativa di cui
all’art. 151 del D.Lgs. n. 490/1999 ed oggi quella contenuta
nel D.Lgs. n. 42/2004) configura un sistema complesso di
tutela del paesaggio, implicante l’intervento sia della
Regione che dello Stato, in cui la concorrenza dei poteri è
disciplinata dal principio di leale cooperazione (Corte
Cost., sent. n. 359/1995, n. 151/1986, n. 302/1988).
Con specifico riferimento ai poteri della Regione (o
dell’ente subdelegato), va rilevato che la funzione
dell’autorizzazione è quella di verifica della compatibilità
dell’opera edilizia che si intende realizzare con l’esigenza
di conservazione dei valori paesistici protetti dal vincolo.
E’ stato, infatti, evidenziato (cfr. Cons. Stato, VI,
14-11-1991, n. 828; VI, 25-09-1995, n. 963) che quest’ultimo
contiene un accertamento circa l’esistenza di valori
paesistici oggettivamente non derogabile e che è compito
dell’autorizzazione accertare in concreto la compatibilità
dell’intervento con il mantenimento e l’integrità dei
richiamati valori.
Difatti, il paesaggio è un valore costituzionale primario e,
pertanto, l’autorità amministrativa non deve svolgere una
ponderazione comparativa tra un interesse primario ed un
interesse secondario, ma unicamente operare un giudizio in
concreto circa il rispetto da parte dell’intervento
progettato delle esigenze connesse alla tutela del paesaggio
stesso.
La determinazione dell’ente locale deve, dunque, essere
motivata anche quando abbia contenuto positivo, favorevole
al richiedente.
Tale principio, già consolidato in giurisprudenza in
relazione alla peculiare natura dell’atto ed alla rilevanza
degli interessi coinvolti (cfr. Cons. Stato, VI, 15-12-1981,
n.751; 19-05-1981, n.221; IV, 18-11-1980, n. 1104), trova oggi
espresso fondamento normativo nell’articolo 3 della legge
n. 241/1990, secondo il quale ogni provvedimento
amministrativo, di contenuto sia negativo che positivo, deve
essere motivato, recando l’indicazione dei presupposti di
fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato la
decisione in relazione alle risultanze dell’istruttoria.
Quanto, poi, al contenuto di tale motivazione, la
giurisprudenza è ferma nel ritenere, ai fini della congruità
e sufficienza della stessa, che debba esservi l’indicazione
della ricostruzione dell’iter logico seguito, in ordine alle
ragioni di compatibilità effettive che –in riferimento agli
specifici valori paesistici dei luoghi- possano consentire
tutti i progettati lavori, considerati nella loro globalità
e non esclusivamente in semplici episodi di dettaglio (cfr. Cons. Stato, VI,
05-07-1990, n. 692; 14-11-1991, n. 828;
25-09-1993, n. 963; 20-06-1995, n. 952).
E’, dunque, necessario motivare l’autorizzazione in modo
tale che emerga l’apprezzamento di tutte le rilevanti
circostanze di fatto e la non manifesta irragionevolezza
della scelta effettuata sulla prevalenza di un valore in
conflitto con quello tutelato in via primaria (cfr. Cons.
Stato, VI, 04-06-2004, n. 3495), non potendo l’autorità
amministrativa limitarsi ad affermazioni apodittiche e
dovendosi pure riferire non all’entità atomisticamente
valutata del singolo intervento, ma al complesso
strutturalmente individuato che deriva dalla sovrapposizione
con quello preesistente (cfr. Cons. Stato, VI, 03-03-2004, n.
1060; 14-05-2004, n. 3116).
Occorre, quindi, esternare adeguatamente l’avvenuto
apprezzamento comparativo, da un lato, del contenuto del
vincolo e, dall’altro, di tutte le rilevanti circostanze di
fatto relative al manufatto ed al suo inserimento nel
contesto protetto, in modo da giustificare la scelta di dare
prevalenza all’interesse del privato rispetto a quello
tutelato in via primaria attraverso l’imposizione del
vincolo (cfr. Cons. Stato, VI, 21-02-2007, n. 924).
---------------
Ciò posto, ci si deve
porre il problema del contenuto dell’obbligo di motivazione
facente capo all’autorità ministeriale nel pronunziare
l’annullamento dell’autorizzazione paesistica, considerato
che l’articolo 82 del DPR n. 616/1977 (di poi l’articolo 151
del D.Lgs. n. 490/1999 ed oggi l’art. 159 del D.Lgs. n.
42/2004) sancisce espressamente che questo possa essere
disposto “con provvedimento motivato”.
E’ evidente, peraltro, che la sufficienza e la congruità
della motivazione va individuata in relazione al potere in
concreto esercitato (cfr. Cons. Stato, VI, 20-06-1997, n. 952
cit.), che nel caso di specie si identifica “nel quadro di
un più generale potere-dovere di vigilanza sull’esercizio
delle funzioni delegate, in un potere di annullamento di
ufficio per motivi di legittimità delle determinazioni
assunte dall’autorità regionale (o subregionale)”.
Orbene, essendo quest’ultima, per le ragioni sopra esposte,
obbligata ad esternare le ragioni per le quali ritiene
l’opera compatibile con i valori protetti dal vincolo,
risulta evidente che, nel caso di avvenuta enunciazione dei
motivi, l’autorità ministeriale che pronunzi l’annullamento
deve specificare diffusamente le ragioni della riscontrata
illegittimità, con riferimento a quanto affermato dall’ente
locale.
Al contrario, quando l’autorità regionale o subregionale
siano venute clamorosamente meno all’obbligo di motivazione,
risulta sufficiente il rilievo da parte del Ministero della
suddetta mancanza, non essendo stata in concreto esternata
alcuna verifica di compatibilità dell’opera con il valore
paesistico protetto, accertamento che costituisce funzione e
contenuto essenziale del nulla osta.
In tale situazione il riferimento, contenuto nella
determinazione statale, alla natura e consistenza dell’opera
progettata ed alle caratteristiche del luogo, lungi dal
configurare un riesame del merito, si afferma come
evidenziazione dell’esistenza di un valore paesistico
tutelato e come rilievo della necessità del giudizio di
compatibilità in concreto pretermesso in relazione ad un
intervento di trasformazione del territorio, capace di
incidere, per natura ed entità, sul bene vincolato.
Va, peraltro, precisato che il Consiglio di Stato (cfr. VI,
26-07-2010, n. 4861; VI, 14-07-2011, n. 4297) ha, da ultimo,
affermato che:
- il potere di annullamento della
Soprintendenza non consente il riesame nel merito delle
valutazioni discrezionali compiute dalla Regione o dall’ente
subdelegato (nella specie, il Comune), ma si esprime in un
controllo di legittimità, esteso a tutte le ipotesi
riconducibili all’eccesso di potere, anche per difetto di
motivazione e di istruttoria;
- il Comune deve quindi
esercitare il proprio potere motivando adeguatamente sulla
compatibilità dell’opera con il vincolo paesaggistico
dell’opera oggetto di assentimento, in relazione a tutte le
circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo in
caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o
di istruttoria;
- l’autorità statale, se ravvisa un tale vizio nell’atto
oggetto del suo riesame, nel proprio provvedimento, perché
sia a sua volta immune da vizi di legittimità, motiva sulla
non compatibilità degli interventi programmati rispetto ai
valori paesistici compendiati nel vincolo
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 21.11.2012 n. 2094 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Chi contesta la
legittimità dell’ordinanza di demolizione di un manufatto
abusivo, realizzato al di fuori del centro abitato, ha
l’onere di fornire per lo meno un principio di prova in
ordine al tempo di ultimazione di quest’ultimo, se asserisce
che è stato realizzato prima dell’entrata in vigore della
legge n. 755/1967, ossia quando per tali tipi di costruzione
non era prescritta alcuna licenza edilizia.
La giurisprudenza (cfr. TAR
Campobasso, Molise, I, 17-02-2012, n. 37) ha avuto modo di
affermare che chi contesta la legittimità dell’ordinanza di
demolizione di un manufatto abusivo, realizzato al di fuori
del centro abitato, ha l’onere di fornire per lo meno un
principio di prova in ordine al tempo di ultimazione di
quest’ultimo, se asserisce che è stato realizzato prima
dell’entrata in vigore della legge n. 755/1967, ossia quando
per tali tipi di costruzione non era prescritta alcuna
licenza edilizia
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 21.11.2012 n. 2091 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’istituto della variante
in corso d’opera, o “variante leggera”, previsto
dall’articolo 15 della legge n. 47/1985, è finalizzato ad
ottenere la regolarizzazione di opere minori realizzate nel
corso della esecuzione dei lavori e non conformi rispetto al
titolo abilitativo originario.
Esso si caratterizza, rispetto alla variante cd. “ordinaria”
ed a quella cd. “essenziale” per la circostanza che la sua
approvazione può essere richiesta fino alla ultimazione dei
lavori e, dunque, non opera la regola della necessaria
preventiva emanazione del provvedimento amministrativo
abilitativo.
La domanda di variante costituisce comunque manifestazione
della volontà del privato di regolarizzare le opere edilizie
realizzate e, pone, di conseguenza, anche perché
espressamente prevista dal legislatore, un obbligo di
pronunzia in capo all’autorità amministrativa.
Tale obbligo di pronunzia, in considerazione della
manifestata volontà di regolarizzazione, sussiste anche
quando, per ipotesi, il privato abbia errato nella
qualificazione dell’istituto utilizzabile (ad esempio,
richiedendo una variante leggera in luogo di una pesante
ovvero, avendo già realizzato gli interventi e non
sussistendo i presupposti di applicabilità del richiamato
articolo 15, in luogo di una ordinaria istanza di sanatoria
o accertamento di conformità).
Invero, questi, edotto della esatta natura giuridica della
vicenda, ben potrebbe modificare ed adeguare a norma la sua
richiesta, valendo in ogni caso, avuto riguardo alla
avvenuta espressione di una volontà di regolarizzazione, la
regola generale che tale strada debba sempre essere percorsa
e comunque precedere l’attività sanzionatoria propriamente
intesa (arg. ex art. 6 l. n. 241/1990 ).
In considerazione di quanto sopra e della identità di ratio
(trattandosi di istituti diretti a ricondurre nella sfera
della legalità l’attività costruttiva svolta) valgono,
dunque, nella fattispecie in esame i principi pacificamente
affermati dalla giurisprudenza in materia di sanatoria
edilizia.
---------------
Costituisce costante affermazione giurisprudenziale che le
sanzioni per illeciti edilizi, pur obbligatorie per legge,
non sono irrogabili fino a che l’amministrazione non si sia
pronunziata sulla eventuale domanda di sanatoria dell’abuso.
La suddetta regola costituisce espressione del generale
principio di ragionevolezza dell’azione amministrativa,
costituente principio assoluto del procedimento e
concretatesi nella adeguatezza e plausibilità della
valutazione degli interessi da parte della p.a..
Essa, invero, risponde altresì al canone di economicità
dell’azione amministrativa, risultando, oltre che illogico
ed irragionevole, anche antieconomico procedere alla
irrogazione di sanzioni se, in presenza di una violazione
meramente formale, l’attività di trasformazione del
territorio compiuta dal privato può essere ricondotta alla
legalità.
Il procedimento sanzionatorio e quello di sanatoria
costituiscono tipici procedimenti collegati: trattasi di
procedimenti tra loro distinti ed autonomi (a differenza dei
subprocedimenti), ma reciprocamente interferenti, nel senso
che i vizi e le anomalie dell’uno incidono anche sull’altro.
In tal modo, pertanto, proposta la domanda di sanatoria
prima della irrogazione di sanzioni, il procedimento
sanzionatorio non può essere portato a conclusione prima
della definizione del procedimento di sanatoria; prodotta,
invece, l’istanza di sanatoria dopo la irrogazione della
sanzione, quest’ultimo procedimento deve essere sospeso fino
alla definizione del primo.
Osserva al riguardo il Tribunale che l’istituto
della variante in corso d’opera, o “variante leggera”,
previsto dall’articolo 15 della legge n. 47/1985, è
finalizzato ad ottenere la regolarizzazione di opere minori
realizzate nel corso della esecuzione dei lavori e non
conformi rispetto al titolo abilitativo originario.
Esso si caratterizza, rispetto alla variante cd. “ordinaria”
ed a quella cd. “essenziale” per la circostanza che la sua
approvazione può essere richiesta fino alla ultimazione dei
lavori e, dunque, non opera la regola della necessaria
preventiva emanazione del provvedimento amministrativo
abilitativo.
La domanda di variante costituisce comunque manifestazione
della volontà del privato di regolarizzare le opere edilizie
realizzate e, pone, di conseguenza, anche perché
espressamente prevista dal legislatore, un obbligo di
pronunzia in capo all’autorità amministrativa.
Tale obbligo di pronunzia, in considerazione della
manifestata volontà di regolarizzazione, sussiste anche
quando, per ipotesi, il privato abbia errato nella
qualificazione dell’istituto utilizzabile (ad esempio,
richiedendo una variante leggera in luogo di una pesante
ovvero, avendo già realizzato gli interventi e non
sussistendo i presupposti di applicabilità del richiamato
articolo 15, in luogo di una ordinaria istanza di sanatoria
o accertamento di conformità).
Invero, questi, edotto della esatta natura giuridica della
vicenda, ben potrebbe modificare ed adeguare a norma la sua
richiesta, valendo in ogni caso, avuto riguardo alla
avvenuta espressione di una volontà di regolarizzazione, la
regola generale che tale strada debba sempre essere percorsa
e comunque precedere l’attività sanzionatoria propriamente
intesa (arg. ex art. 6 l. n. 241/1990 ).
In considerazione di quanto sopra e della identità di ratio
(trattandosi di istituti diretti a ricondurre nella sfera
della legalità l’attività costruttiva svolta) valgono,
dunque, nella fattispecie in esame i principi pacificamente
affermati dalla giurisprudenza in materia di sanatoria
edilizia.
L’ente locale, anziché previamente definire il procedimento
di variante con provvedimento espresso e motivato, ha
irrogato ai sig.ri Pisapia e Rega la sanzione edilizia della
demolizione.
Tale provvedimento è illegittimo.
Costituisce, invero, costante affermazione giurisprudenziale
che le sanzioni per illeciti edilizi, pur obbligatorie per
legge, non sono irrogabili fino a che l’amministrazione non
si sia pronunziata sulla eventuale domanda di sanatoria
dell’abuso.
La suddetta regola costituisce espressione del generale
principio di ragionevolezza dell’azione amministrativa,
costituente principio assoluto del procedimento e
concretatesi nella adeguatezza e plausibilità della
valutazione degli interessi da parte della p.a..
Essa, invero, risponde altresì al canone di economicità
dell’azione amministrativa, risultando, oltre che illogico
ed irragionevole, anche antieconomico procedere alla
irrogazione di sanzioni se, in presenza di una violazione
meramente formale, l’attività di trasformazione del
territorio compiuta dal privato può essere ricondotta alla
legalità.
Il procedimento sanzionatorio e quello di sanatoria
costituiscono tipici procedimenti collegati: trattasi di
procedimenti tra loro distinti ed autonomi (a differenza
dei subprocedimenti), ma reciprocamente interferenti, nel
senso che i vizi e le anomalie dell’uno incidono anche
sull’altro.
In tal modo, pertanto, proposta la domanda di sanatoria
prima della irrogazione di sanzioni, il procedimento
sanzionatorio non può essere portato a conclusione prima
della definizione del procedimento di sanatoria; prodotta,
invece, l’istanza di sanatoria dopo la irrogazione della
sanzione, quest’ultimo procedimento deve essere sospeso fino
alla definizione del primo.
La violazione di tali regole comporta l’illegittimità del
provvedimento adottato
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 21.11.2012 n. 2090 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La giurisprudenza ha interpretato l'art. art. 3
della L.r. 93/1980 nel senso che l'accertamento del Sindaco
deve soffermarsi sull'effettiva destinazione funzionale dei
manufatti progettati all'attività di produzione agricola,
indipendentemente dalla preesistenza sull'area di un'azienda
agricola.
Detta disposizione, per aderenza alla ratio che ispira la
legge ed in armonia con i principi costituzionali di
uguaglianza e libertà di iniziativa economica, non può
quindi essere interpretata nel senso di limitare la
possibilità edificatoria di soggetti che, pur intendendo
attivare un'azienda agricola, non siano titolari di un
complesso produttivo a ciò già destinato ed operante.
L’art. 9, comma 1, della L. 10/1977 stabilisce che il
contributo di cui al precedente articolo 3 (per oneri di
urbanizzazione e costo di costruzione) non è dovuto “per
le opere da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le
residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle
esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ai
sensi dell'art. 12, L. 09.05.1975, n. 153” (lett. a).
L’art. 3, comma 2, della L.r. 93/1980 subordina a sua volta
il rilascio della concessione edilizia all'accertamento da
parte del Sindaco dell'effettiva esistenza e funzionamento
dell'azienda agricola.
La giurisprudenza ha interpretato il predetto art. 3 della
L.r. 93/1980 nel senso che l'accertamento del Sindaco deve
soffermarsi sull'effettiva destinazione funzionale dei
manufatti progettati all'attività di produzione agricola,
indipendentemente dalla preesistenza sull'area di un'azienda
agricola (cfr. TAR Lombardia Brescia – 22/06/1989 n. 718;
TAR Lombardia Milano, sez. II – 26/09/2002 n. 3810). Detta
disposizione, per aderenza alla ratio che ispira la
legge ed in armonia con i principi costituzionali di
uguaglianza e libertà di iniziativa economica, non può
quindi essere interpretata nel senso di limitare la
possibilità edificatoria di soggetti che, pur intendendo
attivare un'azienda agricola, non siano titolari di un
complesso produttivo a ciò già destinato ed operante
(Consiglio di Stato, sez. V – 21/10/1998 n. 1509).
Se dunque il Comune si deve limitare a verificare
l’esistenza dell’Azienda (anche appena insediata) e
l’effettiva destinazione delle opere all’attività agricola
(cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II – 17/10/2008 n. 5151),
ne deriva che nel caso in esame ricorrevano i presupposti
richiesti dal citato art. 3 per il rilascio della
concessione edilizia gratuita. E’ infatti dedotta, fino al
2000, la gestione di un allevamento di capi equini, mentre
il titolo abilitativo richiesto aveva lo scopo (dichiarato)
di ricostruire i manufatti danneggiati dall’incendio per
riprendere l’attività: l’autorità pubblica doveva dunque
soltanto verificare la compatibilità delle opere richieste
con le potenzialità produttive dell’Azienda, salvo
focalizzare “ex post” l’indagine sull’effettiva
riattivazione.
Il ricorso è dunque fondato e deve essere accolto nel senso
sopra indicato, con l’obbligo per il Comune di restituire
quanto indebitamente preteso, salvo il controllo (ora per
allora) sull’esercizio in concreto dell’attività nelle
annate successive alla conclusione dei lavori.
Sulla somma vanno calcolati gli interessi i quali decorrono
–trattandosi di azione di ripetizione di indebito– dalla
data di proposizione della domanda giudiziale, dovendosi
presumere la buona fede dell’amministrazione resistente in
assenza di dimostrazione contraria, mentre non spetta la
rivalutazione monetaria trattandosi di indebito oggettivo il
quale genera solo l’obbligazione di restituzione degli
interessi a norma dell’art. 2033 del c.c. (cfr. TAR
Lombardia Milano, sez. II – 05/05/2004 n. 1620; TAR Lazio
Roma, sez. I – 19/01/1999 n. 99; Consiglio di Stato, sez. V
– 30/10/1997 n. 1207)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 21.11.2012 n. 1822 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
lottizzazione abusiva sussiste in tutti i casi in cui la
combinazione e la coordinata esplicazione di attività
legittime e di attività abusive, si risolve in
un’illegittima interferenza con la programmazione
urbanistica ed integra un illegittimo mutamento della
destinazione all'uso del territorio, in quanto le variazioni
apportate e gli abusi realizzati incidano esclusivamente
sulla destinazione d'uso dei manufatti realizzati.
In via generale in materia edilizia, è configurabile la
lottizzazione abusiva materiale, anche solo mediante
modifica della destinazione d'uso di edifici già esistenti,
quando risulti alterato il complessivo assetto del
territorio comunale attuato mediante lo strumento
urbanistico al quale è affidata la pianificazione delle
diverse destinazioni d'uso del territorio e l'assegnazione a
ciascuna di esse di determinate quantità e qualità di
servizi.
Come la Sezione ha avuto modo di rilevare,
la lottizzazione abusiva sussiste in tutti i casi in cui la
combinazione e la coordinata esplicazione di attività
legittime e di attività abusive, si risolve in
un’illegittima interferenza con la programmazione
urbanistica ed integra un illegittimo mutamento della
destinazione all'uso del territorio, in quanto le variazioni
apportate e gli abusi realizzati incidano esclusivamente
sulla destinazione d'uso dei manufatti realizzati (cfr.
Consiglio di Stato sez. IV 07.06.2012 n. 3381).
---------------
La Suprema Corte aveva
infatti affermato (sia pure a proposito della modifica della
destinazione d'uso da alberghiera a residenziale di un
immobile già regolarmente edificato) che, in via generale in
materia edilizia, è configurabile la lottizzazione abusiva
materiale, anche solo mediante modifica della destinazione
d'uso di edifici già esistenti, quando risulti alterato il
complessivo assetto del territorio comunale attuato mediante
lo strumento urbanistico al quale è affidata la
pianificazione delle diverse destinazioni d'uso del
territorio e l'assegnazione a ciascuna di esse di
determinate quantità e qualità di servizi (così Cass. Pen
citata nella sentenza gravata: Sez. III 07.03.2008 n.
24096 con un indirizzo sostanzialmente conforme ai suoi
precedenti: Cass. pen. n. 13687 del 2007, Cass. pen. n. 6396
del 2007, Cass. pen. n. 6990 del 2006, Cass. pen., sez. III,
21.01.2005 n. 10889, Cass. pen., sez. III, 02.03.2004 n.
20661)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.11.2012 n. 5883 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: La
normativa nazionale e comunitaria
consente anche a soggetti senza scopo di lucro di
partecipare alle procedure per l’affidamento di contratti
pubblici alla condizione che esercitino anche attività
d’impresa funzionale ai loro scopi ed in linea con la
relativa disciplina statutaria, giacché l’assenza di fini di
lucro non esclude che tali soggetti possano esercitare
un’attività economica e che, dunque, siano ritenuti
“operatori economici”, potendo soddisfare i necessari
requisiti per essere qualificati come “imprenditori”,
“fornitori” o “prestatori di servizi”.
---------------
L’assenza dello scopo di lucro non impedisce la
qualificazione di un soggetto come imprenditore e non ne
giustifica l'esclusione dalla partecipazione alle gare a
priori e senza ulteriori analisi, atteso che la normativa
comunitaria, segnatamente la direttiva 2004/18/CE, osta
all’esclusione di concorrenti dall’aggiudicazione di appalti
pubblici per il solo motivo che essi non abbiano la forma
giuridica corrispondente ad una determinata categoria di
persone giuridiche, non avendo inteso restringere la nozione
di “operatore economico che offre servizi sul mercato”
unicamente agli operatori che sia dotati di
un'organizzazione d'impresa né introdurre limitazioni a
monte in ragione dell'organizzazione interna dell'operatore
stesso, bensì mirando all'apertura alla concorrenza nella
misura più ampia possibile sia nell'interesse comunitario
alla libera circolazione dei prodotti e dei servizi, sia
dell’interesse della stessa stazione appaltante.
Pertanto, deve ritenersi consentita la partecipazione ad
appalti pubblici a soggetti i quali, autorizzati dalla
normativa nazionale ad offrire servizi sul mercato, “non
perseguono un preminente scopo di lucro, non dispongono di
una struttura organizzativa di un'impresa e non assicurano
una presenza regolare sul mercato …”; con la conseguenza che
la normativa nazionale dev’essere interpretata in senso a
ciò conforme e, all'occorrenza, disapplicata.
---------------
Circa le onlus la giurisprudenza nazionale ha affermato che
esse possono essere ammesse alle gare pubbliche quali
“imprese sociali”, a cui il d.lgs. 24.03.2006 n. 155 ha
riconosciuto la legittimazione ad esercitare in via stabile
e principale un'attività economica organizzata per la
produzione e lo scambio di beni o di servizi di utilità
sociale, diretta a realizzare finalità d'interesse generale,
anche se non lucrativa.
Ciò posto, in ordine al primo motivo, con
cui si ribadisce che Croce Bianca avrebbe dovuto essere
esclusa in quanto associazione di volontariato alla stregua
della normativa nazionale e comunitaria, la Sezione osserva
che è invece orientamento giurisprudenziale ormai
consolidato, pienamente condiviso, che detta normativa
consenta anche a soggetti senza scopo di lucro di
partecipare alle procedure per l’affidamento di contratti
pubblici alla condizione che esercitino anche attività
d’impresa funzionale ai loro scopi ed in linea con la
relativa disciplina statutaria, giacché l’assenza di fini di
lucro non esclude che tali soggetti possano esercitare
un’attività economica e che, dunque, siano ritenuti
“operatori economici”, potendo soddisfare i necessari
requisiti per essere qualificati come “imprenditori”,
“fornitori” o “prestatori di servizi” (cfr. Cons. St., Sez.
V, 18.08.2010 n. 5815 e 26.08.2010 n. 5956,
quest’ultima richiamata, nella specie, dal capitolato
speciale d’appalto).
Invero, secondo l’art. 1, par. 8, della direttiva n.
2004/18/CE “i termini «imprenditore», «fornitore» e
«prestatore di servizi» designano una persona fisica o
giuridica o un ente pubblico o un raggruppamento di tali
persone e/o enti che offra sul mercato, rispettivamente, la
realizzazione di lavori e/o opere, prodotti o servizi.
Conformemente, per gli artt. 3, co. 19 e 22, e 34, co. 1,
lett. a), del codice dei contratti, l’imprenditore,
fornitore o prestatore di servizi, rientranti nella
definizione di “operatore economico”, è “una persona fisica,
o una persona giuridica, o un ente senza personalità
giuridica (…), che offra sul mercato, rispettivamente, la
realizzazione di lavori o opere, la fornitura di prodotti,
la prestazione di servizi” ed è ammesso nel novero dei
soggetti che possono partecipare alle anzidette procedure.
D’altro canto, la giurisprudenza comunitaria ha chiarito che
l’assenza dello scopo di lucro non impedisce la
qualificazione di un soggetto come imprenditore e non ne
giustifica l'esclusione dalla partecipazione alle gare a
priori e senza ulteriori analisi, atteso che la normativa
comunitaria, segnatamente la direttiva 2004/18/CE, osta
all’esclusione di concorrenti dall’aggiudicazione di appalti
pubblici per il solo motivo che essi non abbiano la forma
giuridica corrispondente ad una determinata categoria di
persone giuridiche, non avendo inteso restringere la nozione
di “operatore economico che offre servizi sul mercato”
unicamente agli operatori che sia dotati di
un'organizzazione d'impresa né introdurre limitazioni a
monte in ragione dell'organizzazione interna dell'operatore
stesso, bensì mirando all'apertura alla concorrenza nella
misura più ampia possibile sia nell'interesse comunitario
alla libera circolazione dei prodotti e dei servizi, sia
dell’interesse della stessa stazione appaltante.
Pertanto,
deve ritenersi consentita la partecipazione ad appalti
pubblici a soggetti i quali, autorizzati dalla normativa
nazionale ad offrire servizi sul mercato, “non perseguono un
preminente scopo di lucro, non dispongono di una struttura
organizzativa di un'impresa e non assicurano una presenza
regolare sul mercato …”; con la conseguenza che la normativa
nazionale dev’essere interpretata in senso a ciò conforme e,
all'occorrenza, disapplicata (cfr. Corte giustizia CE, Sez.
IV, 23.12.2009, causa C. 305/08).
Inoltre, circa le onlus la giurisprudenza nazionale ha
affermato che esse possono essere ammesse alle gare
pubbliche quali “imprese sociali”, a cui il d.lgs. 24.03.2006 n. 155 ha riconosciuto la legittimazione ad esercitare
in via stabile e principale un'attività economica
organizzata per la produzione e lo scambio di beni o di
servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità
d'interesse generale, anche se non lucrativa (cfr. Cons.
St., sez. VI, 25.01.2008 n. 185 e 16.06.2009 n. 3897, nonché
V, 25.02.2009 n. 1128)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 20.11.2012 n. 5882 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il contributo per oneri
di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di
natura non tributaria, posto a carico del costruttore a
titolo di partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che
la nuova costruzione ne ritrae.
Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di
urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore
dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.)
nell’area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione
d’uso concretamente impressa all’alloggio: poiché l’entità
degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza correlata
alla variazione del carico urbanistico, è ben possibile che
un intervento di ristrutturazione e mutamento di
destinazione d’uso possa non comportare aggravi di carico
urbanistico e quindi l’obbligo della relativa corresponsione
degli oneri; al contrario è altrettanto possibile che in
caso di mutamento di destinazione di uso nell’ambito della
stessa categoria urbanistica, faccia seguito un maggior
carico urbanistico indotto dalla realizzazione di quanto
assentito e correlativamente siano dovuti gli oneri
concessori.
---------------
Nella fattispecie non affiorano elementi utili a comprovare
che la nuova modalità di utilizzo dei locali sia stata
accompagnata da un’alterazione del carico urbanistico,
tenendo conto che l’aggregazione di cui si discute ha
interessato due appartamenti aventi già in precedenza
destinazione direzionale.
In ogni caso, in presenza di un insediamento già in possesso
di analoghe caratteristiche funzionali (nella fattispecie, i
locali incorporati erano adibiti ad ufficio)
l’amministrazione –per poter legittimamente esigere il
contributo per gli oneri di urbanizzazione– deve dare
contezza degli indici o, comunque, delle condizioni da cui
si evinca il maggior carico urbanistico addebitabile alla
nuova destinazione.
---------------
La giurisprudenza è dell’avviso che gli interventi edilizi
che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione
interna, l’originaria consistenza fisica di un immobile e
comportino l’inserimento di nuovi impianti e la modifica e
ridistribuzione dei volumi, non si configurano né come
manutenzione straordinaria, né come restauro o risanamento
conservativo, ma rientrano nell’ambito della
ristrutturazione edilizia.
In altre parole, affinché sia ravvisabile un intervento di
ristrutturazione edilizia è sufficiente che risultino
modificati la distribuzione della superficie interna e dei
volumi, ovvero l’ordine in cui risultavano disposte le
diverse porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere
più agevole la destinazione d’uso esistente: anche in questi
casi si configurano il rinnovo degli elementi costitutivi
dell’edificio ed un’alterazione dell’originaria fisionomia e
consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i
concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento
conservativo che presuppongono la realizzazione di opere che
lascino inalterata la struttura dell'edificio e la
distribuzione interna della sua superficie.
Nella fattispecie le modifiche effettuate inducono ad
ascrivere l’intervento edilizio nel genus della
ristrutturazione, poiché si assiste alla riallocazione e al
rinnovato dimensionamento di alcuni vani esistenti (taluni
dei quali adibiti a nuove funzioni come “sterilizzazione” e
“deposito”) nonché al rifacimento degli impianti tecnologici
e dei servizi igienici. Sono quindi ravvisabili i tratti
distintivi della ristrutturazione, per il duplice elemento
del recupero dello spazio e della diversità e “non alterità”
dell’organismo che si viene a realizzare rispetto a quello
originario, dato che gli ambienti mantengono una sostanziale
omogeneità rispetto ai precedenti quanto ai loro principali
caratteri identificativi (collocazione, sagoma, altezza,
volumetria): in buona sostanza si compie una modifica totale
o parziale dell’edificio, che in positivo è rappresentata
dalla creazione di un organismo “diverso” dal precedente, ed
in negativo dal fatto che per effetto delle opere non
vengono sensibilmente alterati i volumi, le superfici, le
dimensioni o la tipologia del fabbricato.
---------------
L’obbligazione contributiva per costo di costruzione è
a-causale e si correla alla produzione di ricchezza connessa
all’utilizzazione edificatoria del territorio ed alle
potenzialità economiche che ne derivano e, pertanto, ha
natura essenzialmente paratributaria.
Il contributo afferente al costo di costruzione, a norma
dell’art. 6 della L. 10/1977, è determinato in rapporto alle
caratteristiche, alle tipologie delle costruzioni e delle
loro destinazioni ed ubicazioni (oggi occorre fare
riferimento all’art. 16 del D.P.R. 380/2001).
Ne deriva, quindi, che nell’ipotesi di rinnovo degli
elementi costitutivi di un immobile mediante la
realizzazione di opere, sussiste il presupposto per il
pagamento della parte di contributo afferente al costo di
costruzione, da riferire al dato oggettivo della
ristrutturazione dell’edificio.
I ricorrenti lamentano l’erronea determinazione del
contributo di urbanizzazione da parte dell’amministrazione
in sede di rilascio del titolo abilitativo.
Nell’ambito di un tipico giudizio di accertamento, è
opportuno esaminare separatamente i presupposti per
l’applicazione degli oneri di urbanizzazione e del costo di
costruzione.
Sottolinea anzitutto il Collegio che –contrariamente a
quanto affermato dal Comune resistente– parte ricorrente ha
lamentato (classificando il proprio intervento come restauro
e risanamento conservativo - pag. 4 del gravame
introduttivo) l’assenza di un maggiore carico urbanistico a
seguito dell’ampliamento dello studio dentistico originario.
Va ribadito sul tema che il contributo per oneri di
urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di
natura non tributaria, posto a carico del costruttore a
titolo di partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che
la nuova costruzione ne ritrae (cfr. per tutti TAR Puglia
Bari, sez. III – 10/02/2011 n. 243). Il presupposto
imponibile per il pagamento dei contributi di urbanizzazione
va ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di
servizi (rete viaria, fognature, ecc.) nell’area di
riferimento, che sia indotta dalla destinazione d’uso
concretamente impressa all’alloggio: poiché l’entità degli
oneri di urbanizzazione è in buona sostanza correlata alla
variazione del carico urbanistico, è ben possibile che un
intervento di ristrutturazione e mutamento di destinazione
d’uso possa non comportare aggravi di carico urbanistico e
quindi l’obbligo della relativa corresponsione degli oneri;
al contrario è altrettanto possibile che in caso di
mutamento di destinazione di uso nell’ambito della stessa
categoria urbanistica, faccia seguito un maggior carico
urbanistico indotto dalla realizzazione di quanto assentito
e correlativamente siano dovuti gli oneri concessori (TAR
Lazio Roma, sez. II – 14/11/2007 n. 11213).
Nella fattispecie non affiorano elementi utili a comprovare
che la nuova modalità di utilizzo dei locali sia stata
accompagnata da un’alterazione del carico urbanistico,
tenendo conto che l’aggregazione di cui si discute ha
interessato due appartamenti aventi già in precedenza
destinazione direzionale. In ogni caso, come sostenuto di
recente (cfr. sentenze Sezione 02/03/2012 n. 355; 24/08/2012
n. 1467) in presenza di un insediamento già in possesso di
analoghe caratteristiche funzionali (i locali incorporati
erano adibiti ad ufficio) l’amministrazione –per poter
legittimamente esigere il contributo per gli oneri di
urbanizzazione– avrebbe dovuto dare contezza degli indici o,
comunque, delle condizioni da cui si evinceva il maggior
carico urbanistico addebitabile alla nuova destinazione
(cfr. TAR Lombardia Milano, sez. IV – 04/05/2009 n. 3604).
Nel caso concreto la difesa dell’amministrazione ha
evidenziato –nella memoria finale– che il raddoppio delle
sale dedicate a gabinetto dentistico provoca una maggiore
domanda di servizi, senza tuttavia raffrontare la situazione
attuale (studio dentistico ampliato) con quella
concretamente preesistente. Al riguardo non è sufficiente il
paragone con una media struttura di vendita (la quale
avrebbe maggiore capacità di attrazione di clientela di due
esercizi di vicinato sommati tra loro): si tratta infatti di
una struttura del settore commerciale (soggetta ad una
disciplina specifica sugli standard necessari)
caratterizzata da una superficie ben maggiore (oltre 250
mq.).
Deve in conclusione ritenersi indebitamente preteso
l’importo di € 15.312,81, da restituire alla parte
ricorrente.
A differenti conclusioni deve pervenirsi con riguardo al
costo di costruzione.
Come ha già sottolineato questo Tribunale (cfr. sentenza
sez. I – 19/04/2011 n. 582) la giurisprudenza è dell’avviso
che gli interventi edilizi che alterino, anche sotto il
profilo della distribuzione interna, l’originaria
consistenza fisica di un immobile e comportino l’inserimento
di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei
volumi, non si configurano né come manutenzione
straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo,
ma rientrano nell’ambito della ristrutturazione edilizia
(cfr. TAR Molise – 27/03/2009 n. 99; Consiglio di Stato,
sez. V – 17/12/1996 n. 1551).
In altre parole, affinché sia ravvisabile un intervento di
ristrutturazione edilizia è sufficiente che risultino
modificati la distribuzione della superficie interna e dei
volumi, ovvero l’ordine in cui risultavano disposte le
diverse porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere
più agevole la destinazione d’uso esistente: anche in questi
casi si configurano il rinnovo degli elementi costitutivi
dell’edificio ed un’alterazione dell’originaria fisionomia e
consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i
concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento
conservativo che presuppongono la realizzazione di opere che
lascino inalterata la struttura dell'edificio e la
distribuzione interna della sua superficie (cfr. Consiglio
di Stato, Sez. V – 18/10/2002 n. 5775; Consiglio di Stato,
sez. V – 23/05/2000 n. 2988).
Nella fattispecie le modifiche effettuate inducono ad
ascrivere l’intervento edilizio nel genus della
ristrutturazione, poiché (dall’analisi della planimetria in
atti) si assiste alla riallocazione e al rinnovato
dimensionamento di alcuni vani esistenti (taluni dei quali
adibiti a nuove funzioni come “sterilizzazione” e “deposito”)
nonché al rifacimento degli impianti tecnologici e dei
servizi igienici. Sono quindi ravvisabili i tratti
distintivi della ristrutturazione, per il duplice elemento
del recupero dello spazio e della diversità e “non
alterità” dell’organismo che si viene a realizzare
rispetto a quello originario, dato che gli ambienti
mantengono una sostanziale omogeneità rispetto ai precedenti
quanto ai loro principali caratteri identificativi
(collocazione, sagoma, altezza, volumetria): in buona
sostanza si compie una modifica totale o parziale
dell’edificio, che in positivo è rappresentata dalla
creazione di un organismo “diverso” dal precedente,
ed in negativo dal fatto che per effetto delle opere non
vengono sensibilmente alterati i volumi, le superfici, le
dimensioni o la tipologia del fabbricato (sentenza TAR
Brescia – 11/06/2004 n. 646).
Posta questa premessa, osserva il Collegio che
l’obbligazione contributiva per costo di costruzione è
a-causale e si correla alla produzione di ricchezza connessa
all’utilizzazione edificatoria del territorio ed alle
potenzialità economiche che ne derivano e, pertanto, ha
natura essenzialmente paratributaria (TAR Campania Salerno,
sez. II – 11/06/2002 n. 459). Il contributo afferente al
costo di costruzione, a norma dell’art. 6 della L. 10/1977,
è determinato in rapporto alle caratteristiche, alle
tipologie delle costruzioni e delle loro destinazioni ed
ubicazioni (oggi occorre fare riferimento all’art. 16 del
D.P.R. 380/2001). Ne deriva, quindi, che nell’ipotesi di
rinnovo degli elementi costitutivi di un immobile mediante
la realizzazione di opere, sussiste il presupposto per il
pagamento della parte di contributo afferente al costo di
costruzione, da riferire al dato oggettivo della
ristrutturazione dell’edificio (sentenza Sezione 02/03/2012
n. 355): pertanto l’esazione è stata correttamente pretesa
dal Comune.
In conclusione il ricorso è parzialmente fondato e deve
essere accolto nella parte in cui il Comune ha erroneamente
richiesto la quota di oneri di urbanizzazione (€ 15.312,81),
che devono essere restituiti. Sulla somma vanno calcolati
gli interessi i quali decorrono –trattandosi di azione di
ripetizione di indebito– dalla data di proposizione della
domanda giudiziale, dovendosi presumere la buona fede
dell’amministrazione resistente in assenza di dimostrazione
contraria, mentre non spetta la rivalutazione monetaria
trattandosi di indebito oggettivo il quale genera solo
l’obbligazione di restituzione degli interessi a norma
dell’art. 2033 del c.c. (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II
– 05/05/2004 n. 1620; TAR Lazio Roma, sez. I – 19/01/1999 n.
99; Consiglio di Stato, sez. V – 30/10/1997 n. 1207). Non
spetta alcuna altra somma a titolo risarcitorio, in difetto
della dimostrazione di danni ulteriori e diversi
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 20.11.2012 n. 1818 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’atto di assenso
relativo ai cartelloni pubblicitari appartiene a una
categoria speciale e non corrisponde ad un permesso di
costruire, e tuttavia il coinvolgimento della Commissione
edilizia nella valutazione delle richieste di autorizzazione
non incontra alcun divieto normativo: poiché “il Comune può
effettuare valutazioni che riguardano la coerenza
urbanistica di un cartellone pubblicitario rispetto al
contesto, la Commissione edilizia è senz’altro un organo
tecnico qualificato a svolgere questo tipo di esame”.
---------------
I) in sede di rilascio del provvedimento autorizzatorio
l’Ente proprietario della strada deve accertare il rispetto
di tutte le condizioni poste dal legislatore e –poiché
l’obiettivo primario è quello di salvaguardare la sicurezza
della circolazione stradale e la pubblica incolumità– può
legittimamente inibire la collocazione dei cartelli su tutte
le tipologie di strade quando emergano circostanze ostative
al perseguimento di quell’obiettivo;
II) la valutazione della pericolosità dei cartelli
pubblicitari è rimessa alla discrezionalità
dell’amministrazione e, in quanto tale, non è censurabile in
sede di legittimità se non per errori di valutazione o vizi
logici;
III) l’amministrazione deve optare per la preminenza delle
esigenze di sicurezza della circolazione rispetto al pur
rilevante interesse economico di cui sono portatori gli
imprenditori del settore, con una scelta perfettamente
legittima anche alla luce dei canoni costituzionali di
salvaguardia dell’integrità fisica e della salute degli
individui: infatti il valore dell’iniziativa economica
privata della quale l’attività pubblicitaria costituisce
estrinsecazione –seppur riconosciuto e protetto dalla Carta
costituzionale– recede nel giudizio di bilanciamento con il
valore superiore della salute individuale e collettiva, al
quale è garantita la massima protezione;
IV) il Comune può valorizzare l’interesse pubblico alla
coerenza urbanistica del territorio con la ricerca del punto
di equilibrio tra la “pulizia” della visuale e le esigenze
della produzione e del commercio (di cui la pubblicità
stradale è una componente), consumando in misura
proporzionata la visuale stradale e il paesaggio urbano.
Ha già affermato questo Tribunale (cfr. sentenza 06/09/2004
n. 1013), l’atto di assenso relativo ai cartelloni
pubblicitari appartiene a una categoria speciale e non
corrisponde ad un permesso di costruire, e tuttavia il
coinvolgimento della Commissione edilizia nella valutazione
delle richieste di autorizzazione non incontra alcun divieto
normativo: poiché “il Comune può effettuare valutazioni
che riguardano la coerenza urbanistica di un cartellone
pubblicitario rispetto al contesto, la Commissione edilizia
è senz’altro un organo tecnico qualificato a svolgere questo
tipo di esame” (cfr. sentenza citata).
---------------
In via subordinata la
ricorrente lamenta, quale vizio del provvedimento, il fatto
che l’insegna ed il traliccio sono collocati nell’area in
prossimità del raccordo autostradale da circa 20 anni, e che
l’impianto insiste su un terreno di proprietà privata a
distanza ragguardevole dalla carreggiata che porta alla
barriera autostradale e non contrasta con il Codice della
Strada né altera in alcun altro modo il contesto ambientale:
in particolare non si registrerebbero mutamenti di fatto e
di diritto e la zona non sarebbe sottoposta ad alcun tipo di
vincolo, mentre l’indicazione dell’ora e della temperatura
soddisferebbe un bisogno di pubblica utilità.
Il motivo è privo di fondamento.
Il Collegio ripropone alcune considerazioni già
sviluppate dalla giurisprudenza, anche di questo TAR:
I) in sede di rilascio del provvedimento autorizzatorio
l’Ente proprietario della strada deve accertare il rispetto
di tutte le condizioni poste dal legislatore e –poiché
l’obiettivo primario è quello di salvaguardare la sicurezza
della circolazione stradale e la pubblica incolumità– può
legittimamente inibire la collocazione dei cartelli su tutte
le tipologie di strade quando emergano circostanze ostative
al perseguimento di quell’obiettivo (sentenza Sezione
20/04/2011 n. 593; TAR Toscana, sez. III – 11/06/2004 n.
2047);
II) la valutazione della pericolosità dei cartelli
pubblicitari è rimessa alla discrezionalità
dell’amministrazione e, in quanto tale, non è censurabile in
sede di legittimità se non per errori di valutazione o vizi
logici (TAR Lombardia Milano, sez. IV – 07/07/2008 n.
2886);
III) l’amministrazione deve optare per la preminenza delle
esigenze di sicurezza della circolazione rispetto al pur
rilevante interesse economico di cui sono portatori gli
imprenditori del settore, con una scelta perfettamente
legittima anche alla luce dei canoni costituzionali di
salvaguardia dell’integrità fisica e della salute degli
individui: infatti il valore dell’iniziativa economica
privata della quale l’attività pubblicitaria costituisce
estrinsecazione –seppur riconosciuto e protetto dalla Carta
costituzionale– recede nel giudizio di bilanciamento con il
valore superiore della salute individuale e collettiva, al
quale è garantita la massima protezione (cfr. sentenze
Sezione 28/02/2008 n. 174; 27/11/2008 n. 1702; 05/03/2009 n.
529);
IV) il Comune può valorizzare l’interesse pubblico alla
coerenza urbanistica del territorio con la ricerca del punto
di equilibrio tra la “pulizia” della visuale e le esigenze
della produzione e del commercio (di cui la pubblicità
stradale è una componente), consumando in misura
proporzionata la visuale stradale e il paesaggio urbano (TAR
Brescia – 06/09/2004 n. 1013) (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 20.11.2012 n. 1816 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Per “pareti finestrate",
ai sensi dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei
regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono
intendersi, non solo le pareti munite di "vedute", ma più in
generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi
genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di
ogni tipo (di veduta o di luce), bastando altresì che sia
finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo
avvicinamento.
Deve tuttavia rilevarsi che, per il vaglio di fondatezza del
ricorso incidentale, basta fermarsi al dirimente
accertamento storico di una porta che (indipendentemente se
ora sostituita o da sostituire con una nuova finestra)
preesisteva sulla parete dei controinteressati allorquando
il ricorrente principale è stato (illegittimamente)
autorizzato a realizzare opere edilizie, in violazione delle
distanze legali.
Come correttamente evidenziato dal patrono incidentale,
infatti, per “pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 d.m.
02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi
locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non
solo le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte
le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso
l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di
veduta o di luce), bastando altresì che sia finestrata anche
la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento (cfr.
Tar Lombardia -MI- n. 1419/2011, Tar Piemonte 2565/2008, TAR
Toscana, Sez. III, 04.12.2001, n. 1734).
Pertanto, la circostanza accertata in giudizio di una
edificazione ad eccessivo ridosso della confinante parete
finestrata (nel caso di specie, porta del sottotetto) ha a
suo tempo postulato la violazione della normativa
inderogabile sulle distanze di cui al DM 1444/1968, con
conseguente illegittimità del permesso di costruire
rilasciato in sanatoria alla ricorrente principale (TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 20.11.2012 n. 788 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
sopravvenuta scadenza del termine di validità dell’offerta a
seguito dell’eccessivo prolungamento delle operazioni di
gara (ovvero per effetto di ulteriori trattative intraprese
per la modifica di alcune pattuizioni) consente
all’aggiudicatario la scelta di disimpegnarsi da ogni
vincolo negoziale senza incorrere in alcuna sanzione, ovvero
di “confermare”, anche tacitamente, l’offerta stessa
accettando la stipula contrattuale.
In sostanza, è riservata all’aggiudicatario, nell’ambito
della sue autonome determinazioni imprenditoriali, la scelta
se “confermare” la sua offerta ormai scaduta, addivenendo
alla stipula, ovvero esercitare il suo diritto di “recesso”
dalla fase della stipula.
Il codice dei contratti (art. 11, c. 6) individua il termine
di 180 giorni (recepito nel bando di gara in questione) per
mantenere ferma l’offerta presentata; si tratta di “spatium deliberandi” massimo per addivenire alla sottoscrizione del
contratto, evitando che ulteriori lungaggini possano andare
a danno dell’impresa concorrente ovvero della stessa
Stazione appaltante ove costretta ad un’aggiudicazione che
di fatto non conduce all’esito cui la stessa procedura mira;
nel caso di specie, la individuazione dell’operatore
economico per la progettazione, realizzazione e gestione
dell’opera.
Orbene, è del tutto evidente che l’intervenuta previa
notifica dell’avviso dell’impresa aggiudicataria, all’esito
della scadenza del termine di 180 giorni, di volersi
svincolare dal contratto (non ancora concluso) rende del
tutto inutile il procedimento instaurato dal Comune per far
venir meno l’aggiudicazione, comunque non più efficace
proprio per effetto della disposta “rinuncia”
dell’aggiudicatario.
In proposito, la giurisprudenza ha più volte affermato che
la sopravvenuta scadenza del termine di validità
dell’offerta a seguito dell’eccessivo prolungamento delle
operazioni di gara (ovvero, come nel caso di specie, per
effetto di ulteriori trattative intraprese per la modifica
di alcune pattuizioni) consente all’aggiudicatario la scelta
di disimpegnarsi da ogni vincolo negoziale senza incorrere
in alcuna sanzione, ovvero di “confermare”, anche
tacitamente, l’offerta stessa accettando la stipula
contrattuale (cfr. Cons. di Stato, n. 4019/2010 e TAR Abruzzo
– L’AQUILA, n. 299/2011).
In sostanza, è riservata all’aggiudicatario, nell’ambito
della sue autonome determinazioni imprenditoriali, la scelta
se “confermare” la sua offerta ormai scaduta,
addivenendo alla stipula, ovvero esercitare il suo diritto
di “recesso” dalla fase della stipula
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 20.11.2012 n. 783 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Nell’ambito del pubblico
impiego lo svolgimento di fatto da parte del dipendente di
mansioni superiori a quelle dovute in base all’inquadramento
è del tutto irrilevante, sia ai fini economici, sia ai fini
della progressione di carriera, salva l’esistenza di
un’espressa disposizione che disponga diversamente; né la
domanda del dipendente, tesa ad ottenere la retribuzione
superiore a quella riconosciuta dalla normativa applicabile,
per effetto dello svolgimento delle mansioni superiori, può
fondarsi sull’articolo 36 della Costituzione, in quanto il
principio della corrispondenza della retribuzione dei
lavoratori alla qualità e alla quantità del lavoro prestato
non trova incondizionata applicazione nel rapporto di
pubblico impiego, concorrendo con altri principi di pari
rilievo costituzionale, quali quelli di cui agli articoli 97
e 98 ovvero sugli articoli 2126 C.C. (concernente solo
l’ipotesi della retribuibilità del lavoro prestato sulla
base di atto nullo o annullato) e 2041 C.C., stante, per un
verso, la natura sussidiaria dell’azione di arricchimento
senza causa e, per altro verso, la circostanza che
l’ingiustificato arricchimento postula un correlativo
depauperamento del dipendente, non riscontrabile e
dimostrabile nel caso del pubblico dipendente che, come nel
caso di specie, ha comunque percepito la retribuzione
prevista per la qualifica rivestita.
Nel pubblico impiego presupposto indefettibile per la stessa
configurabilità dell’esercizio di mansioni superiori è
l’esistenza di un posto vacante in pianta organica, al quale
corrispondano le mansioni effettivamente svolte, oltre che
un atto formale di incarico o investitura di dette funzioni,
proveniente dall’organo amministrativo a tanto legittimato,
non potendo l’attribuzione delle mansioni e il relativo
trattamento economico essere oggetto di libere
determinazioni dei funzionari amministrativi.
La giurisprudenza amministrativa ha più volte ribadito che
nell’ambito del pubblico impiego lo svolgimento di fatto da
parte del dipendente di mansioni superiori a quelle dovute
in base all’inquadramento è del tutto irrilevante, sia ai
fini economici, sia ai fini della progressione di carriera,
salva l’esistenza di un’espressa disposizione che disponga
diversamente (C.d.S., sez. IV, 15.09.2009, n. 5529;
24.12.2008, n. 6571; sez. VI, 03.02.2011, n. 758;
20.10.2010, n. 7584; 08.05.2009, n. 2845); né la
domanda del dipendente, tesa ad ottenere la retribuzione
superiore a quella riconosciuta dalla normativa applicabile,
per effetto dello svolgimento delle mansioni superiori, può
fondarsi sull’articolo 36 della Costituzione, in quanto il
principio della corrispondenza della retribuzione dei
lavoratori alla qualità e alla quantità del lavoro prestato
non trova incondizionata applicazione nel rapporto di
pubblico impiego, concorrendo con altri principi di pari
rilievo costituzionale, quali quelli di cui agli articoli 97
e 98 (tra le più recenti, C.d.S., sez. V, 02.08.2010, n.
5064; 25.05.2010, n. 3314; sez. VI, 15.06.2011, n.
3639; 03.02.2011, n. 758; 18.09.2009, n. 5605)
ovvero sugli articoli 2126 C.C. (concernente solo l’ipotesi
della retribuibilità del lavoro prestato sulla base di atto
nullo o annullato) e 2041 C.C., stante, per un verso, la
natura sussidiaria dell’azione di arricchimento senza causa
(C.d.S., sez. IV, 24.04.2009, n. 2626) e, per altro
verso, la circostanza che l’ingiustificato arricchimento
postula un correlativo depauperamento del dipendente, non
riscontrabile e dimostrabile nel caso del pubblico
dipendente che, come nel caso di specie, ha comunque
percepito la retribuzione prevista per la qualifica
rivestita (C.d.S., sez. V, 09.03.2010, n. 1382).
E’ stato anche rilevato che nel pubblico impiego presupposto
indefettibile per la stessa configurabilità dell’esercizio
di mansioni superiori è l’esistenza di un posto vacante in
pianta organica, al quale corrispondano le mansioni
effettivamente svolte, oltre che un atto formale di incarico
o investitura di dette funzioni, proveniente dall’organo
amministrativo a tanto legittimato, non potendo
l’attribuzione delle mansioni e il relativo trattamento
economico essere oggetto di libere determinazioni dei
funzionari amministrativi (C.d.S., sez. V, 04.03.2008, n.
879; 06.12.2007, n. 6254) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.11.2012 n. 5852 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Infortunio e dipendenza da causa di servizio della
conseguente infermità.
Il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza
19.11.2012 n. 5850, si occupa di un
infortunio occorso ad una dipendente mentre si recava nel
proprio ufficio, scivolando sulle scale, sdrucciolevoli e
poco illuminate, del palazzo ospitante la sede di servizio e
riscontra che:
- "l'evento si era verificato, ..., in prossimità
dell'inizio dell'orario di lavoro, lungo il percorso usuale
(anzi, obbligatorio) per recarsi in ufficio, e senza che
l'infortunio potesse in alcun modo ricondursi ad alcun fatto
imputabile a dolo o colpa dell'interessata (come è noto, la
giurisprudenza suole ritenere che il nesso di causalità tra
l'attività lavorativa e l'evento dannoso si interrompa
quando quest'ultimo sia stato determinato dalla stessa
condotta del dipendente versante in dolo o colpa grave: v.
ad es. C.d.S., IV, 22.09.2005, n. 4951)";
- risultano dunque soddisfatte le condizioni per cui "la
particolare figura dell'infortunio in itinere può ritenersi
verificata in occasione di lavoro, e come tale meritevole di
tutela, soltanto quando sussista uno specifico collegamento
tra l'evento e l'attività di lavoro, sicché non è
sufficiente, ai fini dell'attribuzione dei benefici previsti
al dipendente, il rischio generico connesso all'attività di
spostamento spaziale, ma occorre il rischio specifico
collegato all'attività lavorativa (C.d.S., VI, 17.07.2006, n. 4572...)" (commento
tratto da www.publika.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'esame delle giustificazioni presentate dal
soggetto richiesto di dimostrare la non anomalia della
propria offerta chiama difatti in causa la discrezionalità
tecnica dell'Amministrazione, per cui il Giudice della
legittimità può intervenire soltanto in caso di
macroscopiche illogicità, vale a dire di errori di
valutazione evidenti e gravi, oppure di valutazioni abnormi
o affette da errori di fatto.
La giurisprudenza è infatti saldamente orientata nel senso
che, nel caso di ricorso proposto avverso il giudizio di
anomalia dell'offerta economica presentata in una pubblica
gara, il Giudice amministrativo possa sindacare le
valutazioni compiute dall’Amministrazione sotto il profilo
della loro logicità e ragionevolezza e della congruità
dell'istruttoria, ma non possa, invece, operare
autonomamente la verifica della congruità dell'offerta,
sovrapponendo così la propria idea tecnica al giudizio -non
erroneo né illogico- formulato dall'organo amministrativo
cui la legge attribuisce la tutela dell'interesse pubblico
nell'apprezzamento del caso concreto, atteso che
diversamente il Giudice invaderebbe una sfera propria della
P.A..
Il focalizzarsi dell’attenzione legislativa sul profilo procedurale
della delicata materia della verifica di congruità delle
offerte ha una sua precisa ragione d’essere.
L'esame delle giustificazioni presentate dal soggetto
richiesto di dimostrare la non anomalia della propria
offerta chiama difatti in causa la discrezionalità tecnica
dell'Amministrazione, per cui il Giudice della legittimità
può intervenire soltanto in caso di macroscopiche
illogicità, vale a dire di errori di valutazione evidenti e
gravi, oppure di valutazioni abnormi o affette da errori di
fatto (C.d.S., V, 18.08.2010, n. 5848; 23.11.2010,
n. 8148; 22.02.2011, n. 1090). La giurisprudenza è
infatti saldamente orientata nel senso che, nel caso di
ricorso proposto avverso il giudizio di anomalia
dell'offerta economica presentata in una pubblica gara, il
Giudice amministrativo possa sindacare le valutazioni
compiute dall’Amministrazione sotto il profilo della loro
logicità e ragionevolezza e della congruità
dell'istruttoria, ma non possa, invece, operare
autonomamente la verifica della congruità dell'offerta,
sovrapponendo così la propria idea tecnica al giudizio -non
erroneo né illogico- formulato dall'organo amministrativo
cui la legge attribuisce la tutela dell'interesse pubblico
nell'apprezzamento del caso concreto, atteso che
diversamente il Giudice invaderebbe una sfera propria della
P.A. (C.d.S., IV, 27.06.2011, n. 3862; V, 28.10.2010, n.
7631)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.11.2012 n. 5846 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L'illegittimità dell'atto
amministrativo già costituisce un indice presuntivo della
colpa della P.A., sulla quale incombe l'onere di provare la
sussistenza di un proprio ipotetico errore scusabile.
Al privato danneggiato da un provvedimento illegittimo non è
richiesto un particolare impegno probatorio per dimostrare
la colpa dell’Amministrazione. Questi può limitarsi ad
allegare l'illegittimità dell'atto, potendosi ben fare
applicazione, al fine della prova dell'elemento soggettivo,
delle regole di comune esperienza e della presunzione
semplice di cui all'art. 2727 del codice civile. E spetta a
quel punto all'Amministrazione dimostrare, se del caso, di
essere incorsa in un errore scusabile.
Circa le condizioni di
accesso al risarcimento è appena il caso di ricordare,
infatti, che l'illegittimità dell'atto amministrativo già
costituisce un indice presuntivo della colpa della P.A.,
sulla quale incombe l'onere di provare la sussistenza di un
proprio ipotetico errore scusabile (C.d.S., V, 31.10.2008, n. 5453).
La giurisprudenza ha sottolineato, più ampiamente (cfr. ad
es. C.d.S., VI, 09.03.2007 n. 1114 e 09.06.2008 n.
2751), che al privato danneggiato da un provvedimento
illegittimo non è richiesto un particolare impegno
probatorio per dimostrare la colpa dell’Amministrazione.
Questi può limitarsi ad allegare l'illegittimità dell'atto,
potendosi ben fare applicazione, al fine della prova
dell'elemento soggettivo, delle regole di comune esperienza
e della presunzione semplice di cui all'art. 2727 del codice
civile. E spetta a quel punto all'Amministrazione
dimostrare, se del caso, di essere incorsa in un errore
scusabile (cfr., tra le tante, C.d.S., IV, 12.02.2010,
n. 785; V, 20.07.2009, n. 4527) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.11.2012 n. 5846 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nel riconoscimento del danno da mancata
aggiudicazione, se viene attribuito il ristoro del danno da
mancato utile, viene escluso il danno relativo alle spese
subite, in quanto nelle pubbliche gare di appalto
all’aggiudicatario non viene riconosciuto il rimborso delle
spese sostenute per la gara, implicitamente assorbite dal
compenso per l’esecuzione dell’appalto.
E, invero, nella somma liquidata a titolo di ristoro
dell’utile di impresa perduto, è già ricompresa la
remunerazione del capitale impiegato per la partecipazione
alla gara; si evitano in tal modo ingiustificate
locupletazioni derivanti dalla medesima partita di danno.
Sicché, se in luogo dell’aggiudicazione si consegue il danno
da mancato utile, parallelamente non spetta il danno per le
spese di gara.
Alla ricorrente non può
invece attribuirsi alcuna forma di rimborso delle spese di
partecipazione alla gara.
La giurisprudenza sullo specifico tema ha difatti
recentemente osservato quanto segue: “Nel riconoscimento del
danno da mancata aggiudicazione, se viene attribuito il
ristoro del danno da mancato utile, viene escluso il danno
relativo alle spese subite, in quanto nelle pubbliche gare
di appalto all’aggiudicatario non viene riconosciuto il
rimborso delle spese sostenute per la gara, implicitamente
assorbite dal compenso per l’esecuzione dell’appalto. E,
invero, nella somma liquidata a titolo di ristoro dell’utile
di impresa perduto, è già ricompresa la remunerazione del
capitale impiegato per la partecipazione alla gara; si
evitano in tal modo ingiustificate locupletazioni derivanti
dalla medesima partita di danno (Cons. giust. sic., 22.06.2006 n. 315; Cons. St., sez. V, 13.06.2008 n.
2967). Sicché, se in luogo dell’aggiudicazione si consegue
il danno da mancato utile, parallelamente non spetta il
danno per le spese di gara” (VI, 11.01.2010, n. 20;
nello stesso senso v. anche, ad es., la n. 5168 del
16.09.2011, nonché la n. 3966 del 06.07.2012 della Sezione)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.11.2012 n. 5846 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Nei concorsi a posti di
pubblico impiego, la Commissione esaminatrice deve stabilire
preventivamente ed in astratto i criteri di massima solo in
relazione alla valutazione dei titoli e non anche per la
valutazione delle prove scritte o pratiche, che è rimessa
alla sua discrezionalità tecnica .
L’onere di motivazione circa le valutazioni effettuate di un
esame o delle prove di un concorso pubblico “è
sufficientemente adempiuto con l’attribuzione di un
punteggio numerico, configurandosi quest’ultimo come formula
sintetica, ma eloquente, che esterna la valutazione tecnica
compiuta dalla Commissione esaminatrice”, conformandosi,
citandola, alla prevalente giurisprudenza di questo
Consiglio di Stato.
Se l’onere di motivazione della valutazione delle prove
scritte è sufficientemente adempiuto con il solo punteggio
numerico, un obbligo di motivazione integrativa può invece
sussistere solo laddove la valutazione tecnica investa
giudizi legati all’espressione di nozioni di particolare
complessità, nei quali l’aderenza ai criteri preventivamente
costituiti, la correttezza delle soluzioni e la coerenza
nell’esposizione concettuale si rilevi determinante nella
scelta sulla reciproca prevalenza dei candidati nel senso
della loro idoneità a ricoprire posizioni lavorative di
significativa importanza per l’Amministrazione.
---------------
Il voto numerico attribuito dalla competente commissione
alle prove scritte od orali di un concorso pubblico o di un
esame esprime e sintetizza il giudizio tecnico discrezionale
della commissione stessa e la sindacabilità di tali giudizi,
per tale loro natura, è da considerare potenzialmente
possibile solo in caso di manifesta illogicità od erroneità.
Va tenuto conto, peraltro che, per prevalente giurisprudenza, nei
concorsi a posti di pubblico impiego, la Commissione
esaminatrice deve stabilire preventivamente ed in astratto i
criteri di massima solo in relazione alla valutazione dei
titoli e non anche per la valutazione delle prove scritte o
pratiche, che è rimessa alla sua discrezionalità tecnica
(C.d.S., Sez. IV, 24.7.2003, n. 4238; Sez. V, 11.5.2009, n.
2880).
Il TAR ha poi osservato che l’onere di motivazione circa
le valutazioni effettuate di un esame o delle prove di un
concorso pubblico “è sufficientemente adempiuto con
l’attribuzione di un punteggio numerico, configurandosi
quest’ultimo come formula sintetica, ma eloquente, che
esterna la valutazione tecnica compiuta dalla Commissione
esaminatrice”, conformandosi, citandola, alla prevalente
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (C.d.S., Sez. VI,
10.12.2010, n. 8694).
Se l’onere di motivazione della valutazione delle prove
scritte è sufficientemente adempiuto con il solo punteggio
numerico, un obbligo di motivazione integrativa può invece
sussistere solo laddove la valutazione tecnica investa
giudizi legati all’espressione di nozioni di particolare
complessità, nei quali l’aderenza ai criteri preventivamente
costituiti, la correttezza delle soluzioni e la coerenza
nell’esposizione concettuale si rilevi determinante nella
scelta sulla reciproca prevalenza dei candidati nel senso
della loro idoneità a ricoprire posizioni lavorative di
significativa importanza per l’Amministrazione.
---------------
Va premesso sul punto che
il voto numerico attribuito dalla competente commissione
alle prove scritte od orali di un concorso pubblico o di un
esame esprime e sintetizza il giudizio tecnico discrezionale
della commissione stessa e la sindacabilità di tali giudizi,
per tale loro natura, è da considerare potenzialmente
possibile solo in caso di manifesta illogicità od erroneità
(C.d.S., Sez. I, 15.05.2010, n. 5002)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.11.2012 n. 5831 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Se è vero che in generale
i requisiti per la partecipazione ad un concorso per
l’accesso al pubblico impiego debbono essere posseduti dai
concorrenti al momento della scadenza del termine per la
presentazione della domanda…i dipendenti utilmente collocati
in graduatoria debbono continuare a possedere questo status
anche al momento della nomina, dal momento che i requisiti
di partecipazione sono anche requisiti necessari per la
successiva costituzione del rapporto…in particolare, la
formula per cui i requisiti debbono essere posseduti anche
al momento della nomina deve intendersi nel senso che i
requisiti in questione (nella specie la status di dipendente
del Comune di Roma), posseduti al momento dell’ammissione
debbono essere posseduti “fino” alla nomina, non essendo in
altri termini consentite vacanze intermedie nel possesso del
requisito, che va appunto mantenuto senza soluzione di
continuità.
---------------
Nei concorsi a posti di pubblico impiego devono essere
distinti i requisiti di ammissione al concorso da quelli
previsti per la nomina; tra i primi, alcuni requisiti, per
il loro carattere generale, devono sussistere fino alla data
di nomina, (cittadinanza italiana, buona condotta, idoneità
fisica e simili); altri invece, essendo requisiti specifici
per il singolo posto messo a concorso, si differiscono in
relazione ai singoli ordinamenti e “devono essere posseduti
entro il termine di decadenza del bando ai soli fini
dell’ammissione al concorso (età, possesso di una
determinata qualifica o status, di una data anzianità di
sevizio etc.) per cui il variare di questi requisiti, è
irrilevante e non comporta la perdita di un requisito per la
nomina”.
L’interpretazione delle clausole del bando di concorso deve
ispirarsi ai principi dell’affidamento, con la conseguenza
ulteriore che l’atto con il quale l’Amministrazione indice
un procedimento concorsuale deve essere interpretato per ciò
che espressamente dice, restando l’aspirante dispensato da
ogni indagine rivolta a ricostruire attraverso procedure
ermeneutiche ed integrative ulteriori ed inespressi
significati.
Il TAR ha quindi ritenuto che, “se è vero che in generale i requisiti
per la partecipazione ad un concorso per l’accesso al
pubblico impiego debbono essere posseduti dai concorrenti al
momento della scadenza del termine per la presentazione
della domanda…i dipendenti utilmente collocati in
graduatoria debbono continuare a possedere questo status
anche al momento della nomina, dal momento che i requisiti
di partecipazione sono anche requisiti necessari per la
successiva costituzione del rapporto…in particolare, la
formula per cui i requisiti debbono essere posseduti anche
al momento della nomina deve intendersi nel senso che i
requisiti in questione (nella specie la status di dipendente
del Comune di Roma), posseduti al momento dell’ammissione
debbono essere posseduti “fino” alla nomina, non essendo in
altri termini consentite vacanze intermedie nel possesso del
requisito, che va appunto mantenuto senza soluzione di
continuità”.
A sostegno di tale assunto il TAR ha citato, tra le
altre, la sentenza del Consiglio di Stato n. 3169, Sezione IV, del 13.06.2007.
Invero nella sentenza richiamata questo Consiglio di Stato
ha affermato che non può non farsi applicazione del
principio in base al quale i requisiti per la partecipazione
ad un concorso interno, fra i quali l’appartenenza
all’Amministrazione in costanza di rapporto di servizio,
devono sussistere non solo al momento dell’inizio della
procedura, ma anche a quello successivo della sua
conclusione; il che significa che i candidati, anche se
utilmente collocati in graduatoria, non possono comunque
ottenere la nomina ove, nelle more, siano cessati dal
servizio.
Nella sentenza citata, viene evidenziato che, in particolare
per ciò che concerne i concorsi interni, rileva l’interesse
pubblico di potere operare la scelta di vincitori
nell’ambito di una selezione più ristretta, riservata cioè a
coloro che durante il rapporto di impiego abbiano già dato
prova di piena affidabilità, sia sotto l’aspetto della
capacità professionale, sia in relazione all’adempimento di
tutti i doveri d’ufficio, con l’innegabile vantaggio per
l’Amministrazione di poter valorizzare ed utilizzare
esperienze precedentemente acquisite e ciò non sarebbe di
certo possibile nella ipotesi di personale già collocato a
riposo e, dunque, ormai al di fuori dall’Amministrazione
stessa.
---------------
Giova far presente che
nei concorsi a posti di pubblico impiego devono essere
distinti i requisiti di ammissione al concorso da quelli
previsti per la nomina; tra i primi, alcuni requisiti, per
il loro carattere generale, devono sussistere fino alla data
di nomina, (cittadinanza italiana, buona condotta, idoneità
fisica e simili); altri invece, essendo requisiti specifici
per il singolo posto messo a concorso, si differiscono in
relazione ai singoli ordinamenti e “devono essere posseduti
entro il termine di decadenza del bando ai soli fini
dell’ammissione al concorso (età, possesso di una
determinata qualifica o status, di una data anzianità di
sevizio etc.) per cui il variare di questi requisiti, è
irrilevante e non comporta la perdita di un requisito per la
nomina” (Cons. Stato, Comm. Spec., 23.06.1997, n. 388).
Rileva, inoltre, quanto evidenziato dall’appellante
principale circa le effettive prescrizioni del bando di
concorso riservato agli interni, per il conferimento di tre
posti nel profilo di dirigente della Polizia Municipale a
tempo indeterminato.
Sul punto va premesso che l’interpretazione delle clausole
del bando di concorso deve ispirarsi ai principi
dell’affidamento, con la conseguenza ulteriore che l’atto
con il quale l’Amministrazione indice un procedimento
concorsuale deve essere interpretato per ciò che
espressamente dice, restando l’aspirante dispensato da ogni
indagine rivolta a ricostruire attraverso procedure
ermeneutiche ed integrative ulteriori ed inespressi
significati (Consiglio di Stato, Sez. V n. 582 del
30.05.1997; n. 3796 del 14.06.2004)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.11.2012 n. 5828 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Se è vero che la proroga
dei termini fissati dalla dichiarazione di pubblica utilità
deve essere preceduta dalla comunicazione di cui all’art. 7
della legge 07.08.1990, nr. 241, nel caso di specie non vi è
alcuna prova di quale apporto concreto la partecipazione
dell’espropriato avrebbe potuto comportare, e quindi di una
rilevanza non meramente formale dell’omissione.
Inoltre, come risulta dalla stessa tempistica dell’adozione
della determinazione de qua (ultima di una lunga serie di
proroghe e circoscritta a soli sei mesi, evidentemente per
un imprevisto allungamento dei tempi ritenuti ormai maturi
per la conclusione della procedura), l’urgenza
intrinsecamente connessa all’imminente scadenza dei termini
giustificava l’omissione dell’avviso.
Del pari insussistente è l’ulteriore vizio, pure rilevato dal primo
giudice, di omessa notifica agli interessati della
comunicazione di avvio del procedimento culminato
nell’adozione della più volte citata determinazione di
proroga nr. 4442 del 2009.
Infatti, se è vero che per prevalente giurisprudenza la
proroga dei termini fissati dalla dichiarazione di pubblica
utilità deve essere preceduta dalla comunicazione di cui
all’art. 7 della legge 07.08.1990, nr. 241, nel caso di
specie non vi è alcuna prova –anche alla luce dell’assenza
nel presente giudizio di doglianze nel merito delle scelte
relative alla localizzazione e alla realizzazione dell’opera
pubblica– di quale apporto concreto la partecipazione
dell’espropriato avrebbe potuto comportare, e quindi di una
rilevanza non meramente formale dell’omissione (cfr. Cons.
Stato, sez. VI, 17.10.2006, nr. 6194).
Inoltre, come risulta dalla stessa tempistica dell’adozione
della determinazione de qua (ultima di una lunga serie di
proroghe e circoscritta a soli sei mesi, evidentemente per
un imprevisto allungamento dei tempi ritenuti ormai maturi
per la conclusione della procedura), l’urgenza
intrinsecamente connessa all’imminente scadenza dei termini
giustificava l’omissione dell’avviso (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 23.12.2008, nr.
6516) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.11.2012 n. 5822 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sui diversi tipi di censure che un'impresa può
dedurre quando si impugna un provvedimento di esclusione da
una gara ed anche (o poi con motivi aggiunti)
l’aggiudicazione della stessa gara ad un’altra impresa
partecipante.
Si può allora osservare che, quando si impugna un provvedimento di
esclusione da una gara ed anche (o poi con motivi aggiunti)
l’aggiudicazione della stessa gara ad un’altra impresa
partecipante, possono essere dedotte dall’impresa esclusa
diversi tipi di censure.
Tali censure possono riguardare solo l’esclusione dalla gara
ed in tal caso la decisione del giudice amministrativo (su
tale esclusione) determina effetti solo sulla prosecuzione
della gara alla quale può essere stata eventualmente
riammessa l’impresa esclusa.
Le censure possono poi riguardare (anche) la correttezza
della procedura di gara seguita dall’amministrazione. In tal
caso la decisione del giudice amministrativo produce effetti
sulla prosecuzione (o sulla non prosecuzione) della gara.
Le censure possono ancora riguardare (anche) l’ammissione
dell’impresa risultata nelle more eventualmente
aggiudicataria. E, a sua volta, l’aggiudicataria può
sostenere, con ricorso incidentale, che l’impresa già
esclusa (per il motivo contestato) dovesse essere esclusa
anche per altri motivi.
Qualora il giudizio (sull’esclusione dalla gara) si
sia concluso con la dichiarazione della illegittimità di
tale esclusione e l’esclusa sia stata riammessa alla gara
(con la conseguente caducazione degli atti successivi ed
anche del contratto eventualmente sottoscritto), la
procedura di gara deve essere (in parte) rinnovata e si
conclude con una nuova aggiudicazione che può essere
(ovviamente) impugnata da tutte le imprese partecipanti che
hanno interesse e quindi anche dalla impresa che in un primo
momento era stata (illegittimamente) esclusa e poi, dopo la
riammissione, era risultata comunque non aggiudicataria.
L’impresa non aggiudicataria può censurare sia le
valutazioni che hanno condotto all’aggiudicazione della gara
in favore dell’altra impresa, sia sostenere l’erronea
valutazione della propria offerta (tecnica o economica). Può
poi censurare la correttezza della procedura seguita o può
chiedere l’esclusione della impresa aggiudicataria per vizi
riguardanti la sua ammissione alla gara.
Se tuttavia l’impresa non aggiudicataria, come nella
fattispecie in esame, ha già proposto un precedente ricorso
avverso la sua esclusione dalla gara (e la conseguente
aggiudicazione della stessa ad altra impresa), contestando
anche l’ammissione alla gara della aggiudicataria, si deve
ritenere che la non aggiudicataria possa impugnare, a
conclusione della gara, gli atti ulteriori della procedura,
e la nuova aggiudicazione conseguente alla parziale
rinnovazione della gara, per vizi propri delle nuove fasi
del procedimento, ma non possa anche riproporre questioni
che erano state oggetto del precedente giudizio e sulle
quali si è formato il giudicato.
L’impresa che ha già fatto ricorso al giudice
amministrativo che si è pronunciato con una sentenza passata
in giudicato -a differenza delle altre (eventuali) imprese
non aggiudicatarie che possono sollevare nel giudizio
avverso la nuova aggiudicazione qualsiasi motivo (di
carattere sostanziale o procedurale, riguardante anche
l’ammissione alla procedura dell’aggiudicataria)- non può
quindi riproporre nel nuovo giudizio vizi riguardanti la
precedente fase della gara che sono stati oggetto di un
precedente giudizio e sui quali si è formato il giudicato.
Analoghe considerazioni possono essere fatte per l’impresa
che, in quanto aggiudicataria e resistente in un precedente
giudizio, ha proposto in tale giudizio un ricorso
incidentale nei confronti dell’impresa esclusa e ricorrente
contestandone, per altri profili non considerati
dall’amministrazione, i requisiti di ammissione (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 19.11.2012 n. 5820 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La ricostruzione
dell’orientamento giurisprudenziale attualmente prevalente
in ordine all’applicazione dell’art. 38 Codice dei
Contratti.
---------------
IX. L’attuale orientamento giurisprudenziale
sull’art. 38 Cod. contratti.
Parimenti preliminare si rivela la ricostruzione
dell’orientamento giurisprudenziale attualmente prevalente
in ordine all’applicazione dell’art. 38 Codice dei
Contratti.
Orbene, i principali punti di approdo del non sempre lineare
percorso ermeneutico compiuto, in materia, dal giudice
amministrativo di I e II grado risultano, allo stato, i
seguenti.
IX.1 Il carattere inderogabile e di ordine pubblico
dell’art. 38.
Secondo Consiglio di Stato, sez. V, 20.04.2012, n. 2319,
la necessità di produrre la dichiarazione in ordine ai
requisiti di cui all’art 38 Cod. contr. <<trova fonte in
norma inderogabile dell'ordinamento, con la conseguenza che,
qualora la dichiarazione sia omessa o sia incompleta, è del
tutto legittima l'esclusione dalla gara del soggetto che non
ha reso le dovute dichiarazioni (per tutte, cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 01.04.2011, n. 2068; sez. V, 21.11.2011, n. 6136; 21.10.2011, n. 5638; 24.03.2011, n.
1782; 25.01.2011, n. 513).>>; la medesima Sezione V
ribadisce di lì a poco (10.05.2012, n. 2702) il
carattere di ordine pubblico delle disposizioni di cui
all’art. 38;
IX.2 La conseguente impossibilità di integrazione postuma
dell’omissione della dichiarazione del pregiudizio penale e
l’ulteriore conseguenza dell’esclusione dalla gara.
La sentenza Cons. Stato n. 2319/2012 prosegue, poi,
affermando che <<la omissione della dichiarazione del
pregiudizio penale, peraltro insuscettibile di integrazione
postuma, in quanto prevista da norma imperativa, attesa la
sua funzione di consentire all'amministrazione di verificare
ex ante il possesso dei requisiti di moralità richiesti,
nonché per il rispetto della par condicio dei concorrenti,
comporta l'esclusione dalla gara dell'impresa che non abbia
reso la dichiarazione.>>; la ratio dell’insuscettibilità di
integrazione postuma -neppure attraverso il potere di
soccorso ex art. 46, comma 1, del Codice contratti- era stata
chiarita già da TAR Piemonte, sez. I, 05.10.2011, n.
1060, secondo cui «è illegittima la mancata esclusione di
una ditta che aveva omesso di presentare la dichiarazione ex
art. 38 D.Lgs. n. 163/2006, relativa a un membro del
consiglio di amministrazione investito, in ossequio a
previsioni statutarie, di poteri di rappresentanza della
società; infatti, in casi del genere, non si può sopperire
alla carenza documentale mediante richiesta di chiarimenti,
in esercizio del potere di cui all’art. 46 del codice dei
contratti, né tantomeno la fattispecie può essere inquadrata
negli schemi del cd. ‘‘falso innocuo’’, dal momento che la
rilevanza esimente della ‘‘innocuità’’ presuppone
l’indefettibile esistenza, a monte, di una dichiarazione
che, proprio perché dotata di un puntuale contenuto, si
presta astrattamente, per le sue lacune, a essere
considerata ‘‘falsa’’, mentre, nel caso in esame, la
dichiarazione ex art. 38 dell’amministratore è stata
totalmente omessa»;
IX.3. L’inapplicabilità alla specifica materia degli appalti
pubblici della teorica penalistica del falso innocuo e
l’esclusione del c.d. potere di soccorso.
La recente sentenza Cons. Stato, Sez. III, 16.03.2012, n.
1471 ha esaminato ancor più analiticamente il profilo del
c.d. falso innocuo, affermando perentoriamente al Capo 6 che
la tesi del falso innocuo non può trovare applicazione nella
specifica materia degli appalti pubblici.
Gli snodi argomentativi della pronuncia sono i seguenti:
• al capo 6.1., viene richiamata giurisprudenza della
Cassazione Penale e soprattutto Cass. S.U. penali 27.11.2008 n. 6591, che hanno escluso la possibilità di
applicare la categoria del falso innocuo al reato di cui
all'art. 95 D.P.R. n. 115 del 2002, che punisce le falsità o
le omissioni nelle dichiarazioni e nelle comunicazioni per
l'attestazione delle condizioni di reddito in vista
dall'ammissione al patrocinio a spese dello Stato “…
indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle
condizioni previste per l'ammissione al beneficio”.
Le S.U. penali hanno affermato la rilevanza penale del falso
compiuto da chi si trovava effettivamente nelle condizioni
per accedere al beneficio del patrocinio a spese dello
Stato, perché bisogna avere riguardo alla funzione che
l'atto svolge per l'ordinamento giuridico (porre subito
nelle condizioni il decidente di ammettere o meno al
gratuito patrocinio). Donde la necessità di una compiuta ed
affidabile informazione del destinatario che, a fronte della
complessità del tenore dell'istanza cui è speculare la
valutazione da svolgere, ha urgenza di decidere.
• capo 6.2. Inoltre, a giudizio del Collegio, il falso è
innocuo quando non incide neppure minimamente sugli
interessi tutelati.
Nelle procedure di evidenza pubblica la completezza delle
dichiarazioni, invece, è già di per sé un valore da
perseguire perché consente -anche in ossequio al principio
di buon andamento dell'amministrazione e di proporzionalità- la celere decisione in ordine all'ammissione
dell'operatore economico alla gara. Conseguentemente una
dichiarazione inaffidabile (perché falsa o incompleta) è già
di per sé stessa lesiva degli interessi considerati dalla
norma a prescindere dal fatto che l'impresa meriti
'sostanzialmente' di partecipare alla gara. In altri
termini, nel diritto degli appalti occorre poter fare
affidamento su una dichiarazione idonea a far assumere
tempestivamente alla stazione appaltante le necessarie
determinazioni in ordine all'ammissione dell'operatore
economico alla gara o alla sua esclusione. La dichiarazione
ex articolo 38, dunque, è sempre utile perché
l'amministrazione sulla base di quella può/deve decidere la
legittima ammissione alla gara e conseguentemente la sua
difformità dal vero o la sua incompletezza non possono
essere "sanate" ricorrendo alla categoria del falso innocuo.
• capo 6.4. Infine, il Giudice amministrativo d’appello fa
leva sulle modifiche apportate dal legislatore all'articolo
38, comma 2, Cod. Appalti, osservando che l'intenzione del
legislatore, con riferimento alle condanne penali, è stata
quella di indicare ai partecipanti ciò che deve essere
dichiarato e ciò che può non essere dichiarato proprio
muovendo, a giudizio del Collegio, dalla necessità di
presentare dichiarazioni complete e fedeli.
• ai capi 7 e 7.3, esclude che si possa fare applicazione
del c.d. “potere di soccorso”, perché -se è vero, per un
verso, che il legislatore ha introdotto il comma 1-bis
all'articolo 46 Codice Contratti rendendo esplicito
l'intento di ampliare il campo di operatività del "soccorso"
e riducendo le ipotesi di esclusione dalla gara- per altro
verso, per la dottrina, non ogni mancanza potrà essere
regolarizzata soprattutto nel caso in cui ciò dovesse
tradursi in un'alterazione della regola della par condicio.
La novella non vale ad evitare l'esclusione del partecipante
che non abbia adempiuto all'obbligo di legge di rendere le
dovute dichiarazioni ex articolo 38 Codice Appalti dovendosi
intendere la norma di legge nel senso che l'esclusione dalla
gara può essere disposta sia nel caso in cui la legge o il
regolamento la comminino espressamente, sia nell'ipotesi in
cui la legge imponga "adempimenti doverosi" o introduca,
come nel caso di specie, "norme di divieto", pur senza
prevedere espressamente l'esclusione. In altri termini
l'incompletezza o la falsità delle dichiarazioni prescritte
dall'articolo 38, comma 1 e 2, e l'omessa osservanza degli
adempimenti prescritti dalla legge determinano, per il
chiaro tenore della legge, l'esclusione dell'operatore
economico e dunque nessuno spazio può avere il dovere di
soccorso.
A distanza di un paio di mesi, altrettanto decisa è la Sez.
V del Consiglio di Stato (22.05.2012, n. 2946)
nell’asserire che il cd. falso innocuo non ha cittadinanza
nel sistema degli appalti pubblici.
Ugualmente netta è la sentenza, pubblicata il giorno
successivo, con cui TAR Sardegna, sez. I,
23.05.2012, n. 508, esclude l’applicabilità, in subiecta
materia, sia del principio del "falso innocuo", sia del
principio del "dovere di soccorso".
IX.4. I soggetti tenuti ex lege alla dichiarazione: in
particolare, gli amministratori con potere di rappresentanza
della società.
Secondo il Consiglio di Stato (Sez. VI, sent. n. 178 del
18-01-2012; Sez. III, sent. n. 5018 del 06-09-2011 e Sez. IV,
sent. n. 2066 dell’01-04-2011), il primo criterio da seguire
per l'individuazione dei soggetti obbligati alla
dichiarazione ex art. 38 d.lgs. n. 163/2006 è costituito
dalla riconoscibilità ed ufficialità del potere della
persona fisica di trasferire direttamente, al soggetto
rappresentato, gli effetti del proprio operare e di
trasmettere quindi al soggetto rappresentato la riprovazione
dell'ordinamento nei riguardi della sua personale condotta.
Ne discende (Cons. Stato Sez. IV, 04.07.2012, n. 3925)
che a essere tenuti alle dichiarazioni di cui all'art. 38 D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 sono soltanto “i soggetti
titolari di ampi e generali poteri di amministrazione”, per
cui, a tal fine, occorre aver riguardo ai poteri effettivi
conferiti a ciascun amministratore e alla loro ampiezza, in
quanto si estrinsechino sull'organizzazione complessiva
dell'apparato organizzativo societario, nei suoi riflessi
operativi esterni.
Secondo tale criterio, l'obbligo dichiarativo vale anche nei
confronti del soggetto che esercita la rappresentanza in via
vicaria (Cons. Stato, sez. VI, 25.05.2010, n. 3325 e Sez.
V, 23.06.2010, n. 3972), cioè quando lo statuto della società
prevede che il Vice Presidente sostituisce il Presidente nei
casi di sua assenza o impedimento (CdS, Sez. III, n.
447/2012); non assume, infatti, alcun rilievo che i poteri
di rappresentanza possano essere esercitati solo in funzione
vicaria, ma ciò che conta è la titolarità del potere,
laddove lo stesso statuto abiliti il soggetto a sostituire,
in qualsiasi momento e per qualsiasi atto, il titolare
principale della rappresentanza senza intermediazione di
autorizzazione o di investitura (Cons. Stato Sez. V,
21-06-2012, n. 3658).
Anzi, TAR Sardegna, Sez. I, 20.03.2012, n. 295
attribuisce l’onere dichiarativo anche alla sola carica in
quanto tale di Vice-Presidente ed anche se lo Statuto
attribuisca espressamente al solo Presidente i poteri di
rappresentanza, ritenendo insita nella stessa natura vicaria
della vicepresidenza la possibilità di esercizio dei poteri
di rappresentanza della società in caso di temporanea
assenza o impedimento del titolare.
A ribadire che rileva la titolarità del potere e non anche
il suo esercizio è, in altro passo, la citata pronuncia
della Sez. III del Consiglio di Stato n. 1471/2012, secondo
cui gli amministratori muniti di potere di rappresentanza
devono necessariamente rendere la dichiarazione richiesta
dalla legge a prescindere dal fatto, peraltro di difficile
(e dubbia) prova, che nella sostanza non svolgano attività.
Ancora, secondo Sez. VI n. 1843/2012 (che richiama per
tutte, sul punto, Cons. Stato, sez. V, 07.10.2009, n.
6114), <<l'obbligo di dichiarare l'assenza del c.d.
"pregiudizio penale" concerne tutti i soggetti, in atto
muniti dei poteri di rappresentanza, anche institoria o
vicaria … indipendentemente dalla circostanza che non
abbiano materialmente speso i loro poteri nella specifica
gara.>>.
Nello stesso senso è Cons. Stato n. 2319/2012, nonché la
posizione dell’Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici, la quale -nella determinazione n. 1 del 16.05.2012- ha affermato che gli amministratori muniti di potere
di rappresentanza devono necessariamente rendere la
dichiarazione richiesta dall’art. 38 codice, a prescindere
dal fatto che nella sostanza svolgano o meno tale attività.
E’, infatti, anche sulla scorta della formula di legge
("muniti"), che la giurisprudenza (cfr. C.d.S., Sez. III,
31.08.2011, n. 4892) ritiene che ciò che conta è la
titolarità del potere e non anche il suo esercizio.
In definitiva, la dichiarazione di onorabilità risulta
circoscritta agli amministratori dotati di poteri di
rappresentanza, tenuto conto che, ai sensi dell’art.
2380-bis c.c., la gestione dell’impresa spetta
esclusivamente agli amministratori (TAR Veneto, sez. I, 04.04.2011, n. 557) e può essere concentrata in un unico
soggetto (amministratore unico) o affidata a più persone,
che sono i componenti del consiglio di amministrazione (in
caso di scelta del sistema monistico ex artt. 2380 e
2409-sexiesdecies c.c.) o del consiglio di gestione (in caso
di opzione in favore del sistema dualistico ex artt. 2380 e
2409-octies c.c.): a essi, o a taluno tra essi, spetta la
rappresentanza istituzionale della società (così: Cons.
Stato, sez. V, 25.01.2011, n. 513 e 24.03.2011, n.
1782).
L’art. 38, in buona sostanza, richiede la compresenza della
qualifica di amministratore e del potere di rappresentanza
(Cons. Stato, sez. V, 21.10.2011, n. 5638).
IX.5. Il valore della “formale carica rivestita” e
l’irrilevanza delle deleghe interne.
Ciò che conta è, infatti, la “formale carica rivestita” alla
quale è per legge istituzionalmente connesso il possesso di
poteri rappresentativi (cfr. TAR Friuli V.G. 10.05.2012, n. 168); ovvero l’astratta attribuzione della carica e
non l’effettivo svolgimento della funzione (TAR Sicilia,
sez. III, 19.01.2012, n. 136; Cons. Stato, sez. III, 30.01.2012, n. 447); ovvero ancora l’astratta titolarità
del potere di rappresentanza (TAR Veneto, sez. I, 26.01.2012, n. 73): senza che possa avere rilevanza alcuna
l'eventuale ripartizione interna di compiti e deleghe,
mentre solo per altri soggetti -quali procuratori o
institori- può porsi il problema della verifica in concreto
del possesso di siffatti poteri: infatti, ancora Cons.
Stato Sez. III, 16-03-2012, n. 1471 ha ritenuto illegittima,
ex art. 38 d.lg. 12.04.2006 n. 163, l'ammissione alla
gara d'appalto dell'impresa che non abbia presentato in
allegato alla domanda di ammissione la dichiarazione di
assenza di pregiudizi penali in capo a tutti gli
amministratori muniti del potere di rappresentanza, per essi
intendendosi tutti i soggetti che rivestano cariche
societarie ai quali per legge sono istituzionalmente
connessi poteri rappresentativi, senza che abbia rilevanza
l'eventuale ripartizione interna di compiti e deleghe.
Questi i relativi passaggi motivazionali:
- capo 2. “Prescindendo in questa sede dalla dibattuta
questione circa la necessità di richiedere la dichiarazione
di cui all'articolo 38 ora citato anche ai procuratori
speciali muniti di potere di rappresentanza, va rilevato che
la giurisprudenza del Consiglio di Stato è ferma
nell'interpretare la norma in questione, peraltro in piena
sintonia con il dato legislativo, nel senso che coloro i
quali rivestono cariche societarie, alle quali è per legge
istituzionalmente connesso il possesso di poteri
rappresentativi, sono in ogni caso tenuti a rendere la
dichiarazione de qua, senza che possa avere rilevanza alcuna
l'eventuale ripartizione interna di compiti e deleghe,
mentre solo per altri soggetti, quali procuratori o
institori, può porsi il problema della verifica in concreto
del possesso di siffatti poteri (Cons. St., IV, 03.12.2010 n. 8535)”;
- capo 4.2. “A giudizio del Collegio, in applicazione del
chiaro disposto dell'articolo 38 Codice Contratti, gli
amministratori muniti di potere di rappresentanza devono
necessariamente rendere la dichiarazione richiesta dalla
legge a prescindere dal fatto, peraltro di difficile (e
dubbia) prova, che nella sostanza non svolgano attività.
Occorre ora aggiungere che il riferimento ai poteri
sostanziali è stato utilizzato da parte della
giurisprudenza, non già per restringere - come vorrebbe
l'appellante - il novero dei soggetti chiamati a rendere la
dichiarazione ma, al contrario, per ampliarlo anche a coloro
che, pur non rivestendo formalmente la carica di
amministratore, sono investiti di sostanziali poteri di
rappresentanza; in tale ultima direzione si muove anche la
sentenza 16..11.2010 n. 8059 del Consiglio di Stato
(…)”:
- 4.5. ultimo periodo: “In terzo luogo non può accogliersi
la tesi dell'appellante per cui sarebbe stato "falso"
"...dichiarare che Carrato al momento della presentazione
della domanda di partecipazione aveva poteri di
rappresentanza generale della società..." perché, come già
detto, non v'è dubbio che per legge le dichiarazioni di cui
all'articolo 38 Cod. Appalti devono certamente essere rese
da chi risulta all'esterno avere poteri di rappresentanza”.
IX.6. In particolare: la necessità della dichiarazione sia
del Presidente, sia dell’Amministratore delegato.
In sintonia con le coordinate ermeneutiche da ultimo
riportate e in riferimento a una fattispecie concernente le
medesime figure (Presidente e Amministratore delegato) che
vengono in rilievo nella presente controversia, TAR
Molise 11.02.2009, n. 19 ha ritenuto che:
- qualora, al momento della partecipazione alla gara, i
poteri di rappresentanza di una Società sussistano in capo
sia al Presidente del Consiglio di Amministrazione (munito
di ampi poteri, legale rappresentante della società) sia
all’Amministratore delegato (con poteri delegati dal
Consiglio di amministrazione, la suddetta società è tenuta
comprovare i requisiti prescritti dall'art. 38 con apposita
dichiarazione sostitutiva tanto del Presidente del Consiglio
di amministrazione, quanto dell'Amministratore delegato;
- per cui, se invece tale dichiarazione è stata resa
soltanto dall'Amministratore delegato, ne deriva
l’insufficienza della stessa e la conseguente, automatica
esclusione della ditta dalla gara.
IX.7. In ogni caso: la necessaria indicazione nominativa di
Presidente e Vice-Presidente, ove la dichiarazione non sia
dagli stessi sottoscritta.
In ulteriore sintonia con le medesime coordinate
interpretative, la giurisprudenza giunge ad ammettere che la
dichiarazione ex art. 38 possa anche non essere sottoscritta
da Presidente e Vice Presidnete della Società, ma in tal
caso esige che i rispettivi nominativi figurino
espressamente nella dichiarazione resa da altro soggetto
abilitato.
Si vedano, in tal senso, le sentenze del Consiglio di Stato
citate dalla ricorrente nel ricorso introduttivo (n.
3069/2011), nella memoria conclusionale 21.09.2012
(n. 6053/2011) e in quella di replica 28.09.2012 (n.
1516/2012 e n. 5385/2011); nonché le seguenti:
- Consiglio di Stato, sez. VI, 20.06.2012, n. 3590 che,
richiamando precedenti di altra Sezione (sez. V, 15.10.2010, n. 7524; idem, 27.01.2009, n. 521, ord.),
riafferma (capo 6.4.) il principio per cui l'obbligo della
dichiarazione può ritenersi assolto dal legale
rappresentante dell'impresa, con la specifica indicazione
degli altri soggetti in carica, muniti di rappresentanza,
immuni dai c.d. "pregiudizi penali";
- Consiglio di Stato, sez. V, 14.02.2012, n. 725, secondo
cui -dovendo essere consentito alla stazione appaltante di
verificare autonomamente la presenza di cause di esclusione-
il concorrente è conseguentemente obbligato a dichiarare i
nominativi dei soggetti elencati all'art. 38 (anche cessati
dalla carica)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 19.11.2012 n. 1814 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Nell'attuale
sistema normativo, l'obbligo di bonifica dei siti inquinati
grava, in primo luogo, sull'effettivo responsabile
dell'inquinamento stesso, mentre la mera qualifica di
proprietario o detentore del terreno inquinato non implica
di per sé l'obbligo di effettuarne la relativa bonifica.
In tal senso disponevano già il D.Lgs. 22/1997 (c.d. decreto
"Ronchi") ed il DM 471/1999 ed allo stesso modo era
orientata la giurisprudenza.
La fattispecie del mero abbandono o deposito di rifiuto -che
coinvolge anche i proprietari delle aree- va distinta da una
situazione di vero e proprio inquinamento di un determinato
sito, che è invece disciplinata dall'art. 17 dello stesso
Decreto Legislativo -seguito dal Regolamento Attuativo di
cui al D.M. 25.10.1999 n. 471- che disciplina la messa in
sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale dei siti
inquinati, ponendone l'obbligo a carico dei responsabili
dell'inquinamento (comma 2); demandando al Comune (comma 9),
ove i responsabili non provvedano o non siano individuabili,
la realizzazione d'ufficio dei relativi interventi; e
disponendo che detti interventi costituiscano onere reale
sulle aree inquinate (comma 10), con relativa spesa è
assistita da privilegio speciale immobiliare sulle aree
stesse oltre che da privilegio generale mobiliare (comma
11).
Il suindicato assetto normativo sul dovere di bonifica è
stato confermato dal vigente D.Lgs. 03.04.2006 n. 152, che
pone l'obbligo di bonifica in capo al responsabile
dell'inquinamento, che le Autorità amministrative hanno
l'onere di ricercare ed individuare (artt. 242 e 244 D.Lgs.
152/2006), mentre il proprietario non responsabile
dell'inquinamento o altri soggetti interessati hanno una
mera "facoltà" di effettuare interventi di bonifica (art.
245); nel caso di mancata individuazione del responsabile o
di assenza di interventi volontari, le opere di bonifica
saranno realizzate dalle Amministrazioni competenti (art.
250), salvo, a fronte delle spese da esse sostenute,
l'esistenza di un privilegio speciale immobiliare sul fondo,
a tutela del credito per la bonifica e la qualificazione
degli interventi relativi come onere reale sul fondo stesso,
onere destinato pertanto a trasmettersi unitamente alla
proprietà del terreno (art. 253).
---------------
Ferma la doverosità degli accertamenti indirizzati ad
individuare con specifici elementi i responsabili dei fatti
di contaminazione, l'imputabilità dell'inquinamento può
avvenire per condotte attive ma anche per condotte omissive,
e che la prova può essere data in via diretta od indiretta,
ossia mediante "presunzioni semplici", ai sensi dell'art.
2727 c.c. (le presunzioni sono le conseguenze che la legge o
il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto
ignorato), prendendo in considerazione elementi di fatto dai
quali possano trarsi indizi gravi precisi e concordanti, che
inducano a ritenere verosimile, secondo l'"id quod plerumque
accidit", che sia verificato un inquinamento e che questo
sia attribuibile a determinati autori.
Ai sensi dell'art. 2729 del cod. civ. "le presunzioni non
stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del
giudice il quale non deve ammettere che presunzioni gravi,
precise e concordanti."
Orbene tale norma -che spiega il proprio effetto diretto nel
giudizio civile- pone un principio generale, che consente
alla pubblica amministrazione, specie quando deve svolgere
complesse attività di indagine su fatti che non sono a sua
diretta conoscenza ma che, per essere illeciti, sono
conosciuti dai privati, il ricorso alla prova logica, alle
presunzioni semplici, ad indizi gravi precisi e concordanti
per la prova di determinati fatti.
---------------
In tema di abbandono di rifiuti, la giurisprudenza
amministrativa, già con riferimento alla misura
reintegratoria prevista e disciplinata dall'art. 14 del
D.lgs. n. 22/1997 (c.d. "DecretoRonchi"), ha statuito che il
proprietario dell'area sia tenuto a provvedere allo
smaltimento solo a condizione che ne venga dimostrata almeno
la corresponsabilità con gli autori dell'illecito abbandono
di rifiuti, per aver posto in essere un comportamento,
omissivo o commissivo, a titolo doloso o colposo.
In particolare, viene affermata l'illegittimità degli ordini
di smaltimento di rifiuti indiscriminatamente rivolti al
proprietario di un fondo in ragione della sua sola qualità,
ma in mancanza di adeguata dimostrazione da parte
dell'amministrazione procedente, sulla base di
un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione
(quand'anche fondata su ragionevoli presunzioni o su
condivisibili massime d'esperienza), dell'imputabilità
soggettiva della condotta.
I suddetti principi "a fortiori" si attagliano al disposto
di cui all'art. 192 del D.lgs. n. 152/2006, dal momento che
siffatta disposizione legislativa non soltanto riproduce il
tenore dell'abrogato art. 14 del D.lgs. n. 22/1997, con
riferimento alla necessaria imputabilità a titolo di dolo o
colpa, ma, in più, integra il precedente precetto,
precisando che l'ordine di rimozione può essere adottato
esclusivamente "in base agli accertamenti effettuati, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti
preposti al controllo".
Nell'attuale sistema normativo, l'obbligo
di bonifica dei siti inquinati grava, in primo luogo,
sull'effettivo responsabile dell'inquinamento stesso, mentre
la mera qualifica di proprietario o detentore del terreno
inquinato non implica di per sé l'obbligo di effettuarne la
relativa bonifica.
In tal senso disponevano già il D.Lgs. 22/1997 (c.d.
decreto "Ronchi") ed il DM 471/1999 ed allo stesso modo era
orientata la giurisprudenza (ex plurimis: TAR Lombardia,
Milano, sez. I, 08.11.2004, n. 5681, per la quale l'ordine di
bonifica può essere posto a carico dei proprietari solo se
responsabili o corresponsabili dell'illecito abbandono; TAR
Lombardia, Milano, Sez. IV, 07.09.2007 n. 5782 e 18.12.2007,
n. 6684 ; Cons. Stato, Sez. VI 05.09.2005 n. 4525).
La fattispecie del mero abbandono o deposito di rifiuto -che
coinvolge anche i proprietari delle aree- va distinta da
una situazione di vero e proprio inquinamento di un
determinato sito, che è invece disciplinata dall'art. 17
dello stesso Decreto Legislativo -seguito dal Regolamento
Attuativo di cui al D.M. 25.10.1999 n. 471- che
disciplina la messa in sicurezza, la bonifica e il
ripristino ambientale dei siti inquinati, ponendone
l'obbligo a carico dei responsabili dell'inquinamento (comma
2); demandando al Comune (comma 9), ove i responsabili non
provvedano o non siano individuabili, la realizzazione
d'ufficio dei relativi interventi; e disponendo che detti
interventi costituiscano onere reale sulle aree inquinate
(comma 10), con relativa spesa è assistita da privilegio
speciale immobiliare sulle aree stesse oltre che da
privilegio generale mobiliare (comma 11).
Il suindicato assetto normativo sul dovere di bonifica è
stato confermato dal vigente D.Lgs. 03.04.2006 n. 152, che
pone l'obbligo di bonifica in capo al responsabile
dell'inquinamento, che le Autorità amministrative hanno
l'onere di ricercare ed individuare (artt. 242 e 244 D.Lgs.
152/2006), mentre il proprietario non responsabile
dell'inquinamento o altri soggetti interessati hanno una
mera "facoltà" di effettuare interventi di bonifica (art.
245); nel caso di mancata individuazione del responsabile o
di assenza di interventi volontari, le opere di bonifica
saranno realizzate dalle Amministrazioni competenti (art.
250), salvo, a fronte delle spese da esse sostenute,
l'esistenza di un privilegio speciale immobiliare sul fondo,
a tutela del credito per la bonifica e la qualificazione
degli interventi relativi come onere reale sul fondo stesso,
onere destinato pertanto a trasmettersi unitamente alla
proprietà del terreno (art. 253).
Il complesso di questa disciplina, conforme al diritto
comunitario, appare ispirata al cosiddetto principio del
"chi inquina paga", da intendersi in senso sostanzialistico,
secondo il principio di effettività come criterio guida
nell'interpretazione del diritto comunitario ambientale,
sancito con sent. della Corte di Giustizia Ce 15.06.2000
(in causa Arco).
Detto principio del "chi inquina paga" consiste, in
definitiva, nell'imputazione dei costi ambientali (c.d. ovvero
costi sociali estranei alla contabilità ordinaria
dell'impresa) al soggetto che ha causato la compromissione
ecologica illecita (poiché esiste una compromissione
ecologica lecita data dall'attività di trasformazione
industriale dell'ambiente che non supera gli standards
legali).
Ciò, sia nel quadro di una logica risarcitoria ex "post
factum", che nel quadro di una logica preventiva dei fatti
dannosi, poiché il principio esprime anche il tentativo di internalizzare detti costi sociali e di incentivare -per
effetto del calcolo dei rischi di impresa- la loro
generalizzata incorporazione nei prezzi delle merci, e,
quindi, nelle dinamiche di mercato dei costi di alterazione
dell'ambiente (con conseguente minor prezzo delle merci
prodotte senza incorrere nei predetti costi sociali
attribuibili alle imprese e conseguente indiretta
incentivazione per le imprese a non danneggiare l'ambiente).
Esso trova molteplici significative applicazioni nel campo
della disciplina dei rifiuti e del danno ambientale.
Con specifico riguardo alla contaminazione dei siti, pare
rilevante quanto stabilito dalla Direttiva del Parlamento
europeo e del Consiglio del 21.04.2004, "sulla
responsabilità ambientale in materia di prevenzione e
riparazione del danno ambientale". Anche tale Direttiva è
conformata dal principio "chi inquina paga", per cui
l'operatore che provoca un danno ambientale o è all'origine
di una minaccia imminente di tale danno, dovrebbe, di
massima, sostenere il costo delle necessarie misure di
prevenzione o di riparazione. Quando l'autorità competente
interviene direttamente o tramite terzi al posto di un
operatore, detta autorità dovrebbe far sì che il costo da
essa sostenuto sia a carico dell'operatore. È inoltre
opportuno che gli operatori sostengano in via definitiva il
costo della valutazione del danno ambientale ed
eventualmente della valutazione della minaccia imminente di
tale danno.
La Direttiva non si applica al danno di carattere diffuso se
non in presenza di un nesso causale tra il danno e
l'attività di singoli operatori.
Va quindi precisato, alla luce di tale esigenza di
effettività della protezione dell'ambiente, che, ferma la
doverosità degli accertamenti indirizzati ad individuare con
specifici elementi i responsabili dei fatti di
contaminazione, l'imputabilità dell'inquinamento può
avvenire per condotte attive ma anche per condotte omissive,
e che la prova può essere data in via diretta od indiretta,
ossia mediante "presunzioni semplici", ai sensi dell'art.
2727 c.c. (le presunzioni sono le conseguenze che la legge o
il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto
ignorato), prendendo in considerazione elementi di fatto dai
quali possano trarsi indizi gravi precisi e concordanti, che
inducano a ritenere verosimile, secondo l'"id quod plerumque
accidit", che sia verificato un inquinamento e che questo
sia attribuibile a determinati autori.
Ai sensi dell'art. 2729 del cod. civ. "le presunzioni non
stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del
giudice il quale non deve ammettere che presunzioni gravi,
precise e concordanti."
Orbene tale norma -che spiega il proprio effetto diretto
nel giudizio civile- pone un principio generale, che
consente alla pubblica amministrazione , specie quando deve
svolgere complesse attività di indagine su fatti che non
sono a sua diretta conoscenza ma che, per essere illeciti,
sono conosciuti dai privati, il ricorso alla prova logica,
alle presunzioni semplici, ad indizi gravi precisi e
concordanti per la prova di determinati fatti (per
un'applicazione del principio in materia di accertamenti di
illeciti anticoncorrenziali: cfr. Cons. Stato, Sez. VI
29.02.2008 n. 760; per un'applicazione in tema di urbanistica
ai sensi dell'art. 18 della legge 28.02.1985, n. 47: Cons.
Stato, Sez. V, 13.09.1991, n. 1157).
Né il difetto della prova testimoniale nel processo
amministrativo (arg. ex art. 2729 comma 2 cod. civ. )
esclude la possibilità per la pubblica amministrazione di
ricorrere a presunzioni semplici, poiché il canone
costituzionale dell'imparzialità della pubblica
amministrazione e la previsione del sindacato
giurisdizionale sugli atti della medesima (artt. 97 e 113
Cost.) nonché delle preventive garanzie procedimentali
(artt. 3 e 7 della legge n. 241 del 1990) sono sufficienti
per ritenere che vi sia un sistema equilibrato di pesi e
contrappesi, nel riconoscimento del potere (sindacabile)
della p.a. di ricostruzione dei fatti rilevanti ai fini
dell'adozione di provvedimenti amministrativi sfavorevoli ai
privati , anche a mezzo di presunzioni semplici ove ciò sia
imposto dalla natura degli accertamenti da espletare.
Va rilevato che il potere è attivabile anche a fronte di una
situazione di mero pericolo di inquinamento come imposto dal
principio comunitario di precauzione come enunciato sin
dalla Conferenza di Rio del 2004 (secondo l'art. 15 del
documento conclusivo della Conferenza “in caso di rischi di
danni gravi o irreversibili, l'assenza di certezza
scientifiche non deve servire come pretesto per rinviare
l'adozione di misure efficaci volte a prevenire il degrado
dell'ambiente”) e dal principio di doverosa prevenzione dei
danni.
L'art. 14, 3° comma, del D.Lgs. n. 22 del 1997,
dispone: "fatta salva l'applicazione delle sanzioni di cui
agli articoli 50 e 51, chiunque viola i divieti di cui ai
commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a
recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino
dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i
titolari di diritti reali o personali di godimento
sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo
di dolo o colpa. Il sindaco dispone con ordinanza le
operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui
provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno
dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme
anticipate".
Al comma 1 del medesimo articolo, invece, si stabilisce, in
termini più generali, che "l'abbandono e il deposito
incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono
vietati".
L'esegesi della norma è tracciata da Cons. Stato, Sez. V, 25.08.2008, n. 4061, la quale, ha precisato che, in tema di
abbandono di rifiuti, la giurisprudenza amministrativa, già
con riferimento alla misura reintegratoria prevista e
disciplinata dall'art. 14 del D.lgs. n. 22/1997 (c.d. "DecretoRonchi"),
ha statuito che il proprietario dell'area sia tenuto a
provvedere allo smaltimento solo a condizione che ne venga
dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori
dell'illecito abbandono di rifiuti, per aver posto in essere
un comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o
colposo (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. V, 25.1.2005 n.136),
escludendo, conseguentemente, che la norma configurasse
un'ipotesi legale di responsabilità oggettiva (vieppiù, per
fatto altrui).
In particolare, viene affermata l'illegittimità degli ordini
di smaltimento di rifiuti indiscriminatamente rivolti al
proprietario di un fondo in ragione della sua sola qualità,
ma in mancanza di adeguata dimostrazione da parte
dell'amministrazione procedente, sulla base di
un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione
(quand'anche fondata su ragionevoli presunzioni o su
condivisibili massime d'esperienza), dell'imputabilità
soggettiva della condotta.
I suddetti principi "a fortiori" si attagliano al
disposto di cui all'art. 192 del D.lgs. n. 152/2006, dal
momento che siffatta disposizione legislativa non soltanto
riproduce il tenore dell'abrogato art. 14 del D.lgs. n.
22/1997, con riferimento alla necessaria imputabilità a
titolo di dolo o colpa, ma, in più, integra il precedente
precetto, precisando che l'ordine di rimozione può essere
adottato esclusivamente "in base agli accertamenti
effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati,
dai soggetti preposti al controllo"
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 19.11.2012 n. 1105 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Sufficiente per far rilevare e contestare i danni.
Difetto di costruzione, per la decorrenza basta un solo
incontro con i tecnici.
Sulla base delle circostanze di fatto la Corte distrettuale
è giunta alla conclusione che alla data dell'incontro tra le
parti non solo i gravi difetti dell’opera si erano già
manifestati nella loro oggettiva consistenza, ma anche che
essi furono, proprio in tale occasione, rappresentati e
denunziati al progettista e direttore dei lavori; la natura
e consistenza dei gravi difetti e la loro progressiva
evidenza rendeva infatti chiaro, non lasciando spazio a
dubbi in proposito, che essi erano riconducibili a difetti
di costruzione e quindi coinvolgessero anche gli apporti
forniti in sede di progettazione e direzione dei lavori, la
cui convocazione e presenza all’incontro altrimenti non
avrebbe avuto ragion d’essere, considerato che di essa la
stessa parte ricorrente non ha fornito una giustificazione
diversa.
La denunzia dei gravi difetti dell’opera prevista dall’art.
1669 cod. civ. ha lo scopo, non diversamente da quella
prevista dal precedente art. 1667, di porre il destinatario
(appaltatore o soggetti concorrenti, quali il progettista ed
il direttore dei lavori), nella condizione di compiere le
opportune verifiche al fine di accertare e dimostrare che il
pericolo di rovina non deriva da sua colpa.
Per il proprietario dell’opera l’onere di denunzia scatta,
pertanto, nel momento in cui egli acquista un ragionevole
grado di conoscenza dell’entità del vizio costruttivo e
della sua riferibilità causale, elementi che, ai fini della
configurabilità della denunzia, deve rappresentare al
destinatario (Cass. n. 4622 del 2002; Cass. n. 1993 del
1999), restando poi alla valutazione del giudice di merito,
non censurabile in sede di legittimità, scrutinare se tale
informativa era sufficiente portare a conoscenza dell’altra
parte la sussistenza dei difetti lamentati.
La denunzia, in relazione al suo scopo, si perfeziona in
virtù della comunicazione al soggetto responsabile dei gravi
difetti che si sono manifestati nella costruzione, senza
necessità che in essa vengano indicate le sue cause
specifiche, il cui addebito implicito alla controparte
risiede nella stessa natura di obbligazione di risultato che
questi ha assunto, e il cui accertamento tecnico in termini
di certezza risulta incompatibile con la stessa esigenza
perseguita dalla legge attraverso gli istituti della
decadenza e della prescrizione, di consentire
all’appaltatore di compiere gli accertamenti necessari per
verificare l’esistenza effettiva dei difetti lamentati e la
loro imputabilità.
Nel caso di specie, la Corte territoriale, dopo avere
richiamato il contenuto delle testimonianze, ha precisato
che l’edificio degli attori già nel 1993, subito dopo il
completamento dei lavori, aveva manifestato la presenza di
fessurazioni che erano andate via via aggravandosi, tanto
che le parti avevano inserito dei fessurometri e contattato
un’impresa specializzata per il consolidamento del
sottosuolo e delle fondazioni; che i committenti, all’inizio
del 1996, avevano incaricato un tecnico di eseguire una
verifica statica dell’immobile, ricevendo dal professionista
una relazione di non collaudabilità dell’opera; che, come
riferito dal medesimo tecnico, dopo circa sei mesi dalla sua
nomina, vale a dire nel giugno 1996, vi era stato un
incontro in loco, alla sua presenza,, in cui si discusse
delle modalità di intervento che gli stessi committenti
ritenevano indispensabile ed urgente.
Sulla base di tali circostanze la Corte distrettuale è
quindi giunta alla conclusione che alla data di tale
incontro non solo i gravi difetti dell’opera si erano già
manifestati nella loro oggettiva consistenza, ma anche che
essi furono, proprio in tale occasione, rappresentati e
denunziati al progettista e direttore dei lavori; la natura
e consistenza dei gravi difetti e la loro progressiva
evidenza rendeva infatti chiaro, non lasciando spazio a
dubbi in proposito, che essi erano riconducibili a difetti
di costruzione e quindi coinvolgessero anche gli apporti
forniti in sede di progettazione e direzione dei lavori, la
cui convocazione e presenza all’incontro altrimenti non
avrebbe avuto ragion d’essere, considerato che di essa la
stessa parte ricorrente non ha fornito una giustificazione
diversa.
Tanto precisato, il ragionamento svolto dal giudice
territoriale e la conclusione da questi accolta si
sottraggono ai vizi denunziati.
Con riferimento al vizio di violazione di legge, apparendo
la decisione in linea con l’orientamento della
giurisprudenza di questa Corte sopra indicato in tema di
denunzia dei vizi e gravi difetti dell’immobile; in
relazione al vizio di motivazione, in quanto, ferma
l’insindacabilità della valutazione di fatto, che spetta al
giudice di merito, la motivazione ed il percorso logico
seguito dal giudicante appaiono sufficienti ed adeguati a
dare conto della soluzione accolta, nonché rispondenti agli
elementi e dati di fatto evidenziati e presi in
considerazione, mentre la versione diversa dei fatti
sostenuta nel ricorso si risolve soltanto in una diversa
interpretazione e lettura delle circostanze, senza
contestazione di errori od omissioni specifiche.
Il quarto motivo di ricorso denunzia contraddittorietà della
motivazione ed omesso esame di un elemento determinante per
la decisione della controversia, non avendo la Corte
considerato che al sopraluogo del giugno 1996 parteciparono,
i periti, ma nessuno per la società che al momento era già
proprietaria dell’immobile.
Il motivo è infondato ed anche inammissibile.
La censura appare infatti trovare smentita in fatto dalla
parte della sentenza che, dopo avere dato atto che
nell’incontro in cui furono denunziati i vizi era presente
anche il perito di parte, qualifica espressamente
quest’ultimo come mandatario dei proprietari dell’immobile,
riconoscendo quindi che il suddetto professionista
rappresentava in tale incontro tutti gli interessati,
affermazione che non risulta specificatamente contestata nel
ricorso (tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione
civile,
sentenza 15.11.2012 n. 20004). |
EDILIZIA
PRIVATA: E'
doveroso applicare le misure di salvaguardia ad una domanda
di titolo edilizio presentata prima dell’adozione di un
piano, ma decisa successivamente, in base al generale
principio dell’ordinamento per cui “tempus regit actum”.
Ai sensi dell’art. 13, comma 12, della l.r. Lombardia
12/2005 citata in premesse, “Nel periodo intercorrente tra
l'adozione e la pubblicazione dell'avviso di approvazione
degli atti di PGT si applicano le misure di salvaguardia in
relazione a interventi, oggetto di domanda di permesso di
costruire, ovvero di denuncia di inizio attività, che
risultino in contrasto con le previsioni degli atti
medesimi”.
La norma, come è ben noto, riproduce una
corrispondente norma di legge ordinaria, l’art. 10, comma 5,
della l. 17.08.1942 n. 1150, per cui “Nelle more di
approvazione del piano, le normali misure di salvaguardia di
cui alla legge 03.11.1952 n. 1902 e successive
modificazioni, sono obbligatorie”, là dove l’articolo unico
della richiamata l. 1902/1952 disponeva: “a decorrere dalla
data della deliberazione comunale di adozione dei piani
regolatori generali e particolareggiati, e fino
all'emanazione del relativo decreto di approvazione, il
sindaco, su parere conforme della Commissione edilizia
comunale, può, con provvedimento motivato da notificare al
richiedente, sospendere ogni determinazione sulle domande di
licenza di costruzione… quando riconosca che tali domande
siano in contrasto con il piano adottato”.
In proposito, va poi condiviso l’insegnamento di TAR
Toscana 22.06.1977 n. 301, citata dalla difesa del
ricorrente ed unica edita sul punto, ovvero che è doveroso
applicare le misure di salvaguardia ad una domanda di titolo
edilizio presentata prima dell’adozione di un piano, ma
decisa successivamente, in base al generale principio
dell’ordinamento per cui “tempus regit actum”
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 15.11.2012 n. 1807 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’interessato
al rilascio di un titolo edilizio circa un dato immobile
deve avere “titoli reali” per intervenirvi: non è
all’evidenza in generale tale una servitù, che attribuisce
come è noto al proprietario del fondo dominante specifiche e
limitate possibilità di intervento sul fondo servente, e
quindi di regola non la possibilità di edificarvi in via
pura e semplice.
Ai sensi del noto art. 11, comma 1, del T.U. 380/2001, “Il
permesso di costruire è rilasciato al proprietario
dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo”; la
norma, che è di legge statale, ha evidente carattere di
principio ed è quindi valida per tutte le Regioni; comunque,
ad essa si conforma l’art. 38, comma 1, della l.r. Lombardia
11.03.2005 n. 12, per cui la domanda di rilascio del
permesso è “sottoscritta dal proprietario dell'immobile o
da chi abbia titolo per richiederlo”.
La giurisprudenza, per parte sua, ha poi chiarito –da ultimo
C.d.S. sez. IV 08.07.2011 n. 3508, che si cita per tutte-
che l’interessato al rilascio di un titolo edilizio circa un
dato immobile deve avere “titoli reali” per
intervenirvi: non è all’evidenza in generale tale una
servitù, che attribuisce come è noto al proprietario del
fondo dominante specifiche e limitate possibilità di
intervento sul fondo servente, e quindi di regola non la
possibilità di edificarvi in via pura e semplice
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 15.11.2012 n. 1803 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Data
in sintesi la natura paritetica dell’atto di determinazione
del dovuto (ndr: contributo di costruzione), il privato il
quale versa in buona fede la somma richiestagli
dall’amministrazione per gli oneri in parola adempie ad una
obbligazione così come avverrebbe nei rapporti fra privati,
e con l’adempimento la estingue una volta per tutte, senza
che sia permesso all’amministrazione rimettere in
discussione il rapporto così definito con la richiesta di
conguagli.
Tuttavia, non mancano pronunce di segno contrario le quali
riconoscono all’amministrazione comunale il potere di
richiedere conguagli per oneri determinati precedentemente
in modo inesatto, vuoi riportandolo al più generale potere
di autotutela amministrativa, vuoi in base al rilievo
sostanziale per cui, così come al privato è consentito
ripetere somme versate in eccesso, anche all’amministrazione
deve essere accordata la possibilità di richiedere
conguagli.
Tutto ciò premesso, nel merito il primo motivo di ricorso è
nella sua assolutezza infondato. La ricorrente invoca a suo
favore l’orientamento giurisprudenziale per cui, data in
sintesi la natura paritetica dell’atto di determinazione del
dovuto, il privato il quale versa in buona fede la somma
richiestagli dall’amministrazione per gli oneri in parola
adempie ad una obbligazione così come avverrebbe nei
rapporti fra privati, e con l’adempimento la estingue una
volta per tutte, senza che sia permesso all’amministrazione
rimettere in discussione il rapporto così definito con la
richiesta di conguagli: in tal senso si esprime ad esempio
la particolarmente approfondita decisione C.G.A. Sicilia
02.03.2007 n. 64.
In proposito, il Collegio deve anzitutto puntualizzare che
tale orientamento non è incontroverso: così come ricorda
anche la decisione citata, non mancano pronunce di segno
contrario, le quali riconoscono all’amministrazione comunale
il potere di richiedere conguagli per oneri determinati
precedentemente in modo inesatto, vuoi riportandolo al più
generale potere di autotutela amministrativa, come la remota
C.d.S. sez. V 25.04.1966 n. 426, vuoi in base al rilievo
sostanziale per cui, così come al privato è consentito
ripetere somme versate in eccesso, anche all’amministrazione
deve essere accordata la possibilità di richiedere
conguagli, così come ritenuto da C.d.S. 06.051997 n. 458
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 15.11.2012 n. 1802 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il D.M. 02.04.1968 n.
1444 fissa i limiti "inderogabili" di distanza fra i
fabbricati e prevede all'art. 9 che tra i fabbricati debba
essere rispettata "in tutti i casi" la distanza minima
assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti. Lo stesso decreto, peraltro, ammette distanze
inferiori, solo relativamente alle ipotesi di
ristrutturazione in zone A e "nel caso di gruppi di edifici
che formino oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni plano
volumetriche".
La ratio di tale normativa, come sembra evidente, è quella
non di tutela del diritto alla riservatezza, bensì di
salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie:
trattasi cioè di norma volta a impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario.
Tali distanze tra costruzioni sono, cioè, predeterminate con
carattere cogente in via generale e astratta, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
d’igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è
lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della disciplina in materia di equo contemperamento degli
opposti interessi.
Tale previsione è dunque, tassativa e inderogabile e può
essere derogata solo relativamente alle zone A e nel caso di
“strumenti attuativi con previsioni plano volumetriche"; si
tratta proprio del caso in esame, ricadendo l’immobile in
zona A interessata da un piano particolareggiato con
previsioni plano-volumetriche.
Al contrario, solo per gli edifici ricadenti in zona
territoriale diversa dalla A la distanza minima assoluta di
metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti, prescritta ai sensi dell'art. 41-quinquies, l.
17.08.1942 n. 1150, modificato dall'art. 17, l. 06.08.1967
n. 765, e dell'art. 9, d.m. 02.04.1968 n. 1444, costituisce
una prescrizione di carattere cogente e generale e comporta
altresì l'obbligo per il giudice di merito non solo di
disapplicare le disposizioni illegittime, nel caso di
strumenti urbanistici contrastanti, ma anche di applicare
direttamente la disposizione del menzionato art. 9, che, per
inserzione automatica, diviene parte integrante dello
strumento urbanistico, anche in sostituzione della eventuale
norma illegittima a disapplicata.
Va poi ricordato che il decreto del Ministro dei lavori
pubblici 02.04.1968 n. 1444, invocato da parte ricorrente,
fissa i limiti "inderogabili" di distanza fra i
fabbricati e prevede all'art. 9 che tra i fabbricati debba
essere rispettata "in tutti i casi" la distanza
minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti. Lo stesso decreto, peraltro, ammette
distanze inferiori, solo relativamente alle ipotesi di
ristrutturazione in zone A e "nel caso di gruppi di
edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni plano
volumetriche".
La ratio di tale normativa, come sembra evidente, è
quella non di tutela del diritto alla riservatezza, bensì di
salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie:
trattasi cioè di norma volta a impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario.
Tali distanze tra costruzioni sono, cioè, predeterminate con
carattere cogente in via generale e astratta, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
d’igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è
lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della disciplina in materia di equo contemperamento degli
opposti interessi (Cons. St., sez. IV, 12.06.2007, n. 3094,
e 05.12.2005, n. 6909).
Tale previsione è dunque, tassativa e inderogabile e può
essere derogata solo relativamente alle zone A e nel caso di
“strumenti attuativi con previsioni plano volumetriche";
si tratta proprio del caso in esame, ricadendo l’immobile in
zona A interessata da un piano particolareggiato con
previsioni plano-volumetriche.
Al contrario, solo per gli edifici ricadenti in zona
territoriale diversa dalla A la distanza minima assoluta di
metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti, prescritta ai sensi dell'art. 41-quinquies, l.
17.08.1942 n. 1150, modificato dall'art. 17, l. 06.08.1967
n. 765, e dell'art. 9, d.m. 02.04.1968 n. 1444, costituisce
una prescrizione di carattere cogente e generale e comporta
altresì l'obbligo per il giudice di merito non solo di
disapplicare le disposizioni illegittime, nel caso di
strumenti urbanistici contrastanti, ma anche di applicare
direttamente la disposizione del menzionato art. 9, che, per
inserzione automatica, diviene parte integrante dello
strumento urbanistico, anche in sostituzione della eventuale
norma illegittima a disapplicata (Cass. Civ. sez. II
07.01.2010 n. 56) (TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 15.11.2012 n. 411 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il soppalco, per le sue
significative dimensioni (pari a 47 mq.), deve essere
qualificato come opera di ristrutturazione edilizia in
quanto, così come previsto dall’art. 3, lettera d), d.p.r.
n. 380/2001, è intervento che comporta un significativo
aumento di superficie dell’organismo edilizio preesistente.
La rilevanza giuridica di tale aumento di superficie, ai
fini della qualificazione edilizia dell’intervento, è,
pertanto, riconducibile alla sua notevole entità e prescinde
dall’abitabilità del soppalco e, quindi, dall’altezza dello
stesso in quanto comporta, in ogni caso, un significativo
incremento, rispetto allo status quo ante, dei vani
utilizzabili dal privato anche a fini di mero deposito.
Ne consegue che ogni questione circa l’altezza del soppalco
(che, all’esito della verificazione disposta dal Collegio,
risulta avere un’altezza utile tra piano di calpestio e
controsoffitto pari a mt. 1,48 laddove la distanza tra
l’intradosso del controsoffitto e quello del soffitto è
pari, nel suo punto più alto, a mt. 0,38) è irrilevante ai
fini della qualificazione giuridica dell’intervento e
dell’individuazione del regime autorizzativo ad esso
applicabile da ravvisarsi, nella fattispecie, nel permesso
di costruire o nella c.d. denuncia d’inizio di attività
“sostitutiva”, così come previsto dagli artt. 10, comma 1°,
lettera c), e 22, comma 3°, d.p.r. n. 380/2001.
Quanto, poi, al soppalco è da rilevare che lo stesso, per le sue
significative dimensioni (pari a 47 mq.), deve essere
qualificato come opera di ristrutturazione edilizia in
quanto, così come previsto dall’art. 3, lettera d), d.p.r. n.
380/2001, è intervento che comporta un significativo aumento
di superficie dell’organismo edilizio preesistente (in
questo senso TAR Campania–Napoli n. 2776/2012 in relazione
ad un soppalco di 19 mq. posto a mt. 1,60 di distanza dal
soffitto).
La rilevanza giuridica di tale aumento di superficie, ai
fini della qualificazione edilizia dell’intervento, è,
pertanto, riconducibile alla sua notevole entità e prescinde
dall’abitabilità del soppalco e, quindi, dall’altezza dello
stesso in quanto comporta, in ogni caso, un significativo
incremento, rispetto allo status quo ante, dei vani
utilizzabili dal privato anche a fini di mero deposito.
Ne consegue che ogni questione circa l’altezza del soppalco
(che, all’esito della verificazione disposta dal Collegio,
risulta avere un’altezza utile tra piano di calpestio e
controsoffitto pari a mt. 1,48 laddove la distanza tra
l’intradosso del controsoffitto e quello del soffitto è
pari, nel suo punto più alto, a mt. 0,38), posta a
fondamento del gravame, è irrilevante ai fini della
qualificazione giuridica dell’intervento e
dell’individuazione del regime autorizzativo ad esso
applicabile da ravvisarsi, nella fattispecie, nel permesso
di costruire o nella c.d. denuncia d’inizio di attività “sostitutiva”,
così come previsto dagli artt. 10, comma 1°, lettera c), e
22, comma 3°, d.p.r. n. 380/2001 (TAR Lazio, Roma, Sez. I-quater,
sentenza 13.11.2012 n. 9301 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La realizzazione di una veranda, comportando
l’aumento della superficie utile, determina una modifica del
precedente organismo edilizio e deve essere qualificata come
intervento di ristrutturazione edilizia secondo quanto
previsto dall’art. 3, lettera d), d.p.r. n. 380/2001.
Ne consegue che, ai sensi dell’art. 10, comma 1°, lettera
c), d.p.r. n. 380/2001, l’intervento in esame avrebbe dovuto
essere assentito con permesso di costruire la cui mancanza
legittima l’applicazione della sanzione demolitoria prevista
dall’art. 33 del medesimo testo normativo e applicata con
provvedimento impugnato.
La realizzazione di una veranda, comportando l’aumento della superficie
utile, determina una modifica del precedente organismo
edilizio e deve essere qualificata come intervento di
ristrutturazione edilizia secondo quanto previsto dall’art.
3, lettera d), d.p.r. n. 380/2001 (TAR Marche n. 39/2012; TAR
Campania–Napoli n. 5912/2011).
Ne consegue che, ai sensi dell’art. 10, comma 1°, lettera c),
d.p.r. n. 380/2001, l’intervento in esame avrebbe dovuto
essere assentito con permesso di costruire la cui mancanza
legittima l’applicazione della sanzione demolitoria prevista
dall’art. 33 del medesimo testo normativo e applicata con
provvedimento impugnato.
Dall’esame degli atti di causa emerge che la veranda in
esame, quale che sia l’intervento concretamente posto in
essere in tempi recenti (mera sostituzione di struttura
preesistente, come prospettano le ricorrenti, o
realizzazione ex novo della stessa), è sprovvista di idoneo
titolo edilizio abilitativo.
Per altro, la risalenza dell’opera ad epoca antecedente al
1967, per come concretamente dedotta nel gravame, è
circostanza che, al più, legittima il trasferimento per atto
inter vivos dei manufatti, così come previsto dall’art. 46
d.p.r. n. 380/2001, ma non determina la regolarità edilizia
degli stessi dal momento che già l’art. 31 l. n. 1150/1942
richiedeva la “licenza” del sindaco per la realizzazione di
opere quali quella oggetto di causa “nei centri abitati”
(TAR Sicilia–Palermo n. 1735/2011).
Pertanto, la prospettata risalenza del manufatto ad epoca
anteriore al 1967 non influisce sull’abusività dello stesso
e, pertanto, sulla legittimità della sanzione demolitoria
irrogata con il provvedimento impugnato (TAR Lazio, Roma, Sez. I-quater,
sentenza 13.11.2012 n. 9300 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il provvedimento di
demolizione, avendo natura vincolata e carattere
necessitato, deve ritenersi congruamente motivato attraverso
la descrizione delle opere e l’indicazione dell’abusività
delle stesse –elementi presenti nell’atto impugnato– senza
che sia necessaria l’indicazione di alcun interesse pubblico
alla demolizione da ritenersi in re ipsa.
---------------
L’esistenza di un sequestro disposto dall’autorità penale
non influisce sulla legittimità dell’ordinanza di
demolizione potendo l’interessato chiedere il dissequestro
al fine di ottemperare alla prescrizione ripristinatoria.
Ed, infatti, il provvedimento di demolizione, avendo natura vincolata e
carattere necessitato, deve ritenersi congruamente motivato
attraverso la descrizione delle opere e l’indicazione
dell’abusività delle stesse –elementi presenti nell’atto
impugnato– senza che sia necessaria l’indicazione di alcun
interesse pubblico alla demolizione da ritenersi in re ipsa
(Cons. Stato sez. IV n. 5183/2012; Cons. Stato sez. IV n.
2185/2012).
----------------
Inaccoglibile, infine, è
la quarta censura con cui è stata dedotta l’impossibilità di
eseguire la gravata demolizione stante la pendenza di un
sequestro penale sui manufatti.
Secondo il costante orientamento giurisprudenziale, infatti,
l’esistenza di un sequestro disposto dall’autorità penale
non influisce sulla legittimità dell’ordinanza di
demolizione potendo l’interessato chiedere il dissequestro
al fine di ottemperare alla prescrizione ripristinatoria
(Cons. Stato sez. IV n. 1260/2012; Cons. Stato sez. IV n.
297/2012)
(TAR Lazio, Roma, Sez. I-quater,
sentenza 13.11.2012 n. 9286 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: In
merito alla portata applicativa dell'art. 8, comma 6, l.
36/2001 il Consiglio di Stato ha chiarito "la differenza fra
'criteri localizzativi" e "limiti alla localizzazione"
ritenendosi consentiti i primi, in quanto recanti criteri
specifici rispetto a localizzazioni puntuali, e non i
secondi, in quanto recanti divieti generalizzati per intere
aree".
E’ stata quindi dichiarata l'illegittimità di un regolamento
comunale adottato ai sensi dell'art. 8, comma 6, l.
22.02.2001 n. 36, laddove l'ente territoriale si sia posto
quale obiettivo, sebbene non dichiarato, ma evincibile dal
contenuto dell'atto regolamentare, quello di preservare la
salute umana dalle emissioni elettromagnetiche promananti da
impianti di radiocomunicazione (ad esempio attraverso la
fissazione di distanze minime delle stazioni radio base da
particolari tipologie d'insediamenti abitativi), essendo
tale materia attribuita alla legislazione concorrente
Stato-regioni dell'art. 117 cost., come riformato dalla l.
cost. 18.10.2001 n. 3.
E’ stato ancora affermato che in base alla richiamata
disciplina nazionale i comuni possono adottare un
regolamento atto ad assicurare il corretto insediamento
urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare
l'esposizione della popolazione comunale ai campi
elettromagnetici, ma non possono adottare misure derogatorie
ai limiti di esposizione fissati dallo Stato, quali, ad
esempio, il generalizzato divieto di installazione delle
stazioni radiobase per telefonia cellulare in tutte le zone
territoriali omogenee a destinazione residenziale; ovvero,
introdurre misure che pur essendo tipicamente urbanistiche
(distanze, altezze, ecc.) non siano funzionali al governo
del territorio, quanto piuttosto alla tutela della salute
dai rischi dell'elettromagnetismo.
Ciò perché "spetta allo Stato la funzione di fissazione dei
criteri e dei limiti rilevanti ai fini della protezione
della popolazione dalle potenzialità nocive insite
nell'esposizione ai campi magnetici”.
Il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli
impianti di telefonia mobile e la minimizzazione
dell'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici
deve tradursi in regole ragionevoli, motivate e certe, poste
a presidio di interessi di rilievo pubblico, ma non può
tradursi in un generalizzato divieto di installazione in
zone urbanistiche identificate. Tale previsione verrebbe
infatti a costituire un'inammissibile misura di carattere
generale, sostanzialmente cautelativa rispetto alle
emissioni derivanti dagli impianti di telefonia mobile, in
contrasto con l'art. 4, l. n. 36 del 2001, che riserva alla
competenza dello Stato la determinazione, con criteri
unitari, dei limiti di esposizione, dei lavori di attenzione
e degli obiettivi di qualità, in base a parametri da
applicarsi su tutto il territorio dello Stato.
L'introduzione, da parte del Comune, tramite regolamento
edilizio, di misure tipicamente di governo del territorio
(distanze, altezze, localizzazioni, e così via) si
giustifica solo se conforme al principio di ragionevolezza
ed alla natura delle competenze urbanistico-edilizie
esercitate, e qualora sia sorretta da una sufficiente
motivazione sulla base di risultanze acquisite attraverso
un'istruttoria idonea a dimostrare la ragionevolezza della
misura e l'idoneità della stessa rispetto al fine
perseguito. Le misure di minimizzazione da ritenersi
distinte da quelle urbanistico-edilizie, non possono
prevedere limiti generalizzati di esposizione diversi da
quelli previsti dallo Stato, né possono di fatto costituire
una deroga generalizzata a tali limiti.
Il comma 6 dell’articolo 8 della legge 36/2001, Legge
quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici,
magnetici ed elettromagnetici, dispone che “ I comuni
possono adottare un regolamento per assicurare il corretto
insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e
minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi
elettromagnetici”.
In merito alla portata applicativa di questa norma il
Consiglio di Stato ha chiarito "la differenza fra 'criteri
localizzativi" e "limiti alla localizzazione" ritenendosi
consentiti i primi, in quanto recanti criteri specifici
rispetto a localizzazioni puntuali, e non i secondi, in
quanto recanti divieti generalizzati per intere aree" (ex multis: Cons. Stato, Sez. VI, 19.06.2009 n. 4056; Cons.
Stato, Sez. VI, 17.12.2009 n. 8214 e n. 8215; Cons.
Stato, Sez. VI, 05.06.2006, n. 3452; 19.05.2008, n.
2287; 17.07.2008, n. 3596).
E’ stata quindi dichiarata l'illegittimità di un regolamento
comunale adottato ai sensi dell'art. 8, comma 6, l. 22.02.2001 n. 36, laddove l'ente territoriale si sia
posto quale obiettivo, sebbene non dichiarato, ma evincibile
dal contenuto dell'atto regolamentare, quello di preservare
la salute umana dalle emissioni elettromagnetiche promananti
da impianti di radiocomunicazione (ad esempio attraverso la
fissazione di distanze minime delle stazioni radio base da
particolari tipologie d'insediamenti abitativi), essendo
tale materia attribuita alla legislazione concorrente Stato-regioni dell'art. 117 cost., come riformato dalla l.
cost. 18.10.2001 n. 3 (Consiglio Stato , Sez. VI,
sent. n. 6473 del 06-09-2010, sez. VI, 20.12.2002, n.
7274).
E’ stato ancora affermato che in base alla richiamata
disciplina nazionale i comuni possono adottare un
regolamento atto ad assicurare il corretto insediamento
urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare
l'esposizione della popolazione comunale ai campi
elettromagnetici, ma non possono adottare misure derogatorie
ai limiti di esposizione fissati dallo Stato, quali, ad
esempio, il generalizzato divieto di installazione delle
stazioni radiobase per telefonia cellulare in tutte le zone
territoriali omogenee a destinazione residenziale; ovvero,
introdurre misure che pur essendo tipicamente urbanistiche
(distanze, altezze, ecc.) non siano funzionali al governo
del territorio, quanto piuttosto alla tutela della salute
dai rischi dell'elettromagnetismo (Consiglio di Stato sez.
VI, 27.04.2010 n. 2371).
Ciò perché "spetta allo Stato la funzione di fissazione dei
criteri e dei limiti rilevanti ai fini della protezione
della popolazione dalle potenzialità nocive insite
nell'esposizione ai campi magnetici” (cfr. Consiglio Stato ,
sez. VI, 03.10.2007, n. 5098, ma si veda anche
Consiglio Stato, sez. VI, 05.06.2006, n. 3332).
Il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli
impianti di telefonia mobile e la minimizzazione
dell'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici
deve tradursi in regole ragionevoli, motivate e certe, poste
a presidio di interessi di rilievo pubblico, ma non può
tradursi in un generalizzato divieto di installazione in
zone urbanistiche identificate. Tale previsione verrebbe
infatti a costituire un'inammissibile misura di carattere
generale, sostanzialmente cautelativa rispetto alle
emissioni derivanti dagli impianti di telefonia mobile, in
contrasto con l'art. 4, l. n. 36 del 2001, che riserva alla
competenza dello Stato la determinazione, con criteri
unitari, dei limiti di esposizione, dei lavori di attenzione
e degli obiettivi di qualità, in base a parametri da
applicarsi su tutto il territorio dello Stato (Consiglio di
Stato Sez. VI, sent. n. 3646 del 15-06-2011).
L'introduzione, da parte del Comune, tramite regolamento
edilizio, di misure tipicamente di governo del territorio
(distanze, altezze, localizzazioni, e così via) si
giustifica solo se conforme al principio di ragionevolezza
ed alla natura delle competenze urbanistico-edilizie
esercitate, e qualora sia sorretta da una sufficiente
motivazione sulla base di risultanze acquisite attraverso
un'istruttoria idonea a dimostrare la ragionevolezza della
misura e l'idoneità della stessa rispetto al fine
perseguito. Le misure di minimizzazione da ritenersi
distinte da quelle urbanistico-edilizie, non possono
prevedere limiti generalizzati di esposizione diversi da
quelli previsti dallo Stato, né possono di fatto costituire
una deroga generalizzata a tali limiti (Consiglio di Stato,
Sez. VI, Sent. n. 3157 del 13-06-2007).
Alla luce di tale consolidato orientamento, dal quale il
Collegio non intende discostarsi, deve ritenersi che i
provvedimenti impugnati risultano affetti dai vizi
censurati. In particolare deve ritenersi che l’articolo 7
del regolamento comunale, che ha fondato il successivo
parere negativo dell’amministrazione, nella parte in cui
impone il rispetto dei 500 metri per la localizzazione degli
impianti “da edifici ed aree in cui risiedono, operino
professionalmente o permangono persone per almeno 4 ore al
giorno”, pone un precetto che può porsi in contrasto con la
disciplina nazionale di riferimento se diretto a
salvaguardare solo la salute pubblica e non anche il
corretto insediamento urbanistico e territoriale degli
impianti per come prescritto dalla legge.
Il parere negativo
reso dall’Ufficio tecnico Comunale, adottato in attuazione
della citata norma regolamentare, con il quale è stata
vietata la richiesta installazione per la presenza di un
ufficio scolastico e di un edificio per attività sportiva
all’interno di un raggio di 500 metri dal punto previsto per
l’istallazione della stazione radio base, si pone in
contrasto con la normativa nazionale in quanto diretto solo
a tutelare la salute pubblica, in merito alla quale si è
comunque espressa l’Arpa Cal. che con atto del 05.08.2011
ha attestato la conformità e la compatibilità del progetto
di installazione dell’impianto di telefonia cellulare, con i
limiti di esposizione, i valori di attenzione e gli
obiettivi di cui alla legge 36/2001 e al D.P.C.M. 08.07.2003.
Né risulta che il parere negativo del Comune sia supportato
da ulteriori motivazioni derivanti da risultanze istruttorie
che dimostrino la ragionevolezza della misura e l'idoneità
della stessa rispetto al fine perseguito per come richiesto
dalla giurisprudenza, risultanze che pur potrebbero
costituire una deroga alla normativa richiamata (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 10.11.2012 n. 1092 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L'ordine
di demolizione di opere edilizie abusive non deve essere
preceduto dall'avviso ex art. 7, l. n. 241 del 1990,
trattandosi di un atto dovuto, che viene emesso quale
sanzione per l'accertamento dell'inosservanza di
disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura
vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e
rigidamente disciplinato dalla legge.
Pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso
edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto,
ossia, l'abuso, di cui il ricorrente deve essere
ragionevolmente a conoscenza, rientrando lo stesso nella
propria sfera di controllo.
Per quanto concerne la violazione delle norme in
tema di comunicazione di avvio del procedimento e di
partecipazione procedimentale va ricordato il consolidato
orientamento giurisprudenziale che si è affermato negli
ultimi anni secondo cui l'ordine di demolizione di opere
edilizie abusive non deve essere preceduto dall'avviso ex
art. 7, l. n. 241 del 1990, trattandosi di un atto dovuto,
che viene emesso quale sanzione per l'accertamento
dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un
procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal
legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge;
pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso
edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto,
ossia, l'abuso, di cui il ricorrente deve essere
ragionevolmente a conoscenza, rientrando lo stesso nella
propria sfera di controllo (tra le tante TAR Napoli
Campania sez. III n. 16548 del 02.07.2010)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 10.11.2012 n. 1089 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
c.d. preavviso di diniego non va inteso in senso meccanico e
formalistico, avendo tale regola partecipativa lo scopo di
consentire al privato di venire a conoscenza delle ragioni
che impediscono l'accoglimento della sua istanza prima che
il provvedimento negativo sia divenuto definitivo e quindi
di rappresentare all'Amministrazione tutte le circostanze di
fatto e di diritto che egli dovesse valutare utili per
l'adozione dell'atto finale con la conseguenza che si può
prescindere dalla comunicazione ivi prevista quando la parte
interessata ha comunque acquisito preventiva conoscenza dei
motivi ostativi all'esito positivo del procedimento.
Quanto alla censura che investe la
procedura condotta dall’amministrazione, con cui parte
ricorrente lamenta violazione dell’art. 10-bis della legge
n. 241 del 1990, osserva il Collegio che il c.d. preavviso
di diniego non va inteso in senso meccanico e formalistico,
avendo tale regola partecipativa lo scopo di consentire al
privato di venire a conoscenza delle ragioni che impediscono
l'accoglimento della sua istanza prima che il provvedimento
negativo sia divenuto definitivo e quindi di rappresentare
all'Amministrazione tutte le circostanze di fatto e di
diritto che egli dovesse valutare utili per l'adozione
dell'atto finale con la conseguenza che si può prescindere
dalla comunicazione ivi prevista quando la parte interessata
ha comunque acquisito preventiva conoscenza dei motivi
ostativi all'esito positivo del procedimento (cfr. TAR
Parma, 14.01.2009 n. 3).
Nella specie, nel corpo dello stesso atto di diniego si dà
espressamente conto della già intervenuta interlocuzione sia
con il ricorrente che con il tecnico incaricato avente ad
oggetto proprio i motivi che reggono poi il diniego di
permesso di costruire impugnato. Circostanza questa che
parte ricorrente non contesta e che, dunque, ad avviso del
Collegio sostanzia una adeguata forma e modalità di
preventiva conoscenza –da parte ricorrente- delle ragioni
poi poste a sostegno del provvedimento che definisce la
procedura. In altri termini, l’amministrazione ha consentito
al soggetto istante di esporre il proprio avviso e le
proprie ragioni prima di pervenire alla sua definitiva
statuizione
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 10.11.2012 n. 1087 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
realizzazione di un porticato chiuso (come nel caso di
specie) lateralmente su due lati (cfr. allegazioni
fotografiche prodotte dal ricorrente in atti del giudizio)
va a costituire una nuova superficie utile, essendo il
porticato destinato ad ospitare arredi fissi e, quindi, a
consentire di svolgervi in ipotesi varie attività della vita
quotidiana. Se ciò e vero e non si è dunque in presenza di
mera pertinenza, allora la costruzione del porticato
(terrazzato) deve necessariamente rispettare le distanze
previste dalle disposizioni attuative del piano regolatore
generale.
E regola generale è che la distanza tra costruzioni su fondi
finitimi va calcolata tenendo conto di qualsiasi elemento
che sporga da una di esse, addirittura non assumendo
rilevanza, ai fini dell'interesse tutelato dalla norma (nel
suo triplice aspetto della tutela della sicurezza, della
salubrità e dell'igiene), che lo sporto sia inadatto
all'incremento volumetrico o superficiario della costruzione
o che aggetti solo per una parte della facciata.
Quanto al “merito” della questione, occorre cominciare con
il rilevare che il porticato per cui è causa deve essere
considerato organismo edilizio avente natura e consistenza
tali da ampliare in superficie o volume l'edificio stesso
(si pensi alla sovrastante terrazza). Esso necessita dunque
di permesso di costruire ed in tal senso si è mosso invero
lo stesso ricorrente. Infatti, la realizzazione di un
porticato chiuso (come nel caso di specie) lateralmente su
due lati (cfr. allegazioni fotografiche prodotte dal
ricorrente in atti del giudizio) va a costituire una nuova
superficie utile, essendo il porticato destinato ad ospitare
arredi fissi e, quindi, a consentire di svolgervi in ipotesi
varie attività della vita quotidiana (cfr. TAR Napoli, VII
Sezione, 14.01.2011 n. 176). Se ciò e vero e non si è dunque
in presenza di mera pertinenza, allora la costruzione del
porticato (terrazzato) deve necessariamente rispettare le
distanze previste dalle disposizioni attuative del piano
regolatore generale (cfr. TAR Piemonte, 15.12.2004 n. 3585).
E regola generale è che la distanza tra costruzioni su fondi
finitimi va calcolata tenendo conto di qualsiasi elemento
che sporga da una di esse, addirittura non assumendo
rilevanza, ai fini dell'interesse tutelato dalla norma (nel
suo triplice aspetto della tutela della sicurezza, della
salubrità e dell'igiene), che lo sporto sia inadatto
all'incremento volumetrico o superficiario della costruzione
o che aggetti solo per una parte della facciata.
I 10 metri
di distanza tra fabbricati, prescritti dal regolamento
edilizio del Comune di Mileto, non vi sono tra il fabbricato
di altra ditta, che fronteggia quello di proprietà del
ricorrente, ed il porticato realizzando ma, sia pure di
misura, vi sono tra il detto fabbricato e la parte interna
del porticato (e cioè l’attuale muro esterno dell’edificio
di proprietà del ricorrente che sarebbe stato interessato
dalla richiesta realizzazione).
E tuttavia la distanza deve avere riguardo non già a detta
parte interna (del porticato ovvero esterna del fabbricato
per come è allo stato) ma alla linea del porticato, peraltro
terrazzato e che costituisce dunque pacificamente affaccio e
veduta verso altro fabbricato. Non sussiste, del pari e per
le medesime ragioni, la prescritta distanza minima dal
ciglio stradale, risultando peraltro ininfluente ai fini di
che trattasi la circostanza per cui si tratterebbe, allo
stato, di strada privata
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 10.11.2012 n. 1087 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Già
da tempo è stata affermata la necessità che, per la
realizzazione della canna fumaria di non piccole dimensioni
e di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla sua
sagoma, venga rilasciato permesso di costruire, in quanto
detta opera non può considerarsi un elemento meramente
accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione
pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla
preesistente struttura dell'immobile.
---------------
La necessità del previo rilascio di un titolo abilitativo
edilizio può configurarsi anche in presenza di opere che
attuino una trasformazione del tessuto urbanistico ed
edilizio, anche se esse non consistano in opere murarie,
essendo realizzate in metallo, in laminati di plastica, in
legno od altro materiale, in presenza di trasformazioni
preordinate a soddisfare esigenze non precarie del
costruttore.
Viene in questa sede impugnata l’ordinanza
con cui si intima ai ricorrenti di demolire una canna
fumaria realizzata senza il necessario titolo abilitativo.
Sul punto la giurisprudenza già da tempo ha affermato la
necessità che, per la realizzazione della canna fumaria di
non piccole dimensioni e di palese evidenza rispetto alla
costruzione e alla sua sagoma, venga rilasciato permesso di
costruire, in quanto detta opera non può considerarsi un
elemento meramente accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva
destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato
dalla preesistente struttura dell'immobile (cfr. Tar
Campania-Napoli, sez. VIII - sentenza 01.10.2012 n.
4005 - TAR Campania Napoli, sez. VI, 03.06.2009, n.
3039; Tar Veneto Tar Lazio n. 4246 18.05.2001).
Ad
avviso del Collegio l’opera realizzata, per il suo impatto
visivo, per come evincibile dall’allegato materiale
fotografico non può ritenersi di ridotto impatto, tale da
non necessitare del prescritto titolo edilizio.
I ricorrenti, poi, fanno rientrare la realizzazione
dell’opera nell’ambito degli interventi di manutenzione
ordinaria consentiti ex articolo 6 del D.P.R. 380/2001,
interventi che possono essere realizzati senza alcun titolo
abilitativo.
Anche questo assunto non convince. Come affermato dalla
giurisprudenza, la necessità del previo rilascio di un
titolo abilitativo edilizio può configurarsi anche in
presenza di opere che attuino una trasformazione del tessuto
urbanistico ed edilizio, anche se esse non consistano in
opere murarie, essendo realizzate in metallo, in laminati di
plastica, in legno od altro materiale, in presenza di
trasformazioni preordinate a soddisfare esigenze non
precarie del costruttore (cfr. Tar Campania-Napoli, sez. VIII - sentenza
01.10.2012 n. 4005)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 10.11.2012 n. 1086 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Anche
dopo la scadenza del termine fissato dall’art. 23, comma 6,
del testo unico sull’edilizia (che disciplina la d.i.a.)
l’amministrazione è titolare del potere di verificare se le
opere possano essere realizzate sulla base della denuncia di
inizio dell’attività e può esercitare i poteri di vigilanza
e sanzionatori previsti dall’ordinamento.
I ricorrenti fanno presente, a fronte dell’affermazione del
Comune per cui per la realizzazione dell’opere contestate
non risulterebbe presentata Denuncia di Inizio Attività, che
detta circostanza sarebbe destituita di fondamento in quanto
in data 09.11.2009 avrebbero depositato presso
l’Ufficio Protocollo del Comune di Badolato, la
Comunicazione di avvio dei lavori con relativi grafici che
individuavano i lavori da realizzare.
Anche questa doglianza non può essere accolta.
In base all’articolo 23 del d.P.R. 380/2001 che disciplina
la denuncia di inizio attività è prescritto che “il
proprietario dell'immobile o chi abbia titolo per presentare
la denuncia di inizio attività, almeno trenta giorni prima
dell'effettivo inizio dei lavori, presenta allo sportello
unico la denuncia, accompagnata da una dettagliata relazione
a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni
elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle
opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e
non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti
edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza
e di quelle igienico-sanitarie”.
Come affermato dal Comune e come emerge dagli atti di causa,
la comunicazione inoltrata non presenta la documentazione
richiesta e pertanto non può essere ricondotta alla prevista
disciplina.
Infine, per quanto concerne il contrasto dell’opera
realizzata con il disposto dell’articolo 44 del regolamento
edilizio, il Collegio osserva che anche dopo la scadenza del
termine fissato dall’art. 23, comma 6, del testo unico
sull’edilizia l’amministrazione è titolare del potere di
verificare se le opere possano essere realizzate sulla base
della denuncia di inizio dell’attività e può esercitare i
poteri di vigilanza e sanzionatori previsti dall’ordinamento
(Consiglio di Stato, sez. IV, n. 6378/2008 - Sez. IV, 12.09.2007, n. 4828; Sez. IV, 30.06.2005, n. 3498)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 10.11.2012 n. 1086 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La presenza di materiali contenenti amianto in un
edificio non comporta di per sé un pericolo per la salute
degli occupanti. Se il materiale è in buone condizioni e non
viene manomesso, è estremamente improbabile che esista un
pericolo apprezzabile di rilascio di fibre di amianto. Se
invece il materiale viene danneggiato per interventi di
manutenzione o per vandalismo, si verifica un rilascio di
fibre che costituisce un rischio potenziale. Analogamente se
il materiale è in cattive condizioni, o se è altamente
friabile, le vibrazioni dell'edificio, i movimenti di
persone o macchine, le correnti d'aria possono causare il
distacco di fibre legate debolmente al resto del materiale.
Infine, per quanto concerne la rimozione delle canne fumarie
in eternit il Comune non indica i motivi per cui deve essere
operata detta rimozione, atteso che le canne fumarie, per
come affermato dai ricorrenti, non si troverebbero in stato
di degrado.
Ciò che infatti non emerge dall’ordinanza è la motivazione
su cui poggia la decisione dell’amministrazione di ordinare
la demolizione delle contestate canne fumarie, non
risultando alcuna verifica o valutazione effettuata al fine
di evidenziare la pericolosità delle stesse per la salute
pubblica. Secondo il D.M. del 06.09.1994 in tema di
valutazione del rischio “La presenza di materiali
contenenti amianto in un edificio non comporta di per sé un
pericolo per la salute degli occupanti. Se il materiale è in
buone condizioni e non viene manomesso, è estremamente
improbabile che esista un pericolo apprezzabile di rilascio
di fibre di amianto. Se invece il materiale viene
danneggiato per interventi di manutenzione o per vandalismo,
si verifica un rilascio di fibre che costituisce un rischio
potenziale. Analogamente se il materiale è in cattive
condizioni, o se è altamente friabile, le vibrazioni
dell'edificio, i movimenti di persone o macchine, le
correnti d'aria possono causare il distacco di fibre legate
debolmente al resto del materiale”.
Dall’ordinanza impugnata non emerge l’espletamento di alcuna
attività di valutazione dell’effettivo rischio che le canne
fumarie rappresentano per i cittadini.
In conclusione, l’atto impugnato risulta affetto anche da
difetto di motivazione per non avere il Comune intimato
evidenziato i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche
che hanno condotto l’amministrazione ad ordinare il
ripristino dello stato dei luoghi (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 10.11.2012 n. 1085 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
potestà dell'Amministrazione di assumere determinazioni in
via di autotutela, ai sensi degli artt. 21-quinquies e
21-nonies L. 07.08.1990 n. 241, deve ritenersi espressione
di un principio generale dell'ordinamento che non ne
assoggetta l'esercizio a precisi vincoli temporali, purché
la potestà stessa si manifesti conforme a criteri di
ragionevolezza e di certezza dei rapporti giuridici. E
comunque, come afferma condivisibile giurisprudenza,
l'annullamento d'ufficio di una concessione edilizia non
necessita di una espressa e specifica motivazione sul
pubblico interesse, configurandosi questo nell'interesse
della collettività al rispetto della disciplina urbanistica.
Per l'autoannullamento della concessione edilizia o del
permesso di costruire, è di norma irrilevante —salvi casi di
spazi temporali esagerati— il tempo trascorso dall'attività
edilizia posta in essere, in quanto la repressione degli
abusi edilizi è un preciso obbligo dell'Amministrazione
pubblica la quale, a fronte dell'accertamento della
violazione delle norme edilizie, non gode di alcuna
discrezionalità al riguardo.
A fronte di un accertamento penale che accerti che una
concessione edilizia sia il risultato di comportamenti
illeciti, ancorché prescritti, l'interesse pubblico alla
rimozione dell'atto legittimamente coincide con l'esigenza
di ripristino della legalità violata.
Occorre innanzitutto inquadrare
correttamente la reale portata del provvedimento impugnato.
Si è in presenza dell’esercizio del potere di autotutela,
segnatamente di annullamento di ufficio, da parte della
resistente amministrazione, di propria precedente
determinazione favorevole alla ricorrente. In tal senso
depone non già il richiamo alla circostanza per cui la
ricorrente avrebbe realizzato un fabbricato con
caratteristiche di villa signorile in luogo del consentito
fabbricato rurale, venendo in rilievo in tal caso un’ipotesi
di non conformità di quanto realizzato con quanto
autorizzato (ed altra avrebbe dovuto essere, in tal caso, la
misura repressiva dell’abuso da adottarsi da parte
dell’amministrazione), quanto il richiamo al rilevato
contrasto dei permessi di costruire rilasciati (e quindi
oggetto del contestato annullamento) con la legge
urbanistica Regione Calabra n. 19 del 16.04.2002 nonché
con il P.R.G. ed il regolamento edilizio dello stesso Comune
di Joppolo.
In altri termini, l’amministrazione rileva un
vizio negli atti oggetto di annullamento che segna gli
stessi ab origine, donde la necessità di intervenire con lo
strumento dell’annullamento di ufficio. E coerentemente con
questa impostazione l’amministrazione da puntualmente conto,
nell’atto avversato, della ritenuta prevalenza
dell’interesse pubblico al ripristino della legalità
rispetto a quello della ricorrente non avendo il decorso del
tempo potuto ingenerare alcun legittimo e incolpevole
affidamento. Deve peraltro il Collegio rilevare come lo
stesso proposto ricorso, che pur si diffonde sulla qualificabilità dell’immobile comunque come rurale (che,
ripetesi, non è il punto centrale della controversia), nulla
deduce sul vero presupposto dell’annullamento disposto e
cioè la contrarietà del permessi di costruire (rilasciati ed
annullati) alla superiori disposizioni di legge regionale ed
a quelle di natura programmatoria del Comune di Joppolo.
Di qui la legittimità del disposto annullamento.
Del resto, la potestà dell'Amministrazione di assumere
determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli artt. 21-quinquies e 21-nonies L.
07.08.1990 n. 241, deve
ritenersi espressione di un principio generale
dell'ordinamento che non ne assoggetta l'esercizio a precisi
vincoli temporali, purché la potestà stessa si manifesti
conforme a criteri di ragionevolezza e di certezza dei
rapporti giuridici (cfr. TAR Umbria, 22.12.2011 n.
400). E comunque, come afferma condivisibile giurisprudenza,
l'annullamento d'ufficio di una concessione edilizia non
necessita di una espressa e specifica motivazione sul
pubblico interesse, configurandosi questo nell'interesse
della collettività al rispetto della disciplina urbanistica
(cfr., in tal senso, Cons. Stato, V Sezione, 05.09.2011 n. 4982).
Osserva inoltre il Collegio che per l'autoannullamento
della concessione edilizia o del permesso di costruire, è di
norma irrilevante —salvi casi di spazi temporali esagerati— il tempo trascorso dall'attività edilizia posta in essere,
in quanto la repressione degli abusi edilizi è un preciso
obbligo dell'Amministrazione pubblica la quale, a fronte
dell'accertamento della violazione delle norme edilizie, non
gode di alcuna discrezionalità al riguardo (cfr. TAR
Trento, 11.05.2011, n. 135).
Giova ancora ricordare che,
nella specie, con ordinanza del 02.04.2010 il Tribunale
di Vibo Valentia ha rigettato la richiesta di riesame
presentata, tra gli altri, dalla odierna ricorrente, avverso
ordinanza del GIP che convalidava la misura cautelare del
sequestro preventivo disposto dal P.M. dell’area di cui alla
presente controversia da cui emerge la ritenuta
illegittimità dei permessi a costruire rilasciati. Sul punto
la giurisprudenza amministrativa ha specificamente rilevato
che “a fronte di un accertamento penale che accerti che una
concessione edilizia sia il risultato di comportamenti
illeciti, ancorché prescritti, l'interesse pubblico alla
rimozione dell'atto legittimamente coincide con l'esigenza
di ripristino della legalità violata” (cfr. TAR Milano, II Sezione, 17.01.2011 n. 89).
Quanta alla asserita violazione delle disposizioni di legge
in tema di partecipazione procedimentale, è agevole
osservare in fatto che la resistente amministrazione ha
correttamente proceduto a comunicare alla odierna
ricorrente, per come in atti del presente giudizio, l’avvio
del procedimento amministrativo conducente in ipotesi
all’annullamento in autotutela delle autorizzazioni in
precedenza rilasciate
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 10.11.2012 n. 1083 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Premesso
che la concessione per l'esercizio dell'attività
radiotelevisiva non ricomprende il titolo abilitativo
edilizio, che presuppone valutazioni urbanistiche alla
stessa sicuramente estranee, non sussistono dubbi che la
realizzazione di un traliccio di notevoli dimensioni e
l'installazione di antenna televisiva con attiguo casotto,
necessitano di titolo abilitativo.
L’opera, infatti, oggettivamente comporta alterazione
ambientale ed estetica del territorio circostante. E
certamente il titolo autorizzatorio richiamato dalla
ricorrente non ha alcuna idoneità a rendere legittima la
successiva realizzazione di una vera e propria cabina con
impianti tecnologici (che di per sé sola trascende il
casotto per contatore Enel) ma anche, e soprattutto, del
descritto traliccio.
L’autorizzazione n. 16 del 07.04.1990,
che la ricorrente assume costituire quel titolo abilitativo
la cui esistenza priverebbe del suo presupposto fondante
l’ordinanza di demolizione, concerne espressamente ed inequivocamente “lavori di realizzazione casotto per
contatore Enel” che, con ogni evidenza, nulla hanno a che
vedere con i lavori accertati quali abusivi dai Vigili
Urbani del Comune di Gasperina e consistenti in “cabina
contenente impianti tecnologici in muratura….” per un volume
di circa mc. 26 e soprattutto in un “traliccio in profilati
metallici avente un’altezza di circa mt. 9,00 installato su
una piastra in c.a. avente dimensioni fuori terra di mt.
1,60 x 3,90 per un’altezza di mt. 0,60”.
Orbene, premesso che la concessione per l'esercizio
dell'attività radiotelevisiva, di cui la ricorrente assume
legittima titolarità, non ricomprende il titolo abilitativo
edilizio, che presuppone valutazioni urbanistiche alla
stessa sicuramente estranee, non sussistono dubbi che la
realizzazione di un traliccio, come nella specie, di
notevoli dimensioni e l'installazione di antenna televisiva
con attiguo casotto, necessitano di titolo abilitativo (cfr.
da ultimo, TAR Palermo, I Sezione, 02.11.2011 n.
1954). L’opera, infatti, oggettivamente comporta alterazione
ambientale ed estetica del territorio circostante (cfr.
TAR Trento, 03.05.2002 n. 137). E certamente il titolo autorizzatorio richiamato dalla ricorrente, del quale del
resto ha dato conto la stessa amministrazione in sede di
ordinanza di demolizione, non ha alcuna idoneità a rendere
legittima la successiva realizzazione di una vera e propria
cabina con impianti tecnologici (che di per sé sola
trascende il casotto per contatore Enel) ma anche, e
soprattutto, del descritto traliccio.
In definitiva, le opere descritte nell’ordinanza risultano
abusive perché appunto prive di specifico titolo
autorizzatorio, il cui rilascio è di sicura spettanza
dell’ente locale.
Irrilevanti si appalesano, infine, le questioni che
investono il regolamento comunale per l’installazione di
impianti radioelettrici e di telefonia mobile, atteso che è
sufficiente a reggere l’ordinanza di demolizione ed a
renderla per questa via legittima la rilevata mancanza in
capo alla ricorrente di titolo edilizio per le opere sopra
citate e dunque correttamente ritenute abusive
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 10.11.2012 n.
1082 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
E' carente di motivazione
il diniego di concessione in sanatoria fondato su un
generico contrasto dell'opera con leggi o regolamenti in
materia edilizia, dovendo invece il diniego stesso
soffermarsi sulle disposizioni che si assumano ostative al
rilascio del titolo e sulle previsioni di riferimento
contenute negli strumenti urbanistici, in modo da consentire
all'interessato da un lato di rendersi conto degli
impedimenti che si frappongono alla regolarizzazione ed al
mantenimento dell'opera abusiva, dall'altro di confutare in
giudizio, in maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la
legittimità del provvedimento impugnato.
In questa direzione il provvedimento di diniego di condono,
quando si limita ad una apodittica affermazione di principio
di contrarietà alla normativa paesaggistica, risulta dunque
viziato da difetto di motivazione, atteso che l’obbligo di
motivazione, imposto dall’art. 3 della legge n. 241 del
1990, presuppone adeguate argomentazioni volte a chiarire la
non compatibilità dell’opera con le esigenze di tutela nel
contesto ambientale.
Al riguardo il Collegio ritiene infatti di aderire a
quell’orientamento secondo il quale è carente di motivazione
il diniego di concessione in sanatoria fondato su un
generico contrasto dell'opera con leggi o regolamenti in
materia edilizia, dovendo invece il diniego stesso
soffermarsi sulle disposizioni che si assumano ostative al
rilascio del titolo e sulle previsioni di riferimento
contenute negli strumenti urbanistici, in modo da consentire
all'interessato da un lato di rendersi conto degli
impedimenti che si frappongono alla regolarizzazione ed al
mantenimento dell'opera abusiva, dall'altro di confutare in
giudizio, in maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la
legittimità del provvedimento impugnato (cfr. TAR Toscana,
sez. III, 09.04.2009, n. 605; TAR Campania Napoli, sez. VI,
05.04.2012, n. 1640).
In questa direzione il provvedimento di diniego di condono,
quando si limita ad una apodittica affermazione di principio
di contrarietà alla normativa paesaggistica, risulta dunque
viziato da difetto di motivazione, atteso che l’obbligo di
motivazione, imposto dall’art. 3 della legge n. 241 del
1990, presuppone adeguate argomentazioni volte a chiarire la
non compatibilità dell’opera con le esigenze di tutela nel
contesto ambientale (TAR Campania Salerno, sez. II,
22.09.2009, n. 4978) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 09.11.2012 n. 4531 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La richiesta di sanatoria
ex art. 36 dpr 380/2001 è successiva all’attivazione del
procedimento sanzionatorio, talché non poteva esigersi, in
difetto di istanza di parte, che il comune dovesse
verificare d’ufficio la conformità urbanistica delle opere
in contestazione, atteso che un onere siffatto non è
previsto nella disciplina vigente concernente i poteri di
vigilanza e sanzionatori sull’attività edilizia abusiva.
Decorso il termine di sessanta giorni stabilito dall’art. 36
del T.U. sull’edilizia, l’istanza deve intendersi respinta;
né il silenzio-rigetto formatosi sulla stessa risulta
tempestivamente impugnato dalla parte interessata.
Neppure può ritenersi che la validità ovvero l’efficacia
dell’ordinanza di demolizione siano definitivamente
pregiudicate dalla presentazione dell’istanza di
accertamento di conformità. Invero, come chiarito dalla
Sezione in analoghe fattispecie, quest’ultima determina
piuttosto un arresto dell’efficacia della misura
ripristinatoria, nel senso che questa è soltanto sospesa,
determinandosi uno stato di temporanea quiescenza dell’atto,
all’evidente fine di evitare, in caso di accoglimento
dell’istanza, la demolizione di un’opera che, pur realizzata
in assenza o difformità dal permesso di costruire, è
conforme alla strumentazione urbanistica vigente.
Ne consegue che solo in caso di accoglimento della domanda
di sanatoria, l’ordine di demolizione cessa di avere
effetto, per il venir meno del suo presupposto, vale a dire
del carattere abusivo dell’opera realizzata, in ragione
dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso sia al momento della
presentazione della domanda. Invece, nel caso di rigetto,
anche implicito, il provvedimento sanzionatorio a suo tempo
adottato riacquista la sua efficacia, che non era
definitivamente cessata ma solo sospesa in attesa della
conclusione del nuovo iter procedimentale.
---------------
Nello schema giuridico delineato dall'art. 31 del d.P.R. n.
380/2001 non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali,
atteso che l'esercizio del potere repressivo dell’abuso
edilizio costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa
l'interesse pubblico alla sua rimozione, soprattutto quando,
come nella specie, è decorso un breve periodo di tempo tra
la realizzazione delle opere e l’emissione dei provvedimenti
sanzionatori.
In definitiva, l’ingiunzione di demolizione può ritenersi
sufficientemente motivata per effetto della stessa
descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo
necessario e sufficiente a fondare la spedizione della
misura sanzionatoria.
---------------
L'individuazione dell'area di pertinenza della "res abusiva"
non deve necessariamente compiersi al momento
dell'emanazione dell'ingiunzione di demolizione, bensì nel
provvedimento successivo con il quale viene accertata
l'inottemperanza e si procede all'acquisizione gratuita del
bene al patrimonio del comune, ai sensi dell'art. 31, comma
3, del d.P.R. n. 380 del 2001.
Osserva il Collegio che, contrariamente a quanto lamentato, il manufatto
realizzato, con le modalità costruttive compiutamente
descritte nel richiamato verbale di sopralluogo, assume
rilevanza volumetrica (sviluppando una cubatura di mc. 1918
su una superficie complessiva di mq. 347,92) ed integra un
nuovo organismo edilizio autonomamente utilizzabile, per il
quale occorre munirsi preventivamente del permesso di
costruire, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 380/2001. Né poteva esigersi che l’amministrazione
dovesse verificare la possibilità di irrogare una mera
sanzione pecuniaria, in quanto siffatta alternativa non è
prevista dall’art. 31, comma 2, dello stesso T.U.
sull’edilizia.
Con riguardo al successivo motivo –che fa leva sulla
presentazione (in data 12.01.2006) della domanda di
rilascio del permesso di costruire in sanatoria ai sensi
dell’art. 36 dello stesso T.U. n. 380/2001– è agevole
rilevare che la richiesta è successiva all’attivazione del
procedimento sanzionatorio, talché non poteva esigersi, in
difetto di istanza di parte, che il comune dovesse
verificare d’ufficio la conformità urbanistica delle opere
in contestazione, atteso che un onere siffatto non è
previsto nella disciplina vigente concernente i poteri di
vigilanza e sanzionatori sull’attività edilizia abusiva
(cfr. in termini tra le tante, da ultimo, TAR Campania,
Napoli, Sezione II, 12.01.2009, n. 52).
Va peraltro
aggiunto che, nel caso di specie, nella domanda ex art. 36
del D.P.R. n. 380/2001 la pretesa conformità urbanistica
delle opere è formulata in via del tutto generica, senza
alcuna concreta dimostrazione del rispetto delle previsioni
concernenti la destinazione di zona e dei relativi indici di
fabbricabilità. Inoltre, decorso il termine di sessanta
giorni stabilito dall’art. 36 del T.U. sull’edilizia,
l’istanza deve intendersi respinta; né il silenzio-rigetto
formatosi sulla stessa risulta tempestivamente impugnato
dalla parte interessata (cfr. TAR Campania, II Sezione, 04.02.2005, n. 816 e 13.07.2004, n. 10128).
Neppure può ritenersi che la validità ovvero l’efficacia
dell’ordinanza di demolizione siano definitivamente
pregiudicate dalla presentazione dell’istanza di
accertamento di conformità. Invero, come chiarito dalla
Sezione in analoghe fattispecie, quest’ultima determina
piuttosto un arresto dell’efficacia della misura
ripristinatoria, nel senso che questa è soltanto sospesa,
determinandosi uno stato di temporanea quiescenza dell’atto,
all’evidente fine di evitare, in caso di accoglimento
dell’istanza, la demolizione di un’opera che, pur realizzata
in assenza o difformità dal permesso di costruire, è
conforme alla strumentazione urbanistica vigente (cfr., tra
le tante, TAR Campania, II Sezione, 04.02.2005,
n. 816 e 13.07.2004, n. 10128).
Ne consegue che solo in
caso di accoglimento della domanda di sanatoria, l’ordine di
demolizione cessa di avere effetto, per il venir meno del
suo presupposto, vale a dire del carattere abusivo
dell’opera realizzata, in ragione dell’accertata conformità
dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia
vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia
al momento della presentazione della domanda. Invece, nel
caso di rigetto, anche implicito, il provvedimento
sanzionatorio a suo tempo adottato riacquista la sua
efficacia, che non era definitivamente cessata ma solo
sospesa in attesa della conclusione del nuovo iter
procedimentale.
Circa il presunto difetto di motivazione, va osservato
che nello schema giuridico delineato dall'art. 31 del d.P.R.
n. 380/2001 non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali,
atteso che l'esercizio del potere repressivo dell’abuso
edilizio costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa
l'interesse pubblico alla sua rimozione, soprattutto quando,
come nella specie, è decorso un breve periodo di tempo tra
la realizzazione delle opere e l’emissione dei provvedimenti
sanzionatori (cfr. TAR Campania, Sezione II, 23.04.2007 n. 4229; Sezione IV, 24.09.2002, n. 5556;
Consiglio Stato, Sezione IV, 27.04.2004, n. 2529).
In
definitiva, l’ingiunzione di demolizione può ritenersi
sufficientemente motivata per effetto della stessa
descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo
necessario e sufficiente a fondare la spedizione della
misura sanzionatoria.
Anche l’ulteriore censura è destituita di fondamento,
atteso che, come chiarito pacificamente in giurisprudenza,
l'individuazione dell'area di pertinenza della "res abusiva"
non deve necessariamente compiersi al momento
dell'emanazione dell'ingiunzione di demolizione, bensì nel
provvedimento successivo con il quale viene accertata
l'inottemperanza e si procede all'acquisizione gratuita del
bene al patrimonio del comune, ai sensi dell'art. 31, comma
3, del d.P.R. n. 380 del 2001 (cfr., per tutte, TAR
Campania, Sezione III, 08.09.2006, n. 7986).
La questione di legittimità costituzionale dell'art. 15,
comma 3, l. 28.01.1977 n. 10 e dell'art. 7, l. 28.02.1985 n. 47 –nella parte in cui prevedono
l'acquisizione gratuita al patrimonio del comune della
costruzione abusiva, non tempestivamente demolita, e
dell'area sulla quale essa insiste, in riferimento
all’art. 42 Cost.– oltre che inammissibile, in quanto
l’oggetto dell’odierno giudizio è solo l’ingiunzione di
demolizione impugnata, è anche manifestamente infondata
(cfr. TAR Campania, Napoli, Sezione III, 09.07.2007
n. 6581; Corte Costituzionale, 15.02.1991 n. 82).
Invero, l’acquisizione rappresenta la reazione
dell'ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi,
dapprima, esegue un'opera in totale difformità o in assenza
di idoneo titolo e, poi, non adempie l'obbligo di demolire
l'opera stessa entro il termine stabilito, per cui la
gratuità del trasferimento al patrimonio indisponibile
comunale delle costruzioni edilizie abusive rappresenta la
naturale conseguenza del carattere sanzionatorio
amministrativo del provvedimento di acquisizione, che
esclude a priori ogni problema di indennizzo.
Le considerazioni fin qui svolte permettono di superare
anche le residue censure, ove è dedotta la violazione degli
artt. 4 e 7 della L. n. 241/1990, per l’omessa comunicazione
del nominativo del responsabile del procedimento e
dell’avvio del procedimento.
Invero, quanto al primo profilo, è pacifico in
giurisprudenza che l'omessa indicazione del responsabile del
procedimento non può mai ex se assumere valenza di vizio
procedimentale tale da portare all'illegittimità dell'atto,
rappresentando una mera irregolarità, alla quale è peraltro
possibile supplire considerando responsabile il funzionario
preposto alla competente unità organizzativa, in
considerazione del richiamo effettuato nella stessa legge
all’art. 5 (cfr., tra le tante, TAR Lazio Roma, Sezione III,
09.09.2010 n. 32207; TAR Campania, Napoli,
Sezione III, 10.05.2010 n. 3420) (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 31.10.2012 n. 4350 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Sino a non molto tempo fa
l’orientamento quasi univoco dei Giudici Amministrativi era
quello di ritenere che, a fronte di una istanza di sanatoria
(accertamento di conformità o condono edilizio) per l’abuso
già oggetto di sanzione ripristinatoria da parte del Comune,
l’impugnazione proposta contro il provvedimento repressivo
fosse inammissibile se proposta dopo il deposito di quella
istanza, ed improcedibile se proposta prima della stessa:
ciò in quanto –si affermava- l’interesse processuale del
ricorrente si trasferiva da un provvedimento (quello
sanzionatorio) ritenuto oramai privo di effetti a quello che
scaturiva dal procedimento innestato sull’istanza di
sanatoria, il quale era destinato, a seguito di un riesame
dello stato abusivo (o non) dell’opera, a prendere il posto
del primo nell’assetto di interessi legati all’abuso
edilizio.
Successivamente, però, la parte della giurisprudenza
amministrativa ha preso ad affermare che la validità (ovvero
l'efficacia) dell'ordine di demolizione non risulta
pregiudicata dalla successiva presentazione di un'istanza di
sanatoria ai sensi dell'art. 13 della l. n. 47 del 1985
(ora, art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001), posto che nel sistema
non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi
un tale effetto, sicché, se, da un lato, la presentazione
della domanda di sanatoria attraverso l'istituto
dell'accertamento di conformità determina inevitabilmente un
arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione
(all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento
dell'istanza, la demolizione di un'opera astrattamente
suscettibile di sanatoria), dall'altro occorre ritenere che
l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa,
cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea
quiescenza. All'esito del procedimento di sanatoria, in caso
di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione
rimarrà privo di effetti in ragione del sopravvenuto venir
meno dell'originario carattere abusivo dell'opera
realizzata.
Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di
demolizione riacquista la sua efficacia.
E’, quest’ultimo, l’orientamento che la Sezione ritiene di
potere condividere con riguardo ai casi come il presente, in
cui in sede di diniego di sanatoria il Comune non ha
reiterato l’ordine di demolizione delle opere ritenute
abusive, in quanto tale soluzione consente di contemperare
efficacemente l’interesse del privato a non subire
l’abbattimento di un fabbricato in astratto suscettibile di
sanatorie edilizia con l’interesse pubblico alla immediata
repressione dell’abuso nel caso in cui detta sanatoria non
possa essere riconosciuta, e quindi risulti definitivo lo
stato di abusività dell’immobile.
In effetti, sino a non molto tempo fa l’orientamento quasi
univoco dei Giudici Amministrativi, ed anche di questo TAR,
era quello di ritenere che, a fronte di una istanza di
sanatoria (accertamento di conformità o condono edilizio)
per l’abuso già oggetto di sanzione ripristinatoria da parte
del Comune, l’impugnazione proposta contro il provvedimento
repressivo fosse inammissibile se proposta dopo il deposito
di quella istanza, ed improcedibile se proposta prima della
stessa: ciò in quanto –si affermava- l’interesse processuale
del ricorrente si trasferiva da un provvedimento (quello
sanzionatorio) ritenuto oramai privo di effetti a quello che
scaturiva dal procedimento innestato sull’istanza di
sanatoria, il quale era destinato, a seguito di un riesame
dello stato abusivo (o non) dell’opera, a prendere il posto
del primo nell’assetto di interessi legati all’abuso
edilizio.
Successivamente, però, la parte della giurisprudenza
amministrativa ha preso ad affermare che la validità (ovvero
l'efficacia) dell'ordine di demolizione non risulta
pregiudicata dalla successiva presentazione di un'istanza di
sanatoria ai sensi dell'art. 13 della l. n. 47 del 1985
(ora, art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001), posto che nel sistema
non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi
un tale effetto, sicché, se, da un lato, la presentazione
della domanda di sanatoria attraverso l'istituto
dell'accertamento di conformità determina inevitabilmente un
arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione
(all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento
dell'istanza, la demolizione di un'opera astrattamente
suscettibile di sanatoria), dall'altro occorre ritenere che
l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa,
cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea
quiescenza. All'esito del procedimento di sanatoria, in caso
di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione
rimarrà privo di effetti in ragione del sopravvenuto venir
meno dell'originario carattere abusivo dell'opera
realizzata.
Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di
demolizione riacquista la sua efficacia (TAR Campania
Napoli, sez. II, 06.07.2012 n. 3249; sez. II, 26.06.2012 n.
3017; sez. III, 04.05.2012 n. 2044; sez. III, 04.05.2012 n.
2051; sez. II, 02.05.2012 n. 1981; TAR Calabria Catanzaro,
sez. I, 16.04.2012 n. 389).
E’, quest’ultimo, l’orientamento che la Sezione ritiene di
potere condividere con riguardo ai casi come il presente, in
cui in sede di diniego di sanatoria il Comune non ha
reiterato l’ordine di demolizione delle opere ritenute
abusive, in quanto tale soluzione consente di contemperare
efficacemente l’interesse del privato a non subire
l’abbattimento di un fabbricato in astratto suscettibile di
sanatorie edilizia con l’interesse pubblico alla immediata
repressione dell’abuso nel caso in cui detta sanatoria non
possa essere riconosciuta, e quindi risulti definitivo lo
stato di abusività dell’immobile
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 26.10.2012 n. 4303 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La funzione di
concentrazione dei poteri pubblici incidenti sulla
installazione e l'esercizio degli impianti di distribuzione
dei carburanti, assolta dalla pianificazione di cui
all'articolo 2 del decreto legislativo 11.02.1998, n. 32, fa
sì che tutte le condizioni ed i presupposti per il rilascio,
sia dell'autorizzazione che del permesso a costruire, siano
definite in questa sede. Diversamente opinando, infatti,
verrebbe svuotata di contenuto l'intera riforma.
Ed invero, l’art. 1 del citato decreto prevede
esplicitamente che le autorizzazioni in questione siano
subordinate esclusivamente alla verifica della conformità
alle disposizioni del piano regolatore, alle prescrizioni
fiscali e a quelle concernenti la sicurezza sanitaria,
ambientale e stradale, alle disposizioni per la tutela dei
beni storici e artistici nonché alle norme di indirizzo
programmatico delle regioni, e che insieme
all'autorizzazione il comune rilascia le concessioni
edilizie necessarie ai sensi dell'articolo 2.
Va osservato, al riguardo, che
l’art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 32 del 1998 prevede che
la localizzazione degli impianti di carburanti costituisce
un mero adeguamento degli strumenti urbanistici in tutte le
zone e sottozone del piano regolatore generale non
sottoposte a particolari vincoli paesaggistici, ambientali
ovvero monumentali e non comprese nelle zone territoriali
omogenee A.
La disposizione si iscrive nel processo di semplificazione
per l’apertura o il mantenimento degli impianti di
distribuzione che ha ispirato il d.lgs. n. 32 del 1998.
Sul punto, la giurisprudenza del Giudice d’appello ha
condivisibilmente avuto modo di affermare che “la
funzione di concentrazione dei poteri pubblici incidenti
sulla installazione e l'esercizio degli impianti di
distribuzione dei carburanti, assolta dalla pianificazione
di cui all'articolo 2 del decreto legislativo 11.02.1998, n.
32, fa sì che tutte le condizioni ed i presupposti per il
rilascio, sia dell'autorizzazione che del permesso a
costruire, siano definite in questa sede. Diversamente
opinando, infatti, verrebbe svuotata di contenuto l'intera
riforma” (Consiglio di Stato, sez. V, 21.09.2005 n.
4945).
Ed invero, l’art. 1 del citato decreto prevede
esplicitamente che le autorizzazioni in questione siano
subordinate esclusivamente alla verifica della conformità
alle disposizioni del piano regolatore, alle prescrizioni
fiscali e a quelle concernenti la sicurezza sanitaria,
ambientale e stradale, alle disposizioni per la tutela dei
beni storici e artistici nonché alle norme di indirizzo
programmatico delle regioni, e che insieme
all'autorizzazione il comune rilascia le concessioni
edilizie necessarie ai sensi dell'articolo 2
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 26.10.2012 n. 4303 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La validità dell'ordine
di demolizione non risulta pregiudicata dalla successiva
presentazione di un'istanza di sanatoria ai sensi dell’art.
36 D.P.R. n. 380 del 2001, posto che nell’attuale sistema
normativo (coerentemente al principio generale secondo cui
la legittimità di un provvedimento amministrativo va
verificata esclusivamente con riferimento alla situazione di
fatto e di diritto esistente al momento della sua
emanazione) non è rinvenibile una previsione dalla quale
possa desumersi un tale effetto.
---------------
Gli atti di natura urgente e vincolata -come appunto quelli
sanzionatori in materia edilizia- non richiedono apporti
partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono
essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di
avvio del procedimento repressivo.
In ogni caso, sarebbe anche priva di fondamento sul piano
giuridico, dal momento che la validità dell'ordine di
demolizione non risulterebbe pregiudicata dalla successiva
presentazione di un'istanza di sanatoria ai sensi dell’art.
36 D.P.R. n. 380 del 2001, posto che nell’attuale sistema
normativo (coerentemente al principio generale secondo cui
la legittimità di un provvedimento amministrativo va
verificata esclusivamente con riferimento alla situazione di
fatto e di diritto esistente al momento della sua
emanazione) non è rinvenibile una previsione dalla quale
possa desumersi un tale effetto (cfr. C.d.S., sez. IV,
19.02.2008, n. 849, TAR, Campania, Napoli, sez. II,
14.09.2009, n. 4961).
---------------
In relazione alla quarta
censura, si deve infine osservare che la stessa risulta
destituita di fondamento sia in punto di fatto (dal momento
che con l'ordinanza di sospensione lavori del 04.08.2010
l'amministrazione ha espressamente dato comunicazione
all'interessato, <<ai sensi e per gli effetti degli
articoli 7 e seguenti della legge n. 241/1990, … dell'avvio
del procedimento volto a verificare la legittimità delle
opere eseguite in base al permesso di costruire n. 19/2007
del 22/5/2007 e a sanzionare eventuali attività non
legittimate …>>), sia in punto di diritto (alla luce del
pacifico principio giurisprudenziale, pienamente condiviso
dalla Sezione, in base al quale gli atti di natura urgente e
vincolata -come appunto quelli sanzionatori in materia
edilizia- non richiedono apporti partecipativi del soggetto
destinatario e quindi non devono essere necessariamente
preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento
repressivo: cfr. C.d.S., Sez. IV, 01.10.2007, n. 5049; TAR
Campania, Napoli, sez. II, 06.07.2012, n. 3249)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 26.10.2012 n. 4288 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Secondo la disposizione di cui all'articolo 22, comma
secondo, D.P.R. n. 380/2001 sono realizzabili mediante
denuncia di inizio attività (oltre agli interventi di cui al
comma primo) <<le varianti a permessi di costruire che non
incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che
non modificano la destinazione d'uso e la categoria
edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio e non violano
le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di
costruire. …>>.
Si tratta delle varianti cosiddette leggere, che consistono
nella realizzazione di interventi edilizi in lieve
difformità rispetto al progetto assentito, che si rendano
necessari nel corso dell'edificazione per ragioni tecniche
non previste o prevedibili al momento della redazione di
esso.
Da tale ambito vanno invece esclusi gli interventi che
consistono nella integrale ristrutturazione dell'edificio,
nonché in modifiche esterne, tipologiche e di destinazione
dei locali di tale entità da determinare sostanziali
variazioni di sagoma, volumetria e destinazione d'uso
dell'originario progetto, con la conseguenza che, in tali
casi, è invece necessario il permesso di costruire.
Ciò posto, ritiene il Collegio
che ai fini della risoluzione della presente controversia
occorra fare riferimento alla disposizione di cui
all'articolo 22, comma secondo, D.P.R. n. 380/2001, in base
alla quale sono altresì realizzabili mediante denuncia di
inizio attività (oltre agli interventi di cui al comma
primo) <<le varianti a permessi di costruire che non
incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che
non modificano la destinazione d'uso e la categoria
edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio e non violano
le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di
costruire. …>>.
Si tratta delle varianti cosiddette leggere, che consistono
nella realizzazione di interventi edilizi in lieve
difformità rispetto al progetto assentito, che si rendano
necessari nel corso dell'edificazione per ragioni tecniche
non previste o prevedibili al momento della redazione di
esso.
Da tale ambito vanno invece esclusi gli interventi che
consistono nella integrale ristrutturazione dell'edificio,
nonché in modifiche esterne, tipologiche e di destinazione
dei locali di tale entità da determinare sostanziali
variazioni di sagoma, volumetria e destinazione d'uso
dell'originario progetto, con la conseguenza che, in tali
casi, è invece necessario il permesso di costruire (C.d.S.,
Sez. IV, 21.05.2010, n. 3231; TAR Lombardia, Milano, Sez. IV,
09.03.2011, n. 642; Cass. Pen., Sez. III, 27.10.2010, n.
41752)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 26.10.2012 n. 4288 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Per “sagoma” dell'edificio preesistente deve intendersi <<la
conformazione plano-volumetrica della costruzione e il suo
perimetro considerato in senso verticale e orizzontale>>.
La creazione di balconi e l'apertura di finestre,
modificando il prospetto principale dell'abitazione, non
sono da considerare quale opera di manutenzione
straordinaria e ciò si verifica anche se non venga alterata
la volumetria dell'edificio, perché nuovi balconi e nuove
finestre ne alterano i prospetti ed, in definitiva, la
sagoma.
Appare altresì opportuno
precisare che per “sagoma” dell'edificio preesistente
deve intendersi <<la conformazione plano-volumetrica
della costruzione e il suo perimetro considerato in senso
verticale e orizzontale>> (Corte Costituzionale,
23.11.2011, n. 309; TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. I,
29.06.2012, n. 463) ed inoltre che, secondo la
giurisprudenza amministrativa, <<la creazione di balconi
e l'apertura di finestre, modificando il prospetto
principale dell'abitazione, non sono da considerare quale
opera di manutenzione straordinaria e ciò si verifica anche
se non venga alterata la volumetria dell'edificio, perché
nuovi balconi e nuove finestre ne alterano i prospetti ed,
in definitiva, la sagoma>> (cfr. C.d.S., Sez. I,
09.05.2012, n. 380)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 26.10.2012 n. 4288 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Se è vero che l’art. 9 della legge n. 47/1985
attribuisce espressamente il potere sanzionatorio- qualora
le opere siano state eseguite su immobili vincolati ai sensi
delle leggi 01.06.1939, n. 1089, e 29.06.1939, n. 1497-
all’”amministrazione competente a vigilare sull'osservanza
del vincolo”, tuttavia la giurisprudenza ha sempre ritenuto
che tale disposizione non inibisca la competenza generale
del Sindaco –ed ora del dirigente- in materia di vigilanza e
di repressione di detti abusi. Ciò sia per l'insopprimibile
differenza degli interessi pubblici tutelati dai due organi
amministrativi, mirante l'uno alla salvaguardia del
patrimonio artistico ed ambientale e l'altro alla tutela
dell'assetto urbanistico edilizio, sia in virtù del dettato
dell'art. 4 della stessa l. n. 47 del 1985 (ora art. 27 DPR
380/2001) in forza del quale il Sindaco provvede al
ripristino dei luoghi previa comunicazione alle
amministrazioni competenti, le quali possono intervenire
anche di loro iniziativa.
Pertanto il Collegio non ritiene di doversi discostare dalla
giurisprudenza costantemente seguita da questa Sezione in
merito alla concorrente competenza del Comune, quale
autorità preposta all’osservanza della normativa edilizia ed
urbanistica e della Soprintendenza, quale autorità preposta
alla vigilanza sul vincolo storico e artistico.
Sul punto, l'art. 27 citato riconosce all'Amministrazione
Comunale il potere di vigilanza e controllo sulle attività
urbanistico-edilizie del territorio per assicurarne la
rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici e alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi, e impone
l'obbligo, per il dirigente, di adottare immediatamente
provvedimenti definitivi, al fine di ripristinare la
legalità violata dall'intervento edilizio realizzato,
mediante l'esercizio di un potere-dovere del tutto vincolato
dell'organo comunale, senza margini di discrezionalità,
diretto a reprimere gli abusi edilizi accertati.
Già sotto il vigore della L. 47/1985 non era posto in dubbio
che, sebbene gli articoli 9 e 10, comma 3, di tale legge
prevedessero, l'intervento dell'autorità preposta al vincolo
nei riguardi degli abusi edilizi commessi su edifici
vincolati, tali disposizioni non potevano valere a smentire
la competenza generale del Comune in materia di vigilanza e
di repressione di detti abusi, stante l'insopprimibile
differenza degli interessi pubblici tutelati dai due organi
amministrativi, mirante l'uno alla salvaguardia del
patrimonio artistico ed ambientale e l'altro alla tutela
dell'assetto urbanistico-edilizio.
Anche nel sistema delineato dall'art. 27 del DPR 380/2001 il
legislatore ha previsto una competenza alternativa tra il
Comune e l'Autorità preposta al vincolo in materia di
repressione degli abusi perpetrati in zona vincolata,
dandosi al contempo carico di evitare la sovrapposizione del
concreto esercizio del potere demandato alle due
Amministrazioni competenti mediante la prescrizione della
previa comunicazione all'Autorità che deve salvaguardare il
vincolo, la quale può eventualmente intervenire, ai fini
della demolizione, anche di propria iniziativa.
La differenza tra gli interessi pubblici curati dalle due
Amministrazioni cui si è fatto riferimento in precedenza
giustifica il mantenimento della doppia competenza ad
irrogare la sanzione anche dopo le modifiche all'art. 27
citato apportate con l'art. 32 del D.L. 269/2003, per cui:
- il dirigente comunale può comminare la sanzione anche
qualora accerti "l'esecuzione" di opere abusive, e non solo
il loro "inizio" (comma 44);
- lo stesso organo deve esercitare tale potere "in tutti i
casi di difformità dalle norme urbanistiche e dalle
prescrizioni degli strumenti urbanistici" (comma 45);
- per le opere abusivamente realizzate su immobili
dichiarati monumento nazionale con provvedimenti aventi
forza di legge o dichiarati di interesse particolarmente
importante ai sensi degli articoli 6 e 7 del decreto
legislativo 29.10.1999, n. 490, o su beni di interesse
archeologico, nonché per le opere abusivamente realizzate su
immobili soggetti a vincolo o di inedificabilità assoluta in
applicazione delle disposizioni del titolo II del decreto
legislativo 29.10.1999, n. 490, il Soprintendente, su
richiesta della regione, del comune o delle altre autorità
preposte alla tutela, ovvero decorso il termine di 180
giorni dall'accertamento dell'illecito, procede alla
demolizione, anche avvalendosi delle modalità operative di
cui ai commi 55 e 56 dell'articolo 2 della legge 23.12.1996,
n. 662 (comma 46).
Se è vero, infatti, che l’art. 9 della legge n. 47/1985
(abrogato dall’art. 136, comma 2, d.p.r. 06.06.2001, n. 380
a decorrere dal 30.06.2003) attribuisce espressamente il
potere sanzionatorio- qualora le opere siano state eseguite
su immobili vincolati ai sensi delle leggi 01.06.1939, n.
1089, e 29.06.1939, n. 1497- all’”amministrazione
competente a vigilare sull'osservanza del vincolo”,
tuttavia la giurisprudenza ha sempre ritenuto che tale
disposizione non inibisca la competenza generale del Sindaco
–ed ora del dirigente- in materia di vigilanza e di
repressione di detti abusi. Ciò sia per l'insopprimibile
differenza degli interessi pubblici tutelati dai due organi
amministrativi, mirante l'uno alla salvaguardia del
patrimonio artistico ed ambientale e l'altro alla tutela
dell'assetto urbanistico edilizio, sia in virtù del dettato
dell'art. 4 della stessa l. n. 47 del 1985 (ora art. 27 DPR
380/2001) in forza del quale il Sindaco provvede al
ripristino dei luoghi previa comunicazione alle
amministrazioni competenti, le quali possono intervenire
anche di loro iniziativa (Consiglio Stato, sez. V,
21.01.1997, n. 62).
Pertanto il Collegio non ritiene di doversi discostare dalla
giurisprudenza costantemente seguita da questa Sezione in
merito alla concorrente competenza del Comune, quale
autorità preposta all’osservanza della normativa edilizia ed
urbanistica e della Soprintendenza, quale autorità preposta
alla vigilanza sul vincolo storico e artistico (cfr. al
riguardo TAR Campania Napoli, Sez. IV, 05-08-2009, n. 4733;
TAR Campania Napoli, Sez. IV, 05-08-2009, n. 4735; TAR
Campania Napoli, sez. IV, n. 2625 del 13.05.2009; TAR
Campania Napoli, sez. IV, n. 7561/2006; TAR Campania Napoli,
sez. IV n. 18670/2005).
Sul punto la Sezione ha già avuto modo di rilevare che
l'art. 27 citato riconosce all'Amministrazione Comunale il
potere di vigilanza e controllo sulle attività
urbanistico-edilizie del territorio per assicurarne la
rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici e alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi, e impone
l'obbligo, per il dirigente, di adottare immediatamente
provvedimenti definitivi, al fine di ripristinare la
legalità violata dall'intervento edilizio realizzato,
mediante l'esercizio di un potere-dovere del tutto vincolato
dell'organo comunale, senza margini di discrezionalità,
diretto a reprimere gli abusi edilizi accertati.
Già sotto il vigore della L. 47/1985 non era posto in dubbio
che, sebbene gli articoli 9 e 10, comma 3, di tale legge
prevedessero, l'intervento dell'autorità preposta al vincolo
nei riguardi degli abusi edilizi commessi su edifici
vincolati, tali disposizioni non potevano valere a smentire
la competenza generale del Comune in materia di vigilanza e
di repressione di detti abusi, stante l'insopprimibile
differenza degli interessi pubblici tutelati dai due organi
amministrativi, mirante l'uno alla salvaguardia del
patrimonio artistico ed ambientale e l'altro alla tutela
dell'assetto urbanistico-edilizio.
Anche nel sistema delineato dall'art. 27 del DPR 380/2001 il
legislatore ha previsto una competenza alternativa tra il
Comune e l'Autorità preposta al vincolo in materia di
repressione degli abusi perpetrati in zona vincolata,
dandosi al contempo carico di evitare la sovrapposizione del
concreto esercizio del potere demandato alle due
Amministrazioni competenti mediante la prescrizione della
previa comunicazione all'Autorità che deve salvaguardare il
vincolo, la quale può eventualmente intervenire, ai fini
della demolizione, anche di propria iniziativa.
La differenza tra gli interessi pubblici curati dalle due
Amministrazioni cui si è fatto riferimento in precedenza
giustifica il mantenimento della doppia competenza ad
irrogare la sanzione anche dopo le modifiche all'art. 27
citato apportate con l'art. 32 del D.L. 269/2003, per cui:
- il dirigente comunale può comminare la sanzione anche
qualora accerti "l'esecuzione" di opere abusive, e
non solo il loro "inizio" (comma 44);
- lo stesso organo deve esercitare tale potere "in tutti
i casi di difformità dalle norme urbanistiche e dalle
prescrizioni degli strumenti urbanistici" (comma 45);
- per le opere abusivamente realizzate su immobili
dichiarati monumento nazionale con provvedimenti aventi
forza di legge o dichiarati di interesse particolarmente
importante ai sensi degli articoli 6 e 7 del decreto
legislativo 29.10.1999, n. 490, o su beni di interesse
archeologico, nonché per le opere abusivamente realizzate su
immobili soggetti a vincolo o di inedificabilità assoluta in
applicazione delle disposizioni del titolo II del decreto
legislativo 29.10.1999, n. 490, il Soprintendente, su
richiesta della regione, del comune o delle altre autorità
preposte alla tutela, ovvero decorso il termine di 180
giorni dall'accertamento dell'illecito, procede alla
demolizione, anche avvalendosi delle modalità operative di
cui ai commi 55 e 56 dell'articolo 2 della legge 23.12.1996,
n. 662 (comma 46).
In particolare, l'aggiunta all'originario testo dell'art. 27
apportata dal comma 46 dell'art. 32 D.L. 269/2003, che
contempla il potere soprintendentizio, non vale a privare
della competenza il Dirigente comunale, in quanto il
legislatore ha chiarito, proprio con il comma 45 del
medesimo art. 32 D.L. 269/2003, che la competenza dell'Ente
locale riguarda "tutti i casi di difformità dalle norme
urbanistiche e dalle prescrizioni degli strumenti
urbanistici", tra cui, evidentemente, anche quelli
relativi ad immobili vincolati.
Pertanto per gli immobili sottoposti a vincolo, come nella
specie dichiarati di interesse particolarmente importante,
la sanzione demolitoria ben può essere irrogata dal Comune,
che deve limitarsi a dare avviso alla Soprintendenza, fermo
restando che la Soprintendenza dovrà procedere alla fase
esecutiva della demolizione -senza che con ciò sia esclusa
la competenza provvedimentale del Comune- ai sensi
dell’ultima parte dell’art. 27, comma 2, come aggiunta
dall'articolo 32, commi 44, 45 e 46, legge n. 326 del 2003,
come palesato dal riferimento al termine “procedere”
anziché a quello di “provvedere” di cui all’art. 27,
comma 2, prima parte, ed al riferimento alle modalità
operative di cui alla legge n. 662 del 1996, riferimento che
non può che investire la fase esecutiva della demolizione
anziché quella provvedimentale, che rimane di competenza del
Comune, pur potendo cumularsi con quella della
Soprintendenza.
Né può revocarsi in dubbio che, con riferimento ad un
immobile sottoposto a vincolo monumentale, la prescrizione
concernente il rispetto della tipologia degli infissi
includa anche il materiale costruttivo e non solo il
disegno, atteso che nella immagine della facciata di un
edificio sottoposto a vincolo monumentale il materiale di
cui è composto l’infisso costituisce parte integrante del
bene protetto, con riferimento alla filologia del
fabbricato.
Va al riguardo precisato che, in tema di tutela delle cose
d'interesse artistico o storico, la necessità della previa
autorizzazione dell’autorità preposta alla tutela del
vincolo si riferisce alle "opere di qualunque genere"
comprendendo con tale espressione qualsiasi intervento,
anche se di limitata entità, che si presenti potenzialmente
idoneo ad arrecare pregiudizio all'interesse tutelato dal
vincolo. Nella specie l’intervento in parte qua è consistito
nella sostituzione degli infissi esterni, con altri in
alluminio, venendo ad incidere sull’aspetto esteriore di un
edificio vincolato, sicché non può porsi in dubbio
l’esistenza di un pregiudizio all’interesse architettonico
tutelato dal vincolo medesimo
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 26.10.2012 n. 4278 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La sopravvenuta
presentazione della domanda di condono edilizio rende
improcedibile il ricorso proposto avverso l’ordine di
demolizione degli abusi edilizi, in quanto, in caso di
diniego di condono, l’amministrazione sarà tenuta ad
emettere il conseguente nuovo provvedimento sanzionatorio,
mentre in caso di accoglimento la costruzione diventerà
lecita urbanisticamente.
E’ principio costante in
giurisprudenza quello in base al quale la sopravvenuta
presentazione della domanda di condono edilizio rende
improcedibile il ricorso proposto avverso l’ordine di
demolizione degli abusi edilizi, in quanto, in caso di
diniego di condono, l’amministrazione sarà tenuta ad
emettere il conseguente nuovo provvedimento sanzionatorio,
mentre in caso di accoglimento la costruzione diventerà
lecita urbanisticamente (TAR Lazio Roma, sez. II,
07/09/2010, n. 32129; TAR Campania Napoli, sez. VI,
15/07/2010, n. 16806; TAR Toscana Firenze, sez. III,
26/02/2010, n. 516; TAR Puglia Lecce, sez. I, 03/04/2007, n.
1499)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 26.10.2012 n. 4278 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’ordine di demolizione
adottato in pendenza di istanza di condono contrasta con
l'art. 38 della legge n. 47/1985, articolo richiamato, a sua
volta, nel decreto legge 269/2003. Questo disposto normativo
impone all'Amministrazione di astenersi, sino alla
definizione del procedimento attivato per il rilascio della
concessione in sanatoria, da ogni iniziativa repressiva che
vanificherebbe a priori il rilascio del titolo abilitativo
in sanatoria, sicché il Comune ha l'obbligo di pronunciarsi
sulla condonabilità o meno nell'opera edilizia abusiva , non
potendo l’ingiunzione a demolire costituire implicito
rigetto della domanda di condono.
Invero, in caso di diniego di condono, l’amministrazione
sarà tenuta ad emettere il conseguente doveroso nuovo
provvedimento sanzionatorio, mentre in caso di accoglimento
la costruzione diventerà lecita urbanisticamente.
Né vale in contrario rilevare che si tratta di immobile sito
in zona vincolata, che precluderebbe a priori il rilascio
del titolo in sanatoria, in quanto la domanda di condono è
stata presentata ai sensi della legge 47/1985 e 724/1994,
disposizioni entrambe che non escludono in astratto ed a
priori la sanabilità degli edifici realizzati in zone
sottoposte a vincolo paesaggistico.
Invero solo la sanatoria prevista dalla normativa sul
condono edilizio di cui alla Legge n. 326 del 2003, articolo
32, è inapplicabile all'immobile ubicato in zona sottoposta
a vincolo paesaggistico. Si afferma al riguardo, nella
materia dell’esecuzione penale, che il giudice
dell'esecuzione, ai fini dell'accoglimento o rigetto della
domanda di sospensione dell'esecuzione, deve accertare se
nel caso in esame é stata presentata domanda di condono ai
sensi della L. n. 724/1994 ovvero del D.L. n. 269/2003,
convertito in L. n. 326/2003, nonché la tempestività della
domanda e l'esistenza degli altri requisiti sopra precisati.
L’art. 32, nel testo riformato dalla L. n. 326/2003, al
primo comma qualifica come silenzio rifiuto la situazione
lesiva generata dall’inerzia dell’autorità competente ad
esprimere il parere, al secondo comma indica gli immobili
suscettibili di sanatoria insistenti in aree vincolate, tra
i quali non rientrano gli immobili siti in zone soggette a
tutela ambientale, che dunque debbono essere compresi (terzo
comma) tra quelli per cui la sanatoria non è consentita ai
sensi dell’art. 33.
Che i limiti di cui al comma 27 dell’articolo 32 siano
aggiuntivi e ulteriori rispetto a quelli di cui agli
articoli 32 e 33 della legge n. 47 del 1985 è stato
affermato, sia pure in obiter dictum, dalla pronuncia della
Consulta n. 196 del 2004, dove, al sesto periodo del par. 17
della motivazione in diritto, la Corte ha osservato che il
condono del 2003, pur in una linea di sostanziale
continuità, diverge in taluni punti rispetto a quello del
1985-1994, tra cui spicca la circostanza di aver introdotto
“alcuni nuovi vincoli all’applicabilità del condono (comma
27) che si aggiungono a quanto previsto dagli artt. 32 e 33
della legge n. 47 del 1985” .
L'art. 32, comma 27, d.l. n. 269 del 2003 è dunque
previsione normativa che esclude dalla sanatoria le opere
abusive realizzate su aree caratterizzate da determinate
tipologie di vincoli (in particolare, quelli imposti sulla
base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi
idrogeologici e della falde acquifere, dei beni ambientali e
paesaggistici, nonché dei parchi e delle aree protette
nazionali, regionali e provinciali), subordinando peraltro
l'esclusione a due condizioni costituite:
a) dal fatto che il vincolo sia stato istituto prima
dell'esecuzione delle opere abusive;
b) dal fatto che le opere realizzate in assenza o in
difformità del titolo abilitativo risultino non conformi
alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici.
--------------
In base alla disciplina posta dal d.l. n. 269 del 2003, la
sanabilità delle opere realizzate in zona vincolata è
radicalmente esclusa solo qualora si tratti di un vincolo di
inedificabilità assoluta e non anche nella diversa ipotesi
di un vincolo di inedificabilità relativa, ossia di un
vincolo superabile mediante un giudizio a posteriori di
compatibilità paesaggistica. Infatti, è ben possibile
ottenere la sanatoria delle opere abusive realizzate in zona
sottoposta ad un vincolo di inedificabilità relativa, purché
ricorrano le condizioni previste dall'art. 32, comma 27,
lett. d), d.l. n. 269 del 2003, convertito dalla l. n. 326
del 2003.
In conclusione, avuto riguardo all’epoca di presentazione
della domanda di condono edilizio nel caso di specie, poiché
l’art. 32 della l. n. 47/1985, prevedeva, nel suo testo
originario (comma 1): “Fatte salve le fattispecie previste
dall'art. 33, il rilascio della concessione o della
autorizzazione in sanatoria per opere eseguite su aree
sottoposte a vincolo, ivi comprese quelle ricadenti nei
parchi nazionali e regionali, è subordinato al parere
favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela dal
vincolo stesso. Qualora tale parere non venga reso dalle
suddette amministrazioni entro centoventi giorni dalla
domanda, si intende reso in senso negativo.”, dal combinato
disposto degli artt. 32 e 33 legge n. 47 del 1985 si evince
non il divieto assoluto e automatico di condonabilità delle
opere ricadenti in zona soggetta a vincolo, ma soltanto la
necessità della valutazione, da parte dell’organo
competente, della compatibilità o meno delle opere oggetto
dell’istanza con il vincolo stesso.
Tale conclusione si estende anche alla domanda di condono
presentata ai sensi della legge n. 724/1994, la quale, ha in
sostanza comportato la riapertura dei termini del precedente
condono –ovverosia risalente al 1985– prevedendo l’art. 39
del citato corpus normativo che “Le disposizioni di cui ai
capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47, e successive
modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate
dal presente articolo, si applicano alle opere abusive che
risultino ultimate entro il 31.12.1993…”.
Il rinvio operato dalla legge alla disciplina del precedente
condono comporta che trova applicazione l’art. 32 della
legge n. 47/1985 che consente la sanatoria, almeno in linea
generale, anche degli immobili insistenti su aree sottoposte
a vincolo paesaggistico. Esso, al primo comma, primo
periodo, infatti statuisce che “Fatte salve le fattispecie
previste dall'articolo 33, il rilascio del titolo
abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su
immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere
favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del
vincolo stesso”.
La giurisprudenza ha peraltro osservato, in ordine a tale
disposizione, che la stessa: “nel prevedere la necessità del
parere dell'Amministrazione preposta alla tutela del vincolo
paesaggistico ai fini del rilascio delle concessioni in
sanatoria, non reca alcuna deroga ai principi generali e
pertanto deve interpretarsi nel senso che l'obbligo di
pronuncia dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo
sussiste in relazione all'esistenza del vincolo al momento
in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a
prescindere dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato
introdotto, atteso che tale valutazione corrisponde
all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il
vincolo dei manufatti realizzati abusivamente”.
Poiché la presentazione della domanda di condono è anteriore
alla spedizione dell’ordine di demolizione, quest’ultima
determinazione è da considerarsi illegittima, in quanto
–secondo costante giurisprudenza di questo TAR- l’ordine di
demolizione adottato in pendenza di istanza di condono
contrasta con l'art. 38 della legge n. 47/1985, articolo
richiamato, a sua volta, nel decreto legge 269/2003. Questo
disposto normativo impone all'Amministrazione di astenersi,
sino alla definizione del procedimento attivato per il
rilascio della concessione in sanatoria, da ogni iniziativa
repressiva che vanificherebbe a priori il rilascio del
titolo abilitativo in sanatoria, sicché il Comune ha
l'obbligo di pronunciarsi sulla condonabilità o meno
nell'opera edilizia abusiva , non potendo l’ingiunzione a
demolire costituire implicito rigetto della domanda di
condono.
Invero, in caso di diniego di condono, l’amministrazione
sarà tenuta ad emettere il conseguente doveroso nuovo
provvedimento sanzionatorio, mentre in caso di accoglimento
la costruzione diventerà lecita urbanisticamente (TAR Lazio
Roma, sez. II, 07/09/2010, n. 32129; TAR Campania Napoli,
sez. VI, 15/07/2010, n. 16806; TAR Toscana Firenze, sez. III,
26/02/2010, n. 516; TAR Puglia Lecce, sez. I, 03/04/2007, n.
1499).
Né vale in contrario rilevare che si tratta di immobile sito
in zona vincolata, che precluderebbe a priori il rilascio
del titolo in sanatoria, in quanto la domanda di condono è
stata presentata ai sensi della legge 47/1985 e 724/1994,
disposizioni entrambe che non escludono in astratto ed a
priori la sanabilità degli edifici realizzati in zone
sottoposte a vincolo paesaggistico.
Invero solo la sanatoria prevista dalla normativa sul
condono edilizio di cui alla Legge n. 326 del 2003, articolo
32, è inapplicabile all'immobile ubicato in zona sottoposta
a vincolo paesaggistico (cfr. Cassazione penale, Sez. III,
14.01.2011, n. 766). Si afferma al riguardo, nella materia
dell’esecuzione penale, che il giudice dell'esecuzione, ai
fini dell'accoglimento o rigetto della domanda di
sospensione dell'esecuzione, deve accertare se nel caso in
esame é stata presentata domanda di condono ai sensi della
L. n. 724/1994 ovvero del D.L. n. 269/2003, convertito in L.
n. 326/2003, nonché la tempestività della domanda e
l'esistenza degli altri requisiti sopra precisati (cfr.
Cassazione penale Sez. III, 14/01/2011 n. 761).
L’art. 32, nel testo riformato dalla L. n. 326/2003, al
primo comma qualifica come silenzio rifiuto la situazione
lesiva generata dall’inerzia dell’autorità competente ad
esprimere il parere, al secondo comma indica gli immobili
suscettibili di sanatoria insistenti in aree vincolate, tra
i quali non rientrano gli immobili siti in zone soggette a
tutela ambientale, che dunque debbono essere compresi (terzo
comma) tra quelli per cui la sanatoria non è consentita ai
sensi dell’art. 33.
Che i limiti di cui al comma 27 dell’articolo 32 siano
aggiuntivi e ulteriori rispetto a quelli di cui agli
articoli 32 e 33 della legge n. 47 del 1985 è stato
affermato, sia pure in obiter dictum, dalla pronuncia
della Consulta n. 196 del 2004, dove, al sesto periodo del
par. 17 della motivazione in diritto, la Corte ha osservato
che il condono del 2003, pur in una linea di sostanziale
continuità, diverge in taluni punti rispetto a quello del
1985-1994, tra cui spicca la circostanza di aver introdotto
“alcuni nuovi vincoli all’applicabilità del condono
(comma 27) che si aggiungono a quanto previsto dagli artt.
32 e 33 della legge n. 47 del 1985” .
L'art. 32, comma 27, d.l. n. 269 del 2003 è dunque
previsione normativa che esclude dalla sanatoria le opere
abusive realizzate su aree caratterizzate da determinate
tipologie di vincoli (in particolare, quelli imposti sulla
base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi
idrogeologici e della falde acquifere, dei beni ambientali e
paesaggistici, nonché dei parchi e delle aree protette
nazionali, regionali e provinciali), subordinando peraltro
l'esclusione a due condizioni costituite:
a) dal fatto che il vincolo sia stato istituto prima
dell'esecuzione delle opere abusive;
b) dal fatto che le opere realizzate in assenza o in
difformità del titolo abilitativo risultino non conformi
alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici (TAR Campania Napoli, sez. VII, 10/12/2009, n.
8608).
Da tale ricostruzione emerge, quindi, un sistema che
consente la sanatoria delle opere realizzate su aree
vincolate solo in due ipotesi, previste disgiuntamente,
costituite dalla realizzazione delle opere abusive prima
dell'imposizione dei vincoli (e, in questo caso, trattasi
della mera riproposizione di una caratteristica propria
della disciplina posta dalle due precedenti leggi sul
condono con riferimento ai vincoli di inedificabilità
assoluta di cui all'art. 33, comma 1, l. n. 47 del 1985);
dal fatto che le opere oggetto di sanatoria, benché non
assentite o difformi dal titolo abilitativo, risultino
comunque conformi alle norme urbanistiche e alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Pertanto, la novità sostanziale della suddetta previsione
normativa è costituita proprio dall'inserimento del
requisito della conformità urbanistica all'interno della
fattispecie del condono edilizio, così dando vita ad un
meccanismo di sanatoria che si avvicina fortemente
all'istituto dell'accertamento di conformità previsto
dall'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, piuttosto che ai
meccanismi previsti dalle due precedenti leggi sul condono
edilizio.
Poste tali premesse, in base alla disciplina posta dal d.l.
n. 269 del 2003, la sanabilità delle opere realizzate in
zona vincolata è radicalmente esclusa solo qualora si tratti
di un vincolo di inedificabilità assoluta e non anche nella
diversa ipotesi di un vincolo di inedificabilità relativa,
ossia di un vincolo superabile mediante un giudizio a
posteriori di compatibilità paesaggistica. Infatti, è ben
possibile ottenere la sanatoria delle opere abusive
realizzate in zona sottoposta ad un vincolo di
inedificabilità relativa, purché ricorrano le condizioni
previste dall'art. 32, comma 27, lett. d), d.l. n. 269 del
2003, convertito dalla l. n. 326 del 2003 (cfr. TAR Campania
Napoli sez. VII 14/10/2011 n. 4841).
In conclusione, avuto riguardo all’epoca di presentazione
della domanda di condono edilizio nel caso di specie, poiché
l’art. 32 della l. n. 47/1985, prevedeva, nel suo testo
originario (comma 1): “Fatte salve le fattispecie
previste dall'art. 33, il rilascio della concessione o della
autorizzazione in sanatoria per opere eseguite su aree
sottoposte a vincolo, ivi comprese quelle ricadenti nei
parchi nazionali e regionali, è subordinato al parere
favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela dal
vincolo stesso. Qualora tale parere non venga reso dalle
suddette amministrazioni entro centoventi giorni dalla
domanda, si intende reso in senso negativo.”, dal
combinato disposto degli artt. 32 e 33 legge n. 47 del 1985
si evince non il divieto assoluto e automatico di
condonabilità delle opere ricadenti in zona soggetta a
vincolo, ma soltanto la necessità della valutazione, da
parte dell’organo competente, della compatibilità o meno
delle opere oggetto dell’istanza con il vincolo stesso (cfr.
CdS sez. VI n. 6323/2011).
Tale conclusione si estende anche alla domanda di condono
presentata ai sensi della legge n. 724/1994, la quale, ha in
sostanza comportato la riapertura dei termini del precedente
condono –ovverosia risalente al 1985– prevedendo l’art. 39
del citato corpus normativo che “Le disposizioni di cui
ai capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47, e successive
modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate
dal presente articolo, si applicano alle opere abusive che
risultino ultimate entro il 31.12.1993…”.
Il rinvio operato dalla legge alla disciplina del precedente
condono comporta che trova applicazione l’art. 32 della
legge n. 47/1985 che consente la sanatoria, almeno in linea
generale, anche degli immobili insistenti su aree sottoposte
a vincolo paesaggistico. Esso, al primo comma, primo
periodo, infatti statuisce che “Fatte salve le
fattispecie previste dall'articolo 33, il rilascio del
titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite
su immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere
favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del
vincolo stesso”. La giurisprudenza ha peraltro
osservato, in ordine a tale disposizione, che la stessa: “nel
prevedere la necessità del parere dell'Amministrazione
preposta alla tutela del vincolo paesaggistico ai fini del
rilascio delle concessioni in sanatoria, non reca alcuna
deroga ai principi generali e pertanto deve interpretarsi
nel senso che l'obbligo di pronuncia dell'Autorità preposta
alla tutela del vincolo sussiste in relazione all'esistenza
del vincolo al momento in cui deve essere valutata la
domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca in cui il
vincolo medesimo sia stato introdotto, atteso che tale
valutazione corrisponde all'esigenza di vagliare l'attuale
compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati
abusivamente” (cfr. C. Stato, 5517 - 12.10.2011 - Sez.
VI; Cassazione penale sez. III 17/11/2011 n. 42418).
La Legge n. 724 del 1994, articolo 39, comma 7, aveva
modificato la formulazione originaria della Legge n. 47 del
1985, articolo 32, prevedendo che: "Per le opere eseguite
su immobili soggetti alla Legge 29.06.1939, n. 1497, e al
Decreto Legge 27.06.1985, n. 312, convertito, con
modificazioni, dalla Legge 08.08.1985, n. 431, relative ad
ampliamento o tipologie d'abuso che non comportano aumento
di superficie o di volume, il parere deve essere rilasciato
entro centoventi giorni; trascorso tale termine il parere
stesso si intende reso in senso favorevole".
Tale disposizione, però, fu abrogata dalla Legge 23.12.1996,
n. 662, articolo 2, comma 43, ed il successivo comma 44 di
detto articolo previde che "il rilascio della concessione
edilizia o dell'autorizzazione in sanatoria per opere
eseguite su immobili soggetti alla Legge 01.06.1939, n.
1089, Legge 29.06.1939, n. 1497, ed al Decreto Legge
27.06.1985, n. 312, convertito, con modificazioni, dalla
Legge 08.08.1985, n. 431, nonché in relazione a vincoli
imposti da leggi statali e regionali e dagli strumenti
urbanistici, a tutela di interessi idrogeologici e delle
falde idriche nonché dei parchi e delle aree protette
nazionali e regionali qualora istituiti prima dell'abuso, è
subordinato al parere favorevole delle amministrazioni
preposte alla tutela del vincolo stesso. Qualora tale parere
non venga reso entro centottanta giorni dalla domanda il
richiedente può impugnare il silenzio-rifiuto
dell'amministrazione".
Conclusivamente, la pendenza della domanda di condono prima
della emissione del contestato ordine di demolizione rende
lo stesso illegittimo; ciò non esclude anzi rafforza
l’obbligo dell’amministrazione di pronunciarsi in tempi
brevi su detta domanda, ai fini dell’eventuale riesercizio
del potere sanzionatorio, ovvero della definitiva pronuncia
sulla sorte urbanistica dell’opus de quo
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 26.10.2012 n. 4275 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Per “muro di cinta”,
nella dizione di cui alla legge n. 662/1996, possono
intendersi quelle opere di recinzione, non suscettibili di
modificare o alterare sostanzialmente la conformazione del
terreno, che assumono natura pertinenziale in quanto hanno
esclusivamente la funzione di delimitare, proteggere o
eventualmente abbellire la proprietà. Esse in quanto aventi
natura pertinenziale sono assoggettate, nel sistema vigente
all’epoca della adozione dell’atto impugnato, della denuncia
di inizio attività prevista e disciplinata dall’art. 62
della legge n. 662/1996.
Diversa è invece la consistenza e la funzione dei c.d. "muri
di contenimento", che si differenziano sostanzialmente
dalle mere recinzioni non solo per funzione, ma anche, come
innanzi precisato, perché servono a sostenere il terreno al
fine di evitare movimenti franosi dello stesso. Per
assolvere a siffatta funzione, i muri di contenimento devono
presentare necessariamente una struttura idonea, per
consistenza e modalità costruttive, ad assolvere alla
funzione di contenimento.
Pertanto, il muro di contenimento, pur potendo avere, in
rapporto alla situazione dei luoghi, anche concomitante
funzione di recinzione, è, tuttavia, sotto il profilo
edilizio, un'opera più consistente di una recinzione (non
essendo preordinata a recingere) e soprattutto è dotata di
propria specificità ed autonomia, in relazione ai profili
dianzi evidenziati. Il che esclude la sua riconducibilità al
concetto di pertinenza, conseguendone, data la rilevanza
delle modifiche che esso produce sia la necessità della
concessione edilizia, sia la legittimità, a torto
contestata, dell'applicazione della misura demolitoria
prevista per il caso di assenza di concessione.
Ed infatti, dal contenuto del
verbale di sopralluogo citato, e dalle risultanze della CTU
si ricava che il muro in questione non può qualificarsi
quale “muro di cinta”, ma, risulta costruito per “evitare
l’ulteriore dilavamento del terreno”. Da tali
dichiarazioni si ricava quindi che il muro in questione è
stato realizzato dalla ricorrente, asseritamente, quale
opera muraria al fine di prevenire possibili smottamenti del
terreno.
Da tali risultanze si ricava che l’opera in questione va
qualificata come “muro di contenimento” le cui
caratteristiche lo differenziano sostanzialmente dal muro
c.d. “di cinta” .
A parere del Collegio, per “muro di cinta”,
nella dizione di cui alla legge n. 662/1996, possono
intendersi quelle opere di recinzione, non suscettibili di
modificare o alterare sostanzialmente la conformazione del
terreno, che assumono natura pertinenziale in quanto hanno
esclusivamente la funzione di delimitare, proteggere o
eventualmente abbellire la proprietà. Esse in quanto aventi
natura pertinenziale sono assoggettate, nel sistema vigente
all’epoca della adozione dell’atto impugnato, della denuncia
di inizio attività prevista e disciplinata dall’art. 62
della legge n. 662/1996.
Diversa è invece la consistenza e la funzione dei c.d. "muri
di contenimento", che si differenziano
sostanzialmente dalle mere recinzioni non solo per funzione,
ma anche, come innanzi precisato, perché servono a sostenere
il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello
stesso. Per assolvere a siffatta funzione, i muri di
contenimento devono presentare necessariamente una struttura
idonea, per consistenza e modalità costruttive, ad assolvere
alla funzione di contenimento.
Pertanto, il muro di contenimento, pur potendo avere, in
rapporto alla situazione dei luoghi, anche concomitante
funzione di recinzione, è, tuttavia, sotto il profilo
edilizio, un'opera più consistente di una recinzione (non
essendo preordinata a recingere) e soprattutto è dotata di
propria specificità ed autonomia, in relazione ai profili
dianzi evidenziati. Il che esclude la sua riconducibilità al
concetto di pertinenza, conseguendone, data la rilevanza
delle modifiche che esso produce sia la necessità della
concessione edilizia, sia la legittimità, a torto
contestata, dell'applicazione della misura demolitoria
prevista per il caso di assenza di concessione.
Nella specie, la scrupolosa indagine del CTU consente di
ritenere che, per entità, estensione, tipologia, la serie di
muri realizzata –a prescindere da una effettiva idoneità
concreta- non può considerarsi una mera recinzione del
fondo, ma si propone anche una funzione di contenimento, e
come tale va assoggettata all’obbligo di preventivo rilascio
del titolo edilizio, anche in considerazione della sua
esecuzione in zona vincolata paesaggisticamente
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 26.10.2012 n. 4275 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: La
Cassazione ha ribadito il principio della solidarietà. Anche
a svantaggio del decoro. Ascensore, sì con quorum ridotto.
Basta la maggioranza semplice perché si superano le barriere.
Il necessario rispetto del principio di solidarietà
condominiale rende legittima la delibera di installazione di
un ascensore che tuteli l'esigenza di garantire un accesso
agli appartamenti ai condomini, o loro ospiti, con ridotta
capacità motoria, anche se la nuova opera comporti
un'accettabile riduzione del decoro architettonico o un
modesto restringimento degli spazi comuni.
In altre parole, i condomini devono sacrificarsi, in nome
dei diritti umani fondamentali, per consentire ai disabili,
o agli anziani con mobilità ridotta, di socializzare e di
muoversi senza incontrare ostacoli.
Queste le conclusioni
alle quali è pervenuta la II Sez. della Corte di
Cassazione con la recente
sentenza
25.10.2012 n. 18334.
Il caso di specie. La vicenda che ha portato alla decisione
in questione prendeva l'avvio quando un condomino impugnava
la delibera che aveva approvato l'installazione di un
ascensore, ritenuta illegittima non solo perché adottata con
maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge, ma
soprattutto perché la nuova opera aveva ristretto il
passaggio sulla prima rampa di scale, impedendo anche il
passaggio di eventuali mezzi di soccorso e compromesso il
decoro architettonico dell'edificio in stile liberty. Il
Tribunale, aderendo pienamente alla tesi del singolo
condomino, condannava il condominio a rimuovere l'impianto
di ascensore.
Secondo il condominio, però, che impugnava detta decisione
in appello, la delibera era pienamente legittima perché non
comportava alterazione del decoro architettonico
dell'immobile né alcun pregiudizio alle parti comuni e,
comunque, era stata adottata a tutela dei condomini anziani
e disabili e nel rispetto della normativa in materia di
barriere architettoniche. Queste considerazioni venivano
però respinte dalla Corte d'appello, secondo cui il decoro
architettonico del fabbricato risultava compromesso
dall'installazione dell'ascensore che, tra l'altro, non era
conforme alle disposizioni antincendio, aveva diminuito la
possibilità di utilizzo della rampa della scala e aveva
creato pregiudizio alla sicurezza del caseggiato e
all'incolumità degli abitanti, rendendo particolarmente
difficoltoso l'accesso di mezzi di soccorso.
Ma,
soprattutto, secondo i giudici di secondo grado, la delibera
non risultava aver avuto a oggetto alcuna opera attinente al
superamento delle barriere architettoniche, perché il
condominio non aveva fornito la prova che nello stabile
vivessero portatori di handicap: di conseguenza la delibera
non poteva essere adottata con la ridotta maggioranza
prevista dalla legislazione in tema di eliminazione delle
barriere architettoniche.
La decisione della Cassazione.
La Suprema corte, però, non condividendo le precedenti
osservazioni, ha confermato la piena legittimità della
scelta fatta dai condomini. Secondo i giudici supremi,
infatti, non ha alcuna rilevanza la circostanza che
l'assemblea non abbia avuto a oggetto una delibera attinente
all'eliminazione delle barriere architettoniche, in quanto
la delibera di installazione di un ascensore si muove
sostanzialmente in tale direzione. Inoltre, la normativa
speciale a favore dei portatori di handicap prevede un
abbassamento del quorum richiesto per l'innovazione,
indipendentemente dalla presenza di disabili: lo scopo
infatti è quello di consentire ai disabili, o agli anziani
con mobilità ridotta, di socializzare e di muoversi senza
incontrare ostacoli, anche se le persone interessate non
sono proprietari di appartamenti nel caseggiato o non
risiedono stabilmente nel palazzo.
In ogni caso i giudici supremi hanno ritenuto che, nel
rispetto del principio di solidarietà condominiale, la
delibera dell'assemblea con la quale viene decisa, a cura e
spese di alcuni dei condomini, l'installazione di un
ascensore nel vano scala condominiale è legittima anche se
comporta un'accettabile compromissione del decoro
architettonico (cioè un cambiamento estetico che non sia di
grave e appariscente entità) e/o un modesto restringimento
di spazi comuni (con semplice disagio subito rispetto alla
sua normale utilizzazione), in quanto le difficoltà delle
persone affette da invalidità devono ormai essere
considerate quali problemi non solo individuali, ma tali da
dover essere assunti dall'intera collettività (articolo
ItaliaOggi Sette del 19.11.2012). |
AGGIORNAMENTO AL 19.11.2012 |
ã |
NOVITA' NEL
SITO |
● inserito il bottone del
nuovo
dossier PARERE DI REGOLARITA' TECNICA, CONTABILE E DI
LEGITTIMITA' (sulle deliberazioni di Giunta e di Consiglio
Comunale). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
ENTI LOCALI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 19.11.2012, "D.g.
Semplificazione e digitalizzazione e d.c. Affari
istituzionali e legislativo - Limiti demografici minimi per
la gestione associata obbligatoria tra Comuni: chiarimenti
in merito al coordinamento tra la legge regionale
28.12.2011, n. 22 (Disposizioni per l’attuazione della
programmazione economico-finanziaria regionale, ai sensi
dell’art. 9-ter della l.r. 31.03.1978, n. 34 ‘Norme sulle
procedure della programmazione, sul bilancio e sulla
contabilità della Regione’ - Collegato 2012) e la legge
07.08.2012 n. 135 (Conversione in legge, con modificazioni,
del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, recante disposizioni
urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza
dei servizi ai cittadini)" (circolare
regionale 15.11.2012 n. 8). |
APPALTI: G.U.
15.11.2012 n. 267 "Modifiche al decreto legislativo
09.10.2002, n. 231, per l’integrale recepimento della
direttiva 2011/7/UE relativa alla lotta contro i ritardi di
pagamento nelle transazioni commerciali, a norma
dell’articolo 10, comma 1, della legge 11.11.2011, n. 180" (D.Lgs.
09.11.2012 n. 192). |
UTILITA' |
APPALTI:
Ritardato pagamento nelle transazioni commerciali (Bollettino
di Legislazione Tecnica n. 11/2012). |
SICUREZZA
LAVORO: Testo
Unico sulla Sicurezza (D.Lgs. 81/2008): ecco la versione con
commenti e note aggiornata a novembre 2012.
In Italia la salute e la sicurezza sul lavoro sono
disciplinate dal Decreto Legislativo n. 81 del 09.04.2008,
anche noto come Testo Unico in materia di salute e Sicurezza
sul lavoro (TUS), entrato in vigore il 15.05.2008.
Il TUS ha subito varie modifiche ed integrazioni nel corso
del tempo, attraverso correttivi (v. Decreto Legislativo
03.08.2009 n. 106) e successivi ulteriori decreti.
Tra gli ultimi aggiornamenti, ricordiamo:
►
Legge 12.07.2012, n. 101, pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale n. 162 del 13.07.2012, di conversione del Decreto
Legge 12.05.2012, n. 57;
►
Decreto Interministeriale del 6 agosto 2012, pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale n. 218 del 18.09.2012;
►
Legge 01.10.2012, n. 177, pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale n. 244 del 18/10/2012, come da errata corrige
pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 245 del 19/10/2012.
In allegato a questa notizia proponiamo
il testo coordinato con le ultime modifiche, con note e
commenti, realizzato dal Ministero del Lavoro, aggiornato a
novembre 2012
(15.11.2012 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
guida ai possibili interventi sulla casa per aumentare
l’efficienza energetica.
Aumenta sempre più la domanda di edifici a basso consumo di
energia, capaci di garantire il benessere termico sia in
estate che in inverno, senza ricorrere a sistemi
convenzionali quali i termosifoni o i condizionatori.
Cresce anche l’attenzione verso le fonti energetiche “pulite”,
quelle che sfruttano risorse quali il sole, l’aria, l’acqua
piovana e non inquinano l’ambiente.
L’ordine degli Architetti di Salerno ha pubblicato un
opuscolo che guida il tecnico e il committente finale ai
possibili interventi edilizi sulle coperture, sulle pareti
esterne e sui serramenti, finalizzati a riqualificare la
casa, ottenendo un incremento del suo valore di mercato ed
una sensibile riduzione dei consumi energetici.
Il documento spiega in maniera semplice come in pochi anni,
grazie al risparmio sulle bollette, è possibile recuperare
le somme investite, contribuendo anche a migliorare la
qualità dell’aria che respiriamo.
La pubblicazione è riferita alla casa, ma le tecniche di
intervento sono le stesse anche per le scuole, per gli
uffici, per le biblioteche, per i centri sociali e così via
(15.11.2012 - link a www.acca.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA
PRIVATA:
Guida per l'installazione degli impianti fotovoltaici
(Bollettino di Legislazione Tecnica n. 11/2012). |
APPALTI: M.
Urbani,
L’obbligo delle sedute pubbliche di gara (Bollettino
di Legislazione Tecnica n. 11/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
M. Nadalini,
I lavoratori autonomi in cantiere (Igiene e Sicurezza
del Lavoro n. 11/2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA:
S. Maglia e M. V. Balossi,
Terre e rocce: il punto della situazione alla luce del D.M.
n. 161/2012 (Ambiente & Sviluppo n. 11/2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il parere di regolarità tecnica negli atti della Pa (03.10.2012
- link a http://denaro.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - SEGRETARIO COMUNALE:
L. Maresca,
Le funzioni del segretario comunale di assistenza agli
organi: Consiglio e Giunta - il segretario ed il sindaco
(link a http://doc.sspal.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
A. Pètrina,
IURE CONDITO LA VERIFICA DI LEGITTIMITA’ NEGLI EE.LL. (maggio
2009 - link a www.segretariocomunale.com). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L. Oliveri,
I PARERI SULLE PROPOSTE DI DELIBERAZIONE ALLA LUCE DELLA
LEGGE 265/1999 (1999 - link a www.giustamm.it). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Facoltà assunzionale e incremento ore part-time.
La Corte dei Conti, sezione regionale Umbria, con il
parere 23.10.2012 n. 186, si
pronuncia su quanto in oggetto in un'ipotesi di incremento
ore di un rapporto di lavoro a tempo parziale da 24 a 30 ore
settimanali.
La sezione umbra si allinea agli orientamenti già espressi
dalle sezioni di controllo Emilia-Romagna, Campania e
Toscana, pur dando conto anche di un differente avviso
esplicitato da altre sezioni di controllo.
Queste le conclusioni:
"... la Sezione ritiene che l'operazione che il Comune
intende realizzare sia ammissibile purché l'incremento delle
ore di part-time sia tale da non determinare una
trasformazione in un contratto a tempo pieno, che ai sensi
della normativa richiamata (art. 3, comma 101, legge n.
244/2007) costituisce nuova assunzione, e purché siano
rispettati i limiti ed i vincoli di cui alla normativa ...
relativa al rispetto del limite massimo per la spesa del
personale ..." (tratto da www.publika.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
parere di regolarità contabile investa anche e soprattutto
la legittimità della spesa, e depone in tal senso:
- il rilievo che il comb. disp. di cui agli artt. 49,
secondo comma, e 97, quarto comma, lett. b), D.Lgs.
267/2000, per il caso "in cui l'ente non abbia i
responsabili dei servizi", demanda l'espressione del parere
di cui all'art. 49 (e, pertanto, anche del parere di
regolarità contabile) al segretario, "in relazione alle sue
competenze", consistenti, a termini dell'art. 97, secondo
comma, D.Lgs. 267/2000, nello svolgimento di "compiti di
collaborazione e funzioni di assistenza giuridico
amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in
ordine alla conformità delle leggi, allo statuto ed ai
regolamenti", sicché se ne desume che il parere di
regolarità contabile deve comprendere non solo
l'attestazione della copertura finanziaria della spesa,
ossia la sua imputazione alla pertinente partizione del
bilancio ed il riscontro della capienza del relativo
stanziamento, ma debba aver riguardo a tutti i profili
propriamente attinenti alla legittimità della spesa;
- la considerazione che, a termini dell'art. 184, quarto
comma, D.Lgs. 267/2000, il servizio finanziario -cui è
preposto il ragioniere cui il precedente l'art. 49 demanda
l'espressione del parere di regolarità contabile- deve
effettuare "secondo i principi e le procedure della
contabilità pubblica, i controlli e riscontri
amministrativi, contabili e fiscali sugli atti di
liquidazione", e che, come è dato evincere dall'art. 147,
primo comma, lett. a), D.Lgs. cit., in tema di controlli
interni, la regolarità amministrativa e contabile, oggetto
dei controlli e dei riscontri demandati al servizio
finanziario, si identifica con "la legittimità, regolarità e
correttezza dell'azione amministrativa", sicché sarebbe
evidentemente incongrua un'interpretazione per cui, in sede
di espressione del parere di regolarità contabile di cui
all'art. 49 D.Lgs. cit., che si colloca a monte delle fasi
di gestione della spesa pubblica, il responsabile del
servizio finanziario non fosse tenuto ad evidenziare
l'illegittimità della spesa oggetto della proposta di
deliberazione;
- il rilievo che l'art. 27 R.D. 2240/1923 (L.C.G.S.) -che,
riferendosi alle Amministrazioni dello Stato, ben può essere
considerato espressione di un principio generale in subiecta
materia- prevede che le ragionerie centrali (oggi uffici
centrali di bilancio) vigilino "perché siano osservate le
leggi”) per la regolare gestione dei fondi di bilancio", per
cui evidentemente il parametro di riscontro non è costituito
dalla sola legge (formale) di bilancio ma dalle "leggi" e,
pertanto, anche da tutte le leggi (sostanziali) che
disciplinano l'effettuazione delle spese dello Stato.
---------------
Il Segretario (comunale o provinciale), ai sensi dell'art.
17 l. n. 127 del 1997 e, successivamente, dell'art. 97
d.lgs. 18.08.2000 n. 267, mantiene la specifica funzione
ausiliaria di garante della legalità e correttezza
amministrativa dell'azione dell'ente locale; infatti, il
t.u.e.l. ha assegnato al segretario dell'ente locale, in
linea generale, otre agli altri compiti indicati all'art. 97
t.u., cit., le "funzioni di collaborazione e di assistenza
giuridico-amministrativa nei confronti degli organi
dell'ente in ordine alla conformità dell'azione
amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti" e
quelle di "sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei
dirigenti e di coordinarne l'attività"; pertanto non può
dubitarsi del fatto che il Segretario comunale abbia il
preciso obbligo giuridico di segnalare agli amministratori
le illegittimità contenute negli emanandi provvedimenti, al
fine di impedire atti e comportamenti illegittimi forieri di
danno erariale; altrimenti opinando, potrebbe
l'amministratore pubblico contare sull'inerzia o sul
silenzio di chi è preposto per legge al controllo della
legalità dell'azione amministrativa; e in mancanza, deve
essere ritenuto responsabile a titolo di concorso omissivo
colposo nella causazione del fatto dannoso contestato.
Inoltre, qualora il segretario rivesta anche il ruolo di
Direttore generale ciò incrementa i suoi poteri di indagine
e vigilanza e, correlativamente, le sue responsabilità; e
non vale obiettare che i pareri da rendere, secondo la
normativa vigente sono facoltativi, quasi a sminuirne
l’importanza, di fronte ai cd. “organi politici”, i quali,
se non correttamente illuminati possono fruire dell’esimente
della buona fede nelle proprie decisioni.
Infatti, si è giustamente rilevato che i pareri ex art. 53
l. 08.06.1990 n. 142 (oggi art. 49 t.u.e.l.) resi dal
responsabile del servizio, dal responsabile del settore
ragioneria e dal segretario comunale sui progetti di
deliberazioni spettanti ai corpi rappresentativi del comune,
non pongono alcun limite alla potestà deliberante di questi
ultimi -i quali ben possono liberamente disporre del
contenuto delle deliberazioni una volta resi detti pareri-
perché, diversamente argomentando, si finirebbe con
l'attribuire agli organi consultivi l'effettivo potere
d'amministrazione attiva, lasciando ai corpi rappresentativi
la funzione di mera ratifica di determinazioni altrui, ma
questi sono unicamente preordinati all'individuazione sul
piano formale, nei funzionari che li formulano, della
responsabilità eventualmente in solido con i componenti
degli organi politici in via amministrativa e contabile.
La giurisprudenza della Corte dei conti ha più volte
chiarito che l'intervenuta soppressione, ai sensi dell'art.
17, co. 85° della legge citata, del parere di legittimità
del segretario (comunale o provinciale) su ogni proposta di
deliberazione sottoposta alla giunta o al consiglio, già
previsto dall'art. 53 della L. n. 142/1990, non esclude che
permangano in capo al Segretario tutta una serie di compiti
ed adempimenti che, lungi dal determinare un'area di
deresponsabilizzazione del medesimo, lo impegnano, invece,
ad un corretto svolgimento degli stessi, pena la sua
soggezione, in ragione del rapporto di servizio instaurato
con l'ente locale, all'azione di responsabilità
amministrativa, ove di questa ricorrano gli specifici
presupposti.
Ciò in quanto il suddetto, ai sensi dell'art. 17 della L.
127/1997 e, successivamente, dell'art. 97 D.Lgvo 18.08.2000,
n. 267 mantiene la specifica funzione ausiliaria di garante
della legalità e correttezza amministrativa dell'azione
dell'ente locale. Infatti il T.U. n. 267/2000 ha assegnato
al Segretario dell'ente locale, in linea generale, oltre
agli altri compiti indicati all'art. 97 del T.U. citato, le
"funzioni di collaborazione e di assistenza
giuridico-amministrativa nei confronti degli organi
dell'ente in ordine alla conformità dell'azione
amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti" e
quelle di "sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei
dirigenti e di coordinarne l'attività".
Nondimeno la suddetta modifica normativa non esclude che il
Segretario comunale, proprio in virtù di tali specifici
compiti di consulenza giuridico-amministrativa, possa -ed
ove richiestone, debba- comunque rendere il proprio parere
in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle
leggi, agli statuti ed ai regolamenti e che del parere reso
debba rispondere in via amministrativa, in adesione ad un
principio generale, operante a prescindere dalla natura
obbligatoria o facoltativa del parere espresso.
In altri termini l'affidamento, alla stregua della
previsione normativa di cui all'art. 97 T.U. 18.08.2000, n.
267, al Segretario comunale di funzioni di assistenza e di
collaborazione giuridica ed amministrativa di tutti gli
organi dell'ente locale assorbe, in qualche guisa, lo
specifico compito, dianzi espressamente previsto dall'art.
53 L. 08.06.1990 n. 142, di esprimere un previo parere di
legittimità sulle deliberazioni di giunta; di tal che
l'evoluzione normativa in materia ben lungi dall'evidenziare
una sottrazione del già citato Segretario alla
responsabilità amministrativa ne ha invece sottolineato le
maggiori responsabilità in ragione della rilevata estensione
delle funzioni.
Se può
certamente convenirsi sul rilievo che il legislatore non
attribuisce alcun potere discrezionale e di merito al
responsabile del servizio finanziario in sede di espressione
del parere di regolarità contabile, non può di converso
consentirsi sull'assunto difensivo per cui ne esulerebbe
qualunque accertamento sulla legittimità della spesa.
Contrariamente all'assunto difensivo, il parere di
regolarità contabile investa anche e soprattutto la
legittimità della spesa.
Depone, in tal senso:
- il rilievo che il comb. disp. di cui agli artt. 49,
secondo comma, e 97, quarto comma, lett. b), D.Lgs.
267/2000, per il caso "in cui l'ente non abbia i
responsabili dei servizi", demanda l'espressione del
parere di cui all'art. 49 (e, pertanto, anche del parere di
regolarità contabile) al segretario, "in relazione alle
sue competenze", consistenti, a termini dell'art. 97,
secondo comma, D.Lgs. 267/2000, nello svolgimento di "compiti
di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico
amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in
ordine alla conformità delle leggi, allo statuto ed ai
regolamenti", sicché se ne desume che il parere di
regolarità contabile deve comprendere non solo
l'attestazione della copertura finanziaria della spesa,
ossia la sua imputazione alla pertinente partizione del
bilancio ed il riscontro della capienza del relativo
stanziamento, ma debba aver riguardo a tutti i profili
propriamente attinenti alla legittimità della spesa;
- la considerazione che, a termini dell'art. 184, quarto
comma, D.Lgs. 267/2000, il servizio finanziario -cui è
preposto il ragioniere cui il precedente l'art. 49 demanda
l'espressione del parere di regolarità contabile- deve
effettuare "secondo i principi e le procedure della
contabilità pubblica, i controlli e riscontri
amministrativi, contabili e fiscali sugli atti di
liquidazione", e che, come è dato evincere dall'art.
147, primo comma, lett. a), D.Lgs. cit., in tema di
controlli interni, la regolarità amministrativa e contabile,
oggetto dei controlli e dei riscontri demandati al servizio
finanziario, si identifica con "la legittimità,
regolarità e correttezza dell'azione amministrativa",
sicché sarebbe evidentemente incongrua un'interpretazione
per cui, in sede di espressione del parere di regolarità
contabile di cui all'art. 49 D.Lgs. cit., che si colloca a
monte delle fasi di gestione della spesa pubblica, il
responsabile del servizio finanziario non fosse tenuto ad
evidenziare l'illegittimità della spesa oggetto della
proposta di deliberazione;
- il rilievo che l'art. 27 R.D. 2240/1923 (L.C.G.S.) -che,
riferendosi alle Amministrazioni dello Stato, ben può essere
considerato espressione di un principio generale in
subiecta materia- prevede che le ragionerie centrali
(oggi uffici centrali di bilancio) vigilino "perché siano
osservate le leggi”) per la regolare gestione dei fondi di
bilancio", per cui evidentemente il parametro di
riscontro non è costituito dalla sola legge (formale) di
bilancio ma dalle "leggi" e, pertanto, anche da tutte
le leggi (sostanziali) che disciplinano l'effettuazione
delle spese dello Stato.
Né, in contrario, può argomentarsi dalla circostanza che,
ove il parere di regolarità contabile investisse anche la
legittimità della spesa, potrebbe verificarsi (in specie
nelle ipotesi in cui il responsabile del servizio,
competente ad esprimere il "parere di regolarità tecnica",
fosse investito di competenze più propriamente
amministrative che tecniche) una possibile "sovrapposizione
di competenza", con le conseguenze -paventate dalla
difesa del C.- di una "confusione di ruoli e,
soprattutto, di responsabilità".
Non v'è chi non veda, infatti, che la circostanza che, con
riferimento alle proposte di deliberazioni comportanti
impegni di spesa o diminuzioni di entrata e, pertanto,
aventi effetti finanziari, i pareri di regolarità tecnica
del responsabile del servizio ed il parere di regolarità
contabile del responsabile di ragioneria possano investire
entrambi, se del caso in termini discordanti, la legittimità
della deliberazione proposta, lungi dal costituire fonte di
alcun preteso inconveniente, consente all'organo collegiale
di adottare le proprie deliberazioni, aventi implicazioni
finanziarie, con una maggiore "cognizione di causa",
in punto di legittimità degli adottandi provvedimenti.
D'altro canto, l'interpretazione nel senso che il parere di
regolarità contabile, previsto per le delibere comportanti
effetti finanziari, non debba investire anche la legittimità
della proposta deliberazione, è in palese contrasto con
l'esigenza che, con riferimento alle suddette delibere,
siano opportunamente -e sistematicamente- evidenziati
all'organo collegiale, a garanzia della legalità dell'azione
amministrativa (cfr. art. 1, primo comma, L. 241/1990),
eventuali profili di illegittimità.
Alla luce delle suesposte considerazioni, deve ritenersi che
il parere di regolarità contabile investa necessariamente
anche la legittimità delle deliberazioni proposte (si veda
C. Conti reg. Puglia, sez. giurisd., 01.03.2006, n. 207).
A fortiori, quanto detto acquista valore in relazione alla
responsabilità del segretario generale, dott.ssa R.A..
Il Segretario (comunale o provinciale), ai sensi dell'art.
17 l. n. 127 del 1997 e, successivamente, dell'art. 97
d.lgs. 18.08.2000 n. 267, mantiene la specifica funzione
ausiliaria di garante della legalità e correttezza
amministrativa dell'azione dell'ente locale; infatti, il
t.u.e.l. ha assegnato al segretario dell'ente locale, in
linea generale, otre agli altri compiti indicati all'art. 97
t.u., cit., le "funzioni di collaborazione e di
assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli
organi dell'ente in ordine alla conformità dell'azione
amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti"
e quelle di "sovrintendere allo svolgimento delle
funzioni dei dirigenti e di coordinarne l'attività";
pertanto non può dubitarsi del fatto che il Segretario
comunale abbia il preciso obbligo giuridico di segnalare
agli amministratori le illegittimità contenute negli
emanandi provvedimenti, al fine di impedire atti e
comportamenti illegittimi forieri di danno erariale;
altrimenti opinando, potrebbe l'amministratore pubblico
contare sull'inerzia o sul silenzio di chi è preposto per
legge al controllo della legalità dell'azione
amministrativa; e in mancanza, deve essere ritenuto
responsabile a titolo di concorso omissivo colposo nella
causazione del fatto dannoso contestato (Corte Conti sez. II,
02.07.2009).
Inoltre non può sottacersi che la dr.ssa A. rivestiva anche
il ruolo di Direttore generale, ciò che incrementava i suoi
poteri di indagine e vigilanza e, correlativamente, le sue
responsabilità; non vale obiettare che i pareri da rendere,
secondo la normativa vigente sono facoltativi, quasi a
sminuirne l’importanza, di fronte ai cd. “organi politici”,
i quali, se non correttamente illuminati possono fruire
dell’esimente della buona fede nelle proprie decisioni.
Infatti, si è giustamente rilevato che i pareri ex art. 53
l. 08.06.1990 n. 142 (oggi art. 49 t.u.e.l.) resi dal
responsabile del servizio, dal responsabile del settore
ragioneria e dal segretario comunale sui progetti di
deliberazioni spettanti ai corpi rappresentativi del comune,
non pongono alcun limite alla potestà deliberante di questi
ultimi -i quali ben possono liberamente disporre del
contenuto delle deliberazioni una volta resi detti pareri-
perché, diversamente argomentando, si finirebbe con
l'attribuire agli organi consultivi l'effettivo potere
d'amministrazione attiva, lasciando ai corpi rappresentativi
la funzione di mera ratifica di determinazioni altrui, ma
questi sono unicamente preordinati all'individuazione sul
piano formale, nei funzionari che li formulano, della
responsabilità eventualmente in solido con i componenti
degli organi politici in via amministrativa e contabile
(Consiglio di Stato Sezione V 25.05.1998 n. 680; TAR
Campania Napoli, sez. III, 19.09.2007, n. 7878; TAR Campania
Napoli, sez. I, 09.03.2009, n. 1320).
Al riguardo questo Giudice deve precisare che la
giurisprudenza della Corte dei conti ha più volte chiarito
che l'intervenuta soppressione, ai sensi dell'art. 17, co.
85° della legge citata, del parere di legittimità del
segretario (comunale o provinciale) su ogni proposta di
deliberazione sottoposta alla giunta o al consiglio, già
previsto dall'art. 53 della L. n. 142/1990, non esclude che
permangano in capo al Segretario tutta una serie di compiti
ed adempimenti che, lungi dal determinare un'area di
deresponsabilizzazione del medesimo, lo impegnano, invece,
ad un corretto svolgimento degli stessi, pena la sua
soggezione, in ragione del rapporto di servizio instaurato
con l'ente locale, all'azione di responsabilità
amministrativa, ove di questa ricorrano gli specifici
presupposti.
Ciò in quanto il suddetto, ai sensi dell'art. 17 della L.
127/1997 e, successivamente, dell'art. 97 D.Lgvo 18.08.2000,
n. 267 mantiene la specifica funzione ausiliaria di garante
della legalità e correttezza amministrativa dell'azione
dell'ente locale. Infatti il T.U. n. 267/2000 ha assegnato
al Segretario dell'ente locale, in linea generale, oltre
agli altri compiti indicati all'art. 97 del T.U. citato, le
"funzioni di collaborazione e di assistenza
giuridico-amministrativa nei confronti degli organi
dell'ente in ordine alla conformità dell'azione
amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti"
e quelle di "sovrintendere allo svolgimento delle
funzioni dei dirigenti e di coordinarne l'attività".
Nondimeno la suddetta modifica normativa non esclude che il
Segretario comunale, proprio in virtù di tali specifici
compiti di consulenza giuridico-amministrativa, possa -ed
ove richiestone, debba- comunque rendere il proprio parere
in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle
leggi, agli statuti ed ai regolamenti e che del parere reso
debba rispondere in via amministrativa, in adesione ad un
principio generale, operante a prescindere dalla natura
obbligatoria o facoltativa del parere espresso (Sez. II
Centr. 17.03.2004, n. 88/A; 23.06.2004, n. 197/A; Sez.
Giur.le Puglia, 08.07.2003, n. 594).
In altri termini l'affidamento, alla stregua della
previsione normativa di cui all'art. 97 T.U. 18.08.2000, n.
267, al Segretario comunale di funzioni di assistenza e di
collaborazione giuridica ed amministrativa di tutti gli
organi dell'ente locale assorbe, in qualche guisa, lo
specifico compito, dianzi espressamente previsto dall'art.
53 L. 08.06.1990 n. 142, di esprimere un previo parere di
legittimità sulle deliberazioni di giunta; di tal che
l'evoluzione normativa in materia ben lungi dall'evidenziare
una sottrazione del già citato Segretario alla
responsabilità amministrativa ne ha invece sottolineato le
maggiori responsabilità in ragione della rilevata estensione
delle funzioni (Corte Conti, sez. I centrale d'appello, 07.04.2008, n. 154)
(Corte
dei Conti, Sez. giurisdiz. Toscana,
sentenza 25.03.2010 n. 114 - link a www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: La
c.d. "scriminante politica" non è applicabile nelle materie
riservate agli organi di governo, nelle quali gli uffici
amministrativi e tecnici della struttura abbiano espletato
funzioni istruttorie o consultive e comunque di mero
supporto strumentale; oppure, è esclusa quando l'evidenza
dell'erroneità dell'atto sia stata tale da escludere
qualsiasi buona fede.
Anche nel caso di specie, la competenza a deliberare in
materia di debiti fuori bilancio era atto rientrante nelle
attribuzioni degli organi di governo deliberanti e, in
quanto tale, non è ad esso applicabile la scriminante
politica.
Nel caso in giudizio, la competenza a deliberare o era atto
rientrante nelle attribuzioni degli organi di governo
deliberanti e, in quanto tale, non è ad esso applicabile la
scriminante politica (Corte Conti, sez. I, 07.04.2008, n.
154) o, senza esclusione di responsabilità, si deve
ravvedere un’intromissione nelle competenze dirigenziali con
assunzione delle responsabilità e delle competenze
professionali ad essi inerenti.
---------------
Il Sindaco, e l’assessore da lui delegato (cfr. C. Conti,
sez. Liguria 18.06.2002 n. 414: I poteri di sovrintendenza
al funzionamento dei servizi e degli uffici ed
all'esecuzione degli atti, spettano, invece, agli assessori
che hanno ricevuto la delega dal Sindaco per determinati
settori. Gli stessi, limitatamente al settore cui sono
preposti, vengono infatti a trovarsi, sotto tale profilo,
nella medesima posizione del sindaco ed hanno pertanto il
dovere giuridico di assumere le iniziative necessarie a
stimolare gli organi dotati di poteri di impulso -nella
specie il Sindaco il solo depositario del potere di
iniziativa- e di formulare le proposte afferenti la propria
branca amministrativa") in quanto sovrintende, a norma
dell'art. 50 t.u. n. 267/2000, al funzionamento degli uffici
e dei servizi comunali, ha il dovere d'intervenire in caso
di manchevolezze, attivando le opportune misure correttive
Autorità.
Va ricordato, che, a norma dell’art. 50 del TUEL, il Sindaco
è responsabile dell’amministrazione del comune. Nell’ambito
di questa responsabilità vi è quella politica, esterna (di
rappresentanza), ma anche quella interna per cui detto
Organo sovrintende al funzionamento degli uffici ed
all’esecuzione degli atti. E’ termine che nel TUEL compare
anche in relazione al Segretario generale ed al Direttore
generale, con riferimento all’operato dei dirigenti ed alla
gestione dell’ente.
L’espressione ha una semantica “lato sensu” direzionale, di
sorveglianza e di alta vigilanza. A ciò si ricollega la
norma, contenuta nell'art. 50 comma 8, d.lgs. 08.08.2000 n.
267, che non si limita a fissare, nella materia, le
attribuzioni del sindaco e del presidente della provincia,
ma definisce anche la regola, di portata generale (e
prevalente sulle norme statutarie anteriori dei diversi
enti, aziende e istituzioni, che eventualmente stabilissero
in senso difforme), secondo cui le nomine e le designazioni
di rappresentanti delle amministrazioni locali presso altri
enti, rispettivamente, di competenza del sindaco e del
presidente della provincia, devono considerarsi di carattere
fiduciario, nel senso che riflettono il giudizio di
affidabilità espresso attraverso la nomina, ovvero la
fiducia sulla capacità del nominato di rappresentare gli
indirizzi di chi l'ha designato, orientando l'azione
dell'organismo nel quale si trova ad operare in senso quanto
più possibile conforme agli interessi di chi gli ha
conferito l'incarico; ne consegue, che pur comportando una
scelta nell'ambito dei soggetti ritenuti idonei tra quelli
che hanno proposto la loro candidatura, il provvedimento in
questione si caratterizza, non già come mero giudizio
conseguente all'individuazione del candidato tecnicamente
più qualificato, bensì come giudizio sulle qualità del
nominato ed espressione della volontà di presceglierlo per
la ritenuta maggiore affidabilità che lo stesso garantisce
rispetto all'indirizzo politico gestionale
dell'amministrazione procedente. Altro ìndice di un continuo
dovere di conoscere e di saper ben valutare, eventualmente,
se non si hanno le piene cognizioni tecniche, da figure di
ausilio. Quanto detto vale, ovviamente, anche per
l’Assessore delegato.
Nel caso di specie, il Sindaco, in quanto, si ripete, che
sovrintende, a norma dell'art. 50 t.u. n. 267/2000, al
funzionamento degli uffici e dei servizi comunali, ed ha il
dovere d'intervenire in caso di manchevolezze, attivando le
opportune misure correttive poiché in caso contrario può
essere chiamato a rispondere, per fatto proprio, del danno
subito dall’ente, doveva accorgersi della vistosa anomalia
di una richiesta di pagamento lavori formulata dopo anni,
documentalmente non provata e da parte di chi non aveva
avuto rappresentanza contrattuale, nei rapporti intrattenuti
in passato, con l’ente.
È un elementare dovere del sindaco -nella sua qualità di
"organo responsabile dell'amministrazione del Comune"
prendere visione piena e consapevole dell'oggetto delle
proprie deliberazioni; ed allora, anche in presenza di un
elaborato tecnico, la c.d. "esimente politica" -prevista per
gli amministratori politico/elettivi i quali si limitino ad
"approvare" "atti che rientrano nella competenza propria
degli uffici tecnici o amministrativi" (art. 1, comma 1-ter,
l. n. 20/1994)- vale nei limiti in cui l'organo politico
abbia approvato tali atti "in buona fede" ovvero senza alcun
sospetto di irregolarità di essi ma -se si omette di far
presente aspetti problematici di ciò che si va a deliberare-
l'approvazione non può essere qualificata come attività
svolta in buona fede, perché si corre il rischio che
l'oggetto dell'approvazione attenga a qualcosa di non
autorizzato dalla legge, o dagli atti di indirizzo degli
stessi organi politici comunali, o contenga (come nella
presente fattispecie) elementi che, in qualche modo, possano
realizzare risultati contrari all'interesse pubblico.
Non può essere raccolta, in
aggiunta alle altre eccezioni già confutate, quella
frapposta da P. sindaco di Pomarance all’epoca dei fatti, e
G., assessore ai lavori pubblici, i quali invocano la cd.
esimente delle “buona fede” di cui all’art. 1 della
L. 10 del 1994 che non rende punibili gli organi politici
che, in buona fede, abbiano approvato o dato l’assenso
all’operato degli uffici tecnici.
Giurisprudenza pacifica afferma che la c.d. "scriminante
politica" non è applicabile nelle materie riservate agli
organi di governo, nelle quali gli uffici amministrativi e
tecnici della struttura abbiano espletato funzioni
istruttorie o consultive e comunque di mero supporto
strumentale; oppure, è esclusa quando l'evidenza
dell'erroneità dell'atto sia stata tale da escludere
qualsiasi buona fede (Sez. II centr., n. 29/A del
03.02.1999; n. 303/A del 03.11.2003; Sez. Lazio, n. 2087 del
12.10.2005; Sez. Lombardia, n. 323 del 06.03.2003).
Anche nel caso di specie, la competenza a deliberare in
materia di debiti fuori bilancio era atto rientrante nelle
attribuzioni degli organi di governo deliberanti e, in
quanto tale, non è ad esso applicabile la scriminante
politica (Corte Conti, sez. I, 07.04.2008, n. 154). Nel caso
in giudizio, la competenza a deliberare o era atto
rientrante nelle attribuzioni degli organi di governo
deliberanti e, in quanto tale, non è ad esso applicabile la
scriminante politica (Corte Conti, sez. I, 07.04.2008, n.
154) o, senza esclusione di responsabilità, si deve
ravvedere un’intromissione nelle competenze dirigenziali con
assunzione delle responsabilità e delle competenze
professionali ad essi inerenti.
Ciò, peraltro, anche sottolineando la macroscopicità
dell’errore, coinvolge la responsabilità degli altri membri
della Giunta.
Va aggiunto che il Sindaco, e l’assessore da lui delegato
(cfr. C. Conti, sez. Liguria 18.06.2002 n. 414: I poteri
di sovrintendenza al funzionamento dei servizi e degli
uffici ed all'esecuzione degli atti, spettano, invece, agli
assessori che hanno ricevuto la delega dal Sindaco per
determinati settori. Gli stessi, limitatamente al settore
cui sono preposti, vengono infatti a trovarsi, sotto tale
profilo, nella medesima posizione del sindaco ed hanno
pertanto il dovere giuridico di assumere le iniziative
necessarie a stimolare gli organi dotati di poteri di
impulso -nella specie il Sindaco il solo depositario del
potere di iniziativa- e di formulare le proposte afferenti
la propria branca amministrativa") in quanto
sovrintende, a norma dell'art. 50 t.u. n. 267/2000, al
funzionamento degli uffici e dei servizi comunali, ha il
dovere d'intervenire in caso di manchevolezze, attivando le
opportune misure correttive Autorità (C. Conti reg. Trentino
Alto Adige sez. giurisd. 16.03.2009 n. 18).
Va ricordato, che, a norma dell’art. 50 del TUEL, il Sindaco
è responsabile dell’amministrazione del comune. Nell’ambito
di questa responsabilità vi è quella politica, esterna (di
rappresentanza), ma anche quella interna per cui detto
Organo sovrintende al funzionamento degli uffici ed
all’esecuzione degli atti. E’ termine che nel TUEL compare
anche in relazione al Segretario generale ed al Direttore
generale, con riferimento all’operato dei dirigenti ed alla
gestione dell’ente.
L’espressione ha una semantica “lato sensu”
direzionale, di sorveglianza e di alta vigilanza. A ciò si
ricollega la norma, contenuta nell'art. 50 comma 8, d.lgs.
08.08.2000 n. 267, che non si limita a fissare, nella
materia, le attribuzioni del sindaco e del presidente della
provincia, ma definisce anche la regola, di portata generale
(e prevalente sulle norme statutarie anteriori dei diversi
enti, aziende e istituzioni, che eventualmente stabilissero
in senso difforme), secondo cui le nomine e le designazioni
di rappresentanti delle amministrazioni locali presso altri
enti, rispettivamente, di competenza del sindaco e del
presidente della provincia, devono considerarsi di carattere
fiduciario, nel senso che riflettono il giudizio di
affidabilità espresso attraverso la nomina, ovvero la
fiducia sulla capacità del nominato di rappresentare gli
indirizzi di chi l'ha designato, orientando l'azione
dell'organismo nel quale si trova ad operare in senso quanto
più possibile conforme agli interessi di chi gli ha
conferito l'incarico; ne consegue, che pur comportando una
scelta nell'ambito dei soggetti ritenuti idonei tra quelli
che hanno proposto la loro candidatura, il provvedimento in
questione si caratterizza, non già come mero giudizio
conseguente all'individuazione del candidato tecnicamente
più qualificato, bensì come giudizio sulle qualità del
nominato ed espressione della volontà di presceglierlo per
la ritenuta maggiore affidabilità che lo stesso garantisce
rispetto all'indirizzo politico gestionale
dell'amministrazione procedente (TAR Puglia Bari, sez. II,
15.05.2006, n. 1759). Altro ìndice di un continuo dovere di
conoscere e di saper ben valutare, eventualmente, se non si
hanno le piene cognizioni tecniche, da figure di ausilio.
Quanto detto vale, ovviamente, anche per l’Assessore
delegato.
Nel caso di specie, il Sindaco, in quanto, si ripete, che
sovrintende, a norma dell'art. 50 t.u. n. 267/2000, al
funzionamento degli uffici e dei servizi comunali, ed ha il
dovere d'intervenire in caso di manchevolezze, attivando le
opportune misure correttive poiché in caso contrario può
essere chiamato a rispondere, per fatto proprio, del danno
subito dall’ente, doveva accorgersi della vistosa anomalia
di una richiesta di pagamento lavori formulata dopo anni,
documentalmente non provata e da parte di chi non aveva
avuto rappresentanza contrattuale, nei rapporti intrattenuti
in passato, con l’ente.
È un elementare dovere del sindaco -nella sua qualità di "organo
responsabile dell'amministrazione del Comune" prendere
visione piena e consapevole dell'oggetto delle proprie
deliberazioni; ed allora, anche in presenza di un elaborato
tecnico, la c.d. "esimente politica" -prevista per
gli amministratori politico/elettivi i quali si limitino ad
"approvare" "atti che rientrano nella competenza
propria degli uffici tecnici o amministrativi" (art. 1,
comma 1-ter, l. n. 20/1994)- vale nei limiti in cui l'organo
politico abbia approvato tali atti "in buona fede"
ovvero senza alcun sospetto di irregolarità di essi ma -se
si omette di far presente aspetti problematici di ciò che si
va a deliberare- l'approvazione non può essere qualificata
come attività svolta in buona fede, perché si corre il
rischio che l'oggetto dell'approvazione attenga a qualcosa
di non autorizzato dalla legge, o dagli atti di indirizzo
degli stessi organi politici comunali, o contenga (come
nella presente fattispecie) elementi che, in qualche modo,
possano realizzare risultati contrari all'interesse pubblico
(Corte
dei Conti, Sez. giurisdiz. Toscana,
sentenza 25.03.2010 n. 114 - link a www.corteconti.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L'intervenuta
soppressione, ai sensi dell'art. 17, co. 85° della legge
127/1997, del parere di legittimità del segretario (comunale
o provinciale) su ogni proposta di deliberazione sottoposta
alla giunta o al consiglio, già previsto dall'art. 53 della
L. n. 142/1990, non esclude che permangano in capo al
Segretario tutta una serie di compiti ed adempimenti che,
lungi dal determinare un'area di deresponsabilizzazione del
medesimo, lo impegnano, invece, ad un corretto svolgimento
degli stessi, pena la sua soggezione, in ragione del
rapporto di servizio instaurato con l'ente locale,
all'azione di responsabilità amministrativa, ove di questa
ricorrano gli specifici presupposti.
Ciò in quanto il suddetto, ai sensi dell'art. 17 della L.
127/1997 e, successivamente, dell'art. 97 D.Lgvo 18.08.2000,
n. 267 mantiene la specifica funzione ausiliaria di garante
della legalità e correttezza amministrativa dell'azione
dell'ente locale. Infatti il T.U. n. 267/2000 ha assegnato
al Segretario dell'ente locale, in linea generale, oltre
agli altri compiti indicati all'art. 97 del T.U. citato, le
“funzioni di collaborazione e di assistenza
giuridico-amministrativa nei confronti degli organi
dell'ente in ordine alla conformità dell'azione
amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti” e
quelle di “sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei
dirigenti e di coordinarne l'attività”.
Nondimeno la suddetta modifica normativa non esclude che il
Segretario comunale, proprio in virtù di tali specifici
compiti di consulenza giuridico-amministrativa, possa -ed
ove richiestone, debba- comunque rendere il proprio parere
in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle
leggi, agli statuti ed ai regolamenti e che del parere reso
debba rispondere in via amministrativa, in adesione ad un
principio generale, operante a prescindere dalla natura
obbligatoria o facoltativa del parere espresso.
In altri termini l'affidamento, alla stregua della
previsione normativa di cui all'art. 97 T.U. 18.08.2000, n.
267, al Segretario comunale di funzioni di assistenza e di
collaborazione giuridica ed amministrativa di tutti gli
organi dell'ente locale assorbe, in qualche guisa, lo
specifico compito, dianzi espressamente previsto dall'art.
53 L. 08.06.1990 n. 142, di esprimere un previo parere di
legittimità sulle deliberazioni di giunta; di tal che
l'evoluzione normativa in materia ben lungi dall'evidenziare
una sottrazione del già citato Segretario alla
responsabilità amministrativa ne ha invece sottolineato le
maggiori responsabilità in ragione della rilevata estensione
delle funzioni.
Il Segretario
comunale, signor R.F., ha prospettato l'intervenuta
abrogazione, con l'entrata in vigore del comma 85 dell'art.
17 della legge n. 127/1997, dell'art. 53 della Legge n.
142/1990 che poneva in capo al Segretario dell'ente locale
l'obbligo di esprimere il parere di legittimità sulle
deliberazioni dell'Ente; per cui attualmente residuerebbe a
suo carico solo l'attività di verifica che la “cosa
pubblica” sia gestita in conformità ai criteri espressi
nella stessa legge n. 127/1997, non più in un'ottica di
controllo dei singoli atti, bensì di collaborazione con gli
organi dell'Ente nel rispetto delle norme, sia statali che
locali, poste dall'ordinamento giuridico.
Al riguardo questo Giudice deve precisare che la
giurisprudenza della Corte dei conti ha più volte chiarito
che l'intervenuta soppressione, ai sensi dell'art. 17, co.
85° della legge citata, del parere di legittimità del
segretario (comunale o provinciale) su ogni proposta di
deliberazione sottoposta alla giunta o al consiglio, già
previsto dall'art. 53 della L. n. 142/1990, non esclude che
permangano in capo al Segretario tutta una serie di compiti
ed adempimenti che, lungi dal determinare un'area di
deresponsabilizzazione del medesimo, lo impegnano, invece,
ad un corretto svolgimento degli stessi, pena la sua
soggezione, in ragione del rapporto di servizio instaurato
con l'ente locale, all'azione di responsabilità
amministrativa, ove di questa ricorrano gli specifici
presupposti.
Ciò in quanto il suddetto, ai sensi dell'art. 17 della L.
127/97 e, successivamente, dell'art. 97 D.Lgvo 18.08.2000,
n. 267 mantiene la specifica funzione ausiliaria di garante
della legalità e correttezza amministrativa dell'azione
dell'ente locale. Infatti il T.U. n. 267/2000 ha assegnato
al Segretario dell'ente locale, in linea generale, oltre
agli altri compiti indicati all'art. 97 del T.U. citato, le
“funzioni di collaborazione e di assistenza
giuridico-amministrativa nei confronti degli organi
dell'ente in ordine alla conformità dell'azione
amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti”
e quelle di “sovrintendere allo svolgimento delle
funzioni dei dirigenti e di coordinarne l'attività”.
Nondimeno la suddetta modifica normativa non esclude che il
Segretario comunale, proprio in virtù di tali specifici
compiti di consulenza giuridico-amministrativa, possa -ed
ove richiestone, debba- comunque rendere il proprio parere
in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle
leggi, agli statuti ed ai regolamenti e che del parere reso
debba rispondere in via amministrativa, in adesione ad un
principio generale, operante a prescindere dalla natura
obbligatoria o facoltativa del parere espresso (Sez. II
Centr. 17.03.2004, n. 88/A; 23.06.2004, n. 197/A; Sez.
Giur.le Puglia, 08.07.2003, n. 594).
In altri termini l'affidamento, alla stregua della
previsione normativa di cui all'art. 97 T.U. 18.08.2000, n.
267, al Segretario comunale di funzioni di assistenza e di
collaborazione giuridica ed amministrativa di tutti gli
organi dell'ente locale assorbe, in qualche guisa, lo
specifico compito, dianzi espressamente previsto dall'art.
53 L. 08.06.1990 n. 142, di esprimere un previo parere di
legittimità sulle deliberazioni di giunta; di tal che
l'evoluzione normativa in materia ben lungi dall'evidenziare
una sottrazione del già citato Segretario alla
responsabilità amministrativa ne ha invece sottolineato le
maggiori responsabilità in ragione della rilevata estensione
delle funzioni.
Nel caso di specie, peraltro, il signor F. era ugualmente
tenuto ad esprimere il parere di legittimità ai sensi delle
disposizioni contenute negli Statuti del Comune di Segrate
che, negli anni interessati, regolamentavano la vita del
Comune e la funzione degli organi. In particolare l'art. 87
dello statuto approvato con deliberazione del C.C. n. 20 del
1994 prevedeva, fra le funzioni del Segretario, quella di “esprimere
il preventivo parere di legittimità su ogni proposta di
deliberazione sottoposta a Giunta Comunale e Consiglio
Comunale”; di adottare i provvedimenti necessari per il
conseguimento dei risultati dell'azione amministrativa
secondo principi di economicità, efficienza ed efficacia; di
assumere i provvedimenti organizzativi per garantire il
diritto di accesso dei consiglieri e dei cittadini agli atti
e alle informazioni.
Gli articoli 17, comma 6 e 77, comma 5 dello Statuto
approvato con deliberazioni del C.C. n. 97 dell'11.12.1998 e
n. 16 dell'11.02.1999 prevedevano altresì che ogni proposta
di deliberazione sottoposta al Consiglio dovesse essere
corredata dal “parere del Segretario Comunale sotto il
profilo della legittimità” e che il medesimo
collaborasse, anche con l'espressione di pareri li
legittimità, con gli organi del Comune.
Pertanto il signor F. era tenuto all'osservanza degli
obblighi che derivavano, oltre che dalla legge, anche dalle
disposizioni statutarie, e quindi a lui comunque competeva
rendere il prescritto parere di legittimità in ordine alle
deliberazioni degli organi dell'Ente locale.
Correttamente, pertanto, i primi giudici hanno censurato il
comportamento illecito del Segretario comunale il quale,
presente ad entrambe le delibere con cui si è disposto il
raddoppio dell'indennità, ed esplicitamente interpellato da
alcuni Consiglieri, come emerge dal verbale della seduta del
dicembre 1997, ha deliberatamente omesso di segnalare la
illegittimità, nella specie, della concessione del suddetto
beneficio.
Da ultimo rileva il Collegio che il comportamento del signor
F. appare ancor più biasimevole alla luce delle
dichiarazioni fatte dal medesimo nelle deduzioni all'invito
e in occasione dell'audizione personale, dalle quali emerge
con evidenza la natura determinante del suo intervento nella
seduta del Consiglio comunale deputato all'approvazione del
citato beneficio.
Egli ha infatti dichiarato al Procuratore regionale, con
raccomandata in data 05.04.2004: “Prima del Consiglio
Comunale il sindaco dr. B.C. mi chiese di esprimere per
iscritto il mio parere in proposito; detto parere da me reso
puntuale ed approfondito era negativo ed esprimeva quanto da
diverse parti è emerso, e cioè che il dr. C., nella sua
posizione di pensionato, e con i piccoli incarichi di
componente di alcuni Consigli di Amministrazione non aveva
diritto al raddoppio dell'indennità. Non nascondo che la
cosa non fu certamente ben accolta dal Sindaco e ciò non
produsse certo buoni rapporti”.
Siffatte ammissioni, confermate nel verbale di audizione
personale del 20 aprile 2004, dimostrano quindi che il F.
era perfettamente consapevole della assoluta carenza dei
presupposti normativi per concedere il raddoppio
dell'indennità e della natura non veritiera delle
dichiarazioni contenute negli atti notori rilasciati dal
Sindaco COLLE; malgrado ciò egli intervenne nelle sedute del
Consiglio in maniera determinante, fugando i dubbi dei
Consiglieri con considerazioni assolutamente
tranquillizzanti.
Per tali motivi ritiene questo giudice di dover pienamente
confermare, nei confronti del signor F., il verdetto di
responsabilità pronunciato dai primi giudici (Corte dei
Conti, Sez. I centrale d' appello,
sentenza 07.04.2008 n. 154 - link a www.corteconti.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
parere di regolarità contabile investe anche e soprattutto
la legittimità della spesa e depone in tal senso:
- il rilievo che il comb. disp. di cui agli artt. 49,
secondo comma, e 97, quarto comma, lett. b), D.Lgs.
267/2000, per il caso “in cui l'ente non abbia i
responsabili dei servizi”, demanda l'espressione del parere
di cui all'art. 49 (e, pertanto, anche del parere di
regolarità contabile) al segretario, “in relazione alle sue
competenze”, consistenti, a termini dell'art. 97, secondo
comma, D.Lgs. 267/2000, nello svolgimento di “compiti di
collaborazione e funzioni di assistenza giuridico
amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in
ordine alla conformità delle leggi, allo statuto ed ai
regolamenti“, sicché se ne desume che il parere di
regolarità contabile deve comprendere non solo
l'attestazione della copertura finanziaria della spesa,
ossia la sua imputazione alla pertinente partizione del
bilancio ed il riscontro della capienza del relativo
stanziamento, ma debba aver riguardo a tutti i profili
propriamente attinenti alla legittimità della spesa;
- la considerazione che, a termini dell'art. 184, quarto
comma, D.Lgs. 267/2000, il servizio finanziario -cui è
preposto il ragioniere cui il precedente l'art. 49 demanda
l'espressione del parere di regolarità contabile- deve
effettuare “secondo i principi e le procedure della
contabilità pubblica, i controlli e riscontri
amministrativi, contabili e fiscali sugli atti di
liquidazione”, e che, come è dato evincere dall'art. 147,
primo comma, lett. a), D.Lgs. cit., in tema di controlli
interni, la regolarità amministrativa e contabile, oggetto
dei controlli e dei riscontri demandati al servizio
finanziario, si identifica con “la legittimità, regolarità e
correttezza dell'azione amministrativa”, sicché sarebbe
evidentemente incongrua un'interpretazione per cui, in sede
di espressione del parere di regolarità contabile di cui
all'art. 49 D.Lgs. cit., che si colloca a monte delle fasi
di gestione della spesa pubblica, il responsabile del
servizio finanziario non fosse tenuto ad evidenziare
l'illegittimità della spesa oggetto della proposta di
deliberazione;
- il rilievo che l'art. 27 R.D. 2240/1923 (L.C.G.S.) -che,
riferendosi alle Amministrazioni dello Stato, ben può essere
considerato espressione di un principio generale in subiecta
materia- prevede che le ragionerie centrali (oggi uffici
centrali di bilancio) vigilino “perché siano osservate le
leggi….c) per la regolare gestione dei fondi di bilancio”,
per cui evidentemente il parametro di riscontro non è
costituito dalla sola legge (formale) di bilancio ma dalle
“leggi” e, pertanto, anche da tutte le leggi (sostanziali)
che disciplinano l'effettuazione delle spese dello Stato.
---------------
L'interpretazione che il parere di regolarità contabile,
previsto per le delibere comportanti effetti finanziari, non
debba investire anche la legittimità della proposta
deliberazione, è in palese contrasto con l'esigenza che, con
riferimento alle suddette delibere, siano opportunamente -e
sistematicamente- evidenziati all'organo collegiale, a
garanzia della legalità dell'azione amministrativa (cfr.
art. 1, primo comma, L. 241/1990), eventuali profili di
illegittimità.
---------------
Reputa la Sezione che quando vertesi in ipotesi di
determinazione del responsabile del servizio di impegno di
spesa meramente esecutiva e consequenziale rispetto a
delibera di giunta o di consiglio, il visto di regolarità
contabile, non potendo investire la presupposta delibera
dell'organo collegiale (in relazione alla quale avrebbe
dovuto essere acquisito il parere di regolarità contabile ex
art. 49, primo comma, D.Lgs. 267/2000) si risolva e si
esaurisca nella sola attestazione della copertura
finanziaria.
Reputa, infatti, la Sezione che, contrariamente all'assunto
difensivo, il parere di regolarità contabile investa anche e
soprattutto la legittimità della spesa.
Depone, in tal senso:
- il rilievo che il comb. disp. di cui agli artt. 49,
secondo comma, e 97, quarto comma, lett. b), D.Lgs.
267/2000, per il caso “in cui l'ente non abbia i
responsabili dei servizi”, demanda l'espressione del
parere di cui all'art. 49 (e, pertanto, anche del parere di
regolarità contabile) al segretario, “in relazione alle
sue competenze”, consistenti, a termini dell'art. 97,
secondo comma, D.Lgs. 267/2000, nello svolgimento di “compiti
di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico
amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in
ordine alla conformità delle leggi, allo statuto ed ai
regolamenti“, sicché se ne desume che il parere di
regolarità contabile deve comprendere non solo
l'attestazione della copertura finanziaria della spesa,
ossia la sua imputazione alla pertinente partizione del
bilancio ed il riscontro della capienza del relativo
stanziamento, ma debba aver riguardo a tutti i profili
propriamente attinenti alla legittimità della spesa;
- la considerazione che, a termini dell'art. 184, quarto
comma, D.Lgs. 267/2000, il servizio finanziario -cui è
preposto il ragioniere cui il precedente l'art. 49 demanda
l'espressione del parere di regolarità contabile- deve
effettuare “secondo i principi e le procedure della
contabilità pubblica, i controlli e riscontri
amministrativi, contabili e fiscali sugli atti di
liquidazione”, e che, come è dato evincere dall'art.
147, primo comma, lett. a), D.Lgs. cit., in tema di
controlli interni, la regolarità amministrativa e contabile,
oggetto dei controlli e dei riscontri demandati al servizio
finanziario, si identifica con “la legittimità,
regolarità e correttezza dell'azione amministrativa”,
sicché sarebbe evidentemente incongrua un'interpretazione
per cui, in sede di espressione del parere di regolarità
contabile di cui all'art. 49 D.Lgs. cit., che si colloca a
monte delle fasi di gestione della spesa pubblica, il
responsabile del servizio finanziario non fosse tenuto ad
evidenziare l'illegittimità della spesa oggetto della
proposta di deliberazione;
- il rilievo che l'art. 27 R.D. 2240/1923 (L.C.G.S.) -che,
riferendosi alle Amministrazioni dello Stato, ben può essere
considerato espressione di un principio generale in
subiecta materia- prevede che le ragionerie centrali
(oggi uffici centrali di bilancio) vigilino “perché siano
osservate le leggi….c) per la regolare gestione dei fondi di
bilancio”, per cui evidentemente il parametro di
riscontro non è costituito dalla sola legge (formale) di
bilancio ma dalle “leggi” e, pertanto, anche da tutte
le leggi (sostanziali) che disciplinano l'effettuazione
delle spese dello Stato.
Né, in contrario, può argomentarsi dalla circostanza che,
ove il parere di regolarità contabile investisse anche la
legittimità della spesa, potrebbe verificarsi (in specie
nelle ipotesi in cui il responsabile del servizio,
competente ad esprimere il “parere di regolarità tecnica”,
fosse investito di competenze più propriamente
amministrative che tecniche) una possibile “sovrapposizione
di competenza”, con le conseguenze -paventate dalla
difesa del C.- di una “confusione di ruoli e,
soprattutto, di responsabilità”.
Non v'è chi non veda, infatti, che la circostanza che, con
riferimento alle proposte di deliberazioni comportanti
impegni di spesa o diminuzioni di entrata e, pertanto,
aventi effetti finanziari, i pareri di regolarità tecnica
del responsabile del servizio ed il parere di regolarità
contabile del responsabile di ragioneria possano investire
entrambi, se del caso in termini discordanti, la legittimità
della deliberazione proposta, lungi dal costituire fonte di
alcun preteso inconveniente, consente all'organo collegiale
di adottare le proprie deliberazioni, aventi implicazioni
finanziarie, con una maggiore “cognizione di causa”,
in punto di legittimità degli adottandi provvedimenti.
D'altro canto, l'interpretazione nel senso che il parere di
regolarità contabile, previsto per le delibere comportanti
effetti finanziari, non debba investire anche la legittimità
della proposta deliberazione, è in palese contrasto con
l'esigenza che, con riferimento alle suddette delibere,
siano opportunamente -e sistematicamente- evidenziati
all'organo collegiale, a garanzia della legalità dell'azione
amministrativa (cfr. art. 1, primo comma, L. 241/1990),
eventuali profili di illegittimità.
Alla luce delle suesposte considerazioni, deve ritenersi che
il parere di regolarità contabile investa necessariamente
anche la legittimità delle deliberazioni proposte.
---------------
In disparte la questione se le
considerazioni innanzi esposte, nel senso dell'estensione
del parere di regolarità contabile di cui all'art. 49 D.Lgs.
207/2000 ad ogni profilo attinente alla legittimità della
spesa, siano, in termini generali, parimenti valide anche
con riferimento al visto di regolarità contabile di cui al
successivo art. 151, quarto comma, dello stesso testo unico,
ovvero debba ritenersi che quest'ultimo abbia un oggetto più
ristretto, concernendo il più limitato aspetto
dell'esistenza, nella partizione di bilancio indicato nel
provvedimento, di sufficienti disponibilità, tenuto conto
degli impegni precedentemente assunti (cfr. TAR Toscana,
Sez. I, 25.02.2000 n. 369), reputa la Sezione che, quando,
come nella specie, vertesi in ipotesi di determinazione del
responsabile del servizio di impegno di spesa meramente
esecutiva e consequenziale rispetto a delibera di giunta o
di consiglio, il visto di regolarità contabile, non potendo
investire la presupposta delibera dell'organo collegiale (in
relazione alla quale avrebbe dovuto essere acquisito il
parere di regolarità contabile ex art. 49, primo comma,
D.Lgs. 267/2000) si risolva e si esaurisca nella sola
attestazione della copertura finanziaria (Corte
dei Conti, Sez. giurisdiz. Puglia,
sentenza 01.03.2006 n. 207 - link a www.corteconti.it). |
QUESITI &
PARERI |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Accesso a documenti amministrativi da parte di
un'organizzazione sindacale.
Il Comune è chiamato a valutare se,
nella richiesta di accesso agli atti, formulata dal soggetto
sindacale, emerga o meno un interesse specifico e diretto.
Qualora, dal contenuto dell'istanza, affiori, quale ratio,
l'intenzione di svolgere un completo controllo, sull'operato
della pubblica amministrazione e sulla spesa da essa
sostenuta al più vario titolo (spese per personale, per
acquisto di beni e servizi, spese di rappresentanza e per la
gestione degli organi di governo dell'ente), vieppiù in un
arco temporale piuttosto esteso, la domanda di accesso andrà
disattesa.
L'ente è, quindi, tenuto a vagliare se i documenti
menzionati nella richiesta di accesso appaiono collegati
direttamente ad una situazione giuridicamente tutelata
propria del sindacato o ad una situazione propria degli
iscritti al sindacato stesso. In caso contrario, la
richiesta assumerà i contorni di un tentativo di controllo
universale sull'operato dell'amministrazione, come tale
precluso espressamente dall'art. 24, c. 3, della l.
241/1990.
L'ente precisa di aver ricevuto -da parte di
un'organizzazione sindacale- istanza, finalizzata
all'estrazione di copia di una serie di documenti, riferiti
agli anni dal 2004 al 2011, concernenti spese per il
personale, per l'acquisto di beni e servizi, per l'utilizzo
di beni di terzi, per gli organi di governo, nonché spese di
rappresentanza, ecc.
A giustificazione della summenzionata richiesta,
l'organizzazione sindacale dichiara 'di avere e
rappresentare un interesse diretto, concreto e attuale per
la tutela della seguente situazione giuridicamente
rilevante: analisi della spesa pubblica in funzione delle
norme attuate e in via di attuazione e/o di previsione
secondo la spending review della P.C.M'.
Il Comune chiede se, nel caso di specie, possa essere
riconosciuto al soggetto istante il diritto di ottenere
copia della documentazione richiesta.
Si effettuano, al riguardo, le seguenti osservazioni.
Si premette, anzitutto, che, indipendentemente dalla natura
del diritto di accesso, esso è pur sempre strumentale
rispetto alla protezione di un'ulteriore o sottesa
situazione soggettiva che non necessariamente è di interesse
legittimo o di diritto soggettivo, ma che può avere la
consistenza di un interesse collettivo o diffuso o di un
interesse semplice o di fatto [1].
Tale posizione giuridica attiva, in qualsiasi modo la si
voglia qualificare, deve, tuttavia, sempre sussistere
affinché la pretesa di accedere agli atti possa trovare
protezione.
La predetta asserzione è valevole non solo nell'ipotesi in
cui l'instante agisca in proprio, ma anche qualora la
richiesta sia articolata da associazioni esponenziali, quali
sono pure le organizzazioni sindacali.
Ciò posto, si rammenta, in secondo luogo, che, secondo la
giurisprudenza, l'esercizio del diritto di accesso da parte
delle organizzazioni sindacali non può costituire una forma
di preventivo e generalizzato controllo sull'intera attività
della pubblica amministrazione [2], così come previsto
esplicitamente dall'articolo 24, comma 3, della legge
241/1990 [3], in base al quale non sono ammissibili istanze
di accesso preordinate ad un controllo diffuso sull'operato
dei soggetti pubblici.
Ed, invero, il Consiglio di Stato ha escluso che il
legislatore riconosca alle summenzionate organizzazioni la
legittimazione ed il potere di esercitare una generica
verifica sull'attività amministrativa sol per essere
soggetti rappresentativi di interessi, sovraindividuali, di
natura sindacale. Se così fosse, la portata applicativa
dell'articolo 22 della legge 241/1900 sarebbe oltremodo
dilatata fino a configurare il diritto di accesso come una
sorta di azione popolare, diretta a controllare in via
generale e puntale l'operato degli enti pubblici [4].
L'orientamento della giustizia amministrativa è, pertanto,
nel senso che il diritto di accesso non si configura mai
come un'azione popolare. Al contrario, esso postula sempre
un accertamento concreto dell'esistenza di un interesse
differenziato della parte che richiede i documenti.
Si rammenta, inoltre, che il principio della trasparenza
amministrativa, accolto dal nostro ordinamento, non è
assoluto e incondizionato, ma subisce alcuni temperamenti,
basati, fra l'altro, sulla limitazione dei soggetti attivi
del diritto di accesso.
La posizione legittimante l'accesso è costituita da una
situazione giuridicamente rilevante (comprensiva anche degli
interessi diffusi) e dal collegamento qualificato tra questa
posizione sostanziale e la documentazione di cui si pretende
la conoscenza [5].
Con particolare riferimento alla legittimazione attiva delle
organizzazioni sindacali, è stato rilevato che queste
possono essere titolari di un interesse giuridicamente
rilevante all'accesso di atti e documenti amministrativi,
sia in relazione alla posizione di singoli iscritti, sia in
relazione ad un interesse proprio, il quale sia rapportabile
-secondo la terminologia giuslavoristica- ad una posizione
di parte del conflitto collettivo che intercorre
istituzionalmente tra sindacato e datore di lavoro e quindi,
nel settore pubblico, tra sindacato e amministrazione che
agisce nella veste di datore di lavoro [6].
In ogni caso, si ribadisce che la titolarità (o la
rappresentatività) degli interessi diffusi non giustifica un
generalizzato e pluricomprensivo diritto alla conoscenza di
tutti i documenti riferiti all'attività della pubblica
amministrazione [7], ma solo il più limitato diritto alla
conoscenza di atti, che incidono in via diretta e immediata,
e non in via meramente ipotetica e riflessa, sugli interessi
del sindacato o dei propri rappresentati [8].
La sfera di legittimazione delle organizzazioni sindacali
non può pertanto tradursi in iniziative di precauzionale e
universale controllo dell'intera attività
dell'amministrazione datrice di lavoro. Se così fosse, si
darebbe luogo ad una sovrapposizione e duplicazione dei
compiti e delle funzioni che sono demandati ad altri
soggetti, istituzionalmente ed ordinariamente preposti a
vigilare sull'operato degli enti pubblici (Corte dei Conti
ma anche Procure presso i Tribunali per le ipotesi
penalmente rilevanti). Tale preclusione -come già
sottolineato- è espressamente codificata all'articolo 24,
comma 3, della legge 241/1990.
La domanda di accesso, ancorché esplicata in esercizio delle
prerogative dell'organizzazione sindacale, soggiace, quindi,
al filtro dell'esistenza di un interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata, che trovi collegamento nel documento che si vuole
conoscere [9].
Alla stregua dei principi sopra esposti, il Comune è,
pertanto, chiamato a valutare se, nella richiesta di accesso
formulata dal soggetto sindacale, emerga o meno un interesse
specifico e diretto.
Qualora, dal contenuto dell'istanza, affiori, quale ratio,
l'intenzione di svolgere un completo controllo, sull'operato
della pubblica amministrazione e sulla spesa da essa
sostenuta al più vario titolo (spese per personale, per
acquisto di beni e servizi, spese di rappresentanza e per la
gestione degli organi di governo dell'ente), in un arco
temporale piuttosto esteso (2004-2011), la domanda di
accesso andrà disattesa.
L'ente è, quindi, tenuto a vagliare se i documenti
menzionati nella richiesta di accesso appaiano collegati
direttamente ad una situazione giuridicamente tutelata
propria del sindacato o ad una situazione propria degli
iscritti al sindacato stesso. In caso contrario, la
richiesta assumerà i contorni di un tentativo di controllo
universale sull'operato dell'amministrazione, e l'interesse
-che ben potrebbe definirsi di tipo "parainvestigativo"
[10]- non potrà essere identificato né con quello
dell'associazione sindacale, né con quello dei singoli
aderenti.
Si rammenta che, per il Consiglio di Stato, l'accesso non
può essere un mezzo per compiere una indagine o un controllo
ispettivo, 'cui sono ordinariamente preposti organi
pubblici, perché in tal caso nella domanda di accesso è
assente un diretto collegamento con specifiche situazioni
giuridicamente rilevanti' [11]. Rientrerebbe, pertanto,
nelle prerogative dell'organo giurisdizionale competente, in
sede di giudizio contabile, vagliare la necessità di
acquisire, a quei fini, la documentazione in premessa
indicata.
Come già rimarcato, al fine dell'esercizio del diritto di
accesso, il sindacato deve vantare un interesse, oltre che
qualificato, attuale e concreto, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata che trovi collegamento
nei documenti che si vuole conoscere. Tali caratteri, che
condizionano l'esercizio del diritto di accesso
dell'organizzazione sindacale, possono essere riconosciuti
esistenti in quei casi in cui si intenda intraprendere le
possibili iniziative a tutela degli interessi collettivi che
si fa valere. Per ciò stesso, qualora il sindacato eserciti
il diritto di accesso, motivandolo con l'esigenza di
difendere gli interessi collettivi di cui è autonomo
portatore, esso non potrebbe essergli negato. Non pare,
tuttavia, che, per le materie in questione, si versi in una
ipotesi di tutela dell'interesse della categoria, il quale,
nell'ambito di una situazione rilevante e tutelabile secondo
l'ordinamento giuridico, legittimerebbe l'accesso alla
documentazione amministrativa.
---------------
[1] Così, Consiglio di Stato, sez. V, 10.08.2007, n.
4411.
[2] Consiglio di Stato, sez. VI, 11.01.2010, n. 24.
[3] Nel testo novellato dall'articolo 16 della legge
15/2005.
[4] Si evidenzia, al riguardo, che la Commissione Nigro,
nello schema di legge originario della 241, riconosceva il
diritto di accesso a tutti i cittadini, con ciò intendendo
istituire una vera e propria azione popolare,
successivamente stralciata nel testo definitivamente
approvato.
[5] Consiglio di Stato, 22.05.2006, n. 2959 e n. 24/2010,
cit.
[6] Così, Consiglio di Stato, sez. IV, 30.12.2003, n. 9158.
[7] Così, Consiglio di Stato, sentenza n. 24/2010, cit.
[8] Alla regola espressa nel corpo del parere fa eccezione
il peculiare settore dell'accesso ambientale. Del resto,
anche in questa materia, nella quale maggiormente si è
assistito ad una dilatazione, anzitutto legislativa, del
concetto di interesse sotteso all'accesso, si è avuto modo
di sottolineare in senso definitorio che 'la domanda di
accesso alle informazioni ambientali può consistere anche in
una generica richiesta di informazioni sulle condizioni di
un determinato contesto ambientale, a condizione che questo
sia specificato e che la richiesta non sia mirata ad un mero
sindacato ispettivo sull'attività del Comune' (in tal senso,
Consiglio di Stato, sez. VI, 16.02.2007, n. 668 e
10.02.2006, n. 555).
[9] Così, Consiglio di Stato, sez. VI, 06.03.2009, n. 1351.
[10] L'espressione si trova in Consiglio di Stato, sentenza
n. 24/2010.
[11] Consiglio di Stato, sentenza n. 555/2006, richiamata da
Consiglio di Stato, sentenza n. 24/2010, cit. (08.11.2012
- link a www.regione.fvg.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - APPALTI:
Limiti al diritto di accesso agli atti delle procedure di
affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici.
Documenti di gara sono da considerarsi
accessibili, salvo che si tratti di documentazione
suscettibile di rivelare il know-how industriale e
commerciale contenuto nelle offerte delle imprese
partecipanti (art. 13, co. 5, lett. a), D.Lgs. 163/2006).
Resta, peraltro, consentito l'accesso in vista della difesa
in giudizio degli interessi del richiedente, previsione
questa che riafferma la tendenziale prevalenza del
cosiddetto accesso difensivo, sancita in via generale
dall'articolo 24, comma 7, della legge 241/1990.
Il Comune chiede di conoscere un parere in materia di
diritto di accesso agli atti relativamente a delle istanze
avanzate da alcune società che hanno partecipato ad una gara
indetta dall'Ente, già conclusa, aventi ad oggetto la
richiesta di accesso al verbale di gara ed agli elaborati
relativi alle offerte tecniche prodotte dalle altre società
partecipanti alla procedura. In particolare, l'Ente desidera
sapere in che modo garantire il diritto di accesso agli atti
evitando di ledere i diritti di riservatezza e di tutela
delle opere dell'ingegno delle imprese partecipanti alla
gara. [1]
In materia di diritto di accesso agli atti la legge generale
di riferimento è la 07.08.1990, n. 241, la quale disciplina
detto istituto agli articoli 22 e seguenti.
Tale normativa, deve, ai fini della disamina della questione
posta dall'Ente che ha formulato il quesito, essere
coordinata con il decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, e,
in particolare, con l'articolo 13 rubricato 'Accesso agli
atti e divieti di divulgazione'. Tale norma, al comma 1,
stabilisce che: 'Salvo quanto espressamente previsto nel
presente codice, il diritto di accesso agli atti delle
procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti
pubblici, ivi comprese le candidature e le offerte, è
disciplinato dalla legge 07.08.1990, n. 241 e successive
modificazioni'.
Segue che, la disciplina generale in tema di diritto di
accesso, anche qualora si tratti di istanze afferenti
procedure di gara, deve rinvenirsi nella legge 241/1990 la
quale riconosce tale diritto a chiunque sia portatore di un
'interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad
una situazione giuridicamente tutelata e collegata al
documento al quale è chiesto l'accesso' (articolo 22,
comma 1, lett. b) della legge 07.08.1990, n. 241).
La regola, tuttavia, sancita dall'articolo 25, comma 2,
della legge 241/1990, in forza della quale, la richiesta di
accesso deve essere, altresì, motivata, subisce una sorta di
eccezione con riferimento alle istanze di accesso
eventualmente inoltrate dai partecipanti ad una gara e
afferenti alla relativa documentazione. La giurisprudenza
amministrativa, infatti, ha affermato che tale diritto 'sussiste
per il solo fatto di aver partecipato alla gara' [2]. In
altri termini, l'impresa che ha partecipato ad un appalto,
nel richiedere l'accesso alla documentazione di gara dopo il
suo espletamento, non deve indicare nell'istanza di accesso
le ragioni giuridiche puntualmente sottese alla sua
richiesta, dal momento che l'accesso si giustifica ex se,
con il diritto di chi ha partecipato alla gara di conoscere
le modalità di svolgimento della procedura e le
determinazioni adottare in proposito dalla Pubblica
Amministrazione. [3]
È principio consolidato in giurisprudenza quello secondo
cui: 'L'impresa partecipante ad una procedura concorsuale
per l'aggiudicazione di un appalto pubblico può accedere
nella forma più ampia agli atti del procedimento di gara
(ancorché ufficiosa), ivi compresa l'offerta presentata
dalla impresa risultata aggiudicataria, senza che possano
essere opposti motivi di riservatezza, sia perché una volta
conclusasi la procedura concorsuale i documenti prodotti
dalle ditte partecipanti assumono rilevanza esterna, sia in
quanto la documentazione prodotta ai fini della
partecipazione ad una gara di appalto indetta dalla Pubblica
Amministrazione esce dalla sfera esclusiva delle imprese per
formare oggetto di valutazione comparativa essendo versata
in un procedimento caratterizzato dai principi di
concorsualità e trasparenza.' [4].
Segue che i documenti di gara sono da considerarsi
accessibili, salve, tuttavia, le specifiche ipotesi di
esclusione con riferimento alle quali soccorre il disposto
di cui all'articolo 13, comma 5, del D.Lgs. 163/2006 (in
luogo dell'articolo 24 della legge 241/1990) il quale
individua le ipotesi in cui sono esclusi il diritto di
accesso e ogni forma di divulgazione di una serie di atti.
In particolare, con riferimento alla problematica in esame,
rileva quanto contenuto nella lett. a) dell'articolo 13,
comma 5, citato, relativo all'esclusione del diritto di
accesso in relazione 'alle informazioni fornite dagli
offerenti nell'ambito delle offerte ovvero a giustificazione
delle medesime, che costituiscano, secondo motivata e
comprovata dichiarazione dell'offerente, segreti tecnici o
commerciali'. Tale previsione va, tuttavia, coordinata
con quanto stabilito al successivo comma 6 il quale prevede
che 'è comunque consentito l'accesso al concorrente che
lo chieda in vista della difesa in giudizio dei propri
interessi in relazione alla procedura di affidamento del
contratto nell'ambito della quale viene formulata la
richiesta di accesso'.
In altri termini, il legislatore ha negato l'esercizio del
diritto di accesso nei confronti della documentazione
suscettibile di rivelare il know-how industriale e
commerciale contenuto nelle offerte delle imprese
partecipanti, sì da evitare che operatori economici in
diretta concorrenza tra loro possano utilizzare l'accesso
per giovarsi delle specifiche conoscenze possedute da altri,
al fine di conseguire un indebito vantaggio commerciale
all'interno del mercato. [5]
Resta, peraltro, consentito l'accesso in vista della difesa
in giudizio degli interessi del richiedente, ai sensi del
citato comma 6, previsione questa che riafferma la
tendenziale prevalenza del cosiddetto accesso difensivo, già
sancita in via generale dall'articolo 24, comma 7, della
legge 241/1990. [6]
Da quanto sopra, segue che il diritto di accesso deve essere
consentito qualora non venga addotta dall'offerente motivata
e comprovata dichiarazione in ordine al fatto che le
informazioni di cui altro soggetto chiede l'accesso
costituiscano segreti tecnici o commerciali; [7] in
subordine deve essere sempre consentito tale accesso se
richiesto in chiave difensiva. Con riferimento a tale ultimo
aspetto si osserva come la giurisprudenza abbia affermato
che: 'Sul piano oggettivo, l'accesso eccezionalmente
consentito è strettamente collegato alla sola esigenza di
una difesa in giudizio; in questa prospettiva, quindi, la
previsione è molto più restrittiva di quella contenuta
nell'art. 24, l. n. 241 cit., la quale contempla un
ventaglio più ampio di possibilità consentendo l'accesso ove
necessario per la tutela della posizione giuridica del
richiedente, senza alcuna restrizione alla sola dimensione
processuale.
Per altro, nel contesto dell'art. 13 cit., poiché si
utilizza la locuzione <>, non è necessario che, al momento
della richiesta di accesso, il giudizio sia già instaurato,
ma è sufficiente che la lite sia anche solo potenziale.
Per non dilatare in modo irragionevole la portata della
norma, si deve ritenere che essa imponga di effettuare un
accurato controllo in ordine alla effettiva utilità della
documentazione richiesta, alla stregua di una sorta di prova
di resistenza; tale giudizio prognostico, [...], non può
prescindere dalle eventuali preclusioni processuali in cui
sia incorso il richiedente [...].
In definitiva, dal combinato disposto dei commi 5 e 6,
dell'art. 13, d.lgs. n. 163 del 2006, discende che non è
consentito esercitare l'accesso alla documentazione posta a
corredo dell'offerta selezionata, ove l'impresa
aggiudicataria abbia dichiarato che sussistano esigenze di
tutela del segreto tecnico o commerciale, ed il richiedente
non abbia dimostrato la concreta necessità di utilizzare
tale documentazione in uno specifico giudizio'. [8]
Con riferimento alle modalità di esercizio del diritto di
accesso, e, in particolare, alla possibilità di limitare l'ostensibilità
dei documenti alla sola visione, con esclusione
dell'estrazione di copie, la giurisprudenza ha espresso
orientamento negativo affermando che: '[...] in materia
di accesso agli atti amministrativi, ai sensi della l.
11.02.2005 n. 15, deve ricomprendersi nel relativo diritto
sia la visione che il rilascio di copia del documento,
attesa l'abrogazione della disposizione dettata dall'art.
24, comma 2, lettera d), nella formulazione originaria della
l. n. 241/1990 che fa ritenere superata ogni possibilità di
distinguere tra le due indicate modalità di accesso".
[9]
Per completezza espositiva si segnala, tuttavia, una
ordinanza del Consiglio di Stato, sez. VI, del 01.02.2010,
n. 524 relativa ad una fattispecie analoga a quella in
esame, nella quale si afferma che '[...] in ogni caso, la
stazione appaltante può adottare accorgimenti utili ad
evitare la divulgazione di eventuali segreti tecnici o
commerciali, inibendo la estrazione di copia di quelle parti
dei documenti da cui potrebbero trarsi informazioni sui dati
da mantenere segreti, se e nella misura in cui la loro
acquisizione non risulti in ogni caso utile al ricorrente
per la difesa dei propri interessi'.
---------------
[1] Gli elaborati relativi alle offerte tecniche
contengono, infatti, un insieme di informazioni e notizie
afferenti l'organizzazione industriale, commerciale e
finanziaria delle società che li hanno prodotti nonché
informazioni di carattere riservato di altri clienti.
[2] Così, TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste, sez. I,
sentenza del 03.05.2010, n. 301.
[3] In questi termini, si veda parere ANCI del 04.06.2009.
[4] Tra le altre, TAR Puglia, Lecce, sez. II, sentenza del
09.07.2008, n. 2087.
[5] Così, TAR Puglia, Bari, sez. I, sentenza del 25.02.2010,
n. 678.
[6] Così, Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del
19.10.2009, n. 6393. Di recente, TAR Puglia, Lecce, sez. II,
sentenza del 05.10.2012, n. 1639.
[7] Si veda, al riguardo, TAR Puglia, Bari, sez. I, sentenza
del 27.05.2010, n. 2066 nella quale si afferma che: 'La
deroga all'accesso costituisce eccezione che va debitamente
comprovata dall'interessato e indubbiamente non è idonea
motivazione la circostanza che trattasi di elaborati
costituenti opera dell'ingegno e contenenti informazioni e
dati frutto del patrimonio di conoscenze ed esperienze
aziendali. Questi caratteri, infatti, sono propri
dell'offerta tecnica di qualunque impresa e non giustificano
di per sé il divieto di divulgazione'. Si veda, anche,
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 30.12.2011, n.
6996.
[8] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 09.12.2008, n.
6121. Tale sentenza è stata richiamata, condividendone gli
assunti, da Consiglio di Stato, n. 6996/2011, sopra citata.
[9] TAR Campania, Napoli, sez. VI, sentenza del 02.12.2010,
n. 26573 la quale richiama Consiglio di Stato, sez. VI,
sentenza del 19.10.2009, n. 6393. Nello stesso senso, TAR
Puglia, Bari, sez. I, sentenza del 25.02.2010, n. 678 nella
quale si afferma che: 'È, perciò, illegittima, secondo
l'orientamento ripetutamente espresso da questa Sezione, la
limitazione alla sola visione degli atti nei confronti del
soggetto che abbia interesse a conoscere la documentazione
amministrativa per tutelare in sede giurisdizionale i propri
interessi' (26.10.2012 - link a
www.regione.fvg.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Liquidazione ferie.
Il Dipartimento della funzione pubblica
(cfr. pareri del 06.08. e dell'08.10.2012) ha fornito alcuni
chiarimenti in merito all'applicazione dell'art. 5, comma 8,
del d.l. n. 95/2012 (divieto di monetizzare le ferie non
godute).
Il Comune ha formulato una richiesta di parere in ordine
alla disciplina applicabile alle eventuali ferie residue, in
determinati casi di cessazione del rapporto di lavoro,
verificatisi in periodo successivo all'entrata in vigore
delle modifiche apportate recentemente in materia dall'art.
5, comma 8, d.l. n. 95/2012.
La citata norma prevede che le ferie, i riposi ed i permessi
spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale,
delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico
consolidato della pubblica amministrazione, come individuate
dall'ISTAT (fra tali amministrazioni figurano anche i
Comuni), sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto
previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in
nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici
sostitutivi. Si precisa altresì che detta disposizione si
applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro
per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e
raggiungimento del limite di età. Eventuali disposizioni
normative e contrattuali più favorevoli cessano di avere
applicazione a decorrere dalla data di entrata in vigore del
medesimo d.l. n. 95/2012.
A livello interpretativo è intervenuto il Dipartimento della
funzione pubblica, che ha fornito utili chiarimenti in
merito [1].
Per quanto riguarda l'ambito temporale di applicazione della
nuova normativa, in un primo parere il citato Dipartimento
ha evidenziato che la norma in argomento non prevede una
disciplina transitoria e, pertanto, ha ritenuto che la
soluzione delle problematiche di carattere intertemporale
debba seguire i principi generali, 'tenuto conto che
l'entrata in vigore della nuova disciplina impatta anche su
cessazioni di rapporti di lavoro verificatesi prima della
predetta entrata in vigore e su situazioni consolidatesi e
relative a rapporti ancora in corso'.
Il Dipartimento della funzione pubblica ha rimarcato,
pertanto, come debbano rimanere salvaguardate tutte quelle
situazioni che si sono definite prima dell'entrata in vigore
della normativa di cui si discute.
Quindi, la preclusione alla monetizzazione non riguarda i
rapporti di lavoro già cessati prima dell'entrata in vigore
dell'art. 5 in esame, le situazioni in cui le giornate di
ferie siano state maturate prima dell'entrata in vigore
della predetta disposizione e ne risulti incompatibile la
fruizione a causa della ridotta durata del rapporto o a
causa di una situazione di sospensione cui segua la
cessazione (ad es. i casi di aspettativa per periodo di
prova presso altra amministrazione a seguito concorso).
Resta salvo -continua la Funzione pubblica- 'che la
monetizzazione in questi residui casi potrà avvenire solo in
presenza delle limitate ipotesi normativamente e
contrattualmente previste [........]. Le situazioni devono
essere esaminate e valutate considerando anche la
motivazione del rinvio che ha portato all'accumulo,
rammentandosi che le esigenze di servizio che, in base al
CCNL, possono giustificare il rinvio temporaneo debbono
risultare da atto formale con data certa e che, sempre in
base al CCNL, la monetizzazione è consentita solo in caso di
cessazione del rapporto ove il rinvio della fruizione sia
avvenuto legittimamente per esigenze di servizio' [2].
In un secondo e più recente parere il predetto Dipartimento
ha affrontato, nello specifico, la problematica inerente
alla possibilità di ritenere escluse dall'ambito di
applicazione del divieto di corresponsione di trattamenti
economici sostitutivi delle ferie le ipotesi in cui la
mancata fruizione sia determinata in occasione di cessazioni
dal servizio conseguenti a periodi di malattia ovvero a
dispensa dal servizio per inidoneità assoluta e permanente o
a decesso del dipendente.
A tal proposito -osserva il Dipartimento della funzione
pubblica- le predette cessazioni del rapporto di lavoro
configurano vicende estintive 'dovute ad eventi
indipendenti dalla volontà del lavoratore e dalla capacità
organizzativa del datore di lavoro. In base al sopra
descritto ragionamento non sembrerebbe, pertanto,
rispondente alla ratio del divieto previsto dall'articolo 5,
comma 8, del D.L. n. 95 del 2012 includervi tali casi di
cessazione, poiché ciò comporterebbe una preclusione
ingiustificata e irragionevole per il lavoratore il cui
diritto alle ferie maturate e non godute per ragioni di
salute, ancorché già in precedenza rinviate per ragioni di
servizio, resta integro'.
Il citato Dipartimento richiama, in merito, anche
giurisprudenza comunitaria che ha ribadito che le
disposizioni nazionali non possono prevedere che, al momento
della cessazione del rapporto di lavoro, non sia dovuta
alcuna indennità finanziaria sostitutiva delle ferie annuali
retribuite non godute dal lavoratore che sia stato in
congedo per malattia [3]. Anche la giurisprudenza italiana
ha espresso un orientamento favorevole alla monetizzazione
delle ferie in caso di malattia [4].
Pertanto, ad avviso del citato Dipartimento, nel divieto
posto dal comma 8 dell'art. 5 in esame non rientrano i casi
di cessazione dal servizio in cui l'impossibilità di fruire
le ferie non è imputabile o riconducibile al dipendente,
come le ipotesi di decesso, malattia e infortunio,
risoluzione del rapporto di lavoro per inidoneità fisica
permanente ed assoluta, congedo obbligatorio per maternità.
Lo stesso Dipartimento precisa comunque che, considerata la
rilevanza finanziaria della questione prospettata, è
necessario acquisire in proposito anche l'avviso del
Ministero dell'economia e delle finanze.
---------------
[1] Cfr. pareri del 06.08. e dell'08.10.2012.
[2] L'orientamento espresso dal D.F.P. è stato condiviso
anche dal Ministero dell'economia e delle finanze -
Dipartimento RGS.
[3] Cfr. Corte di giustizia, Grande sez., sent. 20.01.2009,
n. 350/2006, sent. 20.01.2009, n. 520/2006.
[4] Cfr. Cass., 09.07.2012, n. 11462 (23.10.2012
- link a www.regione.fvg.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Domanda: Il parere in linea tecnica e di regolarità
contabile -da esprimere nelle deliberazioni rispettivamente
a cura dal responsabile del servizio interessato e di
ragioneria- può estendersi fino ad attestare la legittimità
del provvedimento?
Risposta: L’art. 49 del decreto legislativo 267 del 2000
prescrive che su ogni proposta di deliberazione sottoposta
al Consiglio ed alla Giunta, che non sia mero indirizzo,
deve essere richiesto il parere in ordine alla sola
regolarità tecnica del responsabile del servizio interessato
e, qualora comporti impegno di spesa o diminuzione di
entrata, del responsabile di ragioneria in ordine alla
regolarità contabile. I predetti pareri debbono essere
inseriti nella deliberazione.
La disposizione in esame rappresenta la modifica della
versione originaria della norma che, all’art. 53 della legge
142/1990 prevedeva, oltre ai pareri in esame, il parere di
legittimità da parte del segretario comunale, che è stato
soppresso con il comma 85 dell’art. 17 della legge 127/1997.
Dal tenore della norma, si ricava che i pareri in linea
tecnica e contabile non costituiscono un requisito di
legittimità delle deliberazioni cui si riferiscono, in
quanto la funzione dei detti pareri è quella di individuare,
sul piano formale, i funzionari responsabili, in via
amministrativa e contabile ed eventualmente in solido con i
componenti degli organi deliberanti, delle deliberazioni da
questi assunte (fra le altre TAR Lecce, 07.04.2001, n.
1616).
Ne deriva che il parere tecnico non comporta una valutazione
di legittimità dell’atto in riferimento all’oggetto della
delibera, essendo un parere tecnico e non di legittimità,
diversamente da quello che in precedenza veniva dato dal
segretario comunale, e si limita ad attestare che l’atto
corrisponde all’attività istruttoria compiuta, ai fatti
acquisiti nell’attività istruttoria, che l’atto nella sua
composizione formale è conforme a quanto disposto dalla
normativa sulla formazione della delibera nel suo aspetto
estrinseco e non attesta nulla in ordine alla legittimità
delle ragioni di merito che sottostanno al tipo di delibera
adottata.
La giurisprudenza, peraltro, è concorde nel ritenere che i
pareri espressi dai responsabili dell’aerea tecnica e del
servizio finanziario dei comuni costituiscono atti
preparatori che legittimano l’adozione delle deliberazioni
per le quali i pareri sono richiesti. Detti pareri, perciò,
rispetto alla validità formale della medesime deliberazioni
operano quale presupposto di diritto, ma non possono
interferire sull’autonomo e corretto esercizio dei poteri
spettanti all’organo deliberante; a questi spetta la
ponderazione concreta e corretta dei pubblici interessi, al
di là della mera relazione funzionale dei pareri stessi che
sono resi "ex ante" sulla proposta di deliberazione e
costituiscono il presupposto al corretto esercizio dei
poteri amministrativi dell’organo deliberante, senza
intervenire sulla volontà di questo nei casi in cui la
competenza a provvedere spetta allo stesso Consiglio
comunale e non già ad altri uffici tecnici o amministrativi
dell’amministrazione comunale (cfr. Corte dei conti, sezione
giurisdizionale d'appello per la Sicilia, 13.01.2009, n.
01/A/2009) (link a www.entilocali.provincia.le.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
In caso di parere non favorevole del responsabile
del servizio finanziario sulle proposte di deliberazione
della Giunta e del Consiglio, deve essere indicata di ciò
una idonea motivazione.
Pur essendo un atto procedimentale obbligatorio che va
inserito nella deliberazione, il parere di regolarità
contabile non è vincolante, per cui è possibile che la
Giunta o il Consiglio deliberino in presenza di un parere
sfavorevole, assumendosene tutte le responsabilità.
Tuttavia, il Consiglio o la Giunta che intendono procedere
all’approvazione della deliberazione, pur in presenza di un
parere di regolarità contabile contrario, devono indicare
nella delibera stessa le motivazioni della scelta.
Nel caso in cui la Giunta o il Consiglio deliberino in
difformità del parere di regolarità contabile, il
responsabile del servizio finanziario deve portare comunque
a termine l’iter di erogazione della spesa emettendo, se del
caso, le liquidazioni ed i mandati di pagamento conseguenti.
Oggetto: Parere negativo del responsabile del servizio
finanziario di cui all’articolo 49 del decreto legislativo
18.08.2000 n. 267.
Con il quesito in oggetto si chiede:
1) se la Giunta comunale può adottare deliberazioni in
presenza di un parere contrario e ben motivato del
Responsabile del servizio finanziario;
2) se il Responsabile del servizio finanziario, una volta
adottata la delibera di cui al punto 1), è tenuto a firmare
i relativi mandati di pagamento.
L’art. 49 del Tuel prevede chiaramente l’obbligatorietà del
parere di regolarità contabile sulle proposte di
deliberazione della Giunta e del Consiglio che non siano
meri atti di indirizzo e qualora comportino impegni di
spesa.
Nelle fattispecie suindicate il parere è obbligatorio e può
essere favorevole o non favorevole; in quest’ultimo caso
deve essere indicata anche una idonea motivazione.
Tuttavia, pur essendo un atto procedimentale obbligatorio
che va inserito nella deliberazione, il parere di regolarità
contabile non è vincolante, per cui si potrebbe verificare
il caso in cui la Giunta o il Consiglio deliberino in
presenza di un parere sfavorevole, assumendosene tutte le
responsabilità. Così si è espresso anche il Consiglio di
Stato, Sezione Quinta, con sentenza n. 680 del 25.05.1998
(1).
E’ certamente auspicabile che non si pervenga alla
situazione prospettata e che vengano rimosse preventivamente
le motivazioni che hanno indotto il responsabile del
servizio finanziario ad esprimere un parere sfavorevole;
tuttavia, se ciò non avviene preventivamente, sembra
necessario che la Giunta o il Consiglio provvedano nel più
breve termine possibile, garantendo gli equilibri di
bilancio ed in generale il rispetto di tutti i principi
dell’ordinamento finanziario e contabile.
In ogni caso, il Consiglio o la Giunta che intendono
procedere all’approvazione della deliberazione, pur in
presenza di un parere di regolarità contabile contrario,
devono indicare nella delibera stessa le motivazioni della
scelta.
In merito al punto 2), constatato che nel caso specifico la
Giunta o il Consiglio nel deliberare in difformità del
parere di regolarità contabile assumono inevitabilmente
anche responsabilità amministrative e contabili che sono
proprie della figura del responsabile del servizio
finanziario è palese che quest’ultimo deve portare a termine
l’iter di erogazione della spesa emettendo, se del caso, le
liquidazioni ed i mandati di pagamento conseguenti (Osservatorio
per la finanza e la contabilità degli enti locali,
parere 05-06.06.2003
- link a www.dirittoeschemi.it). |
NEWS |
EDILIZIA
PRIVATA: Un
container come casa è abusivo.
Il container trasformato in monolocale
fissato solidamente al suolo rappresenta una edificazione e
pertanto necessità sempre di licenza edilizia per essere
realizzato. E a nulla rileva che al singolare manufatto
siano state applicate ruote atte a dimostrarne una possibile
manovrabilità e trasportabilità.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. I, con il
parere n. 3727/2012.
Sono frequenti le installazioni precarie di roulotte,
rimorchi e container trasformate in dimore stabili magari
con semplici accorgimenti di fortuna atti anche a simularne
un uso temporaneo. Nel caso sottoposto all'esame del
collegio un comune ha disposto la demolizione di un
container monoblocco, munito di ruote, adibito abusivamente
a civile abitazione.
Contro questa severa determinazione l'interessato ha
proposto ricorso straordinario al presidente della
repubblica con conseguente interessamento dei giudici di
palazzo Spada per il prescritto parere. Il collegio non ha
dubbi. Un container monoblocco posizionato su blocchi di
lapillo in un'area interamente pavimentata di circa 200 mq
rappresenta un evidente abuso edilizio. Anche se nella parte
inferiore del manufatto sono state applicate delle ruote.
In particolare come risulta agli atti del comune il
manufatto è abusivo perché realizzato senza alcun titolo
abilitativo. Il container collegato al suolo deve infatti
essere considerato al pari di una qualsiasi struttura fissa
adibita ad abitazione realizzata senza i necessari titoli
abilitativi
(articolo ItaliaOggi del 17.11.2012). |
APPALTI: Pagamenti sprint ai
professionisti.
Le p.a. dovranno saldare entro 30 giorni dalla parcella. Il dlgs
192 tutela non solo le imprese ma anche tutti gli esercenti
una libera professione.
Pagamenti certi ai professionisti che lavorano con la
pubblica amministrazione. Dal 01.01.2013 le parcelle
dovranno essere onorate entro 30 giorni al massimo dal
momento in cui la p.a. le riceve. Oltre questo termine
inizieranno a decorrere gli interessi (senza necessità di un
apposito atto di costituzione in mora) che passeranno dal 7
all'8%, oltre al tasso fissato dalla Bce per le operazioni
di rifinanziamento.
Solo in casi eccezionali i termini di pagamento potranno
allungarsi a 60 giorni.
Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale di giovedì
(n. 267 del 15 novembre) del dlgs n. 192/2012 che recepisce la
direttiva Ue contro i ritardati pagamenti nelle transazioni
commerciali, anche i professionisti, e non solo le imprese,
potranno contare su una corsia preferenziale per incassare i
loro onorari.
Il provvedimento riformula infatti il concetto di pubblica
amministrazione, estendendo le novità a tutti i soggetti che
rientrano nella disciplina del codice appalti (dlgs
163/2006).
E i diretti interessati, che spesso si trovano a dover
fronteggiare situazioni di carenza di liquidità a causa dei
ritardati pagamenti, festeggiano per l'arrivo di un
provvedimento che «colma l'ennesima lacuna normativa che
fino ad oggi ha penalizzato il lavoro dei professionisti».
«Il decreto», ha commentato Gaetano Stella, presidente di Confprofessioni, «va nella stessa direzione a cui Confprofessioni lavora da mesi richiedendo l'estensione ai
professionisti del diritto di compensare i crediti con la
p.a.». «Il ritardo nei pagamenti», ha osservato Stella, «è
un grosso problema che coinvolge le pmi, ma soprattutto i
professionisti che lavorano con la pubblica amministrazione
e con le imprese».
Le regole
Il provvedimento, approvato dal consiglio dei ministri il 31
ottobre scorso (si veda ItaliaOggi del 02/11/2012) stabilisce
regole differenti a seconda che si tratti di transazioni tra
imprese o tra la p.a. e un soggetto privato (impresa o
professionista).
Nel primo caso il decreto consente comunque alle parti di
concordare un termine di pagamento superiore a 30 giorni. E
anche superiore a 60 giorni se l'estensione temporale è
stata sottoscritta in forma espressa e non è gravemente
iniqua per il creditore.
Nella seconda ipotesi, il termine di pagamento dovrà essere
di regola non superiore a 30 giorni. Potrà arrivare fino a
un massimo di 60 giorni se il debitore è un'impresa pubblica
o un ente pubblico che fornisce servizi sanitari (Asl,
ospedali). In questo caso, le parti potranno concordare, in
forma espressa, di andare oltre i 30 giorni per il
pagamento, se la dilazione è oggettivamente giustificata
dalla natura o dall'oggetto del contratto o da particolari
circostanze esistenti al momento della stipula.
Ma la dead-line per onorare gli impegni non potrà mai
superare i 60 giorni. Decorsa inutilmente tale scadenza
scatteranno gli interessi di mora (8% più il tasso Bce) a
cui dovrà essere aggiunta una somma forfettaria di 40 euro
da aggiungere all'importo dovuto al creditore a titolo di
rimborso per le spese di recupero.
La decorrenza
Nonostante il termine per recepire la direttiva europea
2011/7/Ue sia fissato al 16.03.2013, la nuova disciplina
si applicherà alle transazioni commerciali concluse a
partire dal 01.01.2013. Quindi in anticipo rispetto
alla scadenza prevista, in considerazione dell'importanza
della materia e della necessità di garantire in questo
periodo di crisi un'iniezione di liquidità indispensabile
per professionisti e imprese.
Le nuove regole non si applicheranno retroattivamente ai
contratti già conclusi, ma soltanto a quelli futuri. I
destinatari delle nuove norme avranno, dunque, sufficiente
tempo per adeguare la modulistica contrattuale e le
procedure interne di pagamento
(articolo ItaliaOggi del 17.11.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Permessi.
Disabili, istanze web per i privati.
Le modalità di presentazione delle
domande di permessi per assistenza ai familiari portatori di
handicap (ex art. 33, legge n. 104/1992), che dal 01.10.2012
(circolare n. 117/2012) devono essere presentate
esclusivamente in modalità telematica, attraverso il web, i
patronati o il contact center multicanale, valgono solo per
i dipendenti del settore privato e non anche per i pubblici
iscritti all'ex Inpdap.
Lo precisa l'Inps con il
messaggio
15.11.2012 n. 18728.
A tal riguardo, sottolinea l'ente di previdenza, è stata
innovata solo la modalità di presentazione della domanda e
non anche l'ambito soggettivo degli utenti tenuti a
presentare all'Istituto l'istanza medesima. Pertanto,
l'obbligo di invio telematico riguarda esclusivamente la
generalità dei lavoratori dipendenti del settore privato e
non i soggetti titolari di un rapporto di lavoro alle
dipendenze di amministrazioni pubbliche, con copertura
assicurativa presso la gestione ex Inpdap.
Infatti, conclude
la nota, competente alla concessione di tali benefici per il
personale in questione è esclusivamente il datore di lavoro,
cui fa carico il relativo onere economico
(articolo ItaliaOggi del 17.11.2012). |
APPALTI: Crediti
e Pa. Gli effetti del decreto pubblicato l'altro ieri.
Ritardi nei versamenti con super-interessi.
Dopo le prime rassicurazioni sui lavori pubblici, arriva
anche la soddisfazione dei professionisti per gli effetti
che le nuove regole sulle transazioni commerciali scritte
nel Dlgs 192/2012, pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» di
giovedì, avranno sul calendario dei pagamenti delle loro
parcelle. «Finalmente non saremo più costretti ad
attendere mesi e mesi per vederci onorata la nostra
prestazione –spiega Gaetano Stella, presidente di
Confprofessioni–. Con la pubblicazione del decreto, si colma
l'ennesima lacuna normativa che fino a oggi ha penalizzato
il lavoro dei professionisti».
Più incertezze si registrano invece nelle Pubbliche
amministrazioni e soprattutto in quelle territoriali, dove
si concentra una fetta maggioritaria dei 100 miliardi a cui
secondo le ultime stime sono arrivati i mancati pagamenti
alle imprese da parte degli uffici pubblici. Per loro non
sarà più possibile derogare al termine dei 30-60 giorni e,
soprattutto, post-datare la fattura o addirittura prevedere
per contratto la rinuncia agli interessi di mora.
Ed è proprio il nodo degli interessi, inaspriti rispetto
alle vecchie regole fino a farli arrivare a un tasso che a
valori attuali sfiora il 10%, a rappresentare l'aspetto
essenziale delle novità.
In molti casi, infatti, l'obbligo di onorare la fattura
entro due mesi è destinato a rimanere lettera morta, al pari
delle regole sui tempi di pagamento che l'hanno preceduto.
L'ostacolo più importante continua a essere rappresentato
dal Patto di stabilità, che è all'origine di molti dei
ritardi accumulati da Comuni e Province e che nel 2013 è
destinato a pesare sul tema per una duplice ragione. Il
Patto blocca in particolare i pagamenti delle spese in conto
capitale, dopo aver lasciato liberi gli impegni (quindi gli
stanziamenti) e aver in questo modo esaltato i difetti di
programmazione di molte amministrazioni locali.
I vincoli continueranno a esistere nel 2013, inaspriti dalla
stretta ulteriore sui bilanci locali, e si riproporranno
anche per il monte delle certificazioni dei crediti avviate
dai decreti dell'Economia varati quest'estate e corretti ai
primi di novembre: gli arretrati certificati in questi mesi,
infatti, vanno pagati entro l'anno e rientrano in pieno nei
plafond lasciati dal Patto di stabilità, che di conseguenza
saranno "occupati" anche dall'arrivo a scadenza
dell'onda delle certificazioni.
A stoppare i pagamenti non in regola con il Patto di
stabilità ci sono anche le sanzioni a carico dei funzionari
che firmano atti di spesa e che, di conseguenza, nella loro
attività si trovano spesso a dover decidere quale legge non
rispettare: quella che impone tempi certi di pagamento e
quella che vieta di sforare il Patto. A far pendere la
bilancia del rispetto verso la seconda norma sono proprio le
sanzioni a carico dei funzionari, che possono essere
chiamati a rispondere per la responsabilità disciplinare e
amministrativa se danno il via libera ai pagamenti fuori
plafond.
Nel nuovo quadro normativo, però, anche la formazione di
interessi di mora, che sono destinati a pesare in misura
rapidamente crescente sui bilanci dell'ente, potrebbero
finire per rappresentare la base di un'ipotesi di danno
erariale se il mancato pagamento non poggia su
giustificazioni oggettive. Il disallineamento fra dinamica
degli impegni e tasso di pagamenti può essere risolto solo a
medio termine, se gli obblighi di programmazione introdotti
dalle norme degli ultimi mesi avranno un'applicazione
effettiva e generalizzata, ma nel frattempo il rebus rimane
insoluto.
Rimangono, poi, i problemi cronici e crescenti delle casse,
che oltre a Comuni e Province riguardano molte aziende
sanitarie, in particolare nel Mezzogiorno. Un quadro,
questo, in cui si innestano anche le regole sulla tesoreria
unica, che sottraggono la liquidità al controllo diretto
dell'ente
(articolo Il
Sole 24 Ore del 17.11.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI: Pagamenti
commerciali in 30 giorni.
Dall'01.01.2013 termini certi di pagamento nelle
transazioni commerciali: di norma 30 giorni, che non possono
comunque superare i 60, consentiti solo in casi eccezionali.
E scatta una maggiorazione del tasso degli interessi legali
moratori, che passa dal 7% all'8% in più rispetto al tasso
fissato dalla Bce per le operazioni di rifinanziamento.
Lo
prevede il decreto legislativo 09.11.2012, n. 19,
recante «Modifiche al decreto legislativo 09.10.2002, n.
231, per l'integrale recepimento della direttiva 2011/7/Ue
relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle
transazioni commerciali, a norma dell'articolo 10, comma 1,
della legge 11.11.2011, n. 180», pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale - Serie Generale n. 267 di ieri.
Come spiegato in una nota della presidenza del Consiglio dei
ministri dopo il varo del provvedimento, avvenuto il 31
ottobre scorso, l'approvazione del decreto legislativo che
recepisce la direttiva 2011/7/Ue sui ritardi di pagamento
nelle transazioni commerciali tra imprese, e tra pubbliche
amministrazioni e imprese, attua la delega conferita al
Governo con l'articolo 10 della legge n. 180 del 2011
(Statuto delle imprese).
Nonostante il termine per il recepimento della direttiva sia
fissato al 16.03.2013, il governo ha voluto provvedere ad
una sua attuazione anticipata dal 01.01.2013 in
considerazione della importanza della normativa nonché
dell'opportunità peculiare di garantire, in questo momento,
le imprese e più specificatamente le piccole e medie
imprese.
Per quanto riguarda i rapporti tra imprese, come detto, il decreto
legislativo dispone un regime rigoroso stabilendo che il
termine di pagamento legale sia di 30 giorni e che termini
superiori a 60 giorni possano essere previsti solo in casi
particolari e in presenza di obiettive giustificazioni.
La disciplina del decreto legislativo si applicherà ai
contratti conclusi a partire dal 01.01.2013. Le pubbliche
amministrazioni e le imprese avranno così il tempo per
adeguarsi alle nuove norme e per adottare procedure
operative e contabili più funzionali a prassi di pagamento
rapido
(articolo ItaliaOggi del 16.11.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Colonnine
di ricarica anche sulle aree pubbliche.
La ricarica dei veicoli elettrici può essere assimilata a un
classico rifornimento di carburante con una tempistica più
allungata. In attesa di una disciplina ad hoc per queste
particolari esigenze sarà necessario individuare le aree con
idonea segnaletica orizzontale bianca apponendo anche il
classico simbolo del rifornimento.
Lo ha chiarito il ministero dei trasporti con il parere
n. 5253/2012.
Un progettista ha richiesto chiarimenti sulla possibilità di
realizzare stalli di sosta di colore giallo destinati al
posteggio dei veicoli elettrici presso colonnine di
ricarica. A parere del ministero questi impianti sono
realizzabili essendo assimilabili alle normali aree di
servizio che sono definite dal codice come pertinenze di
servizio, ma non possono essere di colore giallo, stante la
peculiarità degli spazi colorati disciplinati dall'art. 7
del codice. Anche se mancano i criteri di localizzazione e
gli standard dimensionali richiesti specificamente per i
nuovi impianti dall'art. 60 del regolamento stradale sono
tante le disposizioni di dettaglio che possono assistere il
progettista.
Per esempio in ambito urbano gli accessi agli impianti
devono rispondere ai requisiti dei passi carrabili, secondo
l'art. 61 del regolamento. In pratica la ricarica delle
batterie dei veicoli elettrici può essere assimilata al
rifornimento dei veicoli tradizionali. La maggior durata
della sosta può complicare la questione anche in relazione
alle disposizioni normative in materia di occupazione della
sede stradale. In attesa di un provvedimento ad hoc la
progettazione di questi manufatti può comunque seguire
alcuni indirizzi applicativi.
Gli stalli di sosta riservati di colore bianco saranno
evidenziati agli utenti e in ambito urbano sarà possibile
anche occupare marciapiedi, a condizione di mantenere libero
uno spazio minimo di sicurezza per la circolazione. Per la
segnaletica verticale occorrerà utilizzare un pannello
composito con divieto di sosta generale eccetto i veicoli
elettrici in ricarica. In buona sostanza un pannello
integrativo indicherà il periodo di validità delle
prescrizioni e la rimozione coatta per i trasgressori, con
eccezione dei veicoli elettrici in ricarica.
A ogni modo, conclude il parere centrale, risulterà
difficile sanzionare i veicoli che stazionano nella zona
riservata oltre al tempo necessario per la ricarica
(articolo ItaliaOggi del 16.11.2012). |
SEGRETARI
COMUNALI: Petizione
online per chiedere maggiori tutele. Segretari comunali contro
lo spoils system.
La recente riforma dei controlli sugli enti locali ha
introdotto un'efficace e più penetrante forma di controllo
sulla attività amministrativa dell'ente locale che però non
tiene conto della delicata posizione che occupa il
segretario comunale all'interno dell'ente.
Per questo la categoria ha promosso la sottoscrizione di una
petizione online, che ha già riscosso grande adesione, per
sottolineare lo stato di disagio nel quale si trovano.
Il governo, consapevole del grave problema dell'imparzialità
dei vertici amministrativi, ha ritenuto di blindare la
posizione del responsabile del servizio finanziario.
Ai sensi del dl 174/2012 approvato martedì dalla camera dei
deputati, l'incarico di responsabile del servizio
finanziario di cui all'articolo 153, comma 4, può essere
revocato esclusivamente in caso di gravi irregolarità
riscontrate nell'esercizio delle funzioni assegnate. La
revoca è disposta con ordinanza del legale rappresentante
dell'ente, previo parere obbligatorio del collegio dei
revisori dei conti. La commissione bilancio di Montecitorio
ha così modificato il testo originario del decreto legge che
subordinava la revoca a un duplice parere del ministero
dell'interno e del ministero dell'economia e delle finanze,
Dipartimento della Ragioneria generale dello stato. Una
modifica che, secondo i segretari comunali, non cambia la ratio della norma.
«È evidente che il governo», si legge nella petizione
online, «per non vedere vanificata la ratio della nuova
previsione, ha tutelato il responsabile del servizio
finanziario da ipotesi distorsive di revoca immotivata da
parte del sindaco, frequenti purtroppo nell'attuale sistema
di spoils system che attribuisce poteri illimitati agli
organi politici anche degli enti locali».
«Scarsa considerazione in questo senso, però, è stata
prestata alla figura del segretario, a cui viene
esplicitamente affidata la direzione dei controlli interni,
e che, si rammenta, opera oggi in condizione di assoluta
precarietà, dato che il suo incarico scade alla scadenza del
mandato del sindaco».
«Incongruenza oggi ancora più evidente», proseguono, «con le
nuove funzioni che il disegno di legge anticorruzione
attribuisce al segretario, affidandogli nella sua qualità di
dirigente generale dell'ente locale il compito e il ruolo di
responsabile del piano anticorruzione nell'ente locale».
«I segretari», conclude il testo della raccolta firme,
«chiedono dunque la revisione del sistema di nomina del
segretario, eliminando l'attuale spoils system per
salvaguardare la sua imparzialità e il corretto svolgimento
del suo delicato ruolo, ritenendo indispensabile, in primo
luogo, eliminare la scadenza automatica dell'incarico del
segretario nell'ente locale alla scadenza del mandato del
sindaco. Tale sistema oggi rimette alla mera discrezionalità
politica la prosecuzione dell'operato del segretario
nell'ente; i segretari, inoltre, ritengono necessario
introdurre un adeguato sistema di tutela del loro ruolo per
non vanificare nella sostanza il potenziamento dei controlli
che oggi appare necessario».
«La petizione», viene spiegato, «è assolutamente laica, non
ha alcuna connotazione sindacale e, allo stato attuale, ha
già superato 1.000 sottoscrittori».
Per consultare e aderire alla petizione: http://petizionepubblica.it
(articolo ItaliaOggi del 16.11.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: La
stima dei dipendenti in eccesso non può essere direttamente
legata agli accorpamenti geografici. Esuberi al buio nelle
province.
Da gennaio rischiano dirigenti a contratto e staff delle
giunte.
Impossibile allo stato una stima realistica degli esuberi
nelle province. A rischiare, nell'immediato, sono solo i
dirigenti a contratto e il personale di staff alle giunte.
Ma i numeri circolati in questi giorni sugli esuberi
potenziali non sembrano affidabili.
Esuberi potenziali. Sono circolate stime di circa 12 mila
dipendenti provinciali in potenziale esubero.
Su un totale di circa 57 mila dipendenti la cifra
corrisponderebbe al 21%, quasi un quarto del totale. Non
sembra, oggettivamente, giustificabile una valutazione di un
potenziale esubero di un quarto dei dipendenti pubblici di
un intero sistema locale.
La stima appare viziata dall'impostazione su cui si fonda:
considerare potenzialmente in esubero tutti i dipendenti
delle province non in possesso dei requisiti per rimanere
nell'ordinamento e, dunque, destinate ad accorparsi con
altre.
Non sembra, tuttavia, corretto far corrispondere ad
accorpamenti meramente geografici, come quelli previsti dal
dl 188/2012, l'automatico stato di esubero dei dipendenti
delle province obbligate all'accorpamento.
Si tratta di valutazioni influenzate dal vizio principale
della riforma voluta dal governo: guarda quasi solo agli
aspetti dei confini geografici e della costituzione degli
organi politici, senza curarsi troppo delle funzioni che
vengono gestite dalle province.
È evidente che lo stato di esubero non ha alcuna diretta e
immediata conseguenza dall'accorpamento geografico. Attività
che per loro natura debbono essere svolte in modo diffuso
nel territorio, come i servizi per il lavoro, la
manutenzione delle strade e degli edifici scolastici, la
vigilanza, l'ambiente, la formazione, non sono intaccate
dall'accorpamento, perché, salvo razionalizzazioni
possibili, restano aggregate al territorio.
In effetti, solo una volta completato il processo di
accorpamento, le province «nuove» potranno condurre una
seria ricognizione dei fabbisogni, ai sensi dell'articolo 33
del dlgs 165/2001 e sulla base di questa verificare se vi
siano o meno esuberi. Si tratta di un processo il cui esito
non appare stimabile, e rispetto al quale 12 mila dipendenti
sono oggettivamente spropositati, se si considera che
nell'intera compagine statale la Funzione pubblica ha
stimato meno di 5 mila esuberi.
Il nodo è, semmai, capire quali funzioni e competenze
resteranno alle province, perché poi si potrebbe porre un
problema di esubero indotto dalla sottrazione di tali
funzioni e di trasferimento dei dipendenti verso comuni o
regioni.
Personale in staff e dirigenti a contratto. Nell'immediato,
invece, e cioè a partire dal 01.01.2013 un gruppo
consistente di dipendenti provinciali si troverà
oggettivamente in esubero.
È l'intero sistema dei componenti degli «staff» degli organi
di governo. La cancellazione delle giunte determinerà
certamente l'assenza immediata di attività lavorative nei
riguardi di tali staff e l'attivazione delle procedure
dell'articolo 33 del dlgs 165/2001.
Molto di tale personale, però, è assunto con contratti
flessibili e a tempo determinato. L'articolo 90 del dlgs
267/2000 stabilisce che possono essere costituiti uffici di
staff «posti alle dirette dipendenze del sindaco, del
presidente della provincia, della giunta o degli assessori».
È chiaro che gli uffici di diretta collaborazione della
giunta e degli assessori non avranno più alcuna operatività.
I dipendenti in staff a tempo determinato, dunque,
perderanno a loro volta la giustificazione della loro
presenza in servizio, a meno che non possano essere
reimpiegati in altre attività. Occorrerà dare anche uno
sguardo alla causale di assunzione, ma anch'essi si trovano
in condizione di eccedenza potenziale rispetto ai
fabbisogni.
L'articolo 33 del dlgs 165/2001 è tarato solo per i
dipendenti di ruolo. Non si deve, tuttavia, scartare
l'ipotesi del licenziamento individuale di stampo
privatistico, per chiusura di un'attività specifica.
Analogo problema riguarda i dirigenti a contratto. Quelli
assunti in staff (combinando l'articolo 110 e l'articolo 90
del Tuel) vanno incontro alla stessa problematica sorte del
personale delle segreterie. Nelle province in cui vi siano i
commissari per accompagnare l'accorpamento, vi sarà la
conclusione del mandato e dunque la scadenza ex lege
degli incarichi
(articolo ItaliaOggi del 16.11.2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
I poteri del primo cittadino sono limitati
alle ordinanze contingibili e urgenti. Viabilità, decide il
dirigente.
La gestione ordinaria non spetta più al sindaco
Il comandante della polizia municipale può adottare
un'ordinanza con la quale si apportano modifiche alla
viabilità urbana?
Il Piano urbano del traffico (Put) –da cui dovrebbero
derivare le eventuali modificazioni alla viabilità– secondo
quanto previsto dall'art. 36, comma 5, del Codice della
strada viene aggiornato ogni due anni. Il predetto Put,
essendo uno strumento di programmazione e, dunque, a valenza
generale, è demandato all'approvazione degli organi
collegiali del comune.
Occorre tenere presente, tuttavia, che l'art. 107, comma 5,
del dlgs n. 267/2000 prevede che «le disposizioni che
conferiscono agli organi di cui al capo I, titolo III,
(consiglio, giunta e sindaco) l'adozione di atti di gestione
e di atti o provvedimenti amministrativi, si intendono nel
senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti, salvo
quanto previsto dall'art. 50, comma 3, e dall'art. 54» dello
stesso decreto legislativo.
Pertanto, le competenze assegnate, in particolare dal codice
della strada, al sindaco (fuori dei casi di cui ai citati
articoli 50 e 54 del dlgs n. 267/2000) si intendono oggi
demandate al dirigente.
Sul punto la giurisprudenza (Tar Lombardia, sentenza n.
13/01/2003, n. 904) ha specificato che «al di fuori dei
provvedimenti contingibili e urgenti, il sindaco non può
adottare un'ordinanza in materia di viabilità ordinaria,
esercitando altrimenti un atto di gestione che compete in
via esclusiva al dirigente».
In particolare il Tar Lombardia –sezione di Brescia– con
la sentenza 08.01.2011, n. 10 ha ribadito tale
principio, affermando che l'art. 7 del codice della strada,
che assegna al sindaco il potere di regolamentare la
circolazione dei veicoli, va coordinato con la posteriore
norma del già citato art. 107.
La competenza del sindaco in tema di limitazioni della
circolazione deve, quindi, ritenersi attratta nella
competenza propria del dirigente di settore, in quanto si
tratta di funzioni di gestione ordinaria
(articolo ItaliaOggi del 16.11.2012). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ La modifica del simbolo.
In assenza di una specifica disciplina statutaria e
regolamentare, un gruppo consiliare di opposizione può
modificare o sostituire il simbolo col quale la lista si era
presentata al corpo elettorale?
La materia concernente la costituzione dei gruppi consiliari
è interamente demandata allo statuto e al regolamento del
consiglio, nell'ambito della propria autonomia funzionale ed
organizzativa (art. 38, comma 3, dlgs n. 267/2000).
Ne deriva che le problematiche relative alla costituzione e
al funzionamento dei gruppi consiliari dovrebbero essere
valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e
regolamentari di cui l'ente locale si è dotato. Pertanto
soltanto il consiglio comunale, nella sua sovranità e in
quanto titolare della competenza a dettare le norme cui
uniformarsi in tale materia, è abilitato a fornire
un'interpretazione autentica delle norme statutarie e
regolamentari, pronunciandosi in merito a quanto richiesto.
Nel caso di specie, se lo statuto comunale e il regolamento
non dettano specifiche disposizioni in materia ma prevedono
che i consiglieri si costituiscano «di regola» nei gruppi
individuati nelle liste che si sono presentate alle elezioni
e stabiliscono che i consiglieri possano costituire gruppi
non corrispondenti alle liste elettorali nelle quali sono
stati eletti, sembra di poter ritenere ammissibile la
facoltà di operare variazioni all'interno degli schieramenti
che possono, dunque, non corrispondere alla composizione
scaturente dalle elezioni.
Il principio generale del divieto di mandato imperativo
sancito dall'art. 67 della Costituzione, pacificamente
applicabile ad ogni assemblea elettiva, assicura ad ogni
consigliere l'esercizio del mandato ricevuto dagli elettori,
pur conservando verso gli stessi la responsabilità politica,
con assoluta libertà, ivi compresa quella di far venir meno
l'appartenenza dell'eletto alla lista o alla coalizione di
originaria appartenenza (Tar Trentino-Alto Adige, sez. di
Trento sent. n. 75 del 2009)
In linea con il principio generale secondo cui, all'elemento
«statico» dell'elezione in una lista si sovrappone quello
«dinamico», fondato sull'autonomia politica dei consiglieri,
sono da ritenere in genere ammissibili anche eventuali
mutamenti, all'interno delle forze politiche, che comportano
altrettanti cambiamenti nei gruppi consiliari.
Pertanto, la denominazione dei gruppi consiliari, con
eventuale variazione dei simboli (contrassegni) a cui tali
gruppi fanno riferimento, in assenza di una specifica
disposizione statutaria o regolamentare, appare rientrare
nelle scelte proprie delle formazioni politiche presenti in
consiglio
(articolo ItaliaOggi del 16.11.2012). |
LAVORI PUBBLICI: Debiti
della Pa. La direttiva europea scatterà dal primo gennaio
2013.
Tajani: lavori pubblici inclusi nel decreto sui pagamenti.
ARRIVA UNA CIRCOLARE/
Il chiarimento è allo studio dello Sviluppo economico Il
ritardo nel saldare le fatture penalizza soprattutto le
piccole aziende.
«Nessuna eccezione: il decreto che ha appena recepito la
direttiva europea sui tempi di pagamento deve valere per
tutti i settori, compresi i lavori pubblici e l'edilizia».
Il vicepresidente della Commissione Ue e responsabile
dell'Industria, Antonio Tajani, prova a fare chiarezza una
volta per tutte sulle nuove regole che scatteranno dal
prossimo 1 gennaio e che in particolare vincolano la
pubblica amministrazione a pagare i propri fornitori entro 30
giorni o al massimo 60 in alcuni casi specifici.
Le parole
di Tajani –presente ieri a Roma all'incontro «Restart the
system. Ripensiamo lo sviluppo», promosso da Methos in
collaborazione con Archi's Comunicazione e Studio Valla–
confermano quanto lo stesso vicepresidente Ue ha scritto in
una lettera inviata mercoledì scorso al presidente
dell'Ance, Paolo Buzzetti. Proprio l'Ance era primo
firmatario di un «position paper» firmato anche dalle altre
associazioni imprenditoriali delle costruzioni che
sollecitava un chiarimento del Governo italiano e della
commissione sull'inclusione dei lavori pubblici nell'ambito
di applicazione del Dlgs 191/2012 (pubblicato ieri in
Gazzetta) che recepisce la direttiva 2011/7.
A provare a sgomberare il campo dai dubbi è stato anche il
viceministro alle Infrastrutture e ai Trasporti, Mario
Ciaccia, che ieri ha voluto «tranquillizzare» il mondo delle
costruzioni: «Io credo che la direttiva europea che impone
alla pubblica amministrazione di pagare in tempi brevi e
certi coloro che hanno fatto prestazioni di lavoro, riguarda
tutti i settori». Una dichiarazione, questa, apprezzata
dall'Ance: «È il segnale che volevamo sentire», ha affermato Buzzetti che ha avvertito di voler continuare a vigilare nei
«prossimi giorni» affinché «non ci sia nessun dubbio
sull'applicazione del decreto anche al nostro settore».
A preoccupare i costruttori è soprattutto il fatto che il
testo del decreto non si riferisca esplicitamente ai lavori
pubblici. Un mancato richiamo che però non significa
l'esclusione dalle nuove regole: così almeno spiegano i
tecnici del ministero degli Affari europei, guidato da Enzo
Moavero, che ha coordinato il lavoro di messa a punto del
testo. Ma, vista la delicatezza della materia, nei prossimi
giorni potrebbe arrivare un chiarimento ufficiale del
ministero dello Sviluppo economico attraverso una circolare.
Quella dei ritardi nei pagamenti del resto è da sempre
un'emergenza, soprattutto in questa fase in cui le imprese
sono a corto di liquidità. In particolare, a essere
penalizzate sono le piccole aziende, costrette ad aspettare
in media circa 180-190 giorni per essere pagate (anche la
Grecia fa meglio: 174 giorni), con punte record al Sud dove
si superano anche i 1.500 giorni.
Da qui l'attesa per i
nuovi paletti europei che, come detto, fissano a 30 giorni
il termine ordinario che la Pa deve rispettare per pagare.
Anche se ci saranno delle deroghe: in particolare per asl,
ospedali e imprese pubbliche che possono portare a 60 giorni
il termine massimo. Ma anche tutte le altre Pa potranno
accedere a questa proroga nel caso "eccezionale" in cui sia
giustificata «dalla natura o dall'oggetto del contratto»
oppure dalle «circostanze esistenti al momento della sua
conclusione».
---------------
LE NOVITÀ
Pagamenti entro 30 giorni
Dal 01.01.2013 la Pa dovrà pagare i fornitori entro 30
giorni dal ricevimento della fattura da parte dell'ente
debitore o, quando non è certa la data di arrivo della
fattura, dalla consegna della merce o dalla data di
prestazione
dei servizi
Le deroghe
Sono previste deroghe a 2 mesi per le imprese pubbliche e
per gli enti (Asl e ospedali) che forniscono assistenza
sanitaria. Proroga possibile anche per le altre Pa ma solo
se giustificata «dalla natura o dall'oggetto del contratto»
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.11.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI: Crediti
verso le Pa, nuovi termini ad alto rischio.
Per tutte le transazioni in essere dal 01.01.2013 le
pubbliche amministrazioni dovranno pagare le fatture al
massimo entro 60 giorni. In caso contrario, scatteranno in
automatico –e senza necessità di messa in mora– gli
interessi legali (calcolati aggiungendo ad un tasso di
riferimento Ue ben 8 punti percentuali).
Non sarà semplice per gli enti pubblici digerire la
Direttiva 2011/7/Ce che, con le modifiche apportate al Dlgs
231/2002 dal Dlgs 192/2012 (ieri in Gazzetta Ufficiale), ha reso
le disposizioni contenute in quest'ultimo provvedimento più
cogenti rispetto al passato.
Per le Pa la novità maggiore
consiste nell'impossibilità assoluta a derogare (su base
convenzionale) all'applicazione delle more o di altre
cautele stabilite dalla legge a favore del fornitore. Ciò
farà si che, in nessun caso, essa potrà invocare
giustificazioni a un mancato pagamento nei tempi stabiliti,
con la conseguenza che il fornitore pagato in ritardo potrà
intraprendere molto più facilmente un'azione legale per la
corresponsione degli interessi moratori anche dopo il
pagamento dell'importo dovuto.
Proprio quest'ultimo
concetto, chiarito dalle nuove norme, deve comprendere tanto
la somma che avrebbe dovuto essere pagata entro il termine
contrattuale o legale di pagamento, quanto le imposte, i
dazi, le tasse o gli oneri applicabili indicati nella
fattura o nella richiesta equivalente di pagamento. Insomma,
nulla rimane fuori dal computo della mora.
Infine, è stato
stabilito che –nelle sole transazioni commerciali in cui il
debitore è una Pa– è sempre nulla la clausola avente ad
oggetto la predeterminazione o la modifica della data di
ricevimento della fattura: una statuizione che sarebbe stato
meglio estendere alle transazioni tra privati.
Per il passato, la misura con impatto più immediato è quella
che riguarda i crediti verso le amministrazioni pubbliche
già scaduti. Su questo fronte, i provvedimenti adottati con
la certificazione del credito sono visti dalla generalità
delle imprese come una via di sbocco alla massa creditoria
vantata nei confronti della Pa. In questi primi giorni di
applicazione della procedura, tuttavia, appare in molti casi
imperfetta la conoscenza della novità da parte della Pa. In
alcune amministrazioni, poi, i funzionari a cui sono state
indirizzate le istanze con la modalità ordinaria sono
apparsi impreparati rispetto alle richiesta delle imprese.
Un altro nodo da dirimere –evidenziato da quesiti dei
lettori– è quello che interessa i crediti vantati dalle
imprese nei confronti delle società a parziale o totale
partecipazione pubblica. È risaputo, infatti, che nel corso
degli ultimi anni lo strumento delle partecipate è stato
adoperato dalle amministrazioni su diversi livelli. Tale
circostanza ha fatto si che una consistente parte dei debiti
pubblici sia stata trasferita proprio a tali soggetti.
Purtroppo, allo stato, la procedura di certificazione dei
crediti non si applica alle partecipate pubbliche
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.11.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
LAVORI PUBBLICI: L'Authority
sui lavori pubblici e il ministero lavorano per inserire il
modello nel ddl Infrastrutture. Contratti tipo per il
project finance. Dalle penali per contenziosi rischi di
danno erariale per le p.a..
Dopo la creazione dei bandi tipo per le operazioni di
project financing, ora dovrebbero essere messi a punto, dal
ministero delle infrastrutture, contratti tipo per la
pubblica amministrazione, le imprese e le stazioni
appaltanti. D'intesa con l'Autorità di vigilanza sui lavori
pubblici. L'obiettivo è ridurre le cause di contenzioso
nella realizzazione di opere pubbliche con il concorso dei
capitali privati.
Tra le criticità che frenano in Italia lo sviluppo del
partenariato pubblico-privato (Ppp) il contenzioso
costituisce il 24,2% delle cause di ritardo, a volte
indefinito, del progetto, secondo lo studio dell'Ance, che
ha messo in evidenza l'alta mortalità delle operazioni di
project financing e come solo un'opera su quattro arrivi
alla fase di gestione. Il conseguente pagamento delle penali
contrattuali potrebbe comportare il rischio di danno
erariale per gli amministratori pubblici che hanno
partecipato al processo decisorio e di autorizzazione
dell'intervento pubblico-pubblico. Una prospettiva messa in
luce dal presidente dell'Autorità di vigilanza sulle opere
pubbliche, Sergio Santoro.
Nella vicenda del ponte sullo stretto di Messina, caso di
scuola di opera pubblica da realizzare con il ricorso alla
finanza di progetto bloccata dal contenzioso, (cambio di
decisione, in questo caso politica), la penale da pagare al
general contractor Eurolink (raggruppamento di imprese
guidato da Impregilo) è di 300 milioni di euro. Penale il
cui pagamento è stato procrastinato dal decreto del governo
che il 2 novembre ha deciso di concedere altri due anni di
tempo per l'approvazione del progetto definitivo. Una
decisione che permetterà forse al concedente, Stretto di
Messina spa, di stringere con gli investitori cinesi che già
dal 2011 si erano dichiarati interessati a costruire
l'opera.
Ma, se, per decreto, è stata rinviata la spinosa questione
del contenzioso sul ponte di Messina, non così per tutte le
altre infrastrutture di Ppp. «Il problema delle penali»,
ha sottolineato il presidente dell'Authority, Santoro, «coinvolge
la responsabilità degli amministratori pubblici (quelli che
hanno fatto le scelte) che potrebbero essere coinvolti per
danno erariale. Per loro esiste questo rischio, perché le
penali sicuramente vanno pagate». Così, è la convinzione
di Santoro, «è necessario apportare un ulteriore
correttivo al ddl Infrastrutture, approvato dal consiglio
dei ministri, e ora in discussione in parlamento, inserendo
l'esame delle cause del contenzioso direttamente nel
dibattito pubblico che obbligatoriamente si dovrà svolgere
sull'opera in project finance secondo la novità procedurale
introdotta dalla nuova normativa in discussione».
Nel dibattito pubblico, ha spiegato Santoro, «le
contrarietà sull'intervento pubblico-privato dovranno essere
esaminate in sede amministrativa e giurisdizionale e poi la
fase si dovrà chiudere inesorabilmente seguita dall'apertura
dei cantieri». Per evitare il blocco dei cantieri aperti
«il ddl infrastrutture», ha proseguito il presidente
dell'Authority di vigilanza, «dovrà essere arricchito con
l'inserimento della parte processualistica e sposato con il
codice del processo amministrativo (dlgs 104 del 2010) che
prevede una normativa di favore per le opere pubbliche (art.
119 e seguenti) che fa in modo che il giudice amministrativo
non possa intervenire su opere in esecuzione per una pretesa
di affidamento illegittimo. In questo modo, non si potranno
bloccare i cantieri e l'unica conseguenza per chi è rimasto
illegittimamente escluso dall'affidamento dell'opera sarà
l'indennizzo».
Che la legislazione sia ancora inadeguata ad attrarre
capitali privati per le opere pubbliche è convinzione
espressa anche da Domenico Crocco, capo dipartimento
infrastrutture dell'omonimo ministero guidato da Corrado
Passera.
«L'inadeguatezza dei contratti rientra fra le cause di
mortalità delle operazioni di project financing, come ha
evidenziato lo studio dell'Ance», ha dichiarato Crocco,
«si dovrà discutere la necessità di inserire nel ddl
Infrastrutture, in discussione, contratti tipo che possano
dare riferimenti solidi e più certezze»
(articolo ItaliaOggi del 15.11.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO - VARI: Cosa prevedono le nuove norme anticorruzione, approdate in
Gazzetta Ufficiale. Magistrati, stop agli arbitrati.
La scelta cadrà su dirigenti della p.a. (a rotazione).
Stop agli arbitrati per i magistrati ordinari,
amministrativi, contabili e militari. Da oggi, gli arbitri
chiamati a dirimere le controversie in materia di appalti in
cui è presente una p.a., saranno scelti tra i dirigenti
pubblici con incarichi a rotazione. Inoltre, chi è stato
condannato, anche con sentenza non passata in giudicato, per
i reati di peculato, corruzione e concussione, non potrà
essere posto nell'organico di uffici preposti a gestire
risorse finanziarie né potrà sedersi nelle commissioni di
concorsi pubblici o di affidamento appalti pubblici.
Nessun licenziamento o trasferimento per il dipendente
pubblico che denuncia all'Ago o alla Corte dei conti,
condotte illecite di cui ne è venuto a conoscenza in ragione
della sua funzione. Poi, i magistrati potranno essere
collocati in fuori ruolo per un periodo che non superi,
nell'arco della loro carriera, i dieci anni. Infine, mano
più pesante sulle pene previste per alcuni reati, quali la
concussione e l'abuso di ufficio.
Queste alcune delle interessanti disposizioni contenute nel
testo della legge n. 190/2012, meglio nota come «legge
anticorruzione», che, dopo un lungo iter parlamentare, è
finalmente approdata sulla Gazzetta Ufficiale dello scorso
13 novembre ed entrerà in vigore il prossimo 28 novembre.
ARBITRATI ADDIO
Da tale data, sarà vietata ai magistrati ordinari,
amministrativi, contabili, militari, agli avvocati e ai
procuratori dello Stato, nonché ai componenti delle
commissioni tributarie, la partecipazione a collegi
arbitrali o l'assunzione di incarico di arbitro unico. In
caso di violazione, la legge prevede l'immediata decadenza
dagli incarichi e la nullità degli atti compiuti. La norma
prevede una rivoluzione in tale campo.
Ad esempio, di
dispone che la nomina degli arbitri per la risoluzione delle
controversie nelle quali una parte sia una p.a., sia
individuata esclusivamente tra i dirigenti pubblici. Sarà la
stessa p.a. a mettere nero su bianco, all'atto della nomina,
l'importo massimo spettante al dirigente per l'attività
arbitrale. Viene espressamente posta una clausola di
salvaguardia, ovvero che le novelle legislative non possono
essere operative solo per gli arbitrati conferiti o
autorizzati prima del 28 novembre.
CODICE DI COMPORTAMENTO
Anche ciascuna magistratura e l'Avvocatura dello Stato
dovranno dotarsi di un codice etico, secondo le linee guida
che l'esecutivo definirà a breve giro di posta. L'incombenza
spetterà agli organi delle associazioni di categoria e
dovranno aderirvi tutti gli appartenenti alla magistratura
interessata. In caso di inerzia, la legge prescrive che il
codice vengo adottato dall'organo di autogoverno.
VADE RETRO CONDANNATI
Operando un'aggiunta al Tu sul pubblico impiego, la legge
n. 190 inserisce l'articolo 35-bis. Si dispone che chi è
stato condannato, anche con sentenza non passata in
giudicato, per i reati previsti nel capo I del titolo II del
libro secondo del codice penale (tra questi, il peculato, la
corruzione e la concussione), potrà dire addio
all'assegnazione in uffici che sono preposti alla gestione
di risorse finanziarie, all'erogazione di beni e servizi,
nonché all'erogazione di sovvenzioni e sussidi finanziari. A
questi soggetti viene altresì preclusa la possibilità di
fare parte, anche con la mansione di segretario, di
commissioni di concorsi per l'accesso al pubblico impiego e
di commissioni per l'affidamento di gare per appalti
pubblici.
STATALE DELATORE TUTELATO
La legge poi prevede che il pubblico dipendente che denuncia
all'Ago o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio
superiore gerarchico, condotte illecite di cui sia venuto a
conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere
sanzionato, licenziato o sottoposto a una misura
discriminatoria per motivi collegati direttamente o
indirettamente alla denuncia.
Tranne nei casi di calunnia o
diffamazione, l'identità dello statale denunciante non può
essere rivelata, almeno senza il suo consenso e sempre che
l'autorità giudiziaria trovi ulteriori riscontri a quanto
denunciato. Dovrà invece essere sollevato il velo sulla sua
identità, nei casi in cui questa sia assolutamente
indispensabile affinché il soggetto incolpato possa
difendersi.
MAGISTRATI, FUORI RUOLO MAX 10 ANNI
Scatta il giro di vite sui collocamenti in fuori ruolo dei
magistrati. Tranne che ai membri di governo, alle cariche
elettive e ai componenti delle corti internazionali, dalla
data di entrata in vigore della legge n.190, si precisa che
ai magistrati ordinari, amministrativi, contabili, militari
e gli avvocati e procuratori dello Stato, potranno essere
collocati in posizione di fuori ruolo per un periodo
complessivo, nell'arco della loro carriera, che non superi i
dieci anni.
La norma in esame, prevede altresì che i
soggetti indicati che, al 28.11.2012 hanno già
maturato o che maturano successivamente a tale data, il
periodo massimo di collocamento in fuori ruolo, devono
intendersi confermati in tale posizione sino al termine
dell'incarico, della legislatura o del mandato relativo
all'ente presso cui si svolge la funzione di fuori ruolo. In
particolare, se non vi è termine al mandato, il collocamento
si intende confermato sino al 28.11.2013.
LE PENE
Tra le novità apportate dalla legge, l'inserimento nel
codice penale del delitto di «traffico di influenze
illecite» che sanziona chi sfrutta le sue relazioni con un
soggetto pubblico al fine di farsi dare o promettere denaro
o altro vantaggio patrimoniale come prezzo della sua
mediazione illecita oppure per remunerare il funzionario, in
relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di
ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo
ufficio.
Poi, per la concussione, riferita al solo pubblico
ufficiale, viene previsto un aumento del minimo della pena,
da quattro a sei anni di reclusione, mentre per l'abuso
d'ufficio, si prevede la pena della reclusione da uno a
quattro anni, anziché da sei mesi a tre anni. Infine, è
stata aumentata da quattro a dieci anni (anziché da tre a
otto anni) la pena della reclusione per la corruzione in
atti giudiziari (articolo ItaliaOggi del
15.11.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Direttiva pagamenti, i lavori pubblici rischiano
l'esclusione.
Le imprese: sarebbe una follia, il Governo chiarisca.
C'è il rischio che i lavori pubblici siano esclusi dal
recepimento della direttiva Ue 2011/7 in materia di
pagamenti.
L'allarme viene lanciato dall'intero arco delle
associazioni imprenditoriali delle costruzioni con un
«position paper» che tenta un'interpretazione favorevole del
decreto legislativo approvato dal Governo e, al tempo
stesso, minaccia un ricorso a Bruxelles qualora
l'interpretazione del Governo, in fase applicativa,
risultasse diversa. Alla fine il «position paper» ha
soprattutto una finalità: stanare il Governo con
un'interpretazione che chiarisca una volta per tutte come
stiano le cose.
«Chiediamo al Governo di chiarire, in modo
inequivocabile, che l'ambito di applicazione del
provvedimento di recepimento della direttiva include il
settore dei lavori pubblici», afferma il documento che porta
la firma di Ance, Confartigianato, Cna, Casa, Aniem e delle
tre centrali cooperative. Intanto, il decreto legislativo è
stato firmato dal presidente della repubblica, Giorgio
Napolitano, e dovrebbe essere pubblicato in Gazzetta
ufficiale tra oggi e domani.
Ma qual è il punto che allarma i costruttori? Nella
direttiva 7, nelle premesse, all'undicesimo «considerando»,
si afferma esplicitamente che i settori cui si applica la
disciplina «dovrebbero anche includere la progettazione e
l'esecuzione di opere e edifici pubblici, nonché i lavori di
ingegneria civile». Questo richiamo esplicito si è perso nel
testo del Dlgs di recepimento, ma le stesse associazioni
riconoscono che questo inserimento non era affatto dovuto.
«Consideriamo -afferma il documento- che la nuova
disciplina introdotta con il decreto legislativo di
integrale recepimento della direttiva trovi applicazione
anche al settore dei lavori pubblici».
Da contatti informali con la commissione Ue, l'Ance ha avuto
rassicurazioni che i lavori pubblici non possono essere
esclusi dal recepimento della direttiva, ma a pesare è anche
il fatto che nella precedente disciplina sui pagamenti
(decreto legislativo 231/2002) i lavori pubblici furono
esclusi. L'allarme nasce proprio dal fatto che il nuovo
decreto legislativo va a modificare quel vecchio
provvedimento senza innovare sul punto specifico.
Dal ministero dell'Economia e dalla Ragioneria, d'altra
parte, non sono arrivate interpretazioni esaustive su una
questione che comporterebbe una rivoluzione nel sistema di
pagamenti dell'intera pubblica amministrazione: passare a 30
o 60 giorni dal 1° gennaio non è affatto un'impresa
realistica se tutta una serie di procedure autorizzative e
di vincoli (patto di stabilità) non vengono rese coerenti
con l'obiettivo.
Da qui la preoccupazione. «Qualsiasi diversa interpretazione
-dice ancora il documento- creerebbe una inaccettabile
disparità di trattamento, nonché un disallineamento solo
italiano rispetto alle prescrizioni delle istituzioni
europee che, infatti, hanno esplicitamente inserito un
riferimento al settore dei lavori pubblici nella direttiva
stessa». Un'eventuale esclusione -e il riferimento è
certamente esplicito- «rappresenterebbe un'inspiegabile anomalìa
nel panorama europeo e porterebbe inevitabilmente
all'apertura di una procedura di infrazione per la non
corretta applicazione della direttiva» (articolo Il
Sole 24 Ore del 15.11.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
APPALTI:
Come farsi pagare dalla «Pa».
Doppio binario per i crediti delle imprese verso la «Pa».
Da gennaio versamenti in 30-60 giorni Sugli arretrati la
carta-certificazione.
Da gennaio pagamenti in 30 giorni (60 nel caso di imprese
pubbliche che svolgono attività economiche e di enti
sanitari), e per i vecchi crediti il meccanismo della
certificazione che rende "liquido" il credito e si deve
tradurre in pagamenti effettivi entro 12 mesi.
Con la pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale» del 6
novembre dei tre decreti corretti sulla certificazione dei
crediti, e con la scrittura del provvedimento che recepisce
la direttiva europea dal 1° gennaio prossimo, nelle ultime
settimane il Governo ha ristrutturato la dinamica dei
rapporti commerciali fra i privati e la pubblica
amministrazione. Ma il passaggio dalla teoria scritta sulla
carta alla realtà è ricco di ostacoli, che mettono a rischio
i principi enunciati poche righe sopra. Vediamo perché.
Vecchi crediti
La montagna di pagamenti arretrati verso privati che si è
accumulata nelle pubbliche amministrazioni, e che viaggia
dai 70 ai 100 miliardi a seconda delle stime, non è
interessata dal recepimento della direttiva europea ma viene
disciplinata dal sistema delle certificazioni. Nella
versione pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» di novembre,
si riduce da 60 a 30 giorni il termine entro il quale la
pubblica amministrazione locale, dove si annida la fetta
maggioritaria dei mancati pagamenti, deve certificare che il
credito è «liquido, certo ed esigibile».
Per rendere più
facile la procedura di certificazione, il ministero
dell'Economia ha messo in campo una piattaforma elettronica
(http://certificazionecrediti.mef.gov.it/CertificazioneCredito/home.xhtml)
in cui far transitare le richieste di certificazione e le
cessioni o le compensazioni con i debiti fiscali o
previdenziali dell'impresa creditrice. Proprio qui rischia
però di sorgere il primo inghippo, perché tutte le pubbliche
amministrazioni si devono abilitare sulla piattaforma: per
farlo c'è ancora una settimana di tempo, e alla scadenza si
potrà stilare un primo bilancio sul tasso di adesione,
soprattutto da parte della pubblica amministrazione locale.
Passata la scadenza, anche i privati potranno abilitarsi per
chiedere la certificazione con la via telematica, ma
ovviamente è essenziale che tutti gli enti si iscrivano in
tempo. Non solo: dalla partita rimangono escluse le aziende
sanitarie nelle Regioni impegnate in piani di rientro
dall'extradeficit, cioè proprio gli enti che occupano le
posizioni di prima fila nelle classifiche dei cattivi
pagatori e che di conseguenza trattengono le somme più
consistenti attese dal sistema delle imprese.
Che cosa cambia da gennaio
Nessuna amministrazione, almeno in teoria, è esclusa dai
nuovi calendari che il recepimento della direttiva Ue (il
provvedimento è stato firmato ieri dal Capo dello Stato, e
sarà pubblicato in «Gazzetta Ufficiale» a brevissimo)
imporrà dal 1° gennaio. Dal punto di vista dell'ambito
applicativo, il nodo più consistente è il rischio-esclusione
che pende sull'edilizia (si veda il servizio a pagina 12), e
che finirebbe per chiudere la strada verso il pagamento
proprio al settore più impegnato soprattutto con i Comuni.
Anche per gli altri operatori, comunque, le lungaggini delle
procedure, la carenza di liquidità e i vincoli del Patto di
stabilità rischiano di ritardare i tempi effettivi
nonostante il nuovo calendario di legge (com'è accaduto con
le vecchie regole). La novità più concreta, quindi, potrebbe
essere legata al conteggio automatico degli interessi di
mora, che non potranno essere esclusi dai contratti e
potrebbero rappresentare per il creditore una forma di
"investimento" con una buona remunerazione (articolo Il Sole 24
Ore del 15.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
VARI: Cassazione.
Le mail frequenti non costituiscono reato. Gli sms sono
«molesti», salva la posta elettronica.
LA DECISIONE/ Secondo i magistrati a segnare la differenza
sarebbe l'invasività dei «messaggini».
L'sms è molesto, la mail no. Lo conferma la Corte di
Cassazione -sentenza 16.11.2012 n. 44855- confermando
che i messaggi inviati per posta elettronica non costituisce
molestia. Mentre sono a rischio gli sms in quanto, a
differenza del messaggio di posta elettronica che per essere
letto va aperto, sono «invasivi», come era già stato
affermato da altre pronunce (24510/2010, 36779/2011).
Una pronuncia che, alla luce delle tecnologie odierne e, di
fatto, della "portabilità" nei cellulari anche della
posta elettronica, può sembrare in contraddizione con
l'effettiva fruizione odierna della mail, assai vicina
all'sms. In ogni caso, la V Sezione penale ha accolto
parzialmente il ricorso di un ufficiale addetto alle
comunicazioni radio che su una nave da crociera aveva
conosciuto una ragazza con la quale aveva imbastito una
relazione poi finita male.
A quel punto l'ufficiale di Marina ha iniziato a mandare
messaggi su posta elettronica all'amata che lo aveva
respinto, importunandola in vario modo. Da qui la condanna
inflitta dalla Corte d'Appello di Milano, nel febbraio 2012,
per i reati di tentata violenza privata, molestie, accesso
abusivo ad un sistema informatico e intercettazione di
comunicazioni telematiche. Contro la condanna, l'ufficiale
ha fatto ricorso in Cassazione facendo notare, nel motivo
accolto, che i messaggi inviati per posta elettronica non
potevano costituire in alcun modo una forma di molestia.
I magistrati di piazza Cavour hanno accolto questa parte di
ricorso evidenziando che «il reato di molestie non si può
verificare qualora si tratti di messaggi di posta
elettronica privi, in quanto tali, del carattere della
invasività». Diverso discorso, annota ancora la Suprema
Corte, va fatto nel caso degli sms inviati su utenze
telefoniche mobili dove «l'invasività», invece,
esiste. Ora sarà la Corte d'Appello di Milano a
riconsiderare il caso, rideterminando al ribasso la pena nei
confronti dell'ufficiale respinto
(articolo Il Sole 24 Ore 17.11.2012). |
COMPETENZE
GESTIONALI - INCARICHI PROFESSIONALI:
Ai fini della
rappresentanza in giudizio del Ente, l’autorizzazione alla
lite da parte della Giunta Comunale non costituisce più, in
linea generale, un atto necessario ai fini dell’agire o del
resistere in giudizio.
Infatti nel nuovo ordinamento delle autonomie locali, in un
sistema in cui il Sindaco trae direttamente la propria
investitura dal corpo elettorale e costituisce egli stesso
la fonte di legittimazione degli Assessori che compongono la
Giunta, l’autorizzazione da parte di quest’ultima non ha più
ragion d’essere
Si conviene con la difesa del Comune, laddove si rammenta che ai
fini della rappresentanza in giudizio del Ente,
l’autorizzazione alla lite da parte della Giunta Comunale
non costituisce più, in linea generale, un atto necessario
ai fini dell’agire o del resistere in giudizio.
Infatti nel nuovo ordinamento delle autonomie locali, in un
sistema in cui il Sindaco trae direttamente la propria
investitura dal corpo elettorale e costituisce egli stesso
la fonte di legittimazione degli Assessori che compongono la
Giunta (più diffusamente sul punto Tar Salerno, I, 24.09.2012 n. 1674), l’autorizzazione da parte di
quest’ultima non ha più ragion d’essere (TAR Calabria-Reggio Calabria, Sez. I,
sentenza 16.11.2012 n. 671 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il concorrente che
intenda utilizzare lo strumento dell’avvalimento deve
sottostare alle regole di cui all’art. 49 del codice dei
contratti pubblici, nel novero delle quali rientra la
prescrizione di cui alla lettera c), che impone
l’allegazione di “una dichiarazione sottoscritta da parte
dell’impresa ausiliaria attestante il possesso da parte di
quest’ultima dei requisiti generali di cui all’articolo 38”.
L’art. 49, comma 2, lettera c), del codice dei contratti
pubblici sancisce, sul piano dell’accertamento dei requisiti
di ordine generale, una totale equiparazione tra gli
operatori economici offerenti e gli operatori economici in
rapporto di avvalimento.
---------------
Tutti i soggetti che a qualunque titolo concorrono
all'esecuzione di pubblici appalti, vuoi in veste di
affidatari, vuoi in veste di subaffidatari, vuoi in veste di
prestatori di requisiti nell'ambito del cosiddetto
avvalimento, devono essere in possesso dei requisiti morali
di cui all'art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006.
Secondo tale consolidato e condivisibile indirizzo pretorio,
il consorzio che partecipi alla procedura, quale che sia la
sua natura, deve dimostrare il possesso dei requisiti di
tutti i consorziati che vengono individuati come esecutori
delle prestazioni scaturenti dal contratto. Detto principio
risponde a elementari ragioni di trasparenza e di tutela
effettiva degli interessi sottesi alle cause di esclusione
di cui all’art. 38, d.lgs. n. 163/2006, in relazione
all’ineludibile esigenza che tutti gli operatori chiamati, a
qualunque titolo, all’esecuzione di prestazioni di lavori,
servizi e forniture, siano dotati dei requisiti morali di
cui all’art. 38 citato.
Se tali requisiti fossero accertati solo in capo al
consorzio e non anche con riguardo ai consorziati che
eseguono le prestazioni, il consorzio potrebbe, infatti,
assurgere a schermo di copertura in guisa da consentire la
partecipazione di consorziati sprovvisti dei necessari
requisiti soggettivi (conf. Cons. Stato, Ad Plen, sentenza
04.05.2012, n. 8, secondo cui una diversa opzione
ermeneutica, la quale richiedesse la sussistenza dei
requisiti generali in capo al solo Consorzio, “condurrebbe a
conseguenze paradossali in quanto le stringenti garanzie di
moralità professionale richieste inderogabilmente ai singoli
imprenditori potrebbero essere eluse da cooperative che,
attraverso la costituzione di un consorzio con autonoma
identità, riuscirebbero di fatto ad eseguire lavori e
servizi per le pubbliche amministrazioni alle cui gare non
sarebbero state singolarmente ammesse”).
Alla stregua di un pacifico e condivisibile orientamento
giurisprudenziale, il concorrente che intenda utilizzare lo
strumento dell’avvalimento deve sottostare alle regole di
cui all’art. 49 del codice dei contratti pubblici, nel
novero delle quali rientra la prescrizione di cui alla
lettera c), che impone l’allegazione di “una dichiarazione
sottoscritta da parte dell’impresa ausiliaria attestante il
possesso da parte di quest’ultima dei requisiti generali di
cui all’articolo 38”.
Il parallelismo, ricavabile dal dato letterale della legge e
dalla ratio che lo ispira, tra gli obblighi dichiarativi
posti dalla normativa primaria a carico del concorrente e
quelli gravanti sull’impresa ausiliaria di cui quest’ultimo
si avvalga, fa sì che con riferimento all’ausiliaria
Elettrica Gover s.n.c. fosse necessaria la presentazione di
dichiarazioni riguardanti i direttori tecnici e i soci.
Merita adesione, al riguardo, l’indirizzo interpretativo,
sancito da questa Sezione con la decisione 16.11.2010,
n. 8059, secondo cui l’art. 49, comma 2, lettera c), del
codice dei contratti pubblici sancisce, sul piano
dell’accertamento dei requisiti di ordine generale, una
totale equiparazione tra gli operatori economici offerenti e
gli operatori economici in rapporto di avvalimento (vedi
anche Consiglio di Stato, sez. V, 23.05.2011, n. 3077).
---------------
Il Collegio condivide
l’assunto interpretativo, da cui muove l’appellante
incidentale, secondo cui tutti i soggetti che a qualunque
titolo concorrono all'esecuzione di pubblici appalti, vuoi
in veste di affidatari, vuoi in veste di subaffidatari, vuoi
in veste di prestatori di requisiti nell'ambito del
cosiddetto avvalimento, devono essere in possesso dei
requisiti morali di cui all'art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006 .
Secondo tale consolidato e condivisibile indirizzo pretorio,
il consorzio che partecipi alla procedura, quale che sia la
sua natura, deve dimostrare il possesso dei requisiti di
tutti i consorziati che vengono individuati come esecutori
delle prestazioni scaturenti dal contratto (Cons. Stato,
sez. VI, 15.06.2010, n. 3759; sez. VI, 24.11.2009
n. 7380). Detto principio risponde a elementari ragioni di
trasparenza e di tutela effettiva degli interessi sottesi
alle cause di esclusione di cui all’art. 38, d.lgs. n.
163/2006, in relazione all’ineludibile esigenza che tutti
gli operatori chiamati, a qualunque titolo, all’esecuzione
di prestazioni di lavori, servizi e forniture, siano dotati
dei requisiti morali di cui all’art. 38 citato.
Se tali
requisiti fossero accertati solo in capo al consorzio e non
anche con riguardo ai consorziati che eseguono le
prestazioni, il consorzio potrebbe, infatti, assurgere a
schermo di copertura in guisa da consentire la
partecipazione di consorziati sprovvisti dei necessari
requisiti soggettivi (conf. Cons. Stato, Ad Plen, sentenza
04.05.2012, n. 8, secondo cui una diversa opzione
ermeneutica, la quale richiedesse la sussistenza dei
requisiti generali in capo al solo Consorzio, “condurrebbe
a conseguenze paradossali in quanto le stringenti garanzie
di moralità professionale richieste inderogabilmente ai
singoli imprenditori potrebbero essere eluse da cooperative
che, attraverso la costituzione di un consorzio con autonoma
identità, riuscirebbero di fatto ad eseguire lavori e
servizi per le pubbliche amministrazioni alle cui gare non
sarebbero state singolarmente ammesse”)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 15.11.2012 n. 5780 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
La prescrizione (ndr: del
bando di gara) di un’anzianità minima nel possesso di una
certificazione di qualità non contrasta con l’enunciato
dell’art. 43 del d.lgs. n. 163/2006 (relativo alle norme di
garanzia della qualità), giacché tale disposizione,
concorrendo a delineare con il precedente art. 42 il livello
di capacità tecnico-professionale richiesto per la
partecipazione alle procedure selettive pubbliche, si
configura, al pari dell’art. 42 cit., come una previsione
elastica, strutturata su concetti non tassativi (si fa
riferimento, ad esempio, all’ammissibilità di “altre prove
relative all’impiego di misure equivalenti di garanzia della
qualità prodotte dagli operatori economici”), ben potendo
l’amministrazione fissare in sede di bando requisiti di
partecipazione ulteriori e più restrittivi di quelli legali,
nei limiti della ragionevolezza e della proporzionalità
della previsione rispetto all’oggetto dell’appalto, al fine
di non restringere eccessivamente il numero dei potenziali
concorrenti.
Né è irragionevole che il bando inerente all’affidamento di
un servizio di grande delicatezza, quale è quello di
raccolta dei rifiuti, richieda come requisito di ammissione
alla gara il possesso della certificazione di qualità
rilasciata da un certo numero di anni, potendosi in tal modo
individuare i concorrenti che abbiano dato prova di aver
operato come soggetti pienamente idonei e ben organizzati, e
non essendo peraltro sindacabile il periodo di tempo
prescelto al fine di stabilire la sussistenza del requisito
in parola, che resta confinato nelle valutazioni di merito
riservate alla pubblica amministrazione.
---------------
Nel procedimento di annullamento della disposta
aggiudicazione definitiva, sovviene il consolidato
orientamento giurisprudenziale che non ravvisa la necessità
della comunicazione di avvio del procedimento nei
procedimenti nei quali i privati interessati abbiano avuto
modo di interloquire adeguatamente con l’amministrazione.
---------------
Laddove una determinazione amministrativa di segno negativo
tragga forza da una pluralità di ragioni, ciascuna delle
quali sia di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è
sufficiente che anche una sola di esse passi indenne alle
censure mosse in sede giurisdizionale perché il
provvedimento nel suo complesso resti esente
dall’annullamento.
aa) è pacifico e risulta comprovato dalle emergenze processuali che
la Ego Eco ha prodotto in sede di gara una certificazione di
qualità UNI EN ISO 14001:2004 rilasciata da meno di tre anni
prima della pubblicazione del bando, per cui meritava di
essere esclusa per la mancanza di un requisito di
partecipazione contemplato espressamente dalla lex specialis.
Orbene, la prescrizione di un’anzianità minima nel possesso
di una certificazione di qualità non contrasta con
l’enunciato dell’art. 43 del d.lgs. n. 163/2006 (relativo
alle norme di garanzia della qualità), giacché tale
disposizione, concorrendo a delineare con il precedente art.
42 il livello di capacità tecnico-professionale richiesto
per la partecipazione alle procedure selettive pubbliche, si
configura, al pari dell’art. 42 cit., come una previsione
elastica, strutturata su concetti non tassativi (si fa
riferimento, ad esempio, all’ammissibilità di “altre prove
relative all’impiego di misure equivalenti di garanzia della
qualità prodotte dagli operatori economici”), ben potendo
l’amministrazione fissare in sede di bando requisiti di
partecipazione ulteriori e più restrittivi di quelli legali,
nei limiti della ragionevolezza e della proporzionalità
della previsione rispetto all’oggetto dell’appalto, al fine
di non restringere eccessivamente il numero dei potenziali
concorrenti (cfr. TAR Sardegna, Sez. I, 29.06.2007 n.
1433).
Né è irragionevole che il bando inerente
all’affidamento di un servizio di grande delicatezza, quale
è quello di raccolta dei rifiuti, richieda come requisito di
ammissione alla gara il possesso della certificazione di
qualità rilasciata da un certo numero di anni, potendosi in
tal modo individuare i concorrenti che abbiano dato prova di
aver operato come soggetti pienamente idonei e ben
organizzati, e non essendo peraltro sindacabile il periodo
di tempo prescelto al fine di stabilire la sussistenza del
requisito in parola, che resta confinato nelle valutazioni
di merito riservate alla pubblica amministrazione (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. V, 02.10.2008 n. 4759; nello
stesso senso cfr. TAR Lombardia Brescia, Sez. II, 15.07.2011 n. 1061; TAR Veneto, Sez. I,
08.11.2006 n. 3748).
Perde consistenza, pertanto, ogni deduzione di nullità della
contestata clausola per violazione del principio di
tassatività delle cause di esclusione;
bb) contrariamente a
quanto sostenuto dalla difesa della ricorrente incidentale,
la nota comunale n. 2123 del 21.02.2012 assurge ad
idonea comunicazione di avvio del procedimento di
annullamento della disposta aggiudicazione definitiva,
laddove nella parte relativa all’oggetto si dà conto
dell’esercizio del potere di autotutela in relazione al
preavviso di ricorso presentato dalla Igiene Urbana.
Inoltre, nel corpo della nota, oltre ad essere annunciata la
trasmissione di copia del preavviso di ricorso, nel quale
era evidenziata la carenza del requisito della
certificazione di qualità con anzianità triennale, si
precisa che l’iniziativa precontenziosa era rivolta proprio
a contestare l’ammissione alla gara della Ego Eco: ne
discende la sua sufficienza a far intendere l’eventuale
riponderazione della decisione di ammettere quest’ultima
alla gara e di attribuirle, conseguentemente,
l’aggiudicazione definitiva.
Ad ogni modo, emerge dalla
documentazione allegata allo stesso ricorso per motivi
aggiunti incidentale, che la Ego Eco ha avuto modo di
esercitare appieno le sue prerogative partecipative prima
dell’emanazione del provvedimento di annullamento
dell’aggiudicazione definitiva.
Si applica, nello specifico,
il consolidato orientamento giurisprudenziale che non
ravvisa la necessità della comunicazione di avvio del
procedimento nei procedimenti nei quali i privati
interessati abbiano avuto modo di interloquire adeguatamente
con l’amministrazione (cfr. per tutte Consiglio di Stato,
Sez. IV, 14.06.2005 n. 3124) (TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 15.11.2012 n. 4602 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Laddove una determinazione amministrativa di segno negativo
tragga forza da una pluralità di ragioni, ciascuna delle
quali sia di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è
sufficiente che anche una sola di esse passi indenne alle
censure mosse in sede giurisdizionale perché il
provvedimento nel suo complesso resti esente
dall’annullamento.
cc) quanto sopra esposto
riveste carattere assorbente ed esime il Collegio
dall’esaminare la censura con cui si rimarca l’erroneità dei
presupposti del mancato riscontro della nota n. 2123/2012 e
dell’omessa impugnativa del bando di gara, dal momento che
l’impianto complessivo dell’annullamento dell’aggiudicazione
risulta comunque validamente sorretto dal riscontrato
difetto del requisito del possesso di idonea certificazione
di qualità.
Soccorre, al riguardo, il condiviso principio
secondo il quale, laddove una determinazione amministrativa
di segno negativo tragga forza da una pluralità di ragioni,
ciascuna delle quali sia di per sé idonea a supportarla in
modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse
passi indenne alle censure mosse in sede giurisdizionale
perché il provvedimento nel suo complesso resti esente
dall’annullamento (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. VI,
05.07.2010 n. 4243; Consiglio di Stato, Sez. V, 27.09.2004
n. 6301) (TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 15.11.2012 n. 4602 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI:
L'art. 6, co. 4, della legge n. 537 del
1993, come novellato dall’art. 44 della legge n. 724 del
1994, prevede che tutti i contratti pubblici ad esecuzione
periodica o continuativa devono recare una clausola di
revisione periodica del prezzo pattuito.
Tale disposizione, ora recepita nell’art. 115 del codice dei
contratti pubblici per quanto riguarda gli appalti di
servizi o forniture, costituisce una norma imperativa, non
suscettibile di essere derogata negozialmente, atteso che la
sua finalità primaria è quella di salvaguardare l'interesse
pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle
pubbliche amministrazioni non siano esposte col tempo al
rischio di una diminuzione qualitativa a causa della
eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione e della
conseguente incapacità del fornitore di farvi compiutamente
fronte.
Ne consegue che le clausole contrattuali in contrasto con
tali disposizioni vincolanti sono affette da nullità, in
applicazione dell’art. 1419 c.c., e sono sostituite dalla
disciplina legislativa, secondo il meccanismo di
integrazione automatica del contratto, ai sensi degli artt.
1374 e 1339.
Al riguardo è da rilevare che l'art. 6, co. 4, della legge n. 537 del
1993, come novellato dall’art. 44 della legge n. 724 del
1994, prevede che tutti i contratti pubblici ad esecuzione
periodica o continuativa devono recare una clausola di
revisione periodica del prezzo pattuito.
Tale disposizione, ora recepita nell’art. 115 del codice dei
contratti pubblici per quanto riguarda gli appalti di
servizi o forniture, costituisce una norma imperativa, non
suscettibile di essere derogata negozialmente, atteso che la
sua finalità primaria è quella di salvaguardare l'interesse
pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle
pubbliche amministrazioni non siano esposte col tempo al
rischio di una diminuzione qualitativa a causa della
eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione e della
conseguente incapacità del fornitore di farvi compiutamente
fronte.
Ne consegue che le clausole contrattuali in contrasto con
tali disposizioni vincolanti sono affette da nullità, in
applicazione dell’art. 1419 c.c., e sono sostituite dalla
disciplina legislativa, secondo il meccanismo di
integrazione automatica del contratto, ai sensi degli artt.
1374 e 1339 (cfr. Cons. St., sez. V, 20/08/2008, n. 3994).
Sono pertanto fondate le domanda tendenti al riconoscimento
della revisione dei prezzi ed all’accertamento della nullità
delle pattuizioni contrarie (TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 15.11.2012 n. 4600 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
In merito all'abbandono di rifiuti, sul piano dei soggetti responsabili non ci sono particolari
problemi ermeneutici: proprietari, titolari di diritti
reali limitati o diritti di obbligazione (detentori),
ovvero ancora possessori. Sul piano invece dell’elemento
psicologico dell’illecito ambientale, esso consiste in un
atteggiamento di volontà dell’effetto oppure di negligenza,
imprudenza, imperizia od inosservanza di regole eteronome (art. 43 c.p.); sicché, ad esempio, in caso di riversamento
di rifiuti su un sito da parte di terzi ignoti, il
proprietario o comunque il titolare di altro diritto o in
uso di fatto del terreno non può essere chiamato tout court
a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito
incontrollato di rifiuti sulla propria area, se non viene
individuato a suo carico, almeno sul piano probatorio delle
presunzioni ex art. 2727 cod. civ., l’elemento soggettivo
del dolo o della colpa. Ove manchi quello, lo stesso
soggetto non può essere destinatario di ordinanze sindacali
di rimozione e rimessione in pristino.
In altri termini, l’ordine di smaltimento di rifiuti non può
essere indiscriminatamente ed automaticamente rivolto al
proprietario in quanto tale, o, comunque al soggetto che
abbia la disponibilità, anche in via di fatto, dell’area
interessata. Ciò in ragione della considerazione che la
responsabilità del proprietario o del possessore o del
detentore sorge esclusivamente in quanto gli stessi possano
ritenersi obbligati in relazione ad un atteggiamento
volitivo ritenuto motivatamente e verosimilmente doloso o
colposo.
Siffatto obbligo non può che essere desunto da un
comportamento, anche omissivo, di corresponsabilità con
l’autore dell’abbandono illecito di rifiuti.
Di qui la conseguenza che il detto ordine di rimozione
presuppone l’accertamento, almeno sul piano presuntivo,
della responsabilità da illecito in capo al destinatario,
dovendosi escludere la sussistenza dell’obbligo di
smaltimento a carico del proprietario incolpevole, o,
quantomeno, del quale l’amministrazione vigilante non abbia
fornito prova o almeno plausibile e logica deduzione,
attraverso adeguata istruttoria e motivazione, di una
colpevole trascuratezza nella gestione e custodia del
terreno di cui si abbia, per i titoli ricordati sopra, la
giuridica o materiale disponibilità.
In conclusione, devesi, quindi, ritenere che il legislatore
abbia strutturato la fattispecie in esame in termini
sostanzialmente soggettivi, radicando solo sulla riscontrata
presenza di colpevolezza del proprietario la sua concorrente
responsabilità.
Per l’esame della doglianza occorre ricordare che l’art. 192 ora citato
sancisce “il divieto di abbandono” e di deposito
incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo, nonché
l’immissione di rifiuti di qualsiasi genere ed in qualsiasi
stato nelle acque superficiali e sotterranee.
La violazione dei predetti divieti da parte di “chiunque”
comporta l’obbligo di “procedere alla rimozione, all’avvio
a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino
dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i
titolari di diritti reali o personali di godimento
sull’area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo
di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti
preposti al controllo”.
La norma (sostanzialmente ripetitiva dell’art. 14 del c.d.
Decreto Legislativo Ronchi n. 22/1997, con l’aggiunta di
garanzie istruttorie e procedimentali) individua, pertanto,
tre categorie di soggetti responsabili, in solido tra loro
dell’illecito abbandono o deposito di rifiuti: l’autore
materiale dell’illecito stesso, nonché, qualora esso non
coincida con il proprietario o titolare di altri diritti
reali o personali di godimento (ovvero anche possessore in
via di fatto, evidentemente), anche queste due categorie, da
individuare secondo i noti parametri civilistici (artt.
832, 957, 1099, 1040 e seg. Cod. civ.).
Dalla previsione legislativa scaturiscono una serie di
conseguenze di ordine interpretativo ed applicativo.
Sul piano dei soggetti responsabili non ci sono particolari
problemi ermeneutici: proprietari, titolari di diritti
reali limitati o diritti di obbligazione (detentori),
ovvero ancora possessori. Sul piano invece dell’elemento
psicologico dell’illecito ambientale, esso consiste in un
atteggiamento di volontà dell’effetto oppure di negligenza,
imprudenza, imperizia od inosservanza di regole eteronome (art. 43 c.p.); sicché, ad esempio, in caso di riversamento
di rifiuti su un sito da parte di terzi ignoti, il
proprietario o comunque il titolare di altro diritto o in
uso di fatto del terreno non può essere chiamato tout court
a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito
incontrollato di rifiuti sulla propria area, se non viene
individuato a suo carico, almeno sul piano probatorio delle
presunzioni ex art. 2727 cod. civ., l’elemento soggettivo
del dolo o della colpa. Ove manchi quello, lo stesso
soggetto non può essere destinatario di ordinanze sindacali
di rimozione e rimessione in pristino.
In altri termini, l’ordine di smaltimento di rifiuti non può
essere indiscriminatamente ed automaticamente rivolto al
proprietario in quanto tale, o, comunque al soggetto che
abbia la disponibilità, anche in via di fatto, dell’area
interessata. Ciò in ragione della considerazione che la
responsabilità del proprietario o del possessore o del
detentore sorge esclusivamente in quanto gli stessi possano
ritenersi obbligati in relazione ad un atteggiamento
volitivo ritenuto motivatamente e verosimilmente doloso o
colposo.
Siffatto obbligo non può che essere desunto da un
comportamento, anche omissivo, di corresponsabilità con
l’autore dell’abbandono illecito di rifiuti.
Di qui la conseguenza che il detto ordine di rimozione
presuppone l’accertamento, almeno sul piano presuntivo,
della responsabilità da illecito in capo al destinatario,
dovendosi escludere la sussistenza dell’obbligo di
smaltimento a carico del proprietario incolpevole, o,
quantomeno, del quale l’amministrazione vigilante non abbia
fornito prova o almeno plausibile e logica deduzione,
attraverso adeguata istruttoria e motivazione, di una
colpevole trascuratezza nella gestione e custodia del
terreno di cui si abbia, per i titoli ricordati sopra, la
giuridica o materiale disponibilità.
In conclusione, devesi, quindi, ritenere che il legislatore
abbia strutturato la fattispecie in esame in termini
sostanzialmente soggettivi, radicando solo sulla riscontrata
presenza di colpevolezza del proprietario la sua concorrente
responsabilità (TAR Basilicata, Sez. I,
sentenza 15.11.2012, n. 501 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il modello della d.i.a. edilizia è ‘a
legittimazione differita’, sicché l’attività denunciata può
essere intrapresa, con contestuale comunicazione, solo dopo
il decorso del termine di 30 giorni dalla comunicazione.
Ai sensi dell’art. 23, comma 6, d.P.R. n. 380/2001
l’amministrazione competente, in caso di dichiarazione
presentata in assenza delle condizioni, modalità e fatti
legittimanti, può esercitare il potere inibitorio nel
termine di trenta giorni dalla presentazione della
dichiarazione, che, a sua volta, deve precedere di almeno
trenta giorni l’inizio concreto dell’attività edificatoria.
Decorso senza esito il termine per l’esercizio del potere
inibitorio, la pubblica amministrazione dispone del potere
di autotutela ai sensi degli articoli 21-quinquies e
21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241.
Restano inoltre salve, ai sensi dell’art. 21 della legge n.
241/1990, le misure sanzionatorie volte a reprimere le
dichiarazioni false o mendaci, nonché le attività svolte in
contrasto con la normativa vigente, così come sono
impregiudicate le attribuzioni di vigilanza, prevenzione e
controllo previste dalla disciplina di settore.
---------------
Come ha chiarito di recente l’adunanza plenaria (nel
risolvere un conflitto sulla natura provvedimentale o meno
della d.i.a.), con tali disposizioni in materia di
autotutela il legislatore, lungi dal prendere posizione
sulla natura giuridica dell'istituto a favore della tesi del
silenzio-assenso, ha voluto solo chiarire che il termine per
l’esercizio del potere inibitorio doveroso è perentorio e
che, comunque, anche dopo il decorso di tale spazio
temporale, la p.a. conserva un potere residuale di
autotutela.
Tale potere, con cui l’amministrazione è chiamata a porre
rimedio al mancato esercizio del doveroso potere inibitorio,
condivide i principi regolatori sanciti, in materia di
autotutela, dalle norme citate, con particolare riguardo
alla necessità dell’avvio di un apposito procedimento in
contraddittorio, al rispetto del limite del termine
ragionevole, e soprattutto, alla necessità di una
valutazione comparativa, di natura discrezionale, degli
interessi in rilievo, idonea a giustificare la frustrazione
dell’affidamento incolpevole maturato in capo al denunciante
a seguito del decorso del tempo e della conseguente
consumazione del potere inibitorio.
In sintesi la citata decisione della adunanza plenaria n.
15/2011, pur aderendo alla tesi della natura non
provvedimentale della d.i.a., ha ritenuto che, a tutela
dell’affidamento dell’autore della d.i.a., decorso il
termine di 30 giorni dalla sua presentazione,
l’amministrazione che intenda esercitare i poteri di
inibizione e controllo non esercitati tempestivamente entro
trenta giorni, può farlo a condizione del rispetto del
modello paradigmatico del procedimento e dell’atto di
autotutela.
Dunque non è contestabile che l’amministrazione conservi
poteri di controllo, di inibizione e sanzionatori, se
difettano i presupposti per la d.i.a., tuttavia tali poteri
vanno esercitati nelle forme dell’autotutela.
Va ricordato che la d.i.a. è stata introdotta disciplinata, in via
generale, dall’art. 19 della 07.08.1990, n. 241 e, con
riferimento alla materia edilizia, dagli artt. 22 e 23 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380.
Dispone, in particolare, l’art. 23, comma 1, d.P.R. n.
380/2001 che il proprietario dell'immobile o chi abbia
titolo per presentare la denuncia di inizio attività, almeno
trenta giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori,
presenta allo sportello unico la denuncia, accompagnata da
una dettagliata relazione a firma di un progettista
abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che
asseveri la conformità delle opere da realizzare agli
strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con
quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il
rispetto delle norme di sicurezza e di quelle
igienico-sanitarie.
Il comma 6 del medesimo articolo aggiunge che il dirigente o
il responsabile del competente ufficio comunale, ove entro
il termine indicato al comma 1 sia riscontrata l'assenza di
una o più delle condizioni stabilite, notifica
all'interessato l'ordine motivato di non effettuare il
previsto intervento e, in caso di falsa attestazione del
professionista abilitato, informa l'autorità giudiziaria e
il consiglio dell'ordine di appartenenza. E' comunque salva
la facoltà di ripresentare la denuncia di inizio attività,
con le modifiche o le integrazioni necessarie per renderla
conforme alla normativa urbanistica ed edilizia.
Il modello della d.i.a. edilizia è ‘a legittimazione
differita’, sicché l’attività denunciata può essere
intrapresa, con contestuale comunicazione, solo dopo il
decorso del termine di 30 giorni dalla comunicazione. Ai
sensi dell’art. 23, comma 6, d.P.R. n. 380/2001
l’amministrazione competente, in caso di dichiarazione
presentata in assenza delle condizioni, modalità e fatti
legittimanti, può esercitare il potere inibitorio nel
termine di trenta giorni dalla presentazione della
dichiarazione, che, a sua volta, deve precedere di almeno
trenta giorni l’inizio concreto dell’attività edificatoria.
Decorso senza esito il termine per l’esercizio del potere
inibitorio, la pubblica amministrazione dispone del potere
di autotutela ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies della legge
07.08.1990, n. 241.
Restano inoltre salve, ai sensi dell’art. 21 della legge n.
241/1990, le misure sanzionatorie volte a reprimere le
dichiarazioni false o mendaci, nonché le attività svolte in
contrasto con la normativa vigente, così come sono
impregiudicate le attribuzioni di vigilanza, prevenzione e
controllo previste dalla disciplina di settore.
Come ha chiarito di recente l’adunanza plenaria (nel
risolvere un conflitto sulla natura provvedimentale o meno
della d.i.a.), con tali disposizioni in materia di
autotutela il legislatore, lungi dal prendere posizione
sulla natura giuridica dell'istituto a favore della tesi del
silenzio-assenso, ha voluto solo chiarire che il termine per
l’esercizio del potere inibitorio doveroso è perentorio e
che, comunque, anche dopo il decorso di tale spazio
temporale, la p.a. conserva un potere residuale di
autotutela.
Tale potere, con cui l’amministrazione è chiamata a porre
rimedio al mancato esercizio del doveroso potere inibitorio,
condivide i principi regolatori sanciti, in materia di
autotutela, dalle norme citate, con particolare riguardo
alla necessità dell’avvio di un apposito procedimento in
contraddittorio, al rispetto del limite del termine
ragionevole, e soprattutto, alla necessità di una
valutazione comparativa, di natura discrezionale, degli
interessi in rilievo, idonea a giustificare la frustrazione
dell’affidamento incolpevole maturato in capo al denunciante
a seguito del decorso del tempo e della conseguente
consumazione del potere inibitorio (Cons. St., ad. plen., 29.07.2011 n. 15).
In sintesi la citata decisione della adunanza plenaria n.
15/2011, pur aderendo alla tesi della natura non
provvedimentale della d.i.a., ha ritenuto che, a tutela
dell’affidamento dell’autore della d.i.a., decorso il
termine di 30 giorni dalla sua presentazione,
l’amministrazione che intenda esercitare i poteri di
inibizione e controllo non esercitati tempestivamente entro
trenta giorni, può farlo a condizione del rispetto del
modello paradigmatico del procedimento e dell’atto di
autotutela.
Dunque non è contestabile che l’amministrazione
conservi poteri di controllo, di inibizione e sanzionatori,
se difettano i presupposti per la d.i.a., tuttavia tali
poteri vanno esercitati nelle forme dell’autotutela (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 14.11.2012 n. 5751 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
L’inserimento dei
candidati in graduatoria non determina ex se un diritto
all’assunzione, dovendosi tener conto di eventuali mutamenti
della situazione di fatto e diritto tra la data di
espletamento del concorso e la data della successiva
determinazione di avvalersi o meno dell’attività lavorativa
di chi sia stato utilmente collocato in graduatoria.
Non è tuttavia dubbio che l’inserimento in graduatoria
ingenera una legittima aspettativa a conseguire
l’assunzione, e che l’amministrazione è tenuta ad adottare
tempestivamente, in senso affermativo o negativo, i
provvedimenti conseguenti all’inserimento in graduatoria.
In virtù del giudicato l’amministrazione è dunque obbligata
a determinarsi tempestivamente in ordine all’assunzione (in
senso positivo o negativo), e, in caso di provvedimento
ostativo, a indicare le puntuali ragioni che impediscono
l’assunzione a fronte di una graduatoria approvata.
In altri termini, l’amministrazione pubblica -se anche
ritiene che vi sia un ostacolo di ordine giuridico per
l’assunzione (o la nomina) di chi sia stato utilmente
collocato in una graduatoria di un concorso– deve emanare un
formale atto che contenga le proprie determinazioni, sia per
esigenze di trasparenza che per consentire la tutela
giurisdizionale dell’interessato (nell’eventuale giudizio di
cognizione che questi intenda in ipotesi attivare).
E’ infatti principio ricorrente che l’inserimento dei candidati in
graduatoria non determina ex se un diritto all’assunzione,
dovendosi tener conto di eventuali mutamenti della
situazione di fatto e diritto tra la data di espletamento
del concorso e la data della successiva determinazione di
avvalersi o meno dell’attività lavorativa di chi sia stato
utilmente collocato in graduatoria.
Non è tuttavia dubbio che l’inserimento in graduatoria
ingenera una legittima aspettativa a conseguire
l’assunzione, e che l’amministrazione è tenuta ad adottare
tempestivamente, in senso affermativo o negativo, i
provvedimenti conseguenti all’inserimento in graduatoria.
In virtù del giudicato l’amministrazione è dunque obbligata
a determinarsi tempestivamente in ordine all’assunzione (in
senso positivo o negativo), e, in caso di provvedimento
ostativo, a indicare le puntuali ragioni che impediscono
l’assunzione a fronte di una graduatoria approvata.
In altri termini, l’amministrazione pubblica -se anche
ritiene che vi sia un ostacolo di ordine giuridico per
l’assunzione (o la nomina) di chi sia stato utilmente
collocato in una graduatoria di un concorso– deve emanare un
formale atto che contenga le proprie determinazioni, sia per
esigenze di trasparenza che per consentire la tutela
giurisdizionale dell’interessato (nell’eventuale giudizio di
cognizione che questi intenda in ipotesi attivare) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 14.11.2012 n. 5750 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La denuncia di inizio attività disciplinata dal
T.U. in materia edilizia 06.06.2001 n. 380 è comunque
assimilabile a un'istanza autorizzatoria, che, con il
decorso del termine di legge, provoca la formazione di un
provvedimento tacito di accoglimento dell'istanza.
Dopo il decorso del termine di 30 giorni per la formazione
del provvedimento tacito l’amministrazione non perde i suoi
poteri di autotutela, i quali tuttavia devono essere
esercitati nel rispetto del principio di certezza dei
rapporti giuridici e di salvaguardia del legittimo
affidamento del privato nei confronti dell'attività
amministrativa.
È fondato e assorbente di ogni altra censura il motivo con il quale parte
ricorrente deduce l’avvenuta formazione del silenzio assenso
sulla d.i.a., ai sensi degli artt. 22 e 23 del D.P.R. n.
380/2001.
La denuncia di inizio attività disciplinata dal T.U. in
materia edilizia 06.06.2001 n. 380 è comunque assimilabile a
un'istanza autorizzatoria, che, con il decorso del termine
di legge, provoca la formazione di un provvedimento tacito
di accoglimento dell'istanza.
Dopo il decorso del termine di trenta giorni per la
formazione del provvedimento tacito l’amministrazione non
perde i suoi poteri di autotutela, i quali tuttavia devono
essere esercitati nel rispetto del principio di certezza dei
rapporti giuridici e di salvaguardia del legittimo
affidamento del privato nei confronti dell'attività
amministrativa.
Nel caso di specie, la valutazione effettuata
dall'Amministrazione nel provvedimento impugnato, in ordine
alla contrarietà dell'opera eseguita dal ricorrente a
seguito della presentazione della d.i.a., valutazione che
conduce al blocco delle opere, avrebbe dovuto essere
preceduta dall'annullamento del provvedimento formatosi
sulla d.i.a..
Quest'ultimo avrebbe dovuto essere preceduto dall'avviso di
avvio del procedimento e dal rispetto di tutte le forme
sostanziali e procedimentali previste per gli atti in
autotutela, ivi compreso il rispetto del tempo ragionevole
per porre in essere il provvedimento di secondo grado e la
comparazione dell’interesse pubblico con l’aspettativa del
privato, consolidata dal decorso del tempo –quasi un anno
dalla denuncia di inizio attività edilizia- e dalla
consapevolezza dell’intervenuto assenso tacito nei termini
di legge.
Tale serie procedimentale non è stata seguita nel caso di
specie, avendo l’Amministrazione emesso il provvedimento di
blocco dei lavori senza preavviso e senza preventivo
annullamento del provvedimento di tacito assenso, non
svolgendo alcuna valutazione in ordine alla prevalenza
dell’interesse all’autotutela sull’aspettativa consolidata
del costruttore.
In difetto dei presupposti per l’esercizio dell’autotutela
l’attività dichiarata può legittimamente proseguire, anche
nelle opere denunciate nel 2011 in variante, le quali hanno
carattere marginale e accessorio rispetto alla
ristrutturazione di cui alla d.i.a. del 2010 (consistono in
piccoli spostamenti di tramezzature interne, montaggio di
infissi, sostituzione del pavimento, adeguamento degli
impianti tecnologici e tinteggiature).
Il ricorso, pertanto deve essere accolto quanto alla
richiesta di annullamento del provvedimento impugnato. Non
emergono, invece, danni risarcibili, anche considerando che
l’ordinanza cautelare emessa da questa Sezione (n.
3430/2011) ha tempestivamente inibito gli effetti dell’atto
lesivo (TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis,
sentenza 12.11.2012 n. 9257 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il principio di tassatività delle cause di
esclusione ex art. 46, c. 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006, si
applica anche alle procedure aventi ad oggetto l'affidamento
di una concessione di servizio pubblico.
Il principio di tassatività delle cause di esclusione
disposto dall'art. 46, c. 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006,
c.d. Codice dei contratti pubblici (introdotto con il D.L.
n. 70 del 2011 ed applicabile ratione temporis alla
presente controversia) si applica anche alle procedure
aventi ad oggetto l'affidamento di una concessione di
servizio pubblico. La tassatività delle ipotesi di
esclusione, infatti, assurge ormai a principio generale
relativo ai contratti pubblici e costituisce specificazione
del principio di proporzionalità, talché la sua estensione
alla materia delle concessioni di pubblico servizio trova
esplicito fondamento nell'art. 30, c. 3 del Codice.
Diversamente opinando, si giungerebbe ad un'ingiustificata
divaricazione del regime da seguire nella gare per
l'affidamento di appalti ed in quelle per l'affidamento di
concessioni di servizi, non essendo peraltro sempre netto il
confine tra le due categorie.
Pertanto, nel caso di specie, è illegittima, per violazione
dell'art. 46, c. 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006, la clausola
della lex specialis di gara che imponga, a pena di
esclusione, la presentazione della certificazione di
qualità, in originale o in copia autentica, trattandosi di
adempimento formale non essenziale e non previsto da alcuna
norma di legge o regolamento (TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 09.11.2012 n. 1907 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI SERVIZI:
La richiesta in una gara per l'affidamento del
servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti dell'iscriz.
all'Albo Naz. Gest. Ambientali, non più prevista dalla
legge, viola i principi della par condicio e dei canoni di
ragionevolezza e proporzionalità.
Secondo l'originaria formulazione dell'art. 212 del D.Lgs.
n. 152/2006, le iscrizioni all'Albo Nazionale Gestori
Ambientali per specifiche categorie e classi di attività
erano effettuate secondo la disciplina dell'art. 8 del D.M.
n. 406 del 1998.
Di recente, l'art. 25 del D.Lgs. n. 205/2010 ha modificato
in molti punti l'art. 212 del D.Lgs. n. 152 del 2006 e ne
ha, tra l'altro, abrogato il c. 20, che prevedeva
l'iscrizione all'Albo per le imprese che effettuassero
attività di raccolta e trasporto di rifiuti sottoposti a
procedure autorizzatorie semplificate ed effettivamente
avviati al riciclaggio ed al recupero, attività che
corrispondeva alle categorie 2 e 3 dell'Albo. Ne consegue
che le categorie 2 e 3 individuate dal D.M. n. 406 del 1998,
non essendo più compatibili con la nuova formulazione
dell'art. 212 del D.Lgs. n. 152 del 2006, devono ritenersi
abrogate.
Pertanto, nel caso di specie, la lex specialis di
gara non poteva legittimamente richiedere ai concorrenti la
dimostrazione di un requisito non più conseguibile, a
seguito della soppressione della categ. 3 e delle relative
classi di attività. La richiesta di un'iscrizione all'Albo
non più prevista dalla legge, e dunque preclusa agli
operatori economici che ne fossero privi, configura di per
sé la violazione del principio della par condicio e dei
canoni di ragionevolezza e proporzionalità, in quanto
determina una irrazionale restrizione della possibilità di
partecipare alla gara d'appalto, favorendo quegli operatori
che tale iscrizione avessero ottenuto anni addietro, prima
della modifica legislativa (TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 09.11.2012 n. 1903 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sulla dichiarazione attestante il possesso dei
requisiti di partecipazione di cui all'art. 38 del d.lgs. n.
163/2006.
Nelle procedure di evidenza pubblica la completezza delle
dichiarazioni è già di per sé un valore da perseguire perché
consente -secondo i principi di buon andamento
dell'amministrazione e di proporzionalità- la celere
decisione sull'ammissione dei soggetti giuridici alla gara.
Conseguentemente una dichiarazione inaffidabile (anche
perché solo incompleta) è da considerare già di per sé
stessa lesiva degli interessi considerati dalla norma a
prescindere dal fatto che l'impresa meriti sostanzialmente
di partecipare alla gara. In materia di appalti occorre
invero poter fare affidamento su una dichiarazione idonea a
far assumere tempestivamente alla stazione appaltante le
necessarie determinazioni in ordine all'ammissione
dell'operatore economico alla gara o alla sua esclusione.
La dichiarazione ex art. 38 del d.lgs. n. 163/2006 è quindi
sempre utile perché l'Amministrazione sulla base di quella
decide in merito alla legittima ammissione alla gara e
conseguentemente la sua difformità dal vero o la sua
incompletezza non possono essere "sanate" ricorrendo
alla categoria del falso innocuo (Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza 08.11.2012 n. 5693 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI SERVIZI: Non
è di per sé illegittimo il ricorso all'istituto della
ordinanza contingibile ed urgente per la proroga del
contratto in essere (ndr: della nettezza urbana) in quanto,
malgrado il Comune non si sia tempestivamente attivato per
la indizione della gara per l'affidamento del servizio in
questione, la situazione di pericolo per la salute pubblica
e l'ambiente connesse alla gestione dei rifiuti, non
fronteggiabile adeguatamente con le ordinarie misure,
legittima comunque il Sindaco all'esercizio dei poteri extra
ordinem riconosciutigli dall'ordinamento giuridico (art. 50
del d.lgs. 18.08.2000 n. 267).
Del resto, le ordinanze sindacali contingibili ed urgenti
prescindono dall'imputabilità all'Amministrazione o a terzi
ovvero a fatti naturali, delle cause che hanno generato la
situazione di pericolo: pertanto, di fronte all'urgenza di
provvedere, non rileva affatto chi o cosa abbia determinato
la situazione di pericolo che il provvedimento è rivolto a
rimuovere.
---------------
Tuttavia, l'ordinanza impugnata con il ricorso introduttivo
del giudizio e così pure quelle avversate con motivi
aggiunti devono ritenersi, invece, illegittime nella parte
in cui il Sindaco ordina alla ricorrente la prosecuzione del
servizio di igiene urbana, mantenendo invariato il
corrispettivo economico fissato col precedente contratto (il
primo risalente al 27.04.2005).
Il principio generale secondo il quale in materia di
provvedimenti contingibili ed urgenti deve essere arrecato
al privato destinatario dell' ordinanza il minor sacrificio
possibile comporta l'obbligo di non imporre, attraverso il
ricorso ai poteri extra ordinem, corrispettivi ancorati a
valori risalenti nel tempo e non preceduti dalla previa
verifica della loro idoneità a remunerare con carattere di
effettività il servizio reso.
Secondo un condivisibile e consolidato orientamento
giurisprudenziale, il provvedimento contingibile ed urgente
non può giustificare anche una sorta di prezzo imposto
dall'Amministrazione al privato, dovendo all'obbligo di
proseguire nell'espletamento del servizio essere connessa la
corresponsione di un giusto compenso per il destinatario del
provvedimento. L'imposizione di una prestazione ad un prezzo
non più corrispondente ai prezzi di mercato determinerebbe,
infatti, un ingiustificato sacrificio dell'iniziativa
economica privata a beneficio della p.a., con violazione dei
principi desumibili dall'art. 41 Cost..
---------------
Ritiene il Collegio, in considerazione della invarianza
delle modalità di gestione del servizio erogato e del dato
naturale per cui alcuni costi gestionali sono stati
ammortizzati nel corso della precedente gestione del
servizio, di dover fare applicazione del criterio
risarcitorio comunemente adottato dalla giurisprudenza in
casi analoghi, riconoscendo la pretesa risarcitoria nei
limiti della rivalutazione dell'originario compenso, in base
agli indici ISTAT, con riferimento al momento dell'adozione
delle avversate ordinanze; con rivalutazione monetaria e
interessi corrispettivi sulla somma così determinata, a
partire dalla data di cessazione del servizio in regime di
proroga e fino al soddisfo.
La domanda risarcitoria va, quindi, accolta limitatamente al
danno derivante dalla maggiore onerosità della prestazione
del servizio rispetto al canone riconosciuto, in una misura
che, in via equitativa, va determinata in una somma pari
alla rivalutazione monetaria, secondo gli indici ISTAT, del
corrispettivo stabilito in base al precedente contratto di
appalto stipulato tra le parti, riconoscendo altresì, sulla
somma come innanzi determinata, gli interessi e la
rivalutazione monetaria dalla data di cessazione
dell'espletamento del servizio fino all'effettivo soddisfo.
Il Collegio condivide il tradizionale
orientamento giurisprudenziale secondo cui non è di per sé
illegittimo il ricorso all'istituto della ordinanza contingibile ed urgente per la proroga del contratto in
essere in quanto, malgrado il Comune non si sia
tempestivamente attivato per la indizione della gara per
l'affidamento del servizio in questione, la situazione di
pericolo per la salute pubblica e l'ambiente connesse alla
gestione dei rifiuti, non fronteggiabile adeguatamente con
le ordinarie misure, legittima comunque il Sindaco
all'esercizio dei poteri extra ordinem riconosciutigli
dall'ordinamento giuridico (art. 50 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267).
Del resto, le ordinanze sindacali contingibili ed urgenti
prescindono dall'imputabilità all'Amministrazione o a terzi
ovvero a fatti naturali, delle cause che hanno generato la
situazione di pericolo: pertanto, di fronte all'urgenza di
provvedere, non rileva affatto chi o cosa abbia determinato
la situazione di pericolo che il provvedimento è rivolto a
rimuovere (Consiglio di Stato, Sez. V, del 09.11.1998
n. 1585; Tar Campania Napoli, Sez. I, 27.3.2000 n. 813).
E però l'ordinanza impugnata con il ricorso introduttivo del
giudizio e così pure quelle avversate con motivi aggiunti
devono ritenersi, invece, illegittime nella parte in cui il
Sindaco ordina alla ricorrente la prosecuzione del servizio
di igiene urbana, mantenendo invariato il corrispettivo
economico fissato col precedente contratto (il primo
risalente al 27.04.2005) (cfr. in tal senso, da ultimo,
TAR Lecce, II Sezione, 16.04.2012 n. 691).
Il principio generale secondo il quale in materia di
provvedimenti contingibili ed urgenti deve essere arrecato
al privato destinatario dell' ordinanza il minor sacrificio
possibile comporta l'obbligo di non imporre, attraverso il
ricorso ai poteri extra ordinem, corrispettivi ancorati a
valori risalenti nel tempo e non preceduti dalla previa
verifica della loro idoneità a remunerare con carattere di
effettività il servizio reso.
Secondo un condivisibile e consolidato orientamento
giurisprudenziale, il provvedimento contingibile ed urgente
non può giustificare anche una sorta di prezzo imposto
dall'Amministrazione al privato, dovendo all'obbligo di
proseguire nell'espletamento del servizio essere connessa la
corresponsione di un giusto compenso per il destinatario del
provvedimento. L'imposizione di una prestazione ad un prezzo
non più corrispondente ai prezzi di mercato determinerebbe,
infatti, un ingiustificato sacrificio dell'iniziativa
economica privata a beneficio della p.a., con violazione dei
principi desumibili dall'art. 41 Cost. (Consiglio di Stato,
Sez. V, 02.12.2002 n. 6624).
In ragione di quanto rilevato, le avversate ordinanze sono
dunque tutte illegittime per aver ordinato alla ricorrente
di continuare ad eseguire il servizio agli stessi patti e
condizioni dei contratti in precedenza stipulati.
Con la pretesa (risarcitoria) azionata la ricorrente lamenta
un danno economico corrispondente alla differenza tra il
costo reale del servizio affidatole ed il canone fissato con
l’ordinanza n. 151 del 2010, pari ad euro 52.073,00 oltre
IVA, un danno economico corrispondente agli oneri sopportati
per fare fronte alle esposizioni bancarie necessarie a
compensare lo squilibrio economico cagionato dalla
prestazione del servizio a condizioni non remunerative e
l’ulteriore pregiudizio costituito dalla perdita di chance
per aver perso la possibilità di stipulare contratti con
altre amministrazioni.
Ritiene il Collegio, in considerazione della invarianza
delle modalità di gestione del servizio erogato e del dato
naturale per cui alcuni costi gestionali sono stati
ammortizzati nel corso della precedente gestione del
servizio, di dover fare applicazione del criterio
risarcitorio comunemente adottato dalla giurisprudenza in
casi analoghi, riconoscendo la pretesa risarcitoria nei
limiti della rivalutazione dell'originario compenso, in base
agli indici ISTAT, con riferimento al momento dell'adozione
delle avversate ordinanze; con rivalutazione monetaria e
interessi corrispettivi sulla somma così determinata, a
partire dalla data di cessazione del servizio in regime di
proroga e fino al soddisfo (Consiglio di Stato, Sez. V, 02.12.2002, n. 6624; TAR Sicilia, Catania, Sez. III
02.11.2010 n. 4316; TAR Sicilia, Palermo, Sez. I 27.03.2008 n. 383; TAR Lazio, Roma Sez. II
06.10.2001 n.
8173).
La domanda risarcitoria va, quindi, accolta limitatamente al
danno derivante dalla maggiore onerosità della prestazione
del servizio rispetto al canone riconosciuto, in una misura
che, in via equitativa, va determinata in una somma pari
alla rivalutazione monetaria, secondo gli indici ISTAT, del
corrispettivo stabilito in base al precedente contratto di
appalto stipulato tra le parti, riconoscendo altresì, sulla
somma come innanzi determinata, gli interessi e la
rivalutazione monetaria dalla data di cessazione
dell'espletamento del servizio fino all'effettivo soddisfo.
Le pretese risarcitorie legate alle altre voci di danno sono
invece inammissibili per genericità e poiché sprovviste del
benché minimo principio di prova
(TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 06.11.2012 n. 9062 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Sono
legittimi i presupposti per
l’intervento ripristinatorio di autotutela possessoria da
parte dell’Amministrazione laddove vi sia l’accertata
preesistenza di fatto dell’uso pubblico della strada e la
turbativa e alterazione dei luoghi che impedisce
l’utilizzazione da parte della collettività.
L'esercizio dei poteri di autotutela possessoria (ex art.
823 cod. civ. e art. 15 d.lgs. 01.09.1918, n. 1446)
presuppone la persistenza dei requisiti “di fatto” necessari
per la configurabilità di tale tipo di strade: un passaggio
esercitato "iure servitutis publicae" da una collettività di
persone, la concreta idoneità della strada a soddisfare il
collegamento con la via pubblica, ma anche esigenze di
carattere generale (accesso al parco pubblico), l'esistenza
di un titolo valido a fondamento del diritto di uso
pubblico.
In relazione a ciò occorre richiamare la
giurisprudenza costante che ritiene legittimi i presupposti
per l’intervento ripristinatorio di autotutela possessoria
da parte dell’Amministrazione laddove, come nella specie, vi
sia l’accertata preesistenza di fatto dell’uso pubblico
della strada e la turbativa e alterazione dei luoghi che
impedisce l’utilizzazione da parte della collettività (cfr.
ex multis, Cons. Giust. Amm. Regione Siciliana, 18.06.2003, n. 244: Tar Lazio, Roma, sez. I, 19.04.2007, n.
3419; idem, sez. II-ter, 03.11.2009, n.10781; Tar
Sardegna, sez. II, 17.03.2010, n. 312; Cons. Stato, sez.
V, 25.06.2010, n. 4064; Tar Piemonte, sez. I, 08.04.2011, n. 376).
A ciò va richiamato che l'esercizio dei poteri di autotutela
possessoria (ex art. 823 cod. civ. e art. 15 d.lgs. 01.09.1918, n. 1446) presuppone la persistenza dei
requisiti “di fatto” necessari per la configurabilità di
tale tipo di strade: un passaggio esercitato "iure servitutis publicae" da una collettività di persone, la
concreta idoneità della strada a soddisfare il collegamento
con la via pubblica, ma anche esigenze di carattere generale
(accesso al parco pubblico), l'esistenza di un titolo valido
a fondamento del diritto di uso pubblico (atto d’obbligo 28.01.1969); nella specie, si tratta di requisiti che
risultano accertati con adeguata istruttoria ed esplicitati
nella motivazione del provvedimento di autotutela, che
pertanto come risulta dimostrato non può ritenersi –nel
senso asserito dal Condominio (sesto mezzo)- mera
riedizione del precedente provvedimento repressivo adottato
dal Comune nei confronti dello stesso.
Né varrebbe obiettare, come sostiene parte ricorrente
(quarto e quinto mezzo), che non vi sarebbero documenti atti
a provare che la strada in questione sia pubblica, posto che
mancherebbe anche la prova da parte del Comune dello
svolgimento di attività manutentiva sulla strada medesima.
Ebbene, riguardo a ciò va riservata analoga prognosi di
infondatezza, in quanto appare invece dimostrato in modo
evidente dalla documentazione in atti che la predetta strada
è compresa nell’elenco delle strade la cui manutenzione è a
carico del Municipio XIII (vedi elenco prot. n. 117531 del
30.12.2010; nota Municipio XIII, 10.12.2007, prot. n. 114721), così come indicato nell’atto impugnato.
Pertanto, l’Amministrazione comunale con il provvedimento
impugnato, e in esecuzione del pregresso giudicato, ha
esercitato correttamente il potere di autotutela possessoria
iuris publici in relazione alla strada in questione
interessata da uso pubblico, per favorire l’accesso al parco
pubblico da parte della collettività
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 05.11.2012 n. 9045 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Anche
nel caso di affidamento di concessioni di beni pubblici
aventi rilevanza economica deve trovare applicazione il
consolidato orientamento secondo il quale per radicare una
posizione di interesse legittimo che legittimi
l’impugnazione della decisione dell’amministrazione di
procedere ad un affidamento diretto di un servizio pubblico
(o di un appalto pubblico) occorre che il ricorrente rivesta
la qualità di impresa operante nel settore e sia interessato
all’aggiudicazione.
Innanzi tutto
risulta infondato il primo motivo, con il quale i ricorrenti
deducono che i provvedimenti impugnati si pongono in
contrasto con i principi del Trattato UE in materia di
evidenza pubblica -che, secondo la giurisprudenza
comunitaria e nazionale, devono trovare applicazione anche
nel caso di affidamento di concessioni di beni pubblici
aventi rilevanza economica e con il vigente Regolamento per
gli impianti sportivi di proprietà comunale, che prevede lo
svolgimento di una gara pubblica per l’individuazione del
concessionario- perché il Comune di Roma ha proceduto
all’affidamento diretto dell’area di proprietà comunale sita
tra via del Tintoretto e via Baldovinetti, ove dovrebbe
sorgere l’impianto sportivo.
Infatti, anche nel caso di affidamento di concessioni di
beni pubblici aventi rilevanza economica deve trovare
applicazione il consolidato orientamento (ex multis,
Cons. Stato, Sez. V, 17.09.2008, n. 4389) secondo il quale
per radicare una posizione di interesse legittimo che
legittimi l’impugnazione della decisione
dell’amministrazione di procedere ad un affidamento diretto
di un servizio pubblico (o di un appalto pubblico) occorre
che il ricorrente rivesta la qualità di impresa operante nel
settore e sia interessato all’aggiudicazione.
Ebbene, come correttamente osservato dal Comune di Roma
nelle memorie depositate in data 07.07.2009 e 30.12.2011,
nessuno dei ricorrenti ha motivo di dolersi del mancato
esperimento di una procedura ad evidenza pubblica per
l’assegnazione dell’area in questione se si considera che
nessuno di essi ha manifestato un interesse all’affidamento
della concessione
(TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 05.11.2012 n. 9023 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Secondo
l’art. 14, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, dell’avvio del
procedimento finalizzato al rilascio del permesso di
costruire in deroga “viene data comunicazione agli
interessati ai sensi dell’articolo 7 della legge 07.08.1990,
n. 241” e che, secondo l’art. 7, comma 1, secondo periodo,
della legge n. 241/1990, “qualora da un provvedimento possa
derivare un pregiudizio a soggetti individuati o facilmente
individuabili, diversi dai suoi diretti destinatari,
l’amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse
modalità, notizia dell'inizio del procedimento”.
Invero, il proprietario di immobile confinante con quello
oggetto della richiesta di permesso di costruire non può
essere considerato soggetto direttamente interessato al
provvedimento, con la conseguenza che non sussiste alcun
obbligo per l’Amministrazione di dargli comunicazione
dell’avvio del procedimento preordinato al rilascio del
permesso di costruire, fermo restando che ciò non comporta
alcuna lesione delle sue facoltà procedimentali, comunque
salvaguardate dalla possibilità di intervento volontario nel
procedimento di rilascio del titolo edilizio ai sensi
dell’art. 9, della legge n. 241/1990.
---------------
La giurisprudenza amministrativa aveva inizialmente
interpretato l’espressione “edifici ed impianti di interesse
pubblico” di cui all’art. 14, comma 1, del d.P.R. n.
380/2001 (che recepisce la disposizione dell’art. 41-quater
della legge n. 1150/1942) in senso restrittivo, facendovi
rientrare soltanto quelli corrispondenti a compiti assunti
direttamente dalla pubblica Amministrazione.
Tuttavia attualmente la prevalente giurisprudenza ritiene
applicabile la predetta disposizione anche agli edifici ed
impianti nei quali sia comunque offerto un servizio alla
collettività.
Pertanto anche un impianto sportivo come quello di cui
trattasi rientra tra le opera di interesse pubblico per cui
può essere rilasciato il permesso di costruire in deroga.
Innanzitutto i
ricorrenti deducono la violazione del secondo comma
dell’art. 14 del d.P.R. n. 380/2001, nonché dell’art. 1 del
Regolamento comunale n. 57 del 02.03.2006, lamentando che
l’Amministrazione non ha comunicato l’avvio del procedimento
finalizzato al rilascio del permesso di costruire in deroga,
sicché i residenti del quartiere non hanno potuto esprimere
nelle sedi competenti le proprie osservazioni in merito alla
realizzazione dell’intervento.
A tal riguardo si deve rammentare che, secondo l’art. 14,
comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, dell’avvio del procedimento
finalizzato al rilascio del permesso di costruire in deroga
“viene data comunicazione agli interessati ai sensi
dell’articolo 7 della legge 07.08.1990, n. 241” e che,
secondo l’art. 7, comma 1, secondo periodo, della legge n.
241/1990, “qualora da un provvedimento possa derivare un
pregiudizio a soggetti individuati o facilmente
individuabili, diversi dai suoi diretti destinatari,
l’amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse
modalità, notizia dell'inizio del procedimento”.
Ciò posto, nessuno dei ricorrenti ha motivo di lamentarsi
dell’omissione della comunicazione dell’avvio del
procedimento perché nessuno di essi era destinatario diretto
del provvedimento, né risultava preventivamente individuato
o, quantomeno, facilmente individuabile come soggetto
portatore di un interesse contrario al rilascio del permesso
di costruire.
Del resto, secondo una consolidata
giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 06.06.2012, n. 3343), il proprietario di immobile confinante con
quello oggetto della richiesta di permesso di costruire non
può essere considerato soggetto direttamente interessato al
provvedimento, con la conseguenza che non sussiste alcun
obbligo per l’Amministrazione di dargli comunicazione
dell’avvio del procedimento preordinato al rilascio del
permesso di costruire, fermo restando che ciò non comporta
alcuna lesione delle sue facoltà procedimentali, comunque
salvaguardate dalla possibilità di intervento volontario nel
procedimento di rilascio del titolo edilizio ai sensi
dell’art. 9, della legge n. 241/1990.
---------------
Da ultimo i ricorrenti contestano che l’impianto
sportivo in questione possa essere qualificato come un’opera
pubblica o come un’opera di interesse pubblico e, quindi
possa beneficiare delle deroghe previste dall’art. 14 del d.P.R. n. 380/2001.
A tal riguardo il Collegio osserva che, la giurisprudenza
amministrativa aveva inizialmente interpretato l’espressione
“edifici ed impianti di interesse pubblico” di cui all’art.
14, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 (che recepisce la
disposizione dell’art. 41-quater della legge n. 1150/1942)
in senso restrittivo, facendovi rientrare soltanto quelli
corrispondenti a compiti assunti direttamente dalla pubblica
Amministrazione.
Tuttavia attualmente la prevalente
giurisprudenza (TAR Trentino Alto Adige-Trento, Sez. I,
18.06.2009, n. 194; TAR Sardegna Cagliari, Sez. II,
22.07.2009, n. 1375) ritiene applicabile la predetta
disposizione anche agli edifici ed impianti nei quali sia
comunque offerto un servizio alla collettività.
Pertanto
anche un impianto sportivo come quello di cui trattasi
rientra tra le opera di interesse pubblico per cui può
essere rilasciato il permesso di costruire in deroga
(TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 05.11.2012 n. 9023 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sulle caratteristiche del servizio di refezione
scolastica.
La refezione scolastica attualmente assume le
caratteristiche di servizio essenziale pur strumentale
all'attività scolastica, in quanto funzionale a garantire
l'attività didattica nelle forme di impegno temporale
attualmente vigenti.
Pertanto, l'attività in esame, pur in astratto ricadente tra
le attività industriali, per il metodo di produzione
adottato, non può ascriversi urbanisticamente e
giuridicamente a tale categoria, in quanto è opera che
assicura un servizio economico di interesse generale quale
il servizio scolastico.
Nel caso di specie, il fatto che alcuni pasti (600 previsti
in convenzione) possano non essere acquistati dal Comune per
le proprie scuole, bensì da altri istituti di istruzione e
assistenza all'infanzia presenti nel Comune, non modifica e
le caratteristiche e la natura giuridica del centro di
produzione pasti.
Pertanto, nel caso di specie, è legittima la scelta del
Comune di realizzare un centro pasti anziché allestire delle
cucine nelle singole scuole che nasce dalla necessità di
abbattere i costi ed ampliare gli spazi dedicati
all'attività didattica nelle singole strutture scolastiche
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.11.2012 n. 5589 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
diritto di accesso si connota non in termini di situazione
meramente strumentale alla tutela giurisdizionale, ma avente
carattere autonomo; il che implica che l’accesso è
consentito indipendentemente da ogni connessione al cd.
diritto di azione e che il giudice, chiamato a decidere
sulla relativa domanda, deve verificare unicamente i
presupposti legittimanti l’istanza di accesso proprio perché
l’interesse alla conoscenza dei documenti amministrativi
costituisce un bene autonomo e meritevole di tutela, a
prescindere dalle posizioni sulle quali abbia poi ad
incidere l’attività amministrativa.
L’articolo 22 della legge n. 241 del 1990, sostanzia il
diritto di accesso in termini di facoltà per gli interessati
di prendere visione e di estrarre copia di documenti
amministrativi; per interessati si intendono “i soggetti
privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o
diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è chiesto
l’accesso”.
Per il comma 2 poi “l’accesso ai documenti
amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico
interesse, costituisce principio generale dell'attività
amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di
assicurarne l'imparzialità e la trasparenza”.
Per la giurisprudenza, quindi, il diritto di accesso si
connota non in termini di situazione meramente strumentale
alla tutela giurisdizionale, ma avente carattere autonomo;
il che implica che l’accesso è consentito indipendentemente
da ogni connessione al cd. diritto di azione e che il
giudice, chiamato a decidere sulla relativa domanda, deve
verificare unicamente i presupposti legittimanti l’istanza
di accesso proprio perché l’interesse alla conoscenza dei
documenti amministrativi costituisce un bene autonomo e
meritevole di tutela, a prescindere dalle posizioni sulle
quali abbia poi ad incidere l’attività amministrativa
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 05.11.2012 n. 837 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
normativa sul condono edilizio prevede, in pendenza dei
termini, la sospensione de iure di ogni attività repressiva
degli abusi edilizi. In conseguenza, le ingiunzioni di
demolizione adottate in violazione dell’art. 44, l. n. 47
del 1985 si rivelano illegittime.
Invero, la predetta sospensione paralizza (non solo i
procedimenti in corso, bensì anche) l’avvio dei poteri
repressivi comunali, stante l’ontologica e funzionale
incompatibilità del loro esercizio sia con la ratio della
norma primaria, siccome volta, questa, a consentire il
recupero dell'attività edilizia posta in essere, che con i
principi di lealtà, coerenza, efficienza ed economicità
dell'azione amministrativa, i quali impongono la previa
definizione del procedimento di condono prima di assumere
iniziative, le cui finalità potrebbero essere vanificate
dall'esito dell’iter in procinto di essere avviato sulla
base della dichiarazione d'impulso ad istanza di parte
(richiesta del condono edilizio).
Considerato che alla stregua di quanto su
esposto deve ribadirsi, quindi, l’orientamento costante per
il quale «la normativa sul condono edilizio prevede, in
pendenza dei termini, la sospensione de iure di ogni
attività repressiva degli abusi edilizi. In conseguenza, le
ingiunzioni di demolizione adottate in violazione dell’art.
44, l. n. 47 del 1985 si rivelano illegittime. Invero, la
predetta sospensione paralizza (non solo i procedimenti in
corso, bensì anche) l’avvio dei poteri repressivi comunali,
stante l’ontologica e funzionale incompatibilità del loro
esercizio sia con la ratio della norma primaria, siccome
volta, questa, a consentire il recupero dell'attività
edilizia posta in essere, che con i principi di lealtà,
coerenza, efficienza ed economicità dell'azione
amministrativa, i quali impongono la previa definizione del
procedimento di condono prima di assumere iniziative, le cui
finalità potrebbero essere vanificate dall'esito dell’iter
in procinto di essere avviato sulla base della dichiarazione
d'impulso ad istanza di parte (richiesta del condono
edilizio)» (Tar Campania Napoli, sez. VI, 19.06.2008, n.
6005)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 05.11.2012 n. 836 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Deve
essere qualificata come "intervento di nuova costruzione"
l'installazione di un manufatto, seppure leggero ed
eventualmente anche prefabbricato, e di strutture di
qualsiasi genere (quali roulottes, campers, case mobili o
imbarcazioni - che siano usati come abitazioni, ambienti di
lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili), le quali
non siano dirette a soddisfare esigenze meramente
temporanee.
In particolare, deve escludersi che sia destinata a esigenze
temporanee l'installazione di una voluminosa copertura in
PVC, per quanto stagionale (nella specie questa veniva
rimossa per un periodo di 4 mesi ogni anno), specie ove si
tratti di struttura destinata all'esercizio di un'attività
commerciale e di somministrazione, come tale ontologicamente
"non temporanea".
---------------
Sebbene la piscina possa essere, di norma, prevalentemente
(anche se non necessariamente solo) utilizzata in periodo
estivo, appare piuttosto inverosimile che la medesima del
prefabbricato, durante la stagione invernale, possa essere
agevolmente rimossa, presentando pertanto caratteri di
stabilità e di permanenza che giustificano la necessità di
idoneo titolo concessorio.
Per quanto riguarda l'installazione di una
piscina prefabbricata, deduce la ricorrente violazione ed
erronea applicazione degli artt. 4 e 7 L. 47/1985, ritenendo
non necessaria la concessione edilizia trattandosi appunto
di una struttura prefabbricata che non comporta
un'alterazione profonda e permanente del territorio.
La
censura non può essere accolta in sintonia con un
orientamento espresso, tra le altre, da Consiglio di Stato
sez. VI, 16.02.2011, n. 986 secondo cui “Deve essere
qualificata come "intervento di nuova costruzione"
l'installazione di un manufatto, seppure leggero ed
eventualmente anche prefabbricato, e di strutture di
qualsiasi genere (quali roulottes, campers, case mobili o
imbarcazioni - che siano usati come abitazioni, ambienti di
lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili), le quali
non siano dirette a soddisfare esigenze meramente
temporanee. In particolare, deve escludersi che sia
destinata a esigenze temporanee l'installazione di una
voluminosa copertura in PVC, per quanto stagionale (nella
specie questa veniva rimossa per un periodo di 4 mesi ogni
anno), specie ove si tratti di struttura destinata
all'esercizio di un'attività commerciale e di
somministrazione, come tale ontologicamente "non
temporanea"”.
Infatti, sebbene la piscina possa essere, di
norma, prevalentemente (anche se non necessariamente solo)
utilizzata in periodo estivo, appare piuttosto inverosimile
che la medesima, durante la stagione invernale, possa essere
agevolmente rimossa, presentando pertanto caratteri di
stabilità e di permanenza che giustificano la necessità di
idoneo titolo concessorio.
In ogni caso, successivamente
alla proposizione del ricorso, la ricorrente ha depositato
le istanze di sanatoria n. 7346 e 7342 del 31.03.2004
nonché n. 7590 del 02.04.2004 ai sensi della Legge
326/2003 aventi ad oggetto anche la piscina prefabbricata.
Conseguentemente il ricorso deve essere dichiarato sul punto improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse dovendo
l'amministrazione pronunciarsi sulle domande di condono ed
eventualmente, in caso di rigetto, riadottare il
provvedimento sanzionatorio, posto che quello impugnato ha
perso efficacia
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 02.11.2012 n. 827 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’ordine di demolizione
del manufatto abusivo è atto vincolato e quindi non richiede
una specifica valutazione delle ragioni di pubblico
interesse né una comparazione di quest’ultimo con gli
interessi dei privati coinvolti e sacrificati.
Inoltre, ai sensi dell’art. 13 legge 28.02.1985 n.47 (ora
art. 36 D.P.R. 06.06.2001 n. 380) l’accertamento di
conformità urbanistica delle opere realizzate in assenza di
titolo non va condotto d’ufficio, ma deve essere chiesto dal
responsabile dell’abuso, essendo l’Amministrazione tenuta,
quando accerti la realizzazione di opere in assenza di
concessione, esclusivamente ad ingiungere la demolizione
indipendentemente dalla loro conformità o meno alle
previsioni degli strumenti urbanistici.
Con il secondo motivo di eccesso di potere, difetto di motivazione e
sviamento, il ricorrente sostiene che l’illegittimità della
abusività dell’opera non sarebbe sufficiente a legittimare
“ex se” l’adozione del provvedimento di demolizione,
occorrendo anche che sia stato valutato che risponda
all’interesse pubblico la demolizione del manufatto e che si
sia proceduto alla comparazione con dell’interesse privato;
l’Amministrazione dovrebbe anche dare compiutamente conto
delle ragioni che l’inducono all’attività repressiva, se il
manufatto realizzato sia conforme alle previsioni degli
strumenti urbanistici.
Le argomentazioni del ricorrente non trovano, tuttavia,
riscontro nella costante giurisprudenza secondo la quale
l’ordine di demolizione del manufatto abusivo è atto
vincolato e quindi non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di pubblico interesse né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi dei privati coinvolti e
sacrificati (cfr. Tar Lecce, sez. III, 10.11.2011,
n.1937); inoltre, ai sensi dell’art. 13 legge 28.02.1985 n.47 (ora art. 36 D.P.R.
06.06.2001 n.
380) l’accertamento di conformità urbanistica delle opere
realizzate in assenza di titolo non va condotto d’ufficio,
ma deve essere chiesto dal responsabile dell’abuso, essendo
l’Amministrazione tenuta, quando accerti la realizzazione di
opere in assenza di concessione, esclusivamente ad
ingiungere la demolizione indipendentemente dalla loro
conformità o meno alle previsioni degli strumenti
urbanistici (così Tar Campania, Napoli sez. IV, 28.07.1999,
n. 2109) (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 31.10.2012 n. 4347 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
I provvedimenti repressivi di abusi edilizi non
devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del
procedimento perché trattasi di atti tipizzati e vincolati,
che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla
consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo
delle medesime.
L'avviso di avvio del procedimento non è dovuto nel caso di
procedimento volto all'irrogazione della sanzione della
demolizione edilizia di costruzione eseguita senza alcun
titolo, od attinente ad abusi che non necessitano di
particolari valutazioni discrezionali, ma comportano un mero
accertamento di natura tecnica sulla consistenza delle
opere.
Con il quarto mezzo, si lamenta la mancata comunicazione ex
art. 7 L. 241/1990.
La censura è infondata in fatto ed in
diritto: in fatto, poiché è dal 1995 (cioè dal primo
sopralluogo effettuato dal Comune, di cui si da atto nel
provvedimento) che si è stabilito il rapporto amministrativo
inter partes; in diritto, stante l’orientamento della
giurisprudenza sul punto (I provvedimenti repressivi di
abusi edilizi non devono essere preceduti dalla
comunicazione di avvio del procedimento perché trattasi di
atti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero
accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere abusivo delle medesime: Tar
Campania–Napoli sez. VII, nr. 4259 del 01.09.2011;
L'avviso di avvio del procedimento non è dovuto nel caso di
procedimento volto all'irrogazione della sanzione della
demolizione edilizia di costruzione eseguita senza alcun
titolo, od attinente ad abusi che non necessitano di
particolari valutazioni discrezionali, ma comportano un mero
accertamento di natura tecnica sulla consistenza delle
opere: TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 03.11.2006, n. 1271) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 31.10.2012 n. 4340 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Costituiscono vincoli
preordinati all'espropriazione o di carattere
sostanzialmente espropriativo solo quelli che implicano uno
svuotamento incisivo della proprietà, mentre non lo sono i
vincoli di destinazione imposti dal piano regolatore per
attrezzature e servizi realizzabili anche ad iniziativa
privata o promiscua, in regime di economia di mercato, anche
se accompagnati da strumenti di convenzionamento (ad esempio
parcheggi, impianti sportivi, mercati e strutture
commerciali, edifici sanitari, zone artigianali, industriali
o residenziali).
In questa prospettiva le destinazioni a parco urbano, a
verde urbano, a verde pubblico, a verde pubblico attrezzato,
a parco giochi e simili si pongono al di fuori dello schema
ablatorio-espropriativo e costituiscono espressione di
potestà conformativa (avente validità a tempo
indeterminato), quando lo strumento urbanistico consente di
realizzare tali previsioni, non già ad esclusiva iniziativa
pubblica, ma ad iniziativa privata o promiscua pubblico -
privata, senza necessità di ablazione del bene.
Infine, quanto alla scadenza dei vincoli di destinazione imposti
dal piano regolatore generale alla zona oggetto del P.I.P.
osserva il Collegio che “secondo consolidato orientamento
giurisprudenziale costituiscono vincoli preordinati
all'espropriazione o di carattere sostanzialmente
espropriativo solo quelli che implicano uno svuotamento
incisivo della proprietà, mentre non lo sono i vincoli di
destinazione imposti dal piano regolatore per attrezzature e
servizi realizzabili anche ad iniziativa privata o
promiscua, in regime di economia di mercato, anche se
accompagnati da strumenti di convenzionamento (ad esempio
parcheggi, impianti sportivi, mercati e strutture
commerciali, edifici sanitari, zone artigianali, industriali
o residenziali).
In questa prospettiva le destinazioni a
parco urbano, a verde urbano, a verde pubblico, a verde
pubblico attrezzato, a parco giochi e simili si pongono al
di fuori dello schema ablatorio-espropriativo e
costituiscono espressione di potestà conformativa (avente
validità a tempo indeterminato), quando lo strumento
urbanistico consente di realizzare tali previsioni, non già
ad esclusiva iniziativa pubblica, ma ad iniziativa privata o
promiscua pubblico - privata, senza necessità di ablazione
del bene (di recente Consiglio di Stato Sezione IV 22.06.2011 n. 3797; Corte Costituzionale n. 20.05.1999, n.
179; Consiglio di Stato Adunanza Plenaria, 24.05.2007,
n. 7 e 16.11.2005, n. 9; Consiglio di Stato Sezione IV,
23.12.2010, n. 9372; 19.03.2008, n. 1201; 25.05.2005, n. 2718;
05.06.2004, n. 4010; 08.06.2000, n.
3214; Cassazione 19.05.2006, n. 11848)” (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 30.10.2012 n. 4331 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Sebbene in linea generale
e di principio l’ingiunzione a demolire costituisce la prima
ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, non è
precluso all’amministrazione disporre, a seguito di una
valutazione tecnica e non genericamente fondata su profili
di opportunità, l’irrogazione della sanzione pecuniaria; in
tal caso, quindi, il giudizio sintetico- valutativo, di
natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la
possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione
pecuniaria, quando ciò sia di pregiudizio per la parte
dell’opera eseguita in conformità, viene svolto a monte.
Nell’uno e nell’altro caso, tuttavia, deve emergere la
sussistenza dei presupposti fondamentali per procedere
all’irrogazione della sanzione, che è, comunque, connotata
dal carattere afflittivo proprio delle sanzioni
amministrative. Come evidenziato, infatti, dalla consolidata
giurisprudenza condivisa dal Collegio, l’irrogazione della
sanzione pecuniaria non equivale ad una sanatoria, giacché
non integra una regolarizzazione dell’illecito.
Prioritario ed assorbente si palesa l’esame del secondo
motivo di ricorso nella parte in cui viene contestata la
carenza di motivazione del provvedimento gravato che non
esplicita adeguatamente le ragioni per le quali
l’amministrazione ha ritenuto di procedere all’irrogazione
del provvedimento sanzionatorio.
Si osserva, infatti, che l’art. 34, comma 2, del D.P.R. n.
380 del 2001 disciplina l’ipotesi eccezionale
dell’impossibilità tecnica e fattuale di procedere alla
demolizione delle opere abusive senza pregiudicare le parti
dell’edificio regolarmente autorizzate.
La sanzione pecuniaria è, dunque, alternativa rispetto a
quella demolitoria della quale devono, quindi, sussistere i
presupposti, che l’amministrazione è tenuta a
sufficientemente esplicitare nel relativo provvedimento.
Si evidenzia, inoltre, che sebbene in linea generale e di
principio l’ingiunzione a demolire costituisce la prima ed
obbligatoria fase del procedimento repressivo, non è
precluso all’amministrazione disporre, a seguito di una
valutazione tecnica e non genericamente fondata su profili
di opportunità, l’irrogazione della sanzione pecuniaria; in
tal caso, quindi, il giudizio sintetico- valutativo, di
natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la
possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione
pecuniaria, quando ciò sia di pregiudizio per la parte
dell’opera eseguita in conformità, viene svolto a monte.
Nell’uno e nell’altro caso, tuttavia, deve emergere la
sussistenza dei presupposti fondamentali per procedere
all’irrogazione della sanzione, che è, comunque, connotata
dal carattere afflittivo proprio delle sanzioni
amministrative. Come evidenziato, infatti, dalla consolidata
giurisprudenza condivisa dal Collegio, l’irrogazione della
sanzione pecuniaria non equivale ad una sanatoria, giacché
non integra una regolarizzazione dell’illecito (Cass. Pen.,
sez. III, 23.03.2004, n. 13978 del 2004) (TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 26.10.2012 n. 4299 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il vincolo imposto sulle aree site in fasce di
rispetto stradale prescritte dal D.M. n. 1404 del 1968 si
traduce in un divieto assoluto di edificazione che rende le
aree legalmente inedificabili, indipendentemente dalle
caratteristiche dell'opera realizzata e dalla necessità di
accertamento in concreto dei connessi rischi per la
circolazione stradale, con la conseguenza che tale
limitazione deve ritenersi operativa anche con riferimento a
costruzioni realizzate ad un diverso livello da quello della
sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o
che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto
alle opere preesistenti.
---------------
L’art. 33 della L. 28.02.1985 n. 47 non consente alcuna
possibilità di deroga da parte dell'autorità preposta –a
differenza del caso in cui l’edificazione sia avvenuta
all'interno del centro abitato– in relazione alle opere
costruite successivamente all’imposizione del vincolo,
sicché doverosamente e legittimamente l’amministrazione
provinciale ha escluso la sanabilità dell’opera abusiva de
qua.
Si sottolinea, infatti, che, come chiarito dalla consolidata
giurisprudenza, condivisa dal Collegio, il vincolo imposto
sulle aree site in fasce di rispetto stradale prescritte dal
D.M. n. 1404 del 1968 si traduce in un divieto assoluto di
edificazione che rende le aree legalmente inedificabili,
indipendentemente dalle caratteristiche dell'opera
realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei
connessi rischi per la circolazione stradale, con la
conseguenza che tale limitazione deve ritenersi operativa
anche con riferimento a costruzioni realizzate ad un diverso
livello da quello della sede stradale o che costituiscano
mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia,
siano arretrate rispetto alle opere preesistenti (cfr., ex multis, Cass. Civ., sez. II,
03.11.2010, n. 22422;
TAR Toscana, sez. III, 23.07.2012, n. 1349).
Nella fattispecie, dunque, trova applicazione l’art. 33
della L. 28.02.1985 n. 47, che non consente alcuna
possibilità di deroga da parte dell'autorità preposta –a
differenza del caso in cui l’edificazione sia avvenuta
all'interno del centro abitato– in relazione alle opere
costruite successivamente all’imposizione del vincolo,
sicché doverosamente e legittimamente l’amministrazione
provinciale ha escluso la sanabilità dell’opera abusiva de
qua (cfr. ex multis, Cons. St., sez. IV, 12.02.2010,
n. 772; TAR Lazio, Roma, sez. I, 12.11.2008, n.
10100; Cons. St., sez. IV, 18.10.2002 n. 5716).
Il Collegio rileva, inoltre, l’adeguatezza
dell’istruttoria condotta dall’amministrazione che non ha
trascurato di esaustivamente considerare le diverse opere
oggetto di sanatoria; dallo stesso atto gravato emerge,
infatti, che gli altri abusi hanno ricevuto una diversa
valutazione in quanto realizzati prima del 13.04.1968,
data di entrata in vigore del D.M. n. 1404 del 1968 (abusi
indicati ai punti 1, 4 e 6) ovvero in quanto realizzati in
conformità alla distanza prescritta (abuso indicato al punto
5) o, infine, in quanto sostanziatisi in una mera modifica
di destinazione d’uso senza aumento di superficie e volume
(abuso indicato al punto 3).
Quanto alla deduzione diretta a contestare il diverso
trattamento riservato dall’amministrazione in relazione ad
altre costruzioni asseritamente edificate in palese
violazione dell’art. 4 del D.M. n. 104 del 1968, il
Collegio, oltre a rilevare che tale argomentazione è stata
prospettata, peraltro genericamente, solo nella perizia di
parte depositata in data 31.08.2012, sottolinea che la
disparità di trattamento non rileva quando si tratta di
rivendicazione di posizioni riconosciute ad altri in modo
illegittimo in quanto, altrimenti, il giudice si troverebbe
a dover consentire un'applicazione incongrua ed illegittima
della normativa in favore del mero principio di par condicio
(cfr. ex multis, Cons. St., sez. VI, 27.08.2010, n.
5980; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 20.09.2010, n. 3763; TAR
Lazio, Roma, sez. I, 07.09.2010, n. 32113) (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 26.10.2012 n. 4283 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sulla distinzione tra attività economiche e non
economiche: presupposti.
Il servizio di illuminazione votiva è indubbiamente un
servizio a rilevanza economica.
La distinzione tra attività economiche e non economiche ha
carattere dinamico ed evolutivo, cosicché non è possibile
fissare a priori un elenco definitivo dei servizi di
interesse generale di natura economica (secondo la costante
giurisprudenza comunitaria spetta infatti al giudice
nazionale valutare circostanze e condizioni in cui il
servizio viene prestato, tenendo conto, in particolare,
dell'assenza di uno scopo precipuamente lucrativo, della
mancata assunzione dei rischi connessi a tale attività ed
anche dell'eventuale finanziamento pubblico dell'attività in
questione.
In sostanza, per qualificare un servizio pubblico come
avente rilevanza economica o meno si deve prendere in
considerazione non solo la tipologia o caratteristica
merceologica del servizio (vi sono attività meramente
erogative come l'assistenza agli indigenti), ma anche la
soluzione organizzativa che l'ente locale, quando può
scegliere, sente più appropriata per rispondere alle
esigenze dei cittadini (ad esempio servizi della cultura e
del tempo libero da erogare, a seconda della scelta
dell'ente pubblico, con o senza copertura dei costi).
Dunque, la distinzione può anzitutto derivare da due
presupposti, in quanto non solo vi può essere un servizio
che ha rilevanza economica o meno in astratto ma anche uno
specifico servizio che, per il modo in cui è organizzato,
presenta o non presenta tale rilevanza economica.
Saranno, quindi, privi di rilevanza economica i servizi che sono resi agli
utenti in chiave meramente erogativa e che, inoltre, non
richiedono una organizzazione di impresa in senso obiettivo
(invero, la dicotomia tra servizi a rilevanza economica e
quelli privi di rilevanza economica può anche essere desunta
dalle norme privatistiche, coincidendo sostanzialmente con i
criteri che contraddistinguono l'attività di impresa nella
previsione dell'art. 2082 Cod. civ. e, per quanto di
ragione, dell'art. 2195 o, per differenza, con ciò che non
vi può essere ricompreso). Per gli altri servizi,
astrattamente di rilevanza economica, andrà valutato in
concreto se le modalità di erogazione, ne consentano
l'assimilazione a servizi pubblici privi di rilevanza
economica.
---------------
Il servizio di illuminazione votiva è indubbiamente un
servizio a rilevanza economica. La qualificazione di un
servizio pubblico a rilevanza economica è correlata alla
astratta potenzialità di produrre un utile di gestione e,
quindi, di riflettersi sull'assetto concorrenziale del
mercato di settore, sicché non rileva l'irrisorietà
dell'utile che in concreto un servizio per come svolto
produca. Non è significativa, in conseguenza, nel caso di
specie, la circostanza che l'attività come svolta dal comune
sia risultata in concreto caratterizzata da un'esigua
redditività.
Né risulta, peraltro, che il comune abbia offerto il
servizio gratuitamente o sopportandone parte dei costi,
risultando, al contrario, che ha svolto in proprio
un'attività imprenditoriale vera e propria, seppure senza
autonoma organizzazione (il servizio sarebbe stato gestito
integrando le relative attività con quelle svolte dalle
direzioni edilizie e dalla direzione risorse finanziarie).
Tale circostanza è dirimente per sussumere tale servizio tra
quelli a rilevanza economica con la conseguenza che esso
doveva essere esternalizzato in base all'art. 23-bis del
d.l. n. 112 del 2008 (vigente al momento dell'adozione da
parte del comune del provvedimento impugnato), non potendo
essere sottratto al mercato (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 23.10.2012 n. 5409 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
SICUREZZA
LAVORO:
Obbligo di vigilanza
del committente
sulla sicurezza dei lavori
appaltati.
I) In conseguenza di un infortunio occorso durante
i lavori di pulitura di un capannone industriale
affidati in appalto ed eseguiti in assenza
dei prescritti strumenti di protezione quali cinture
di sicurezza, ponteggi o impalcature, il rappresentante
legale della società committente
proprietaria del capannone e il titolare dell’impresa
appaltatrice datore di lavoro dell’infortunato
furono condannati per il reato di lesione
personale colposa.
Nel confermare la condanna degli imputati, la
sentenza Varvarotto sottolinea, anzitutto, che
«anche a carico dell’appaltatore, quali che siano
stati i rapporti interni con il beneficiario della
prestazione, è il rispetto delle disposizioni prevenzionali,
appartenendo le norme antinfortunistiche
al diritto pubblico ed essendo le stesse inderogabili
in forza di atti privati.»
E nega che si possa invocare «una causa di
esclusione della responsabilità, fondata su una
asserita estraneità alle disposizioni impartite
dal committente al lavoratore, posto che l’appaltatore
non ha in alcun modo cooperato nell’attuazione
delle misure di sicurezza e non ha
promosso alcuna attività di coordinamento ai fini
della effettiva realizzazione delle misure di
sicurezza, tenuto conto che il lavoratore impiegato
non era nelle condizioni di autonomia tecnico professionale
da poter provvedere ai rischi
propri dell’attivita` che era chiamato ad eseguire
(v. art. 7, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 626/1994 [e
ora art. 26, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 81/2008]).» (Circa gli obblighi dell’appaltatore v.
Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato
con la giurisprudenza, IV edizione,
Milano, 2012, 279 ss., cui adde Cass. 10.07.2012, Sguassero e altro, in ISL, 2012, 8-9, 488).
Di grande interesse è poi l’analisi dedicata al
ruolo del committente.
In proposito, la Sez. IV premette che «la responsabilità
dell’appaltatore non esclude, in caso
di infortunio, la configurabilità della responsabilità
anche del committente (in ossequio alla
disciplina di settore: prima, l’art. 7 D.Lgs. n.
626, ora trasfuso sostanzialmente nell’art. 26
D.Lgs. n. 81/2008)», e che «questi, in termini
generali, è corresponsabile qualora l’evento si
colleghi casualmente anche alla sua colposa
omissione e ciò avviene, ad esempio, quando
abbia consentito l’inizio dei lavori in presenza
di situazioni di fatto pericolose.»
Inoltre, rileva che «il committente può essere
chiamato a rispondere dell’infortunio qualora
l’omessa adozione delle misure di prevenzione
prescritte sia immediatamente percepibile cosicché il committente medesimo sia in grado
di accorgersi dell’inadeguatezza delle stesse
senza particolari indagini, mentre, in questa
evenienza, ad escludere la responsabilità del
committente, non sarebbe sufficiente che questi
abbia impartito le direttive da seguire a tale scopo,
essendo comunque necessario che ne abbia
controllato, con prudente e continua diligenza,
la puntuale osservanza.»
Chiarisce, peraltro, che «tale principio non può
essere applicato automaticamente, non potendo
esigersi dal committente un controllo pressante,
continuo e capillare sull’organizzazione e sull’andamento
dei lavori», e che, «in questa prospettiva,
per fondare la responsabilità del committente,
non si può prescindere da un attento
esame della situazione fattuale, al fine di verificare
quale sia stata, in concreto, l’effettiva incidenza
della condotta del committente nell’eziologia
dell’evento, a fronte delle capacità organizzative
della ditta scelta per l’esecuzione dei
lavori.»
Segnala che, «a tal fine, vanno considerati: la
specificità dei lavori da eseguire; i criteri seguiti
dal committente per la scelta dell’appaltatore o
del prestatore d’opera (quale soggetto munito
dei titoli di idoneità prescritti dalla legge e della
capacità tecnica e professionale proporzionata
al tipo di attività commissionata ed alle concrete
modalità di espletamento della stessa); l’ingerenza
del committente stesso nell’esecuzione
dei lavori oggetto dell’appalto o del contratto di
prestazione d’opera; nonché, la percepibilità
agevole ed immediata da parte del committente
di eventuali situazioni di pericolo.»
E con riguardo al caso di specie, richiama «la
concreta ingerenza da parte del committente nella esecuzione dei lavori», mette in luce che
«il committente era certamente a conoscenza
delle condizioni dell’immobile che aveva acquistato
ad un’asta fiduciaria ed aveva visionato
personalmente prima di affidare i lavori in
appalto», sottolinea che il committente «aveva
frequentato il cantiere, tanto da avere avanzato
specifiche richieste per la rimozione e l’illegittimo
‘‘smaltimento’’ delle lastre in eternit.»
Quanto alla culpa in eligendo, constata «la evidente
incapacità tecnica ed organizzativa della
ditta appaltatrice (con riferimento in particolare
all’assenza di ogni dispositivo di protezione),
che non poteva sfuggire al committente.»
II) Dal suo canto, la sentenza Bifulco insegna
che «il committente è costituito come corresponsabile
con l’appaltatore per le violazioni
delle misure prevenzionali e protettive sulla base
degli obblighi sullo stesso incombenti art. 7
D.Lgs. n. 626/1994 [ora trasfuso nell’art. 26
D.Lgs. n. 81/2008]», e che, «in materia di infortuni
sul lavoro, nel caso di appalto di lavori di
ristrutturazione edilizia il committente, anche
quando non si ingerisce nella loro esecuzione,
rimane comunque obbligato a verificare l’idoneità
tecnico-professionale dell’impresa e dei
lavoratori autonomi prescelti in relazione ai lavori
affidati.»
Insegna, altresì, che «l’esistenza di un contratto
d’appalto o di un contratto d’opera, non esclude
la responsabilità del committente per gli infortuni
subiti dal medesimo, atteso che il committente è esonerato dagli obblighi in materia antinfortunistica
esclusivamente con riguardo ai
rischi specifici delle attività proprie dell’appaltatore
o del prestatore d’opera.»
Anche se poi nel caso specifico afferma che «la
motivazione addotta dalla sentenza impugnata
per ritenere la responsabilità dell’imputata, quale
proprietaria dell’immobile e committente dei
lavori, risulta ictu oculi insufficiente e generica,
dal momento che non consente di comprendere
come l’omesso fissaggio del telone s’inserisca
nella mancanza di coordinamento di cui all’art.
7 D.Lgs. n. 626/1994.»
(Per una illustrazione degli obblighi del committente
nel quadro dell’art. 26 D.Lgs. n. 81/2008 v. Guariniello, op. cit., specialmente 260
ss.: da segnalare, in ispecie, è, del medesimo
estensore della sentenza Varvarotto, Cass. 30.01.2012, Marangio e altri, ibid., 263 ss.)
(Corte di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 20.09.2012 n. 36284
- tratto da Igiene
e Sicurezza del Lavoro n. 11/2012). |
SICUREZZA
LAVORO:
Omessa nomina
del coordinatore
e responsabilità
del committente.
Nel corso di lavori di rifacimento del tetto di un
fabbricato affidati dal proprietario a una impresa
appaltatrice, un operaio dipendente di tale
impresa precipita al suolo dal quarto piano a
causa della mancata predisposizione di parapetti
in corrispondenza del cornicione esterno.
Oltre al datore di lavoro appaltatore, fu condannato
il committente, in quanto «aveva omesso
di designare il coordinatore per la progettazione
ed il coordinatore per l’esecuzione dei lavori,
donde la mancanza di un piano per la sicurezza
nonostante che nei cantiere operassero in contemporanea
due distinte imprese» e «qualora
fossero stati previsti nel piano di sicurezza e posti
in opera parapetti dell’altezza normativamente
prescritta, in ogni parte del cantiere (come
imposto dalla disciplina antinfortunistica sia
al committente che all’appaltatore) al fine di
impedire la caduta dall’alto, l’evento non si sarebbe
certamente verificato.»
Nel respingere il ricorso proposto dal solo committente,
la Sez. IV prende atto che «nel cantiere
operavano, anche se non in contemporanea,
più imprese», tanto è vero che, «il giorno
dell’infortunio,
erano impegnate nel cantiere ben
tre ditte individuali, subappaltatrici», e che «l’esecuzione
dei lavori di rifacimento del tetto
comportava ex se il rischio per gli operai di caduta
da altezza superiore a metri due dal suolo,
rischio espressamente previsto dall’Allegato II
al D.Lgs. n. 494/1996 [e ora Allegato XI al
D.Lgs. n. 81/2008].»
Osserva eloquentemente che «dalla mancata
nomina dei coordinatori per la progettazione e
per l’esecuzione dei lavori (cui il committente
era, nella concreta fattispecie, obbligato) è pertanto
conseguita la mancata redazione del piano
di sicurezza che, per quanto qui rileva, avrebbe
dovuto in particolare contenere misure generali
di protezione da adottare contro il rischio di caduta
dall’alto, nonché la predisposizione di accessi
e segnalazioni al fine di tutelare l’incolumità
dei lavoratori impegnati ad accedere alla
copertura del fabbricato e negli interventi veri
e propri di rifacimento del tetto.»
Considera «indubbia la relazione causale esistente
tra le omissioni ascritte al committente
e il verificarsi dell’evento», in quanto «la doverosa
(ma omessa) nomina del coordinatore per
la progettazione e per l’esecuzione dei lavori
cui era demandata ex lege l’adozione del piano
per la sicurezza del cantiere avrebbe comportato
la predisposizione di apposite e concrete misure
antinfortunistiche con la designazione di
colui che avrebbe dovuto controllarne la puntuale
ottemperanza», e «a tanto avrebbe fatto
seguito non solo l’istituzione del divieto di transito
nei punti più pericolosi, ma anche l’adozione
di parapetti dell’altezza normativamente prescritta.»
Conclude che, «alla stregua del giudizio c.d.
‘‘controfattuale’’, la condotta positiva omessa
sarebbe stata ex se atta ad impedire l’evento,
donde la comprovata sussistenza del nesso
eziologico».
Aggiunge che, «in caso di inosservanza alle
prescrizioni del piano, il coordinatore per l’esecuzione
dei lavori aveva l’espressa facoltà di
proporre la sospensione dell’esecuzione dei lavori,
provvedendo poi, in caso di inerzia o di
difetto di motivazione, a segnalare inadempienza
alla ASL ed alla direzione provinciale del lavoro,
competenti.»
(Circa l’omessa nomina dei coordinatori come
causa dell’infortunio occorso in un cantiere
con compresenza di più imprese v. i precedenti
richiamati da Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul
Lavoro commentato con la giurisprudenza, IV edizione,
Milano, 2012, 488 ss.) (Corte
di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 13.08.2012 n. 32433
- tratto da Igiene
e Sicurezza del Lavoro n. 11/2012). |
SICUREZZA
LAVORO:
Obblighi e responsabilità
del coordinatore
nei cantieri.
Ancora una illuminante sentenza della Corte
Suprema a proposito degli obblighi e delle responsabilità
del coordinatore per la progettazione
e del coordinatore per l’esecuzione nei cantieri
temporanei o mobili (quanto alla posizione
di garanzia dei coordinatori v. Guariniello, Il
T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la
giurisprudenza, IV edizione, Milano, 2012,
501 s. e 508 ss., cui aggiungi Cass. 14.06.2012, Gencarelli, e Cass.
07.06.2012, Goracci,
in ISL, 2012, 10, 544).
Condannato in primo grado dal Tribunale di
Parma, al pari del datore di lavoro dell’impresa
esecutrice dei lavori, per un infortunio sul lavoro,
il coordinatore per la progettazione e per l’esecuzione
dei lavori fu assolto dalla Corte
d’Appello di Bologna, sul presupposto che costui
«non era tenuto a sorvegliare che i lavoratori
facessero un uso puntuale e corretto dei
mezzi di protezione e ad impedire eventuali
condotte negligenti e imprudenti degli stessi.»
Nell’annullare con rinvio agli effetti civili la
sentenza di assoluzione, la Sez. IV prende atto
che l’imputato «rivestiva pacificamente la qualifica
di coordinatore per la progettazione e l’esecuzione
dei lavori per conto del committente», e che «si tratta di una figura che secondo
la giurisprudenza di questa Corte comporta rilevanti
oneri di protezione a carico di colui
che la riveste, le cui posizioni di garanzia
non si sovrappongono a quelle degli altri soggetti
responsabili nel campo della sicurezza
sul lavoro, ma ad esse si affiancano per realizzare,
attraverso la valorizzazione di una figura
unitaria con compiti di coordinamento e controllo,
la massima garanzia dell’incolumità
dei lavoratori.»
Ribadisce che «il coordinatore per l’esecuzione
dei lavori ha non soltanto il compito di organizzare
il lavoro tra le diverse imprese operanti
nello stesso cantiere, bensì anche quello di vigilare
sulla corretta osservanza da parte delle stesse
delle prescrizioni del piano di sicurezza e
sulla scrupolosa applicazione delle procedure
di lavoro a garanzia dell’incolumità dei lavoratori.»
Rileva che, «nella specie, l’imputato rivestiva
entrambe le qualifiche e dunque era suo compito
assolvere puntualmente gli obblighi.»
Rimprovera alla Corte d’Appello di Bologna di
non «aver correttamente inquadrato la figura di
tale soggetto ed essersi fatta carico di un effettivo
controllo circa il rispetto da parte dell’imputato
dei doveri che la stessa comporta». In
particolare, rileva che «non risulta neppure positivamente
accertato se il piano di sicurezza era
stato redatto, se in esse figuravano le necessarie
opere provvisionali e il coordinamento tra imprese
non solo con riferimento ai ponteggi perimetrali,
ma altresì in relazione ad eventuali altre
opere la cui realizzazione avesse comportato
l’esposizione a pericolo da parte dei lavoratori
addetti, come appunto la realizzazione dell’armatura
di una trave da realizzarsi a notevole altezza da terra.»
(Corte di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 10.08.2012 n. 32331
- tratto da Igiene
e Sicurezza del Lavoro n. 11/2012). |
SICUREZZA
LAVORO: Il datore di lavoro pubblico
in materia di sicurezza
del lavoro.
Ancora una sentenza della Corte Suprema sul
datore di lavoro pubblico in materia di sicurezza
del lavoro.
Ultimamente, la Sez. III osservò che «la definizione
di datore di lavoro, contenuta nell’art. 2
D.Lgs. n. 81/2008, ha dato esclusivo rilievo, ai
fini della individuazione dei soggetti titolari
del debito di sicurezza, al requisito della organizzazione
della attività, unito, ovviamente, all’esercizio
dei poteri decisionali e di spesa inerenti
la stessa», e che, «nella sua seconda parte,
l’art. 2, comma 1, lettera b), del citato decreto
individua la figura del datore di lavoro nelle
pubbliche amministrazioni, e, a differenza del
D.Lgs. n. 626/1994, il vigente 81/2008 recepisce,
esplicitandolo, lo stabile indirizzo giurisprudenziale
secondo il quale è l’organo di vertice
delle singole amministrazioni, ovverosia
l’organo di direzione politica, a dovere individuare
il dirigente, o il funzionario non dirigente,
cui attribuire la qualità di datore di lavoro».
Aggiunse che «mutuate dal predetto orientamento
della Corte di legittimità sono anche le
conseguenze che secondo il dettato del citato
decreto derivano dalla omessa individuazione
dell’organo politico del dirigente designato ad
assumere il debito di sicurezza», poiché «in tali
casi la qualifica di datore di lavoro continuerà a
coincidere con l’organo di vertice medesimo,
quindi con il sindaco». (Così Cass. 20.04.2012, in Dir. prat. lav., 2012, 22, 1446. Sul tema
v. anche Cass. 28.09.2011, Laganà e
R.C, ibid., 2012, 4, 233; Cass. 06.06.2011,
Betti, ibid., 2011, 8-9, 674; Cass. 05.05.2011, Angeloni e altri, ibid., 2011, 6, 360, alle
cui note si rinvia per il richiamo di ulteriori riferimenti
giurisprudenziali).
Nel caso ora esaminato dalla presente sentenza,
il direttore generale di un consorzio intercomunale
rifiuti, energia servizi, ente consortile con
personalità giuridica ed autonomia negoziale,
fu dichiarato colpevole quale datore di lavoro
per più violazioni antinfortunistiche, sul presupposto
che lo statuto del consorzio «attribuisce
al direttore generale ampi e pregnanti poteri
gestionali, decisionali e di spesa, propri del datore
di lavoro».
A sua discolpa, l’imputato lamenta che, «secondo
il T.U. 81/2008, che ha mutuato l’indirizzo
giurisprudenziale, compete all’organo di direzione
politica il dovere di individuare il dirigente
cui attribuire la qualità di datore di lavoro», e
che, «non risultando alcuna delega, la qualifica
di datore di lavoro non poteva che competere al
presidente del consorzio».
La Sez. III non è d’accordo.
Premette che, «ai fini dell’applicazione della
normativa antinfortunistica, datore di lavoro
sia il soggetto titolare del rapporto di lavoro
con il lavoratore o, comunque, il soggetto
che, secondo il tipo e l’organizzazione dell’impresa,
ha la responsabilità dell’impresa stessa
ovvero dell’unità produttiva», e che «nelle pubbliche
amministrazioni per datore di lavoro si
intende il dirigente al quale spettano i poteri gestionali,
decisionali e di spesa, ovvero il funzionario
non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio
avente autonomia gestionale».
Nel richiamare Cass. 17.07.2009 Corea e altro (in
Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro
commentato con la giurisprudenza, IV edizione,
Milano, 2012, 22), precisa che «gli obblighi
di prevenzione infortuni e sicurezza in luoghi di
lavoro, che per legge fanno capo al datore di lavoro,
nel settore degli enti pubblici gravano sul
titolare effettivo del potere di gestione», e che
«tali obblighi possono gravare su un funzionario
non avente qualifica dirigenziale qualora
lo stesso, a norma dell’art. 2 del D.Lgs. n. 81
del 2008, sia preposto ad un ufficio avente
autonomia gestionale, individuato dall’organo
di vertice dell’amministrazione tenendo conto
dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli
uffici nei quali viene svolta l’attività e sia altresì
dotato di poteri decisionali e di spesa».
Rileva come «il datore di lavoro, individuato
secondo i criteri sopra indicati, possa delegare
gli obblighi su di lui gravanti ad altri, con conseguente
sostituzione e subentro del delegato
nella posizione di garanzia, ma l’atto di delega
deve essere espresso, inequivoco e certo, dovendo
inoltre investire persona tecnicamente
capace, dotata delle necessarie cognizioni tecniche
e dei relativi poteri decisionali e di intervento,
che abbia accettato lo specifico incarico,
fermo restando l’obbligo per il datore di lavoro
di vigilare e controllare che il delegato usi, poi,
concretamente la delega, secondo quanto la
legge prescrive», e, quindi, come «la delega è
in linea generale ed astratta consentita, ma
per essere rilevante ai fini dell’esonero da responsabilità
del delegante, deve avere i seguenti
requisiti: essere puntuale ed espressa, senza
che siano trattenuti in capo al delegante poteri
residuali di tipo discrezionale; il soggetto delegato
deve essere tecnicamente idoneo e professionalmente
qualificato per lo svolgimento del
compito affidatogli; il trasferimento delle funzioni
deve essere giustificato in base alle esigenze
organizzative dell’impresa; unitamente
alle funzioni debbono essere trasferiti i correlativi
poteri decisionali e di spesa; l’esistenza
della delega deve essere giudizialmente provata
in modo certo».
Afferma che, nel caso di specie, «mentre l’art.
20 dello statuto dell’ente attribuisce al presidente
del consiglio di amministrazione, oltre alla
rappresentanza legale del consorzio, mere funzioni
generali di raccordo, di coordinamento e
di vigilanza, l’art. 28 attribuisce al direttore generale
ampi poteri gestionali, decisionali e di
spesa, assegnandogli ‘‘la responsabilità gestionale
del consorzio’’, la possibilità di operare
‘‘assicurando il raggiungimento dei risultati
programmatici, sia in termini di servizio che
in termini economici’’ e, in particolare, i compiti
di ‘‘dirigere il personale del consorzio, organizzare
funzioni ed attribuzioni di servizi,
settori e coordinamenti di aree; predisporre i
piani di formazione ed aggiornamento del personale;
provvedere agli acquisti in economia
ed alle spese indispensabili per il normale ed
ordinario funzionamento del consorzio ed entro
i limiti e con le modalità previste da apposito
regolamento; firmare gli ordinativi di incasso
ed i mandati di pagamento».
Conclude che «il direttore generale del consorzio
aveva, a norma di statuto, poteri gestionali,
decisionali e di spesa e, quindi, su di lui gravavano
gli obblighi di prevenzione infortuni e sicurezza
nei luoghi di lavoro», e che «non risulta
che tali obblighi siano stati delegati ad altri» (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.07.2012 n. 28410
- tratto da Igiene
e Sicurezza del Lavoro n. 10/2012). |
SICUREZZA
LAVORO:
Direttore dei lavori
e coordinatori nei cantieri.
Di notevole interesse, in questa sentenza, è quel
che s’insegna a proposito della posizione di garanzia
vuoi del direttore dei lavori, vuoi dei
coordinatori, nell’ambito dei cantieri temporanei
o mobili.
Invero, la Sez. IV, dopo aver ribadito la responsabilità
del datore di lavoro dell’imprese esecutrice,
sottolinea che «le posizioni di garanzia
del coordinatore per la progettazione e del coordinatore
per l’esecuzione non si sovrappongono
a quelle degli altri soggetti responsabili nel
campo della sicurezza sul lavoro, ma ad esse
si affiancano per realizzare, attraverso la valorizzazione
di una figura unitaria con compiti
di coordinamento e controllo, la massima garanzia
dell’incolumità dei lavoratori».
E insegna, inoltre, che «il direttore dei lavori o
responsabile dei lavori edili è titolare di una posizione
di garanzia nei confronti dei lavoratori,
ed ha, pertanto, l’obbligo di predisporre e fare
osservare i presidi di sicurezza richiesti dalla
legge per l’esecuzione dei predetti lavori, a nulla
rilevando la compresenza di un ‘‘coordinatore
della sicurezza in fase di progettazione’’ e di
un ‘‘coadiutore della sicurezza in fase di esecuzione’’,
a loro volta titolari di autonome e concorrenti posizioni di
garanzia». (Quanto alla posizione
di garanzia dei coordinatori v. Guariniello,
Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato
con la giurisprudenza, IV edizione, Milano,
2012, 501 ss. e 508 ss.; sulle responsabilità
del direttore dei lavori cfr., in particolare, Cass.
31.05.2012, Ciulla e altro, in ISL, 2012,
..., alla cui nota si rinvia per ulteriori riferimenti
giurisprudenziali) (Corte
di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 14.06.2012 n. 23630
- tratto da Igiene
e Sicurezza del Lavoro n. 10/2012). |
SICUREZZA
LAVORO:
PSC generico
e responsabilità
del coordinatore
per la progettazione.
In un cantiere aperto per il rifacimento della
facciata di un fabbricato, un dipendente dell’impresa
esecutrice con qualifica di tinteggiatore,
«mentre stava smontando il ponteggio utilizzato,
impugnava un tavolone di legno, della
lunghezza di circa quattro metri, del peso di
26 chilogrammi, per caricarlo sul camion», «inciampava
su di un cordolo di cemento alto circa
35 centimetri posto a poca distanza da un lucernario,
chiuso con pezzi di legno e nylon che
non reggeva il peso dell’operaio», e «rovinava
al suolo, da una altezza di diversi metri».
A dire dei giudici di merito, «l’apertura, presente
nel piazzale antistante il fabbricato, non era
stata adeguatamente coperta e costituiva perciò
una palese fonte di pericolo, proprio in relazione
alle possibili cadute delle persone che operavano
nel cantiere»; e il «coordinatore per la
progettazione e la esecuzione delle opere avrebbe
dovuto evidenziare tale rischio nel piano di
sicurezza e coordinamento e provvedere alla
eliminazione in concreto della fonte di pericolo», là dove per contro «il piano, su tale punto,
risultava di converso del tutto generico».
Nel confermare la condanna dell’imputato, la
Sez. IV ritiene che il coordinatore della sicurezza,
«in presenza di una copertura che appariva
del tutto inadeguata, avrebbe dovuto provvedere
a mettere in sicurezza il lucernario», e che,
«sul punto, il piano di sicurezza e coordinamento
era stato redatto dall’imputato in modo del
tutto generico, in assenza di alcun coordinamento
con le diverse ditte che si erano occupate
della ristrutturazione dello stabile».
Osserva che «l’appaltatore è il destinatario degli
obblighi prevenzionali, salvi alcuni obblighi
specifici che restano a carico del committente,
quali l’informazione sui rischi dell’ambiente
di lavoro e la cooperazione nell’apprestamento
delle misure di protezione e prevenzione», e
che, «nel caso di specie, vengono in rilievo proprio
i rischi connessi all’ambiente di lavoro, in
relazione all’apertura presente nel piazzale antistante
il fabbricato».
Né il reato di lesione personale colposa ascritto
all’imputato risulta improcedibile per difetto di
querela: «l’infortunio si era verificato all’interno
di un cantiere, a causa della violazione delle
norme di sicurezza, con riferimento al piano di
sicurezza e coordinamento redatto dall’imputato. Di talché certamente sussisteva l’aggravante
di cui all’art. 590, comma 3, c.p., ed il reato risultava
perseguibile di ufficio».
(Sulla responsabilità del coordinatore per insufficienza
o incompletezza del PSC v. Guariniello,
Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato
con la giurisprudenza, IV edizione, Milano,
2012, 501 ss.) (Corte
di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 07.06.2012 n. 22044
- tratto da Igiene
e Sicurezza del Lavoro n. 10/2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L’art. 49 t.u. 267/2000 (ex art. 53, l. n.
142/1990) stabilisce che “su ogni proposta di deliberazione
sottoposta alla giunta ed al consiglio che non sia mero atto
di indirizzo deve essere richiesto il parere in ordine alla
sola regolarità tecnica del responsabile del servizio
interessato e, qualora comporti impegno di spesa o
diminuzione di entrata, del responsabile di ragioneria in
ordine alla regolarità contabile. I pareri sono inseriti
nella deliberazione”.
Conseguentemente, a pena di illegittimità, il parere di
regolarità tecnica deve essere richiesto anche sugli
emendamenti alla proposta di regolamento, se si consentisse,
infatti, in presenza di una “delibera integralmente
emendata” di prescindere dai pareri preventivi, la portata
precettiva della citata disposizione sarebbe agevolmente
aggirabile.
Giova, innanzi tutto,
richiamare l’art. 53, primo comma, della legge 08.06.1990,
n. 142, applicabile ratione temporis alla fattispecie
dedotta, il quale stabiliva che “Su ogni proposta di
deliberazione sottoposta alla giunta ed al consiglio che non
sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere
in ordine alla sola regolarità tecnica del responsabile del
servizio interessato e, qualora comporti impegno di spesa o
diminuzione di entrata, del responsabile di ragioneria in
ordine alla regolarità contabile. I pareri sono inseriti
nella deliberazione”.
In ordine alle conseguenze invalidanti della mancanza del
menzionato parere, è stato chiarito in giurisprudenza che la
deliberazione comunale priva del predetto parere è
illegittima (Consiglio Stato, sez. V, 15.02.2000, n. 808),
mentre la mera irregolarità si configura allorché il parere
sia stato reso, ma non risulti allegato e, comunque, non se
contesti l’esistenza (Consiglio Stato, sez. IV, 20.09.2005
n. 4818).
Nel caso di specie, come correttamente affermato dai primi
giudici, è indubbio che il parere non sia stato reso sulle
prescrizioni regolamentari approvate a seguito della
presentazione di emendamenti all’originaria proposta
(rispetto alla quale, dunque, pongono disposizioni
innovative).
Orbene, se si consentisse, in presenza di una “delibera
integralmente emendata”, di prescindere da ogni giudizio
di compatibilità obbligatoriamente affidato ai pareri
preventivi, la portata precettiva del citato art. 53 sarebbe
agevolmente aggirabile (e, dunque, vanificata), mediante il
ricorso ad un diverso procedimento di formazione della
decisione amministrativa.
In realtà, se è vero che la presentazione dell’emendamento
strutturalmente si colloca in una fase procedimentale di
norma successiva alla conclusione dell’iter svolto dagli
uffici, è altrettanto vero che, come osservato
dall’amministrazione regionale, la proposta di deliberazione
e l’emendamento sono, da un punto di vista funzionale, atti
di iniziativa procedimentale del tutto identici,
differenziandosi solo quanto alla provenienza, sicché
sarebbe artificioso, e irragionevolmente discriminatorio,
ritenere assoggettata all’obbligo del parere preventivo solo
la prima e non anche il secondo
(C.G.A.R.S.,
sentenza 04.02.2010 n. 105 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
pubblicazione prescritta dall'art. 124 dlgs 267/2000
riguarda non solo le deliberazioni degli organi di governo
(consiglio e giunta municipali) ma anche le determinazioni
dirigenziali, dal momento che la parola "deliberazione"
designa, da sempre, le risoluzioni adottate sia da organi
collegiali sia da organi monocratici, nell'intento di
rendere pubblici tutti gli atti degli enti locali di
esercizio del potere deliberativo, indipendentemente dalla
natura collegiale o meno dell'organo emanante.
Quel precetto dispone che, quando non é necessaria la
notificazione individuale del provvedimento ed é al contempo
prescritta da una norma di legge o di regolamento la
pubblicazione dell'atto in un apposito albo, il termine per
proporre l'impugnazione decorre dal giorno in cui sia
scaduto il periodo della pubblicazione, a conferma del
consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo il quale il
normale termine decadenziale per ricorrere contro gli atti
amministrativi soggetti a pubblicazione necessaria decorre,
per i soggetti non espressamente nominati, dalla
pubblicazione medesima, non essendo indispensabile la
notificazione individuale o la piena conoscenza (C.d.S., V
23.04.2001, n. 2428).
L’articolo 124 del citato decreto legislativo n. 267/2000
adempie pertanto alla funzione di rendere conoscibile, a
tutti i soggetti non espressamente contemplati dall’atto; la
statuizione pubblicata nell'albo pretorio del Comune, con la
conseguenza che l’odierna appellante, non possedendo alcuna
specifica veste rispetto agli atti in questione, va
annoverata tra i soggetti rispetto ai quali la norma da
ultimo citata svolge pienamente la funzione assegnatagli
dall’ordinamento.
Va soggiunto che la pubblicazione prescritta dall'art. 124
riguarda non solo le deliberazioni degli organi di governo
(consiglio e giunta municipali) ma anche le determinazioni
dirigenziali, dal momento che la parola "deliberazione"
designa, da sempre, le risoluzioni adottate sia da organi
collegiali sia da organi monocratici, nell'intento di
rendere pubblici tutti gli atti degli enti locali di
esercizio del potere deliberativo, indipendentemente dalla
natura collegiale o meno dell'organo emanante (Corte cost.
nn. 38 e 39 del 01.06.1979; C.d.S., IV, 06.12.1977, n. 1129,
come recepite da C.d.S., V, 03.06.2002, n. 3058 e
15.03.2006, n. 1370)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 18.12.2009 n. 8400 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
In tema di impugnazione di concessione edilizia
rilasciata per la costruzione di un nuovo edificio,
l'interesse a ricorrere del proprietario di un’area situata
in prossimità del sito interessato dall’intervento
edificatorio trova piena giustificazione quando esiste una
situazione soggettiva ed oggettiva di stabile collegamento
con la zona coinvolta dalla costruzione e quest’ultima sia
idonea ad arrecare, se illegittimamente assentita, un
pregiudizio ai valori urbanistici della zona medesima.
Pertanto, la qualifica giuridica di proprietario di un bene
immobile confinante deve di per sé ritenersi idonea a creare
la legittimazione e l'interesse al ricorso, non occorrendo
anche la verifica della concreta lesione di un qualsiasi
altro interesse di rilevanza giuridica, riferibile a norme
di diritto privato o di diritto pubblico.
Con la conseguenza che, riconosciuta la legittimazione ad
agire, la valutazione sull’utilità o meno dei provvedimenti
impugnati al fine di chiederne o meno l’annullamento, non
può che essere rimessa alle determinazioni insindacabili del
titolare del diritto all’azione, non potendosi certamente
ritenere insussistente l’interesse alla pronuncia
caducatoria sulla base dei contrapposti apprezzamenti
discrezionali delle parti resistenti.
In tema di impugnazione di concessione edilizia rilasciata
per la costruzione di un nuovo edificio, l'interesse a
ricorrere del proprietario di un’area situata in prossimità
del sito interessato dall’intervento edificatorio trova
piena giustificazione quando esiste una situazione
soggettiva ed oggettiva di stabile collegamento con la zona
coinvolta dalla costruzione e quest’ultima sia idonea ad
arrecare, se illegittimamente assentita, un pregiudizio ai
valori urbanistici della zona medesima.
Pertanto, la qualifica giuridica di proprietario di un bene
immobile confinante deve di per sé ritenersi idonea a creare
la legittimazione e l'interesse al ricorso, non occorrendo
anche la verifica della concreta lesione di un qualsiasi
altro interesse di rilevanza giuridica, riferibile a norme
di diritto privato o di diritto pubblico (cfr. Cons. Stato,
Sez. IV, 31.05.2007 n. 2849).
Con la conseguenza che, riconosciuta la legittimazione ad
agire, la valutazione sull’utilità o meno dei provvedimenti
impugnati al fine di chiederne o meno l’annullamento, non
può che essere rimessa alle determinazioni insindacabili del
titolare del diritto all’azione, non potendosi certamente
ritenere insussistente l’interesse alla pronuncia
caducatoria sulla base dei contrapposti apprezzamenti
discrezionali delle parti resistenti
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 22.07.2009 n. 1375 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La definizione di centro abitato non è
rinvenibile in termini univoci nel quadro normativo,
soccorrendo, allo scopo, l’esistenza di criteri empirici
elaborati dalla giurisprudenza amministrativa formatasi sul
punto.
In particolare, si è recentemente affermato che il centro
abitato va identificato nella situazione di fatto
determinata dalla presenza di un aggregato di case continue
e vicine, con interposte strade, piazze e simili, o comunque
brevi soluzioni di continuità.
Osserva il Collegio che la
definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini
univoci nel quadro normativo, soccorrendo, allo scopo,
l’esistenza di criteri empirici elaborati dalla
giurisprudenza amministrativa formatasi sul punto.
In particolare, si è recentemente affermato che il centro
abitato va identificato nella situazione di fatto
determinata dalla presenza di un aggregato di case continue
e vicine, con interposte strade, piazze e simili, o comunque
brevi soluzioni di continuità (cfr: TAR Lombardia, Sez. II,
20.03.2009 n. 1768)
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 22.07.2009 n. 1375 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’art. 14 del DPR 06.06.2001 n. 380 stabilisce
testualmente che “Il permesso di costruire in deroga agli
strumenti urbanistici generali è rilasciato esclusivamente
per edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico,
previa deliberazione del consiglio comunale, nel rispetto
comunque delle disposizioni contenute nel decreto
legislativo 29.10.1999, n. 490, e delle altre normative di
settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività
edilizia”.
Ai fini dell’applicazione della predetta deroga, la
questione della riconducibilità delle strutture alberghiere
tra gli “edifici ed impianti pubblici o di interesse
pubblico” è stata già affrontata e risolta dalla
giurisprudenza amministrativa nel senso di ritenerle
comprese nell’ambito di applicazione dell’anzidetta
previsione “trattandosi di un servizio offerto alla
collettività e caratterizzato da una pubblica fruibilità,
con la correlativa possibilità di concessioni in deroga alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici in vigore”.
---------------
Laddove il territorio interessato possieda una vocazione
turistica prevalente, la riconduzione all'interesse pubblico
dell'edificio alberghiero non richiede affatto
un'interpretazione estensiva ed è anzi compatibile con una
lettura restrittiva rispetto a diverse attività economiche
che non presentino le medesime caratteristiche di rilevanza
urbanistica e culturale, ma che solo possano accampare il
loro peso economico.
Sostengono ancora i ricorrenti
che nel caso di specie l’amministrazione intimata avrebbe
fatto illegittimo uso dell’istituto della concessione
edilizia in deroga, non sussistendo, nella specie, i
presupposti di interesse pubblico che avrebbero potuto
legittimare il rilascio di un titolo edilizio in contrasto
con la normativa urbanistica comunale.
L’art. 14 del DPR 06.06.2001 n. 380, che i ricorrenti
assumono violato, stabilisce testualmente che “Il
permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici
generali è rilasciato esclusivamente per edifici ed impianti
pubblici o di interesse pubblico, previa deliberazione del
consiglio comunale, nel rispetto comunque delle disposizioni
contenute nel decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, e
delle altre normative di settore aventi incidenza sulla
disciplina dell'attività edilizia”.
Osserva il Collegio che ai fini dell’applicazione della
predetta deroga, la questione della riconducibilità delle
strutture alberghiere tra gli “edifici ed impianti
pubblici o di interesse pubblico” è stata già affrontata
e risolta dalla giurisprudenza amministrativa nel senso di
ritenerle comprese nell’ambito di applicazione
dell’anzidetta previsione “trattandosi di un servizio
offerto alla collettività e caratterizzato da una pubblica
fruibilità, con la correlativa possibilità di concessioni in
deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici in
vigore” (Cons. Stato, Sez. IV, 29.10.2002 n. 5913).
Inoltre, nel caso di specie, con la delibera n. 31 del
19.07.2004, di approvazione della concessione della deroga
recante l’elevazione dell’indice di edificabilità da 0,4 mc/mq
a 0,95 mc/mq, il Consiglio comunale ha espressamente
evidenziato, in termini affatto irragionevoli, ulteriori
profili di interesse pubblico dell’opera, rilevando che la
struttura alberghiera in questione è funzionale allo
sviluppo economico del Comune di Sant’Anna Arresi con
particolare riferimento all’incremento del settore turistico
ed alle ricadute occupazionali dell’indotto; nonché con
riguardo alla sviluppo ed alla valorizzazione dell’intera
area.
In proposito la giurisprudenza ha altresì precisato che “laddove
il territorio interessato possieda una vocazione turistica
prevalente, la riconduzione all'interesse pubblico
dell'edificio alberghiero non richiede affatto
un'interpretazione estensiva ed è anzi compatibile con una
lettura restrittiva rispetto a diverse attività economiche
che non presentino le medesime caratteristiche di rilevanza
urbanistica e culturale, ma che solo possano accampare il
loro peso economico” (Consiglio Stato, sez. IV,
28.10.1999, n. 1641)
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 22.07.2009 n. 1375 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Circa l’ammissibilità del
rilascio di concessioni o permessi di costruire in deroga,
la giurisprudenza amministrativa aveva inizialmente
interpretato l’espressione “impianti di interesse pubblico”,
di cui all’art. 41-quater della L. 17.08.1942, n. 1150
(trasfuso nell’attuale art. 14 del T.U. sull’edilizia,
approvato con D.P.R. 06.06.2001, n. 380), ad essi
riconducendo solo interventi corrispondenti a compiti
assunti direttamente dalla pubblica amministrazione.
Successivamente si è, peraltro, registrata un’evoluzione,
poi consolidatasi nel diritto vivente, nel senso di ritenere
applicabile la stessa norma anche a strutture dove venga
offerto un servizio alla collettività, caratterizzate da una
pubblica fruibilità. E’ stato considerato, infatti, che
l'art. 16 della legge 06.08.1967, n. 765 preveda la
possibilità di esercizio di un potere di deroga alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici per manufatti sia
pubblici (cioè gestiti da enti pubblici) che di interesse
pubblico (ossia gestiti da soggetti indifferentemente
pubblici o privati, aventi peraltro l’identica missione di
soddisfare esigenze della collettività di tipo economico,
bancario-assicurativo, culturale, industriale, igienico,
religioso o turistico-alberghiero).
In particolare, questa nuovo indirizzo della giurisprudenza
ha riguardato le strutture alberghiere, ritenute a pieno
titolo ricomprese tra gli impianti di interesse pubblico,
per i quali è consentito il rilascio di concessione edilizia
in deroga. Questo peculiare interesse pubblico, in
particolare, ha trovato base e ragione nello sviluppo del
turismo e della cultura.
... per l'annullamento della deliberazione del Consiglio
comunale di Besenello n. 39 del 29.11.2005, avente ad
oggetto la “richiesta di concessione edilizia in deroga e
in parziale sanatoria" ...
...
Passando alle considerazioni del Collegio, va premesso che,
circa l’ammissibilità del rilascio di concessioni o permessi
di costruire in deroga, la giurisprudenza amministrativa
aveva inizialmente interpretato l’espressione “impianti
di interesse pubblico”, di cui all’art. 41-quater della
L. 17.08.1942, n. 1150 (trasfuso nell’attuale art. 14 del
T.U. sull’edilizia, approvato con D.P.R. 06.06.2001, n.
380), ad essi riconducendo solo interventi corrispondenti a
compiti assunti direttamente dalla pubblica amministrazione
(vd., ad es.: Cons. St., V, 11.12.1992, n. 1428; IV,
25.11.1988, n. 774).
Successivamente si è, peraltro, registrata un’evoluzione,
poi consolidatasi nel diritto vivente, nel senso di ritenere
applicabile la stessa norma anche a strutture dove venga
offerto un servizio alla collettività, caratterizzate da una
pubblica fruibilità. E’ stato considerato, infatti, che
l'art. 16 della legge 06.08.1967, n. 765 preveda la
possibilità di esercizio di un potere di deroga alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici per manufatti sia
pubblici (cioè gestiti da enti pubblici) che di interesse
pubblico (ossia gestiti da soggetti indifferentemente
pubblici o privati, aventi peraltro l’identica missione di
soddisfare esigenze della collettività di tipo economico,
bancario-assicurativo, culturale, industriale, igienico,
religioso o turistico-alberghiero).
In particolare, questa nuovo indirizzo della giurisprudenza
ha riguardato le strutture alberghiere, ritenute a pieno
titolo ricomprese tra gli impianti di interesse pubblico,
per i quali è consentito il rilascio di concessione edilizia
in deroga (vd.: Cons. St., V, 11.01.2006, n. 46; IV,
12.01.2005, n. 7031; IV, 29.10.2002, n. 5913; IV,
28.10.1999, n. 1641; V, 15.07.1998, n. 1044). Questo
peculiare interesse pubblico, in particolare, ha trovato
base e ragione nello sviluppo del turismo e della cultura.
---------------
Ritiene, tuttavia, il Collegio
che, nella fattispecie, l’onere della motivazione non sia
stato né sufficientemente né correttamente assolto, essendo
stato fatto riferimento ad esigenze di natura esclusivamente
urbanistica, riferite all’asserita compromissione della
pianificazione comunale di zona.
La prodotta domanda di deroga edilizia presupponeva,
peraltro, che fosse prioritariamente individuato lo
specifico interesse pubblico ad essa sotteso (nella specie,
di tipo economico ed occupazionale), al fine di porlo a
raffronto con quello perseguito dalla pianificazione
urbanistica e statuendo successivamente sulla prevalenza
dell’uno rispetto all’altro..
L'intervento in deroga, infatti, in tanto può ritenersi
ammissibile in quanto le opere abusivamente realizzate
risultino destinate a finalità di interesse pubblico: in tal
caso, infatti, l'ordinamento consente di derogare alla
ordinaria disciplina pianificatoria, privilegiando il
concorrente interesse pubblico sotteso alla deroga (cfr.,
ibidem: Cons. St., V, 11.01.2006, n. 46).
La previsione di tale specifico potere esclude, tuttavia,
per la contraddizione che non consente la diversa
conclusione che si possa attribuire rilevanza preclusiva
alla valutazione del solo contrasto con la pianificazione
urbanistica comunale di zona
(TRGA Trentino
Alto Adige-Trento, Sez. I,
sentenza 18.06.2009 n. 194 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: E'
legittimo l'affidamento della gestione della pubblicità
all'interno di uno stadio, unitamente alla concessione in
uso dello stadio stesso, dal momento che esso non può essere
qualificato come appalto di un servizio pubblico (per il
quale occorre esperire la procedura dell’evidenza pubblica),
nel caso in cui l'amministrazione abbia inteso frazionare
l'uso pubblicitario dell'impianto sportivo, considerando la
gestione della pubblicità come facoltà accessoria alla
concessione di uso predetta.
Pertanto, è legittima la scelta del comune di non svolgere
più la gestione dell'utilizzazione pubblicitaria di uno
spazio pubblico, né tramite proprie strutture, né tramite
appalto, poiché ai sensi dell'art. 5 d.lgs. 17.03.1995 n.
157, le norme del citato decreto non si applicano ai
contratti aventi ad oggetto la locazione di edifici o altri
immobili pubblici o i diritti ad essi inerenti.
Le considerazioni che si sono espresse sopra sono utili al
fine di ritenere infondato anche il secondo motivo di
ricorso, con il quale il ricorrente lamenta la violazione
dell’art. 81 del Trattato UE, dell’art. 3 del R.D. n.
2440/1924, dell’art. 41 del R.D. n. 827/1924, del d.lgs. n.
157 del 1995, dell’art. 3 della l. n. 241 del 1990, difetto
assoluto di motivazione, carenza di istruttoria ed eccesso
di potere, perché se è vero che prevalenti ragioni di
interesse pubblico giustificano la concessione degli
impianti sportivi alla maggiore squadra cittadina mediante
affidamento diretto, tuttavia ciò non vale per quanto
riguarda le attività commerciali e di sfruttamento economico
previste nella convenzione e non attinenti allo spettacolo
sportivo, rispetto alle quali non sarebbe giustificata la
deroga dalla regola della procedura concorsuale.
In sostanza, il ricorrente non si duole dell’affidamento
diretto dello stadio alla maggiore squadra cittadina, ma
sostiene che per lo svolgimento delle attività commerciali
all’interno delle stadio, nonché per la gestione della
pubblicità, il comune avrebbe dovuto procedere ad una gara
pubblica.
Della questione si è già occupato questo Tar nonché, in
senso conforme, il Consiglio di Stato, cosicché questo
collegio non vede ragione per discostarsi dalle conclusioni
cui è già giunta la giurisprudenza amministrativa.
Si è affermato infatti in quella occasione che è legittimo
l'affidamento della gestione della pubblicità all'interno di
uno stadio, unitamente alla concessione in uso dello stadio
stesso, dal momento che esso non può essere qualificato come
appalto di un servizio pubblico (per il quale occorre
esperire la procedura dell’evidenza pubblica), nel caso in
cui l'amministrazione abbia inteso frazionare l'uso
pubblicitario dell'impianto sportivo, considerando la
gestione della pubblicità come facoltà accessoria alla
concessione di uso predetta.
Pertanto, è legittima la scelta del comune di non svolgere
più la gestione dell'utilizzazione pubblicitaria di uno
spazio pubblico, né tramite proprie strutture, né tramite
appalto, poiché ai sensi dell'art. 5 d.lgs. 17.03.1995 n.
157, le norme del citato decreto non si applicano ai
contratti aventi ad oggetto la locazione di edifici o altri
immobili pubblici o i diritti ad essi inerenti (Tar Napoli,
I sez., n. 960/1998 e Consiglio Stato , sez. V, 17.10.2002 ,
n. 5671).
E’ opportuno ripercorrere brevemente i tratti essenziali
della motivazione delle menzionate pronunce.
La citata giurisprudenza muove dall’assunto che gli impianti
sportivi di proprietà comunale appartengono al patrimonio
indisponibile del comune ai sensi dell'art. 826 comma ultimo
c.c. essendo destinati al soddisfacimento dell'interesse
proprio dell'intera collettività allo svolgimento delle
attività sportive che in essi hanno luogo.
In questo quadro, la scelta del comune di Napoli di
concedere unitamente allo stadio anche la gestione
pubblicitaria dell'impianto sportivo, sempre se ed in quanto
collegata allo specifico uso convenuto, fa sì che la
fattispecie non possa essere qualificata in termini di
appalto di un servizio pubblico, posto che il comune si è
determinato nel senso di considerare la gestione della
pubblicità come facoltà accessoria alla concessione di uso
dello stadio comunale, nella specie alla SS Calcio Napoli,
per le manifestazioni dalla stessa organizzate, nel quadro
di una convenzione ad oggetto misto.
Pertanto, è legittima la concessione in uso dell'impianto,
appartenente al patrimonio indisponibile, alla maggiore
squadra cittadina, includendo in tale convenzione anche lo
sfruttamento a fini pubblicitari degli spazi a tal fine
disponibili, limitatamente alle manifestazioni sportive di
cui la società sarà protagonista, ferma ed impregiudicata la
potestà dello stesso Comune di disporre diversamente per le
manifestazioni diverse da tali partite di calcio,
presumibilmente affidate ad altri privati interessati.
Infatti, per espressa disposizione dell'art. 5 del d.lgs. n.
157 del 1995, le norme del detto decreto non si applicano ai
contratti aventi ad oggetto la locazione di edifici o altri
immobili pubblici o i diritti ad essi inerenti. Ne consegue
che per l’attribuzione al concessionario dell'immobile
pubblico di una facoltà ad esso inerente e compatibile con
la destinazione dell'impianto, qual è lo sfruttamento a fini
pubblicitari della spazio concesso, e per il tempo in cui è
stato concesso, non doveva procedersi secondo le norme del
d.lgs. n. 157 del 1995.
Peraltro, anche qualora si volesse ritenere, come non sembra
condivisibile, che la facoltà concessa, senza l'espletamento
di una procedura concorsuale, riguardasse comunque un
servizio pubblico, la legittimità del provvedimento
impugnato troverebbe comunque sostegno anche nella normativa
che regge specificamente la materia delle concessioni di
servizi. L'art. 267 del R.D. 14.09.1931 n. 1175, infatti,
ammette che l'affidamento di servizi a trattativa privata
quando "circostanze speciali in rapporto alla natura dei
servizi lo consigliano".
Tali considerazioni, svolte in materia di gestione del
servizio pubblicitario, e pienamente condivise dal collegio,
possono essere sicuramente estese anche alle altre attività
commerciali (servizio bouvette, ecc.).
Il motivo, per tutte queste ragioni, deve essere respinto
(TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 19.09.2007 n. 7878 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Nell’attuale
ordinamento degli enti locali, le questioni di copertura
finanziaria non attengono più alla validità del
provvedimento. Infatti, a seguito della riscrittura
dell'ordinamento contabile e della nuova distribuzione di
competenze tra organi politico-amministrativi e responsabili
dei singoli servizi, la copertura finanziaria, che prima era
un prius, successivamente è divenuta, dal punto di vista
dell'attestazione formale, un posterius.
La norma dell'art. 55, comma 5, l. 08.06.1990 n. 142 (oggi
art. 151 del D.lgs. n. 267/2000), è stata infatti modificata
nel senso che l'attestazione di copertura ha assunto un
significato accertativo della necessaria copertura di
bilancio dell'atto emanato nel contesto del richiesto visto
di regolarità contabile, che riguarda anche l'esatta
imputazione di spesa.
In altri termini, l'attestazione di copertura finanziaria
non precede più l'impegno, né soprattutto è requisito di
validità, ma accede, completandolo, alla relativa
deliberazione o determinazione di spesa di cui diventa
condizione di esecutività, con la conseguenza che la sua
mancanza non comporta la nullità dell'atto di spesa.
Quanto al parere preventivo di regolarità contabile, si è
affermato che esso, certamente necessario al fine di fornire
una istruttoria completa, non pone tuttavia alcun limite
alla potestà deliberante della giunta e del consiglio
comunale, che possono liberamente disporre del contenuto
delle proposte di deliberazione, dopo che su queste ultime
sia stato acquisito, quale elemento formale dell'iter
procedimentale, il parere dei predetti organi tecnici. Ove
si opinasse diversamente, si finirebbe inammissibilmente con
il conferire ai citati organi consuntivi l'effettivo potere
di amministrazione, degradando la giunta ed il consiglio ad
una funzione di mera ratifica di determinazioni
amministrative sostanzialmente imputabili ad altri soggetti.
Requisito di legittimità della delibera collegiale, dunque,
è unicamente l’acquisizione dei prescritti pareri.
---------------
I pareri ex art. 53 l. 08.06.1990 n. 142 (oggi art. 49 del
T.U.e.l.), resi dal responsabile del servizio, dal
responsabile del settore ragioneria e dal segretario
comunale sui progetti di deliberazioni spettanti ai corpi
rappresentativi del comune, non pongono alcun limite alla
potestà deliberante di questi ultimi -i quali ben possono
liberamente disporre del contenuto delle deliberazioni una
volta resi detti pareri-, ché, diversamente argomentando, si
finirebbe con l'attribuire agli organi consultivi
l'effettivo potere d'amministrazione attiva, lasciando ai
corpi rappresentativi la funzione di mera ratifica di
determinazioni altrui.
Essi, pertanto, sono unicamente preordinati
all'individuazione sul piano formale, nei funzionari che li
formulano, della responsabilità eventualmente in solido con
i componenti degli organi politici in via amministrativa e
contabile.
Occorre premettere che nella
disciplina attuale della contabilità degli enti locali si
prevede un regime differenziato per gli atti che comportino
impegni di spesa o diminuzione di entrata a seconda che si
tratti delle delibere di giunta e del consiglio comunale o
dei i provvedimenti dei responsabili dei servizi.
Nel primo caso, infatti, l’art. 49 del d.lgs. n. 267/2000
(ex art. 53 della l. n. 142/1990) prevede unicamente che
debba essere acquisito il parere di regolarità contabile;
nel secondo caso, invece, l’art. 151 del d.lgs. n. 267/2000
(ex art. 55 della l. n. 241 del 1990) prevede invece che
occorre un visto di regolarità contabile, attestante la
copertura finanziaria, che condiziona l’esecutività del
provvedimento.
La giurisprudenza, a questo proposito, ha chiarito che
nell’attuale ordinamento degli enti locali, le questioni di
copertura finanziaria non attengono più alla validità del
provvedimento. Infatti, a seguito della riscrittura
dell'ordinamento contabile e della nuova distribuzione di
competenze tra organi politico-amministrativi e responsabili
dei singoli servizi, la copertura finanziaria, che prima era
un prius, successivamente è divenuta, dal punto di
vista dell'attestazione formale, un posterius. La
norma dell'art. 55, comma 5, l. 08.06.1990 n. 142 (oggi art.
151 del D.lgs. n. 267/2000), è stata infatti modificata nel
senso che l'attestazione di copertura ha assunto un
significato accertativo della necessaria copertura di
bilancio dell'atto emanato nel contesto del richiesto visto
di regolarità contabile, che riguarda anche l'esatta
imputazione di spesa.
In altri termini, l'attestazione di copertura finanziaria
non precede più l'impegno, né soprattutto è requisito di
validità, ma accede, completandolo, alla relativa
deliberazione o determinazione di spesa di cui diventa
condizione di esecutività, con la conseguenza che la sua
mancanza non comporta la nullità dell'atto di spesa
(Consiglio Stato, sez. IV, 25.05.2005, n. 2718).
Quanto al parere preventivo di regolarità contabile, si è
affermato che esso, certamente necessario al fine di fornire
una istruttoria completa, non pone tuttavia alcun limite
alla potestà deliberante della giunta e del consiglio
comunale, che possono liberamente disporre del contenuto
delle proposte di deliberazione, dopo che su queste ultime
sia stato acquisito, quale elemento formale dell'iter
procedimentale, il parere dei predetti organi tecnici. Ove
si opinasse diversamente, si finirebbe inammissibilmente con
il conferire ai citati organi consuntivi l'effettivo potere
di amministrazione, degradando la giunta ed il consiglio ad
una funzione di mera ratifica di determinazioni
amministrative sostanzialmente imputabili ad altri soggetti
(Consiglio di stato, sez. V, 25.05.1998, n. 680).
Requisito di legittimità della delibera collegiale, dunque,
è unicamente l’acquisizione dei prescritti pareri.
L’eventuale carenza della determinazione delle minori
entrate e della copertura finanziaria, invece, rilevante ai
fini dell’eventuale responsabilità amministrativa e
contabile, non è sindacabile in sede di legittimità dinanzi
al giudice amministrativo, in quanto profilo estraneo alla
formazione e al contenuto del provvedimento ed inerente
invece la sua esecutività.
---------------
A ciò si aggiunga che, comunque, come ha affermato in
plurime occasioni in Consiglio di Stato, i pareri ex art. 53
l. 08.06.1990 n. 142 (oggi art. 49 del T.U.e.l.), resi dal
responsabile del servizio, dal responsabile del settore
ragioneria e dal segretario comunale sui progetti di
deliberazioni spettanti ai corpi rappresentativi del comune,
non pongono alcun limite alla potestà deliberante di questi
ultimi -i quali ben possono liberamente disporre del
contenuto delle deliberazioni una volta resi detti pareri-,
ché, diversamente argomentando, si finirebbe con
l'attribuire agli organi consultivi l'effettivo potere
d'amministrazione attiva, lasciando ai corpi rappresentativi
la funzione di mera ratifica di determinazioni altrui
(Consiglio Stato, sez. V, 25.05.1998, n. 680).
Essi, pertanto, sono unicamente preordinati
all'individuazione sul piano formale, nei funzionari che li
formulano, della responsabilità eventualmente in solido con
i componenti degli organi politici in via amministrativa e
contabile (Consiglio Stato, sez. IV, 22.06.2006, n. 3888)
(TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 19.09.2007 n. 7878 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: a)
le scelte effettuate dall'amministrazione nell'adozione del
piano costituiscono apprezzamento di merito sottratto al
sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da
errori di fatto o da abnormi illogicità;
b) in occasione della formazione di uno strumento
urbanistico generale, le scelte discrezionali
dell’amministrazione, riguardo alla destinazione di singole
aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre quella
che si può evincere dai criteri generali -di ordine tecnico
discrezionale- seguiti nell’impostazione del piano stesso,
essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di
accompagnamento al progetto di modificazione al piano
regolatore generale, salvo che particolari situazioni non
abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di
soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche
considerazioni.
---------------
Le evenienze che giustificano una più incisiva e singolare
motivazione degli strumenti urbanistici generali, sono
state, segnatamente, individuate dalla giurisprudenza di
questo Consiglio:
a) nel superamento degli standards minimi di cui al d.m.
02.04.1968, con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va
riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche
complessive di sovradimensionamento, e non anche con
riguardo alla destinazione di zona di determinate aree;
b) nella lesione dell'affidamento qualificato del privato, a
sua volta integrato dalla conclusione di convenzioni di
lottizzazione o di accordi di diritto privato intercorsi tra
il comune e i proprietari delle aree, ovvero da aspettative
nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di
concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su domande di
concessione;
c) nella modificazione in zona agricola della destinazione
di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo
non abusivo.
L'indirizzo di politica urbanistica espresso negli strumenti
generali di pianificazione implica importanti conseguenze
(di seguito illustrate) in ordine ai limiti del sindacato di
legittimità del giudice amministrativo ed al contenuto della
motivazione in concreto indispensabile, specie in
considerazione di quanto previsto dal comma 2 dell’art. 3
della legge 07.08.1990, n. 241, là dove esclude,
dall’obbligo di motivazione, gli atti normativi e quelli a
contenuto generale (nel cui novero rientra lo strumento
urbanistico generale).
In coerenza con i caratteri, appena segnalati, delle
determinazioni pianificatorie, si è, in particolare,
affermato che:
a) le scelte effettuate dall'amministrazione nell'adozione
del piano costituiscono apprezzamento di merito sottratto al
sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da
errori di fatto o da abnormi illogicità (cfr. ex multis,
Cons. St., sez. IV, 08.02.1999, n. 121);
b) in occasione della formazione di uno strumento
urbanistico generale, le scelte discrezionali
dell’amministrazione, riguardo alla destinazione di singole
aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre quella
che si può evincere dai criteri generali -di ordine tecnico
discrezionale- seguiti nell’impostazione del piano stesso
(Cons. St., ad. plen., 22.12.1999, n. 24; sez. IV,
19.01.2000, n. 245; sez. IV, 24.12.1999, n. 1943; sez. IV,
02.11.1995, n. 887, sez. IV, 25.02.1988, n. 99), essendo
sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di
accompagnamento al progetto di modificazione al piano
regolatore generale, salvo che particolari situazioni non
abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di
soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche
considerazioni.
Le evenienze che giustificano una più incisiva e singolare
motivazione degli strumenti urbanistici generali, sono
state, segnatamente, individuate dalla giurisprudenza di
questo Consiglio (Ad. plen. n. 24 del 1999 cit.):
a) nel superamento degli standards minimi di cui al d.m.
02.04.1968, con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va
riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche
complessive di sovradimensionamento, e non anche con
riguardo alla destinazione di zona di determinate aree (come
infondatamente sostenuto, nella fattispecie, dalla Casal
Brunori);
b) nella lesione (parimenti non ricorrente nella specie)
dell'affidamento qualificato del privato, a sua volta
integrato dalla conclusione di convenzioni di lottizzazione
o di accordi di diritto privato intercorsi tra il comune e i
proprietari delle aree, ovvero da aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di dinieghi di concessione
edilizia o di silenzio-rifiuto su domande di concessione
(Cons. St., ad. plen., n. 24 del 1999 cit.; 08.01.1986, n.
1);
c) nella modificazione (anche questa non ravvisabile nella
fattispecie in esame) in zona agricola della destinazione di
un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non
abusivo (Cons. St., sez. IV, 09.04.1999, n. 594)
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.09.2005 n. 4818 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
zona agricola, o, comunque, destinata a verde pubblico,
possiede anche una valenza conservativa dei valori
naturalistici, venendo a costituire il polmone
dell’insediamento urbano ed assumendo -per tale via- la
funzione decongestionante e di contenimento dell’espansione
dell’aggregato urbano.
Che la zona agricola, o,
comunque, destinata a verde pubblico, possieda anche una
valenza conservativa dei valori naturalistici, venendo a
costituire il polmone dell’insediamento urbano ed assumendo
-per tale via- la funzione decongestionante e di
contenimento dell’espansione dell’aggregato urbano, risulta,
inoltre, principio espresso dalla giurisprudenza di questo
Consiglio ormai da alcuni lustri ( Cons. St., sez. IV, n.
245 del 2000 cit.; n. 1943 del 1999 cit.; 13.03.1998, n.
431; sez. IV, 01.10.1997, n. 1059; sez. IV, 28.09.1993, n.
968; sez. IV, 01.06.1993, n. 581; sez. V, 19.09.1991, n.
1168; sez. IV, 11.06.1990, n. 464, sez. IV, 17.01.1989, n.
5) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.09.2005 n. 4818 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: L'omessa
allegazione dei pareri prescritti ex art. 53 l. 142/1990
alla deliberazione consiliare non integra un vizio di
legittimità, ma si risolve in una mera irregolarità, nei
casi in cui non si contesta l’effettiva esistenza degli atti
consultivi non allegati.
In relazione al quinto motivo,
con cui si denuncia l’omessa allegazione (alla delibera
consiliare) dei pareri prescritti dall’art. 53 della legge
n. 142 del 1990 (allora vigente), è sufficiente osservare,
per rilevarne l’infondatezza, che la dedotta carenza non
integra un vizio di legittimità, ma si risolve in una mera
irregolarità, nei casi (quale quello di specie) in cui non
si contesta l’effettiva esistenza degli atti consultivi non
allegati (Cons. St., sez. IV, 16.03.2001, n. 1567)
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.09.2005 n. 4818 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: I
vincoli urbanistici non indennizzabili, e che sfuggono alla
previsione dell'art. 2 della legge 19.11.1968, n. 1187, sono
quelli che riguardano intere categorie di beni, quelli di
tipo conformativo e i vincoli paesistici, mentre i vincoli
urbanistici soggetti alla scadenza quinquennale, e che
devono essere indennizzati, sono:
a) quelli preordinati all’espropriazione ovvero aventi
carattere sostanzialmente espropriativo, in quanto
implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà, se non
discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore
statale o regionale, attraverso l’imposizione a titolo
particolare su beni determinati di condizioni di
inedificabilità assoluta;
b) quelli che superano la durata non irragionevole e non
arbitraria ove non si compia l’esproprio o non si avvii la
procedura attuativa preordinata a tale esproprio con
l’approvazione dei piani urbanistici esecutivi;
c) quelli che superano quantitativamente la normale
tollerabilità, secondo una concezione della proprietà
regolata dalla legge nell’ambito dell’art. 42 Cost..
Di tali principi ha fatto coerente applicazione
l’orientamento di questo Consiglio di Stato, secondo il
quale costituiscono vincoli soggetti a decadenza, ai sensi
dell’art. 2 della legge 19.11.1968, n. 1187, quelli
preordinati all’espropriazione, o che comportino l’inedificabilità,
e che, dunque, svuotano il contenuto del diritto di
proprietà, incidendo sul godimento del bene in modo tale da
renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione
naturale, ovvero diminuendone significativamente il suo
valore di scambio.
Sulla base di tali generali premesse, la decisione ha
ritenuto che, nel caso di specie, la destinazione di “area a
verde pubblico – verde urbano” costituisce espressione della
potestà conformativa del pianificatore, avente validità a
tempo indeterminato, come correttamente affermato dal primo
giudice.
Il Collegio osserva che la natura e la portata della
destinazione di zona a “verde pubblico – verde urbano”,
impressa all’area di proprietà degli appellanti dalla
variante generale al P.R.G. del Comune di Bari approvata con
D.P.G.R. n. 1475 del 08.07.1976, hanno formato oggetto di
esame da parte della Sezione con recente decisione (Sez. IV,
10.08.2004, n. 5490), dalle cui conclusioni non vi è motivo
per discostarsi.
In tale occasione, la Sezione ha rilevato che, alla stregua
dei principi espressi dalla Corte costituzionale, con la
sentenza 20.05.1999, n. 179 -dichiarativa dell’illegittimità
costituzionale del combinato disposto degli articoli 7, n.
2, 3 e 4 e 40 della legge 17.08.1942, n. 1150, e 2, primo
comma, della legge 19.11.1968, n. 1187, nella parte in cui
consente all’Amministrazione di reiterare i vincoli
urbanistici scaduti preordinati all’espropriazione o che
comportino l’inedificabilità, senza la previsione di un
indennizzo- i vincoli urbanistici non indennizzabili, e che
sfuggono alla previsione del predetto articolo 2 della legge
19.11.1968, n. 1187, sono quelli che riguardano intere
categorie di beni, quelli di tipo conformativo e i vincoli
paesistici, mentre i vincoli urbanistici soggetti alla
scadenza quinquennale, e che devono essere indennizzati,
sono:
a) quelli preordinati all’espropriazione ovvero aventi
carattere sostanzialmente espropriativo, in quanto
implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà, se non
discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore
statale o regionale, attraverso l’imposizione a titolo
particolare su beni determinati di condizioni di
inedificabilità assoluta;
b) quelli che superano la durata non irragionevole e non
arbitraria ove non si compia l’esproprio o non si avvii la
procedura attuativa preordinata a tale esproprio con
l’approvazione dei piani urbanistici esecutivi;
c) quelli che superano quantitativamente la normale
tollerabilità, secondo una concezione della proprietà
regolata dalla legge nell’ambito dell’art. 42 Cost..
La Sezione ha, poi, precisato che di tali principi ha fatto
coerente applicazione l’orientamento di questo Consiglio di
Stato, secondo il quale costituiscono vincoli soggetti a
decadenza, ai sensi dell’articolo 2 della legge 19.11.1968,
n. 1187, quelli preordinati all’espropriazione, o che
comportino l’inedificabilità, e che, dunque, svuotano il
contenuto del diritto di proprietà, incidendo sul godimento
del bene in modo tale da renderlo inutilizzabile rispetto
alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone
significativamente il suo valore di scambio.
Sulla base di tali generali premesse, la decisione ha
ritenuto che, nel caso di specie, la destinazione di “area
a verde pubblico – verde urbano” costituisce espressione
della potestà conformativa del pianificatore, avente
validità a tempo indeterminato, come correttamente affermato
dal primo giudice
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.05.2005 n. 2718 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE
GESTIONALI - LAVORI PUBBLICI: L'atto
di approvazione dello schema triennale di opere pubbliche
comunali e del suo aggiornamento annuale rientra nelle
competenze della Giunta, ai sensi dell'art. 48 T.U.
18.08.2000 n. 267, mentre l'approvazione definitiva del
programma e dell'elenco annuale delle opere da realizzare
spetta al Consiglio, a norma dell'art. 42 stesso T.U. n.
267, trattandosi di un atto di programmazione e di
indirizzo.
L'atto di approvazione dello
schema triennale di opere pubbliche comunali e del suo
aggiornamento annuale rientra nelle competenze della Giunta,
ai sensi dell'art. 48 T.U. 18.08.2000 n. 267, mentre
l'approvazione definitiva del programma e dell'elenco
annuale delle opere da realizzare spetta al Consiglio, a
norma dell'art. 42 stesso T.U. n. 267, trattandosi di un
atto di programmazione e di indirizzo (cfr., CdS, Sez. IV n.
6917 del 14.12.2002) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.05.2005 n. 2718 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: A
seguito della riscrittura dell'ordinamento contabile e della
nuova distribuzione di competenze tra organi
politico-amministrativi e responsabili dei singoli servizi,
la copertura finanziaria, che prima era un prius,
successivamente è divenuta, dal punto di vista
dell'attestazione formale, un posterius. La norma dell'art.
55, comma 5, della legge 08.06.1990, n. 142, è stata, cioè,
modificata nel senso che l'attestazione di copertura ha
assunto un significato accertativo della necessaria
copertura di bilancio dell'atto emanato nel contesto del
richiesto visto di regolarità contabile, che riguarda anche
l'esatta imputazione di spesa.
In altri termini, l'attestazione di copertura finanziaria
non precede più l'impegno, né, soprattutto, è più requisito
di validità, ma accede, completandolo, alla relativa
deliberazione o determinazione di spesa di cui diventa
condizione di esecutività: la sua mancanza non comporta la
nullità dell'atto di spesa.
L'attestazione, da elemento (interno) costitutivo della
validità, rectius della stessa esistenza della delibera, è
divenuto un atto di controllo esterno all'atto ma interno
all'organizzazione.
Conseguentemente le deliberazioni di spesa prive
dell'attestazione saranno valide anche se non esecutive. Ciò
risulta pienamente conforme al principio di separazione
delle competenze tra direzione politica e direzione
amministrativa introdotto dal D.Lgs. 03.02.1993, n. 29.
L'apposizione dell'attestazione di copertura finanziaria,
infatti, è un'attività gestionale espletata in applicazione
della normativa che la prevede. La mancata apposizione del
visto da parte dell'organo burocratico non può comportare la
nullità dell'atto -che impegni una spesa- adottato
dall'organo politico-amministrativo, poiché la sanzione
sarebbe evidentemente eccessiva e creerebbe una incongruenza
nell'ordinamento, condizionando la validità di un atto alla
sussistenza di un altro atto proveniente da un soggetto
rispetto al quale sussiste il regime di separazione dei
compiti. La mancata esecutività risulta conforme a
quest'ultimo principio e consente la distinta verifica
dell'operato di ciascuno ed il sanzionamento delle eventuali
responsabilità con le modalità previste dall'ordinamento, in
relazione alle distinte competenze.
Il decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 ha integralmente
abrogato (art. 274, lettera q) la legge n. 142 del 1990 e
contiene una disposizione identica alla norma in esame, come
sostituita dall'art. 6, comma 11, della legge 15.05.1997 n.
127, e precisamente l'art. 151, comma quarto, che, come
appare evidente dalla semplice lettura, riproduce la
previsione che l'atto amministrativo emanato senza la
copertura finanziaria, lungi dall'essere "nullo di diritto",
come previsto dal vecchio testo dell'art. 55, comma 5, della
legge n. 142/1990, è valido e diviene esecutivo solo con
l'apposizione del visto di regolarità contabile attestante
la copertura.
E’ poi appena il caso di
aggiungere che la tesi degli appellanti appare in contrasto
proprio con la disposizione invocata (art. 151, comma 4,
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267), il cui contenuto è frutto di una
riscrittura dell’ordinamento contabile degli enti locali,
intervenuta successivamente all’entrata in vigore dell’art.
55 della legge 08.06.1990, n. 142.
Come chiarito dalla Corte di Cassazione (SS.UU.CC.
26.07.2002, n. 11098), l'art. 55 della legge 08.06.1990 n.
142, comma 5 –che, com’è noto, prevedeva “la nullità di
diritto” dell’atto di impegno di spesa, non contenente
l’attestazione della relativa copertura finanziaria da parte
del responsabile del servizio finanziario- è stato
sostituito, in forza dell'art. 6, comma 11, della legge
15.05.1997, n. 127, recante "Misure urgenti per lo
snellimento dell'attività amministrativa e dei procedimenti
di decisione e di controllo", con il seguente testo: “I
provvedimenti dei responsabili dei servizi che comportano
impegni di spesa sono trasmessi al responsabile del servizio
finanziario e sono esecutivi con l'approvazione del visto di
regolarità contabile attestante la copertura finanziaria".
Ad avviso della Corte, a seguito della riscrittura
dell'ordinamento contabile e della nuova distribuzione di
competenze tra organi politico-amministrativi e responsabili
dei singoli servizi, la copertura finanziaria, che prima era
un prius, successivamente è divenuta, dal punto di
vista dell'attestazione formale, un posterius. La
norma dell'art. 55, comma 5, della legge 08.06.1990, n. 142,
è stata, cioè, modificata nel senso che l'attestazione di
copertura ha assunto un significato accertativo della
necessaria copertura di bilancio dell'atto emanato nel
contesto del richiesto visto di regolarità contabile, che
riguarda anche l'esatta imputazione di spesa.
In altri termini, l'attestazione di copertura finanziaria
non precede più l'impegno, né, soprattutto, è più requisito
di validità, ma accede, completandolo, alla relativa
deliberazione o determinazione di spesa di cui diventa
condizione di esecutività: la sua mancanza non comporta la
nullità dell'atto di spesa.
L'attestazione, da elemento (interno) costitutivo della
validità, rectius della stessa esistenza della
delibera, è divenuto un atto di controllo esterno all'atto
ma interno all'organizzazione.
Conseguentemente le deliberazioni di spesa prive
dell'attestazione saranno valide anche se non esecutive. Ciò
risulta pienamente conforme al principio di separazione
delle competenze tra direzione politica e direzione
amministrativa introdotto dal D.Lgs. 03.02.1993, n. 29.
L'apposizione dell'attestazione di copertura finanziaria,
infatti, è un'attività gestionale espletata in applicazione
della normativa che la prevede. La mancata apposizione del
visto da parte dell'organo burocratico non può comportare la
nullità dell'atto -che impegni una spesa- adottato
dall'organo politico-amministrativo, poiché la sanzione
sarebbe evidentemente eccessiva e creerebbe una incongruenza
nell'ordinamento, condizionando la validità di un atto alla
sussistenza di un altro atto proveniente da un soggetto
rispetto al quale sussiste il regime di separazione dei
compiti. La mancata esecutività risulta conforme a
quest'ultimo principio e consente la distinta verifica
dell'operato di ciascuno ed il sanzionamento delle eventuali
responsabilità con le modalità previste dall'ordinamento, in
relazione alle distinte competenze.
Il decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, (Testo Unico
delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), ha
integralmente abrogato (art. 274, lettera q) la legge n. 142
del 1990 e contiene una disposizione identica alla norma in
esame, come sostituita dall'art. 6, comma 11, della legge
15.05.1997 n. 127, e precisamente l'art. 151, comma quarto,
che, come appare evidente dalla semplice lettura, riproduce
la previsione che l'atto amministrativo emanato senza la
copertura finanziaria, lungi dall'essere "nullo di
diritto", come previsto dal vecchio testo dell'art. 55,
comma 5, della legge n. 142/1990, è valido e diviene
esecutivo solo con l'apposizione del visto di regolarità
contabile attestante la copertura (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.05.2005 n. 2718 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gli appalti devono essere aggiudicati mediante
procedure ad evidenza pubblica, principio rispetto al quale
l’affidamento diretto costituisce deroga ed eccezione che,
ove anche prevista, è solo consentita e non certamente
imposta, con la conseguenza che ove la P.A. appaltante, pur
in presenza di una possibilità di deroga, opti invece per la
gara ad evidenza pubblica, la relativa scelta appare
comunque ineccepibile.
Influenzata dall’erroneo
convincimento di aver titolo all’affidamento dei lavori alle
stesse condizioni di quelli espletati in precedenza, sempre
in forza dell’assunto che non sarebbe superato il limite del
sesto quinto, e cioè sulla base di un ribasso del 13%,
appare altresì la doglianza con la quale si contesta la
pretesa della P.A. ad un ulteriore ribasso dell’8%, per un
totale del 21%.
Ineccepibilmente infatti la P.A., nell’esercizio dei suoi
poteri discrezionali di scelta, ha posto come condizione
l’ulteriore ribasso, e non vale neppure affermare,
trattandosi di una inammissibile ingerenza in questioni di
merito a detta P.A. soltanto spettanti, che l’affidamento
dei lavori in questione all’impresa appellante avrebbe
rappresentato la scelta più conveniente, tenuto conto che la
somma risparmiata con il ribasso aggiuntivo preteso sarebbe
stata in gran parte assorbita dalle spese relative alle due
perizie e alla nuova progettazione esecutiva ora disposta.
E ciò senza tener conto che alla conclusione negativa alla
quale ora ci si oppone la P.A. era pervenuta anche in forza
dell’art. 25 L. 11.02.1994 n. 109, nel testo all’epoca
vigente di cui all’art. 8-ter L. 02.06.1995 n. 216, che non
prevede, tra le varianti previste, la tipologia della
variante in questione: a prescindere da ogni dubbio se tale
disposizione potesse o meno formalmente considerarsi in
vigore, ne risulta infatti evidente la ratio legis
che mira ad evitare, a tutela sia del pubblico interesse che
della concorrenza, ogni possibile elusione del principio
generale in base al quale gli appalti devono essere
aggiudicati mediante procedure ad evidenza pubblica,
principio rispetto al quale l’affidamento diretto
costituisce deroga ed eccezione: deroghe ed eccezioni che,
ove anche previste, sono solo consentite e non certamente
imposte, con la conseguenza che ove l’amministrazione
appaltante, pur in presenza in ipotesi di una possibilità di
deroga, opti invece per la gara ad evidenza pubblica, la
relativa scelta appare comunque ineccepibile
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.06.2001 n. 3508 - link a
www.dirittoeschemi.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La sottoposizione delle deliberazioni degli enti
locali ai pareri di legittimità e regolarità
tecnico-contabile assume rilevanza essenzialmente al fine di
di individuare i responsabili in via amministrativa e
contabile delle deliberazioni, ma non vale di per sé, in
caso di omissione, a comportare necessariamente
l’illegittimità delle deliberazioni medesime.
Ugualmente
infondate o irrilevanti sono le altre censure d’ordine
formale: quanto alla previsione di spesa, questa, pur se non
contenuta nella delibera assembleare, si trova in quella
contestualmente adottata dal C.d.A., e tanto basta; quanto
alla asserita mancanza dei pareri di legittimità del
segretario e tecnico contabile del direttore (art. 20, c. 2
statuto) la censura appare sostanzialmente infondata in
fatto, posto che la delibera assembleare, costitutiva, come
si è visto, della volontà dell’ente, è assistita dalla firma
del segretario, mentre quella del C.d.A. , contenente
l’impegno di spesa, risulta controfirmata dal direttore.
E ciò a prescindere, in generale, dal fatto che la
sottoposizione delle deliberazioni degli enti locali ai
pareri di legittimità e regolarità tecnico-contabile di cui
all’art. 53 L. 08.06.1990 n. 142 assume rilevanza
essenzialmente al fine di di individuare i responsabili in
via amministrativa e contabile delle deliberazioni, ma non
vale di per sé, in caso di omissione, a comportare
necessariamente l’illegittimità delle deliberazioni medesime
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.06.2001 n. 3508 - link a
www.dirittoeschemi.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il mancato inserimento dei pareri di regolarità
tecnica e contabile nelle deliberazioni degli Enti Locali
costituisce una semplice irregolarità, allorquando non si
contesta l'effettiva esistenza dei pareri.
Priva di pregio è l'ultima doglianza contenuta nel sedicesimo motivo
poiché il mancato inserimento dei pareri di regolarità
tecnica e contabile nella deliberazione impugnata
costituisce una semplice irregolarità a mente dell'art. 53,
l. 08.06.1990, n. 142 allorquando come nel caso di specie,
non si contesta l'effettiva esistenza dei pareri (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.03.2001 n. 1567 -
link a www.dirittoeschemi.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
nullità degli impegni di spesa, assunti senza preventiva
attestazione della copertura finanziaria, consegue alla sola
carenza della previa attestazione e perciò non é esclusa dal
fatto che, in concreto, tale copertura finanziaria sussista,
ancorché non previamente attestata.
---------------
Esiste certamente una differenza fra il parere di regolarità
contabile previsto dal primo comma dell’art. 53 della legge
142/1990 e l’attestazione di copertura finanziaria previsto
dal quinto comma dell’art. 55. Il primo verte su eventuali
aspetti economico-finanziari, mentre la seconda, in presenza
di spese, concerne il più limitato aspetto dell’esistenza,
nel capitolo indicato dalla deliberazione, di sufficienti
disponibilità, tenuto conto degli impegni precedentemente
assunti.
---------------
L’attestazione di copertura finanziaria é implicitamente
contenuta nella stessa proposta di ciascuna deliberazione
recante la sottoscrizione da parte del ragioniere del
riquadro inerente l’imputazione di ogni singola spesa.
L’art. 55, quinto comma, della legge 08.06.1990 n. 142, nel
testo precedente la modificazione introdotta dall’art. 6
della legge 15.05.1997 n. 127, stabiliva: “Gli impegni di
spesa non possono essere assunti senza attestazione della
relativa copertura finanziaria da parte del responsabile del
servizio finanziario. Senza tale attestazione l’atto é nullo
di diritto”.
La condizione di validità della deliberazione contenente
impegni di spesa era, pertanto, costituita dalla previa
attestazione della copertura finanziaria da parte
dell’organo competente.
La giurisprudenza ha, infatti, affermato che la nullità
degli impegni di spesa, assunti senza preventiva
attestazione della copertura finanziaria, consegue alla sola
carenza della previa attestazione e perciò non é esclusa dal
fatto che, in concreto, tale copertura finanziaria sussista,
ancorché non previamente attestata (Cass., Sez. I,
14.05.1997 n. 4248).
Fermo il principio richiamato, alla stregua del quale il
CO.RE.CO. ha sancito la nullità delle deliberazioni di che
trattasi, ancorché fornite di attestazione postuma di
copertura finanziaria, si palesano irrilevanti le
argomentazioni addotte dal Comune ricorrente.
Esiste certamente una differenza fra il parere di regolarità
contabile previsto dal primo comma dell’art. 53 della legge,
richiamato nelle citate deliberazioni, e l’attestazione di
copertura finanziaria previsto dal quinto comma dell’art.
55. Il primo verte su eventuali aspetti
economico-finanziari, mentre la seconda, in presenza di
spese, concerne il più limitato aspetto dell’esistenza, nel
capitolo indicato dalla deliberazione, di sufficienti
disponibilità, tenuto conto degli impegni precedentemente
assunti (circolare del Ministero dell’Interno, richiamata
dal ricorrente).
Ciò trova conferma nell’art. 35, primo comma, del D.Lgs.
25.02.1995 n. 77, recante ordinamento finanziario e
contabile degli enti locali, secondo cui gli enti locali
possono effettuare spese solo se sussiste l’impegno
contabile registrato sul competente intervento o capitolo
del bilancio di previsione da comunicare ai terzi
interessati e l’attestazione di copertura finanziaria di cui
all’art. 55, comma 5, della legge n. 142/1990.
Da tanto non é consentito, peraltro, desumere -secondo la
tesi sostenuta nel ricorso- che, comunque, l’attestazione di
copertura finanziaria é implicitamente contenuta nella
stessa proposta di ciascuna deliberazione recante la
sottoscrizione da parte del ragioniere del riquadro inerente
l’imputazione di ogni singola spesa che sarebbe stata «confermata»
dal visto apposto in data 11.01.1991.
Nella fattispecie, come accertato dall’organo di controllo,
le deliberazioni comportanti assunzioni di spesa, adottate
tutte nel 1990, recano un’attestazione di copertura
finanziaria apposta in data 11.01.1991; tanto basta, per le
ragioni suesposte, a far ritenere nulle di diritto le
deliberazioni di che trattasi, come legittimamente rilevato
dal CO.RE.CO. con la decisione impugnata
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 25.02.2000 n. 369 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: E'
illegittima la deliberazione di giunta/consiglio comunale
priva del parere di regolarità tecnica e contabile.
Egualmente la sentenza di primo grado merita conferma nella
parte in cui ha rilevato che la citata deliberazione di
giunta n. 22/1991 è stata adottata senza la previa
acquisizione del parere di "regolarità tecnica e
contabile", di cui all'art. 53, comma 1, della legge n.
142/1990.
La circostanza che, in mancanza di unità operative idonee,
il parere potesse essere reso dal segretario comunale (art.
53, comma 2) non toglie che la deliberazione dovesse recarne
esplicita traccia. Alla tesi degli appellanti, secondo cui
il parere "preventivo e favorevole di legittimità"
espresso dal segretario generale sarebbe comprensivo di ogni
altra valutazione, va obiettato che l'esame dell'atto sotto
il profilo della legittimità non è assimilabile, per
l'oggettiva diversità della funzione e dei parametri di
riferimento, all'apprezzamento, anch'esso obbligatorio, dei
suoi profili di ordine tecnico e contabile
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 15.02.2000 n. 808 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
I pareri del responsabile del servizio
interessato e del responsabile di ragioneria non pongono
alcun limite alla potestà deliberante della giunta e del
consiglio comunale, che possono liberamente disporre del
contenuto delle proposte di deliberazione, dopo
l'acquisizione su queste dei pareri stessi.
Con il secondo
motivo di appello si assume la violazione dell'articolo 53
della legge 08.06.1990, n. 142.
L'infondatezza della censura proposta consegue al rilievo
che la norma citata, nel prevedere la necessità dei pareri
del responsabile del servizio interessato, del responsabile
di ragioneria, nonché del segretario comunale, ciascuno per
quanto di propria competenza, non pone alcun limite alla
potestà deliberante della giunta e del consiglio comunale,
che possono liberamente disporre del contenuto delle
proposte di deliberazione, dopo che su queste ultime sia
stato acquisito, quale elemento formale dell'iter
procedimentale, il parere dei predetti organi tecnici.
Ove si opinasse diversamente, si finirebbe inammissibilmente
con il conferire ai citati organi consultivi l'effettivo
potere di amministrazione, degradando la giunta ed il
consiglio ad una funzione di mera ratifica di determinazioni
amministrative sostanzialmente imputabili ad altri soggetti
(Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 25.05.1998 n. 680
- link a www.dirittoeschemi.it). |
AGGIORNAMENTO AL 15.11.2012 |
ã |
UTILITA' |
ENTI LOCALI:
Oggetto: Trasmissione Bozza di Convenzione per la
gestione associata delle funzioni obbligatorie per i Piccoli
Comuni (ANCI Lombardia,
circolare 06.11.2012 n. 129/2012). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI - ATTI
AMMINISTRATIVI:
R. Giovagnoli,
IL RESPONSABILE DEL PROCEDIMENTO: PUNTI DI CONTATTO E
DISSONANZA TRA LA DISCIPLINA CODICISTICA E QUELLA SUL
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO (link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
N. Furin,
La nuova disciplina in materia di terre e rocce da scavo
(link a http://venetoius.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia serie ordinaria n. 46 del 15.11.2012 "Approvazione
del documento “Contenuti informativi per il monitoraggio dei
provvedimenti assunti dai Comuni in attuazione della l.r.
4/2012" (decreto
D.U.O. 23.10.2012 n. 9453). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.U.E.
14.11.2012 n. L/215 "DIRETTIVA
2012/27/UE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del
25.10.2012 sull'efficienza energetica, che modifica
le direttive 2009/125/CE e 2010/30/UE e abroga le direttive
2004/8/CE e 2006/32/CE" (link a
http://eur-lex.europa.eu). |
APPALTI: G.U.
13.11.2012 n. 265 "Primi chiarimenti in ordine
all’applicazione delle disposizioni di cui al d.P.R.
05.10.2010, n. 207 in particolare alla luce delle recenti
modifiche e integrazioni intervenute in materia di contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture" (Ministero
delle Infrastrutture e dei Trasporti,
circolare 30.10.2012 n. 4536). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
G.U. 13.11.2012 n. 265 "Disposizioni per la prevenzione e
la repressione della corruzione e dell’illegalità nella
pubblica amministrazione" (Legge
06.11.2012 n. 190). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia serie ordinaria n. 46 del 13.11.2012 "Presa
d’atto della proposta di documento di pianificazione e
programmazione regionale di interventi per la qualità
dell’aria, della proposta di rapporto ambientale, della
proposta di sintesi non tecnica e della proposta di studio
di incidenza ambientale (art. 2, l.r. 24/2006 e art. 9,
d.lgs. 155/2010)" (deliberazione
G.R. 07.11.2012 n. 4384). |
CORTE DEI
CONTI |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
Si deve ritenere che la locuzione “atto di
pianificazione” inserita nella norma (art. 92, comma 6, dlgs
163/2006) debba necessariamente riferirsi alla progettazione
di opere pubbliche e non ad un mero atto di pianificazione
territoriale redatto dal personale tecnico abilitato
dipendente dell’amministrazione.
---------------
I punti fermi che il regolamento interno (sulla disciplina
del'incentivo) deve rispettare
paiono essere i seguenti:
►
erogazione ai soli dipendenti espletanti gli
incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile
del procedimento, incaricati della redazione del progetto,
del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione
ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, per
un appalto di fornitura di beni o di servizi).
La norma non presuppone, tuttavia, ai fini della legittima
erogazione, il necessario espletamento interno di una o più
attività (per esempio, la progettazione) purché, come sarà
meglio specificato, il regolamento ripartisca gli incentivi
in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva
in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a
professionisti esterni;
►
ammontare complessivo non superiore al due per
cento dell’importo a base di gara. Di conseguenza la somma
concretamente prevista dal regolamento interno può essere
stabilita in misura percentuale inferiore;
►
ancoramento del fondo incentivante alla base di
gara (non all’importo oggetto del contratto, né a quello
risultante dallo stato finale dei lavori). Si deduce che non
appare ammissibile la previsione e l’erogazione di alcun
compenso nel caso in cui l’iter dell’opera o del lavoro non
sia giunto, quantomeno, alla fase della pubblicazione del
bando o della spedizione delle lettere d’invito (cfr., per
esempio, l’art. 2, comma 3, del DM Infrastrutture n. 84 del
17/03/2008).
Quanto detto non esclude che, in sede di regolamento
interno, al fine di ancorare l’erogazione dell’incentivo a
più stringenti presupposti, l’amministrazione possa
prevedere la corresponsione solo subordinatamente
all’aggiudicazione dell’opera;
►
puntuale ripartizione del fondo incentivante tra
gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento,
progettista, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro
collaboratori), secondo percentuali rimesse alla
discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere,
tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e
ragionevolezza;
►
devoluzione in economia delle quote del fondo
incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai
dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere
analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le
percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal
personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui
alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni,
la predetta devoluzione.
Il sindaco del comune di Agrate Brianza (MI), mediante nota
n. 21541 del 09.10.2012, ha posto un quesito in merito alla
disciplina dei compensi incentivanti ai sensi dell’art. 92,
comma 6, del D. Lgs. 163/2006.
Il sindaco premette che l’amministrazione ha la necessità
di adottare un nuovo regolamento in materia, e chiede, anche
alla luce delle recenti pronunce della Corte dei conti,
quali atti di pianificazione urbanistica possano essere
oggetto di attribuzione dell’incentivo di cui al codice dei
contratti; in particolare si richiede se possano essere
compresi alcuni atti diversi da quelli correlati alla
realizzazione di opere pubbliche (redazione di un PGT,
variante urbanistica, piano integrativo d intervento,
recupero edilizio, documento di piano, piano delle regole,
piano dei servizi).
...
In relazione alla predisposizione del nuovo regolamento di
organizzazione da parte dell’amministrazione comunale, la
Sezione ha già maturato un consolidato orientamento in sede
consultiva (cfr. per tutti Sezione contr. Lombardia,
parere 08.10.2012 n. 425).
L’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici, con atto di
regolazione n. 6 del 04/11/1999, aveva già avuto modo di
precisare come, nel caso della progettazione interna, la
prestazione dei dipendenti, in quanto riferita direttamente
all’amministrazione di appartenenza, è da considerare svolta
"ratione offici" e non "intuitu personae",
risolvendosi "in una modalità di svolgimento del rapporto
di pubblico impiego" (Cass. Civ. Sez. Un. 02.04.1998, n.
3386), nell'ambito della cui disciplina, normativa e
contrattuale, vanno individuati i termini della relativa
retribuzione.
Come evincibile dalla lettera del comma, la legge pone
alcuni paletti per l’attribuzione del predetto incentivo,
rimettendone la disciplina concreta (“criteri e modalità”)
ad un regolamento interno assunto previa contrattazione
decentrata.
I punti fermi che il regolamento interno
deve rispettare
(sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a
quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non
previsti, si rimanda al
parere 30.05.2012 n. 259 della Sezione)
paiono essere i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti
gli incarichi tassativamente indicati dalla norma
(responsabile del procedimento, incaricati della redazione
del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei
lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti
all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro”
(non, pertanto, per un appalto di fornitura di beni o di
servizi). La norma non presuppone, tuttavia, ai fini della
legittima erogazione, il necessario espletamento interno di
una o più attività (per esempio, la progettazione) purché,
come sarà meglio specificato, il regolamento ripartisca gli
incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite
e devolva in economia la quota relativa agli incarichi
conferiti a professionisti esterni;
- ammontare complessivo non superiore al due per cento
dell’importo a base di gara. Di conseguenza la somma
concretamente prevista dal regolamento interno può essere
stabilita in misura percentuale inferiore;
- ancoramento del fondo incentivante alla base di gara (non
all’importo oggetto del contratto, né a quello risultante
dallo stato finale dei lavori). Si deduce che non appare
ammissibile la previsione e l’erogazione di alcun compenso
nel caso in cui l’iter dell’opera o del lavoro non sia
giunto, quantomeno, alla fase della pubblicazione del bando
o della spedizione delle lettere d’invito (cfr., per
esempio, l’art. 2, comma 3, del DM Infrastrutture n. 84 del
17/03/2008). Quanto detto non esclude che, in sede di
regolamento interno, al fine di ancorare l’erogazione
dell’incentivo a più stringenti presupposti,
l’amministrazione possa prevedere la corresponsione solo
subordinatamente all’aggiudicazione dell’opera;
- puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli
incarichi attribuibili (responsabile del procedimento,
progettista, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro
collaboratori), secondo percentuali rimesse alla
discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere,
tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e
ragionevolezza
(cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici,
Deliberazioni n. 315 del 13/12/2007, n. 70 del 22/06/2005,
n. 97 del 19/05/2004;
- devoluzione in economia delle quote del
fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte
dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere
analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le
percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal
personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui
alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni,
la predetta devoluzione
(si rinvia alle Deliberazioni dell’Autorità di vigilanza n.
315 del 13/12/2007, n. 35 del 08/04/2009, n. 18 del
07/05/2008 e n. 150 del 02/05/2001).
Altri principi applicabili alla fattispecie (rilevanti ai
fini del parere di cui si discute) si ricavano dalla
normativa generale sul pubblico impiego e, in particolare,
dall’art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001 in base al
quale “le amministrazioni pubbliche non possono erogare
trattamenti economici accessori che non corrispondano alle
prestazioni effettivamente rese”.
La regola è fatta espressamente propria dal legislatore
anche nella materia degli incentivi di cui si discute, posto
che l’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006, nella
formulazione discendente dalla novella apportata dall’art. 1
del d.l. n. 162/2008, dispone che “la corresponsione
dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla
struttura competente, previo accertamento positivo delle
specifiche attività svolte dai predetti dipendenti”.
Nel caso in cui tale accertamento sia invece negativo, la
norma, adotta la medesima regola della devoluzione in
economia, prevista per il caso di attività eseguita da
professionisti esterni (in proposito l’Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici ha affermato, nella
Deliberazione n. 69 del 22/06/2005, emessa nel previgente
similare contesto normativo, che l’incentivo assolve alla
funzione di compensare i progettisti dipendenti che abbiano
in concreto effettuato la redazione degli elaborati
progettuali. Pertanto, la previsione, da
parte di un regolamento interno, della corresponsione anche
nell’ipotesi di progettazione nella sostanza redatta da
professionisti esterni, risulta in contrasto con la ratio
della disposizione legislativa, concretando un’ipotesi di
duplicazione di spesa).
Per quanto concerne la prospettata questione circa il
corretto significato da attribuire alla locuzione “atto
di pianificazione” inserita nel testo dell’art. 92,
comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, la Sezione
richiama il condivisibile orientamento espresso dalla
Sezione regionale di controllo per il Piemonte
(cfr.
parere 30.08.2012 n. 290), a
tenore del quale, l’atto di pianificazione, comunque
denominato, debba necessariamente riferirsi alla
progettazione di opere pubbliche e non ad un mero atto di
pianificazione territoriale redatto dal personale tecnico
abilitato dipendente dell’amministrazione.
Stante la sedes materiae della norma sugli incentivi
alla progettazione (Codice degli appalti), nonché la
ratio della disposizione (contenere i costi connessi
alla progettazione delle opere pubbliche valorizzando le
professionalità interne alla pubblica amministrazione),
si condivide l’argomentazione secondo cui “la
norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad
ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la
redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere
pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio,
sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta
all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun
compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici
dell’Ente” (in
termini, Sezione contr. Piemonte deliberazione cit.; cfr.
altresì Sezione contr. Lombardia,
parere 30.05.2012 n. 259;
parere 06.03.2012 n. 57; Sezione contr. Puglia,
parere 16.01.2012 n. 1; Sezione contr. Toscana,
parere 18.10.2011 n. 213).
Si osserva, inoltre, che l’interesse pubblico alla
realizzazione dell’opera, quale presupposto per l’erogazione
di compensi incentivanti al personale in servizio per la
redazione di progetti, è testualmente previsto nell’art. 92,
comma 7, del d.lgs. 163/2006, quale criterio da prendere in
considerazione per lo stanziamento dei fondi necessari al
finanziamento delle spese progettuali in sede di stesura dei
bilanci dello Stato, delle amministrazioni statali, delle
regioni e delle autonome locali.
In conclusione, ciò che rileva ai fini
della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante
non è tanto il nomen juris attribuito all’atto di
pianificazione, quanto il suo contenuto specifico
intimamente connesso alla realizzazione di un’opera
pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità
interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale
(piano regolatore o variante generale) che costituisce, al
contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale
dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la
retribuzione ordinariamente spettante
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 24.10.2012 n. 452). |
SEGRETARI COMUNALI: Corte dei conti Campania. Quattro criteri sanciti dalla
sezione giurisdizionale.
Segretari, stipendi accessori sempre da «motivare».
Lo straordinario elettorale non produce compensi.
Quattro questioni di grande rilievo affrontate nella
sentenza
19.10.2012 n. 1627, con la quale la sezione giuridica
della Corte dei conti della Campania ha fissato principi in
tema di retribuzione accessoria dei segretari comunali e
provinciali.
Punto per punto
Innanzitutto, i giudici campani hanno affermato che il
pagamento dello straordinario elettorale al segretario,
oltre a essere contra legem, rappresenta un danno
all'erario, poiché è in contrasto con il principio di
onnicomprensività della retribuzione di cui all'articolo 41,
comma 6, del Ccnl Segretari del 16.05.2001.
La seconda questione concerne le modalità di attribuzione
della maggiorazione della retribuzione di posizione. Ai
sensi dell'articolo 41, comma 4, del Ccnl citato, gli enti,
nell'ambito degli equilibri di bilancio, possono riconoscere
al segretario una maggiorazione dal 10% al 50% della
retribuzione di posizione, allorché ricorrano le condizioni
di carattere oggettivo o soggettivo indicate nell'accordo
integrativo 22.12.2003.
Per la Corte la maggiorazione
non può essere attribuita mediante atti aventi motivazione
solo formale, che semplicemente ripetano il dettato della
norma nazionale. Il riconoscimento del compenso aggiuntivo
nella misura massima, in assenza di una congrua motivazione
(che dia conto sia delle condizioni soggettive e oggettive
legittimanti sia del processo di quantificazione monetaria
tra il minimo e il massimo) è fonte di responsabilità
amministrativa. In altre parole, la maggiorazione per le
cosiddette funzioni aggiuntive deve poggiare su un serio
percorso valutativo circa l'an e il quantum del beneficio e
non può essere, com'è prassi diffusa, un'aggiunta
stipendiale quasi automatica.
Il terzo profilo riguarda il riconoscimento al segretario,
nel caso di conferimento di funzioni gestionali, non solo
della retribuzione di risultato stabilita per i segretari,
ma anche di quella prevista per i dipendenti del comparto
titolari di posizione organizzativa ex articolo 10 del Ccnl
31.03.1999 (25% della retribuzione di posizione). Anche
in questo caso è stata riconosciuta la sussistenza del danno
erariale, poiché al segretario spetta unicamente la
retribuzione di risultato prevista dai contratti nazionali
di settore, senza altre forme di premialità stabilite per i
dipendenti di altri comparti, anche qualora siano svolte
temporaneamente funzioni gestionali.
La Corte, infine, ha trattato il tema dell'attribuzione
della retribuzione di risultato propria dei segretari ex
articolo 42 del Ccnl 16.05.2001. Sul punto è stata
ritenuta fonte di responsabilità amministrativa
l'assegnazione al segretario della premialità nella misura
massima in assenza di un serio processo valutativo, che, ai
sensi del Dlgs 286/1999, deve prevedere almeno una
preventiva fissazione di obiettivi quali-quantitativi da
raggiungere e una valutazione finale motivata sul
raggiungimento degli stessi.
Ulteriore «sviluppo»
È evidente la portata della sentenza in un contesto nel
quale alcune delle prassi censurate (maggiorazione della
posizione e riconoscimento del risultato in assenza di
congrue motivazioni e valutazioni) risultano diffuse su
scala nazionale. La decisione, tuttavia, può rappresentare
anche un importante riferimento per valutare la portata, in
termini di responsabilità, di una fattispecie ancor più
scottante: la relazione fra la maggiorazione ex articolo 41,
comma 4, del Ccnl 16.05.2001 e la clausola di
"galleggiamento" ex articolo 41, comma 5, nel periodo
precedente all'entrata in vigore della legge 183/2011.
Secondo un inciso della motivazione, difatti, l'articolo 41
e la sua interpretazione rigorosa (ora avvalorata
dall'articolo 4, comma 26, della legge 183/2011) impongono
che l'allineamento stipendiale operi sulla retribuzione di
posizione del segretario complessivamente intesa, inclusa la
maggiorazione di cui all'articolo 41, comma 4. La Corte,
pertanto, riconosce che, a differenza di quanto spesso
verificatosi, il galleggiamento sulla posizione dirigenziale
più retribuita può (e poteva) operare solo dopo il
riconoscimento della maggiorazione della retribuzione di
posizione, e non viceversa.
---------------
La sentenza in pillole
01 | IL DANNO ERARIALE
L'attribuzione a segretari comunali o provinciali di
straordinari elettorali e il riconoscimento (se sono
conferite funzioni gestionali) della retribuzione prevista
per i dipendenti del comparto titolari di posizione
organizzativa configurano danno all'erario.
02 | LE VALUTAZIONI
La maggiorazione della retribuzione di posizione e
l'attribuzione della retribuzione di risultato possono
arrivare solo al termine di un serio percorso valutativo
(mentre ora è prassi diffusa concederle anche in assenza di
congrue motivazioni e valutazioni).
03 | L'INCISO
La Corte riconosce che,
a differenza di quanto spesso verificatosi, il
"galleggiamento" sulla posizione dirigenziale più retribuita
può (e poteva) operare solo dopo il riconoscimento della
maggiorazione della retribuzione di posizione,
e non viceversa (articolo Il Sole 24 Ore del 12.11.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
QUESITI &
PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Responsabilità da «posizione».
Domanda
Il proprietario di un terreno inquinato, non per sua colpa,
è obbligato alle opere di risanamento del medesimo?
Risposta
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar), Piemonte,
sezione II, con la sentenza dell'11.02.2011, numero
136, ha individuato una responsabilità da «posizione»,
svincolata da profili soggettivi e dall'apporto causale, che
impone al proprietario di un'area inquinata senza sua
responsabilità di dovere intervenire per procedere alla
bonifica dell'area medesima.
Anche il Tribunale regionale amministrativo (Tar), Lazio,
sezione I, con la sentenza del 14.03.2011, numero 2263,
ha riconosciuto, alla luce delle obbligazioni risarcitorie
che gravano sul proprietario del fondo in forza dell'onere
reale, l'obbligo in capo al proprietario del terreno
inquinato, senza alcuna sua responsabilità, di effettuare
gli interventi di bonifica in alternativa al responsabile
dell'inquinamento.
Per il Tribunale regionale amministrativo (Tar), Toscana,
Firenze, sezione II (sentenza del 22.06.2010, numero
2035), il proprietario del fondo inquinato, pur non avendo
colpa per l'inquinamento, deve continuare la procedura della
bonifica del fono da lui iniziata. Egli non può, per i
giudici amministrativi toscani, sottrarsi all'obbligo di
conclusione della bonifica volontariamente iniziata.
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar), Sardegna,
sezione I, con la sentenza del 16.12.2011, numero 1239, ha
affermato che le opere di bonifica ambientale devono essere
eseguite dalla pubblica amministrazione competente quando il
responsabile dell'inquinamento non li esegua o quando esso
non sia individuabile da parte della pubblica
amministrazione. In capo al proprietario del sito, per i
giudici sardi, non sussiste alcun obbligo di eseguire
interventi di bonifica e di messa in sicurezza. Nei suoi
confronti, la pubblica amministrazione ha diritto di
rivalersi nei limiti del valore dell'area bonificata (articolo ItaliaOggi Sette del
12.11.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI
COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Sanzione amministrativa al sindaco pro tempore, azione di
regresso del comune.
Qualora il sindaco pro tempore rifiuti
di pagare la sanzione comminata per un illecito
amministrativo del quale è stato dichiarato responsabile, il
comune presso cui svolgeva il proprio mandato, obbligato in
solido, può accollarsi l'onere del pagamento solamente
facendo valere, contestualmente, il proprio diritto di
regresso nei confronti dell'autore della violazione.
Il Comune riferisce di avere ricevuto, quale soggetto
obbligato in solido, la notifica di un'ordinanza-ingiunzione
dell'Amministrazione provinciale diretta al sindaco pro
tempore per un'infrazione dell'art. 54, comma 2, del D.Lgs.
11.05.1999, n. 152.
Dopo avere presentato ricorso in opposizione senza ottenerne
l'accoglimento, il Comune intende chiudere la vertenza con
l'Amministrazione provinciale riconoscendole la somma dovuta
tra i propri debiti fuori bilancio.
L'Ente chiede di sapere se esso sia tenuto o meno a
richiedere al sindaco pro tempore il pagamento dell'importo
prima di procedere a tale operazione e come si debba
comportare, con riferimento ai termini di prescrizione del
diritto di regresso, nel caso in cui lo stesso non intenda
provvedervi ovvero dalla sentenza emergano responsabilità di
altri soggetti.
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione
centrale, si formulano le seguenti considerazioni.
L'art. 54, comma 2, del D.Lgs. 152/1999 puniva con la
sanzione amministrativa pecuniaria da lire 10 milioni a lire
cento milioni chiunque aprisse o effettuasse scarichi di
acque reflue domestiche o di reti fognarie senza
l'autorizzazione di cui all'art. 45[1].
L'Amministrazione provinciale, contestando tale infrazione
al Comune istante, ha ingiunto con ordinanza motivata, ai
sensi degli artt. 6 e 18 della legge 24.11.1981, n. 689, il
pagamento sanzionatorio al sindaco pro tempore e, in solido,
all'Ente stesso.
Come è noto, le violazioni che danno origine alle sanzioni
amministrative di cui alla L. 689/1981 sono riconosciute
come fattispecie depenalizzate, aventi cioè una struttura
simile a quella dei reati, ma che il legislatore ha deciso
di punire solamente con una sanzione pecuniaria.
Analogamente ai reati, la legge prevede che la condotta di
chi ha commesso la violazione debba essere realizzata con
dolo (cioè con coscienza e volontà) ovvero colpa (cioè per
negligenza, imprudenza o imperizia) (art. 3). Per tale
ragione, in virtù del necessario requisito dell'elemento
soggettivo, il soggetto destinatario di tali provvedimenti
non può che essere una persona fisica, in quanto, secondo il
noto brocardo, societas delinquere non potest[2].
La responsabilità della persona giuridica è, infatti,
puramente sussidiaria e deve ritenersi sussistente quando
sia stato commesso un illecito amministrativo da un soggetto
ricollegabile all'ente, che ha agito nell'esercizio delle
sue funzioni ed incombenze, a prescindere
dall'identificazione dell'autore materiale
dell'illecito.[3].
A favore della persona giuridica obbligata in solido, che ha
pagato, la legge ha previsto il diritto di regresso per
l'intero[4] nei confronti dell'autore della violazione (art.
6).
Applicando tali regole al caso in esame, spetta al sindaco
pro tempore, individuato quale responsabile dell'illecito,
per la sua qualità di rappresentante legale dell'ente
pubblico, pagare la sanzione amministrativa comminata dalla
Provincia[5]. Pertanto, il Comune dovrebbe rivolgersi allo
stesso per chiedergli di provvedere a suo carico alla
liquidazione della sanzione[6].
Qualora il sindaco pro tempore rifiuti di pagare quanto
dovuto alla Provincia e sia invece il Comune, tenuto in via
solidale, ad adempiervi, l'Ente ha il diritto-obbligo di
agire in regresso per richiedere l'intera somma versata.
Secondo la giurisprudenza contabile, infatti, il comune può
accollarsi l'onere del pagamento della sanzione
amministrativa solamente facendo valere, contestualmente, il
proprio diritto di regresso nei confronti dell'autore della
violazione. In mancanza di un tanto, sarebbe configurabile
nel bilancio dell'ente un depauperamento illegittimo e,
conseguentemente, sorgerebbe una responsabilità
amministrativa indiretta nei confronti di chi ha disposto il
pagamento a carico dell'ente di una sanzione che sarebbe
dovuta rimanere a carico di altri soggetti[7]. Qualora poi
il responsabile dell'illecito non risarcisca per intero
l'ente, si ritiene che questo sia tenuto a formulare
tempestivamente una denuncia circostanziata alla Procura
regionale della Corte dei conti, affinché, nell'ambito
dell'azione di regresso, proceda all'accertamento dei
presupposti della responsabilità per danno, ed, in
particolare, del grado di colpa ascrivibile al soggetto
individuato[8].
Il più recente orientamento della Corte di cassazione,
infatti, ritiene esclusiva la giurisdizione della Corte dei
conti, riconosciuta quale giudice naturale, per tutti i
giudizi aventi ad oggetto la tutela dei crediti erariali[9].
In conclusione, l'Ente che, non avendovi il sindaco pro
tempore provveduto, abbia pagato la sanzione
all'Amministrazione provinciale -dopo l'eventuale tentativo
di escutere, anche in via bonaria, l'ex amministratore-
dovrebbe avviare l'azione di regresso, dando tempestiva
comunicazione alla Procura della Corte dei conti, ai fini
dell'attivazione dell'azione di responsabilità
amministrativa.
Al riguardo, si precisa che il termine di prescrizione di
detta azione è di cinque anni[10], prendendo come dies a
quo da cui computare il decorso il giorno in cui si è
verificato il fatto dannoso[11], ossia, nel caso in esame,
quello dell'esborso per il pagamento della sanzione alla
Provincia[12].
Infine, con particolare riferimento alla richiesta dell'Ente
circa la necessità, nel caso in cui intenda procedere al
pagamento, di riconoscere il debito maturato nei confronti
della Provincia per fatto dell'amministratore come debito
fuori bilancio, si osserva che la fattispecie non rientra
tra le ipotesi tassativamente previste come tali dall'art.
194 del D.Lgs. 267/2000. Di conseguenza, il Comune dovrebbe
prevedere, qualora non lo avesse già fatto, con variazione
di bilancio, un apposito capitolo, provvedendo al relativo
finanziamento.
---------------
[1] Il decreto è stato abrogato dall'art. 175 del D.Lgs.
03.04.2006, n. 152.
[2] V. Cassazione civile, sentenza 30.05.2001, n. 7351: 'le
sanzioni amministrative rientrano tra quelle sanzioni
repressive per le quali è richiesta, oltre alla capacità di
intendere e di volere, la colpa o il dolo [...]
conseguentemente, una persona giuridica non può considerarsi
autore della violazione alla quale la legge riconnetta dette
sanzioni, ma, ai sensi dell'art. 6 della legge n. 689 del
1981, è solo obbligata in solido per le violazioni commesse,
nell'esercizio delle proprie funzioni ed incombenze, dal suo
rappresentante o dai suoi dipendenti, con diritto di
regresso nei confronti degli stessi'.
[3] Cfr. Cassazione civile,sentenza 20.11.2006, n. 24573.
[4] Nelle obbligazioni solidali disciplinate dal Codice
civile, invece, il diritto di regresso di chi ha pagato
riguarda solamente la parte spettante a ciascuno degli altri
condebitori (art. 1299 c.c.).
[5] Corte dei conti, sez. Abruzzo, sentenza 23.05.2005, n.
472. La Cassazione civile (sentenza 03.04.1996, n. 3116) ha
sostenuto che 'la responsabilità dell'illecito
amministrativo compiuto da un soggetto che abbia la qualità
di legale rappresentante della persona giuridica grava
sull'autore medesimo e non sull'ente rappresentato, il quale
è solo solidalmente obbligato al pagamento delle somme
corrispondenti alle sanzioni irrogate [...]. Ne consegue
che, una volta individuato nella persona del sindaco il
soggetto responsabile delle infrazioni riconducibili alla
sfera delle attività del comune, incombe allo stesso
soggetto la dimostrazione del venir meno della propria
responsabilità personale per essere affidato il compimento
delle attività medesime ad altra o ad altre persone fisiche,
nei confronti dei quali egli, in ragione della particolare
struttura ed organizzazione dell'ente, non debba esercitare
diretta vigilanza'.
[6] Cfr. Corte dei conti, I sez. centrale, 13.02.2012, n.
57, secondo la quale non risulta possibile procedere al
pagamento 'con somme provenienti dal bilancio aziendale,
senza in alcun modo (tentare di ) escutere gli autori delle
violazioni sanzionate'.
[7] Cfr. Corte dei conti, sez. Abruzzo, cit.; Corte dei
conti, sez. giurisd. Calabria, 31.10.2007, n. 970; Corte dei
conti, sez. giurisd. Lombardia, 07.09.2009, n. 593; Corte
dei conti, I sez. centrale, cit.
[8] A differenza di quanto previsto dall'art. 3 della L.
689/1981, secondo cui l'autore della violazione risponde per
dolo o per colpa, anche lieve, ai sensi dell'art. 1 della
legge 14.01.1994, n. 20, nel giudizio avanti alla Corte dei
conti, la responsabilità di amministratori e dipendenti
pubblici è, infatti, limitata ai fatti ed alle omissioni
commessi con dolo o colpa grave.
[9] V. Corte di cassazione, S.U., ordinanza 25.09.2007, n.
22059; si veda anche Corte dei conti, sez. giurisd.
d'appello per la Sicilia, 18.04.2011, n. 145.
[10] Cfr. art. 1, comma 2, L. 20/1994.
[11] V. Corte dei conti, S.R., 25.10.1996, n. 62/A e Corte
dei conti, sez. Friuli Venezia Giulia 21.10.2010.
Quest'ultima ha sostenuto che: 'il dies a quo, per un
condivisibile orientamento giurisprudenziale delle Sezioni
Riunite di questa Corte, coincide con l'effettiva
verificazione del fatto dannoso che consiste non solo
nell'azione che si reputa illecita, ma, soprattutto,
nell'effetto lesivo della stessa. Pertanto se questi due
momenti non sono temporalmente coincidenti, assume rilievo
il momento produttivo del danno in quanto solo da quel
momento la Procura Contabile ha interesse ad agire'.
[12] V. Corte dei conti, sez. riun., 05.09.2011, n. 14;
Corte dei conti, Sicilia, 04.03.2008, n. 734 (18.05.2012
- link a www.regione.fvg.it). |
NEWS |
APPALTI: Progetti,
niente gara fino a 40.000. Aggiudicazione a ribasso per gli
incarichi fino a 100 mila euro. In
Gazzetta una circolare interpretativa su codice dei
contratti pubblici e regolamento attuativo.
Legittimo affidare incarichi di progettazione in via diretta
fino a 40 mila euro; ammesso il ricorso al prezzo più basso
per incarichi al di sotto dei 100 mila euro; possibile
trasformare l'avvalimento in subappalto ma senza superare il
limite del 30% della «categoria prevalente»; le stazioni
appaltanti nelle procedure ristrette per gare di
progettazione possono utilizzare anche criteri diversi da
quelli del regolamento.
È quanto prevede la
circolare 30.10.2012 n. 4536, pubblicata
sulla Gazzetta Ufficiale n. 265 del 13.11.2012, predisposta
dal ministero delle infrastrutture e trasporti (a firma di Bernedette Veca, direttore per la regolazione dei contratti
pubblici) che reca «primi chiarimenti»
sull'applicazione di alcune norme del regolamento del Codice
dei contratti pubblici alla luce delle recenti modifiche e
integrazioni intervenute in materia di contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture.
La necessità dell'intervento interpretativo del dicastero di
Porta Pia, che con tutta probabilità non rimarrà isolato
considerando le numerose modifiche apportate al Codice dei
contratti in quest'ultimo anno, che comportano anche
conseguenze interpretative sul regolamento attuativo e,
comunque dubbi per gli operatori del settore.
Con il dettagliato provvedimento interpretativo, che origina
anche da diverse segnalazioni trasmesse da operatori del
settore, si affrontano alcuni profili della disciplina degli
affidamenti in economia per la quale il decreto legge
70/2011 ha inciso sul comma 11 dell'art. 125 del codice,
innalzando il limite dell'importo consentito per affidamento
diretto in economia di servizi e forniture da 20 mila euro a
40 mila euro.
La questione che si è posta, soprattutto con riferimento
all'articolo 267, comma 10 del regolamento, riguardava
l'efficacia della modifica rispetto alle procedure di
affidamento di servizi di ingegneria e architettura stante
il mancato coordinamento fra norma del Codice (con la soglia
a 40 mila euro) e norma regolamentare (con il tetto a 20
mila euro). La circolare chiarisce che anche per i servizi
di ingegneria vige il limite dei 40.000 euro, sia per
principio generale di gerarchia delle fonti, sia per la
soppressione del riferimento al secondo periodo del comma 11
dell'art. 125 (contenuta nell'art. 267, comma 10) che quindi
«ha inteso assoggettare, integralmente, anche i servizi
attinenti l'architettura e l'ingegneria al regime generale
di cui all'art. 125, comma 11, del codice dei contratti».
Sempre con riguardo alle gare di progettazione la circolare
chiarisce anche che al di sotto della soglia dei 100 mila
euro le stazioni appaltanti possono applicare il criterio
del prezzo più basso, senza l'obbligo, previsto per gli
affidamenti oltre i 100 mila euro, di utilizzare il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa, anche perché «l'obbligo
di servirsi della procedura di cui all'art. 57, comma 6, del
codice contempla utilmente il ricorso ad entrambi i criteri
di aggiudicazione».
Si chiarisce anche il problema interpretativo di mancato
coordinamento fra l'articolo 62 del Codice e l'articolo 265
del regolamento sulle procedure ristrette per servizi di
progettazione, stabilendo che, in ragione del principio
della gerarchia delle fonti e della natura non delegificante
del regolamento, oltre alla scelta degli offerenti
effettuata per metà a sorteggio e per metà con i criteri del
regolamento, le stazioni appaltanti possono «indicare nel
bando di gara diversi criteri, purché oggettivi, non
discriminatori e rispettosi del principio di proporzionalità».
Per l'avvalimento per servizi e forniture si precisa che ove
manchi il contratto di avvalimento scatta l'esclusione del
concorrente dalle procedure selettive e che ciò «si
concretizza sia nell'ipotesi di «mancanza materiale» del
contratto, sia in presenza di un difetto costitutivo e
giuridicamente rilevante dello stesso (contratto nullo,
sottoposto a condizione meramente potestativa ovvero altre
ipotesi di nullità del contratto)».
Per i lavori si precisa che la possibilità di mutare l'avvalimento
in subappalto non potrà mai avvenire oltre il limite del 30%
della categoria prevalente. La circolare chiarisce inoltre
che l'impresa in pendenza del rilascio del rinnovo
dell'attestazione Soa, può partecipare alle procedure
selettive nel caso in cui la stessa abbia richiesto di
sottoporsi alla verifica triennale (stipulando apposito
contratto con la Soa) prima della scadenza del triennio
(articolo ItaliaOggi del 14.11.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO - VARI: Anticorruzione.
In «Gazzetta» la legge con la tutela per i pubblici
dipendenti che scoprono illeciti.
Chi denuncia resta anonimo.
Identità coperta finché non scattano la calunnia o una lite
civile.
Resterà anonimo il dipendente pubblico che denuncia
illeciti, almeno nella maggior parte dei casi.
Lo prevede
l'articolo 1, comma 51, della legge 06.11.2012 n. 190
(pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» n. 265 del 13.11.2012 e in vigore dal 28 novembre), limitando l'accesso al
testo della denunzia.
Ma il contenuto, e soprattutto la
firma, diventeranno noti se il denunciato inizia un giudizio
per calunnia o diffamazione, oppure se chiede il
risarcimento dei danni da reato. Nel pubblico impiego sono
frequenti le segnalazioni interne, ma se anonime, ne è
difficile l'utilizzo (articolo 333 del Codice di procedura
penale). Per le denunce firmate, fino ad oggi si doveva
correre il rischio di una reazione da parte del denunciato,
mentre con l'articolo 1 della legge 190 il meccanismo
diventa più agevole, perché il denunciante può contare
sull'anonimato. Può contarci almeno fin quando il suo
avversario non passa al contrattacco e propone una denuncia
(penale) per calunnia (se si incolpa un innocente di un
reato) o diffamazione (se si offende reputazione o l'onore),
oppure fin quando non inizia una lite civile in cui si
chieda il risarcimento danni per calunnia o diffamazione.
La
norma del 2012 solleva in parte le ansie di chi (dirigenti,
amministratori e dipendenti) è tenuto a denunciare fatti che
possano dar luogo a responsabilità, trovandosi tra due
fuochi perché da un lato vi è l'obbligo di denuncia (se i
fatti sono conosciuti per ragioni d'ufficio), e dall'altro
vi è l'assunzione di responsabilità per omissione. Oggi è
almeno garantito l'anonimato, e chi denuncia non può subire
sanzioni né essere discriminato, licenziato, o trasferito
d'ufficio. Soprattutto, non rischia neppure di essere
scoperto da colui che è stato denunciato, perché l'identità
di chi firma una segnalazione non può essere svelata. A tal
fine è modificata la legge sull'accesso agli atti
amministrativi (241/1990) escludendo che la denuncia possa
essere oggetto di generica richiesta di copia da parte di
chi vi abbia interesse.
Il segreto sull'identità del denunciante viene meno quando
emerge una contrapposizione tra il diritto del denunciante a
segnalare errori senza essere messo alla berlina e diritto
del denunciato a difendersi: la legge 190 garantisce infatti
al denunciato la possibilità di smentire fatti e
circostanze, anche con un confronto diretto, e cioè anche
conoscendo chi lo accusa.
Il secondo periodo del comma 51 dell'articolo 1 legge 190
sottolinea, infatti, che l'identità del denunciante può
essere rivelata se la conoscenza di tale identità sia «assolutamente
indispensabile» per la difesa dell'incolpato. Ad
esempio, per smentire circostanze di fatti che non hanno
altri testimoni, può chiedersi un confronto diretto con
l'accusatore
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.11.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI:
Imprese e pagamenti rischiano di andare in tilt per effetto
della responsabilità solidale estesa. Certificare di essere ok
col fisco pesa su appalti e subappalti.
Gli operatori economici sono in affanno, schiacciati da
un'ulteriore incombenza. C'è un tam-tam, infatti, che si sta
diffondendo da impresa a impresa: chi, per ottenere
l'incasso di una fattura, si vede richiedere dal proprio
cliente-committente la compilazione di un'autocertificazione
a dimostrazione dell'avvenuto adempimento dei connessi
obblighi fiscali, a sua volta la richiede ai propri
fornitori-appaltatori.
Così sono sempre più numerosi gli imprenditori alle prese
con un nuovo pesante adempimento: la dimostrazione al
proprio committente del corretto adempimento degli obblighi
di versamento dell'Iva e delle ritenute fiscali sui redditi
di lavoro dipendente relativi alle prestazioni d'appalto
eseguite (si veda ItaliaOggi Sette del 5 novembre e del 29
ottobre, ndr).
Le nuove disposizioni introdotte dall'art. 13-ter del dl
83/2012, il cosiddetto decreto crescita (convertito nella l.
12.08.2012, n. 134) sulla responsabilità solidale negli
appalti, divenute pienamente operative dall'11.10.2012
per i pagamenti relativi ai contratti stipulati dal 12.08.2012, stanno creando serie difficoltà alle imprese.
Con la circolare 40 dell'08/10/2012 l'Agenzia delle entrate
ha previsto la possibilità per le imprese appaltatrici e
subappaltatrici di autocertificare il rispetto degli
obblighi tributari relativi al versamento dell'Iva e delle
ritenute fiscali, in modo da poter evitare l'attestazione di
un professionista abilitato per ottenere il pagamento delle
proprie prestazioni.
Ma anche tale possibilità non sembra semplificare di molto
la procedura che si va a innescare per ottenere il pagamento
di una prestazione di appalto o subappalto, dato che
comunque nella maggior parte dei casi anche
l'autocertificazione, seppur firmata dall'impresa,
richiederà l'ausilio di un professionista.
Se ogni committente, per evitare il rischio di una sanzione
da 5 mila a 200 mila euro, prima di pagare l'appaltatore gli
chiede, con la fattura per le prestazioni effettuate, anche
un'autocertificazione del rispetto degli obblighi tributari
a esse connessi e lo stesso fa ogni appaltatore ai propri
subappaltatori per evitare il rischio della responsabilità
solidale in caso di mancato adempimento di tali obblighi,
c'è il rischio che in molti casi costi e tempi dell'attività
amministrativa necessaria agli adempimenti documentali
relativi alle prestazioni d'appalto e subappalto finiscano
per superare costi e tempi delle prestazioni stesse. Senza
poi considerare i rischi di violazioni penali che incombono
sulle autocertificazioni non correttamente compilate.
In assenza di precise delimitazioni dell'ambito di
applicazione, la norma, infatti, opera indipendentemente dal
valore del contratto e dalla tipologia dell'attività svolta
e quindi le sanzioni potrebbero trovare applicazione anche
per casistiche marginali. Per esempio in occasione del
pagamento della manutenzione periodica di una caldaia di un
negozio o di un ufficio richiesta da un'impresa, o in
occasione della riparazione di un'auto aziendale (i
committenti privati restano esclusi), o ancora per la
rettifica di un pistone, la levigatura di una sedia, la
zincatura di un portone e così via.
La sanzione minima di 5 mila euro che rischia il committente
che non abbia verificato, prima di procedere al pagamento
dell'appaltatore, il corretto adempimento da parte di
quest'ultimo e dei suoi eventuali subappaltatori, degli
obblighi tributari relativi al contratto stesso, sarà in
molti casi sproporzionata, perché non limitata al
corrispettivo del contratto (come previsto invece per la
responsabilità solidale tra appaltatore e subappaltatore) e
finirà per penalizzare soprattutto le imprese di più piccole
dimensioni.
In altri casi accadrà che l'appaltatore e il subappaltatore,
che non hanno ancora ricevuto il pagamento dal proprio
committente di fatture già emesse per lo stesso contratto,
non riusciranno più a riceverlo, se proprio a causa di quel
mancato pagamento non sono stati in grado di versare la
relativa Iva. Insomma, un cane che si morde la coda.
---------------
Il committente vigila sui fornitori.
Scatta la vigilanza del committente nei confronti
dell'appaltatore per i debiti fiscali. In pratica, i
soggetti appaltanti, per evitare la responsabilità solidale,
dovranno accertare il corretto pagamento dei debiti erariali
da parte dei loro fornitori (appaltatori). In caso contrario
il committente potrà esimersi dal regolare finanziariamente
le prestazioni ottenute anche in presenza dio un regolare
contratto.
È quanto prevede il decreto crescita (dl 83/2012,
convertito nella l. 12.08.2012, n. 134). Ma quali sono i
contratti che rientrano in tale disciplina? Ecco una
panoramica.
La responsabilità solidale.
Si applica ai soli contratti «di
appalto» (ivi inclusi i contratti di «subappalto») ex art.
1655 e segg. c.c. (secondo cui «L'appalto è il contratto con
il quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi
necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di
un'opera o un servizio verso un corrispettivo in denaro»).
Rimangono escluse dall'ambito della responsabilità solidale
fattispecie quali:
- il contratto d'opera (anche detto «di prestazione
d'opera»), manuale o intellettuale;
- il contratto di vendita (cd. «di fornitura»).
Il contratto d'opera manuale si verifica quando «una persona
si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un
servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo
di subordinazione nei confronti del committente» (art. 2222
c.c.). L'elemento peculiare risulta essere l'organizzazione
di impresa:
- nell'appalto è necessaria un'organizzazione complessa per
realizzare l'opera o prestare il servizio;
- nella prestazione d'opera prevale il lavoro
dell'imprenditore e dei propri familiari.
Le imprese artigianali.
La prestazione d'opera è il caso, in
generale, delle prestazioni offerte dagli artigiani, per i
quali la prevalenza del proprio apporto costituisce una
condizione per essere iscritti al relativo Albo.
Va considerato l'apporto dell'imprenditore in termini
complessivi (si pensi alla possibilità di avere imprese
artigiane piuttosto strutturate, con un numero significativo
di dipendenti, ex L. 443/1985, dove il prodotto viene
totalmente lavorato dai dipendenti), essendo possibile che
esso sia limitato anche alla sola supervisione o al
controllo dell'attività dell'azienda. In entrambi i casi si
tratta di una obbligazione «di risultato» (senza la quale
non spetta alcun corrispettivo) e il contenuto della
prestazione viene sostanzialmente personalizzato sulle
richieste del cliente.
Distinzione tra appalto di fornitura.
In generale la
giurisprudenza procede alla seguente distinzione:
1) analisi oggettiva (Cass. sent. 3517 del 28/10/1958).
Ossia, va anzitutto verificato se la materia costituisca
solo un «mezzo» per produrre l'opera (vero oggetto del
contratto) o meno. Quindi, se si verifica:
a) la prevalenza del «dare» sul «fare», si è in presenza:
- di un contratto di fornitura (in particolare, di «vendita
di bene futuro», ex art. 1472 e segg. cc);
- eventualmente periodica (cioè un contratto di
somministrazione di beni ex art. 1559 e segg. cc)
b) la prevalenza del «fare» sul «dare», si è in presenza di
un contratto:
- di appalto (con fornitura di materiali, ex art. 1658 cc:
se è necessaria una organizzazione di impresa» complessa si
applica la responsabilità solidale;
- di «prestazione d'opera»: se è prevalente l'apporto
personale del prestatore non si applica la responsabilità
solidale.
2) appuramento della prevalenza. In tal caso, in ordine di
importanza va valutato quanto segue:
a) Cass. sent. 1114 del 17/04/1970 (analisi «soggettiva»):
a.1) deve desumersi dalle clausole contrattuali se la
volontà delle parti ha voluto dare maggior rilievo al
trasferimento del bene o al processo produttivo»; a.2) e ciò
indipendentemente dalla denominazione utilizzata nel
contratto (cd. «nomen juris»), in applicazione del principio
della prevalenza della sostanza sulla forma.
Per esempio, un idraulico, nel predisporre il contratto: a)
lo intitola quale «appalto», o ne cita gli articoli di legge
(artt. 1655 e segg.): difficilmente potrà sostenere che si
tratti di cessione; lo intitola quale «fornitura» (e magari
cita gli artt. 1470 e segg. cc): non si potrà porre in
dubbio che si tratti di «vendita» di beni. Tratto
discriminante risulta essere in generale la responsabilità
per vizi dell'opera (palesi o occulti) cui si intende
assoggettare il prestatore nell'appalto (più onerosa)
rispetto alle clausole riferite alla vendita.
b) Cass. sent. 507 del 17/02/1958:
b.1) se il prestatore si obbliga a personalizzare il
prodotto sulle specifiche del committente (e cioè laddove il
committente si rivolga a una specifica controparte in
considerazione della sua abilità nella produzione di beni
specifici); b.2) si è in presenza di una obbligazione «di
fare» (e non «di dare»), es.: costruttore richiede ad un
produttore di infissi, per esigenze di progetto, la
fornitura di particolari finestre dalla forma triangolare:
appalto (prodotto «personalizzato») (articolo ItaliaOggi Sette del
12.11.2012). |
APPALTI:
LEGGE DI STABILITÀ/ L'obiettivo è far cassa aumentando il
costo del contributo unificato. Gare, il contenzioso è un
salasso.
Ricorrere al giudice amministrativo diventa antieconomico.
Nuovo salasso per le cause sugli appalti. La giustizia
tartassa il contenzioso amministrativo in generale, ma la
mano pesante si fa sentire soprattutto nel contenzioso sulle
procedure di gara pubblica.
Il disegno di legge stabilità
per il 2013, attualmente all'esame della camera, fa leva sul
contributo unificato per fare cassa e attacca i processi che
si svolgono davanti ai tribunali amministrativi regionali e
al consiglio di stato. L'effetto immediato sarà di rendere
antieconomico il ricorso al giudice amministrativo con
possibile incremento del flusso di denunce alla magistratura
penale (per la denuncia non si deve versare il balzello in
questione).
Le disposizioni in discussione contengono anche
una possibile beffa quando l'impresa ha ragione, propone
ricorso e la stazione appaltante ritira l'atto: l'impresa
sarà multata con una sanzione pari al contributo unificato.
Come dire «hai sostanzialmente vinto, ma devi pagare lo
stesso il disturbo arrecato alla giustizia».
Ecco tutte le novità in itinere.
Contributo salato. Viene innalzato il contributo unificato e
i relativi incassi saranno destinati al miglioramento dei
servizi inerenti alla giustizia.
In particolare viene elevato l'importo del contributo
unificato per le controversie di competenza del giudice
amministrativo.
Così si eleva da 1.500 a 1.800 euro il contributo unificato
dovuto per le controversie cui si applica il rito abbreviato
disciplinato dal Codice del processo amministrativo
(articolo 119). Si sostituisce ai 4 mila euro, attualmente
previsti per tutte le controversie in tema di affidamento di
pubblici lavori e di provvedimenti adottati dalle autorità
amministrative indipendenti, una disciplina del contributo
unificato diversificata in ragione del valore della
controversia (portando il contributo dal valore minimo di 2
mila euro a quello massimo di 6 mila euro).
Si eleva da 600 a 650 euro il contributo unificato dovuto
per i restanti tipi di ricorsi amministrativi e anche per il
ricorso straordinario al presidente della repubblica.
Appello. Il contributo unificato nel processo amministrativo
(disciplinato dall'articolo 13, comma 6-bis, del T.u. delle
spese di giustizia) è aumentato sempre della metà per i
giudizi di impugnazione.
Gli effetti. Un processo sugli appalti, considerato anche il
fatto che le imprese pur di aggiudicarsi la commessa
praticano forti ribassi, rischia di diventare antieconomico,
soprattutto per la fascia media delle gare di importo da 200
mila euro a un milione.
La percentuale di utile di impresa rischia, infatti, di
essere completamente decurtata dalle spese vive di giustizia
e in particolare dal contributo unificato.
Basti pensare all'ipotesi in cui occorra proporre il ricorso
in primo e in secondo grado per arrivare a cifre notevoli.
Nella fascia fino a un milione di euro, primo e secondo
grado fruttano allo stato 10 mila euro e nella fascia
superiore si arriva a 15 mila euro. Senza contare la
parcella dell'avvocato.
Se poi occorresse presentare motivi aggiunti di ricorso (una
sorta di ricorso bis su atti non conosciuti prima) si è
assoggettati a un prelievo raddoppiato e le cifre già alte
diventano astronomiche.
Da qui la possibilità che l'impresa, tagliata fuori da una
gara di appalto oppure non risultata vincitrice e che
intenda far valere i propri diritti, se non vuole
sobbarcarsi le spese di giustizia, avrà come unica
alternativa quella della giustizia penale, che rischia di
espandersi, magari non sempre a proposito: l'illegittimità
di un atto non significa che necessariamente sia stato
commesso un reato.
Un altro ripiego, nell'ottica di risparmiare sull'esercizio
del diritto di difesa, ma non veloce come un ricorso al Tar
con la corsia preferenziale, sarebbe il ricorso al capo
dello stato (costa appena 650 euro).
E gli effetti collaterali riguardano anche l'attività
dell'avvocato. Il legale deve fare presente tutti i
possibili costi del contenzioso e deve mettere in evidenza
gli oneri lievitati del contributo unificato. Altro riflesso
concerne la necessità di mettere in capo gli istituti
previsti dall'ordinamento che possano avere l'effetto di
risolvere la controversia senza ricorrere alla magistratura.
In materia di appalti questa strada può essere battuta, ad
esempio, con l'informativa preventiva sull'intenzione di
proporre un ricorso giurisdizionale (articolo 243-bis del
codice dei contratti pubblici): si espongono direttamente
alla stazione appaltante i motivi di ricorso e la p.a. ha
l'obbligo di rispondere.
Peraltro anche in sede di esecuzione la legge prevede forme
di conciliazione e accordo bonario che, bilanciando maggiori
costi e benefici, potranno risultare maggiormente appetibili (articolo ItaliaOggi Sette del
12.11.2012). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Decreto enti locali. Alla Camera cade la nomina da parte del
prefetto per i controllori dei conti nelle città.
Più tutele ai ragionieri-capo.
Per la revoca ci vorrà il parere dei revisori e non quello
dei ministeri.
Obbligo di acquisire il parere dei revisori dei conti –in
luogo di quelli del ministero dell'Interno e della
Ragioneria generale dello Stato previsti dal testo iniziale– prima di revocare i responsabili del settore finanziario.
Innalzamento a 15mila –al posto di 10mila– della soglia
minima di abitanti a partire dalla quale i Comuni devono
attivare i controlli strategico, di qualità e sulle società
e sottoporsi alla verifica della Corte dei conti. Modifica
dei compiti di controllo attribuiti alla magistratura
contabile rispetto alle Regioni e agli enti locali. E poi
introduzione della relazione di inizio mandato per gli enti
locali e soppressione della nomina da parte del prefetto del
presidente del collegio dei revisori nei grandi enti locali.
Sono queste le principali novità in materia di controlli
interni approvate dalla Camera durante l'esame del decreto
174/2012 sugli enti locali per la conversione in legge: dopo
la fiducia votata l'8 novembre e il via libera atteso per
domani, il testo deve passare al Senato.
Inoltre, i deputati hanno deciso di limitare ai Comuni con
popolazione superiore a 15mila abitanti (anziché 10mila)
l'obbligo di dare pubblicità alla condizione patrimoniale
degli eletti, di modificare l'intervento dello Stato in
aiuto dei Comuni in difficoltà e di abrogare la proroga del
termine per il versamento da parte dei Comuni al Viminale di
una quota dei diritti di segreteria. Ma vediamo le novità
nel dettaglio.
Intanto, entro tre mesi dall'insediamento i sindaci devono
redigere una relazione di inizio mandato, predisposta dal
segretario o dal dirigente del settore finanziario, in cui
accertare la condizione patrimoniale ed economica e
l'indebitamento.
La revoca dei dirigenti del servizio finanziario può essere
disposta dai sindaci per gravi irregolarità ed è necessario
il parere dei revisori dei conti. Questo parere prende il
posto di quello previsto dal testo iniziale del decreto, a
carico del ministero dell'Economia e della Ragioneria
generale dello Stato. Si vuole così rafforzare
l'indipendenza dei "ragionieri capo", tanto più marcata
perché i revisori saranno scelti per sorteggio, ed evitare
gli assai discutibili interventi di soggetti esterni
all'ente. Non dovranno, inoltre, tenere conto degli
indirizzi della Ragioneria dello Stato: il possibile filo
diretto è così spezzato sul nascere.
Inoltre, l'obbligo di attivare il controllo strategico e
quelli sulle società controllate e sulla qualità dei servizi
è dettato per i Comuni con popolazione superiore a 15mila
abitanti e non più, come nella previsione iniziale, per i
municipi con oltre 10mila abitanti. Si prevede inoltre che
il controllo strategico, come quello di regolarità
amministrativa e contabile, sia svolto da un ufficio alle
dipendenze del segretario. Dai controlli sulle società
vengono escluse quelle quotate in borsa.
Poi, il controllo semestrale della Corte dei conti viene
limitato ai Comuni con più di 15mila abitanti. Esso viene
esteso all'equilibrio di bilancio. Viene eliminata la
possibilità per la magistratura contabile di avvalersi della
Guardia di finanza, mentre la Ragioneria generale dello
Stato, anche su input della Corte dei conti, può disporre
controlli sugli enti locali che ricorrono alle anticipazioni
di cassa, che hanno uno squilibrio di bilancio, che
presentano anomalie nella gestione dei servizi in conto
terzi o hanno aumentato la spesa per gli organi
istituzionali.
La Corte dei conti deve anche verificare i bilanci per il
rispetto del patto di stabilità, dell'indebitamento e della
gestione finanziaria, comprese le partecipazioni superiori
al 90 per cento.
Si prevede poi che le unioni dei Comuni debbano avere tre
revisori, che svolgono tale attività anche per i Comuni
aderenti, con automatica decadenza di quelli in carica.
Viene soppressa la previsione per cui il presidente del
collegio dei revisori dei conti nei grandi Comuni, nelle
Province e nelle Città metropolitane avrebbe dovuto essere
designato dal prefetto.
Infine, le sezioni decentrate di controllo della
magistratura contabile devono esaminare i bilanci preventivi
e consuntivi delle Regioni, degli enti del servizio
sanitario e delle società controllate che gestiscono servizi
pubblici e a trasmettere con cadenza semestrale un referto
ai consigli regionali, con l'obbligo della Regione di
adottare i provvedimenti richiesti. Il presidente della
Regione trasmette alla Corte dei conti e al consiglio
regionale una relazione annuale sulla gestione. Vengono
rafforzati i vincoli connessi alla relazione di fine
legislatura delle Regioni e degli enti locali.
---------------
Nuova soglia
15mila
La popolazione
● Durante l'esame alla Camera del decreto legge 174/2012
sugli enti locali è stata innalzata a 15mila abitanti –rispetto ai 10mila del testo originario– la soglia per
l'applicazione ai Comuni dell'obbligo di attivare
il controllo strategico sullo stato di attuazione dei
programmi rispetto alle direttive impartite dal Consiglio,
sulle società controllate
e sulla qualità dei servizi erogati
● Limitato ai Comuni con più di 15mila abitanti (anziché
10mila) anche
il controllo semestrale della Corte dei conti
● Circoscritto ai Comuni con più di 15mila
abitanti anche l'obbligo di dare pubblicità alla condizione
patrimoniale degli eletti (articolo Il Sole 24 Ore del
12.11.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
Contabilità. Pesa l'obbligo di unificare le attività.
Incognita funzioni sui bilanci degli enti fino a 5mila
abitanti.
Sono diverse le incognite che i piccoli Comuni sotto i 5mila
abitanti dovranno a breve affrontare nel predisporre i
progetti di bilancio per il 2013 .
Accanto alla problematica Tares (comune anche agli enti più
grandi), amministratori e funzionari dovranno vedersela con
il patto di stabilità (Comuni sopra i 1.000 abitanti) ma
soprattutto con le interrelazioni di carattere contabile
conseguenti alle gestioni associate.
In particolare, il bilancio 2013 dovrà tener conto degli
oneri stabiliti dalle varie convenzioni o dall'adesione alle
unioni cui ciascun ente locale dovrà partecipare per
adempiere agli obblighi di gestione associata.
La costruzione del bilancio sarà particolarmente
difficoltosa atteso che l'attuale schema per titoli,
funzioni e servizi non coincide con le nove funzioni
fondamentali previste in materia di gestione associata dalla
legge 135/2012. Gli uffici saranno chiamati ad operazioni di
riclassificazione fondate non su criteri certi ma, spesso,
su criteri soggettivi o di analogia. È stato anche proposto
di utilizzare come punto di riferimento l'articolazione del
bilancio armonizzato come previsto dal Dpcm 28.12.2011
che struttura il bilancio in missioni e programmi, ma questo
criterio potrà avere carattere sussidiario in quanto anche
le missioni non coincidono esattamente con le funzioni.
Appare comunque chiaro che se per talune funzioni (polizia
locale, protezione civile, catasto, edilizia scolastica,
servizi scolastici e sociali) non esistono particolari
problemi per individuare le spese relative a ciascuna
funzione associata o da associare dato che di fatto le
funzioni da associare coincidono o con quelle attuali di
bilancio o con i servizi indicati nel bilancio, alcune
problematiche si avranno per altre funzioni associate quali:
8 organizzazione dell'amministrazione, gestione finanziaria,
contabile e controllo;
8 organizzazione dei servizi pubblici, compreso il
trasporto;
8 servizi di raccolta, avvio, smaltimento e recupero dei
rifiuti urbani e la riscossione dei relativi tributi.
Queste funzioni associate comprendono servizi oggi allocati
anche su funzioni di bilancio diverse. Tra l'altro si tratta
talvolta di compiti, come l'organizzazione dei servizi
pubblici di interesse generale il cui ambito non è al
momento chiaro, discutendosi del fatto se comprenda o meno
tutti i servizi pubblici indipendentemente dalla rilevanza
economica.
In conclusione e in attesa di criteri normativi specifici,
gli uffici comunali, e in particolare quelli finanziari,
dovranno operare secondo criteri di analogia, riferita sia
alla struttura di bilancio prevista dal Dpr 194/1996 che del
modello armonizzato (Dpcm 28.12.2011) per affrontare la
problematica della riconduzione, della allocazione e della
ripartizione delle spese inerenti i servizi comunali in
essere, ai fini della gestione contabile della gestione
associata, alle nove funzioni fondamentali oggetto di
gestione associata.
Appare molto opportuno in sede di convenzionamento (o di
trasferimento di funzioni alle unioni), specificare quali
servizi comunali devono, anche ai fini contabili, collegarsi
alla specifica funzione oggetto di trasferimento e di
gestione associata per consentire agli uffici di ripartire
in modo ottimale le partite contabili soprattutto in
relazione a quei servizi che possono allocarsi in funzioni
diverse (articolo Il Sole 24 Ore del
12.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI:
Mina fiscale sulle unioni: le entrate non sono esenti.
«Dimenticata» l'agevolazione per le gestioni associate.
La gestione di servizi attraverso l'unione di Comuni o le
convenzioni, obbligatoria dal prossimo primo gennaio per gli
enti con meno di 5mila abitanti, ha delle importanti
conseguenze sul piano fiscale.
In particolare, in relazione alle entrate a carattere
commerciale, rilevanti ai fini Iva, quali, ad esempio, la
gestione di acquedotti, fiere, mostre, comunità per anziani,
asili nido, assistenza domiciliare, corsi sportivi, affitto
impianti, refezione scolastica, trasporto alunni. Queste
entrate, infatti, attualmente non sono soggette alle imposte
sui redditi in virtù dell'esclusione soggettiva prevista
dall'articolo 74 del Dpr 917/1986 (il testo unico delle
imposte sui redditi) per i Comuni, i consorzi tra enti
locali, le comunità montane, le Province e le Regioni.
L'articolo 74 non prevede però la fattispecie delle unioni
tra Comuni.
Né è possibile applicare per analogia questa esclusione, in
quanto il legislatore, «quando ha inteso estendere
un'agevolazione fiscale a tutti gli enti territoriali lo ha
espressamente affermato» (risoluzione Entrate 149/2005).
Anche la Corte di Cassazione si è pronunciata a riguardo. Ad
esempio nella sentenza n. 9760/1997 si legge :«Le ipotesi di
esenzione tributaria previste dalla legge rivestono
carattere eccezionale... e quindi non consentono
applicazione a fattispecie diverse da quelle che debbano
ritenersi in esse considerate alla stregua di una rigorosa
interpretazione».
Nella risoluzione n. 386/2007, poi, la stessa
amministrazione finanziaria ha trattato un caso in cui una
Provincia chiedeva la riconducibilità alle fattispecie
previste dall'articolo 74 del Tuir di nuovi enti chiamati
"Comunità" e definiti dalla stessa legge provinciale quali
enti pubblici costituiti «dai Comuni appartenenti al
medesimo territorio per l'esercizio di funzioni, compiti,
attività e servizi nonché, in forma associata obbligatoria,
delle funzioni amministrative trasferite ai Comuni».
Nella risposta le Entrate hanno ribadito che la formulazione
del Testo unico sulle imposte elencando tassativamente gli
enti non soggetti all'imposizione sui redditi, impedisce
ogni interpretazione estensiva di tale disposizione,
escludendo la riconducibilità nell'ambito applicativo della
stessa di enti diversi da quelli citati in modo esplicito.
In questo modo, però, l'unione di Comuni subirebbe una
sottrazione di risorse a causa delle imposte sui redditi
dovute, con un conseguente aumento delle tariffe, e un
incremento di costi dal punto di vista organizzativo a causa
della gestione dei nuovi adempimenti fiscali, fattori che
potrebbero vanificare i risparmi conseguenti alla gestione
associata.
Appare allora necessaria una precisa riflessione a riguardo,
che potrebbe condurre a valutare l'eventuale intervento del
legislatore per integrazioni o innovazioni delle figure
soggettive esistenti riconducibili all'articolo 74 del Tuir.
Questa esigenza peraltro era già emersa nel parere reso
dalla Sezione Terza del Consiglio di Stato n. 224/1989, in
relazione ad un quesito formulato proprio
dall'amministrazione finanziaria sui soggetti destinatari
della stessa norma del Tuir (articolo Il Sole 24 Ore del
12.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Pubblica
amministrazione. Lo stop della nuova selezione non fa
scattare lo scorrimento della vecchia graduatoria.
Bando annullato, parola al Tar.
Nessun diritto all'assunzione con giurisdizione del
tribunale ordinario.
L'annullamento del nuovo bando di concorso non fa scattare
lo "scorrimento" della vecchia graduatoria e, con questa, il
diritto dei "meglio classificati" all'assunzione nella
Pubblica amministrazione. Su queste controversie, pertanto,
la competenza è del giudice amministrativo e non del
tribunale ordinario perché non esiste un diritto
all'assunzione "a prescindere" quando un bando viene
annullato.
Le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione (sentenza
12.11.2012 n. 19595) tornano –a distanza di quattro
anni dall'ultima decisione sul tema– a fissare le regole per
le assunzioni di personale attraverso concorsi "reatroattivi".
Il caso scaturiva da un dipendente dell'agenzia delle
Entrate che, nel 2008 e dopo l'annullamento di un nuovo
bando di concorso, aveva chiesto al tribunale di Torino la
declaratoria del proprio diritto allo scorrimento di una
graduatoria formata con un decreto direttoriale di sette
anni prima. Accanto alla "sanatoria", il dipendente chiedeva
pure le differenze retributive rispetto alla posizione così
raggiunta e il risarcimento del danno per la mancata
crescita professionale.
Le Sezioni unite, però, hanno ribadito la decisione dei due
gradi di merito, che avevano prima dichiarato la nullità del
ricorso e, in appello, il difetto della giurisdizione
ordinaria a favore di quella del Tar. Il problema, secondo
la Corte, è che il diritto all'assunzione nel pubblico
impiego «sorge soltanto in seguito al perfezionamento di una
fattispecie complessa costituita dalla perdurante efficacia
di una graduatoria e dalla decisione di avvalersene
manifestata dalla Pa per la copertura dei posti vacanti».
Quindi, anche a fronte dell'annullamento tamquam non
esset del nuovo bando, perché si crei un diritto
all'assunzione dei meglio classificati è necessario che
l'amministrazione abbia dichiarato in qualche momento di
volersi avvalere della graduatoria già formata, sempre che
una tale previsione non fosse già contenuta in origine e per
il riempimento di tutte le posizioni messe a concorso.
Inoltre, sottolinea la Cassazione, i posti non devono essere
solo vacanti, ma anche disponibili, qualità che viene
concessa solo sulla base di «un'apposita determinazione».
Tutte queste condizioni sono equiparabili «all'espletamento
di tutte le fasi di una procedura concorsuale, con
l'identificazione degli ulteriori vincitori».
Lo spartiacque della giurisidizione (ordinaria/Tar) sta
quindi sul crinale dell'iter amministrativo: se questo è
stato completato, scatta un vero e proprio diritto allo
scorrimento della graduatoria (e cioè all'assunzione),
mentre non è sufficiente in sé l'annullamento del nuovo
bando a determinare la competenza del tribunale ordinario,
perché in quel caso si è ancora in un ambito di interessi
legittimi, e non di diritti soggettivi.
---------------
Le indicazioni
01 | IL CASO
Un dipendente delle Entrate di Torino, dopo l'annullamento
di un nuovo bando, chiedeva di utilizzare la graduatoria
dell'ultimo concorso dirigenziale
02 | ITER COMPLESSO
Per le Sezioni unite però si può procedere allo "scorrimento"
solo se la Pa aveva deciso di avvalersene già all'origine
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.11.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 33, comma 1, l. n.
47/1985 esclude la condonabilità degli interventi
edificatori realizzati in aree nelle quali siano consentite
solo opere di risanamento conservativo.
Ritenuto che le sentenze appellate sfuggono alle censure articolate in
sede d’appello alla stregua delle seguenti considerazioni:
- il diniego di sanatoria costituisce la doverosa
applicazione della disciplina dettata dall’art. 14 delle
norme tecniche d’attuazione del P.R.G. che, per le aree
comprese nel centro storico (zona A), consente solo
interventi di restauro scientifico o risanamento
conservativo finalizzati alla conservazione e alla
salvaguardia di quegli elementi che concorrono a qualificare
il contesto ambientale, vietando ogni costruzione, anche di
carattere provvisorio;
- viene quindi in rilievo un vincolo urbanistico di assoluta
inedificabilità che, ai sensi dell’art. 33, comma 1, lett.
a), della legge 28.02.1985, n. 47, impedisce la
sanatoria dell’opera abusiva in esame, concretatasi nella
sostanziale sopraelevazione dell’edificio e nella
costruzione di un nuovo vano;
- risulta pertinente al caso di specie il condivisibile
insegnamento giurisprudenziale (Cons. Stato sez. V, 25.09.1995, n. 1346) secondo cui l’art. 33, comma 1, l.
n. 47/1985 citato, richiamato dal provvedimento impugnato e
applicabile anche ai vincoli imposti in sede di
pianificazione urbanistica, esclude la condonabilità degli
interventi edificatori realizzati in aree nelle quali siano
consentite solo opere di risanamento conservativo (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.11.2012 n. 5707 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’opera contestata
integra un intervento di nuova costruzione, realizzato in
assenza di permesso di costruire, per cui l’ingiunzione di
demolizione censurata è non solo legittima, ma anche dovuta,
esplicazione di attività vincolata.
A fronte del carattere vincolato dell’attività sottesa
all’adozione del provvedimento gravato, la dedotta omessa
comunicazione di avvio del procedimento non ne determina
l’annullamento, secondo quanto previsto dall’art. 21-octies
della legge n. 241/1990 e s.m.i..
... per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia,
del provvedimento n. 132, emesso dal Comune di Valmontone
(RM) - Ufficio Tecnico Comunale in data 12.07.2012, recante
ingiunzione di demolizione di opere abusive, con
comminatoria acquisizione al patrimonio del Comune;
...
- Rilevato che con il presente gravame si impugna
l’ordinanza, emessa ai sensi dell’art. 15 della legge
regionale n. 15/2008, recante ingiunzione di demolizione di
una struttura in legno e ferro avente la superficie di 37,7
mq, realizzata su piattaforma di cemento ed adibita a
legnaia, e di un portico di 25,74 mq;
- Considerato:
---
che l’opera contestata integra un intervento di nuova
costruzione, realizzato in assenza di permesso di costruire,
per cui l’ingiunzione di demolizione censurata è non solo
legittima, ma anche dovuta, esplicazione di attività
vincolata;
---
che è evidente l’estraneità di detta struttura rispetto ad
ambedue le domande di condono edilizio invocate dalla parte
ricorrente, atteso che l’istanza presentata ai sensi della
legge n. 47/1985 concerne un manufatto avente la superficie
utile abitabile di 30 mq, mentre quello ai sensi della legge
n. 724/1994 riguarda un manufatto adibito ad abitazione di
98,87 mq;
---
che, a fronte del carattere vincolato dell’attività sottesa
all’adozione del provvedimento gravato, la dedotta omessa
comunicazione di avvio del procedimento non ne determina
l’annullamento, secondo quanto previsto dall’art. 21-octies
della legge n. 241/1990 e s.m.i. (TAR Lazio, Roma, Sez. I-quater,
sentenza 09.11.2012 n. 9224 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In assenza dei
presupposti per l'applicazione di una misura di
salvaguardia, un provvedimento di sospensione della
valutazione dell'istanza del privato costituisce atto
atipico e, pertanto, illegittimo.
Peraltro la sospensione della procedura stabilita con la
nota gravata, in attesa di un futuro piano di localizzazione
degli impianti di telefonia mobile, finisce per risolversi
in un illegittimo arresto sine die del procedimento, in
contrasto con le esigenze di speditezza proprie di tale
settore che trovano testuale riscontro nell'art. 87 del
D.lgs. n. 259/2003.
Né sussiste un potere dell'Amministrazione comunale di
adottare una misura del tipo di quella contenuta nel
provvedimento impugnato, suscettibile di sospendere la
proposta attività per una durata temporale assolutamente
indefinita: in proposito, deve osservarsi che nessuna norma
di legge attribuisce all'ente comunale il potere di emettere
una pronunzia soprassessoria sine die, peraltro contraria ad
ogni canone di certezza giuridica e alle esigenze di
celerità riferibili alle infrastrutture di telefonia mobile.
Né, infine, l'assenza di una regolamentazione ad hoc a
livello comunale della materia specifica potrebbe frapporsi
al rilascio dell'autorizzazione. Invero, come affermato
dalla costante giurisprudenza condivisa dal Collegio,
“l’assenza di una disciplina specifica, volta a individuare
il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli
impianti di cui trattasi ed a minimizzare l'esposizione
della popolazione ai campi elettromagnetici ..." non
preclude di per sé l’assentibilità dell’istanza.
... per l'annullamento del provvedimento prot. n. 0011866
U/2012 del 23.07.2012, notificato il 27.07.2012, con cui
l’istanza presentata dalla società ricorrente per
l’installazione di un impianto di telefonia mobile è stata
sospesa in attesa dell’approvazione del regolamento comunale
regolante la specifica materia e, per l’effetto, è stata
inibita l’esecuzione dei lavori.
...
Oggetto del presente giudizio è l'atto con il quale l’Amministrazione
comunale ha dichiarato improcedibile la D.I.A., presentata
ai sensi dell’art. 87 del D.lgs. n. 259/2003, in attesa
dell’adozione del Regolamento comunale disciplinante la
specifica materia.
Premesso che la previsione della futura adozione di un
Regolamento disciplinante la specifica materia da parte del
Regolamento edilizio comunale, non rende quest’ultimo atto
presupposto del provvedimento impugnato, trattandosi di
disposizione a carattere generale, priva di una propria
forza vincolante sulla declaratoria di improcedibilità della
D.I.A., il Collegio ritiene fondato il motivo con il quale
la società ricorrente denuncia l'illegittimità della
sospensione sine die dell'esame dell’istanza presentata.
E, infatti, in assenza dei presupposti per
l'applicazione di una misura di salvaguardia, un
provvedimento di sospensione della valutazione dell'istanza
del privato costituisce atto atipico e, pertanto,
illegittimo (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, sez. I,
14.04.2011, n. 520). Peraltro la sospensione della procedura
stabilita con la nota gravata, in attesa di un futuro piano
di localizzazione degli impianti di telefonia mobile,
finisce per risolversi in un illegittimo arresto sine die
del procedimento, in contrasto con le esigenze di speditezza
proprie di tale settore che trovano testuale riscontro
nell'art. 87 del D.lgs. n. 259/2003 (cfr. in termini TAR
Campania, Napoli VII, 29.05.2006, n. 6199; TAR
Abruzzo,15.06.2006, n. 420; TAR Puglia, Lecce, 03.11.2006, n.
5142).
Né sussiste un potere dell'Amministrazione comunale di
adottare una misura del tipo di quella contenuta nel
provvedimento impugnato, suscettibile di sospendere la
proposta attività per una durata temporale assolutamente
indefinita: in proposito, deve osservarsi che nessuna norma
di legge attribuisce all'ente comunale il potere di emettere
una pronunzia soprassessoria sine die, peraltro contraria ad
ogni canone di certezza giuridica e alle esigenze di
celerità riferibili alle infrastrutture di telefonia mobile.
Né, infine, l'assenza di una regolamentazione ad hoc a
livello comunale della materia specifica potrebbe frapporsi
al rilascio dell'autorizzazione. Invero, come affermato
dalla costante giurisprudenza condivisa dal Collegio,
“l’assenza di una disciplina specifica, volta a individuare
il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli
impianti di cui trattasi ed a minimizzare l'esposizione
della popolazione ai campi elettromagnetici ..." non
preclude di per sé l’assentibilità dell’istanza (cfr. Cons.
Stato, sez. VI, 21.04.2008, n. 1767) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 09.11.2012 n. 4561 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
comunicazione ex art. 7 l. n. 241/1990 deve ritenersi non
dovuta nei procedimenti che iniziano ad istanza di parte,
poiché l'interessato è già a conoscenza dell'avvio del
procedimento, avendolo egli stesso provocato.
Per un costante orientamento giurisprudenziale, già
esistente all’atto di proposizione del ricorso, la
comunicazione ex art. 7 l. n. 241/1990 deve ritenersi non
dovuta nei procedimenti che iniziano ad istanza di parte,
poiché l'interessato è già a conoscenza dell'avvio del
procedimento, avendolo egli stesso provocato (per tutti si
veda TAR Friuli-Venezia Giulia, 03.02.1996, n. 64)
(TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 08.11.2012 n. 1363 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nell'ipotesi
in cui nella motivazione del diniego di concessione in
sanatoria manchi il riferimento alla norma specifica ed allo
strumento urbanistico di imposizione del vincolo, detta
motivazione è legittima, ed assolve senz'altro la propria
funzione, quando riporti concretamente le ragioni del
diniego e richiami il parere contrario della Usl
interessata.
In realtà l’esame del
provvedimento impugnato dimostra come l’Amministrazione
abbia espressamente evidenziato le ragioni alla base del
diniego, rilevando come l’art. 16 della variante n. 33
sancisca espressamente il divieto di realizzazione nuove
destinazioni d’uso –non abitative- che non siano collocate
al “primo piano” degli edifici.
Un orientamento Giurisprudenziale affermatosi al tempo in
cui veniva emanato il provvedimento impugnato aveva sancito
inoltre che….”nell'ipotesi in cui nella motivazione del
diniego di concessione in sanatoria manchi il riferimento
alla norma specifica ed allo strumento urbanistico di
imposizione del vincolo, detta motivazione è legittima, ed
assolve senz'altro la propria funzione, quando riporti
concretamente le ragioni del diniego e richiami il parere
contrario della Usl interessata" (TAR Lombardia, Milano
Sez. II, 06.10.1993, n. 551) (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 08.11.2012 n. 1363 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di un soppalco deve essere considerata
rientrante nel novero degli interventi di ristrutturazione
edilizia, dal momento che determina una modifica della
superficie utile dell'appartamento, con conseguente aggravio
del carico urbanistico.
Deve ritenersi assoggettata al preventivo rilascio della
concessione (oggi permesso di costruire) la realizzazione di
un soppalco; laddove venga accertata l'esecuzione di opere
in assenza della prescritta concessione edilizia, l'adozione
dell'ordine di demolizione costituisce un atto dovuto; ciò
in quanto, come nel caso di specie, il soppalco comporta un
innegabile incremento della superficie calpestabile.
Per quanto concerne il diverso
profilo dell’eccesso di potere, e con riferimento al
presunto “travisamento dei fatti” in cui sarebbe
incorsa l’Amministrazione, va evidenziato come la
realizzazione di un soppalco determini “effettivamente”
un aumento di superficie utile, in espresso contrasto con le
disposizioni di cui alla variante n. 33 del Comune di
Verona.
Si consideri ancora come il mutamento di destinazione d’uso
sia stato posto in essere (così come risulta dagli
accertamenti) mediante la realizzazione di opere edilizie,
espressamente preordinate e funzionali allo stesso.
Sul punto va ricordato come, un’altrettanto risalente
giurisprudenza, reiterata peraltro con recentissime pronunce
(TAR Sardegna Cagliari Sez. II, 23.09.2011, n. 952, TAR
Sicilia Catania Sez. I, 07-11-2002, n. 1939), ha sancito che
la realizzazione di un soppalco deve essere considerata
rientrante nel novero degli interventi di ristrutturazione
edilizia, dal momento che determina una modifica della
superficie utile dell'appartamento, con conseguente aggravio
del carico urbanistico.
Si consideri ancora, che…."deve ritenersi assoggettata al
preventivo rilascio della concessione (oggi permesso di
costruire) la realizzazione di un soppalco; laddove venga
accertata l'esecuzione di opere in assenza della prescritta
concessione edilizia, l'adozione dell'ordine di demolizione
costituisce un atto dovuto; ciò in quanto, come nel caso di
specie, il soppalco comporta un innegabile incremento della
superficie calpestabile" (TAR Campania Napoli Sez. IV
Sent., 29-07-2008, n. 9518) (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 08.11.2012 n. 1363 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
I principi di par condicio, di favor
partecipationis, di segretezza dell’offerta, di tassatività
delle cause di esclusione, costituiscono regole generali non
derogabili da parte delle scelte discrezionali della
stazione appaltante.
La previsione di specifiche formalità di chiusura del plico
(ceralacca timbratura e controfirma sui lembi di chiusura),
eventualmente stabilite nel bando di gara, rispondono alla
evidente finalità di preservare l’integrità della busta
contenente l’offerta di gara, per cui ben può ritenersi che
la “difformità” dei “sigilli e delle sigle” rispetto a
quanto stabilito dalla lex specialis possa essere sanzionata
con l'esclusione dalla gara, costituendo un chiaro presidio
a salvaguardia del principio di segretezza dell'offerta.
Per altro verso, il richiamato principio del cd. favor alla
massima partecipazione degli aspiranti ad una selezione
pubblica deve, ad avviso del Collegio, ritenersi pienamente
operante in presenza di clausole di esclusione contenute
nella lex specialis che siano di incerta od ambigua
interpretazione, al fine di non pregiudicare la
partecipazione concorrenziale, non potendo invece incidere
nei riguardi delle cause di esclusione dipendenti dalla
mancanza di elementi essenziali dell'offerta o dalla
incompletezza o irregolarità dell’offerta stessa, intesa
nella sua interezza.
Al fine del decidere, occorre, in primo luogo, stabilire la
compatibilità fra la succitata disposizione della lex
specialis –a norma della quale “Il plico contenente
l’offerta economica e la documentazione dovrà a pena di
esclusione dalla gara:….. lett. b) essere idoneamente
sigillato con cera lacca, timbrato e controfirmato sui lembi
di chiusura…..”– e il principio espresso dall’art. 46,
comma 1-bis, del d.lgs. 163/2006 (applicabile alle gare
bandite successivamente al 14.05.2011, come previsto
dall'art. 4, comma 3, del medesimo d.l. 70/2011 e dunque
anche alla gara in questione) a tenore del quale: “la
stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in
caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal
presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di
legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul
contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di
sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso
di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda
di partecipazione o altre irregolarità relative alla
chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le
circostanze concrete, che sia stato violato il principio di
segretezza delle offerte; i bandi e le lettere di invito non
possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di
esclusione. Dette prescrizioni sono comunque nulle”.
Deve infatti rammentarsi che, in applicazione del citato
comma 1-bis, la Commissione di gara ha ritenuto, nel caso in
esame, comunque garantita l’integrità del plico contenente
l’offerta in presenza di una sigillatura con nastro adesivo
del tipo Scotch 550, in luogo della prescritta sigillatura
con cera lacca, prevista a pena d’esclusione, dalla
anzidetta disposizione del disciplinare di gara.
A tale riguardo, sulla base della consolidata elaborazione
normativa e giurisprudenziale, i principi di par condicio,
di favor partecipationis, di segretezza dell’offerta,
di tassatività delle cause di esclusione, costituiscono
regole generali non derogabili da parte delle scelte
discrezionali della stazione appaltante.
Ciò posto, con specifico riferimento al caso in esame, la
lex specialis altro non può che costituire il complesso
di regole comuni disciplinanti le singole fasi del
procedimento di gara, alla cui corretta ed integrale
applicazione la Stazione appaltante è tenuta, in ossequio al
predetto principio di par condicio dei partecipanti alla
gara, ad attenersi.
Unitamente a tale profilo, decisiva valenza assumono,
altresì, in materia i principi, innanzi riferiti, di
segretezza delle offerte -perseguibile mediante la
previsione di idonee modalità di confezionamento dei plichi
e di sigillatura e di sottoscrizione dei lembi di chiusura
dei plichi medesimi, contenenti le offerte di gara- e del
cosiddetto favor partecipazionis.
In particolare deve osservarsi che la previsione di
specifiche formalità di chiusura del plico (ceralacca
timbratura e controfirma sui lembi di chiusura),
eventualmente stabilite nel bando di gara, rispondono alla
evidente finalità di preservare l’integrità della busta
contenente l’offerta di gara, per cui ben può ritenersi che
la “difformità” dei “sigilli e delle sigle”
rispetto a quanto stabilito dalla lex specialis possa
essere sanzionata con l'esclusione dalla gara, costituendo
un chiaro presidio a salvaguardia del principio di
segretezza dell'offerta.
Per altro verso, il richiamato principio del cd. favor
alla massima partecipazione degli aspiranti ad una selezione
pubblica deve, ad avviso del Collegio, ritenersi pienamente
operante in presenza di clausole di esclusione contenute
nella lex specialis che siano di incerta od ambigua
interpretazione, al fine di non pregiudicare la
partecipazione concorrenziale, non potendo invece incidere
nei riguardi delle cause di esclusione dipendenti dalla
mancanza di elementi essenziali dell'offerta o dalla
incompletezza o irregolarità dell’offerta stessa, intesa
nella sua interezza (TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 07.11.2012 n. 1354 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
L’obbligo di astensione
dei consiglieri comunali per conflitto di interessi
unisoggettivo (cioè facente capo al medesimo consigliere) o
plurisoggettivo, trova fondamento nei principi
costituzionali di legalità, imparzialità e trasparenza
dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), essendo
finalizzato ad assicurare e mostrare nei confronti di tutti
gli amministrati la oggettività, efficacia ed efficienza
delle scelte amministrative discrezionale; tale obbligo
costituisce regola di carattere generale, che non ammette
deroghe ed eccezioni e ricorre, quindi, ogni qualvolta
sussiste una correlazione diretta ed immediata fra la
posizione dell'amministratore e l'oggetto della
deliberazione, pur quando la votazione non potrebbe avere
altro apprezzabile esito e quand'anche la scelta fosse in
concreto la più utile, la più vantaggiosa e la più opportuna
per lo stesso interesse pubblico.
Il dovere di astensione degli amministratori locali vale
dunque a preservare anzitutto la credibilità e la fiducia
nell’amministrazione, scattando, perciò, a fronte di
situazioni di mero pericolo e verificandosi in tutti i casi
in cui sussistano condizioni che, avuto riguardo al
particolare oggetto della decisione da assumere, appaiano
anche potenzialmente idonee a porre in pericolo l'assoluta
imparzialità e la serenità di giudizio dei titolari
dell'ente stesso.
Vale ricordare, al riguardo, che l’obbligo di astensione dei
consiglieri comunali per conflitto di interessi
unisoggettivo (cioè facente capo al medesimo consigliere) o
plurisoggettivo, trova fondamento nei principi
costituzionali di legalità, imparzialità e trasparenza
dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), essendo
finalizzato ad assicurare e mostrare nei confronti di tutti
gli amministrati la oggettività, efficacia ed efficienza
delle scelte amministrative discrezionale (C.d.S., sez. IV,
23.02.2001, n. 1038; 23.09.1996, n. 1035; 20.09.1993, n.
794); tale obbligo costituisce regola di carattere generale,
che non ammette deroghe ed eccezioni e ricorre, quindi, ogni
qualvolta sussiste una correlazione diretta ed immediata fra
la posizione dell'amministratore e l'oggetto della
deliberazione, pur quando la votazione non potrebbe avere
altro apprezzabile esito e quand'anche la scelta fosse in
concreto la più utile, la più vantaggiosa e la più opportuna
per lo stesso interesse pubblico (C.d.S., sez. V,
17.11.2009, n. 7151; sez. IV, 12.12.2000, n. 6596;
22.02.1994, n. 162).
Il dovere di astensione degli amministratori locali vale
dunque a preservare anzitutto la credibilità e la fiducia
nell’amministrazione, scattando, perciò, a fronte di
situazioni di mero pericolo e verificandosi in tutti i casi
in cui sussistano condizioni che, avuto riguardo al
particolare oggetto della decisione da assumere, appaiano
anche potenzialmente idonee a porre in pericolo l'assoluta
imparzialità e la serenità di giudizio dei titolari
dell'ente stesso (Consiglio Stato, sez. V, n. 7151/2009
cit.; id., 23.02.2001, n. 1038)
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 07.11.2012 n. 326 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La confisca negli appalti colpisce solo la parte
dei lavori già eseguiti.
Negli appalti ottenuti in maniera
illecita la confisca per equivalente non può colpire tutto
il profitto ottenuto dall'impresa ma solo la quota parte
riferita al netto del valore dei lavori già eseguiti.
E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la
sentenza 05.11.2012 n. 42530.
Il caso e la difesa dell’imprenditore
Il caso esposto in Cassazione è la conseguenza del fatto che
il Tribunale di una provincia Toscana aveva rigettato
l’istanza di riesame proposta da un imprenditore contro un
decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca
per equivalente emesso dal GIP dello stesso Tribunale ,
nell’ambito di un procedimento che ha come oggetto episodi
di corruzione, concussione e turbata libertà degli incanti,
con riferimento agli appalti di aggiudicazione di gare
indette da alcuni Comuni toscani e da un Consorzio di
bonifica della zona.
La difesa dell’imprenditore aveva chiesto l’annullamento
dell’ordinanza del Riesame, per violazione dell’art. 322-ter
c.p., avendo il giudice di merito fornito una criticabile
interpretazione della nozione di profitto rilevante ai fini
dell’applicazione della disciplina in materia di sequestro
preventivo per equivalente. Infatti l’impugnato
provvedimento aveva ritenuto congruo il valore delle somme
sottoposte a vincolo (circa 62mila euro) sulla base di una
valutazione “meramente apparente”, in quanto fondata non già
sull’accertamento in concreto del profitto lucrato, ma su un
profitto presunto in via implicita, mediante il generico
richiamo alle gare vinte dalla società del ricorrente e alle
somme relative agli importi di aggiudicazione ad esse
corrispondenti.
L’analisi dei giudici della Cassazione
Per la Corte di Cassazione il ricorso dell’imprenditore è
fondato e va accolto.
I giudici di legittimità evidenziano che la Cassazione ha da
tempo stabilito il principio secondo cui, ai fini del
sequestro preventivo finalizzato alla confisca per
equivalente di cui all’articolo 322-ter cod. pen., in
presenza di un contratto di appalto ottenuto con la
corruzione di pubblici funzionari, la nozione del profitto
confiscabile al corruttore non va identificata con l’intero
valore del rapporto sinallagmatico instaurato con la P.A. ,
dovendosi in proposito distinguere il profitto direttamente
derivato dall’illecito penale dal corrispettivo conseguito
per l’effettiva e corretta erogazione delle prestazioni
svolte in favore della stessa amministrazione, le quali non
possono considerarsi automaticamente illecite in ragione
dell’illiceità della causa remota.
La Corte di Cassazione, tuttavia, con la sentenza in
commento si spinge oltre; i giudici di legittimità ritengono, infatti, che il profitto che la parte privata ha
conseguito dall’appalto illecitamente ottenuto, non può
globalmente omologarsi all’intero valore del rapporto
contrattuale fra aziende ed ente.
L’instaurarsi di un rapporto a prestazioni corrispettive,
infatti, impone di dividere il profitto confiscabile, quale
direttamente derivato dall’illecito penale, dal profitto
determinato dal corrispettivo di una effettiva e corretta
erogazione di prestazioni comunque svolte in favore della
stessa pubblica amministrazione, prestazioni che non possono
considerarsi, di per sé stesse e per immediato automatismo
traslativo, “colorate di illiceità per derivazione dalla
causa remota, non potendosi includere, nella nozione di
profitto, qualunque ricavo conseguito per effetto della
stipula di un contratto di appalto illecitamente ottenuto
nell’ambito di una relazione corruttiva”.
Nel caso in esame non è stata operata correttamente la
confisca in quanto sono state sequestrate somme di denaro
nella disponibilità dell’indagato il cui valore è stato
ritenuto congruo sulla base di un apprezzamento di tipo
presuntivo riferito in maniera generica alla somma dei
diversi importi di aggiudicazione.
La Cassazione, in sostanza, annulla la sentenza con rinvio
del provvedimento, affinché il nuovo giudice valuti la
giusta somma da assoggettare a confisca (commento tratto da
www.ipsoa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il
Tar Lazio respinge le lamentele dei candidati esclusi: la
busta trasparente non è motivo sufficiente. Anonimato violato?
Da provare.
Il semplice sospetto non basta per annullare la selezione.
È garantito l'anonimato nel concorso a dirigente scolastico
se non c'è prova di una violazione effettiva dei documenti.
Sulla base di questo assunto (e di altri motivi peculiari)
il TAR del Lazio ha respinto il ricorso
di concorrenti di varie regioni contro il ministero ed i
rispettivi uffici scolastici di Piemonte, Sicilia, Marche e
Basilicata: la
sentenza 05.11.2012 n.
9018 è stata emessa dalla Sez. III-bis..
I giudici del Tar di Roma si sono così espressi
in sentenza: perché si rendano attendibili e determinanti,
ai fini della invalidazione di prove a carattere
concorsuale, per la esistenza di irregolarità, denunciate
come suscettibili di violare l'anonimato, «devono rendersi
emergenti elementi che rilevino la effettiva compromissione
della garanzia dell'anonimato» che esige che la correzione
avvenga su testo proveniente da candidato, ma anonimo alla
commissione.
In altre parole, una situazione, che eluda
l'anonimia e renda intellegibile il candidato, deve essere
emergente ed effettiva; pertanto, la contestazione sulla
validità del concorso non può venire espressa in termini di
possibilità o «posta con espressioni probabilistiche»,
rilevandosi esse ininfluenti al fine di inficiare l'operato
della commissione.
La questione assume particolare rilievo essendo pendente una
controversia maggiormente intricata sul concorso a preside
che ha avuto luogo nella regione Lombardia proprio in tema
di regola dell'anonimato (per le buste contenenti le
generalità dei partecipanti) e che vede fronteggiarsi, oltre
alla p.a., un centinaio di ricorrenti in primo grado, da un
lato, e circa 400 concorrenti che, superando tutte le prove,
sono inseriti nella graduatoria definitiva, dall'altro.
A
qualche giorno dall'attesa udienza di trattazione del 20
novembre, presso il Consiglio di stato, dell'appello del
ministero avverso la sentenza del Tar di Milano sul caso
appena descritto, questa decisone del Tar del Lazio offre
una variazione di visuale e un diverso spirito di
interpretazione della situazione. I giudici lombardi di
primo grado hanno, infatti, ritenuto che la garanzia
dell'anonimato decada con la sola possibilità astratta di
attribuire la paternità agli elaborati; in tal senso era
stato sufficiente assumere che la busta era «al limite della
trasparenza» e che la leggibilità era rilevata «se posta in
controluce».
La decisione laziale, invece, si attiene al
principio di una prova rigorosa quale elemento necessario
per dimostrare che la pubblica amministrazione non abbia
agito con regolarità; implicando, peraltro, il venir meno
del substrato di fiducia che va rassegnata ad un organo
precipuamente designato per l'effettuazione di un concorso
tra i più ambìti nel pubblico impiego.
Supporre che una possibilità astratta possa invalidare
l'esito di una procedura affidata ad una commissione conduce
ad avanzare dubbi sulla probità della stessa al punto da
giungere a conclusioni aberranti: se si da' credito al
sospetto anche la più impenetrabile delle buste con il nome
del candidato può essere aperta prima della correzione
dell'elaborato
(articolo ItaliaOggi del 13.11.2012). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Sentenza Cds sulla regolarità urbanistica. Locali irregolari? Attività
abusiva.
È abusivo l'esercizio dell'attività agrituristica in locali
che presentano irregolarità sotto il profilo
edilizio-urbanistico ed è legittimo l'ordine di cessazione
dell'attività pronunciato dal comune. Il legittimo esercizio
di un'attività commerciale, soprattutto se essa comporti,
come nel caso di specie, la somministrazione di alimenti e
bevande, deve essere ancorato, sia in sede di rilascio del
relativo titolo autorizzatorio sia per l'intera durata del
suo svolgimento, alla disponibilità giuridica e alla
regolarità urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene
posta in essere. Nel rilascio dell'autorizzazione
commerciale occorre tenere presenti i presupposti aspetti di
conformità urbanistico-edilizia dei locali in cui l'attività
commerciale si va a svolgere, con la naturale conseguenza
che il diniego di esercizio di attività di commercio deve
ritenersi legittimo ove fondato su rappresentate e accertate
ragioni di abusività e/o non regolarità delle opere edilizie
in questione con le prescrizioni urbanistiche. Nel caso di
specie, è incontroversa la mancanza di conformità
urbanistica-edilizia del compendio aziendale, pertanto
appare ineccepibile il consequenziale provvedimento
inibitorio adottato dal comune, rispetto alla richiesta di
rilascio della relativa autorizzazione commerciale. In
materia di agriturismo vi è una disciplina legislativa
statale e regionale particolarmente rigorosa, perché
finalizzata a preservare la specificità del settore a e la
genuinità dei prodotti fruibili all'interno dell'azienda.
Questo è il contenuto della
sentenza 05.11.2012 n. 5590 del Consiglio di
Stato (Sez. V).
I giudici di
Palazzo Spada ritengono corretto il comportamento del comune
che ha ordinato la cessazione dell'attività abusiva di
agriturismo, sul rilievo della non assentibilità dei
manufatti realizzati nel compendio aziendale e della
improcedibilità dell'istanza di rilascio dell'autorizzazione
sanitaria in relazione a locali
(articolo ItaliaOggi del 13.11.2012). |
APPALTI SERVIZI:
Rilievo economico escluso nei servizi senza impresa.
Un servizio pubblico locale, se impostato in chiave solo
erogativa, è privo di rilevanza economica.
Così si è espresso il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 23.10.2012 n. 5409, che ha introdotto importanti elementi di
analisi per la qualificazione dei servizi pubblici, partendo
dal presupposto che la distinzione tra attività economiche e
non economiche è dinamica. Di conseguenza, è impossibile
fissare a priori un elenco definitivo dei servizi di
interesse generale di natura economica.
Per la qualificazione di un servizio pubblico si deve
considerare non solo il tipo o le caratteristiche
merceologiche del servizio, ma anche la soluzione
organizzativa che l'ente, quando può scegliere, sente più
appropriata.
Come, infatti, vi sono attività soltanto erogative, molte
altre possono essere svolte, a scelta, con o senza copertura
dei costi, dal che discende una diversa qualificazione sotto
il profilo della rilevanza economica.
La mancanza di rilevanza economica è rilevabile, infatti,
nelle situazioni in cui l'ente locale offra il servizio
gratuitamente o sopportandone parte dei costi. La
distinzione può derivare, quindi, non solo dalla
configurazione astratta, ma anche dalle specifiche modalità
organizzative del l'attività.
Il Consiglio di Stato evidenzia come siano privi di
rilevanza economica i servizi pubblici locali resi agli
utenti senza copertura dei costi, e che, inoltre, non
richiedono una organizzazione di impresa in senso obiettivo
(anche facendo riferimento ai parametri determinati
dall'articolo 2082 del Codice civile).
I servizi con un modello organizzativo semplice (non a
caratterizzazione imprenditoriale) e con copertura dei costi
a carico dell'amministrazione (in tutto o in parte
significativa) sono quindi qualificabili come privi di
rilevanza economica. Rientrano in questa prospettiva molti
servizi di tipo assistenziale, con modalità di erogazione
gratuita, ma anche quei servizi a domanda individuale (per
esempio l'utilizzo degli impianti sportivi) con tariffe
coperte dagli utenti solo in misura minima, largamente
insufficiente a coprire i costi di base.
Per le attività dotate di una maggiore complessità
organizzativa (astrattamente di rilevanza economica), la
qualificazione deve derivare da un'analisi caso per caso,
focalizzando l'attenzione sulle modalità di erogazione,
nonché sulla potenzialità di produrre o meno un utile di
gestione (anche se molto limitato) e, quindi, di riflettersi
sul l'assetto concorrenziale del mercato di settore o di non
risultare significativo per lo stesso.
Secondo il Consiglio di Stato, inoltre, se l'amministrazione
si organizza per svolgere –anche in proprio (in economia)–
una vera attività imprenditoriale, seppure senza autonoma
organizzazione (è il caso di una gestione intersettoriale,
comunque ben strutturata), la circostanza è dirimente per
inserire il servizio tra quelli a rilevanza economica (articolo Il Sole 24 Ore del
12.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI:
Tassatività delle cause di esclusione dalla gara
e principio di ragionevolezza.
Con
sentenza 19.10.2012 n. 5389, la Sez. VI del Consiglio di
Stato ha chiarito come anche prima della positivizzazione
(ad opera del decreto-legge n. 70 del 2011) del principio di
tassatività delle clausole di esclusione (art. 46-comma
1-bis del d.lgs. 163/2006) nell’ambito delle pubbliche gare,
la giurisprudenza aveva fissato il principio secondo cui le
clausole della lex specialis, ancorché contenenti
comminatorie di esclusione, non possono essere applicate
meccanicisticamente, ma secondo il principio di
ragionevolezza, e devono essere valutate alla stregua
dell’interesse che la norma violata è destinata a presidiare
per cui, ove non sia ravvisabile la lesione di un interesse
pubblico effettivo e rilevante, deve essere accordata la
preferenza al favor partecipationis.
In particolare il ricorso era stato introdotto da una
società che nell’ambito di un appalto per l’affidamento del
servizio di validazione di progetti era stata esclusa poiché
aveva violato il punto 10 del disciplinare di gara il quale
chiedeva, a pena di esclusione, l’indicazione dei costi di
sicurezza connessi alla realizzazione dell’appalto.
Il Consiglio di Stato nel riconoscere la fondatezza del
ricorso, ha sottolineato come “[…]deve prestarsi puntuale
adesione all’orientamento secondo cui l’esclusione da una
gara pubblica può legittimamente essere disposta ove il
concorrente abbia violato previsioni poste a tutela degli
interessi sostanziali dell'Amministrazione o a protezione
della par condicio tra i concorrenti e la carenza essenziale
del contenuto o delle modalità di presentazione, che
giustifica detta esclusione, deve in primo luogo riferirsi
all'offerta, incidendo oggettivamente sulle componenti del
suo contenuto ovvero sulle produzioni documentali a suo
corredo dirette a definire il contenuto delle garanzie e
l'impegno dell'aggiudicatario, in rispondenza ad un
interesse sostanziale della stazione appaltante, costituendo
il canone dell'utilità delle clausole e della necessità di
evitare inutili appesantimenti, nonché di garantire in
massimo grado la partecipazione dei concorrenti, nel
rispetto della par condicio, metodo operativo ed
interpretativo irrinunciabile (Cons. Stato, V, 28.02.2011, n. 1245)”.
In applicazione di questo orientamento il Consiglio di Stato
ha ritenuto del tutto irragionevole e priva di alcuna
utilità la sanzione espulsiva prevista dalla legge di gara,
a fronte di un onere meramente formale e, per di più,
sostanzialmente inutile poiché nell’ambito di un appalto per
l’affidamento del servizio di validazione di progetti erano
sicuramente assenti profili di interesse in tema di salute e
sicurezza sul lavoro e quindi l’importo dichiarato dalla
società non sarebbe potuto essere che pari a zero.
In conclusione, anche a prescindere della previsione di cui
al comma 1-bis dell’articolo 46 del d.lgs. 163/2006 sono
illegittime le clausole escludenti che non siano finalizzate
a presidiare un interesse pubblico effettivo e rilevante,
dovendosi in tale ipotesi accordare preferenza al favor partecipationis (tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Denunce di abuso edilizio: la PA deve sempre
pronunciarsi.
L'amministrazione ha l'obbligo di pronunciarsi sulle denunce
di abuso edilizio commesso dal titolare di una DIA o SCIA,
indipendentemente dalle misure repressive che potrà
successivamente assumere circa l'esigenza di reprimere o
meno l'abuso segnalato dal privato.
Lo ha stabilito la IV Sez. del Consiglio di Stato, con la
sentenza 17.10.2012 n. 5347.
Nel caso di specie un proprietario di una terreno ha
impugnato il silenzio serbato dall’amministrazione in ordine
ad una denuncia presentata per segnalare un abuso edilizio
perpetrato dal vicino.
Al Comune, in particolare, era stato chiesto di accertare
l’irregolarità dei lavori realizzati in violazione di una
precedente DIA del controinteressato posto che lo stesso,
attraverso l’apposizione di una recinzione e di un cancello,
avrebbe inglobato nella sua proprietà anche una porzione di
strada ad uso pubblico che veniva utilizzata dal denunciante
(e non solo), al punto da rendere difficoltoso il passaggio
e quindi l’utilizzo della stessa via.
Per questo motivo, era stata avanzata anche la richiesta di
intervento attraverso l’esercizio dei poteri inibitori e
repressivi.
L’adito tribunale amministrativo, però, ha ritenuto il
silenzio dell’amministrazione del tutto legittimo, per
l’effetto negando tanto la necessità di reprimere il
paventato abuso edilizio quanto la richiesta di risarcimento
del danno avanzata dal ricorrente. Secondo il giudice
amministrativo, infatti, non vi sarebbe una effettiva
lesione delle prerogative dominicali del ricorrente da cui
far discendere l’obbligo per l’amministrazione di esercitare
i poteri repressivi lei riconosciuti dalla legge.
La decisione è stata motivata sulla base di un duplice
ordine di motivi: anzitutto non era stata provata
l’effettiva esistenza della strada della quale si sarebbe
ostruito il passaggio (al più riconducibile, sempre secondo
il TAR ad “strada-vicinale”), e ciò delle risultanze
dell’infruttuoso esperimento della tutela possessoria, in
sede civilistica, da parte di un terzo proprietario che,
similmente al ricorrente, aveva rivendicato il proprio
diritto di passaggio; in secondo luogo, non era apparsa
evidente nemmeno l’effettiva destinazione pubblica della
strada medesima. Dati i richiamati argomenti, che
propendevano per una qualificazione della controversia in
termini privatistici, il giudice amministrativo ha ritenuto
l’insussistenza dei presupposti per sollecitare
l’amministrazione, data l’esigenza di difendere un diritto
privato del ricorrente.
La sentenza è stata appellata al Consiglio di Stato il
quale, facendo ordine sulla vicenda, ha totalmente ribaltato
il dictum del tribunale di primo grado, accertando al
contrario la sussistenza, nel caso di specie, dell’obbligo
dell’amministrazione di pronunciarsi sulla vicenda e
l’illegittimità, di riflesso, del silenzio mantenuto.
Segnatamente, i giudici di Palazzo Spada hanno anzitutto
riportato l’attenzione sulla originaria domanda del
ricorrente, ossia quella volta ad ottenere che
l’amministrazione, a prescindere dalla sussistenza o meno
dell’abuso edilizio, si pronunciasse sulla vicenda,
l’esercizio o meno dei poteri inibitori essendo una scelta,
indiscutibilmente rimessa all’amministrazione, ma attinente
ad una fase successiva. Analizzando la lite sotto questo
profilo, hanno osservato i giudici romani, poteva certamente
rinvenirsi un obbligo di provvedere dell’amministrazione
rimasto inadempiuto.
E’ stato osservato, infatti, come l'obbligo giuridico di
provvedere di cui all'articolo 2 della legge n. 241/1990
ricorra in tutti i casi in cui, per ragioni di giustizia e
di equità, risulti necessaria l'adozione di un provvedimento
e quindi, tutte quelle volte in cui, in relazione al dovere
di correttezza e di buona amministrazione della parte
pubblica, sussista una legittima aspettativa del privato a
conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni
dell'Amministrazione, anche nel caso in cui queste non
dovessero essere quelle auspicate (ad esempio la negazione
dell’esercizio delle potere inibitorio).
Secondo il Consiglio di Stato, quindi, il TAR avrebbe posto
in essere una commistione di due questioni giuridiche tra
loro distinte. In altri termini: un conto è l’obbligo di
pronunciarsi dell’amministrazione, altro conto è l’obbligo
di intervenire con l’esercizio dei poteri inibitori; la
mancata ricorrenza dei presupposti del secondo, si precisa
nella sentenza in epigrafe, non esclude che vi siano quelli
del primo.
Da ultimo, il Consiglio di Stato, ha cura di precisare un
altro aspetto importante della vicenda, quello relativo alla
possibilità che gli sviluppi della tutela possessoria,
parallelamente azionata (da un terzo o) dallo stesso
ricorrente, incidano sulla scelta dell’amministrazione,
facendola venire meno in caso di esito negativo.
Sul punto si è detto che la tutela in sede civile deve
considerarsi irrilevante ai fini del giudizio sulla
sussistenza dell’obbligo dell’amministrazione di
pronunciarsi sull’istanza del privato, ben potendo la tutela
amministrativa (con la rimozione del presunto abuso, magari
non conseguita in sede civile) realizzarsi mediante il
richiesto esercizio dei poteri pubblicistici in materia
edilizia.
L’intento sotteso a quest’ultima precisazione, ancora una
volta, è quello di fare ordine sul reale contenuto dei
singoli interessi del titolare e sul perimetro delle
rispettive tutele (commento tratto da www.ispoa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Intestazione fiduciaria nelle gare di appalto,
gare senza trust.
In materia di intestazioni fiduciarie negli appalti pubblici
la stazione appaltante deve avere conoscenza della reale
identità di tutti i partecipanti al fine di valutarne
l'affidabilità, e evitare infiltrazioni di organizzazioni
criminali; il
chiarimento fornito dal
Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 15.10.2012 n. 5279
che si è pronunciata in merito alle intestazioni fiduciarie
di un ATI, partecipante ad una gara per l'affidamento del
servizio di vigilanza armata di un edificio.
Il TAR respingeva un ricorso proposta da una SRL, seconda
classificata, avverso gli atti di gara, inerenti alla gara
per l’affidamento (di durata triennale) del servizio di
vigilanza armata e di portierato presso le strutture
dell’Agenzia regionale per il diritto allo studio
universitario (A.DI.S.U.) col sistema dell’offerta
economicamente più vantaggiosa.
Il ricorso era affidato a tre motivi, tra cui, per quanto
qui interessa, quello riguardante la censura
dell’illegittima mancata esclusione dell’A.T.I. prima
classificata per violazione del divieto di intestazione
fiduciaria e dei correlativi obblighi informativi di cui al
combinato disposto degli artt. 38, comma 1, lett. d), D.Lgs.
12.04.2006, n. 163, e 17, comma 3, legge 19.03.1990, n. 55,
in quanto l’associata “Vigilanza (…..)” s.r.l.
annoverava tra i propri soci una SPA autorizzata quale
società fiduciaria ai sensi della legge n. 1966/1939 (il cui
art. 1, comma 1, enuncia la seguente definizione normativa:
“Sono società fiduciarie e di revisione e sono soggette
alla presente legge quelle che, comunque denominate, si
propongono, sotto forma di impresa, di assumere
l’amministrazione dei beni per conto di terzi,
l’organizzazione e la revisione contabile di aziende e la
rappresentanza dei portatori di azioni e di obbligazioni,
omettendo di segnalarne la presenza e così impedendo alla
stazione appaltante di ottenere ogni informazione utile
riguardo all’identità dei fiducianti”.
Il Tribunale amministrativo respingeva il ricorso della SRL
ricorrente; avverso tale sentenza la SRL seconda
classificata in graduatoria proponeva ricorso al Consiglio
di Stato .
Per il Consiglio di Stato meritano accoglimento le
motivazioni della società ricorrente.
Per i giudici di Palazzo Spada da una lettura sia testuale
che sistematica del ricorso di primo grado emerge in modo
chiaro ed univoco che la censura di inosservanza degli
obblighi di informativa con riguardo alla presenza di una
società fiduciaria e all’identità dei fiducianti è stata
dedotta sia sotto il profilo della violazione dei menzionati
obblighi al momento della presentazione della domanda, sia
sotto il profilo della persistenza della correlativa
condotta di ‘occultamento’ anche dopo
l’aggiudicazione e, persino, dopo la stipula del contratto,
onde dedurne l’illegittimità dell’aggiudicazione e
l’invalidità del contratto.
L’art. 38, comma 1, lett. d), D.Lgs. n. 163 del 2006,
tramite il rinvio all’art. 17 l. n. 55 del 1990 nel testo
modificato dalla legge n. 415 del 1998, configura non solo
l’interposizione fiduciaria di società non autorizzata, ma
anche il mancato assolvimento all’obbligo informativo in
caso di società autorizzata, come causa di esclusione dalla
gara, sancendo i conseguenti divieti di aggiudicazione e di
stipula del contratto (la novella apportata al comma 1,
lett. d), dell’art. 38 dal d.l. 13.05.2011, n. 70,
convertito dalla l. 12.07.2011, n. 106, si limita a
circoscrivere temporalmente la durata e la decorrenza della
causa di esclusione, a un anno a partire dall’accertamento
definitivo della violazione, senza modificare gli elementi
costitutivi della fattispecie escludente).
Le due ipotesi si diversificano esclusivamente per la
diversa modulazione temporale, preventiva nella prima, e
rispettivamente successiva all’aggiudicazione nella seconda,
della verifica dei requisiti generali di partecipazione, ma
concettualmente rientrano entrambe nel novero delle cause di
esclusione per carenza dei requisiti di partecipazione, e
dunque ineriscono alla fase di evidenza pubblica e non già a
quella dell’esecuzione del contratto, con conseguente
infondatezza dell’eccezione di carenza di giurisdizione
sollevata dall’Amministrazione appellata.
I giudici di Palazzo Spada evidenziano che se, poi, si pone
mente alla ratio sottesa alla disciplina in esame,
volta a consentire alle amministrazioni appaltanti di aver
sempre certezza della reale identità dei propri contraenti,
prevenendo così il rischio di infiltrazioni occulte delle
organizzazioni criminali nell’esecuzione dei pubblici
appalti, la correlativa verifica, anche se da compiere,
nella seconda delle menzionate ipotesi, dopo
l’aggiudicazione (ma pur sempre prima della stipula del
contratto), è espressione di un potere autoritativo (e, allo
stesso tempo, di uno specifico dovere) di valutazione dei
requisiti soggettivi dei contraenti, idoneo ad incidere, nel
caso di esito negativo, in senso caducante
sull’aggiudicazione e sul contratto, con conseguente
attrazione della relativa controversia, nell’orbita di
giurisdizione del giudice amministrativo.
L’accoglimento dell’appello comporta l’analisi corretta
dell’esame della domanda di risarcimento dei danni, proposta
sin dall’atto introduttivo di primo grado ed espressamente
riproposta nel ricorso in appello.
Per i giudici di Palazzo Spada l’appello va accolto e, in
riforma della impugnata sentenza, va dichiarata
l’illegittimità dell’aggiudicazione (nonché, l’invalidità
del contratto, con la conseguente caducazione dei suoi
effetti), e va accolta la domanda risarcitoria proposta
dalla società ricorrente.
Per il Consiglio di Stato, in sostanza, alla ditta
ricorrente spetta la somma di euro 67.500,00, cui vanno
aggiunti, trattandosi di debito di valore e non di valuta,
gli interessi legali e la rivalutazione monetaria (da
calcolare separatamente sugli importi nominali del credito)
(commento tratto da www.ispoa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Per identificare giuridicamente un servizio
pubblico, non è indispensabile, a livello soggettivo, la
natura pubblica del gestore, mentre è necessaria la vigenza
di una norma legislativa che, alternativamente, ne preveda
l’obbligatoria istituzione e la relativa disciplina oppure
che ne rimetta l’istituzione e l’organizzazione
all’Amministrazione. Oltre alla natura pubblica delle regole
che presiedono allo svolgimento delle attività di servizio
pubblico e alla doverosità del loro svolgimento, è ancora
necessario, nella prospettiva di un’accezione oggettiva
della nozione, che le suddette attività presentino un
carattere economico e produttivo (e solo eventualmente
costituiscano anche esercizio di funzioni amministrative), e
che le utilità da esse derivanti siano dirette a vantaggio
di una collettività, più o meno ampia, di utenti (in caso di
servizi divisibili) o comunque di terzi beneficiari (in caso
di servizi indivisibili).
Nemmeno la circostanza, che per le attività in esame non sia
prevista l’erogazione di un corrispettivo da parte dei
beneficiari (come è invece proprio di un’usuale attività di
depurazione), è idonea a inficiare i riferiti connotati
dell’attività quale attività di servizio pubblico, in
quanto, per un verso, la previsione di un corrispettivo
(così come di un profitto del gestore del servizio) non è
essenziale sul piano della qualificazione giuridica delle
attività di servizio pubblico e, per altro verso, da un
punto di vista strettamente economico, l’utilità dei
soggetti tenuti alla messa in sicurezza e alla bonifica di
siti inquinati è, in una visione complessiva, all’evidenza
rappresentata dal vantaggio che i medesimi (o i loro danti
causa) abbiano conseguito precedentemente attraverso
l’esternalizzazione dei costi (le diseconomie da
inquinamento trasferite all’esterno dell’impresa e accollate
al pubblico) relativi a oneri del processo produttivo (ossia
quelli connessi al corretto smaltimento degli agenti
inquinanti) che -come rimanda il principio generale “chi
inquina paga”- sarebbero dovuti restare ab origine a carico
delle stesse imprese inquinatrici: sicché alcuni di detti
costi attraverso le procedure di bonifica e messa in
sicurezza vengono nuovamente internalizzati (peraltro,
verosimilmente in misura inferiore al vantaggio ottenuto
dalle imprese obbligate, non essendo integralmente risarciti
i danni, individuali e collettivi, alla salute medio tempore
verificatisi).
Da quanto sopra esposto in punto di fatto e di svolgimento
del processo, risulta che le determinazioni delle conferenze
di servizi impugnate in primo grado attengono allo specifico
svolgimento delle attività di messa in sicurezza e di
bonifica di un sito inquinato di interesse nazionale
(attraverso l’emunzione delle acque di falda sottostanti
l’area industriale in questione), in passato disciplinate
dall’art. 17 d.lgs. 05.02.1997, n. 22, e attualmente
dall’art. 252 d.lgs. 03.04.2006, n. 152.
Si verte dunque (come recentemente rilevato da questo
Consiglio di Stato, in analoga fattispecie, con la recente
sentenza di questa Sezione VI, 05.04.2012, n. 2021), in
materia di attività obbligatoria ex lege (al
ricorrere di determinati presupposti di fatto) disciplinata
da fonti di rango primario, che è svolta (anche) a favore di
una collettività indeterminata di beneficiari (gli abitanti
della zona inquinata), mira al perseguimento di un interesse
pubblico (alla salubrità ambientale e al ripristino del
bene-interesse leso dagli inquinamenti) e, infine, consiste
in attività produttiva e di rilievo economico, con
conseguente indubbia qualificabilità come servizio pubblico
(v., nello stesso senso, Consiglio di Giustizia
Amministrativa per la Regione Siciliana, 06.10.2010, n.
1266).
Infatti, per identificare giuridicamente un servizio
pubblico, non è indispensabile, a livello soggettivo, la
natura pubblica del gestore, mentre è necessaria la vigenza
di una norma legislativa che, alternativamente, ne preveda
l’obbligatoria istituzione e la relativa disciplina oppure
che ne rimetta l’istituzione e l’organizzazione
all’Amministrazione. Oltre alla natura pubblica delle regole
che presiedono allo svolgimento delle attività di servizio
pubblico e alla doverosità del loro svolgimento, è ancora
necessario, nella prospettiva di un’accezione oggettiva
della nozione, che le suddette attività presentino un
carattere economico e produttivo (e solo eventualmente
costituiscano anche esercizio di funzioni amministrative), e
che le utilità da esse derivanti siano dirette a vantaggio
di una collettività, più o meno ampia, di utenti (in caso di
servizi divisibili) o comunque di terzi beneficiari (in caso
di servizi indivisibili).
Come già in occasione di quel recente precedente, vale
ribadire che nemmeno la circostanza, che per le attività in
esame non sia prevista l’erogazione di un corrispettivo da
parte dei beneficiari (come è invece proprio di un’usuale
attività di depurazione), è idonea a inficiare i riferiti
connotati dell’attività quale attività di servizio pubblico,
in quanto, per un verso, la previsione di un corrispettivo
(così come di un profitto del gestore del servizio) non è
essenziale sul piano della qualificazione giuridica delle
attività di servizio pubblico e, per altro verso, da un
punto di vista strettamente economico, l’utilità dei
soggetti tenuti alla messa in sicurezza e alla bonifica di
siti inquinati è, in una visione complessiva, all’evidenza
rappresentata dal vantaggio che i medesimi (o i loro danti
causa) abbiano conseguito precedentemente attraverso
l’esternalizzazione dei costi (le diseconomie da
inquinamento trasferite all’esterno dell’impresa e accollate
al pubblico) relativi a oneri del processo produttivo (ossia
quelli connessi al corretto smaltimento degli agenti
inquinanti) che -come rimanda il principio generale “chi
inquina paga”- sarebbero dovuti restare ab origine
a carico delle stesse imprese inquinatrici: sicché alcuni di
detti costi attraverso le procedure di bonifica e messa in
sicurezza vengono nuovamente internalizzati (peraltro,
verosimilmente in misura inferiore al vantaggio ottenuto
dalle imprese obbligate, non essendo integralmente risarciti
i danni, individuali e collettivi, alla salute medio tempore
verificatisi).
Orbene, con ciò ricondotto l’oggetto del contendere
nell’alveo dei servizi pubblici, deve ritenersi che
all’impugnazione dei provvedimenti relativi all’esecuzione
dei servizi si applichino le regole speciali, segnatamente
sui termini processuali, dettate dall’art. 23-bis l.
06.12.1971, n. 1034, posto che la lett. c) della
disposizione –nella formulazione rilevante ratione
temporis– si riferisce genericamente all’esecuzione di
servizi pubblici e non solo ai servizi pubblici oggetto di
appalti affidati con procedure di gara (in questi termini
cfr. la già richiamata sentenza Sezione VI, 05.04.2012, n.
2021.
Si aggiunga che la controversia, sotto altro angolo visuale,
è, altresì, sussumibile nel novero delle controversie aventi
ad oggetto l’esecuzione di opere di pubblica utilità, di cui
alla lettera b) del comma 1 del citato art. 23-bis –nella
formulazione previgente alle modifiche apportate dall’art.
15 d.lgs. 20.03.2010, n. 53, rilevante ratione temporis–,
comportando l’autorizzazione all’esecuzione degli interventi
di messa in sicurezza e di bonifica dichiarazione di
pubblica utilità (ai sensi dell’art. 17, comma 7, d.lgs.
05.02.1997, n. 22; oggi, ai sensi dell’art. 252, comma 6,
d.lgs. 03.04.2006, n. 152) (Cons.
Stato, Sez. VI,
sentenza 12.10.2012 n. 5268 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
La circostanza che la domanda di sanatoria
edilizia sia inoltrata ad un ufficio (incompetente per
materia) piuttosto che ad un altro (della stessa
amministrazione) non può comportare la dichiarazione di
improcedibilità della domanda stessa ma semplicemente
l’istanza deve essere trasmessa all’ufficio competente della
stessa amministrazione.
... per l'annullamento, previa adozione di misura cutelare
del provvedimento del 22.05.2012, PG/2012/421615, del Comune
di Napoli, che ha dichiarato improcedibile la richiesta di
rilascio del permesso di costruire, relativo
all'installazione di opere di arredo urbano.
...
La nota impugnata dichiara l’improcedibilità di una istanza
di sanatoria per delle opere insistenti su un’area oggetto
di concessione di suolo pubblico, motivandola con
l’intervenuta presentazione dell’istanza a un ufficio
incompetente dello stesso Comune e rilevando una serie di
motivi ostativi alla sua concessione.
Ai sensi di quanto indicato nella delibera n. 582/2009 e
nell’allegato A “Indirizzi per le occupazioni di suolo
pubblico annesse a pubblici esercizi”, l’ufficio
competente risultava essere il servizio abilitato al
rilascio di concessione di occupazionale di suolo pubblico
ovverosia il Servizio Polizia Amministrativa.
La circostanza che la domanda di sanatoria sia stata
inoltrata dal ricorrente al Servizio Edilizia Privata non
comportava, però, la dichiarazione di improcedibilità della
domanda ma semplicemente l’istanza sarebbe dovuta essere
trasmessa all’ufficio competente della stessa
amministrazione.
Ciò in base ai criteri di correttezza e leale collaborazione
tra gli uffici di una stessa amministrazione e il principio
generale (previsto in tema di ricorsi gerarchici, ma
valevole anche per ogni ipotesi di istanza presentata alla
P.A.) sancito dall'art. 2, comma 3, D.P.R. n. 1199 del 1971,
in base al quale "i ricorsi rivolti nel termine
prescritto ad organi diversi da quello competente, ma
appartenenti alla stessa amministrazione, non sono soggetti
a dichiarazione di irricevibilità e i ricorsi stessi sono
trasmessi d'ufficio all'organo competente" (TAR Catania
Sicilia sez. I, 22.09.2009, n. 1554).
Illegittimo, pertanto, appare il provvedimento finale di
improcedibilità adottato dal Servizio Edilizia Privata (TAR Campania–Napoli, Sez. IV,
sentenza 01.08.2012 n. 3716
- link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 12.11.2012 |
ã |
IN EVIDENZA |
OKKIO AL
PORTAFOGLIO ... è finita col "parafulmine
politico" del tipo: "me l'ha detto il sindaco/la
giunta
..." !!
Niente attenuanti per i dirigenti. Aver attuato le
direttive dei politici non riduce la responsabilità.
La responsabilità amministrativa ed erariale dei
dirigenti non viene né eliminata, né ridotta dalla
circostanza che il loro agire considerato
antigiuridico dalla Corte dei conti discenda da
direttive espresse dall'organo di governo. |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il procedimento complesso in cui si articola la
gestione della spesa nelle amministrazioni locali è
caratterizzato dalle fasi dell’impegno, della
liquidazione, dell'ordinazione e del pagamento
e che ognuna di esse risponde a finalità precise.
L’impegno costituisce il vincolo sulle previsioni di
bilancio; la liquidazione cristallizza il momento in
cui si determina la somma certa e liquida da pagare nei
limiti dell'ammontare dell'impegno definitivo assunto; l’ordinazione
è la disposizione impartita, mediante il mandato di
pagamento, al tesoriere dell'ente locale di provvedere al
pagamento che rappresenta l’ultima fase della gestione.
Pertanto, in caso di danno per erogazione di somme di
denaro, il dies a quo della prescrizione comincia a
decorrere dall'effettivo pagamento.
---------------
L’art. 45, comma 4, del D.lgs. 165 del 30.03.2001,
espressamente dispone che i dirigenti sono responsabili
dell'attribuzione dei trattamenti economici accessori.
Il rigore di tale disposizione, unitamente all’intero
complesso normativo che disciplina i compiti e le
responsabilità degli organi dirigenziali, non consente di
giustificare il comportamento gravemente negligente del
convenuto la cui riconosciuta autonomia decisionale avrebbe
dovuto indurlo o a disattendere una direttiva, là dove
palesemente illegittima, o, nel dubbio, interpretarla, anche
con riferimento agli atti normativi interni, in modo
conforme alla legge.
---------------
La gravità della colpa dell'odierno convenuto si
individua in tutta la sua evidenza nell’avere lo stesso
autorizzato l'Ufficio personale dell'Ente Locale a liquidare
a sé medesimo dei compensi, sottraendoli, così,
indebitamente al fondo dell’amministrazione e non
consentendo, in tal modo, quella preliminare definizione di
incidenza di tale erogazione aggiuntiva sull’ammontare della
retribuzione di risultato.
Ratio, infatti, della confluenza nel fondo delle erogazioni
aggiuntive di cui trattasi e dell’accertamento di incidenza
delle stesse sulla retribuzione di risultato, è proprio
quella di consentire all’amministrazione, nel rispetto delle
relazioni sindacali che il contratto collettivo richiede, di
avvalersi anche della facoltà di eventualmente ridurre la
percentuale di retribuzione di risultato spettante al
dirigente interessato alla suddetta erogazione aggiuntiva,
in considerazione del grado di incidenza sulla stessa di
detti compensi.
Verifica che, nel caso di specie, ancorché contrattualmente
imposta, non è stata espletata.
Relativamente, poi, all'eccezione per cui il Comune è,
comunque, allo stato sprovvisto di un regolamento che
disciplini la ripartizione, a vario titolo ed importo, delle
risorse confluite nel Fondo Unico della Dirigenza, la stessa
non è persuasiva.
Non può, infatti, invocarsi una disfunzione organizzativa
interna per giustificare condotte poste in violazione delle
regole che disciplinano il rapporto di pubblico impiego.
E’ noto che il procedimento complesso in cui si articola la
gestione della spesa nelle amministrazioni locali è
caratterizzato dalle fasi dell’impegno, della liquidazione,
dell'ordinazione e del pagamento e che ognuna di esse
risponde a finalità precise.
L’impegno costituisce il vincolo sulle previsioni di
bilancio; la liquidazione cristallizza il momento in cui si
determina la somma certa e liquida da pagare nei limiti
dell'ammontare dell'impegno definitivo assunto;
l’ordinazione è la disposizione impartita, mediante il
mandato di pagamento, al tesoriere dell'ente locale di
provvedere al pagamento che rappresenta l’ultima fase della
gestione.
Orbene, questo Collegio, in coerenza anche con l’opinione
maggioritaria, tra l'altro confermata dalle stesse Sezioni
Riunite (Corte conti, SS.RR. 15.01.2003, n. 3/QM e in
termini Corte conti, sez. II, 28.04.2003, n. 161) ritiene
che in caso di danno per erogazione di somme di denaro, il
dies a quo della prescrizione comincia a decorrere
dall'effettivo pagamento.
Tale è, infatti, il momento in cui si verifica l'effettivo
depauperamento delle casse dell'Ente, diversamente dalle
altre fasi la cui finalità è consentire una corretta
articolazione del procedimento di spesa nel rispetto delle
regole che governano la più ampia gestione del bilancio
dell’ente.
---------------
Con specifico riferimento alla antidoverosità della
condotta, la difesa sostiene l’assenza di una colpa grave
del convenuto, avendo lo stesso agito in buona fede ed in
esecuzione di un mandato ricevuto dal competente organo
comunale e, comunque, nel rispetto di una fonte
regolamentare interna.
Anche tale eccezione risulta priva di pregio.
L’art. 45, comma 4, del Decreto legislativo 165 del
30.03.2001, espressamente dispone che i dirigenti sono
responsabili dell'attribuzione dei trattamenti economici
accessori.
Il rigore di tale disposizione, unitamente all’intero
complesso normativo che disciplina i compiti e le
responsabilità degli organi dirigenziali, non consente di
giustificare il comportamento gravemente negligente del
convenuto la cui riconosciuta autonomia decisionale avrebbe
dovuto indurlo o a disattendere una direttiva, là dove
palesemente illegittima, o, nel dubbio, interpretarla, anche
con riferimento agli atti normativi interni, in modo
conforme alla legge.
Venendo, poi, in particolare, alla responsabilità del
convenuto per avere autorizzato l'Ufficio personale
dell'Ente Locale a liquidare anche a sé medesimo compensi in
violazione del principio della omnicomprensività del
trattamento economico spettante alla dirigenza di cui
all'art. 24, comma tre, del D.lgs. 165/2001, anche per tale
ipotesi valgono le considerazioni sinora espresse, ma con
ulteriori precisazioni con riferimento alla dirigenza delle
amministrazioni locali.
La cornice normativa riferibile al rapporto di pubblico
impiego anche della dirigenza operante presso le autonomie
locali è, infatti, costituita sia dalle disposizioni del
capo I, Titolo II, Libro V del codice civile e dalle leggi
sul rapporto di lavoro subordinato nell’impresa, sia dalle
norme, definite espressamente dal legislatore di carattere
imperativo, contenute nel Decreto legislativo 165 del
30.03.2001, che il legislatore dichiara inequivocabilmente
applicabili a tutte le amministrazioni pubbliche e , dunque,
anche alle amministrazioni locali (articoli 1, comma 2 e 2,
comma 2, D.lgs. 165/2001).
Tra le norme del Testo Unico Pubblico Impiego, in
particolare, per quanto in questa sede interessa, è da
richiamare la regola per cui l’attribuzione di trattamenti
economici può avvenire esclusivamente mediante contratti
collettivi (art. 2, comma 3, TUPI) che sono, tra l’altro,
anche l’unica fonte legittimata a definire il trattamento
economico fondamentale ed accessorio del personale
dipendente (art. 24 TUPI, così come di recente riformato dal
d.lgs. 150 del 27.10.2009, c.d. Riforma Brunetta).
Trattamento accessorio che, per completezza, si ricorda,
potrà essere erogato solo ove correlato alle funzioni
attribuite, alle connesse responsabilità, ai risultati
conseguiti (art. 24 TUPI) e secondo le modalità indicate
dalla stessa norma (art. 24, commi 3, 7 e 8 del citato TUPI).
Nel solco così tracciato dal legislatore ed in conformità al
processo di delegificazione in materia introdotto ex lege
con riferimento all’attribuzione dei trattamenti economici
della dirigenza locale, unica fonte legittimata a
disciplinare la materia è, pertanto, anche per tale
fattispecie, il contratto collettivo che impone, per quel
che in questa sede rileva, che al finanziamento della
retribuzione di posizione e di risultato dei dirigenti si
provvede mediante l’utilizzo, tra l’altro, anche delle
risorse che specifiche disposizioni di legge finalizzano
all’incentivazione di prestazioni o risultati
raggiunti…(art. 37 del CCNL del 10.04.1996) e che a tal fine
sono utilizzate le risorse che specifiche disposizioni di
legge finalizzano all’incentivazione della dirigenza (art.
26 del CCNL del 23.12.1999).
Ciò detto, la gravità della colpa dell'odierno convenuto si
individua, dunque, in tutta la sua evidenza nell’avere lo
stesso autorizzato l'Ufficio personale dell'Ente Locale a
liquidare a sé medesimo dei compensi, sottraendoli, così,
indebitamente al fondo dell’amministrazione e non
consentendo, in tal modo, quella preliminare definizione di
incidenza di tale erogazione aggiuntiva sull’ammontare della
retribuzione di risultato.
Ratio, infatti, della confluenza nel fondo delle
erogazioni aggiuntive di cui trattasi e dell’accertamento di
incidenza delle stesse sulla retribuzione di risultato, è
proprio quella di consentire all’amministrazione, nel
rispetto delle relazioni sindacali che il contratto
collettivo richiede, di avvalersi anche della facoltà di
eventualmente ridurre la percentuale di retribuzione di
risultato spettante al dirigente interessato alla suddetta
erogazione aggiuntiva, in considerazione del grado di
incidenza sulla stessa di detti compensi.
Verifica che, nel caso di specie, ancorché contrattualmente
imposta, non è stata espletata.
Relativamente, poi, all'eccezione per cui il Comune di Lecce
è, comunque, allo stato sprovvisto di un regolamento che
disciplini la ripartizione, a vario titolo ed importo, delle
risorse confluite nel Fondo Unico della Dirigenza, la stessa
non è persuasiva.
Non può, infatti, invocarsi una disfunzione organizzativa
interna per giustificare condotte poste in violazione delle
regole che disciplinano il rapporto di pubblico impiego
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Puglia,
sentenza 24.09.2012 n. 1216, link a
www.corteconti.it). |
Niente attenuanti per i dirigenti. Aver attuato le direttive
dei politici non riduce la responsabilità. Sentenza della
Corte conti Puglia sulle relazioni tra organi di governo e
manager locali.
La responsabilità amministrativa ed erariale dei
dirigenti non viene né eliminata, né ridotta dalla
circostanza che il loro agire considerato antigiuridico
dalla Corte dei conti discenda da direttive espresse
dall'organo di governo.
La
sentenza 24.09.2012 n. 1216 della Corte dei
conti, Sez. giurisdizionale per la Puglia, costituisce una
pietra miliare per chiarire definitivamente le relazioni tra
organi di governo e dirigenti, sfatando la convinzione,
molto radicata, che lo strumento della direttiva possa da un
lato orientare la gestione verso risultati antigiuridici
facendo da scudo alla responsabilità, dall'altro costituisca
limite insormontabile all'autonomia decisionale dei
dirigenti.
La sentenza della magistratura contabile ha accertato la
responsabilità erariale di un dirigente che, in violazione
aperta del principio di onnicomprensività, ha liquidato a se
stesso e a propri dipendenti compensi per la realizzazione
di progetti, qualificati «extra orario», finanziati
dall'Unione europea.
Tra gli elementi presentati a difesa del proprio operato, il
dirigente ha puntato sull'assenza di colpa grave, scaturente
dall'aver agito in buona fede, per aver eseguito un mandato
stabilito dalla giunta comunale e, inoltre, nel rispetto di
una fonte regolamentare interna.
La sentenza evidenzia come simile eccezione risulti priva di
pregio, riferendosi alla normativa che sancisce il principio
di separazione delle competenze e delle responsabilità degli
organi di governo, rispetto alla dirigenza.
Nell'ordinamento locale, tale principio è fissato
dall'articolo 107, comma 1, del dlgs 267/2000, secondo il
quale «i poteri di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo spettano agli organi di governo,
mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è
attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa,
di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di
controllo».
La sentenza, per evidenziare la responsabilità del
dirigente, richiama una norma che costituisce diretta
conseguenza del principio di separazione, l'articolo 45,
comma 4, del dlgs 165/2001, ai sensi del quale i dirigenti
sono in via esclusiva responsabili dell'attribuzione dei
trattamenti economici accessori.
L'esclusività delle funzioni e competenze dirigenziali non
può essere ridotta o lesa dalla relazione funzionale con gli
organi di governo.
Le direttive del sindaco o della giunta non hanno, né
potrebbero avere, alcuna forza cogente nei riguardi
dell'azione gestionale, perché se così non fosse, il
principio di separazione sarebbe ovviamente sempre violato.
I dirigenti non possono trincerarsi dietro le direttive
degli organi di governo, per rinunciare alla doverosità del
proprio agire legittimo. Del resto, la giurisprudenza
consolidata della magistratura contabile ha messo in
evidenza che gli atti dei dirigenti, anche se a monte
esistano direttive, non possono considerarsi come «dovuti»,
in particolare, come nel caso di specie, se le direttive si
rivelino illegittime. E, comunque, adottare atti gestionali
conformi a direttive illegittime implica la responsabilità
del dirigente, visto che è questo, esprimendo la volontà
nella fase finale dell'iter, che determina l'insorgere
dell'azione lesiva dell'erario.
La sentenza della sezione Puglia sottolinea perfino che non
solo una direttiva illegittima non giustifica un
comportamento gravemente negligente, come quello adottato
liquidando somme in difformità dalle regole imposte dalla
legge e dalla contrattazione, ma addirittura impone al
dirigente di esprimere la propria autonomia decisionale.
Giungendo a disattenderla, ovviamente motivando, o, nel
dubbio, interpretarla in modo da renderla conforme e
rispettosa della legge
(articolo ItaliaOggi del
09.11.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
12.11.2012 - LA SEGRETERIA PTPL |
dite la vostra
... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: R.
Pagliaro,
Ancora sul parere di
regolarità tecnica e contabile
(06.11.2012). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Normativa Europea - Approvata dal Parlamento
Europeo una nuova direttiva sull’Efficienza Energetica
(ANCE di Bergamo,
circolare 09.11.2012 n. 265). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
A. Ferretti,
Disciplina dell’utilizzazione delle terre e rocce da scavo:
il nuovo regolamento 161/2012 (Bollettino di
Legislazione Tecnica n. 10/2012). |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Mancini,
Istanze di prevenzione incendi: le nuove modalità per la
presentazione individuate dal D.M. 07/08/2012
(Bollettino di Legislazione Tecnica n. 10/2012). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
C. Volpe,
Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
(link a www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
APPALTI: Legge
“Anticorruzione”: in arrivo le nuove regole per gli appalti
pubblici.
Approvato dalla Camera dei Deputati il “Decreto
Anticorruzione” recante misure finalizzate alla prevenzione
e alla repressione della corruzione e dell'illegalità nella
pubblica amministrazione e nelle gare d’appalto pubbliche.
Di seguito le novità introdotte per il settore edile e degli
appalti:
● istituzione presso le Prefetture di una “White list”,
ovvero un elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed
esecutori di lavori che non presentano alcun rischio
d’infiltrazione mafiosa;
●
individuazione delle attività che vengono considerate
maggiormente a rischio di infiltrazione della criminalità
organizzata, ad esempio attività operanti nel settore degli
inerti e delle cave;
●
limitazione del ricorso agli arbitrati nelle controversie;
●
integrazione delle cause di risoluzione di contratto con
l’appaltatore se si verifica: associazione mafiosa, traffico
di droga o contrabbando, traffico di rifiuti e delitti
terroristici ed altri;
●
maggiore trasparenza delle pubbliche Amministrazioni nelle
gare d’appalto sui propri siti web;
●
annullamento dell’incarico delle commissioni aggiudicatrici
se condannati in precedenza per reati nei confronti della
Pubblica Amministrazione.
In allegato all’articolo, oltre al testo del Disegno di
Legge approvato, il documento di sintesi di BibLus-net con
le principali disposizioni contenute nel provvedimento
(08.11.2012 - link a www.acca.it). |
SICUREZZA
LAVORO: Disturbi
alla vista sui luoghi di lavoro: ecco il vademecum per i
datori di lavoro, lavoratori e consulenti della sicurezza.
Il videoterminale è uno strumento indispensabile nella
maggior parte delle attività lavorative (uffici pubblici,
uffici privati, studi professionali, etc.). Un utilizzo non
corretto può comportare disturbi visivi, muscolo-scheletrici
e stress.
Causa di questi disturbi spesso è una inadeguata
progettazione delle postazioni e delle modalità di lavoro,
fattori questi su cui è possibile intervenire attraverso
l’applicazione di principi ergonomici e l’adozione di
comportamenti corretti da parte degli utilizzatori.
La Camera di Commercio di Roma fornisce il suo contributo
informativo con la pubblicazione del
vademecum “Linee guida per le aziende su prevenzione
della disabilità e degli infortuni alla vista”, al
fine di prevenire e ridurre al minimo i rischi durante
l’utilizzo di videoterminali.
Le Linee guida, utili a tutti i datori di lavoro, ai
lavoratori stessi e ai consulenti, oltre a fornire una breve
descrizione dei disturbi, propongono una rassegna di
semplici e concrete norme pratiche, anche attraverso
illustrazioni grafiche, da adottare nei posti di lavoro.
Le indicazioni riguardano:
►
un corretto uso dei videoterminali (scelta, posizionamento,
impostazioni di luminosità e contrasto, ecc.)
►
le condizioni ambientali (microclima e illuminazione)
►
le postazioni di lavoro
►
l’organizzazione del lavoro
►
i disturbi più frequenti alla vista
►
la prevenzione e le raccomandazioni
(08.11.2012 - link a www.acca.it). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
PUBBLICO IMPIEGO: Nota
della Funzione pubblica. Permessi disabili a maglie larghe.
Sì al permesso dal lavoro per assistenza a disabile anche
quando il disabile non viene materialmente assistito.
A precisarlo è la Funzione pubblica nella
nota 05.11.2012 n. 44274 di prot., in relazione
ai permessi ex articolo 33 della legge n. 104/1992. In
particolare, il dipartimento della presidenza del consiglio
dei ministri ammette che, nei casi in cui risultino entrambi
lavoratori, sia l'assistito e sia il soggetto che presta
assistenza, quest'ultimo possa fruire dei permessi
giornalieri anche in giornate in cui la persona disabile
(che dovrebbe essere assistita) si rechi regolarmente al
lavoro.
Permessi 104.
I chiarimenti riguardano i permessi dal lavoro ex legge n.
104/1992, retribuiti e coperti da contributi figurativi, dei
quali possono fruire i lavoratori dipendenti qualora si
trovino in una delle seguenti situazioni:
a) siano portatori di handicap in situazione di disabilità
grave (permessi per se stessi); in tal caso si ha diritto a
due ore al giorno di permesso ovvero a tre giorni di
permesso mensili frazionabili in ore;
b) siano genitori di figli in situazione di disabilità grave
con età inferiore a tre anni; in tal caso, si ha diritto al
prolungamento dell'astensione facoltativa o a due ore di
permesso al giorno fino al compimento dei tre anni di vita
del bimbo o a tre giorni di permesso mensili anche
frazionabili in ore;
c) siano coniuge, parenti o affini entro il 1° grado di
persone in disabilità grave; in tal caso si ha diritto a tre
giorni al mese, anche frazionabili in ore, e il diritto può
essere esteso a parenti e affini di secondo grado nel caso
in cui i genitori o il coniuge della persona con handicap
grave abbiano più di 65 anni o siano deceduti o invalidi.
I chiarimenti.
Le precisazioni della Funzione pubblica sono state
sollecitate da una pubblica amministrazione che ha chiesto
parere sul diritto alla fruizione dei permessi da parte di
un lavoratore dipendente, al fine di assistere un congiunto
anch'egli lavoratore il quale si trova in situazione di
handicap grave e che, peraltro, fruisce per se stesso dei
medesimi benefici dei permessi dal lavoro ex legge n.
104/1992. In particolare, la pa ha chiesto di sapere se i
giorni di permesso dei due soggetti interessati debbano
essere fruiti nelle stesse giornate.
La risposta è negativa.
La normativa di riferimento (legge n. 104/1992), spiega la
nota, accordando la possibilità al lavoratore dipendente che
assiste il congiunto disabile che versa in situazione di
grave handicap di beneficiare dei permessi finalizzati alla
predetta assistenza, non preclude espressamente la fruizione
del beneficio ove il disabile prenda i permessi per se
stesso, né tantomeno indica le modalità di fruizione per il
caso prospettato.
La situazione ordinaria, precisa la Funzione pubblica, è che le giornate
fruite come permesso coincidano; tuttavia, non è da
escludere che qualora il lavoratore che assiste il disabile
abbia la necessità di assentarsi per svolgere attività per
conto del disabile, nelle quali non è necessaria la sua
presenza, egli possa fruire dei permessi anche in giornate
nelle quali la persona disabile che è assistita si rechi
regolarmente al lavoro.
In conclusione, precisa la nota, considerando anche la
varietà delle situazioni che di fatto si possono presentare,
la Funzione pubblica è dell'avviso che una limitazione
dell'agevolazione alla fruizione dei permessi da questo
punto di vista difficilmente potrebbe giustificarsi in base
alla legge
(articolo ItaliaOggi del 09.11.2012). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
LAVORI PUBBLICI
- VARI: G.U.
10.11.2012 n. 263, suppl. ord. n. 201/L, "Testo
del decreto-legge 13.09.2012, n. 158, coordinato con la
legge di conversione 08.11.2012, n. 189, recante:
«Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese
mediante un più alto livello di tutela della salute»". |
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI: G.U.
09.11.2012 n. 262 "Esercizio di attività commerciali e
artigianali su aree pubbliche in forma ambulante o su
posteggio, nonché di qualsiasi altra attività non
compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio
culturale" (direttiva 10.10.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 09.11.2012, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2000, n. 1, dell’elenco dei “Tecnici competenti” in
acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia
alla data del 31.10.2012, in attuazione dell’articolo 2,
commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della
deliberazione 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato
regionale 07.11.2012 n. 113). |
ENTI LOCALI: G.U.
06.11.2012 n. 259 "Disposizioni urgenti in materia di
Province e Città metropolitane" (D.L.
05.11.2012 n. 188). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Capacità assunzionale ed incremento orario del part-time.
La Corte dei Conti, sezione regionale Lombardia, con il
parere 30.10.2012 n. 462, torna su
questo argomento su richiesta del Comune di Tremenico che
intende aumentare le ore lavorative di un dipendente assunto
a tempo indeterminato con contratto a tempo parziale da 24
ore a 30 ore settimanali.
La Sezione, preliminarmente:
- dà atto dei precedenti e non uniformi pareri espressi in
merito da diverse sezioni regionali;
- premette l'irrilevanza dell'operazione prospettata ai fini
dell'applicazione dell'art. 9, comma 1, del d.l. 78/2010,
convertito in legge n. 122/2010;
- rammenta che l'aumento di spesa derivante va conteggiato
nelle spese di personale ai fini del rispetto dei vincoli
imposti dall'art. 1, comma 562 (o 557), della legge n.
296/2006;
- richiama il disposto dell'art. 3, comma 101, della legge
n. 244/2008 (Finanziaria 2008), relativo alla trasformazione
del rapporto di lavoro a tempo pieno;
- riprende i contenuti della circolare del Dipartimento per
la Funzione Pubblica (d'intesa con la Ragioneria Generale
dello Stato) n. 46078/2010 del 18.10.2010 che sembra
equiparare l'incremento orario alla trasformazione a tempo
pieno e, quindi, a nuova assunzione;
quindi, formula il proprio avviso come segue:
"... in attesa di un auspicabile chiarimento a livello
normativo, prendendo atto delle interpretazioni sopra
riportate, appare plausibile la limitazione del disposto di
cui all'art. 1, comma 101, della LF n. 244/2007 al solo
caso, specificamente previsto dalla norma, della
trasformazione del rapporto di lavoro da tempo parziale a
tempo pieno, non invece al mero incremento di ore (salvo i
casi di fattispecie potenzialmente elusive della lettera e
dello spirito della norma)" (tratto da www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Corte di conti. Progressioni orizzontali pagate dal 2014.
Blocco dei contratti, non della carriera.
Porte aperte per le progressioni orizzontali a valenza
giuridica, ma non economica.
Il via definitivo giunge dalla
Corte dei Conti, Sezioni riunite che, con la
deliberazione 24.10.2012 n. 27, ha confermato l'orientamento prevalente sulla
possibilità di prevedere, nonostante i blocchi, delle
progressioni economiche che verranno pagate dal 2014.
Tutto nasce dall'articolo 9, comma 21, Dl 78/2010, che
prevede che le progressioni di carriera, comunque
denominate, e i passaggi tra le aree eventualmente disposte
negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti
anni, solo ai fini giuridici.
La differenza tra progressione verticale e orizzontale (si
veda la scheda) è fondamentale, ma ai fini dell'applicazione
della sospensione temporale voluta dal Dl 78/2010, sembra
non esserci differenza. Infatti, la Corte dei conti,
confermando un orientamento prevalente, ha sancito che anche
le progressioni orizzontali possono essere effettuate nel
triennio 2011-2013 a rilevanza solo giuridica, ma non
economica. E questo ha effetti critici sulla contrattazione
dei singoli enti.
Da una parte si dà la possibilità al
personale di procedere all'interno della categoria, ancorché
senza alcuna retribuzione fino al 2014. Dall'altra, tali
somme "teoriche" non si possono destinare ad altri istituti.
Quindi, in sintesi, se si fanno le progressioni orizzontali
avremo due effetti: i "beneficiari" delle progressioni non
vedranno un euro sino al 2014; gli altri dipendenti si
vedranno decurtate, da subito, le risorse disponibili per il
finanziamento degli altri istituti (indennità e
performance).
A questo punto conviene procedere con la massima cautela e
prudenza, perché va posta un'altra questione: il fondo
dell'anno 2014 sarà in grado di sostenere il pagamento di
tutte le progressioni stabilite senza effetti economici? E
non si tratta solamente di una questione di equilibrio tra
risorse stabili e finanziamento dell'istituto, ma il tutto
si sposta sulla possibilità o meno di garantire i servizi
che hanno remunerazioni già fissate dai contratti nazionali
quali, ad esempio, il turno o la reperibilità.
Insomma, un uso massiccio delle progressioni orizzontali
giuridiche, ma non economiche, del proprio personale
dipendente rischia di mettere in ginocchio il fondo;
l'organo di revisione è chiamato a vigilare sulla
legittimità sulla compatibilità economica della
contrattazione integrativa decentrata. Massima allerta
quindi sugli eventuali comportamenti elusivi degli enti
locali (articolo Il Sole 24
OPre del 06.11.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
LAVORI PUBBLICI: Contratti
di disponibilità, spese fuori dal Patto.
Corte
conti Lombardia sui vincoli di bilancio dei comuni.
Non rientra nel Patto di stabilità la spesa dell'ente locale
sostenuta come corrispettivo di un contratto di
disponibilità relativo ad un'opera privata destinata ad un
pubblico servizio, a condizione che il privato assuma il
rischio di costruzione e quello di disponibilità o di
domanda; se nel contratto si prevede un prezzo per il
trasferimento della proprietà dell'immobile, la spesa deve
essere invece essere classificata come spesa per
investimento e determina un indebitamento per l'ente locale.
E' quanto afferma la Corte dei conti, sezione regionale
della Lombardia con l'articolato
parere 23.10.2012 n. 439 che prende in esame alcuni profili inerenti
l'impatto sulla disciplina contabile degli enti locali
derivante dalla stipula di un contratto di disponibilità con
il quale (articolo 160-ter del Codice dei contratti
pubblici) si affida, a rischio e a spesa dell'affidatario,
la costruzione e la messa a disposizione a favore
dell'amministrazione aggiudicatrice di un'opera di proprietà
privata destinata all'esercizio di un pubblico servizio, a
fronte di un corrispettivo.
La norma del Codice prevede che
al privato sono corrisposti: un canone di disponibilità e,
eventualmente, un contributo in corso d'opera, e/o un prezzo
di trasferimento della proprietà del bene immobile. Rispetto
a questi elementi una amministrazione provinciale ha posto
alla magistratura contabile due quesiti: se la stipula del
contratto di disponibilità incida sulla capacità dell'ente
locale di indebitarsi ai sensi dell'articolo 204 del testo
unico sugli enti locali e se i canoni di disponibilità ai
fini del calcolo per il rispetto degli obiettivi del Patto
di stabilità interno devono essere imputati alla spesa
corrente o alla spesa per investimenti.
Per decidere se la
spesa inerente l'infrastruttura realizzata in esecuzione del
contratti di disponibilità possa essere considerata fuori
dal bilancio dell'ente (off balance) la Corte richiama le
decisioni Eurostat (in particolare quella dell'11.02.2004 e gli aggiornamenti del 2010) e precisa che i beni
oggetto di operazioni di Partenariato pubblico privato (Ppp),
quale è quella inerente la stipula di un contratto di
disponibilità, non devono essere registrati nei conti delle
p.a., ai fini del calcolo dell'indebitamento netto e del
debito, solo se c'è un sostanziale trasferimento di rischio
dalla parte pubblica alla parte privata (e ciò avviene nel
caso in cui il soggetto privato assume il rischio di
costruzione e almeno uno dei due rischi: di disponibilità o
di domanda (connesso alla variabilità della domanda
indipendentemente dalla qualità del servizio prestato).
La
Corte dei conti sottolinea in particolare che, nel silenzio
dell'art. 160-ter del Codice (che non indica i parametri
alla stregua dei quali dovrebbe essere quantificato il
canone di disponibilità), occorre «accertare che in
concreto l'entità del canone non sia tale da coprire anche i
costi del finanziamento». Anche in sede di
contabilizzazione (e, quindi, nel rispondere al secondo
quesito posto) la Corte dei conti richiama l'esigenza di
verificare se dalla stipula del contratto derivi per il
privato l'assunzione di almeno due dei tre rischi citati
nella decisione Eurostat.
Pertanto esclusivamente nell'ipotesi in cui, applicando
rigorosamente il criterio del riparto dei rischi tra
soggetto pubblico e privato come evidenziato da Eurostat, il
contratto di disponibilità non costituirà in concreto una
forma di indebitamento e sarà possibile non iscrivere in
bilancio il canone di disponibilità quale spesa di
investimento. Diversamente, laddove in capo
all'amministrazione sia prevista la facoltà di riscatto
occorrerà calcolarlo come spesa per investimento in quanto
forma di indebitamento
(articolo ItaliaOggi dell'08.11.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il
medico curante rischia il danno erariale. Malattia, meglio
visitare i pazienti.
Rischia il danno erariale il medico curante che sottoscrive
certificati di malattia senza accertare la patologia dei
propri assistiti. Infatti, nella sua attività, egli deve
porre la massima attenzione nel compilare i certificati dei
propri pazienti, con particolare riguardo ai lavoratori
dipendenti pubblici. In particolar modo quando le patologie
sono ricorrenti, il medico non può fondare la propria
certificazione sulle semplici dichiarazioni dei propri
pazienti, ma deve abbinarla ad esami strumentali che
avvalorino i sintomi dichiarati. In caso contrario, non può
che rimarcarsi una grave negligenza nello svolgimento
dell'attività medica.
È quanto ha sancito la sezione giurisdizionale della Corte
dei conti Toscana, nel testo della recente
sentenza 11.10.2012 n. 479 che
ha condannato un medico di base «colpevole» di aver stilato
numerose certificazioni mediche nei confronti di un proprio
paziente, dipendente pubblico, il quale li ha
successivamente utilizzate per evitare di andare al lavoro e
dedicarsi alla piena attività di «bomber» in una squadra di
calcio militante in Lega Dilettanti.
Posto che il comportamento doloso del dipendente è stato
accertato come foriero di danno erariale, pari alle
retribuzioni percepite durante il «falso» periodo di
malattia, oltre alla rifusione del danno all'immagine per
l'eco che la vicenda ha avuto sui mezzi d'informazione, il
collegio toscano ha altresì stigmatizzato la condotta del
medico curante che, di fatto, ha agevolato la commissione
dell'illecito. Condotta che ha portato alla conclusione di
dover rifondere l'erario, ancorché in via sussidiaria, per
oltre 10 mila euro di danno.
Nel caso in esame, ha sottolineato il collegio, si è in
presenza di 39 certificazioni di malattia che il medico ha
stilato a favore del soggetto convenuto. Certificazioni che,
essendo fondate spesso sulle semplici dichiarazioni dello
stesso, evidenziano «una grave negligenza nello svolgimento
dell'attività medica». La negligenza del medico, quindi, ha
portato il dipendente/calciatore a potersi assentare
(formalmente in maniera ineccepibile) dal servizio con grave
danno per l'Erario.
Infatti, una condotta più attenta
avrebbe portato il medico ad abbinare le certificazioni
delle patologie ad esami strumentali che avrebbero potuto
avvalorare o meno, sul piano oggettivo, i sintomi dichiarati
dal proprio paziente e non, invece, a fondarle su semplici
dati soggettivi
(articolo ItaliaOggi dell'08.11.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
NEWS |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Il ricongiungimento diventa una stangata.
Nessuna soluzione in vista: almeno per ora. Chi si trova a
dover pagare un'enormità per ricongiungere due periodi di
contribuzione presso istituti previdenziali diversi (per lo
più chi deve ricongiungere i versamenti nell'Inps) no
troverà risposte nella legge di Stabilità.
I relatori sono pessimisti per via di mancanza di risorse
... (articolo
L'Unità dell'11.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI: Niente tavolini sulle piazze.
Nelle aree artistiche stop a ombrelloni e seggiole.
Direttiva del ministro ai Beni culturali sulle
attività commerciali in zona pubblica.
Stop a sedie, tavolini e ombrelloni indecorosi. Ciò in
quanto l'esercizio diffuso e talora incontrollato di
attività commerciali, nell'ambito di aree pubbliche di
particolare valore storico, artistico e paesaggistico, può
determinare la compromissione delle esigenze di tutela del
patrimonio culturale con effetti pregiudizievoli anche sullo
sviluppo e la promozione del turismo culturale.
Insomma, per il ministro Ornaghi, è giunto il momento di far
rispettare il codice Urbani e fornire, quindi, alle
soprintendenze, nonché indirettamente ai comuni, le
indicazioni tecnico-operative per valorizzare il patrimonio
di cui l'Italia è ricca.
Le istruzioni sono contenute nella
«Direttiva
10.10.2012 del ministro per i Beni e le attività culturali
concernente l'esercizio di attività commerciali e
artigianali su aree pubbliche in forma ambulante o su
posteggio, nonché di qualsiasi altra attività non
compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio
culturale», e inviata alla Corte dei
conti per la prescritta registrazione.
La ricognizione. Innanzitutto, secondo il ministro è
necessario effettuare una prima ricognizione dei complessi
monumentali e degli immobili del demanio culturale
interessati da flussi turistici rilevanti, nelle cui
adiacenze si svolgono attività commerciali su area pubblica.
E ciò, al fine di valutare se sono state rispettate le
prescrizioni poste e se le amministrazioni locali,
nell'autorizzare il commercio su area pubblica, si sono
attenute a quanto prescritto dall'art. 52 del codice (dlgs
42/2004). Perché compete ai comuni, formalmente, individuare
le aree nelle quali vietare, o sottoporre a particolari
condizioni, l'esercizio dell'attività, come pure reprimere
il commercio non autorizzato.
Piazza con vista. A prescindere, comunque, dal rapporto di
collaborazione con gli enti locali, per il ministro, vanno
utilizzati gli strumenti ammessi dal codice per inibire usi
non consentiti. A tale proposito, al punto 3.2.1. della
direttiva, è richiamato il fatto che le piazze, vie, strade
e altri spazi aperti, se di proprietà pubblica, sono da
considerarsi automaticamente vincolati qualora realizzati da
oltre 70 anni con il divieto, quindi, del loro utilizzo per
fini non compatibili tra i quali vanno fatti rientrare il
commercio ambulante ma anche la concessione di suolo
pubblico per installare tavolini e sedie.
E ciò fino alla
verifica, «con esito negativo» dell'eventuale interesse
culturale. Peraltro, precisa anche il ministro, per le aree
non soggette a specifico vincolo ma, costituenti la cornice
ambientale di beni culturali direttamente tutelati, si dovrà
impedire che – specie mediante l'installazione di banchetti
o strutture che dir si voglia, sia pregiudicata la visuale
dei beni direttamente vincolati.
Interessi collettivi. Se dovranno essere i comuni, tuttavia,
per primi, a condividere i contenuti della «direttiva
decoro», ciò nonostante, precisa il ministro Ornaghi,
non va trascurato il fatto che destinataria del
provvedimento è anche la «generalità dei consociati»,
in quanto titolare di un diritto di uso pubblico delle aree
stesse, da esercitarsi nel rispetto delle prescrizioni e dei
divieti impartiti a difesa del superiore interesse inerente
la tutela dei beni».
Insomma, non è un caso se la direttiva richiama anche due
pronunciamenti, rispettivamente della Corte costituzionale
(247/2010) e del Consiglio di stato (482/2011) con i quali
viene posto in rilevo come le vie e le piazze appartengono,
di fatto, al patrimonio storico-culturale e, in quanto tale
ne devono trarre vantaggio i cittadini tutti
(articolo ItaliaOggi del 10.11.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Dall'Inps
le istruzioni operative. Regole «ante 2010» per il Tfs degli
statali.
TRANSIZIONE/ In attesa dell'adeguamento delle procedure
informatiche si terrà conto solo delle anzianità maturate
fino al 2010.
Il trattamento di fine servizio (Tfs) dei dipendenti
pubblici continuerà a essere calcolato secondo le regole
vigenti al 31.12.2010.
Infatti, a seguito della sentenza della Corte costituzionale
223/2012 che ha dichiarato la incostituzionalità
dell'articolo 12, comma 10, del Dl 78/2010, l'Inps ha
emanato le prime istruzioni operative (messaggio
09.11.2012 n. 18296) a seguito del Dl 185/2012 che ha
abrogato retroattivamente la norma oggetto di censura.
Fino al 2010, i trattamenti di fine servizio (buonuscita per
gli statali ex Enpas e indennità premio servizio per gli
enti locali/sanità ex Inadel) erano calcolati prendendo a
riferimento la retribuzione annua dell'ultimo giorno di
servizio per gli statali, mentre per gli altri valeva la
retribuzione dell'ultimo anno.
Tale importo, rapportato all'80%, costituiva la base di
calcolo da moltiplicare per gli anni utili per i quali vi
era stato versamento della contribuzione. Era considerato
anno intero la frazione non inferiore a sei mesi e un
giorno, tralasciando quelle inferiori. L'importo veniva a
sua volta diviso per 12 o per 15 a seconda se la prestazione
era a carico dell'ex Enpas oppure ex Inadel.
Con la manovra estiva del 2010, al fine di contenere
ulteriormente i costi del pubblico impiego, si stabilì che
con effetto dal 01.01.2011 per i lavoratori della pubblica
amministrazione, ai quali il computo dei trattamenti di fine
servizio comunque denominati non era già regolato in base a
quanto previsto per il personale in regime di Tfr (articolo
2120 del codice civile), il calcolo dovesse avvenire in base
alle regole civilistiche, con applicazione dell'aliquota del
6,91 per cento.
Il decreto stabilisce, altresì, che i trattamenti saranno
riliquidati d'ufficio entro un anno dall'entrata in vigore e
–in ogni caso– non si provvederà al recupero a carico del
dipendente delle eventuali somme già erogate in eccedenza.
In attesa dell'adeguamento delle procedure informatiche, i
Tfs saranno erogati in via provvisoria tenendo conto delle
sole anzianità maturate fino al 31.12.2010
(articolo Il
Sole 24 Ore del 10.11.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Se i consiglieri cambiano casacca è necessario
rivederne la composizione. Commissioni col bilancino. Va
rispettato il criterio proporzionale del Tuel.
È necessario provvedere a un riequilibrio generale delle
commissioni consiliari permanenti originariamente costituite
se, a fronte dei molteplici mutamenti politici intervenuti
nel tempo, si è modificata la compagine dei consiglieri e,
quindi, la composizione dei gruppi? Il consigliere che ha
cambiato gruppo, se riveste le funzioni di presidente di una
commissione consiliare, deve continuare a svolgere tali
funzioni fino al termine del mandato oppure si deve
procedere alla sua sostituzione?
Le commissioni consiliari previste dall'articolo 38, comma
6, del dlgs n. 267/2000, una volta istituite sulla base di
una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate
dall'apposito regolamento comunale con l'unico limite, posto
dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio
proporzionale nella composizione.
Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio
devono essere il più possibile rispecchiate anche nelle
commissioni, in modo che in ciascuna di esse ne sia
riprodotto il peso numerico e di voto.
Il caso prospettato si inquadra nell'ambito dei possibili
mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze
politiche presenti in consiglio comunale per effetto di
dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza,
comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari
ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti.
Il principio generale del divieto di mandato imperativo,
sancito dall'articolo 67 della Costituzione, assicura ad
ogni consigliere l'esercizio del mandato ricevuto dagli
elettori –pur conservando verso gli stessi la responsabilità
politica– con assoluta libertà, ivi compresa quella di far
venir meno l'appartenenza dell'eletto alla lista o alla
coalizione di originaria appartenenza (cfr Tar,
Trentino-Alto Adige, Trento n. 75 del 2009).
Va da sé che i mutamenti in parola modificano i rapporti tra
le forze politiche presenti in consiglio, incidendo sul
numero dei gruppi ovvero sulla consistenza numerica degli
stessi, e ciò non può non influire sulla composizione delle
commissioni consiliari che deve, pertanto, adeguarsi ai
nuovi assetti.
La fattispecie prospettata va, pertanto, inquadrata
nell'ambito di un riequilibrio generale degli assetti
presenti nelle commissioni.
Quanto al rispetto del criterio proporzionale previsto dal
citato articolo 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000, il
legislatore non precisa come lo stesso debba essere
declinato in concreto. Spetta al regolamento, cui sono
demandate la determinazione dei poteri delle commissioni
nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di
pubblicità dei lavori, stabilire i meccanismi idonei a
garantirne il rispetto.
Secondo quanto osservato dal Tar Lombardia, nella sentenza
n. 567/1996, il criterio proporzionale è posto dal
legislatore come direttiva suscettibile di svariate opzioni
applicative, egualmente legittime purché coerenti con la
ratio che quel principio sottende, e che consiste
nell'assicurare in seno alle commissioni la maggiore
rappresentatività possibile. Al raggiungimento di questo
risultato concorrono, come esperienza e prassi dimostrano,
non soltanto la rappresentanza individuale proporzionata
alla consistenza delle forze politiche presenti nell'organo
elettivo, ma anche – quando la varietà di consistenza e di
numero dei gruppi non consenta di conseguire l'obiettivo con
precisione aritmetica, per quozienti interi meccanismi
tecnici (quali il voto ponderato, il voto plurimo e simili)
idonei ad assicurare a ciascun commissario un peso
corrispondente a quello della forza politica che
rappresenta.
Nel caso di specie se, in materia di commissioni consiliari,
il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale
prevede che la ripartizione dei membri delle commissioni da
parte dei singoli gruppi deve essere effettuata con un
criterio di proporzionalità –garantendo, comunque a ciascun
consigliere la presenza in almeno una commissione
consiliare– e che nel caso di dimissioni, decadenza od altro
motivo che renda necessaria la sostituzione di un
consigliere, il presidente del gruppo consiliare di
appartenenza designi un altro rappresentante, è necessario
provvedere, anche al fine di adeguare la composizione delle
commissioni al criterio proporzionale previsto dal citato
art. 38 del dlgs 267/2000, ad una revisione complessiva
delle stesse con una deliberazione del consiglio comunale
che prenda atto della designazione dei consiglieri in
rappresentanza dei gruppi neo costituiti e della
sostituzione dei consiglieri.
Il disposto recato dal regolamento comunale in combinato
disposto con il citato art. 38 Tuel è applicabile anche alla
ipotesi prospettata del consigliere eletto presidente di una
commissione in rappresentanza di un gruppo dal quale
successivamente si sia dissociato
(articolo ItaliaOggi del
09.11.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO: LEGGE
ANTICORRUZIONE/ Per gli enti locali occorreranno specifiche
intese in Unificata. Piani di legalità nei pubblici uffici.
Codici di condotta, turnover dei dirigenti, incarichi ai
raggi X.
Definizione di un piano e individuazione di un responsabile
(di norma il segretario) per le attività di contrasto della
corruzione. Adozione di un codice di comportamento dei
dipendenti. Turnover dei dirigenti, specialmente nei settori
più a rischio, e rafforzamento del contrasto ai casi di
conflitto di interessi. Trasparenza e pubblicità sui
conferimenti di incarichi discrezionali e sui tempi di
conclusione dei procedimenti amministrativi.
Sono questi alcuni dei principali obblighi imposti dalla
legge recante «disposizioni per la prevenzione e la
repressione della corruzione e dell'illegalità nella
pubblica amministrazione», approvata in via definitiva
dal Parlamento e già firmata dal capo dello stato (il testo
è atteso in Gazzetta Ufficiale).
Va chiarito fin da subito che tale provvedimento si applica
a tutte le p.a. di cui all'art. 1, comma, 2, del dlgs
165/2011, ivi compresi, quindi, regioni, enti locali, nonché
enti pubblici e soggetti di diritto privato sottoposti al
loro controllo.
Per gli enti territoriali, però, occorreranno specifiche
intese, da raggiungere in Conferenza unificata entro 120
giorni dall'entrata in vigore della legge, per definirne
operativamente le modalità applicative.
In primo luogo, andranno specificati tempi e modalità di
definizione del piano triennale di prevenzione della
corruzione, a partire da quello relativo agli anni
2013-2015. In base alla disciplina generale, il piano deve
adottato dall'organo di indirizzo politico di ciascuna pa
entro il 31 gennaio e deve contenere la valutazione del
diverso livello di esposizione degli uffici al rischio di
corruzione e l'indicazione degli interventi organizzativi
volti a prevenire il medesimo rischio. Esso dovrà essere
coerente con le linee guida contenute nel piano nazionale
anticorruzione approvato dalla commissione nazionale per la
valutazione, l'integrità e la trasparenza della pubblica
amministrazione (Civit), che è stata individuata come
l'autorità nazionale in materia.
Il piano, che andrà trasmesso alla regione interessata e al
dipartimento della funzione pubblica, dovrà essere
predisposto dal responsabile anticorruzione, che negli enti
locali coinciderà, di norma e salva diversa e motivata
determinazione degli organi di indirizzo politico, con il
segretario.
Quest'ultimo vede così ulteriormente rafforzate le proprie
prerogative in materia di controllo, già fortemente ampliate
(sul versante della regolarità amministrative e contabile)
dal recente dl 174/2012.
Nella sua nuova veste di responsabile anticorruzione, il
segretario, oltre a predisporre il piano triennale, dovrà
verificarne la concreta attuazione, curando anche la
selezione e la formazione del personale destinato a operare
in settori particolarmente esposti alla corruzione,
assicurandone altresì l'effettiva rotazione.
Per compensare tali maggiori responsabilità (e i connessi
risvolti di natura disciplinare ed erariale per i casi di
omissione di controllo), la nuova legge prevede che la
revoca del segretario da parte del sindaco per gravi
violazioni d'ufficio debba essere inviata dal prefetto alla
Civit, che deve pronunciarsi entro 30 giorni. Decorso tale
termine la revoca diventa efficace, salvo che l'autorità
rilevi il suo collegamento con le attività di prevenzione
anticorruzione.
Gli enti locali dovranno anche adottare norme regolamentari
relative all'individuazione degli incarichi vietati ai
dipendenti pubblici e dotarsi di un codice di comportamento
che integri e specifichi quello generale che dovrà essere
definito a livello nazionale. Il codice integrativo dovrà
essere adottato, previo parere dell'organismo interno di
valutazione (Oiv), sulla base dei criteri, delle linee guida
e dei modelli predisposti dalla Civit ed una copia dovrà
essere consegnata ai dipendenti all'atto della assunzione,
con obbligo di sottoscrizione.
Rafforzati, infine, gli obblighi di pubblicità e
trasparenza, con riguardo, innanzitutto, agli esiti delle
verifiche periodiche sul rispetto dei tempi di conclusione
dei procedimenti amministrativi. Le pa dovranno anche
trasmettere alla funzione pubblica, tramite gli Oiv, tutti i
dati utili (compresi titoli e curricula) a rilevare le
posizioni dirigenziali attribuite a persone, anche esterne
alle pubbliche amministrazioni, individuate
discrezionalmente dall'organo di indirizzo politico senza
procedure pubbliche di selezione.
La legge ha comunque delegato il governo ad adottare un
decreto legislativo «per la disciplina organica degli
illeciti, e relative sanzioni disciplinari, correlati al
superamento dei termini di definizione dei procedimenti»
e uno per normare in modo organico gli adempimenti
pubblicitari a carico della p.a. L'esecutivo è stato anche
delegato a emanare un provvedimento per il riordino della
disciplina delle cause di incandidabilità, che dovrebbe
vedere la luce in tempi brevi.
Infine, vanno segnalate le modifiche apportate al Tuel per
adeguare le relative disposizioni alle nuove fattispecie di
reato introdotte.
---------------
La velocità di conclusione dei
procedimenti entra nel piano anticorruzione. Non c'è
trasparenza senza controllo dei tempi. Il controllo dei
tempi di conclusione dei procedimenti amministrativi entrano
a far parte del piano anticorruzione.
Lo stabilisce la legge anticorruzione, che interviene in
diversi punti allo scopo di riformare la legge sul
procedimento amministrativo, la 241/1990, per garantire la
maggiore trasparenza possibile nell'esercizio dell'azione
amministrativa.
Si tratta di disposizioni che si aggiungono a quanto già
prevede l'articolo 2, commi 9 e seguenti, della legge
241/1990, i quali prevedono responsabilità disciplinari e
contabili nei confronti dei dirigenti che non rispettino i
termini dei procedimenti, oltre a sistemi sostitutivi nel
caso di inerzia.
Dietro il mancato rispetto dei termini dei procedimenti
amministrativi possono, in effetti, annidarsi situazioni di
corruttela o, comunque, azioni volte a favorire la
conclusione di procedimenti con strade privilegiate rispetto
ad altri.
Col rischio che i procedimenti conclusi prima per favorire
qualcuno, possano comportare ritardi ingiusti nei confronti
degli altri.
Nell'articolo 11 del codice di comportamento allegato ai
contratti collettivi di lavoro, è specificato che «nella
trattazione delle pratiche egli rispetta l'ordine
cronologico e non rifiuta prestazioni a cui sia tenuto
motivando genericamente con la quantità di lavoro da
svolgere o la mancanza di tempo a disposizione».
Gli uffici e i dipendenti, dunque, debbono rispettare la
tempistica, secondo l'ordine di ricezione delle istanze o di
attivazione delle pratiche, evitando di anticipare i tempi o
ritardarli ad arte, allo scopo di suscitare elementi di
possibile corruttela.
Il disegno di legge anticorruzione non solo indica il
monitoraggio dei tempi come uno degli elementi costitutivi
del piano triennale di prevenzione della corruzione, ma in
ogni caso impone alle amministrazioni il controllo periodico
del rispetto dei tempi procedimentali, allo scopo di
eliminare tempestivamente le anomalie e di esporre i
risultati del monitoraggio sul sito web.
I cittadini, in questo modo, potranno contare sulla
possibilità di capire il grado generale di puntualità e
rispetto dei termini procedimentali.
Le amministrazioni, comunque, dovranno fare ancora di più.
Il disegno di legge le obbliga ad attivare definitivamente
sistemi telematici di relazione con i cittadini. Tramite
strumenti di identificazione informatica da mettere in
azione nel rispetto del codice dell'amministrazione
digitale, ciascun cittadino dovrà poter accedere a tutte le
informazioni concernenti i procedimenti e i provvedimenti
che lo riguardano. In particolare, il singolo soggetto
interessato, potrà verificare lo stato della procedura e i
relativi tempi.
In questo modo, oltre al controllo interno sul rispetto dei
tempi, si crea anche un sistema di controllo esterno,
generalizzato sul monitoraggio e specifico, invece, per i
singoli procedimenti.
Il disegno di legge anticorruzione, in sostanza, chiude il
cerchio del sistema di garanzia delle tempistiche
procedimentali, innescando una piena trasparenza che
dovrebbe costituire un deterrente per la corruzione
(articolo ItaliaOggi del
09.11.2012). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Nuovi
obblighi per i vertici politici dal dl salva-enti che ieri
ha incassato la fiducia. Una relazione all'inizio e una alla
fine del mandato.
Regioni, province e comuni chiamati alla
trasmissione della relazione di fine legislatura alla Corte
dei conti e alla pubblicazione della stessa sui propri siti
internet istituzionali. In caso di inadempimento,
scatteranno, per gli organi di vertice e i dirigenti
responsabili sanzioni pecuniarie che prevedono il
dimezzamento delle indennità di mandato e degli emolumenti.
Presidenti di provincia e neosindaci redigeranno, entro tre
mesi dal loro insediamento, una relazione di inizio mandato
che dia conto della situazione finanziaria e patrimoniale
dell'ente, nonché del suo livello di indebitamento.
Queste alcune delle novità apportate dal lavoro congiunto
delle Commissioni permanenti affari costituzionali e
bilancio, tesoro e programmazione della camera, al testo del
decreto legge salva enti (il n. 174/2012) che proprio ieri
ha incassato il voto di fiducia dall'aula di Montecitorio.
Relazione di fine legislatura.
Con un restyling alle disposizioni recate dal dlgs n.
149/2011 (uno dei decreti delegati attuativi del federalismo
fiscale), il decreto n. 174 rifà i contorni alla relazione
di fine legislatura cui sono tenute le regioni, le province
e le amministrazioni comunali. Innanzitutto sui tempi.
Per le regioni, viene precisato che entro dieci giorni dalla
sottoscrizione della relazione da parte del presidente la
stessa deve essere inoltrata alla competente sezione
regionale di controllo della Corte dei conti. Questa, entro
un mese dalla ricezione, ne esprime valutazioni per iscritto
che dovranno immediatamente essere rese pubbliche attraverso
l'immissione sul sito internet istituzionale della regione.
Se la regione non redige o pubblica online la relazione di
fine legislatura, subentra un particolare regime
sanzionatorio.
In pratica, al presidente e, in caso di mancata
predisposizione, al responsabile delle servizio finanziario
della regione viene ridotta della metà, con riferimento alle
tre mensilità successive, la misura dell'indennità di
mandato spettante e quella degli emolumenti. Il presidente
dovrà altresì mettere sulla home page del sito il
motivo della mancata pubblicazione della relazione. Per le
province e i comuni, invece, la relazione di fine mandato
deve essere redatta dal responsabile del servizio
finanziario o dal segretario generale. Anche in questo caso,
entro dieci giorni dalla sottoscrizione da parte del
presidente della provincia o del sindaco dovrà essere
trasmessa alla Corte dei conti. Previste sanzioni in caso di
mancata redazione o di pubblicazione sul sito internet
dell'ente.
Presidenti e sindaci, nonché i dirigenti responsabili,
subiranno la riduzione alla metà, con riferimento alle tre
successive mensilità, dell'indennità di mandato e degli
emolumenti. I primi cittadini, inoltre, dovranno mettere in
chiaro le motivazioni dell'omessa pubblicazione.
Relazione di inizio mandato.
Entro tre mesi dall'insediamento, i presidenti delle
province e i sindaci dovranno redigere una relazione di
inizio mandato, ovvero una cartina al tornasole dei conti
dell'ente. Infatti, lo scopo di tale relazione è quella di
verificare la situazione finanziaria dell'ente, la
consistenza del proprio patrimonio e la misura
dell'indebitamento. A predisporla dovranno essere i
responsabili dei servizi finanziari o i segretari generali.
Se le risultanze della relazione dovessero far temere per la
tenuta dei conti dell'ente, i presidenti e i sindaci sono
autorizzati a ricorrere alle procedure per ristabilire il
riequilibrio finanziario.
Nel silenzio della norma, il legislatore dovrebbe chiarire,
magari anche prima del definitivo passaggio in aula previsto
per martedì prossimo, l'organo cui dovrà essere inviata la
relazione. Se alla Corte dei conti, nell'ambito dei
controlli demandatale dall'art. 1, commi 166 e seguenti,
della legge finanziaria 2006 o alla ragioneria generale
dello stato. Infine, sull'onda mediatica delle vicende che
hanno coinvolto esponenti politici in seno al Consiglio
regionale del Lazio, il decreto modifica una disposizione
contenuta all'articolo 5 del citato dlgs n. 149/2011.
In pratica, si permette alla Ragioneria generale dello stato
di avviare proprie verifiche qualora si accerti un aumento
non giustificato delle spese a favore dei gruppi consiliari
e degli organi istituzionali dell'ente. La stessa
ragioneria, inoltre, se dovesse verificare, attraverso le
proprie banche dati, uno squilibrio finanziario dell'ente,
dovrà darne immediata comunicazione alla competente sezione
regionale della Corte dei conti
(articolo ItaliaOggi del
09.11.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: PRIVACY/
Provvedimento del Garante. Che dà anche una stretta al
marketing selvaggio. Valutazione dipendenti al coperto.
Busta chiusa e web criptato per garantire la riservatezza.
Valutazione ai dipendenti consegnate solo in busta chiusa o
per via telematica.
Il Garante della privacy con il
provvedimento 04.10.2012 n. 276 ha prescritto a
un'azienda ospedaliera di adottare le misure idonee a
garantire la riservatezza dei dati personali contenuti nei
documenti di valutazione dei dipendenti.
Nel caso specifico un dirigente si è lamentato per aver
ricevuto la propria scheda, in busta aperta, da personale
amministrativo addetto a un'altra struttura dell'azienda. Il
Garante ha accolto il ricorso e ha imposto al complesso
sanitario di garantire maggiori tutele affinché il contenuto
delle schede individuali di valutazione non possa essere
letto neppure dal personale incaricato della consegna o da
altre persone non autorizzate.
Possono ad esempio essere adottate modalità telematiche che
consentano l'accesso al documento solo al dipendente
interessato (certificandone anche l'avvenuta ricezione),
oppure provvedendo a consegnare la valutazione
opportunamente spillata o in busta chiusa.
CASELLARIO GIUDIZIALE APERTO ALLE P.A.
Con altro provvedimento il garante si è occupato di
casellario giudiziale, rilasciando parere favorevole allo
schema di decreto dirigenziale del ministero della giustizia
che disciplina le modalità operative di consultazione
diretta in via telematica del casellario giudiziale da parte
delle pubbliche amministrazioni e dei gestori di pubblici
servizi.
Le p.a. e gli enti che hanno in gestione servizi pubblici
(ad esempio Poste spa, Enel spa, Italgas, Trenitalia)
potranno consultare direttamente il casellario giudiziale,
per acquisire informazioni sui precedenti penali e sui
carichi pendenti, al fine di effettuare i controlli
d'ufficio previsti dalla legge o di verificare le
dichiarazioni sostitutive presentate da imprenditori e
cittadini interessati, ad esempio, a partecipare a gare
d'appalto e forniture o ad altri provvedimenti (ad esempio
il rilascio della patente di guida).
Saranno consentiti, però, accessi selettivi ai soli dati
giudiziari indispensabili agli accertamenti di competenza.
Anzi viene creato ad hoc proprio il «certificato
selettivo», ad uso degli enti pubblici
Sono state previste convenzioni tra il ministero della
giustizia e i soggetti interessati che stabiliranno le
condizioni e le regole tecniche per il rilascio dei «certificati
selettivi».
Il garante ha chiesto inoltre di introdurre adeguate misure
di sicurezza, soprattutto sul controllo degli accessi. La
consultazione diretta del Sic (Sistema informativo del
casellario) avverrà infatti mediante il Cerpa (Centro
europeo ricerca e promozione dell'accessibilità), il sistema
per la certificazione massiva gestito dall'ufficio centrale
del casellario. Il Sic potrà essere consultato tramite
tecnologia web service o tramite Pec, il servizio di posta
elettronica certificata. L'Ufficio del casellario centrale
garantirà la piena tracciabilità dei collegamenti telematici
tra il Cerpa e i vari sistemi coinvolti. Verrà istituito il
«Registro degli accessi al Sic», che consentirà
all'amministrazione interessata di eseguire controlli
informatizzati trimestrali, anche a campione, sulla
rispondenza delle richieste dei certificati ai rispettivi
procedimenti amministrativi. Le registrazioni e i log del
sistema dovranno essere conservati per dieci anni.
LISTE INVALIDI PER LA PROTEZIONE CIVILE
Sempre dal Garante arrivano precisazioni per il piano di
protezione civile relativa agli invalidi: i comuni devono
chiedere l'elenco dei nominativi alle Asl e non all'Inps.
L'Inps, infatti, non può inviare ai Comuni l'elenco degli
invalidi perché nessuna norma lo autorizza a comunicare
all'ente locale dati sulla salute delle persone che
fruiscono delle prestazioni d'invalidità.
MARKETING SELVAGGIO
In materia di marketing, infine, Il Garante della privacy ha
vietato il trattamento illecito dei dati di circa un milione
di persone contenuti nel data base di una società che opera
nel settore delle vendite per corrispondenza e del marketing
diretto. La decisione (provvedimento 286/2012) è stata
adottata in seguito agli esiti dell'attività ispettiva
avviata su segnalazione di numerose persone che lamentavano
di essere state disturbate con offerte commerciali
indesiderate
(articolo ItaliaOggi del
09.11.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Riscaldamento,
impianti finanziati. Aiuti fino al 40% dei costi per
cittadini e aziende che cambiano. Il
governo vara il nuovo Conto termico. I contributi fino a
esaurimento fondi. A disposizione 900 mln..
Ai cittadini e alle piccole imprese che investono cento in
energia termica, lo stato finanzierà 40. Impianti di
riscaldamento inclusi.
Dare una sferzata alla produzione di energia termica da
fonti rinnovabili e accelerare i progetti di
riqualificazione energetica degli edifici pubblici sono,
infatti, i due obiettivi dichiarati di un decreto
ministeriale, varato ieri dal ministro allo sviluppo
economico, Corrado Passera, di concerto con i ministri
dell'ambiente e delle politiche agricole, Corrado Clini e
Mario Catania.
Il dm, conosciuto anche come «conto termico»,
costruisce un nuovo sistema di incentivi per interventi di
piccola caratura; in sostanza per piccole imprese e usi
domestici. Nell'alveo delle agevolazioni rientrano anche le
serre, finora scarsamente incentivate. Cittadini e imprese
potranno, così, investire alcune migliaia di euro in nuovi
impianti a energia rinnovabile, supportati da
un'agevolazione che andrà a copertura del 40%
dell'investimento e che sarà incassata entro un biennio. O
in cinque anni per gli investimenti più costosi.
Le tecnologie termiche da fonti rinnovabili incentivate sono
riscaldamento a biomassa, pompe di calore, solare termico e
solar cooling. Sul versante pubblica amministrazione,
invece, gli incentivi serviranno, a detta del ministero
dello sviluppo economico, a «superare le restrizioni
fiscali e di bilancio, che non hanno finora consentito alle
amministrazioni di sfruttare le potenzialità» del
risparmio energetico. Il conto termico servirà, quindi, a
riqualificare gli edifici di proprietà pubblica dal punto di
vista energetico. Vediamo come.
I fondi.
Intanto va detto che i finanziamenti, che il decreto sul
Conto termico mette a disposizione delle pubbliche
amministrazioni, ammontano a 200 mln di euro per le
pubbliche amministrazioni e a 700 mln di euro per i privati
cittadini e le piccole imprese. Infatti, per le
amministrazioni pubbliche il blocco alle erogazioni scatterà
trascorsi due mesi dal raggiungimento dell'impegno di spesa
annua cumulata in agevolazioni di 200 mln di euro. Mentre,
per i privati, i condomini e le aziende, lo stop scatterà
trascorsi 60 giorni dal raggiungimento dell'impegno di spesa
cumulato annuo di 700 mln. Raggiunte tali soglie, bisognerà
attendere un nuovo decreto interministeriale, che aggiorni
il parco agevolazioni
Gli interventi.
Per privati e aziende, il Conto termico finanzia: la
sostituzione di impianti di climatizzazione invernale
esistenti, con altri a pompe di calore elettriche o a gas,
anche geotermiche; la sostituzione di impianti esistenti di
climatizzazione invernale e riscaldamento delle serre con
impianti di climatizzazione invernale alimentati da
generatori a biomassa; l'installazione di collettori solari
termici, anche abbinati a sistemi di solar cooling; la
sostituzione di scaldacqua elettrici con scaldacqua a pompa
di calore.
Per gli edifici delle p.a., oltre agli interventi di cui
sopra, il Conto termico finanzia anche investimenti in
isolamento termico, chiusure trasparenti e infissi, nuovi
impianti con generatori di calore a condensazione e sistemi
di schermatura e ombreggiamento di chiusure, fissi e mobili
(articolo ItaliaOggi del
09.11.2012). |
ENTI LOCALI: Una
controriforma sui controlli. Fa discutere la presenza dei
ministeriali nei collegi dei revisori.
La norma inserita nel dl 174 è di dubbia utilità. E
se ne è accorto anche il Parlamento.
Le risposte
legislative date sull'onda di uno sdegno generalizzato quasi
sempre hanno prodotto effetti disastrosi che si sono
trascinati negli anni. Il «rafforzamento» dei
controlli negli enti locali disposto dal dl 174, presenta
aspetti di controriforma del sistema delle autonomie e porta
a duplicazione di controlli ed a soluzioni che destano sul
piano operativo forti dubbi di fattibilità. Non si comprende
la ratio della disposizione introdotta con il comma
1, lettera m dell'art. 3 del dl 174/2012.
Come sostenuto dall'Upi la nomina, da parte del prefetto, di
un presidente del collegio dei revisori, di concerto con i
ministeri dell'interno e dell'economia, nei comuni con
popolazione superiore a 60 mila abitanti e quelli capoluogo
di provincia, non appare assolutamente in linea con le
prerogative di autonomia degli enti locali. E di questo
sembrano essersene accorti i deputati di Montecitorio che in
commissione hanno soppresso la norma.
Quanti dipendenti dei due ministeri avranno la
professionalità ora richiesta per essere estratti a sorte
come revisori in tali enti? Per essere estratti a sorte per
tali enti, occorre essere iscritti ad albo professionale da
almeno dieci anni, aver svolto almeno due incarichi di
revisione negli enti locali per la durata di tre anni
ciascuno ed infine dimostrare di aver acquisito i crediti
formativi specifici. La nuova disposizione non migliora
l'indipendenza e la professionalità del revisore ed aumenta
in modo considerevole il costo.
Quanto costa e quanto tempo richiede una trasferta da Roma
ad un comune non servito dall'alta velocità per esaminare un
atto quale una variazione di bilancio che storna fondi o la
sottoscrizione di un modello quale tipo quello delle spese
di rappresentanza?
L'esito dei controlli con revisori ministeriali nelle Asl
non è certo stato esaltante. Abbiamo appreso di recente che
in quelle della Calabria non c'era neppure la contabilità.
Il sistema di elezione dei revisori viene modificato prima
dell'entrata in funzione attribuendo circa 250 incarichi a
dipendenti ministeriali (la cui indipendenza e
professionalità non è definita) con la speranza di
rafforzare il monitoraggio degli obiettivi di finanza
pubblica.
La scarsa conoscenza da parte di chi scrive le norme degli
adempimenti a cui sono tenuti i revisori, combinata con
l'accavallarsi frenetico della normativa porta a soluzioni
che appaiono assurde.
L'auspicio è che la disposizione sia abrogata in via
definitiva seguendo l'indicazione delle Commissioni affari
costituzionali e bilancio della Camera dei deputati.
Tanti aspetti del nuovo sistema dei controlli delineato
dall'art. 3 del decreto 174, destano perplessità e la fretta
della conversione in legge non aiuta quegli approfondimenti
che sarebbero necessari. Si è aperta una caccia ad acquisire
maggiori poteri di controllo da parte di troppi
interlocutori. La norma d'altra parte non è per nulla
organica ed amplia compiti ai segretari, ai responsabili dei
servizi finanziari, ai servizi ispettivi del Mef, alla
Guardia di finanza, alla Corte dei conti e anche ai
revisori.
Il controllo di regolarità amministrativa e contabile deve
ora essere effettuato da struttura interna sia in via
preventiva che successiva (con la tecnica del campionamento)
sotto la direzione del segretario e le risultanze sono
trasmesse periodicamente all'organo di revisione. A cosa
serve un controllo a posteriori effettuato dalle stesse
persone che l'hanno esercitato ex ante? Tale nuova
disposizione come si raccorda con l'affidamento all'organo
di revisione dello stesso controllo con uguale criterio
(principi di revisione aziendale) e sulle stesse materie
come indicato dall'art. 239 del Tuel? Ed ancora, a
dimostrazione che la fretta porta a confusione; il citato
art. 3 al comma 1, lettera o), amplia i pareri obbligatori
dei revisori su proposte di atti fondamentali della gestione
e tra questi i regolamenti di contabilità,
economato-provveditorato, patrimonio e di applicazione dei
tributi locali. La norma richiede un «motivato giudizio
di congruità, coerenza e di attendibilità contabile delle
previsioni di bilancio» anche per il parere sui
regolamenti. Come esprimere il motivato giudizio
nell'articolazione richiesta sui regolamenti richiede
un'enorme fantasia.
È giusto ampliare la funzione di collaborazione del revisore
perché i pareri obbligatori preventivi hanno evitato in
tanti casi gravi irregolarità e contribuito a mantenere gli
equilibri finanziari, ma non è possibile, in un Paese
normale, aumentare continuamente i compiti, responsabilità e
sanzioni senza preoccuparsi dell'iniquità dei compensi.
Forse, la mancata congruità dei compensi non rende possibile
l'adeguato svolgimento di funzioni solo per alcuni.
Un auspicio: fermiamoci un attimo! La confusione per gli
enti locali è già troppa, il termine del 31 ottobre era
stabilito per approvare il bilancio del nuovo anno e non di
quello in corso, per gli organismi partecipati è arduo
comprendere quali siano le norme sono vigenti e la loro
portata ed inoltre per l'Imu, stante l'incertezza del
gettito, è autorizzato l'«accertamento virtuale».
Apriamo un confronto fra gli attori del controllo per
elaborare una normativa di rafforzamento dei controlli
sostanziali, non invasiva e razionale. Una normativa che
eviti costose duplicazioni e preveda una stretta relazione
fra controlli interni, organo di revisione e Sezione
regionale della Corte dei conti a cui affidare la «regia» e
il controllo sui controlli
(articolo ItaliaOggi del
09.11.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
VARI:
Circolare dei trasporti. Patente smarrita, ecco il nuovo
modello per licenza europea.
Chi deve richiedere una nuova patente di guida per
smarrimento distruzione o furto deve presentarsi a un
ufficio di polizia con un documento di riconoscimento e due
fotografie formato tessera facendo attenzione ad apporre
correttamente anche la firma autografa sul nuovo modello di
domanda.
Lo ha chiarito il Ministero dei Trasporti con
la
nota 31.10.2012 n. 29619 di prot..
Il rinnovo della patente di
guida per smarrimento, sottrazione o distruzione è
disciplinato dal dpr 104/2000. Con circolare 18/6/2001 il
ministero dei trasporti ha illustrato concretamente le
modalità operative per il corretto svolgimento di questa
formalità. In pratica l'interessato può presentarsi a un
qualsiasi ufficio di polizia, entro 48 ore, con un documento
di riconoscimento e due fotografie formato tessera.
Espletate tutte le formalità l'utente stradale uscirà dal
comando con il permesso provvisorio di circolazione già
compilato, valido per 90 giorni. Sempre che la patente sia
duplicabile e non risulti scaduta. In questo caso infatti a
parere dell'organo tecnico centrale solo gli uffici della
motorizzazione potranno dare adeguata assistenza agli utenti
interessati rilasciando anche un permesso provvisorio di
circolazione. Con l'entrata in vigore del dlgs 59/2011, dal
19/01/2013, cambieranno le categorie delle patenti di guida e
arriverà anche un nuovo modello di patente, la licenza
europea.
Queste importanti novità in arrivo condizioneranno
anche la procedura per il rilascio del duplicato della
licenza di guida. Oltre alle fotografie l'interessato d'ora
in poi dovrà apporre sulla domanda di duplicato anche la
propria firma autografa. Questa annotazione dovrà infatti
obbligatoriamente essere riprodotta anche sul duplicato
della patente di guida (articolo ItaliaOggi
del 06.11.2012). |
ENTI LOCALI: Enti locali. Sono i possibili addetti da trasferire per
effetto di accorpamenti e riduzione di funzioni.
Fino a 12mila eccedenze nelle Province.
LA CONSULTA/
Oggi udienza davanti alla Corte costituzionale sui ricorsi
presentati da 8 Regioni contro la stretta del salva-Italia
di dicembre.
Per una partita sulle eccedenze nella Pa che si avvia alla
conclusione, come spiega l'articolo qui in alto, ce n'è
un'altra che è appena al fischio di inizio e che si
concluderà nel 2014. A giocarla saranno vecchie e nuove
Province.
Sono 12mila infatti i dipendenti che rischiano di
dover essere ricollocati per effetto del doppio intervento
del taglio di 35 enti di area vasta nelle Regioni ordinarie
e della riduzione a 3 (ambiente, trasporti, edilizia
scolastica) delle funzioni.
La stima è frutto di un'elaborazione del Sole 24 Ore. Che
parte dagli ultimi numeri sul personale resi noti dall'Upi e
li incrocia con la stretta avviata dal salva-Italia,
proseguita dalla spending review e completata dal decreto
sul riordino varato mercoledì. Dei circa 57mila lavoratori
alle dipendenze delle amministrazioni provinciali, circa
27mila appartengono a quelle interessate dagli accorpamenti
o dall'evoluzione in città metropolitane. Al loro interno
può essere individuato un primo gruppo di 12mila unità "a
rischio-eccedenza". Si tratta dei dipendenti delle Province
che confluiranno in altri "enti di mezzo" e perderanno il
titolo di capoluogo. Immaginando che questo venga fissato
ovunque nel Comune più popoloso –anche se la legge consente
ai sindaci interessati, anche a maggioranza, di disporre
diversamente– e considerando che gli organi politici
andranno concentrati in un unico "palazzo" poiché non ci
saranno sedi decentrate, in teoria, gli unici lavoratori
sicuri del posto sarebbero quelli che già risultano oggi
occupati nel capoluogo.
Per gli altri partirebbe il ricollocamento presso uno degli
uffici che gestiranno le tre funzioni rimaste di competenza
provinciale oppure presso i Comuni che le erediteranno. A
meno che le Regioni non decidano di tenerle per sé,
gestendole in proprio o magari creando una struttura ad hoc.
Il procedimento per il trasferimento del personale sarà
molto simile a quello descritto qui in alto. con le
specificità delineate dall'articolo 6 del Dl approvato la
settimana scorsa e in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale.
È presumibile che l'iter occupi gran parte del 2013 e si
concluda solo a ridosso della partenza dei nuovi enti
fissata per il 01.01.2014. I criteri e le modalità da
seguire saranno concertate con i sindacati. Ma se entro 30
giorni non si raggiungerà un accordo i presidenti di
Provincia potranno avviare i passaggi di ruolo. Nel rispetto
di un doppio vincolo: le dotazioni organiche saranno
rideterminate tenendo conto dell'effettivo fabbisogno; per
le eventuali deroghe conteranno i parametri di virtuosità
già richiamati dalla spending.
Ulteriori novità sul fronte Province potrebbero arrivare
oggi dalla Consulta che esaminerà il ricorso presentato da 8
Regioni (Lombardia, Piemonte, Veneto, Friuli, Lazio,
Campania, Molise e Sardegna) contro l'articolo 23 del Dl
salva-Italia del dicembre scorso che ha disegnato i futuri
consigli provinciali come organi di secondo livello, eletti
dai Comuni. In caso di accoglimento verrebbe meno una delle
due gambe su cui si regge l'intera risistemazione delle
Province e il Governo sarebbe costretto a correre ai ripari.
Anche perché l'articolo 23 è l'unica disposizione
dell'intera operazione-Province per cui l'Esecutivo ha già
"cifrato" i potenziali risparmi. I 65 milioni quantificati
all'epoca del salva-Italia ma prudenzialmente non messi a
bilancio (articolo Il Sole 24 Ore
del 06.11.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI:
Giustizia. La legge anticorruzione rinvia a un decreto per
disciplinare il nuovo sistema di controllo antimafia.
Una white list per gli appalti.
L'informativa della Prefettura sostituita da un elenco in
continuo aggiornamento.
LA PREVENZIONE/
Chi non è soggetto al rischio di infiltrazioni non guadagna
l'immunità da accertamenti Basta poco per perdere
l'iscrizione.
Tempi brevi per l'entrata in vigore di elenchi di
imprenditori non soggetti a tentativo di infiltrazione
mafiosa (articolo 1, commi 52 e 53, legge anticorruzione):
entro 60 giorni un decreto del Presidente del Consiglio
chiarirà le modalità di funzionamento, ed entro i successivi
60 giorni l'informativa antimafia "atipica" o
"supplementare" sarà sostituita, in taluni settori, da un
elenco (white list). I settori sono quelli più soggetti a
rischi di infiltrazione (trasporti, smaltimento rifiuti,
inerti, come da tabella allegata).
Fino ad oggi la Camera di commercio rilasciava certificati
di iscrizione con una generica stampigliatura di validità
antimafia, di frequente contraddetti da informative
prefettizie di contenuto diverso, motivate caso per caso
attraverso richiami a rapporti redatti dagli organi di
investigazione. Le "informative" prefettizie sono tuttavia
destinate ad esser sostituite da "comunicazione antimafia"
(articolo 84, Dlgs 159/2011): nell'attesa dell'entrata in
vigore del Codice antimafia del 2011 (dopo 24 mesi da un
regolamento che ancora manca), nei settori più a rischio
individuati dalla legge anticorruzione le informative non
saranno più singole (a richiesta degli enti interessati),
bensì desumibili dalla lettura nell'elenco (white list).
Chi
è presente in tale elenco potrà dichiararsi «non soggetto a
rischio di infiltrazione» e concorrere quindi senza
attendere la verifica della Prefettura. L'elenco delle
attività più esposte a rischio di infiltrazione coincide con
quello contenuto nella direttiva del ministro dell'Interno
Maroni n. 4610 del 13.06.2010, ma altre tipologie
possono arricchire l'elenco delle attività certificabili
come indenni da rischi.
Una lista analoga era già prevista nell'articolo 4, comma 13,
del decreto sviluppo (70/2011), ma riguardava solo i
subfornitori e i subappalti: ora si opera anche a monte,
direttamente sugli appalti; di contenuto simile è anche il
Codice etico che l'articolo 3 dello Statuto delle imprese
(legge 180/2011) prevede sotto forma di rifiuto di ogni
rapporto con organizzazioni criminali o mafiose: chi non
aderisce al codice etico non può far parte delle
associazioni e perde benefici in tema di semplificazioni
amministrative (Scia, Dia edilizie).
L'inserimento nell'elenco dei «non soggetti a tentativi di
infiltrazione» dovrebbe essere automatico, poiché è un
diritto delle imprese quello di non essere discriminate
attraverso albi o elenchi. Può quindi prevedersi una corsa
all'iscrizione, oppure un periodo di iniziale
autocertificazione dell'esistenza dei requisiti per
l'iscrizione in white list. Nel frattempo, coesisteranno i
sistemi di "informativa" antimafia, cioè gli attestati
rilasciati dalle Prefetture.
L'informatizzazione potrà rimediare ad alcuni degli
inconvenienti fino ad oggi emersi per le informative, cioè
la territorialità dei provvedimenti (emessi dalle Prefetture
dove l'impresa ha sede): l'articolo 1, comma 52, prevede la
competenza della Prefettura dove ha sede l'impresa, ma il Dlgs 159/2011 prevede anche una banca dati nazionale,
rendendo irrilevante la sede della Prefettura.
L'iscrizione nell'elenco dei non soggetti a tentativi di
infiltrazione non genera immunità da accertamenti
successivi, poiché basterà un rischio (la presenza di
pregiudicati in cantiere, la partecipazione a cartelli) per
far perdere l'iscrizione. Sull'entrata ed uscita dalle liste
di qualità vi sarà un verosimile contenzioso, affidato alla
giustizia amministrativa che ha già ampia esperienza in tema
di informative antimafia. La previsione di liste di qualità
è il primo passo verso il rating di legalità delle imprese
(articolo 5-ter, Dl 1/2012, ora legge 27/2012 sulle
liberalizzazioni). Ivi si legge che il rating delle imprese
va valutato in sede di concessione di finanziamenti pubblici
e di accesso al credito bancario: il passaggio dalla white
list (assenza di rischi) al rating (presenza di qualità)
sarà quindi un incentivo per le imprese (articolo Il Sole 24
Ore del 06.11.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
INCARICHI PROGETTUALI: Professionisti.
La Cassazione interviene su compensi e revoca dell'incarico.
Il committente che recede paga solo il lavoro fatto.
Se il geometra ha esorbitato dalle funzioni l'accordo è
nullo.
Incarico al professionista sotto esame in Corte di Cassazione. Con la
sentenza 09.11.2012 n. 19502 è stato affrontata la
questione della qualificazione della responsabilità per
danni nel caso del compenso a un geometra che aveva
esercitato competenze esclusive degli ingegneri. Nella
pronuncia 19524, sempre depositata ieri, è stabilito che la
revoca dell'incarico provoca il pagamento del lavoro sin lì
svolto ma senza ulteriori indennità.
Più in dettaglio, la sentenza 19502 esamina la situazione di
due committenti che si erano opposti al decreto ingiuntivo
fatto emettere da un geometra che aveva svolto per loro
attività per la ristrutturazione di un immobile che
esorbitavano dalla sua competenza professionale. La Corte
d'appello aveva accolto in parte la richiesta dei
committenti sul compenso ma senza riconoscere i danni da
loro subiti a causa degli errori del geometra. La Cassazione
ha confermato la sentenza d'appello, riconoscendo che il
compenso non era dovuto ma quanto ai danni, che il
ricorrente legava indissolubilmente alla nullità del
contratto, la Cassazione ha specificato che non erano
compresi nella domanda in quanto la responsabilità che si va
a configurare in casi del genere è quella extracontrattuale.
Nella sentenza 19524, invece, la vicenda riguarda due
ingegneri cui era stato conferito da una giunta provinciale
l'incarico di redigere il progetto esecutivo di
completamento e del secondo stralcio funzionale di una
strada. Dopo la consegna del progetto, però, la giunta aveva
revocato l'incarico giudicando che si fosse verificato un
inadempimento da parte dei progettisti. Questi avevano
chiesto il compenso per il lavoro effettivamente prestato e
un'indennità per indebito arricchimento.
Il Tribunale sposava la tesi dell'inadempimento (per il
ritardo nella consegna e per la pretesa di un compenso
triplo rispetto al pattuito) mentre la Corte d'appello
accoglieva le richieste degli ingegneri e li liquidava con
300mila euro di «equo compenso». Contro questa sentenza,
però, ricorrevano gli stessi professionisti, lamentando che
l'importo non era stato deciso sulla base della tariffa
professionale e non comprendeva le spese. Ricorreva anche,
per altre ragioni, la Provincia.
La Cassazione ha respinto tutti i ricorsi. Intanto perché
nel ricorso originario i professionisti avevano fatto
riferimento all'articolo 2227 del Codice civile (che parla
proprio di «equo compenso») e non 2237 che, non prevedendo
comunque alcuna indennità, parla però in modo più ampio di
«compenso per l'opera prestata».
La Cassazione ha poi
ricordato che l'articolo 2237 prevede sì un'amplissima
facoltà di recesso da parte del committente ma questi è
tenuto a corrispondere il compenso al prestatore per l'opera
da lui svolta «mentre nessuna indennità è prevista (a
differenza di quanto prescritto dall'articolo 2227) per il
mancato guadagno». Il giudice, però, non poteva far
riferimento all'articolo 2237 perché extra petitum
mentre ha fatto riferimento all'onorario che sarebbe
spettato se i lavori fossero poi stati realizzati
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.11.2012). |
URBANISTICA: I
piani di recupero, nella configurazione ad essi data dagli
art. 28 e 30, l. 05.08.1978 n. 457, sono strumenti di
pianificazione urbanistica a finalità attuative e di livello
gerarchicamente subordinato ai quali si riconnettono
obblighi di trasformazione edilizia e urbanistica per i
proprietari e per il Comune e che non hanno, quindi, una
natura meramente programmatica; di conseguenza è ad essi
applicabile, per esplicita volontà di legge, la disciplina
statale per i piani particolareggiati.
In particolare, in forza del richiamo contenuto all’art. 28,
c. 4, l. 05.08.1978, n. 457, trova applicazione l’art. 16,
l. n. 1150/1942, ai sensi del quale “il decreto di
approvazione di un piano particolareggiato deve essere
depositato nella segreteria comunale e notificato nelle
forme delle citazioni a ciascun proprietario degli immobili
vincolati dal piano stesso entro un mese dall'annuncio
dell'avvenuto deposito”.
In forza di questa previsione -in questa parte vigente,
essendo l’abrogazione disposta dall’art. 58, d.P.R. n.
327/2001 limitata alle norme riguardanti l'espropriazione-
sussiste in capo alla p.a. un obbligo di notifica
individuale, ma solo per i proprietari di immobili
direttamente incisi dalla disciplina del piano di recupero.
---------------
Decorre dalla pubblicazione nell'albo pretorio il termine
per impugnare la deliberazione del Consiglio Comunale di
individuazione delle zone di recupero del patrimonio
esistente, ex art. 27, l. n. 457/1978.
Per gli atti aventi natura pianificatoria e riguardanti,
come nel caso di specie, ampie zone e comparti territoriali,
non è, difatti, richiesta la notifica individuale.
Per giurisprudenza costante, i piani di recupero, nella
configurazione ad essi data dagli art. 28 e 30, l.
05.08.1978 n. 457, sono strumenti di pianificazione
urbanistica a finalità attuative e di livello
gerarchicamente subordinato ai quali si riconnettono
obblighi di trasformazione edilizia e urbanistica per i
proprietari e per il Comune e che non hanno, quindi, una
natura meramente programmatica; di conseguenza è ad essi
applicabile, per esplicita volontà di legge, la disciplina
statale per i piani particolareggiati (cfr. Consiglio di
Stato sez. IV, 29.12.2010, n. 9537).
In particolare, in forza del richiamo contenuto all’art. 28,
c. 4, l. 05.08.1978, n. 457, trova applicazione l’art. 16,
l. n. 1150/1942, ai sensi del quale “il decreto di
approvazione di un piano particolareggiato deve essere
depositato nella segreteria comunale e notificato nelle
forme delle citazioni a ciascun proprietario degli immobili
vincolati dal piano stesso entro un mese dall'annuncio
dell'avvenuto deposito”.
In forza di questa previsione -in questa parte vigente,
essendo l’abrogazione disposta dall’art. 58, d.P.R. n.
327/2001 limitata alle norme riguardanti l'espropriazione-
sussiste in capo alla p.a. un obbligo di notifica
individuale, ma solo per i proprietari di immobili
direttamente incisi dalla disciplina del piano di recupero
(cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 29.12.2010, n. 9537).
--------------
Decorre, parimenti, dalla
pubblicazione nell'albo pretorio il termine per impugnare la
deliberazione del Consiglio Comunale n. 44 del 04.07.2006,
di individuazione delle zone di recupero del patrimonio
esistente, ex art. 27, l. n. 457/1978.
Per gli atti aventi natura pianificatoria e riguardanti,
come nel caso di specie, ampie zone e comparti territoriali,
non è, difatti, richiesta la notifica individuale (cfr.
Consiglio di Stato, sez. VI, 16.09.2011, n. 5158)
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 09.11.2012 n. 2730 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In via di principio, l’atto dovuto è a contenuto
vincolato per cui non è necessaria la comunicazione di avvio
del procedimento ai sensi dell'art. 7 della l. n. 241 del
1990, poiché alcun apporto collaborativo potrebbe dare la
partecipazione del ricorrente al procedimento conclusosi con
il provvedimento impugnato.
Il provvedimento di pronuncia di decadenza del titolo
edilizio, per la sua natura di atto urgente e dovuto, è
espressione di un potere strettamente vincolato, non
implicante quindi valutazioni discrezionali, ma meri
accertamenti tecnici, senza necessità della comunicazione di
avvio del procedimento .
Esso provvedimento, essendo fondato su un presupposto di
fatto rientrante nella sfera di controllo dell'interessato,
non richiede apporti partecipativi del soggetto
destinatario, il quale, in relazione alla disciplina
tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la
preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino
di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene,
in ogni caso, posto in condizione di interloquire con
l'Amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di
rimozione d'ufficio delle opere abusive.
Il giudizio in esame verte sulla richiesta, formulata dal
Comune di Cariati, di annullamento della sentenza del TAR in
epigrafe specificata, con la quale è stato accolto il
ricorso proposto per l’annullamento del provvedimento del
funzionario responsabile dell’Ufficio urbanistica del
Comune, del 09.06.2000, prot. 1/B, di annullamento della
concessione edilizia n. 25 rilasciata il 18.06.1999 alla
sig.ra Giuseppina Liguori per la costruzione di una cappella
gentilizia nel locale cimitero.
Con il primo motivo di appello è stato dedotto che
erroneamente il TAR avrebbe ritenuto che il provvedimento
impugnato fosse viziato dalla mancata partecipazione della
deducente al procedimento conclusosi con l’atto di
annullamento impugnato, perché questo costituiva un atto
necessitato volto alla celere e doverosa attività di
autotutela dell’Ente, conseguente all’avvenuto esame, da
parte della Commissione edilizia, nella seduta del
14.03.2000, di una richiesta di variante alla concessione
edilizia n. 25/1999 rilasciata alla sig.ra Giuseppina
Liguori, dal quale era risultato che il progetto allegato
alla originaria richiesta di concessione edilizia era
difforme dalla planimetria redatta dall’ufficio Tecnico
comunale (cui, secondo la deliberazione di rilascio della
concessione, avrebbe dovuto conformarsi per il corretto
sviluppo dell’area cimiteriale), prevedendo l’ingombro anche
del viale cimiteriale.
Non sarebbe quindi sussistita alcuna violazione dell’art. 7
della l. n. 241/1990, perché la particolarità della
situazione imponeva la Comune di attivarsi con la massima
celerità, con conseguente impossibilità di avviare la
procedura di partecipazione della parte al procedimento, che
avrebbe consentito la ultimazione dell’opera prevista in
detta concessione.
Comunque la sig.ra Liguori sarebbe stata messa in condizione
di partecipare al procedimento, essendo stata ripetutamente
invitata dall’Ufficio Tecnico comunale a partecipare a
sedute di revisione della sua pratica.
La suddetta non avrebbe potuto ignorare le reali intenzioni
dell'Amministrazione, essendo a conoscenza che la
deliberazione del Comune n. 46 del 1997, in base alla quale
le era stata rilasciata la concessione edilizia, imponeva di
allegare il progetto di realizzazione dell'opera in termini
conformi a quanto stabilito nella planimetria redatta dall’U.T.C..
Con il secondo motivo di gravame è stato dedotto che
il TAR non avrebbe considerato che la astratta previsione
della partecipazione del privato al procedimento
amministrativo prevista dall’art. 7 della l. n. 241/1990 non
può essere applicata meccanicamente e formalisticamente, se
l’atto, come nel caso di specie, ha raggiunto lo scopo, né
avrebbe tenuto conto della circostanza che detta
partecipazione ha senso solo quando il provvedimento da
adottare implichi valutazioni discrezionali o di circostanze
di fatto suscettibili di vario apprezzamento, ma non quando,
come nel caso di specie, la difformità totale dell’opera dal
piano comunale implicava l’annullamento della concessione
quale atto dovuto.
Considera la Sezione che, in via di principio, l’atto dovuto
è a contenuto vincolato per cui non è necessaria la
comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7
della l. n. 241 del 1990, poiché alcun apporto collaborativo
potrebbe dare la partecipazione del ricorrente al
procedimento conclusosi con il provvedimento impugnato.
Il provvedimento di pronuncia di decadenza del titolo
edilizio, per la sua natura di atto urgente e dovuto, è
espressione di un potere strettamente vincolato, non
implicante quindi valutazioni discrezionali, ma meri
accertamenti tecnici, senza necessità della comunicazione di
avvio del procedimento .
Esso provvedimento, essendo fondato su un presupposto di
fatto rientrante nella sfera di controllo dell'interessato,
non richiede apporti partecipativi del soggetto
destinatario, il quale, in relazione alla disciplina
tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la
preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino
di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene,
in ogni caso, posto in condizione di interloquire con
l'Amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di
rimozione d'ufficio delle opere abusive.
Il Collegio ritiene, sulla base di tali principi, di non
poter condividere le conclusioni cui è pervenuto il Giudice
di prime cure, che (dopo aver affermato preliminarmente la
doverosità del coinvolgimento partecipativo del privato
all’attività istruttoria dell’Amministrazione procedente,
quando l’Amministrazione debba valutare la sussistenza dei
presupposti per l’annullamento o la revoca di un previo atto
adottato, e dopo aver evidenziato che con l’atto impugnato,
almeno in parte, l’Amministrazione aveva manifestato la
volontà di annullamento, in sede di autotutela, della
concessione edilizia n. 25 rilasciata alla ricorrente in
data 18.06.1999) ha asserito che il provvedimento di
annullamento adottato dal Comune era viziato dalla
violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990, poiché la
ricorrente (del tutto ignara delle reali intenzioni
dell’Amministrazione, dal momento che aveva richiesto, con
istanza, l’approvazione di una variante al primo progetto
realizzativo già assentito con la concessione n. 25 del
1999) aveva poi ottenuto una diversa risposta
dall’Amministrazione, cioè l’annullamento, senza essere
posta in grado di partecipare al relativo procedimento.
Non solo, infatti, la natura di atto vincolato di detto atto
di ritiro esclude la necessità della previa comunicazione
dell'avvio del procedimento, ma risulta invero da
documentazione versata in atti che la sig.ra Liguori è stata
più volte invitata a presenziare all’esame della pratica
edilizia n. 65/1999 dalla Commissione Edilizia Comunale (in
particolare con nota prot. n. 407-3143 del 03.03.2000 le è
stata comunicata l’acquisizione di copia della planimetria
originale del terreno su cui era prevista la costruzione
della cappella de qua), sicché, se avesse partecipato
alle sedute in questione, avrebbe potuto rendersi conto che,
in sede di esame della richiesta di variante (n. 65/1999)
alla concessione edilizia n. 25/1999, erano emersi elementi
tecnici relativi alla difformità del progetto allegato alla
originaria richiesta di concessione edilizia dalla
planimetria redatta dall’ufficio Tecnico comunale; il che
non poteva avere altra conseguenza che l’annullamento della
originaria concessione.
Le esaminate censure contenute nell’atto di appello sono
quindi fondate e vanno accolte
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.11.2012 n. 5691 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In sede di adozione di un atto in autotutela, la
comparazione tra interesse pubblico e quello privato è
necessaria nel caso in cui l'esercizio dell'autotutela
discenda da errori di valutazione dovuti
all'Amministrazione, non già quando lo stesso è dovuto a
comportamenti del soggetto privato che hanno indotto in
errore l'Autorità amministrativa.
La falsa rappresentazione dello stato di fatto all’atto
della richiesta della edilizia rende, invero, l'affidamento
del privato circa il mantenimento del manufatto non
meritevole di tutela e sicuramente recessivo di fronte
all'interesse pubblico al ripristino della situazione
edilizia regolarmente assentita.
Peraltro l'annullamento d'ufficio di una concessione
edilizia non necessita di un'espressa e specifica
motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo
nell'interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica.
Peraltro la difformità tra lo stato di fatto e quanto
rappresentato sugli elaborati di cui trattasi non poteva che
comportare l’annullamento della concessione e non sanzioni
alternative, considerato che, in presenza di una concessione
edilizia, ritenuta illegittima per vizio sostanziale,
l'Amministrazione non può ricorrere all'art. 38 del d.P.R.
380/2001, norma che consente di rimediare ai soli vizi
formali o procedurali.
Va al riguardo innanzitutto
evidenziato da parte del Collegio che, in sede di adozione
di un atto in autotutela, la comparazione tra interesse
pubblico e quello privato è necessaria nel caso in cui
l'esercizio dell'autotutela discenda da errori di
valutazione dovuti all'Amministrazione, non già quando lo
stesso è dovuto a comportamenti del soggetto privato che
hanno indotto in errore l'Autorità amministrativa.
La falsa rappresentazione dello stato di fatto all’atto
della richiesta della edilizia rende, invero, l'affidamento
del privato circa il mantenimento del manufatto non
meritevole di tutela e sicuramente recessivo di fronte
all'interesse pubblico al ripristino della situazione
edilizia regolarmente assentita.
Peraltro l'annullamento d'ufficio di una concessione
edilizia non necessita di un'espressa e specifica
motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo
nell'interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica.
Peraltro la difformità tra lo stato di fatto e quanto
rappresentato sugli elaborati di cui trattasi non poteva che
comportare l’annullamento della concessione e non sanzioni
alternative, considerato che, in presenza di una concessione
edilizia, ritenuta illegittima per vizio sostanziale,
l'Amministrazione non può ricorrere all'art. 38 del d.P.R.
380/2001, norma che consente di rimediare ai soli vizi
formali o procedurali
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.11.2012 n. 5691 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
ricorso proposto avverso il permesso di costruire rilasciato
al vicino, la vicinitas è condizione necessaria ma non
sufficiente a radicare, ferma la legittimazione, l'interesse
al ricorso, il quale richiede anche la dimostrazione del
pregiudizio concreto alle facoltà dominicali del ricorrente.
Costituisce, oramai, orientamento costante in materia quello
per cui: “nel ricorso proposto avverso il permesso di
costruire rilasciato al vicino, la vicinitas è condizione
necessaria ma non sufficiente a radicare, ferma la
legittimazione, l'interesse al ricorso, il quale richiede
anche la dimostrazione del pregiudizio concreto alle facoltà
dominicali del ricorrente” (cfr., ex multis,
Consiglio Stato, sez. IV, 24.01.2011, n. 485)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.11.2012 n. 2687 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo il combinato disposto degli articoli 11 e
12 della legge 28.10.1977, n. 10, gli oneri di
urbanizzazione devono essere corrisposti al Comune “all’atto
del rilascio della concessione” e sono destinati, tra
l’altro, “alla realizzazione delle opere di urbanizzazione
primaria e secondaria”.
Sul punto, la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di
chiarire che gli oneri di urbanizzazione hanno natura di
corrispettivo di diritto pubblico in funzione della
partecipazione dei privati ai costi delle opere di
urbanizzazione e sono dovuti anche al di là di un nesso di
stretta inerenza delle opere di urbanizzazione rispetto alle
singole aree.
Il pagamento di tali contributi non comporta la nascita, in
capo al titolare del concessione edilizia, di un diritto,
azionabile nei confronti della pubblica amministrazione,
alla realizzazione e completamento delle opere di
urbanizzazione che maggiormente interessano la sua
costruzione, posto che il Comune può discrezionalmente
utilizzare i predetti introiti per il completamento o la
manutenzione delle opere di urbanizzazione di qualsiasi
parte del territorio.
---------------
La pretesa della ricorrente di ottenere l’ultimazione dei
lavori sulla strada che conduce alla sua proprietà, nella
specie consistenti nella bitumatura e nella realizzazione
del marciapiede, non corrisponde ad un interesse legittimo
differenziato e qualificato ad un bene della vita, con la
conseguente carenza di legittimazione attiva a proporre il
ricorso in epigrafe.
Tale soluzione è pacifica nella giurisprudenza
amministrativa in tema di manutenzione e completamento delle
strade. In proposito, il Consiglio di Stato ha avuto modo di
chiarire che “l’interesse di ogni cittadino a che
l'amministrazione comunale provveda alla diligente
manutenzione e custodia di tutti i beni pubblici (e, tra
essi, le strade), non è tutelabile in via amministrativa né
giurisdizionale (fatti salvi i casi di azioni popolari),
fronteggiando esso un mero dovere imposto in capo alla p.a.
per il vantaggio della collettività non soggettivizzata,
sicché non si è in presenza di un interesse legittimo
differenziabile, ma al cospetto di interesse semplice e di
fatto, rientrante come tale nell'area del giuridicamente
irrilevante”.
Con specifico riguardo al completamento delle opere di
urbanizzazione, di recente, il TAR Lazio ha affermato che a
fronte della domanda del privato volta ad ottenere il
completamento delle opere di urbanizzazione, non corrisponde
un obbligo per l’amministrazione di adottare, ai sensi
dell’art. 2 della legge 07.08.1990 n. 241, un provvedimento
espresso in relazione a tale pretesa, non essendo il
richiedente titolare di alcun interesse legittimo pretensivo
differenziato e qualificato, non differenziandosi la sua
posizione da quella di tutti gli altri cittadini e soggetti
dell’ordinamento alla corretta e tempestiva esecuzione delle
opere di urbanizzazione.
Il ricorso è palesemente inammissibile.
Ad avviso della ricorrente, l’illegittimità della condotta
del Comune deriverebbe dal notevole ritardo nell’esecuzione
dei lavori di completamento della strada su cui si affaccia
la propria casa di abitazione, in violazione dei principi
costituzionali di buon andamento ed imparzialità dell’azione
amministrativa nonché delle disposizioni della L. 10/1977.
In particolare, secondo la tesi della ricorrente, le norme
dettate dalla l. 10/1977 non consentirebbero “l’arbitrario
rinvio della realizzazione delle opere da parte del Comune”
e, posto che l’articolo 12 stabilisce che i proventi delle
concessioni sono destinati alle opere di urbanizzazione,
quest’ultimo sarebbe obbligato “non solo a realizzare
dette opere ma anche a procedervi in un lasso di tempo
ragionevole”.
Ad avviso del Collegio, gli assunti non sono condivisibili.
In via preliminare, occorre osservare che il lotto di
proprietà della ricorrente ricade, sin dal tempo del
rilascio della concessione edilizia, nella zona B di
completamento residenziale. Per l’effetto, è da ritenere che
l’area in questione fosse, fin dagli inizi della vicenda,
servita dalle opere di urbanizzazione primaria, ivi comprese
adeguate ed efficienti strade residenziali.
Ove le opere di urbanizzazione non fossero state completate,
secondo l’assunto della ricorrente, sarebbe stato
illegittimo l’inserimento in zona B del lotto della
medesima, con conseguente illegittimità della concessione
edilizia alla stessa rilasciata per la costruzione della
propria casa di abitazione.
Nella specie le opere di urbanizzazione, e segnatamente la
strada pubblica, erano state realizzate ed erano funzionali
(come risulta dalla documentazione fotografica depositata
dalla stessa ricorrente) ancorché non fossero stati eseguiti
i lavori di sistemazione definitiva che pretende la
ricorrente: bitumatura della strada e realizzazione dei
marciapiedi.
La decisione sulla realizzazione di queste opere di
completamento e finitura di una strada pienamente agibile e
funzionale, al pari della realizzazione degli interventi di
manutenzione ordinaria e straordinaria di qualsiasi immobile
o bene pubblico, rientra nella discrezionalità del
competente organo comunale che la esercita, alla luce delle
disponibilità di bilancio ed alla luce della scala di
priorità degli interventi, con valutazioni non sindacabili
in sede di legittimità.
Secondo il combinato disposto degli articoli 11 e 12 della
legge 28.10.1977, n. 10, gli oneri di urbanizzazione devono
essere corrisposti al Comune “all’atto del rilascio della
concessione” e sono destinati, tra l’altro, “alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e
secondaria”.
Sul punto, la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di
chiarire che gli oneri di urbanizzazione hanno natura di
corrispettivo di diritto pubblico in funzione della
partecipazione dei privati ai costi delle opere di
urbanizzazione e sono dovuti anche al di là di un nesso di
stretta inerenza delle opere di urbanizzazione rispetto alle
singole aree ( v. Cons. Stato, sez. V, del 20.04.2009, n.
2359).
Il pagamento di tali contributi non comporta la nascita, in
capo al titolare del concessione edilizia, di un diritto,
azionabile nei confronti della pubblica amministrazione,
alla realizzazione e completamento delle opere di
urbanizzazione che maggiormente interessano la sua
costruzione, posto che il Comune può discrezionalmente
utilizzare i predetti introiti per il completamento o la
manutenzione delle opere di urbanizzazione di qualsiasi
parte del territorio.
Pertanto è priva di rilievo l’affermazione della ricorrente
in ordine all’improcrastinabilità della realizzazione delle
finiture della strada che serve il suo lotto.
Come innanzi rilevato la pretesa della ricorrente di
ottenere l’ultimazione dei lavori sulla strada che conduce
alla sua proprietà, nella specie consistenti nella
bitumatura e nella realizzazione del marciapiede, non
corrisponde ad un interesse legittimo differenziato e
qualificato ad un bene della vita, con la conseguente
carenza di legittimazione attiva a proporre il ricorso in
epigrafe.
Tale soluzione è pacifica nella giurisprudenza
amministrativa in tema di manutenzione e completamento delle
strade. In proposito, il Consiglio di Stato, sezione V, con
la sentenza del 29.11.2004, n. 7773, ha avuto modo di
chiarire che “l’interesse di ogni cittadino a che
l'amministrazione comunale provveda alla diligente
manutenzione e custodia di tutti i beni pubblici (e, tra
essi, le strade), non è tutelabile in via amministrativa né
giurisdizionale (fatti salvi i casi di azioni popolari),
fronteggiando esso un mero dovere imposto in capo alla p.a.
per il vantaggio della collettività non soggettivizzata,
sicché non si è in presenza di un interesse legittimo
differenziabile, ma al cospetto di interesse semplice e di
fatto, rientrante come tale nell'area del giuridicamente
irrilevante”.
Con specifico riguardo al completamento delle opere di
urbanizzazione, di recente, il TAR Lazio, sez. II, con la
sentenza del 04.05.2011, n. 3838, ha affermato che a fronte
della domanda del privato volta ad ottenere il completamento
delle opere di urbanizzazione, non corrisponde un obbligo
per l’amministrazione di adottare, ai sensi dell’art. 2
della legge 07.08.1990 n. 241, un provvedimento espresso in
relazione a tale pretesa, non essendo il richiedente
titolare di alcun interesse legittimo pretensivo
differenziato e qualificato, non differenziandosi la sua
posizione da quella di tutti gli altri cittadini e soggetti
dell’ordinamento alla corretta e tempestiva esecuzione delle
opere di urbanizzazione (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 08.11.2012 n. 925 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Nell'ambito di un ricorso giurisdizionale, la
parte può rinunciare al ricorso in qualunque stato e grado
della controversia, mediante dichiarazione sottoscritta da
essa stessa o dall'avvocato munito di mandato speciale e
depositata nella segreteria, o mediante dichiarazione resa
in udienza e documentata nel relativo verbale.
Il rinunziante deve pagare le spese degli atti di procedura
compiuti, salvo che il collegio, avuto riguardo ad ogni
circostanza, ritenga di compensarle.
La rinunzia deve essere notificata alle altre parti almeno
dieci giorni prima dell’udienza. Se le parti che hanno
interesse non si oppongono, il processo si estingue.
L’abbandono del ricorso è quindi rimesso integralmente a
colui che agisce, ed è sottoposto alle sole condizioni della
provenienza dalla parte, o dal suo procuratore all’uopo
espressamente autorizzato, e dell’intervenuta conoscenza
della controparte dell’atto di rinuncia, conoscenza da
conseguirsi in modo formale (e quindi con notifica o
dichiarazione agli atti, come indica la norma, ma anche
mediante altre forme equipollenti, quali il deposito in
udienza dell'atto di rinuncia sottoscritto dalla parte
personalmente; o anche con dichiarazione sottoscritta dalla
ricorrente e, per adesione, anche dalle difese della altre
parti costituite).
Intervenute le dette formalità, spetta infine al giudice
pronunciare, espressamente ed a seguito di un accertamento
che coinvolga la presenza dei detti requisiti, l'estinzione
del giudizio, permanendo, fino a quel momento, il potere del
rinunciante di revocare il proprio atto.
Effetto della rinuncia è pertanto, dal lato sostanziale,
quello di determinare la cristallizzazione della situazione
dedotta al momento anteriore della proposizione del ricorso,
dall’altro lato, di carattere schiettamente processuale,
quello di comportare l’obbligo di provvedere al rimborso
delle spese sostenute dalla controparte (che tuttavia
costituisce una posizione disponibile delle parti
costituite, potendovi queste rinunciare).
Come prevede espressamente l’art. 84 del codice del processo
amministrativo (e già prima l’art. 46 del Regio Decreto
17.08.1907, n. 642, di approvazione del regolamento di
procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio
di Stato), “la parte può rinunciare al ricorso in
qualunque stato e grado della controversia, mediante
dichiarazione sottoscritta da essa stessa o dall'avvocato
munito di mandato speciale e depositata nella segreteria, o
mediante dichiarazione resa in udienza e documentata nel
relativo verbale.
Il rinunziante deve pagare le spese degli atti di procedura
compiuti, salvo che il collegio, avuto riguardo ad ogni
circostanza, ritenga di compensarle.
La rinunzia deve essere notificata alle altre parti almeno
dieci giorni prima dell’udienza. Se le parti che hanno
interesse non si oppongono, il processo si estingue”.
L’abbandono del ricorso è quindi rimesso integralmente a
colui che agisce, ed è sottoposto alle sole condizioni della
provenienza dalla parte, o dal suo procuratore all’uopo
espressamente autorizzato, e dell’intervenuta conoscenza
della controparte dell’atto di rinuncia, conoscenza da
conseguirsi in modo formale (e quindi con notifica o
dichiarazione agli atti, come indica la norma, ma anche
mediante altre forme equipollenti, quali il deposito in
udienza dell'atto di rinuncia sottoscritto dalla parte
personalmente, ex multis Consiglio Stato, sez. IV,
17.01.2002, n. 244; o anche con dichiarazione sottoscritta
dalla ricorrente e, per adesione, anche dalle difese della
altre parti costituite).
Intervenute le dette formalità, spetta infine al giudice
pronunciare, espressamente ed a seguito di un accertamento
che coinvolga la presenza dei detti requisiti, l'estinzione
del giudizio, permanendo, fino a quel momento, il potere del
rinunciante di revocare il proprio atto.
Effetto della rinuncia è pertanto, dal lato sostanziale,
quello di determinare la cristallizzazione della situazione
dedotta al momento anteriore della proposizione del ricorso,
dall’altro lato, di carattere schiettamente processuale,
quello di comportare l’obbligo di provvedere al rimborso
delle spese sostenute dalla controparte (che tuttavia
costituisce una posizione disponibile delle parti
costituite, potendovi queste rinunciare) (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 07.11.2012 n. 5658 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della tempestività dell’impugnazione del
titolo edilizio da parte del terzo a ciò legittimato la
piena conoscenza dalla quale decorre il termine decadenziale
per la proposizione dell’impugnazione medesima va riferita
al momento dell’ultimazione dei lavori, ovvero al momento
nel quale la costruzione realizzata riveli in modo in
equivoco le caratteristiche essenziali dell’opera agli
effetti della sua eventuale difformità rispetto alla
disciplina urbanistico-edilizia vigente, fermo –altresì–
restando che la prova della tardività dell’impugnazione deve
essere fornita rigorosamente e incombe, secondo le regole
generali, alla parte che la deduce.
Il Collegio, per parte propria, richiama innanzitutto la ben
nota giurisprudenza secondo la quale, da un lato, ai fini
della tempestività dell’impugnazione del titolo edilizio da
parte del terzo a ciò legittimato la piena conoscenza dalla
quale decorre il termine decadenziale per la proposizione
dell’impugnazione medesima va riferita al momento
dell’ultimazione dei lavori, ovvero al momento nel quale la
costruzione realizzata riveli in modo in equivoco le
caratteristiche essenziali dell’opera agli effetti della sua
eventuale difformità rispetto alla disciplina
urbanistico-edilizia vigente (cfr. sul punto, ex plurimis,
Cons. Stato, Sez. IV, 18.10.2011 n. 5612), fermo –altresì–
restando che la prova della tardività dell’impugnazione deve
essere fornita rigorosamente e incombe, secondo le regole
generali, alla parte che la deduce (cfr. sul punto, ad es.,
Cons. Stato, Sez. IV, 28.01.2011 n. 678) (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 07.11.2012 n. 5657 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il diritto del dipendente pubblico, che abbia
svolto mansioni superiori, al trattamento economico relativo
alla qualifica immediatamente superiore va riconosciuto solo
a decorrere dalla data di entrata in vigore dell'art. 15
d.lgs. 29.10.1998 n. 387 (dal 22.11.1998).
Ritenuto che, a conferma della sentenza gravata e a
confutazione dei motivi di doglianza articolati
dall’appellante, si pone il principio, affermato dall’
Adunanza Plenaria di questo Consiglio con la decisione
24.03.2006, n. 3, secondo cui il diritto del dipendente
pubblico, che abbia svolto mansioni superiori, al
trattamento economico relativo alla qualifica immediatamente
superiore va riconosciuto solo a decorrere dalla data di
entrata in vigore dell'art. 15 d.lgs. 29.10.1998 n. 387 (dal
22.11.1998) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 07.11.2012 n. 5647 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L’impugnazione
di un bando di gara è consentito, dalla giurisprudenza
amministrativa, alle imprese che non abbiano presentato
domanda di partecipazione alla gara medesima, soltanto
quando il bando stesso preveda delle norme che non
consentono la partecipazione alla gara indetta, nel senso
che se le imprese suddette avessero partecipato alla gara,
sarebbero state sicuramente escluse, mentre nel caso di
specie ciò non è, in quanto le censure si appuntano non
sulla impossibilità di partecipare alla gara, alla quale
sarebbero state sicuramente ammesse, se in possesso dei
requisiti richiesti, ma sulla ritenuta difficoltà di poter
formulare un’offerta remunerativa a cagione della esiguità
del termine concesso dal bando, il che è assolutamente
diverso dalla presenza di norme che non consentono neppure
la partecipazione.
---------------
Gli orientamenti interpretativi più consolidati affermano la
regola secondo cui la legittimazione al ricorso deve essere
correlata ad una situazione differenziata, in modo certo,
per effetto della partecipazione alla stessa procedura
oggetto di contestazione.
La regola, ormai consolidata, subisce, ora, alcune notevoli
deroghe, concernenti, rispettivamente:
- la legittimazione del soggetto che contrasta, in radice,
la scelta della stazione appaltante di indire la procedura;
- la legittimazione dell’operatore economico “di settore”,
che intende contestare un “affidamento diretto” o senza
gara;
- la legittimazione dell’operatore che manifesta
l’intenzione di impugnare una clausola del bando
“escludente”, in relazione alla illegittima previsione di
determinati requisiti di qualificazione.
Le diverse deroghe, ampiamente studiate dagli interpreti, si
connettono ad esigenze e a ragioni peculiari, inidonee a
determinare l’affermazione di una nuova regola generale di
indifferenziata titolarità della legittimazione al ricorso,
basata sulla mera qualificazione soggettiva di imprenditore
potenzialmente aspirante all’indizione di una nuova gara.
(…) La legittimazione del soggetto che contrasta
immediatamente il bando di gara (in relazione alle sue
clausole “escludenti”), senza partecipare al procedimento,
ha una giustificazione logica evidente, direttamente
collegata alla affermazione giurisprudenziale dell’onere di
sollecita impugnazione di tale atto lesivo, senza attendere
l’esito della selezione.
In tali circostanze, la certezza del pregiudizio determinato
dal bando rende superflua la domanda di partecipazione e
l’adozione di un atto esplicito di esclusione. D’altro
canto, la legittimazione spetta, in questo caso, non già a
tutti gli imprenditori del settore, genericamente intesi, ma
ai soli soggetti cui è impedita la partecipazione, in virtù
di una specifica clausola escludente del bando.
Al di fuori delle ipotesi tassativamente enucleate dalla
giurisprudenza, pertanto, deve restare fermo il principio
secondo il quale la legittimazione al ricorso, nelle
controversie riguardanti l’affidamento dei contratti
pubblici, spetti esclusivamente ai soggetti partecipanti
alla gara, poiché solo tale qualità si connette
all’attribuzione di una posizione sostanziale differenziata
e meritevole di tutela.
In questa veste, il ricorrente che ha partecipato
legittimamente alla gara può far valere tanto un interesse
“finale” al conseguimento dell’appalto affidato al
controinteressato, quanto, in via alternativa (e normalmente
subordinata) l’interesse “strumentale” alla caducazione
dell’intera gara e alla sua riedizione (sempre che
sussistano, in concreto, ragionevoli possibilità di ottenere
l’utilità richiesta). Ma l’interesse strumentale allegato,
in questo modo, potrebbe assumere rilievo, eventualmente,
solo dopo il positivo riscontro della legittimazione al
ricorso.
---------------
Dall’analisi della giurisprudenza citata, emerge, a parere
del Collegio, un concetto di bando “escludente” che può
allargarsi fino a ricomprendere al suo interno anche
l’ipotesi di un importo a base d’asta del tutto
irragionevole secondo una corretta logica di mercato.
Se è vero, infatti, che l’amministrazione conserva intatta
la sua sfera di ampia discrezionalità (sia amministrativa
che tecnica) nello stabilire regole e modalità, oltre che
potenziale rimuneratività, della procedura che va ad indire,
è altresì corretta l’affermazione per cui un bando di gara
si presenta di per sé già manifestamente preclusivo della
partecipazione qualora costringa l’impresa ad accettare una
logica di assunzione dell’appalto in perdita.
Ovviamente, ciò non significa né che l’amministrazione debba
contrattare l’importo a base d’asta con le eventuali
potenziali partecipanti né che le imprese possano sulla base
di una diversa valutazione tecnica contestare in giudizio
qualsiasi bando di gara considerato non remunerativo senza
adempiere all’onere formale della presentazione di
un’offerta.
Occorre al contrario riscontrare, prima di esperire
un’istruttoria che riesamini gli aspetti tecnici che hanno
condotto l’amministrazione a scegliere un determinato
importo a base d’asta, alcuni indici sintomatici di una
scelta irrazionale.
Occorre insomma che l’esame dell’ammissibilità del ricorso
sia preceduto da una valutazione in termini oggettivi della
potenziale insostenibilità dell’importo a base d’asta e non
da una prospettazione meramente soggettiva avanzata dalla
parte avente interesse alla riedizione della gara; ciò,
anche in considerazione del fatto che l’impugnazione del
bando è necessariamente legata alla presenza in gara di
almeno una concorrente, il che appare già di per sé
potenzialmente sconfessare l’assunto di chi agisce.
In relazione alla posizione espressa da
amministrazione e controinteressata, favorevoli a una
pronuncia di inammissibilità dei ricorsi proposti
direttamente contro i bandi di gara, in assenza di una
clausola escludente, viene certamente in luce, tra le altre,
per la sua autorevolezza e la sua compatibilità con il caso
in esame, la sentenza n. 2033 dell’01.04.2011 del Consiglio di
Stato, V Sezione.
In tale circostanza, il Giudice di secondo grado ha
confermato la sentenza con la quale il Tribunale
amministrativo aveva dichiarato inammissibile l’azione
proposta direttamente contro il bando di gara da parte di
alcune società che non avevano partecipato ad essa,
ritenendo come non preclusivo in astratto alla loro
partecipazione un termine troppo breve per potere presentare
un’offerta remunerativa.
Ha sostenuto il Consiglio di Stato, a tale riguardo, che
“l’impugnazione di un bando di gara è consentito, dalla
giurisprudenza amministrativa, alle imprese che non abbiano
presentato domanda di partecipazione alla gara medesima,
soltanto quando il bando stesso preveda delle norme che non
consentono la partecipazione alla gara indetta, nel senso
che se le imprese suddette avessero partecipato alla gara,
sarebbero state sicuramente escluse, mentre nel caso di
specie ciò non è, in quanto le censure si appuntano non
sulla impossibilità di partecipare alla gara, alla quale
sarebbero state sicuramente ammesse, se in possesso dei
requisiti richiesti, ma sulla ritenuta difficoltà di poter
formulare un’offerta remunerativa a cagione della esiguità
del termine concesso dal bando, il che è assolutamente
diverso dalla presenza di norme che non consentono neppure
la partecipazione (si vedano, sul punto, conformemente a
quanto in questa sede argomentato, Cons. St., Ad. plen., n.
1 del 2003 e Sez. V, n. 4338 del 2009).”
---------------
La posizione espressa
dalle ricorrenti, che tendono a fare rientrare all’interno
di clausole discriminatorie e direttamente lesive anche un
importo a base di gara manifestamente incongruo, appare
compiutamente affrontata dalla sentenza n. 177 del 14.01.2011 del Consiglio di Stato, VI Sezione, e dalla
decisione n. 980 del 2003, cui la prima rimanda, dello
stesso Consiglio di Stato.
Nella prima delle due decisioni appena citate gli appellati
(ricorrenti in primo grado) non avevano impugnato
direttamente un bando di concorso (per la copertura di
alcuni posti di capo-squadra dei Vigili del fuoco) che, in
violazione di un preciso disposto di legge, aveva omesso di
indicare le materie dell’esame scritto, determinando così in
capo ai candidati rilevanti difficoltà nella preparazione
delle prove stesse.
“Ora –ha sostenuto in suddetta occasione il Giudice di
secondo grado-, è pur vero che, per consolidato
orientamento, l’illegittimità delle clausole di bando può
essere ordinariamente fatta valere soltanto all’esito delle
prove concorsuali, salvo che si tratti di clausole a valenza
c.d. ‘escludente’, cioè che per il loro contenuto ostativo
impediscono ex ante la partecipazione al concorso (es.,
Cons. Stato, V, 15.10.2010, n. 7515; V, 10.08.2010,
n. 5555; VI, 08.07.2010, n. 4437: tutte seguendo Cons.
Stato, ad. plen., 27.01.2003, n. 1 in tema di pubblici
appalti).
Tuttavia, analogamente a quanto è stato ritenuto
in tema di gare per contratti pubblici, anche in tema di
concorsi pubblici, attesa l’eadem ratio, appare ravvisabile
l’onere di immediata impugnazione da parte dell’interessato
delle clausole illegittime della lex specialis che
comportano, a carico del partecipante medio, una oggettiva,
straordinaria e rilevante difficoltà operativa, tale per sua
natura da non rimanere sul piano dell’astrattezza e
potenzialità lesiva, ma da realizzare già, in ragione
dell’immediato vulnus alla normale capacità organizzativa
del candidato e dunque al suo interesse alla partecipazione
in condizioni di alea ordinarie, l’effetto negativo di
un’immediata e diretta lesione della sua sostanziale
partecipazione.
Infatti gli straordinari aggravi (bene
dimostrati nella specie dagli accadimenti riportati)
generano anch’essi -in termini di utilità pratica della
partecipazione del candidato- la sostanziale impossibilità
di partecipare adeguatamente e razionalmente, il che
riconduce questa ipotesi a quella generale relativa alle
clausole impeditive (...). Con tali considerazioni converge,
ad imporre oneri di impugnativa più stringenti, un’esigenza
di sollecita certezza e di contrasto del rischio di inutili
dilatazioni dei tempi del procedimento, che sarebbero
provocati dalla necessità di attendere, per impugnare,
l’esito dell’intera procedura.
Così appare essere nella specie, dove la difformità del
bando dalla previsione normativa generava già di suo, senza
necessità che si procedesse ulteriormente nelle operazioni,
una tale condizione di aggravio organizzativo e perciò
lesiva in capo ai candidati, e dunque un interesse a
reagirvi in giudizio mediante immediata impugnazione”.
Nella decisione n. 980 del 2003 il Consiglio di Stato
affrontava invece più specificamente il tema delle gare per
contratti pubblici, enucleando tutta una serie di ipotesi in
cui sarebbe stato necessario impugnare direttamente il bando
di concorso, senza dunque attendere l’esito della procedura
selettiva.
“È il caso di clausole che impediscono o rendono più
difficoltosa la partecipazione alla gara stessa, fissando
modalità operative o particolari requisiti soggettivi dei
concorrenti, e di clausole irragionevoli che non consentono
una corretta partecipazione alla procedura ovvero una
ponderata formulazione dell'offerta. Nonché il caso di
prescrizioni del bando che impongono determinati oneri
formali alle imprese partecipanti o relative ad un "modus
operandi" fissato per il funzionamento della commissione
aggiudicatrice. In tutte queste evenienze, pertanto, viene
ad emergere un pregiudizio attuale e concreto che determina
in capo a chi intenda partecipare alla gara l'onere di
immediata impugnazione del bando, senza attendere
l'ulteriore corso della procedura con il rischio di una
inutile dilazione di tempi del procedimento”.
Occorre, ad ogni modo, e per completezza di esposizione,
ricordare come l’Adunanza plenaria n. 4/2011, nel rimarcare
la distinzione tra legittimazione ad agire ed interesse al
ricorso, abbia limitato a poche tassative ipotesi la
possibilità di impugnazione diretta del bando.
Approfondendo il tema
della legittimazione al ricorso nel settore specifico delle
controversie in materia di affidamento dei contratti
pubblici, il Consiglio di Stato ha statuito che “in linea di
principio, gli orientamenti interpretativi più consolidati
affermano la regola secondo cui la legittimazione al ricorso
deve essere correlata ad una situazione differenziata, in
modo certo, per effetto della partecipazione alla stessa
procedura oggetto di contestazione.
La regola, ormai consolidata, subisce, ora, alcune notevoli
deroghe, concernenti, rispettivamente:
- la legittimazione del soggetto che contrasta, in radice,
la scelta della stazione appaltante di indire la procedura;
- la legittimazione dell’operatore economico “di settore”,
che intende contestare un “affidamento diretto” o senza
gara;
- la legittimazione dell’operatore che manifesta
l’intenzione di impugnare una clausola del bando
“escludente”, in relazione alla illegittima previsione di
determinati requisiti di qualificazione.
Le diverse deroghe, ampiamente studiate dagli interpreti, si
connettono ad esigenze e a ragioni peculiari, inidonee a
determinare l’affermazione di una nuova regola generale di
indifferenziata titolarità della legittimazione al ricorso,
basata sulla mera qualificazione soggettiva di imprenditore
potenzialmente aspirante all’indizione di una nuova gara.
(…) La legittimazione del soggetto che contrasta
immediatamente il bando di gara (in relazione alle sue
clausole “escludenti”), senza partecipare al procedimento,
ha una giustificazione logica evidente, direttamente
collegata alla affermazione giurisprudenziale dell’onere di
sollecita impugnazione di tale atto lesivo, senza attendere
l’esito della selezione.
In tali circostanze, la certezza del pregiudizio determinato
dal bando rende superflua la domanda di partecipazione e
l’adozione di un atto esplicito di esclusione. D’altro
canto, la legittimazione spetta, in questo caso, non già a
tutti gli imprenditori del settore, genericamente intesi, ma
ai soli soggetti cui è impedita la partecipazione, in virtù
di una specifica clausola escludente del bando.
Al di fuori delle ipotesi tassativamente enucleate dalla
giurisprudenza, pertanto, deve restare fermo il principio
secondo il quale la legittimazione al ricorso, nelle
controversie riguardanti l’affidamento dei contratti
pubblici, spetti esclusivamente ai soggetti partecipanti
alla gara, poiché solo tale qualità si connette
all’attribuzione di una posizione sostanziale differenziata
e meritevole di tutela.
In questa veste, il ricorrente che ha partecipato
legittimamente alla gara può far valere tanto un interesse
“finale” al conseguimento dell’appalto affidato al controinteressato, quanto, in via alternativa (e normalmente
subordinata) l’interesse “strumentale” alla caducazione
dell’intera gara e alla sua riedizione (sempre che
sussistano, in concreto, ragionevoli possibilità di ottenere
l’utilità richiesta). Ma l’interesse strumentale allegato,
in questo modo, potrebbe assumere rilievo, eventualmente,
solo dopo il positivo riscontro della legittimazione al
ricorso.”
Dall’analisi della giurisprudenza citata, e dal raffronto
tra le due posizioni espresse dalle parti in lite
nell’odierno ricorso, emerge, a parere del Collegio, un
concetto di bando “escludente” che può allargarsi fino a
ricomprendere al suo interno anche l’ipotesi di un importo a
base d’asta del tutto irragionevole secondo una corretta
logica di mercato.
Se è vero, infatti, che l’amministrazione conserva intatta
la sua sfera di ampia discrezionalità (sia amministrativa
che tecnica) nello stabilire regole e modalità, oltre che
potenziale rimuneratività, della procedura che va ad indire,
è altresì corretta l’affermazione per cui un bando di gara
si presenta di per sé già manifestamente preclusivo della
partecipazione qualora costringa l’impresa ad accettare una
logica di assunzione dell’appalto in perdita.
Ovviamente, ciò non significa né che l’amministrazione debba
contrattare l’importo a base d’asta con le eventuali
potenziali partecipanti né che le imprese possano sulla base
di una diversa valutazione tecnica contestare in giudizio
qualsiasi bando di gara considerato non remunerativo senza
adempiere all’onere formale della presentazione di
un’offerta.
Occorre al contrario riscontrare, prima di esperire
un’istruttoria che riesamini gli aspetti tecnici che hanno
condotto l’amministrazione a scegliere un determinato
importo a base d’asta, alcuni indici sintomatici di una
scelta irrazionale.
Occorre insomma che l’esame dell’ammissibilità del ricorso
sia preceduto da una valutazione in termini oggettivi della
potenziale insostenibilità dell’importo a base d’asta e non
da una prospettazione meramente soggettiva avanzata dalla
parte avente interesse alla riedizione della gara; ciò,
anche in considerazione del fatto che l’impugnazione del
bando è necessariamente legata alla presenza in gara di
almeno una concorrente, il che appare già di per sé
potenzialmente sconfessare l’assunto di chi agisce
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 07.11.2012 n. 2686 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Al
fine della definizione della controversia in esame,
attinente al lamentato mancato rispetto delle distanze
minime intercorrenti tra l’abitazione del ricorrente e
l’allevamento controinteressato, deve, in primo luogo,
risolversi la querelle se si sia, nel caso di specie, in
presenza di una nuova attività di allevamento, soggetta
all’obbligo del rispetto delle distanze minime imposto dal
regolamento di igiene, ovvero all’adeguamento, previo
rilascio di una nuova autorizzazione, di un’attività già
esistente, legittimata a continuare il suo esercizio anche
in deroga all’obbligo delle distanze minime.
A tal fine viene in soccorso il regolamento di igiene
comunale. Esso ammette gli ampliamenti di allevamenti
esistenti e dismessi da meno di tre anni, purché nel
rispetto delle distanze preesistenti. Se, dunque, la deroga
all’obbligo delle distanze minime è ammessa nel caso di
ampliamenti di stabilimenti già esistenti, purché entro il
termine massimo di tre anni dalla loro chiusura e a
condizione che non intervengano variazioni nelle distanze
già esistenti, deve presumersi che la stessa possa, a
maggior ragione, trovare applicazione anche nel caso in cui
lo stabilimento non sia stato ampliato, ma solo adeguato
alla sopravvenuta normativa attraverso un complesso iter che
ha conosciuto una molteplice serie di solleciti e proroghe
di termini e la successiva declaratoria di decadenza
dall’originaria autorizzazione, cui ha fatto seguito, però,
il rilascio di una nuova autorizzazione al suo esercizio.
Al fine della definizione della controversia in esame,
attinente al lamentato mancato rispetto delle distanze
minime intercorrenti tra l’abitazione del ricorrente e
l’allevamento controinteressato, deve, in primo luogo,
risolversi la querelle se si sia, nel caso di specie,
in presenza di una nuova attività di allevamento, soggetta
all’obbligo del rispetto delle distanze minime imposto dal
regolamento di igiene, ovvero all’adeguamento, previo
rilascio di una nuova autorizzazione, di un’attività già
esistente, legittimata a continuare il suo esercizio anche
in deroga all’obbligo delle distanze minime.
A tal fine viene in soccorso il regolamento di igiene
comunale. Esso ammette gli ampliamenti di allevamenti
esistenti e dismessi da meno di tre anni, purché nel
rispetto delle distanze preesistenti. Se, dunque, la deroga
all’obbligo delle distanze minime è ammessa nel caso di
ampliamenti di stabilimenti già esistenti, purché entro il
termine massimo di tre anni dalla loro chiusura e a
condizione che non intervengano variazioni nelle distanze
già esistenti, deve presumersi che la stessa possa, a
maggior ragione, trovare applicazione anche nel caso in cui
lo stabilimento non sia stato ampliato, ma solo adeguato
alla sopravvenuta normativa attraverso un complesso iter che
ha conosciuto una molteplice serie di solleciti e proroghe
di termini e la successiva declaratoria di decadenza
dall’originaria autorizzazione, cui ha fatto seguito, però,
il rilascio di una nuova autorizzazione al suo esercizio.
Invero, nel caso di specie, appare ragionevole ritenere che
un ampliamento vi sia in concreto stato, dal momento che
sono stati realizzati ex novo quattro box esterni in
sostituzione di quelli preesistenti e il cui utilizzo era
stato negato dall’autorizzazione del 2001. Peraltro, a
prescindere dal fatto che vi sia stato, o meno, nel caso di
specie, un ampliamento (accertamento di per sé irrilevante,
dal momento che la norma comunque lo ammetterebbe) ciò che
appare determinante è che dal regolamento richiamato si deve
desumere che, per quanto di rilievo, un’autorizzazione non
può essere considerata “nuova” se non dopo almeno tre
anni dalla dismissione del precedente allevamento.
In altre parole, il fatto che l’edificio fosse già adibito
ad allevamento è sufficiente a rendere possibile la ripresa
dell’attività, nel rispetto delle distanza preesistenti ed
entro il termine massimo di tre anni dalla dismissione, a
prescindere dal fatto che l’esercizio dell’attività sia
stato continuativamente autorizzato o, al contrario,
interrotto.
Nel caso di specie risulta rispettata la prima condizione,
essendo stata rilasciata la nuova dichiarazione a pochi
giorni di distanza dalla decadenza della originaria. Né può
rilevare in senso contrario il cambio di denominazione
subito dall’azienda agricola esercitante l’attività di
allevamento in questione
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 07.11.2012 n. 1766 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini della verifica del rispetto delle distanze legali tra
edifici, non sono computabili le sporgenze estreme del
fabbricato che abbiano una funzione meramente ornamentale,
di rifinitura o accessoria di limitata entità (come le
mensole, i cornicioni, le grondaie e simili); sono, invece,
computabili, rientrando nel concetto civilistico di
costruzione, le parti dell'edificio (quali scale, terrazze e
corpi avanzati) che, benché non corrispondano a volumi
abitativi coperti, siano destinati a estendere e ampliare la
consistenza del fabbricato.
Ne deriva che anche il lato esterno del portico deve,
pertanto, essere considerato al fine della verifica del
rispetto della distanza minima.
Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale in
materia, “ai fini della verifica del rispetto delle
distanze legali tra edifici, non sono computabili le
sporgenze estreme del fabbricato che abbiano una funzione
meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria di
limitata entità (come le mensole, i cornicioni, le grondaie
e simili); sono, invece, computabili, rientrando nel
concetto civilistico di costruzione, le parti dell'edificio
(quali scale, terrazze e corpi avanzati) che, benché non
corrispondano a volumi abitativi coperti, siano destinati a
estendere e ampliare la consistenza del fabbricato”
(Consiglio Stato, sez. IV, 27.01.2010, n. 424; Corte appello
Brescia, sez. II, 18.05.2009; Consiglio Stato, sez. IV,
30.06.2005, n. 3539). Ne deriva che anche il lato esterno
del portico deve, pertanto, essere considerato al fine della
verifica del rispetto della distanza minima
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 07.11.2012 n. 1766 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 338 del r.d. 1265/1934 (t.u. delle leggi
sanitarie) prevede il divieto di costruire intorno ai
cimiteri edifici entro il raggio di 200 mt., disponendo che
il contravventore debba demolire l'edificio o la parte di
nuova costruzione, salvi i provvedimenti d'ufficio in caso
di inadempienza. Si tratta, infatti,
di divieto assoluto, come più volte ha avuto modo di
affermare la giurisprudenza amministrativa che ha
evidenziato come il vincolo di inedificabilità in questione
abbia finalità non solo urbanistico edilizie, ma anche di
tutela dell'igiene e della sicurezza pubblica.
Il vincolo in questione non consente l'allocazione sia di
edifici che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in
considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale
fascia di rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi
nelle esigenze di natura igienico sanitaria, nella
salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati all'inumazione ed alla sepoltura, nel mantenimento
di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale.
Anche la giurisprudenza della Cassazione si è espressa in
termini analoghi a quelli sopra riferiti, ravvisando nel
vincolo cimiteriale un caso tipico di inedificabilità
legale, vale a dire inderogabile divieto di qualsivoglia
interevento modificativo dello stato dei luoghi, fatta
eccezione per l'esercizio dell'agricoltura e per l'eventuale
ampliamento delle strutture cimiteriali preesistenti.
Come è noto l'art. 338 del r.d. 1265/1934 (t.u. delle leggi
sanitarie) prevede il divieto di costruire intorno ai
cimiteri edifici entro il raggio di 200 mt., disponendo che
il contravventore debba demolire l'edificio o la parte di
nuova costruzione, salvi i provvedimenti d'ufficio in caso
di inadempienza.
La difesa della ricorrente sostiene che tale divieto
riguarderebbe solo l’intero centro abitato e sarebbe
derogabile per singole abitazioni.
Tale tesi appare destituita di fondamento, si tratta,
infatti, di divieto assoluto, come più volte ha avuto modo
di affermare la giurisprudenza amministrativa che ha
evidenziato come il vincolo di inedificabilità in questione
abbia finalità non solo urbanistico edilizie, ma anche di
tutela dell'igiene e della sicurezza pubblica (CdS Sez. IV
n. 4259/2007; n. 1185/2007).
In particolare, la giurisprudenza del C.d.S. è consolidata
nell'affermare che il vincolo in questione non consenta
l'allocazione sia di edifici che di opere incompatibili col
vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi
pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che
possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienico
sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che
connota i luoghi destinati all'inumazione ed alla sepoltura,
nel mantenimento di un'area di possibile espansione della
cinta cimiteriale.
Anche la giurisprudenza della Cassazione si è espressa in
termini analoghi a quelli sopra riferiti, ravvisando nel
vincolo cimiteriale un caso tipico di inedificabilità
legale, vale a dire inderogabile divieto di qualsivoglia
interevento modificativo dello stato dei luoghi, fatta
eccezione per l'esercizio dell'agricoltura e per l'eventuale
ampliamento delle strutture cimiteriali preesistenti (Cass.
Civ. Sez. I 23.06.2004 n. 11669)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 07.11.2012 n. 1352 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La determinazione del silenzio-assenso sul
condono per decorso dei ventiquattro mesi dalla data
dell’istanza non è sempre invocabile, bensì solo quando le
opere risultino eseguite in aree non sottoposte ad alcun
vincolo, sia di inedificabilità ex art. 33 della legge n.
47/1985, sia paesaggistico ambientale.
Tanto premesso è allora infondata la predetta censura poiché
l’opera abusiva da sanare ricadeva, già all’epoca della
realizzazione, e ricade tuttora, in una zona sottoposta a
vincolo d’inedificabilità assoluta ex art. 338 R.D.
1265/1934.
Infine, non può essere accolta
l’ultima censura basata sull’intervenuta formazione del
silenzio assenso.
In particolare la ricorrente deduce la violazione degli
artt. 31 e 35 della legge n. 47/1985 sostenendo che, ai
sensi delle dette disposizioni, decorso il termine
perentorio di ventiquattro mesi dalla presentazione della
domanda, quest’ultima si intende accolta. Decorso tale
termine si forma, dunque, il silenzio assenso.
Tuttavia, secondo il costante orientamento della
giurisprudenza la determinazione del silenzio-assenso sul
condono per decorso dei ventiquattro mesi dalla data
dell’istanza, non è sempre invocabile, bensì solo quando le
opere risultino eseguite in aree non sottoposte ad alcun
vincolo, sia di inedificabilità ex art. 33 della legge n.
47/1985, sia paesaggistico ambientale.
Tanto premesso è allora infondata la predetta censura poiché
l’opera abusiva da sanare ricadeva, già all’epoca della
realizzazione, e ricade tuttora, in una zona sottoposta a
vincolo d’inedificabilità assoluta ex art. 338 R.D.
1265/1934
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 07.11.2012 n. 1352 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'autorizzazione a realizzare costruzioni
edilizie in zona paesaggistica, successiva all'edificazione,
non è inibita e per certi versi è insita nel sistema di
sanatoria delineato dalla L. 28.02.1985, n.47 e trova
fondamento sistematico nelle opzioni contemplate dall'art.
15 della stessa legge 29.06.1939, n. 1497.
A complemento di ciò, poi, l'esercizio del potere
sanzionatorio previsto dallo stesso art. 15 non è precluso
all'Amministrazione preposta alla tutela del vincolo
paesaggistico, atteso che, l'esclusione della compromissione
sostanziale dell'integrità del paesaggio, non cancella il
residuo potere-dovere di procedere all'applicazione della
sanzione per la violazione dell'obbligo, discendente
dall'art. 7 l. n. 1497 cit., di conseguire in via preventiva
il titolo di assenso necessario per realizzare l'intervento
modificativo dell'assetto territoriale.
Pertanto, è proprio il disposto dell'art. 15 della legge n.
1497 del 1939, che prevede l'applicazione di una sanzione
alternativa (demolizione o pagamento di un'indennità) in
caso di interventi realizzati, senza autorizzazione, in zone
soggette al vincolo, a far ritenere che la demolizione non è
conseguenza ineluttabile dell'assenza dell'autorizzazione,
potendo questa essere rilasciata in sanatoria in base alla
legge n. 47/1985, ove sussista la compatibilità della
costruzione abusiva con il vincolo.
Ed infatti, ove l'Amministrazione decida di comminare la
sanzione pecuniaria, con esclusione della demolizione,
appare del tutto illogico che l'opera possa, poi, restare
priva di titolo concessorio ex art. 13 della legge n. 47 del
1985, giacché una siffatta evenienza comporterebbe la
conseguente necessità di demolizione e quest'ultima si
porrebbe in irrisolta contraddizione proprio con il
meccanismo sanzionatorio di cui al citato art. 15, che, come
detto, prevede la sanzione pecuniaria come alternativa alla
demolizione stessa.
In definitiva, l'esame sistematico della disciplina di cui
agli artt. 7 e 15 della legge n. 1497 del 1939 ed all'art.
13 della legge n. 47 del 1985 consente di concludere nel
senso della possibilità di formalizzare, attraverso
un'autorizzazione postuma, in parte equipollente alla
fattispecie di cui all'art. 7, la verifica di compatibilità
ambientale implicita nel meccanismo sanzionatorio di cui
all'art. 15, così conferendo alla legittimazione
paesaggistica una veste formale spendibile ai fini della
favorevole definizione del separato procedimento di cui
all'art. 13 della legge n. 47 del 1985.
Il Consiglio di Stato ha in proposito ha precisato che “l'autorizzazione
a realizzare costruzioni edilizie in zona paesaggistica,
successiva all'edificazione, non è inibita e per certi versi
è insita nel sistema di sanatoria delineato dalla L.
28.02.1985, n.47 e trova fondamento sistematico nelle
opzioni contemplate dall'art. 15 della stessa legge
29.06.1939, n. 1497. A complemento di ciò, poi, l'esercizio
del potere sanzionatorio previsto dallo stesso art. 15 non è
precluso all'Amministrazione preposta alla tutela del
vincolo paesaggistico, atteso che, l'esclusione della
compromissione sostanziale dell'integrità del paesaggio, non
cancella il residuo potere-dovere di procedere
all'applicazione della sanzione per la violazione
dell'obbligo, discendente dall'art. 7 l. n. 1497 cit., di
conseguire in via preventiva il titolo di assenso necessario
per realizzare l'intervento modificativo dell'assetto
territoriale (VI, 09.10.2007 n. 5274, si veda anche: VI
21.02.2001, n. 912, 22.12.2004, n. 8188)”.
Pertanto, è proprio il disposto dell'art. 15 della legge n.
1497 del 1939, che prevede l'applicazione di una sanzione
alternativa (demolizione o pagamento di un'indennità) in
caso di interventi realizzati, senza autorizzazione, in zone
soggette al vincolo, a far ritenere che la demolizione non è
conseguenza ineluttabile dell'assenza dell'autorizzazione,
potendo questa essere rilasciata in sanatoria in base alla
legge n. 47/1985, ove sussista la compatibilità della
costruzione abusiva con il vincolo.
“Ed infatti, ove l'Amministrazione decida di comminare la
sanzione pecuniaria, con esclusione della demolizione,
appare del tutto illogico che l'opera possa, poi, restare
priva di titolo concessorio ex art. 13 della legge n. 47 del
1985, giacché una siffatta evenienza comporterebbe la
conseguente necessità di demolizione e quest'ultima si
porrebbe in irrisolta contraddizione proprio con il
meccanismo sanzionatorio di cui al citato art. 15, che, come
detto, prevede la sanzione pecuniaria come alternativa alla
demolizione stessa. In definitiva, l'esame sistematico della
disciplina di cui agli artt. 7 e 15 della legge n. 1497 del
1939 ed all'art. 13 della legge n. 47 del 1985 consente di
concludere nel senso della possibilità di formalizzare,
attraverso un'autorizzazione postuma, in parte equipollente
alla fattispecie di cui all'art. 7, la verifica di
compatibilità ambientale implicita nel meccanismo
sanzionatorio di cui all'art. 15, così conferendo alla
legittimazione paesaggistica una veste formale spendibile ai
fini della favorevole definizione del separato procedimento
di cui all'art. 13 della legge n. 47 del 1985”
(Consiglio di Stato, sez VI, 16-11-2004, n. 7475) (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 07.11.2012 n. 1351 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 49 del D.P.R. 753/1980 prevede che la
distanza minima delle costruzioni dalle ferrovie debba
essere di almeno 30 metri.
La finalità del vincolo è quella di impedire la
realizzazione di costruzioni che pregiudichino la sicurezza
e la regolarità dell’esercizio delle ferrovie. Solo
particolari circostanze locali possono giustificare
riduzioni di tale distanza.
Nel caso di specie, risulta che il fabbricato di proprietà
dei ricorrenti si trova ad una distanza inferiore ai tre
metri dalla sede ferroviaria.
E’ evidente, pertanto, che proprio tale estrema vicinanza
del fabbricato costituisca di per sé ragione di pericolo per
la sicurezza e la regolarità del traffico ferroviario e
dunque valido motivo di diniego della deroga, non potendo la
fascia di rispetto essere ridotta fino all’annullamento
della stessa.
L’art. 49 del D.P.R. 753/1980 prevede che la distanza minima
delle costruzioni dalle ferrovie debba essere di almeno 30
metri.
La finalità del vincolo è quella di impedire la
realizzazione di costruzioni che pregiudichino la sicurezza
e la regolarità dell’esercizio delle ferrovie. Solo
particolari circostanze locali possono giustificare
riduzioni di tale distanza.
Nel caso di specie, risulta che il fabbricato di proprietà
dei ricorrenti si trova ad una distanza inferiore ai tre
metri dalla sede ferroviaria.
E’ evidente, pertanto, che proprio tale estrema vicinanza
del fabbricato costituisca di per sé ragione di pericolo per
la sicurezza e la regolarità del traffico ferroviario e
dunque valido motivo di diniego della deroga, non potendo la
fascia di rispetto essere ridotta fino all’annullamento
della stessa. Di conseguenza, la società R.F.I., a
motivazione del proprio parere, non avrebbe potuto
aggiungere altro rispetto all’affermazione dell’esistenza di
tale potenziale pericolo.
Peraltro, il predetto ente ha anche proposto la soluzione
ragionevole di accorpare il garage in questione
all’abitazione, in modo da portarlo a distanza superiore ai
tre metri dalla sede ferroviaria. Spetterà poi al ricorrente
proporre tale soluzione al Comune in modo da evitare la
demolizione, ma tale possibilità e le conseguenti scelte
dell’amministrazione non costituiscono oggetto del presente
giudizio (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 07.11.2012 n. 1348 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE
GESTIONALI - EDILIZIA PRIVATA:
L’attribuzione
al Presidente della Provincia (nella regione Veneto), da
parte dell’art. 30, comma 2, della L.R. n. 11/2004, del
potere di annullamento per motivi di legittimità dei
permessi di costruire, è compatibile con i principi
fondamentali dell’ordinamento ed in particolare con il
modello organizzativo fondato sulla separazione di
competenze fra la struttura politica e la struttura
gestionale e amministrativa.
Al riguardo si osserva, in primo luogo, che l’art. 39 del
D.P.R. n. 380/2001 ha attribuito genericamente alla regione
il potere di annullamento dei titoli abilitativi rilasciati
dal Comune. La Regione Veneto, in base all’art. 119 2°
comma, con l’art. 30, comma 2, della L.R. n. 11/2004, ha poi
delegato tale potere alla Provincia, individuando l’organo
in concreto competente. In particolare, il legislatore
regionale ha scelto di attribuire tale potere all’organo
politico di vertice della Provincia.
Non si ravvedono ragioni d’incostituzionalità in tale scelta
legislativa. Infatti, va considerato, in primo luogo, che il
potere conferito al Presidente della Provincia è un potere
straordinario di annullamento per soli motivi di
legittimità. Va poi osservato che il modello di
organizzazione fondato sulla separazione tra politica e
amministrazione non è così rigido da non tollerare
contiguità, al contrario, vi possono sempre essere dei
momenti di contatto fra le due sfere.
In particolare, nella sfera delle funzioni politiche rimesse
agli organi di governo, accanto alle funzioni d’indirizzo
politico-amministrativo, possono coesistere, in quanto
compatibili con esse e con il modello direzionale, anche dei
poteri eccezionali di annullamento degli atti dirigenziali
per motivi di legittimità. Si tratta, infatti, di funzioni
sostitutive o di controllo poste a salvaguardia del
principio di legalità, necessarie a preservare l’unità
dell’ordinamento, che non comportano l’adozione diretta di
scelte di amministrazione attiva. Si pensi al potere
ministeriale di annullamento degli atti dei dirigenti per
motivi di legittimità, previsto dall’art. 14, comma 3, del
D.lgs. n. 165/2001; ovvero, proprio in materia di
legislazione sugli enti locali, al potere governativo di
annullamento degli atti illegittimi emessi dagli enti
locali. Potere, quest’ultimo, che costituisce il
corrispettivo, in ambito statale, del potere di annullamento
dei permessi di costruire attribuito dall’art. 39 del D.P.R.
n. 380/2001 alla Regione.
In conclusione, si deve allora ritenere che l’attribuzione
al Presidente della Provincia, da parte dell’art. 30, comma
2, della L.R. n. 11/2004, del potere di annullamento per
motivi di legittimità dei permessi di costruire, sia
compatibile con i principi fondamentali dell’ordinamento ed
in particolare con il modello organizzativo fondato sulla
separazione di competenze fra la struttura politica e la
struttura gestionale e amministrativa (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 07.11.2012 n. 1347 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Confisca per equivalente sul netto dei lavori fatti per la
p.a..
La confisca per equivalente non può colpire tutto il
profitto ottenuto dall'appalto illecitamente aggiudicato ma
solo la parte al netto dei lavori già eseguiti per conto
dell'amministrazione.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione
che, con la sentenza 05.11.2012 n. 42530, ha
accolto il ricorso di un imprenditore finito nel mirino
degli inquirenti per l'aggiudicazione di appalti illeciti
nella ex provincia di Pistoia.
In altri termini, in questi casi le autorità e poi il
giudice del Riesame non possono disporre e convalidare
misure senza calcolare il reale profitto del reato.
«Ai fini
del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente»,
ricorda la sesta sezione penale, «di cui all'art. 322-ter,
cod. pen., in presenza di un contratto di appalto ottenuto
con la corruzione di pubblici funzionari, la nozione del
profitto confiscabile al corruttore non va identificata con
l'intero valore del rapporto sinallagmatico instaurato con
la pubblica amministrazione, dovendosi in proposito
distinguere il profitto direttamente derivato dall'illecito
penale dal corrispettivo conseguito per l'effettiva e
corretta erogazione delle prestazioni svolte in favore della
stessa amministrazione, le quali non possono considerarsi
automaticamente illecite in ragione dell'illiceità della
causa remota».
Ma non è tutto. Da ciò deriva che, si legge
nel passaggio successivo della breve ma interessante
motivazione, il profitto che la parte privata ha conseguito
dall'appalto illecitamente ottenuto non può globalmente
omologarsi all'intero valore del rapporto contrattuale fra
azienda ed ente.
L'instaurarsi di un rapporto a prestazioni
corrispettive, infatti, impone di scindere il profitto
confiscabile -quale direttamente derivato dall'illecito
penale- dal profitto determinato dal corrispettivo di una
effettiva e corretta erogazione di prestazioni comunque
svolte in favore della stessa pubblica amministrazione,
prestazioni che non possono considerarsi, di per se stesse e
per immediato automatismo traslativo, colorate di illiceità
per derivazione dalla causa remota, «non potendosi
includere, nella nozione di profitto, qualunque ricavo
conseguito per effetto della stipula di un contratto di
appalto illecitamente ottenuto nell'ambito di una relazione
corruttiva» (articolo ItaliaOggi
del 06.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Per singoli episodi di vessazione.
Non c'è mobbing ma il danno può essere risarcito.
L'INDICAZIONE/
Per la Cassazione il giudice può anche discostarsi dalla
domanda presentata dal dipendente.
Non rilevano ai fini del mobbing. Ma possono comunque
costare cari al datore di lavoro, che può essere chiamato a
rispondere di singoli episodi di vessazione nei confronti
del dipendente anche se privi dell'unicità del disegno
persecutorio.
Lo chiarisce la Corte di Cassazione, Sez.
Lavoro, con la
sentenza 05.11.2012 n. 18927.
La Corte
ha così azzerato la sentenza del Corte d'appello di Napoli
contraria alla richiesta di condanna avanzata da una
farmacista nei confronti del proprio principale. Una brutta
storia fatta da (presunti) episodi di vessazione e da un
(certo) tentativo di suicidio da parte della lavoratrice.
Per la Corte d'appello, però, gli episodi contestati non
erano idonei ad attestare l'esistenza di una strategia
persecutoria con l'obiettivo di indurre la dipendente alle
dimissioni. E tanto bastava per respingere la richiesta di
risarcimento per mobbing.
La Corte di cassazione però non è stata di questo avviso. E,
dopo avere rapidamente ricordato che alla base della
responsabilità per mobbing si pone di solito l'articolo 2087
del Codice civile, ha invece precisato che se anche
l'insieme delle condotte messe in atto dal datore di lavoro
non sono, prese cumulativamente, idonee a destabilizzare il
lavoratore, tuttavia, prese invece singolarmente e caso per
caso, possono essere ritenute in grado di comprimere in
maniera grave i diritti fondamentali e tutelati sul piano
costituzionale del dipendente.
Infatti, sottolinea ancora la sentenza, in ordinamenti come
il nostro, che già prevedono sul piano costituzionale misure
di tutela dei diritti fondamentali del lavoratore l'elenco
dei fattori di discriminazione o vessazione non deve essere
considerato tassativo.
A compromettere questa impostazione non può essere neppure
l'iniziale prospettazione della domanda in termini di danno
da mobbing. Toccherà eventualmente al giudice qualificare
giuridicamente l'azione, «interpretando il titolo su cui si
fonda la controversia ed anche applicando norme di legge
diverse da quelle invocate dalle parti interessate (...)».
Nella vicenda approdata in Cassazione, i giudici napoletani
non hanno proceduto in questa direzione: avrebbero potuto
invece accertare se qualcuno degli episodi avesse comunque
un carattere vessatorio che, escludendo comunque una
responsabilità del datore di lavoro nel provocare lo stato
di depressione della lavoratrice sino a spingerla al
tentativo di suicidio, potesse configurare un danno
giuridicamente rilevante. Un danno quindi meritevole anche
di un risarcimento a beneficio del lavoratore (articolo Il Sole 24
Ore del 06.11.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Corte di cassazione. Condizioni vessatorie sono risarcibili
pure se non c'è il mobbing.
Se il mobbing lamentato dal lavoratore non sussiste, non si
può escludere che il datore possa comunque essere condannato
a risarcire al dipendente il danno non patrimoniale rispetto
a singole condotte mortificanti, accertate in giudizio,
nonostante manchi l'unicità del disegno persecutorio contro
il prestatore d'opera.
Lo precisa la
sentenza 05.11.2012 n.
18927 della Sez. lavoro della Corte di Cassazione.
È accolto contro le conclusioni del pm il ricorso proposto
dalla lavoratrice mandata anzitempo in pensione dal datore
perché anziana e non più in grado di stare al passo con i
tempi. La donna arriva a un drammatico tentativo di
suicidio, ma la scelta va ricondotta più a una sua
parossistica risposta emotiva ai problemi sul lavoro che a
una reale condotta persecutoria dei responsabili e dei
colleghi nella farmacia presso cui era addetta. Il punto è
che con l'introduzione del sistema informatizzato e
l'assunzione di nuovi collaboratori la lavoratrice non si
ritrova più nelle attività da svolgere.
Ma attenzione, la motivazione della Corte d'appello che
esonera il datore da ogni obbligazione risarcitoria risulta
contraddittoria: il giudice del merito è infatti tenuto a
esaminare tutti i singoli episodi potenzialmente vessatori
denunciati dal lavoratore, anche nell'ipotesi in cui non si
configura a carico del datore e dei colleghi l'unicità
dell'intento persecutorio nei confronti del dipendente che
reclama il danno non patrimoniale.
E in particolare bisogna accertare l'eventuale sussistenza
di condotte mortificanti a carico del prestatore d'opera con
responsabilità ascrivibili al datore (articolo ItaliaOggi
del 06.11.2012). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
divieto di edificazione ex art. 96 r.d. 523/1904 ha
carattere assoluto e riguarda in genere le acque pubbliche,
comprese anche quelle dei laghi.
---------------
E’ irrilevante la circostanza che solo il successivo art. 97
menzioni espressamente i laghi. La disposizione della
lettera n), alla quale ci si richiama, reca infatti una
previsione particolare riferita al regime delle spiagge dei
laghi e nulla dice circa la disciplina delle sponde, per la
quale dunque non può non valere la norma generale dell’art.
96.
Il rilievo secondo cui l’inciso della lettera f) dell’art.
96 “dal piede degli argini e loro accessori come sopra”
richiamerebbe “i fiumi, torrenti e canali navigabili”
previsti dalla lettera e) che precede è del pari fallace,
apparendo invece chiaro che esso, rispetto agli argini, si
riferisce alle loro “banche o sottobanche”.
Che questa sia la corretta interpretazione delle norme lo
dimostra poi una considerazione ulteriore di carattere
generale. Se la finalità delle disposizioni in oggetto è
quella di consentire il libero deflusso delle acque, è
evidente che la medesima esigenza si pone con riguardo alle
acque dei laghi, anch’esse soggette a innalzamenti di
livello.
Il divieto di edificazione in oggetto ha carattere assoluto
e riguarda in genere le acque pubbliche; tale è senz’altro
il lago di Garda, sul quale l’albergo è costruito.
Nessuno dei rilievi opposti per affermare l’inapplicabilità
del divieto alle sponde dei laghi resiste alla critica. Ciò
si deve dire, in particolare, per gli argomenti che gli
appellanti vorrebbero trarre dall’analisi delle norme
contenute nel regio decreto citato.
Osservano gli appellanti che dal complesso delle
disposizioni recate dall’art. 96 emergerebbe l’intento del
legislatore dell’epoca di limitare la disciplina ai soli
corsi d’acqua. Questa sembra piuttosto una petizione di
principio, per di più in contrasto con l’alinea
dell’articolo, che, nel fare riferimento alle acque
pubbliche in genere, non pone alcuna restrizione del genere
diversamente da quanto invece dispone l’art. 98, la lettera
d) del quale testualmente è circoscritta a “le nuove
costruzioni nell'alveo dei fiumi, torrenti, rivi, scolatoi
pubblici o canali demaniali”.
E’ poi irrilevante la circostanza che solo il successivo
art. 97 menzioni espressamente i laghi. La disposizione
della lettera n), alla quale ci si richiama, reca infatti
una previsione particolare riferita al regime delle spiagge
dei laghi e nulla dice circa la disciplina delle sponde, per
la quale dunque non può non valere la norma generale
dell’art. 96.
Il rilievo secondo cui l’inciso della lettera f) dell’art.
96 “dal piede degli argini e loro accessori come sopra”
richiamerebbe “i fiumi, torrenti e canali navigabili”
previsti dalla lettera e) che precede è del pari fallace,
apparendo invece chiaro che esso, rispetto agli argini, si
riferisce alle loro “banche o sottobanche”.
Che questa sia la corretta interpretazione delle norme lo
dimostra poi una considerazione ulteriore di carattere
generale. Se la finalità delle disposizioni in oggetto è
quella di consentire il libero deflusso delle acque, è
evidente che la medesima esigenza si pone con riguardo alle
acque dei laghi, anch’esse soggette a innalzamenti di
livello. Mentre infine non può rilevare che la violazione
della regola sulla distanza non riguarderebbe il piano
terra, ma un piano superiore, perché, così argomentando, si
vuole introdurre una deroga, che la legge non conosce, al
divieto di edificare, assoluto e inderogabile.
A una diversa conclusione, infine, non è possibile giungere
prendendo in considerazione l’esistenza di altri manufatti a
ridosso della riva del lago di Garda. Si tratta di
circostanza che, genericamente affermata più che
effettivamente dimostrata, andrebbe comunque esaminata con
riguardo ai singoli casi concreti. Dato il divieto di
edificabilità, peraltro, l’esistenza di eventuali abusi
edilizi non potrebbe di per sé legittimare la pretesa a
identico trattamento (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 14.04.2010,
n. 2105; Id., Sez. IV, 24.02.2011, n. 1235).
L’accertata violazione della norma sulla distanza della
costruzione dalle acque pubbliche è di per sé ragione
sufficiente per giudicare illegittimo il permesso di
costruire rilasciato dal Comune di Malcesine
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.11.2012 n. 5620 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi
d’acqua, previsto dalla lettera f) dell’art. 96 R.D.
523/1904, è informato alla ragione pubblicistica di
assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle
acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso
delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi
pubblici e ha carattere legale e inderogabile: ne segue che
le opere costruite in violazione di tale divieto ricadono
nella previsione dell’art. 33 della legge n. 47 del 1985 e
non sono pertanto suscettibili di sanatoria.
---------------
Alla luce del generale divieto di costruzione di opere in
prossimità degli argini dei corsi d’acqua, il rinvio alla
normativa locale assume carattere eccezionale. Tale
normativa, per prevalere sulla norma generale, deve avere
carattere specifico, ossia essere una normativa
espressamente dedicata alla regolamentazione della tutela
delle acque e alla distanza dagli argini delle costruzioni,
che tenga esplicitamente conto della regola generale
espressa dalla normativa statale e delle peculiari
condizioni delle acque e degli argini che la norma locale
prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale
deroga.
Nulla vieta che la norma locale sia espressa anche mediante
l'utilizzo di uno strumento urbanistico, come può essere il
piano regolatore generale, ma occorre che tale strumento
contenga una norma esplicitamente dedicata alla
regolamentazione delle distanze delle costruzioni dagli
argini anche in eventuale deroga alla disposizione della
lettera f) dell’art. 96, in relazione alla specifica
condizione locale delle acque di cui trattasi.
L’art. 96 del r.d. n. 523 del 1904 elenca una serie di “lavori
ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro
alvei, sponde e difese”.
Come afferma costantemente la giurisprudenza, il divieto di
costruzione di opere sugli argini dei corsi d’acqua,
previsto dalla lettera f) dell’art. 96, è informato alla
ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità
di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e
soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei
fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (cfr. Cass.
civ., SS.UU., 30.07.2009, n. 17784) e ha carattere legale e
inderogabile: ne segue che le opere costruite in violazione
di tale divieto ricadono nella previsione dell’art. 33 della
legge n. 47 del 1985 e non sono pertanto suscettibili di
sanatoria (cfr. per tutte Cons. Stato, Sez. V, 26.03.2009,
n. 1814; Id., Sez. IV, 12.02.2010, n. 772; Id., Sez. IV,
22.06.2011, n. 3781; Trib. Sup. acque pubbl., 15.03.2011, n.
35; ivi riferimenti ulteriori).
E’ ben vero che la lettera f) dell’art. 96, che qui viene in
questione, commisura il divieto alla distanza “stabilita
dalle discipline vigenti nelle diverse località” e in
mancanza di queste lo stabilisce alla distanza “minore di
metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e
di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi”.
Sennonché –come è stato più volte affermato in
giurisprudenza– alla luce del generale divieto di
costruzione di opere in prossimità degli argini dei corsi
d’acqua, il rinvio alla normativa locale assume carattere
eccezionale. Tale normativa, per prevalere sulla norma
generale, deve avere carattere specifico, ossia essere una
normativa espressamente dedicata alla regolamentazione della
tutela delle acque e alla distanza dagli argini delle
costruzioni, che tenga esplicitamente conto della regola
generale espressa dalla normativa statale e delle peculiari
condizioni delle acque e degli argini che la norma locale
prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale
deroga. Nulla vieta che la norma locale sia espressa anche
mediante l'utilizzo di uno strumento urbanistico, come può
essere il piano regolatore generale, ma occorre che tale
strumento contenga una norma esplicitamente dedicata alla
regolamentazione delle distanze delle costruzioni dagli
argini anche in eventuale deroga alla disposizione della
lettera f) dell’art. 96, in relazione alla specifica
condizione locale delle acque di cui trattasi (cfr. Cass.
civ., SS. UU., 18.07.2008, n. 19813; Cons. Stato, Sez. IV,
29.04.2011, n. 2544)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.11.2012 n. 5619 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: E'
stato icasticamente affermato che in tema di gare di appalto
pubblico, anche se all'istituto dell'avvalimento deve ormai
essere riconosciuta portata generale, resta salva, tuttavia,
l'infungibilità dei requisiti ex artt. 38 e 39 del codice
dei contratti, in quanto requisiti di tipo soggettivo,
intrinsecamente legati al soggetto e alla sua idoneità a
porsi come valido e affidabile contraente per
l'Amministrazione.
Invero l’avvalimento, istituto di iniziale elaborazione
della giurisprudenza comunitaria, è fondato sulla
necessità di potenziare la libertà di concorrenza delle
imprese, essendo lo stesso funzionale a rimuovere ogni
ostacolo al suo libero esercizio in ambito Comunitario e
idoneo a garantire la massima partecipazione alle procedure
di gara e, nel contempo, la par condicio dei concorrenti.
La disciplina dell'art. 49 del Codice Appalti, in coerenza
con la giurisprudenza e la normativa comunitaria, non pone
alcuna limitazione all'avvalimento, stabilendo che un
operatore economico può, se del caso e per un determinato
appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti,
a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con
questi ultimi, purché vi sia, in positivo, un’adeguata prova
della disponibilità dei requisiti prestati, dimostrando
all’Amministrazione aggiudicatrice che l’impresa concorrente
disporrà dei mezzi necessari.
Fanno eccezione a questa portata generale dell’istituto i
requisiti strettamente personali, come quelli di carattere
generale ai sensi dell’art. 38 del Codice appalti (cd.
requisiti di idoneità morale), così come quelli soggettivi
di carattere personale, individuati nell’art. 39 del
medesimo Codice (cd. requisiti professionali).
Tali requisiti, infatti, non sono attinenti all’impresa e ai
mezzi di cui essa dispone e non sono intesi a garantire
l’obiettiva qualità dell'adempimento; essi, invece, sono
relativi alla mera e soggettiva idoneità (professionale) del
concorrente (quindi non dell’impresa ma dell’imprenditore) a
partecipare alla gara d’appalto e ad essere, quindi,
contraente con la Pubblica Amministrazione.
Pertanto, è per una ragione logica, prima ancora che
giuridica, che devono ritenersi insuscettibili di
avvalimento i requisiti di cui agli artt. 38 e 39 del Codice
degli appalti, trattandosi, si ribadisce, di requisiti di
onorabilità, moralità e professionalità intrinsecamente
legati al soggetto concorrente alla gara e alla sua idoneità
a porsi come valido e affidabile contraente per
l'Amministrazione.
Peraltro, poiché nell’avvalimento l’operazione economica
complessiva si compone di un contratto tra impresa ausiliata
ed impresa ausiliaria, di una dichiarazione di impegno
dell’impresa ausiliaria e di un contratto di appalto,
manifestandosi, dunque, quale collegamento negoziale
composto da un susseguirsi di schemi contrattuali
inscindibilmente connessi, è evidente che l’oggetto
dell’impegno negoziale dell’impresa ausiliata con cui essa
trasferisce il requisito mancante in capo all’impresa
partecipante, deve essere non solo lecito e determinato (o
determinabile), ma anche possibile ex art. 1346 c.c.
In presenza di requisiti strettamente personali, dunque,
l’oggetto di un eventuale contratto di avvalimento non può
ritenersi giuridicamente possibile, in quanto non deducibile
quale prestazione ai sensi degli art. 1173 e 1321 c.c..
Il Collegio osserva, peraltro, che in astratto gli schemi
contrattuali che compongono l’operazione economica delineata
dal citato art. 49 possono avere ad oggetto sia requisiti
materiali (mezzi, attrezzature, forza lavoro), sia requisiti
immateriali (capacità economica-finanziaria, fatturato,
attestazione SOA e, secondo un filone prevalente nella
giurisprudenza di questo Consiglio, anche le certificazioni
di qualità).
Nell’ipotesi di conferimento di requisiti materiali
l’impresa avvalsa si priva (nei limiti delle prestazioni
necessarie ad eseguire il contratto da affidare con gara)
effettivamente dei mezzi prestati a favore dell’impresa
concorrente; nell’ipotesi, invece, in cui si conferiscano (rectius:
si prestino) requisiti immateriali si dovrà comunque
confezionare un contratto idoneo a determinare una sorta di
“traditio simbolica” di tali requisiti dall’impresa
ausiliaria a quella ausiliata partecipante alla gara
d’appalto (ad es., ricorrendo all’affitto di azienda o di
ramo di azienda).
Il tratto comune è rappresentato, come detto, dal fatto che
il prestito dei requisiti riguarda i requisiti dell’impresa
e non quelli dell’imprenditore, che sono insuscettibili di
trasferimento anche in forma simbolica, trattandosi di
requisiti soggettivamente indefettibili di cui il possessore
non può, neppure in modo circostanziato e eposodico,
privarsi e, di conseguenza, non possono nemmeno essere
dedotti quali oggetto di “possibile” prestazione
contrattuale, come si deve ribadire.
Peraltro, si deve aggiungere ad abundantiam che anche il
d.P.R. 05.10.2010, n. 207 (Regolamento di esecuzione e
attuazione del Codice dei contratti pubblici) conferma tale
interpretazione: l’art. 88, comma 5, dedicato al contratto
di avvalimento in gara e alla qualificazione mediante
avvalimento, prevede espressamente, infatti, che l’impresa
ausiliata per conseguire la qualificazione di cui all’art.
50 del codice, deve possedere i requisiti di cui all’art. 78
in proprio.
I requisiti di cui all’art. 78 che l’impresa deve possedere
in proprio sono i requisiti d’ordine generale che, ai sensi
del comma 1 del predetto articolo, sono quelli previsti
dagli articoli 38, comma 1, e 39 commi 1 e 2, del Codice
appalti.
Deve preliminarmente essere evidenziato che questo
Consiglio, con la sentenza della sez. III 15.11.2011, n.
6040, ha icasticamente affermato che in tema di gare di
appalto pubblico, anche se all'istituto dell'avvalimento
deve ormai essere riconosciuta portata generale, resta
salva, tuttavia, l'infungibilità dei requisiti ex artt. 38 e
39 del codice dei contratti, in quanto requisiti di tipo
soggettivo, intrinsecamente legati al soggetto e alla sua
idoneità a porsi come valido e affidabile contraente per
l'Amministrazione.
Si deve, infatti, rilevare che l’avvalimento, istituto di
iniziale elaborazione della giurisprudenza comunitaria
(sentenza Ballast Nedam Groep I, ricavata
dall'interpretazione dell'art. 26, lett. e, direttiva n.
71/305/CEE, nonché C. Giust. CE, sez. V, 14.04.1994,
C-389/92, C. giust. CE, sez. III, 18.12.1997, C-5/97 e C.
Giust. CE, sez. V, 02.12.1999, C-176/98, Holst Italia S.p.A.
c. Comune di Cagliari), è fondato sulla necessità di
potenziare la libertà di concorrenza delle imprese, essendo
lo stesso funzionale a rimuovere ogni ostacolo al suo libero
esercizio in ambito Comunitario e idoneo a garantire la
massima partecipazione alle procedure di gara e, nel
contempo, la par condicio dei concorrenti.
La disciplina dell'art. 49 del Codice Appalti, in coerenza
con la giurisprudenza e la normativa comunitaria, non pone
alcuna limitazione all'avvalimento, stabilendo che un
operatore economico può, se del caso e per un determinato
appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti,
a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con
questi ultimi, purché vi sia, in positivo, un’adeguata prova
della disponibilità dei requisiti prestati, dimostrando
all’Amministrazione aggiudicatrice che l’impresa concorrente
disporrà dei mezzi necessari.
Fanno eccezione a questa portata generale dell’istituto i
requisiti strettamente personali, come quelli di carattere
generale ai sensi dell’art. 38 del Codice appalti (cd.
requisiti di idoneità morale), così come quelli soggettivi
di carattere personale, individuati nell’art. 39 del
medesimo Codice (cd. requisiti professionali).
Tali requisiti, infatti, non sono attinenti all’impresa e ai
mezzi di cui essa dispone e non sono intesi a garantire
l’obiettiva qualità dell'adempimento; essi, invece, sono
relativi alla mera e soggettiva idoneità (professionale) del
concorrente (quindi non dell’impresa ma dell’imprenditore) a
partecipare alla gara d’appalto e ad essere, quindi,
contraente con la Pubblica Amministrazione.
Pertanto, secondo il Collegio, è per una ragione logica,
prima ancora che giuridica, che devono ritenersi
insuscettibili di avvalimento i requisiti di cui agli artt.
38 e 39 del Codice degli appalti, trattandosi, si ribadisce,
di requisiti di onorabilità, moralità e professionalità
intrinsecamente legati al soggetto concorrente alla gara e
alla sua idoneità a porsi come valido e affidabile
contraente per l'Amministrazione.
Peraltro, osserva il Collegio, poiché nell’avvalimento
l’operazione economica complessiva si compone di un
contratto tra impresa ausiliata ed impresa ausiliaria, di
una dichiarazione di impegno dell’impresa ausiliaria e di un
contratto di appalto, manifestandosi, dunque, quale
collegamento negoziale composto da un susseguirsi di schemi
contrattuali inscindibilmente connessi, è evidente che
l’oggetto dell’impegno negoziale dell’impresa ausiliata con
cui essa trasferisce il requisito mancante in capo
all’impresa partecipante, deve essere non solo lecito e
determinato (o determinabile), ma anche possibile ex art.
1346 c.c.
In presenza di requisiti strettamente personali, dunque,
l’oggetto di un eventuale contratto di avvalimento non può
ritenersi giuridicamente possibile, in quanto non deducibile
quale prestazione ai sensi degli art. 1173 e 1321 c.c..
Il Collegio osserva, peraltro, che in astratto gli schemi
contrattuali che compongono l’operazione economica delineata
dal citato art. 49 possono avere ad oggetto sia requisiti
materiali (mezzi, attrezzature, forza lavoro), sia requisiti
immateriali (capacità economica-finanziaria, fatturato,
attestazione SOA e, secondo un filone prevalente nella
giurisprudenza di questo Consiglio, anche le certificazioni
di qualità).
Nell’ipotesi di conferimento di requisiti materiali
l’impresa avvalsa si priva (nei limiti delle prestazioni
necessarie ad eseguire il contratto da affidare con gara)
effettivamente dei mezzi prestati a favore dell’impresa
concorrente; nell’ipotesi, invece, in cui si conferiscano (rectius:
si prestino) requisiti immateriali si dovrà comunque
confezionare un contratto idoneo a determinare una sorta di
“traditio simbolica” di tali requisiti dall’impresa
ausiliaria a quella ausiliata partecipante alla gara
d’appalto (ad es., ricorrendo all’affitto di azienda o di
ramo di azienda).
Il tratto comune è rappresentato, come detto, dal fatto che
il prestito dei requisiti riguarda i requisiti dell’impresa
e non quelli dell’imprenditore, che sono insuscettibili di
trasferimento anche in forma simbolica, trattandosi di
requisiti soggettivamente indefettibili di cui il possessore
non può, neppure in modo circostanziato e eposodico,
privarsi e, di conseguenza, non possono nemmeno essere
dedotti quali oggetto di “possibile” prestazione
contrattuale, come si deve ribadire.
Peraltro, si deve aggiungere ad abundantiam che anche
il d.P.R. 05.10.2010, n. 207 (Regolamento di esecuzione e
attuazione del Codice dei contratti pubblici) conferma tale
interpretazione: l’art. 88, comma 5, dedicato al contratto
di avvalimento in gara e alla qualificazione mediante
avvalimento, prevede espressamente, infatti, che l’impresa
ausiliata per conseguire la qualificazione di cui all’art.
50 del codice, deve possedere i requisiti di cui all’art. 78
in proprio.
I requisiti di cui all’art. 78 che l’impresa deve possedere
in proprio sono i requisiti d’ordine generale che, ai sensi
del comma 1 del predetto articolo, sono quelli previsti
dagli articoli 38, comma 1, e 39 commi 1 e 2, del Codice
appalti (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.11.2012 n. 5595 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
rilascio dell'autorizzazione commerciale occorre tenere
presente i presupposti aspetti di conformità
urbanistico-edilizia dei locali in cui l'attività
commerciale si va a svolgere, con la naturale conseguenza
che il diniego di esercizio di attività di commercio deve
ritenersi legittimo ove fondato su rappresentate e accertate
ragioni di abusività e/o non regolarità delle opere edilizie
in questione con le prescrizioni urbanistiche.
---------------
Tutti i provvedimenti legittimamente fondati su tali
presupposti (abusi edilizi) non necessitino di alcuna
particolare valutazione delle ragioni di interesse pubblico
né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi
privati coinvolti, non essendo configurabile alcun tipo di
affidamento meritevole di tutela alla conservazione di
situazione fondate su “illeciti permanenti”, che il tempo
non può sanare in via di fatto.
Sul primo aspetto il Collegio ritiene di richiamare,
facendolo proprio, il consolidato orientamento di questo
Consiglio di Stato secondo il quale “nel rilascio
dell'autorizzazione commerciale occorre tenere presente i
presupposti aspetti di conformità urbanistico-edilizia dei
locali in cui l'attività commerciale si va a svolgere, con
la naturale conseguenza che il diniego di esercizio di
attività di commercio deve ritenersi legittimo ove fondato
su rappresentate e accertate ragioni di abusività e/o non
regolarità delle opere edilizie in questione con le
prescrizioni urbanistiche” (Consiglio di Stato, sez. IV,
14/10/2011, n. 5537).
Sicché del tutto corretta appare la motivazione del TAR di
Napoli, che muovendosi sul solco tracciato dalla citata
giurisprudenza ha confermato che il legittimo esercizio di
un'attività commerciale, soprattutto se essa comporti –come
nel caso di specie- la somministrazione di alimenti e
bevande, deve essere ancorato, sia in sede di rilascio del
relativo titolo autorizzatorio, sia per l’intera durata del
suo svolgimento, alla disponibilità giuridica e alla
regolarità urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene
posta in essere.
Nel caso di specie, per quanto allegato dallo stesso
ricorrente, è incontroversa la mancanza di conformità
urbanistica-edilizia del compendio aziendale, di talché
ineccepibile appare il consequenziale provvedimento
inibitorio adottato dal Comune di Pompei, rispetto alla
richiesta di rilascio della relativa autorizzazione
commerciale. E ciò, anche alla luce della disciplina
regionale e statale in materia di aziende agrituristiche,
puntualmente richiamata dal TAR nella decisione gravata, che
il Collegio ritiene di condividere pienamente anche sotto
tale specifico aspetto.
Ne consegue che la sentenza merita conferma anche nella
parte in cui ha ritenuto corretto il comportamento del
Comune di Pompei che ha ordinato la cessazione dell’attività
abusiva di agriturismo condotta dall’appellante, sul rilievo
della non assentibilità dei manufatti realizzati nel
compendio aziendale e della improcedibilità dell’istanza di
rilascio dell’autorizzazione sanitaria in relazione a locali
ed ambienti oggetto di una pluralità di modifiche, oltre che
in ragione dell’insussistenza di altri fondamentali
presupposti (quali l’iscrizione all’elenco regionale degli
operatori agrituristici).
---------------
L’appellante lamenta, poi, il
fatto che il TAR non avrebbe considerato la circostanza,
quanto alla interruzione della propria attività, che vi
fosse un affidamento formatosi “medio tempore”.
Sul punto, mutuando i principi in tema di provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, la Sezione ritiene che
tutti i provvedimenti legittimamente fondati su tali
presupposti (abusi edilizi) non necessitino di alcuna
particolare valutazione delle ragioni di interesse pubblico
né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi
privati coinvolti, non essendo configurabile alcun tipo di
affidamento meritevole di tutela alla conservazione di
situazione fondate su “illeciti permanenti”, che il
tempo non può sanare in via di fatto (Cons. St., sez. IV,
16/04/2012, n. 2185).
Ciò vale tanto più nel caso di specie, atteso che -come
opportunamente evidenziato dal TAR di Napoli– nella materia
delle aziende agrituristiche vi è una disciplina legislativa
statale e regionale particolarmente rigorosa, perché
finalizzata a preservare la specificità del settore
agrituristico e la genuinità dei prodotti fruibili
all’interno dell’azienda agrituristica
(Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 05.11.2012 n. 5590 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Nel caso di esercizio del diritto di accesso nei
confronti di soggetti privati esercenti pubblici servizi o
pubbliche funzioni, oggetto dell’accesso non sono tutti gli
atti da questi soggetti formati o detenuti, ma solo quelli
che pur non costituendo diretta esplicazione della funzione
o del servizio pubblico svolti, siano agli stessi legati da
un nesso di diretta strumentalità.
Sotto un primo e assorbente profilo, va evidenziato,
conformemente a giurisprudenza consolidata richiamata anche
nella sentenza di primo grado (cfr. per tutte, Cons. Stato,
sez. IV, 25.01.2011, n. 719), che nel caso di esercizio del
diritto di accesso nei confronti di soggetti privati
esercenti pubblici servizi o pubbliche funzioni (qual è la
MOF s.p.a.), oggetto dell’accesso non sono tutti gli atti da
questi soggetti formati o detenuti, ma solo quelli che pur
non costituendo diretta esplicazione della funzione o del
servizio pubblico svolti, siano agli stessi legati da un
nesso di diretta strumentalità (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 31.10.2012 n. 5572 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
I chiarimenti autointerpretativi della stazione
appaltante non possono né modificare il bando, né
integrarlo, né rappresentarne un'inammissibile
interpretazione autentica.
Il bando, in quanto lex specialis predeterminata e
pubblicata con le forme di legge, deve invero essere
interpretato ed applicato per quello che obbiettivamente
prescrive, senza che possano acquisire rilevanza preclusiva
atti interpretativi postumi della stazione appaltante, la
quale non potrebbe giammai disapplicare le clausole del
bando né alterarne ex post la portata prescrittiva.
---------------
Le regole contenute nella lex specialis di una gara
vincolano non solo i concorrenti, ma anche la stessa
Amministrazione, che non conserva alcun margine di
discrezionalità nella loro concreta attuazione, non potendo
disapplicarle neppure nel caso in cui talune di esse
risultino inopportunamente o incongruamente formulate, salva
la sola possibilità di far luogo, nell‘esercizio del potere
di autotutela, all’annullamento del bando ... si devono
reputare comunque preferibili, a tutela dell’affidamento dei
destinatari, le espressioni letterali delle previsioni da
chiarire, evitando che il procedimento ermeneutico conduca
all’integrazione delle regole di gara palesando significati
del bando non chiaramente desumibili dalla sua lettura
testuale.
Nell‘interpretazione delle clausole del bando per
l’aggiudicazione di un contratto della P.A. deve darsi,
pertanto, prevalenza alle espressioni letterali in esse
contenute, escludendo ogni procedimento ermeneutico in
funzione integrativa diretto ad evidenziare pretesi
significati e ad ingenerare incertezze nell’applicazione.
Così non v'è dubbio, che i chiarimenti della P.A. "possono
considerarsi ammissibili se contribuiscono, attraverso
un‘operazione di interpretazione del testo, a renderne
chiaro e comprensibile il significato e/o la ratio di una
disposizione del bando, ma non già quando, proprio
attraverso l’attività interpretativa, si giunga ad
attribuire alla disposizione un significato ed una portata
diversa e maggiore di quella che risulta dal testo stesso,
in tal caso violandosi il rigoroso principio formale della
lex specialis, posto notoriamente a garanzia dei principi di
cui all’art. 97 della Costituzione ...".
Non v'è dubbio, infatti, che i chiarimenti
autointerpretativi della stazione appaltante non possono né
modificare il bando, né integrarlo, né rappresentarne
un'inammissibile interpretazione autentica.
Il bando, in quanto lex specialis predeterminata e
pubblicata con le forme di legge, deve invero essere
interpretato ed applicato per quello che obbiettivamente
prescrive, senza che possano acquisire rilevanza preclusiva
atti interpretativi postumi della stazione appaltante, la
quale non potrebbe giammai disapplicare le clausole del
bando né alterarne ex post la portata prescrittiva.
Sul punto, del resto, la giurisprudenza della Sezione ha di
recente (19.09.2011, n. 5282) avuto modo di precisare "che
le regole contenute nella lex specialis di una gara
vincolano non solo i concorrenti, ma anche la stessa
Amministrazione, che non conserva alcun margine di
discrezionalità nella loro concreta attuazione, non potendo
disapplicarle neppure nel caso in cui talune di esse
risultino inopportunamente o incongruamente formulate, salva
la sola possibilità di far luogo, nell‘esercizio del potere
di autotutela, all’annullamento del bando ... si devono
reputare comunque preferibili, a tutela dell’affidamento dei
destinatari, le espressioni letterali delle previsioni da
chiarire, evitando che il procedimento ermeneutico conduca
all’integrazione delle regole di gara palesando significati
del bando non chiaramente desumibili dalla sua lettura
testuale (C.d.S., IV, 05.10.2005, n. 5367, V, 15.04.2004, n.
2162). Nell‘interpretazione delle clausole del bando per
l’aggiudicazione di un contratto della P.A. deve darsi,
pertanto, prevalenza alle espressioni letterali in esse
contenute, escludendo ogni procedimento ermeneutico in
funzione integrativa diretto ad evidenziare pretesi
significati e ad ingenerare incertezze nell’applicazione
(C.d.S., V, 30.08.2005, n. 4413)".
Così non v'è dubbio, che i chiarimenti della P.A. "possono
considerarsi ammissibili se contribuiscono, attraverso
un‘operazione di interpretazione del testo, a renderne
chiaro e comprensibile il significato e/o la ratio di una
disposizione del bando, ma non già quando, proprio
attraverso l’attività interpretativa, si giunga ad
attribuire alla disposizione un significato ed una portata
diversa e maggiore di quella che risulta dal testo stesso,
in tal caso violandosi il rigoroso principio formale della
lex specialis, posto notoriamente a garanzia dei principi di
cui all’art. 97 della Costituzione ..." (sez V
13.07.2010, n. 4526).
A ciò si aggiunga che, nel caso di specie, i chiarimenti
invocati hanno rappresentato espressione di un'attività
informale del RUP: né il Bando né il Disciplinare, infatti,
contemplano la possibilità di chiarimenti
auto-interpretativi resi in corso di gara da organi della
stazione appaltante (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 31.10.2012 n. 5570 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Avvalimento "generico".
Un contratto di avvalimento con il quale l’impresa
ausiliaria di impegna, genericamente, a mettere a
disposizione le risorse necessarie per tutta la durata
dell’appalto, non è sufficiente a soddisfare le prescrizioni
imposte dall’art. 88 del Dpr. 207/2010 e, pertanto, è
illegittima la decisione della stazione appaltante che, in
siffatte ipotesi, decida di ammettere il concorrente.
Questa, in termini di massima, è la decisione assunta dai
Giudici della III Sez. del Consiglio di Stato, con la
sentenza 29.10.2012 n. 5512 che, conformemente ai
principi espressi in passato dalla giurisprudenza, ha
ribadito che l’indeterminatezza dell’oggetto costituisce in
questo caso una chiara violazione del citato decreto che,
come noto, impone che il contratto di avvalimento deve
riportare in modo compiuto, esplicito ed esauriente
l’oggetto (ossia, le risorse e i mezzi prestati in modo
determinato e specifico), la durata e, comunque, ogni altro
utile elemento.
La peculiare dichiarazione richiesta esprime l'impegno
assunto dal concorrente nei confronti della stazione
appaltante, che si caratterizza non quale generico
riferimento all'utilizzo dell'istituto, ma come concreta
specificazione dei suoi contenuti, riferiti ai requisiti.
Si tratta, dunque, di un contratto con il quale il
concorrente si qualifica nei confronti della stazione
appaltante e perciò stesso non può essere sommario (Cfr., in
questi termini, TAR Campania, Salerno, sez. I, 03.05.2011,
n. 820).
Ad argomentare diversamente, ricordano i Giudici, si
giungerebbe a snaturare l'istituto dell'avvalimento per
piegarlo ad una logica di elusione dei requisiti stabiliti
nel bando di gara.
Considerato inoltre che il contratto di avvalimento prodotto
dall’aggiudicataria, all’art. 2 prevedeva, quale proprio
oggetto, l’impegno dell’ausiliaria "a fornire i requisiti
ed a mettere a disposizione le risorse necessarie per tutta
la durata dell’appalto" oggetto della gara, non sarebbe
nemmeno possibile colmare altrimenti la genericità della
previsione, facendo riferimento alla SOA posseduta
dall’ausiliaria.
Infatti, la qualificazione di quest’ultima è solo una
indicazione potenziale che, in assenza di specifica
previsione contrattuale, non potrebbe ritenersi essere stata
messa a disposizione dell’impresa aggiudicataria (commento
tratto da /www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di demolizione di opere edilizie abusive
non deve essere preceduto dall’avviso di cui all’art. 7
della legge n. 241 del 1990, trattandosi di un atto dovuto
che viene emesso, quale sanzione per l'accertamento
dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un
procedimento di natura vincolata precisamente ipotizzato dal
legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge; esso, in
quanto atto volto a reprimere un abuso edilizio, sorge in
virtù di un presupposto di fatto (appunto, l'abuso) di cui
il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza,
rientrando esso nella sua sfera di controllo.
Osserva il collegio che:
1) per giurisprudenza costante l’ordine di demolizione di
opere edilizie abusive non deve essere preceduto dall’avviso
di cui all’art. 7 della legge n. 241 del 1990, trattandosi
di un atto dovuto che viene emesso, quale sanzione per
l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni
urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata
precisamente ipotizzato dal legislatore e rigidamente
disciplinato dalla legge; esso, in quanto atto volto a
reprimere un abuso edilizio, sorge in virtù di un
presupposto di fatto (appunto, l'abuso) di cui il ricorrente
deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando esso
nella sua sfera di controllo. Per tali ragioni la censura
deve dunque essere respinta (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.10.2012 n. 4261 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il muretto di recinzione,
per giurisprudenza costante, solo in caso di modeste
strutture senza opere murarie (quali quelle con rete
metallica sorretta da paletti in ferro o di legno senza
muretto di sostegno, tipiche dei fondi rustici) non
necessita del permesso di costruire e può essere incluso fra
le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo
ius excludendi alios o comunque la delimitazione delle
singole proprietà, ed in questi casi è anzi possibile
effettuare una semplice d.i.a.; diversamente, è invece
richiesto il permesso di costruire quando la recinzione
determina una irreversibile trasformazione dello stato dei
luoghi, come nel caso di recinzione costituita da un muretto
di sostegno in calcestruzzo.
---------------
La modificazione dei prospetti è espressamente soggetta a
permesso di costruire ai sensi dell’art. 10, comma 1,
lettera c), del DPR n. 380 del 2001.
Le opere interne e gli interventi di ristrutturazione
urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria,
di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del
preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual
volta comportino mutamento di destinazione d'uso, mutazione
d’uso pacificamente avvenuta nella specie.
A ciò si aggiunga che solo il cambio di destinazione d'uso
fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di
costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico),
mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie
funzionalmente autonome e non omogenee, si integra in questa
ipotesi una modificazione edilizia con effetti incidenti sul
carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al
regime del permesso di costruire, indipendentemente
dall'esecuzione di opere.
In conclusione, le opere connotate da ampliamento dei
prospetti, da modifica di destinazione e da modifiche
interne vanno annoverate nella ristrutturazione c.d. pesante
e non tra le ristrutturazioni minori o cosiddette leggere,
come tali rientranti nella previsione dell'art. 10, comma 1,
lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001 e dunque non sottoposte al
regime ordinario della d.i.a. ma a quello del permesso di
costruire.
Osserva il collegio che:
2) quanto alla violazione dell’art. 37 testo unico edilizia
si rileva a sua volta che:
a) la modificazione dei prospetti è espressamente soggetta a
permesso di costruire ai sensi dell’art. 10, comma 1,
lettera c), del DPR n. 380 del 2001;
b) il muretto di recinzione, per giurisprudenza costante, solo in
caso di modeste strutture senza opere murarie (quali quelle
con rete metallica sorretta da paletti in ferro o di legno
senza muretto di sostegno, tipiche dei fondi rustici) non
necessita del permesso di costruire e può essere incluso fra
le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo
ius excludendi alios o comunque la delimitazione
delle singole proprietà, ed in questi casi è anzi possibile
effettuare una semplice d.i.a.; diversamente, è invece
richiesto il permesso di costruire quando la recinzione
determina una irreversibile trasformazione dello stato dei
luoghi, come nel caso di recinzione costituita da un muretto
di sostegno in calcestruzzo (cfr. TAR Basilicata, sez. I,
28.02.2012, n. 93; TAR Campania, Napoli, sez. IV,
03.04.2012, n. 1542; TAR Puglia Lecce, sez. I, 02.11.2011,
n. 1918);
c) in materia edilizia, le opere interne e gli interventi di
ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di
manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento
conservativo, necessitano del preventivo rilascio del
permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento
di destinazione d'uso (TAR Sardegna, sez. II, 06.10.2008, n.
1822), mutazione d’uso pacificamente avvenuta nella specie.
A ciò si aggiunga che solo il cambio di destinazione d'uso
fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di
costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico),
mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie
funzionalmente autonome e non omogenee, si integra in questa
ipotesi una modificazione edilizia con effetti incidenti sul
carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al
regime del permesso di costruire, indipendentemente
dall'esecuzione di opere (cfr. TAR Campania Napoli, sez. IV,
28.10.2011, n. 5063; TAR Campania Napoli, sez. IV,
17.01.2011, n. 221; TAR Lazio Roma, sez. I, 16.07.2009, n.
7030).
In conclusione, le opere connotate da ampliamento dei
prospetti, da modifica di destinazione e da modifiche
interne vanno annoverate nella ristrutturazione c.d. pesante
e non tra le ristrutturazioni minori o cosiddette leggere,
come tali rientranti nella previsione dell'art. 10, comma 1,
lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001 e dunque non sottoposte al
regime ordinario della d.i.a. ma a quello del permesso di
costruire (TAR Toscana, sez. III, 01.09.2011, n. 1373).
Permesso di costruire nella specie non richiesto, ragione
questa che induce il collegio a ritenere corretto l’operato
della PA che ha dunque ritenuto, in assenza di siffatta
richiesta, di ordinare la demolizione delle suddette opere
abusive (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.10.2012 n. 4261 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costituisce principio consolidato della
giurisprudenza, che l’onere della prova circa la data di
realizzazione dell’immobile abusivo spetti a colui che ha
commesso l’abuso e solo la deduzione, da parte di
quest’ultimo, di concreti elementi, che non possono
limitarsi a mere allegazioni documentali a sostegno delle
proprie affermazioni, trasferisce il suddetto onere in capo
all’Amministrazione.
---------------
In assenza di ogni certezza circa
l’epoca di realizzazione delle opere abusive, non vi era
alcun obbligo di motivazione rafforzata in capo alla P.A. in
merito all’ordinata demolizione. La predetta censura non ha
pregio anche perché la sanzione demolitoria deriva
dall’accertamento della realizzazione di opere senza alcun
titolo edilizio e appare inconfigurabile qualsivoglia
affidamento in capo alla ricorrente circa la legittimità
delle stesse. Infine, nel caso di specie l’interesse
pubblico all’eliminazione degli abusi é, comunque, da
ravvisare nella natura paesaggisticamente vincolata della
zona e nella scelta operata a monte dal legislatore (in
applicazione del principio costituzionale di tutela del
valore-paesaggio) relativa alla demolizione dei manufatti
abusivi nelle zone aventi tale caratteristica.
Né, infine, l’Amministrazione è tenuta a verificare
l’eventuale sanabilità delle opere abusivamente realizzate,
ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, prima di
ordinarne la demolizione. E, infatti, una volta accertata
l'esecuzione di opere in assenza del prescritto titolo,
contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente nel quinto
motivo, non costituisce onere del Comune verificare la
sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività
edilizia, né accertare quale fosse la destinazione (conforme
o meno agli strumenti urbanistici) che i responsabili
dell'abuso intendevano dare agli ambienti e nemmeno
l'astratta compatibilità delle opere stesse con la normativa
vigente.
Premesso che nel caso di specie
il vincolo paesaggistico sull’area nella quale ricadono le
opere abusive è stato imposto giusto D.M. 15.02.1962,
costituisce principio consolidato della giurisprudenza, che
l’onere della prova circa la data di realizzazione
dell’immobile abusivo spetti a colui che ha commesso l’abuso
e solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti
elementi, che non possono limitarsi a mere allegazioni
documentali a sostegno delle proprie affermazioni,
trasferisce il suddetto onere in capo all’Amministrazione
(cfr. Consiglio di Stato, IV, 13.01.2010, n. 45; Consiglio
di Stato, V, 09.11.2009, n. 6984).
---------------
Inoltre, in assenza di ogni certezza circa l’epoca di
realizzazione delle opere abusive, non vi era alcun obbligo
di motivazione rafforzata in capo alla P.A. in merito
all’ordinata demolizione. La predetta censura non ha pregio
anche perché la sanzione demolitoria deriva
dall’accertamento della realizzazione di opere senza alcun
titolo edilizio e appare inconfigurabile qualsivoglia
affidamento in capo alla ricorrente circa la legittimità
delle stesse. Infine, nel caso di specie l’interesse
pubblico all’eliminazione degli abusi é, comunque, da
ravvisare nella natura paesaggisticamente vincolata della
zona e nella scelta operata a monte dal legislatore (in
applicazione del principio costituzionale di tutela del
valore-paesaggio) relativa alla demolizione dei manufatti
abusivi nelle zone aventi tale caratteristica.
Né, infine, l’Amministrazione è tenuta a verificare
l’eventuale sanabilità delle opere abusivamente realizzate,
ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, prima di
ordinarne la demolizione. E, infatti, una volta accertata
l'esecuzione di opere in assenza del prescritto titolo,
contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente nel quinto
motivo, non costituisce onere del Comune verificare la
sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività
edilizia, né accertare quale fosse la destinazione (conforme
o meno agli strumenti urbanistici) che i responsabili
dell'abuso intendevano dare agli ambienti e nemmeno
l'astratta compatibilità delle opere stesse con la normativa
vigente (cfr. TAR, Campania, II, 08.06.2012, n. 2744) (TAR
Campania-Napoli, Sea. VII,
sentenza 25.10.2012 n.
4254
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La violazione dell'art. 10-bis della legge n. 241
del 1990 non produce ex se l'illegittimità del provvedimento
finale, dovendo la disposizione sul preavviso di rigetto
essere interpretata alla luce del successivo art. 21-octies
comma 2, il quale impone al giudice di valutare il contenuto
sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel
caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla
legittimità sostanziale del medesimo.
L'art. 21-octies rende, quindi, irrilevante la violazione
delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto per il
fatto che il contenuto dispositivo non sarebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato.
Come anche di recente chiarito dal Consiglio di
Stato infatti “la violazione dell'art. 10-bis della legge
n. 241 del 1990 non produce ex se l'illegittimità del
provvedimento finale, dovendo la disposizione sul preavviso
di rigetto essere interpretata alla luce del successivo art.
21-octies comma 2, il quale impone al giudice di valutare il
contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare
l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano
inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo. L'art.
21-octies rende, quindi, irrilevante la violazione delle
norme sul procedimento o sulla forma dell'atto per il fatto
che il contenuto dispositivo non sarebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato” (Consiglio di
Stato, Sez. VI, sent. n. 585 del 02-02-2012, conferma della
sentenza del Tar Toscana-Firenze, sez. III, n. 1616/2005) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.10.2012 n. 4246 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Alle situazioni di affidamento in capo ai privati
derivanti dal trascorrere di un lungo lasso di tempo tra la
commissione dell’abuso ed il protrarsi dell’inerzia
dell’amministrazione preposta alla vigilanza edilizia (con
conseguente onere di congrua motivazione dell’ordinanza di
demolizione, nel senso che essa debba indicare, avuto
riguardo anche all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il
pubblico interesse evidentemente diverso da quello al
ripristino della legalità idoneo a giustificare il
sacrificio del contrapposto interesse privato), nel caso di
specie non può tuttavia ravvisarsi la sussistenza della
condizione di partenza di un simile ragionamento, essendo
trascorsi solo otto anni dall’edificazione delle opere
abusive ed il loro accertamento avvenuto a seguito del
sopralluogo degli emissari comunali.
Si tratta, a tutta evidenza, di un periodo temporale
manifestamente insufficiente, tale da non integrare quel
“lungo lasso di tempo” che la giurisprudenza amministrativa,
anche di questa Sezione, pone come indefettibile condizione
di partenza.
In proposito, la giurisprudenza considera rilevante il
trascorrere di un tempo “immemorabile”, ovvero un intervallo
temporale particolarmente consistente, ad esempio di più di
quarant’anni o di più di trentacinque anni.
Quanto alla censura incentrata
sull’asserito “affidamento” ingeneratosi nel
proprietario circa il mantenimento dell’opera, a cagione sia
del lasso di tempo intercorso tra la data della sua
costruzione (anno 2003) e quella dell’intervento repressivo,
sia della natura modesta dell’abuso, essa non può essere
accolta.
Il periodo di tempo in questione non può infatti
considerarsi sufficiente, nella specie, al fine di radicare
una ragionevole aspettativa in ordine al mantenimento delle
opere abusive, anche di modesta dimensione. Pur dovendosi
conferire rilevanza, in linea generale ed astratta, alle
situazioni di affidamento in capo ai privati derivanti dal
trascorrere di un lungo lasso di tempo tra la commissione
dell’abuso ed il protrarsi dell’inerzia dell’amministrazione
preposta alla vigilanza edilizia (con conseguente onere di
congrua motivazione dell’ordinanza di demolizione, nel senso
che essa debba indicare, avuto riguardo anche all'entità ed
alla tipologia dell'abuso, il pubblico interesse
evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità
idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto
interesse privato), nel caso di specie non può tuttavia
ravvisarsi la sussistenza della condizione di partenza di un
simile ragionamento, essendo trascorsi solo otto anni
dall’edificazione delle opere abusive ed il loro
accertamento avvenuto a seguito del sopralluogo degli
emissari comunali.
Si tratta, a tutta evidenza, di un periodo temporale
manifestamente insufficiente, tale da non integrare quel “lungo
lasso di tempo” che la giurisprudenza amministrativa,
anche di questa Sezione, pone come indefettibile condizione
di partenza (cfr., per un caso analogo, TAR Piemonte, sez.
II, n. 809 del 2012).
In proposito, la giurisprudenza considera rilevante il
trascorrere di un tempo “immemorabile” (cfr. TAR
Puglia, Lecce, sez. III, n. 242 del 2012), ovvero un
intervallo temporale particolarmente consistente, ad esempio
di più di quarant’anni (TAR Veneto, sez. II, n. 203 del
2012) o di più di trentacinque anni (TAR Calabria,
Catanzaro, sez. I, n. 1239 del 2011) (TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 25.10.2012 n. 1138 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Appalti, senza "dichiarazione di moralità" ditta esclusa.
E' legittima l'esclusione da parte della stazione appaltante
di una ditta che nella domanda di partecipazione alla gara
di appalto ha reso solo parzialmente le cd. dichiarazioni
"di moralità" richieste dal Codice dei contratti pubblici.
La SRL si era rivolta al C.G.A.S. per ottenere
l’annullamento di tutti gli atti e i provvedimenti della
gara di appalto indetta da un ente locale per l’affidamento
delle “opere di urbanizzazione primaria relativa al piano
insediamenti produttivi ambito (…)“ nella parte in cui
un'altra SRL era stata ammessa, risultando poi
aggiudicataria.
La SRL ricorrente nell’impugnare la sentenza del TAR che le
aveva in sostanza dato torto, sosteneva:
a) violazione e falsa applicazione dell’art. 38, comma 1,
lett. c), del D.Lgs. n. 163/2006;
b) violazione nel
disciplinare di gara, dell’art. 10, comma 1-bis, della legge
n. 109/1994 e dei principi generali in tema di par condicio,
segretezza delle offerte e trasparenza della competizione.
Requisiti di moralità
Va ricordato che la preclusione alla partecipazione alle
gare d’appalto, contemplata alla lettera c), comma 1,
dell’art. 38 del Codice degli Appalti Pubblici, derivante
dalla pronuncia di particolari sentenze di condanna, è stata
oggetto di un intervento estensivo del legislatore analogo a
quello apportato alla lett. b), comma 1, dell’art. 38 del
Codice stesso. Il testo novellato prevede, infatti, che
l’esclusione ed il divieto di partecipazione alle procedure
concorsuali per l’aggiudicazione dei contratti pubblici
operino se la sentenza o il decreto siano stati emessi:
a) nei confronti del titolare o del direttore tecnico, per
le imprese individuali;
b) nei confronti dei soci o del
direttore tecnico per le società in nome collettivo;
c) nei
confronti dei soci accomandatari o del direttore tecnico per
le società in accomandita semplice;
d) nei confronti del
direttore tecnico o degli amministratori con poteri di
rappresentanza o del socio unico persona fisica, ovvero del
socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro
soci, “se si tratta di altro tipo di società o consorzio”.
Le dichiarazioni di essere in regola con i requisiti
richiesti dall’art. 38, comma 1, lett. b) e c), devono essere
presentate da tutti i soggetti indicati dalla norma
(soci/amministratori e direttore tecnico). Inoltre, la nuova
formulazione dell’art. 38, comma 1, lett. c) dispone
espressamente che non rilevano, ai fini dell’esclusione
dalle gare, i reati per i quali sia intervenuta la
riabilitazione, l’estinzione, la depenalizzazione o la
revoca della condanna, integrando quanto previsto dal testo
previgente.
Ne consegue che, una volta pronunciata dal
giudice di sorveglianza la riabilitazione del condannato, di
cui all’art. 178 c.p. (derivandone l’estinzione del reato e
delle pene accessorie ed ogni altro effetto penale della
condanna) ovvero riconosciuto dal tribunale estinto il reato
per il decorso del termine di cinque anni o due anni (a
seconda che si tratti di delitto o contravvenzione), ai
sensi dell’articolo 445, comma 2, c.p.p., ovvero pronunciata
dal giudice dell’esecuzione la revoca della sentenza di
condanna o del decreto penale, o intervenuto un
provvedimento legislativo di depenalizzazione, il
concorrente non deve più menzionare le condanne per cui si
siano verificate le vicende sopra elencate nella
dichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, restando così
preclusa alla stazione appaltante ogni possibile valutazione
negativa, ai fini dell’ammissione alla specifica gara, dei
fatti di cui alla sentenza di condanna.
La sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa
Il Consiglio di Giustizia ritiene infondate e non meritano
accoglimento le motivazione della società ricorrente; per i
giudici amministrativi non si ravvisano motivi per
discostarsi dalla sentenza impugnata poiché il TAR ha
fatto corretta applicazione dei principi giurisprudenziali
enunciati dallo stesso in precedenti sentenze.
Nel caso di
specie del resto è evidente l'inosservanza del disciplinare
da parte dell'amministratore unico della società ricorrente; a fronte di una normativa di gara che, sotto la
comminazione della sanzione espulsiva, imponeva ai
partecipanti di rendere una dichiarazione “specificamente ed
espressamente” riferita al contenuto dell'art. 38, comma 1,
lett. c), del D.Lgs. n. 163/2006, la società ricorrente si è
invece “limitato a trascrivere un testo, id est quello del
citato art. 38, che non solo è insuscettibile in quanto tale
di essere individualizzato o comunque apprezzato come
espressione di un contenuto volitivo, ma che si discosta
perfino dal tenore letterale del disciplinare, posto che,
per rispettare la regola violata, sarebbe stato sufficiente
riportare esattamente nella dichiarazione scritta lo
specifico passaggio del suddetto disciplinare”.
I giudici amministrativi evidenziano, tra l’altro, che
rientrando tra le ipotesi per cui è prevista l’esclusione
automatica la Stazione Appaltante non avrebbe potuto
richiedere l’integrazione documentale ex art. 46 del D.Lgs.
163/2006, non potendo disporre di alcuna forma di potere
discrezionale in materia, essendo le dichiarazioni in
questione, dirette a scongiurare la partecipazione alle gare
ad evidenza pubblica di soggetti di dubbia moralità.
E’
pertanto legittima l’esclusione della concorrente che in
violazione alle prescrizioni della lex specialis ha reso
solo parzialmente le dichiarazioni richieste, effettuando un
generico rimando al testo dell’art. 38 del D.Lgs 163/2006 (commento tratto da www.ipsoa.it - C.G.A.R.S.,
sentenza
25.10.2012 n. 1014 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
proroga del termine di inizio e/o ultimazione dei lavori
“può essere accordata, con provvedimento motivato,
esclusivamente in considerazione della mole dell’opera da
realizzare, delle sue particolari caratteristiche
tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere
pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi
finanziari”.
La ratio complessiva della disciplina ex art. 15 dpr
380/2001 consiste evidentemente nel mantenere il controllo
sull’attività di edificazione, che è ovviamente operazione
materiale non istantanea, non solo al momento del rilascio
del titolo abilitativo ma anche “in progress”, in maniera da
garantirne, entro limiti temporali ragionevoli e finché
l’opera non sia stata sostanzialmente compiuta, la
persistente conformità alla disciplina urbanistico-edilizia
vigente non solo al momento del rilascio del permesso di
costruire ma anche al momento (che potrebbe essere
temporalmente molto successivo) della realizzazione
dell’opera, allo scopo, quindi, di evitare che una
edificazione autorizzata nel vigore di un determinato regime
urbanistico venga realizzata quando il mutato regime non lo
consente più.
---------------
Il primo presupposto fattuale dal quali
muove il provvedimento di diniego è la circostanza che i
lavori non erano iniziati entro l’anno dalla data di
rilascio della concessione edilizia né erano in corso alla
data del provvedimento.
Altra circostanza di fatto rilevante è la sopravvenienza di
disposizioni urbanistiche (puntualmente richiamate nel
provvedimento di diniego) che non avrebbero consentito la
realizzazione del richiesto intervento.
Orbene, se si tiene conto del preciso disposto del ripetuto
comma 4 dell’art. 15 (“il permesso decade con l’entrata in
vigore di contrastanti previsione urbanistiche, salvo che i
lavori siano già iniziati e vengano completati entro il
termine di tre anni dalla data di inizio”), è del tutto
evidente la irrilevanza dei “fatti sopravvenuti estranei
alla volontà del titolare”, idonei ad evitare la decadenza
nel caso del mancato rispetto dei termini di inizio e
ultimazione dei lavori (di cui al comma 2 dell’art. 15)
rispetto alla diversa questione della decadenza “legale” per
effetto dell’entrata in vigore di contrastanti previsioni
urbanistiche, per la quale non è prevista alcuna ipotesi di
non imputabilità ma solo la ricorrenza di precisi
presupposti di fatto -l’intervenuto inizio dei lavori e il
loro completamento entro il termine di tre anni dalla data
di inizio- pacificamente non sussistenti nella specie.
Del resto, la circostanza che l’interessata non abbia potuto
chiedere tempestivamente la proroga (prima delle scadenze
temporali contenute nel titolo), stante l’intervenuto
sequestro del titolo da parte dell’Autorità giudiziaria
penale, non vale affatto ai fini dell’integrazione delle
condizioni previste dal comma 4 per evitare la decadenza per
effetto dell’entrata in vigore di contrastanti previsioni
urbanistiche, giacché anche un titolo in corso di validità
(non decaduto, cioè, per il decorso del tempo) vi è soggetto
sempre che non si inverino per l’appunto le condizioni
richieste (si pensi al caso della edificazione consentita da
un titolo che decada per effetto di sopravvenute
contrastanti previsioni entro l’anno dal rilascio ove i
lavori non siano già iniziati).
Giova anzitutto richiamare
l’art. 15 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (testo unico
edilizia) che disciplina l’efficacia temporale e la
decadenza del permesso di costruire, puntualmente statuendo
che “nel permesso di costruire sono indicati i termini di
inizio e di ultimazione dei lavori”; che “il termine per
l’inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal
rilascio del titolo”; che “quello di ultimazione, entro
il quale l’opera deve essere completata non può superare i
tre anni dall’inizio dei lavori”, che “entrambi i
termini possono essere prorogati, con provvedimento
motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del
titolare del permesso” e che “decorsi tali termini il
permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne
che, anteriormente alla scadenza venga richiesta una proroga”.
Tale proroga “può essere accordata, con provvedimento
motivato, esclusivamente in considerazione della mole
dell’opera da realizzare, delle sue particolari
caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti
di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più
esercizi finanziari”.
Il successivo comma 3 stabilisce, inoltre, che “la
realizzazione della parte dell’intervento non ultimata nel
termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo
permesso per le opere ancora da eseguire, salvo che le
stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante
denuncia di inizio attività ai sensi dell’articolo 22”
e, in tale caso, “si procede altresì ove necessario al
ricalcolo del contributo di costruzione”; infine (comma
4), “il permesso decade con l’entrata in vigore di
contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori
siano già iniziati e vengano completati entro il termine di
tre anni dalla data di inizio”.
La ratio complessiva della disciplina sopra
richiamata consiste evidentemente nel mantenere il controllo
sull’attività di edificazione, che è ovviamente operazione
materiale non istantanea, non solo al momento del rilascio
del titolo abilitativo ma anche “in progress”, in
maniera da garantirne, entro limiti temporali ragionevoli e
finché l’opera non sia stata sostanzialmente compiuta, la
persistente conformità alla disciplina urbanistico-edilizia
vigente non solo al momento del rilascio del permesso di
costruire ma anche al momento (che potrebbe essere
temporalmente molto successivo) della realizzazione
dell’opera, allo scopo, quindi, di evitare che una
edificazione autorizzata nel vigore di un determinato regime
urbanistico venga realizzata quando il mutato regime non lo
consente più (cfr. TAR Lazio, Roma, sez.II-ter, 06.12.2011,
n. 9600 e TAR Marche, 20.04.2010, n. 193).
In tal senso, l’edificazione in corso è normativamente
condizionata a precisi requisiti (di fatto e temporali) ove
risulti non (più) conforme ad eventuali sopravvenienze
normative.
Per converso, la medesima disciplina stabilisce
normativamente il punto di equilibrio tra i diritti quesiti
del concessionario (la sua aspettativa a realizzare l’opera
così come autorizzata con il titolo abilitativi) e
l’interesse pubblico al rispetto delle regolamentazioni
sopravvenute, individuandolo nell’inizio dei lavori e nella
loro conclusione in termini stabiliti (un anno dal rilascio
e tre anni dalla data di inizio dei lavori).
In sostanza, la disciplina sostanziale richiede un continuo
confronto (bilanciamento) tra quanto è stato autorizzato,
quanto è stato realizzato (o si confida verrà realizzato nel
tempo stabilito) e le sopravvenienze, che in linea di
principio restano il parametro al quale conformare gli
interventi edilizi in corso o futuri.
---------------
Giova evidenziare che il primo presupposto fattuale dal
quali muove il provvedimento di diniego è la circostanza,
incontestata, che i lavori non erano iniziati entro l’anno
dalla data di rilascio della concessione edilizia né erano
in corso alla data del provvedimento.
Altra circostanza di fatto rilevante (e del pari
incontestata) è la sopravvenienza di disposizioni
urbanistiche (puntualmente richiamate nel provvedimento di
diniego) che non avrebbero consentito la realizzazione del
richiesto intervento.
Orbene, se si tiene conto del preciso disposto del ripetuto
comma 4 dell’art. 15 (“il permesso decade con l’entrata
in vigore di contrastanti previsione urbanistiche, salvo che
i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il
termine di tre anni dalla data di inizio”), è del tutto
evidente la irrilevanza dei “fatti sopravvenuti estranei
alla volontà del titolare”, idonei ad evitare la
decadenza nel caso del mancato rispetto dei termini di
inizio e ultimazione dei lavori (di cui al comma 2 dell’art.
15) rispetto alla diversa questione della decadenza “legale”
per effetto dell’entrata in vigore di contrastanti
previsioni urbanistiche, per la quale non è prevista alcuna
ipotesi di non imputabilità ma solo la ricorrenza di precisi
presupposti di fatto -l’intervenuto inizio dei lavori e il
loro completamento entro il termine di tre anni dalla data
di inizio- pacificamente non sussistenti nella specie.
Del resto, la circostanza, sulla quale il ricorso si
dilunga, che l’interessata non abbia potuto chiedere
tempestivamente la proroga (prima delle scadenze temporali
contenute nel titolo), stante l’intervenuto sequestro del
titolo da parte dell’Autorità giudiziaria penale, non vale
affatto ai fini dell’integrazione delle condizioni previste
dal comma 4 per evitare la decadenza per effetto
dell’entrata in vigore di contrastanti previsioni
urbanistiche, giacché anche un titolo in corso di validità
(non decaduto, cioè, per il decorso del tempo) vi è soggetto
sempre che non si inverino per l’appunto le condizioni
richieste (si pensi al caso della edificazione consentita da
un titolo che decada per effetto di sopravvenute
contrastanti previsioni entro l’anno dal rilascio ove i
lavori non siano già iniziati) (TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 25.10.2012 n.
694
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa la compatibilità paesaggistica -o meno- di un
fabbricato con altezza di cm. 20 maggiore di quella
assentita.
Le
categorie edilizie, intese ad offrire una definizione dei
concetti di "volume" e di "superficie", non si prestino ad
essere richiamate, senza opportuni adattamenti, ai fini
applicativi della disposizione succitata: ciò sulla scorta
della diversità degli interessi pubblici primariamente
considerati, rispettivamente, dalla normativa edilizia e da
quella di tutela paesaggistica.
La ricerca ed esatta individuazione di quegli adattamenti,
tuttavia, non possono essere operate che risalendo alle
ragioni sottese al rinvio operato dal codice dei beni
culturali e del paesaggio a quelle categorie, onde
verificare se le stesse, in concreto, ricorrano nella
concreta fattispecie portata alla cognizione del giudicante
e giustifichino, quindi, l'estensione delle nozioni
urbanistico-edilizie, nella loro intrinseca rigidità, alla
materia in esame.
Tali ragioni, ad avviso del Tribunale, sono agevolmente
individuabili su due fronti distinti e concorrenti:
● da un primo punto di vista, il redattore del codice
dei beni culturali e del paesaggio deve aver inteso
precludere la valutazione di compatibilità paesaggistica a
posteriori nelle ipotesi in cui la realizzazione delle opere
in assenza dell'autorizzazione paesaggistica metta più
seriamente a repentaglio il bene paesaggistico protetto,
ipotesi coincidenti con quelle in cui il risultato
dell'attività di trasformazione consista in un manufatto
avente autonoma rilevanza sul piano edilizio ed i cui indici
rappresentativi più evidenti si correlano alla creazione di
"nuovo volume" o "nuova superficie";
● da un secondo punto di vista, la previsione delle
suddette ipotesi limitative dell'istituto de quo trova
fondamento nell'esigenza di esercitare un effetto dissuasivo
nei confronti delle attività edificatorie poste in essere
sine titulo sui beni paesaggisticamente tutelati,
normalmente motivate da finalità creatrici di nuove entità
urbanisticamente rilevanti (quindi, sia economicamente che
funzionalmente più appetibili);
● infine, da un terzo e collegato punto di vista, il
legislatore ha voluto affermare la non sanabilità
paesaggistica degli abusi che, generando nuovi "volumi" o
nuove "superfici", lascino intravedere l'intento speculativo
del loro esecutore e, pertanto, siano portatori di un
disvalore che li rende immeritevoli di rientrare ex post,
attraverso l'eccezionale ingresso apprestato dall'art. 167,
comma 4, d.lvo n. 42/2004, nei confini della liceità
paesaggistica.
---------------
Dal primo punto di vista, deve escludersi che
l'aumento di soli cm. 20, nella realizzazione del manufatto
oggetto di controversia, rispetto all'altezza
originariamente assentita si sia accompagnato, da un punto
di vista astratto e potenziale (salve le valutazioni
dell'Amministrazione intimata sulla effettiva compatibilità
paesaggistica dell'intervento modificativo), all’esposizione
a particolare pregiudizio del paesaggio tutelato, tale da
precludere a priori l'esperimento della valutazione di
compatibilità paesaggistica: basti considerare che, come
emerge dalla documentazione fotografica prodotta dalla
difesa erariale, l’opera in questione, ad un solo piano, si
sviluppa significativamente in lunghezza, sì da far ritenere
che l’impatto paesaggistico del predetto limitato aumento di
altezza tenda ad essere assorbito per effetto della
(dominante, sul piano visivo) estensione orizzontale del
manufatto.
Quanto al secondo ed al terzo aspetto, strettamente
correlati tra loro, la connotazione pubblica dell'opera de
qua induce in radice ad escludere che alla sua esecuzione
-anche con riguardo alle limitate modifiche apportate in
fase esecutiva rispetto al progetto approvato- sia sotteso
un qualsiasi disegno speculativo, specialmente se inteso in
chiave patrimonialistica: ma alla stessa conclusione deve
pervenirsi ove ci si collochi in un'ottica di carattere
funzionale, incentrata sull'utilità, anche non
patrimonialmente rilevante, ricavabile dall'esecuzione
dell'opera in difformità rispetto al progetto approvato, non
essendo percepibile quale rapporto di concreta strumentalità
l'incremento (minimale) di altezza possa esprimere rispetto
ad una maggiore fruibilità dell'opera pubblica di cui si
tratta.
Mediante le censure articolate in ricorso, il Comune di
Torraca deduce:
1) il provvedimento impugnato, adottato peraltro senza aver
prima effettuato un sopralluogo, è carente di motivazione;
2) le opere de quibus sono state realizzate con una
differenza, che non costituisce difformità, di appena cm. 20
rispetto al progetto iniziale, spazio peraltro da non
destinare a volume, come emerge dalle relazioni tecniche
allegate al ricorso e già trasmesse all'amministrazione
intimata: in particolare, l'altezza interna del fabbricato
rimarrà invariata in quanto verrà utilizzata una struttura
in cartongesso pari a cm. 30, la quale coprirà le travi
esistenti in c.a. creando un unico livello, pari ad una
altezza finita di m. 3,70, come da progetto approvato dalla
Soprintendenza; l'ulteriore spazio racchiuso nella struttura
in cartongesso non verrà utilizzato in quanto costituisce "volume
tecnico" nel quale saranno alloggiati i faretti per
l'illuminazione dell'ingresso ai parcheggi, mentre per
l'esterno è stato realizzato l'adeguamento delle quote al
progetto approvato dalla Soprintendenza, con la bitumazione
del piazzale circostante al fine di convogliare le acque
piovane, il tutto nel rispetto del progetto approvato dalla
stessa Soprintendenza;
3) il manufatto non presenta alcuna difformità percepibile e
visibile né paesaggisticamente rilevante;
4) è stata violata anche la circolare del Segretario
Generale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali n.
33, prot. n. 6074, del 26.06.2009, la quale chiarisce le
nozioni di "lavori", "superfici utili" e "volumi"
ai fini applicativi dell'art. 167 d.lvo n. 42/2004;
5) la nota del Ministero per i Beni e le Attività Culturali
- Ufficio Legislativo n. 0016721 del 13.9.2010, nel dettare
i parametri per la determinazione delle superfici utili o
volumi, evidenzia che "la non percepibilità della
modificazione dell'aspetto esteriore del bene protetto elide
in radice la sussistenza stessa dell'illecito contestato",
sì che "ove addirittura l'incremento di volume o di
superficie (che dovrà per forza di cose essere di minima
entità) non risulti neppure visibile, allora dovrà
evidentemente ritenersi insussistente in radice l'illecito":
ebbene, i cm. 20 in questione, non modificando l'altezza nel
suo insieme, rientrano negli incrementi di "minima entità"
non visibili contemplati dalla nota citata come non ostativi
alla sanatoria paesaggistica.
Tanto premesso, le censure attoree sollevano la necessità di
delineare l'ambito applicativo del presupposto di
ammissibilità del procedimento di valutazione della
compatibilità paesaggistica delle opere realizzate in
assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica,
correlato dall'art. 167, comma 4, lett. a), d.lvo
22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del
paesaggio) alla circostanza che le opere stesse "non
abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati".
Sostiene in particolare il Comune ricorrente che le opere
realizzate in difformità dall'autorizzazione paesaggistica
n. 4 del 03.07.2007, concernente i "lavori di
completamento area urbana comunale in località Purgatorio
per realizzazione parcheggio a parco giochi",
consistendo nell'aumento di soli cm. 20 dell'altezza del
manufatto rispetto al progetto approvato, sarebbero prive di
rilevanza pregiudizievole per il bene paesaggistico
tutelato: inoltre, essendo prevista la chiusura con
cartongesso dello spazio ricavato dalla maggiore altezza ai
fini dell'alloggiamento di faretti per l'illuminazione
dell'ingresso al parcheggio, esso integrerebbe un mero "volume
tecnico", insuscettibile di integrare la fattispecie
ostativa all'ammissibilità dell'accertamento postumo di
compatibilità paesaggistica ipotizzato con il provvedimento
impugnato, come riconosciuto dallo stesso Ministero per i
Beni e le Attività Culturali con propria circolare
interpretativa.
Ritiene il Tribunale che la proposta domanda di annullamento
sia meritevole di accoglimento.
Deve in primo luogo ritenersi che le categorie edilizie,
intese ad offrire una definizione dei concetti di "volume"
e di "superficie", non si prestino ad essere
richiamate, senza opportuni adattamenti, ai fini applicativi
della disposizione succitata: ciò sulla scorta della
diversità degli interessi pubblici primariamente
considerati, rispettivamente, dalla normativa edilizia e da
quella di tutela paesaggistica.
La ricerca ed esatta individuazione di quegli adattamenti,
tuttavia, non possono essere operate che risalendo alle
ragioni sottese al rinvio operato dal codice dei beni
culturali e del paesaggio a quelle categorie, onde
verificare se le stesse, in concreto, ricorrano nella
concreta fattispecie portata alla cognizione del giudicante
e giustifichino, quindi, l'estensione delle nozioni
urbanistico-edilizie, nella loro intrinseca rigidità, alla
materia in esame.
Tali ragioni, ad avviso del Tribunale, sono agevolmente
individuabili su due fronti distinti e concorrenti:
●
da un primo punto di vista, il redattore del codice
dei beni culturali e del paesaggio deve aver inteso
precludere la valutazione di compatibilità paesaggistica a
posteriori nelle ipotesi in cui la realizzazione delle opere
in assenza dell'autorizzazione paesaggistica metta più
seriamente a repentaglio il bene paesaggistico protetto,
ipotesi coincidenti con quelle in cui il risultato
dell'attività di trasformazione consista in un manufatto
avente autonoma rilevanza sul piano edilizio ed i cui indici
rappresentativi più evidenti si correlano alla creazione di
"nuovo volume" o "nuova superficie";
●
da un secondo punto di vista, la previsione delle
suddette ipotesi limitative dell'istituto de quo
trova fondamento nell'esigenza di esercitare un effetto
dissuasivo nei confronti delle attività edificatorie poste
in essere sine titulo sui beni paesaggisticamente
tutelati, normalmente motivate da finalità creatrici di
nuove entità urbanisticamente rilevanti (quindi, sia
economicamente che funzionalmente più appetibili);
●
infine, da un terzo e collegato punto di vista, il
legislatore ha voluto affermare la non sanabilità
paesaggistica degli abusi che, generando nuovi "volumi"
o nuove "superfici", lascino intravedere l'intento
speculativo del loro esecutore e, pertanto, siano portatori
di un disvalore che li rende immeritevoli di rientrare ex
post, attraverso l'eccezionale ingresso apprestato
dall'art. 167, comma 4, d.lvo n. 42/2004, nei confini della
liceità paesaggistica.
Ebbene, ritiene il Tribunale che, nella fattispecie in
esame, non ricorra alcuna delle ragioni astrattamente
giustificatrici dell’esaminato divieto (di accertamento di
compatibilità paesaggistica).
Dal primo punto di vista, infatti, deve escludersi
che l'aumento di soli cm. 20, nella realizzazione del
manufatto oggetto di controversia, rispetto all'altezza
originariamente assentita si sia accompagnato, da un punto
di vista astratto e potenziale (salve le valutazioni
dell'Amministrazione intimata sulla effettiva compatibilità
paesaggistica dell'intervento modificativo), all’esposizione
a particolare pregiudizio del paesaggio tutelato, tale da
precludere a priori l'esperimento della valutazione di
compatibilità paesaggistica: basti considerare che, come
emerge dalla documentazione fotografica prodotta dalla
difesa erariale, l’opera in questione, ad un solo piano, si
sviluppa significativamente in lunghezza, sì da far ritenere
che l’impatto paesaggistico del predetto limitato aumento di
altezza tenda ad essere assorbito per effetto della
(dominante, sul piano visivo) estensione orizzontale del
manufatto.
Quanto al secondo ed al terzo aspetto, strettamente
correlati tra loro, la connotazione pubblica dell'opera
de qua induce in radice ad escludere che alla sua
esecuzione -anche con riguardo alle limitate modifiche
apportate in fase esecutiva rispetto al progetto approvato-
sia sotteso un qualsiasi disegno speculativo, specialmente
se inteso in chiave patrimonialistica: ma alla stessa
conclusione deve pervenirsi ove ci si collochi in un'ottica
di carattere funzionale, incentrata sull'utilità, anche non
patrimonialmente rilevante, ricavabile dall'esecuzione
dell'opera in difformità rispetto al progetto approvato, non
essendo percepibile quale rapporto di concreta strumentalità
l'incremento (minimale) di altezza possa esprimere rispetto
ad una maggiore fruibilità dell'opera pubblica di cui si
tratta.
Consegue, dalle considerazioni svolte, che le difformità
oggetto della domanda di accertamento di compatibilità
paesaggistica avanzata dal Comune ricorrente non integrano
la fattispecie di "nuovo volume" o "nuova
superficie" ostativa, ai sensi della disposizione
menzionata, all'ammissibilità dell'istanza medesima.
La domanda di annullamento proposta dal Comune di Torraca
deve quindi essere accolta, potendo dichiararsi
l'assorbimento delle censure non esaminate (TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 24.10.2012 n. 1942 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Legittimamente
l’autorità ministeriale ha rilevato, ponendolo a base del
disposto annullamento, il difetto di motivazione
dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dall’autorità
comunale. L’articolo 82 del DPR n. 616/1977 (di poi la
normativa di cui all’art. 151 del D.Lgs. n. 490/1999 ed oggi
quella contenuta nel D.Lgs. n. 42/2004) configura un sistema
complesso di tutela del paesaggio, implicante l’intervento
sia della Regione che dello Stato, in cui la concorrenza dei
poteri è disciplinata dal principio di leale cooperazione.
Con specifico riferimento ai poteri della Regione (o
dell’ente subdelegato), va rilevato che la funzione
dell’autorizzazione è quella di verifica della compatibilità
dell’opera edilizia che si intende realizzare con l’esigenza
di conservazione dei valori paesistici protetti dal vincolo.
E’ stato, infatti, evidenziato che quest’ultimo contiene un
accertamento circa l’esistenza di valori paesistici
oggettivamente non derogabile e che è compito
dell’autorizzazione accertare in concreto la compatibilità
dell’intervento con il mantenimento e l’integrità dei
richiamati valori. Difatti, il paesaggio è un valore
costituzionale primario e, pertanto, l’autorità
amministrativa non deve svolgere una ponderazione
comparativa tra un interesse primario ed un interesse
secondario, ma unicamente operare un giudizio in concreto
circa il rispetto da parte dell’intervento progettato delle
esigenze connesse alla tutela del paesaggio stesso. La
determinazione dell’ente locale deve, dunque, essere
motivata anche quando abbia contenuto positivo, favorevole
al richiedente.
Tale principio trova oggi espresso fondamento normativo
nell’articolo 3 della legge n. 241/1990, secondo il quale
ogni provvedimento amministrativo, di contenuto sia negativo
che positivo, deve essere motivato, recando l’indicazione
dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che
hanno determinato la decisione in relazione alle risultanze
dell’istruttoria.
Quanto, poi, al contenuto di tale motivazione, la
giurisprudenza è ferma nel ritenere, ai fini della congruità
e sufficienza della stessa, che debba esservi l’indicazione
della ricostruzione dell’iter logico seguito, in ordine alle
ragioni di compatibilità effettive che -in riferimento agli
specifici valori paesistici dei luoghi- possano consentire
tutti i progettati lavori, considerati nella loro globalità
e non esclusivamente in semplici episodi di dettaglio.
Le considerazioni sopra svolte valgono anche per il
procedimento di condono edilizio di opere realizzate su aree
sottoposte a vincolo, per il quale l’articolo 32 della legge
n. 47/1985 dispone che “il rilascio della concessione o
dell’autorizzazione in sanatoria … è subordinato al parere
favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del
vincolo stesso”. Invero, la giurisprudenza ha avuto modo di
chiarire che il suddetto parere ha natura e funzioni
identiche alla autorizzazione paesaggistica, in quanto
entrambi gli atti costituiscono il presupposto per
l’assentimento del titolo che legittima la trasformazione
urbanistico edilizia della zona protetta; con la conseguenza
che anche in tale caso è applicabile il potere ministeriale
di annullamento del provvedimento.
---------------
Venendo, dunque, all’esame della fattispecie concreta
oggetto del presente giudizio e facendo applicazione dei
principi giurisprudenziali sopra richiamati, risulta che
l’autorità comunale non ha rispettato l’obbligo
motivazionale cui era tenuta, considerato che il
provvedimento autorizzativo rilasciato si limita ad
affermare la mancanza di contrasto con le esigenze di tutela
paesaggistica ed ambientale, senza però spiegarne le
ragioni. Esso, infatti, si limita a precisare (richiamando
per relationem il parere della Commissione Edilizia
Integrata n. 26 del 27.06.1996) che “l’intervento non appare
tale da risultare pregiudizievole per l’ambiente
circostante, tale da incidere sostanzialmente sui valori
paesaggistici”.
Ciò posto, ci si deve porre il problema del contenuto
dell’obbligo di motivazione facente capo all’autorità
ministeriale nel pronunziare l’annullamento
dell’autorizzazione paesistica, considerato che l’articolo
82 del DPR n. 616/1977 (di poi l’articolo 151 del D.Lgs. n.
490/1999 ed oggi l’art. 159 del D.Lgs. n. 42/2004) sancisce
espressamente che questo possa essere disposto “con
provvedimento motivato”. E’ evidente, peraltro, che la
sufficienza e la congruità della motivazione va individuata
in relazione al potere in concreto esercitato, che nel caso
di specie si identifica “nel quadro di un più generale
potere-dovere di vigilanza sull’esercizio delle funzioni
delegate, in un potere di annullamento di ufficio per motivi
di legittimità delle determinazioni assunte dall’autorità
regionale (o subregionale)”.
Orbene, essendo quest’ultima, per le ragioni sopra esposte,
obbligata ad esternare le ragioni per le quali ritiene
l’opera compatibile con i valori protetti dal vincolo,
risulta evidente che, nel caso di avvenuta enunciazione dei
motivi, l’autorità ministeriale che pronunzi l’annullamento
deve specificare diffusamente le ragioni della riscontrata
illegittimità, con riferimento a quanto affermato dall’ente
locale. Al contrario, quando l’autorità regionale o
subregionale siano venute clamorosamente meno all’obbligo di
motivazione, risulta sufficiente il rilievo da parte del
Ministero della suddetta mancanza, non essendo stata in
concreto esternata alcuna verifica di compatibilità
dell’opera con il valore paesistico protetto, accertamento
che costituisce funzione e contenuto essenziale del nulla
osta.
In tale situazione il riferimento, contenuto nella
determinazione statale, alla natura e consistenza dell’opera
progettata ed alle caratteristiche del luogo, lungi dal
configurare un riesame del merito, si afferma come
evidenziazione dell’esistenza di un valore paesistico
tutelato e come rilievo della necessità del giudizio di
compatibilità in concreto pretermesso in relazione ad un
intervento di trasformazione del territorio, capace di
incidere, per natura ed entità, sul bene vincolato.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, dunque, può
affermarsi che il decreto di annullamento è sufficientemente
motivato in ordine al riscontrato vizio di difetto di
motivazione del nulla osta paesaggistico, giacché ha
rilevato la predetta mancanza ed ha evidenziato la
peculiarità della concreta situazione di fatto che imponeva
una adeguata esternazione delle ragioni di compatibilità
dell’intervento. La legittimità del decreto ministeriale
impugnato, sotto il profilo dell’avvenuto riscontro del
difetto di motivazione del nulla osta paesaggistico, ne
impedisce l’annullamento in virtù del principio
giurisprudenziale in premessa ricordato e consente
l’assorbimento dell’esame dei residui motivi di ricorso.
Invero, premessa l'assoluta mancata indicazione,
nell'autorizzazione comunale (e nel parere della C.E.C.I. da
essa richiamato), delle ragioni giustificative della
ritenuta compatibilità paesaggistica delle opere oggetto di
sanatoria, ritiene il Tribunale di richiamare quanto da esso
già ampiamente osservato con la sentenza della Sezione II n.
2401 del 31.10.2007.
Con la citata sentenza, il Tribunale ha evidenziato che "legittimamente
l’autorità ministeriale ha rilevato, ponendolo a base del
disposto annullamento, il difetto di motivazione
dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dall’autorità
comunale. L’articolo 82 del DPR n. 616/1977 (di poi la
normativa di cui all’art. 151 del D.Lgs. n. 490/1999 ed oggi
quella contenuta nel D.Lgs. n. 42/2004) configura un sistema
complesso di tutela del paesaggio, implicante l’intervento
sia della Regione che dello Stato, in cui la concorrenza dei
poteri è disciplinata dal principio di leale cooperazione
(Corte Cost., sent. n. 359/1995, n. 151/1986, n. 302/1988).
Con specifico riferimento ai poteri della Regione (o
dell’ente subdelegato), va rilevato che la funzione
dell’autorizzazione è quella di verifica della compatibilità
dell’opera edilizia che si intende realizzare con l’esigenza
di conservazione dei valori paesistici protetti dal vincolo.
E’ stato, infatti, evidenziato (cfr. Cons. Stato, VI,
14-11-1991, n. 828; VI, 25-09-1995, n. 963) che quest’ultimo
contiene un accertamento circa l’esistenza di valori
paesistici oggettivamente non derogabile e che è compito
dell’autorizzazione accertare in concreto la compatibilità
dell’intervento con il mantenimento e l’integrità dei
richiamati valori. Difatti, il paesaggio è un valore
costituzionale primario e, pertanto, l’autorità
amministrativa non deve svolgere una ponderazione
comparativa tra un interesse primario ed un interesse
secondario, ma unicamente operare un giudizio in concreto
circa il rispetto da parte dell’intervento progettato delle
esigenze connesse alla tutela del paesaggio stesso. La
determinazione dell’ente locale deve, dunque, essere
motivata anche quando abbia contenuto positivo, favorevole
al richiedente.
Tale principio, già consolidato in giurisprudenza in
relazione alla peculiare natura dell’atto ed alla rilevanza
degli interessi coinvolti (cfr. Cons. Stato, VI, 15-12-1981,
n. 751; 19-05-1981, n. 221; IV, 18-11-1980, n. 1104), trova
oggi espresso fondamento normativo nell’articolo 3 della
legge n. 241/1990, secondo il quale ogni provvedimento
amministrativo, di contenuto sia negativo che positivo, deve
essere motivato, recando l’indicazione dei presupposti di
fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato la
decisione in relazione alle risultanze dell’istruttoria.
Quanto, poi, al contenuto di tale motivazione, la
giurisprudenza è ferma nel ritenere, ai fini della congruità
e sufficienza della stessa, che debba esservi l’indicazione
della ricostruzione dell’iter logico seguito, in ordine alle
ragioni di compatibilità effettive che -in riferimento agli
specifici valori paesistici dei luoghi- possano consentire
tutti i progettati lavori, considerati nella loro globalità
e non esclusivamente in semplici episodi di dettaglio (cfr.
Cons. Stato, VI, 05-07-1990, n. 692; 14-11-1991, n. 828;
25-09-1993, n. 963; 20-06-1995, n. 952).
Le considerazioni sopra svolte valgono anche per il
procedimento di condono edilizio di opere realizzate su aree
sottoposte a vincolo, per il quale l’articolo 32 della legge
n. 47/1985 dispone che “il rilascio della concessione o
dell’autorizzazione in sanatoria … è subordinato al parere
favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del
vincolo stesso”. Invero, la giurisprudenza (cfr. Cons.
Stato, VI, 28-01-1998, n. 114) ha avuto modo di chiarire che
il suddetto parere ha natura e funzioni identiche alla
autorizzazione paesaggistica, in quanto entrambi gli atti
costituiscono il presupposto per l’assentimento del titolo
che legittima la trasformazione urbanistico edilizia della
zona protetta; con la conseguenza che anche in tale caso è
applicabile il potere ministeriale di annullamento del
provvedimento.
Venendo, dunque, all’esame della fattispecie concreta
oggetto del presente giudizio e facendo applicazione dei
principi giurisprudenziali sopra richiamati, risulta che
l’autorità comunale non ha rispettato l’obbligo
motivazionale cui era tenuta, considerato che il
provvedimento autorizzativo rilasciato si limita ad
affermare la mancanza di contrasto con le esigenze di tutela
paesaggistica ed ambientale, senza però spiegarne le
ragioni. Esso, infatti, si limita a precisare (richiamando
per relationem il parere della Commissione Edilizia
Integrata n. 26 del 27.06.1996) che “l’intervento non appare
tale da risultare pregiudizievole per l’ambiente
circostante, tale da incidere sostanzialmente sui valori
paesaggistici”.
Ciò posto, ci si deve porre il problema del contenuto
dell’obbligo di motivazione facente capo all’autorità
ministeriale nel pronunziare l’annullamento
dell’autorizzazione paesistica, considerato che l’articolo
82 del DPR n. 616/1977 (di poi l’articolo 151 del D.Lgs. n.
490/1999 ed oggi l’art. 159 del D.Lgs. n. 42/2004) sancisce
espressamente che questo possa essere disposto “con
provvedimento motivato”. E’ evidente, peraltro, che la
sufficienza e la congruità della motivazione va individuata
in relazione al potere in concreto esercitato (cfr. Cons.
Stato, VI, 20-6-1997, n. 952 cit.), che nel caso di specie
si identifica “nel quadro di un più generale potere-dovere
di vigilanza sull’esercizio delle funzioni delegate, in un
potere di annullamento di ufficio per motivi di legittimità
delle determinazioni assunte dall’autorità regionale (o
subregionale)”.
Orbene, essendo quest’ultima, per le ragioni sopra esposte,
obbligata ad esternare le ragioni per le quali ritiene
l’opera compatibile con i valori protetti dal vincolo,
risulta evidente che, nel caso di avvenuta enunciazione dei
motivi, l’autorità ministeriale che pronunzi l’annullamento
deve specificare diffusamente le ragioni della riscontrata
illegittimità, con riferimento a quanto affermato dall’ente
locale. Al contrario, quando l’autorità regionale o
subregionale siano venute clamorosamente meno all’obbligo di
motivazione, risulta sufficiente il rilievo da parte del
Ministero della suddetta mancanza, non essendo stata in
concreto esternata alcuna verifica di compatibilità
dell’opera con il valore paesistico protetto, accertamento
che costituisce funzione e contenuto essenziale del nulla
osta.
In tale situazione il riferimento, contenuto nella
determinazione statale, alla natura e consistenza dell’opera
progettata ed alle caratteristiche del luogo, lungi dal
configurare un riesame del merito, si afferma come
evidenziazione dell’esistenza di un valore paesistico
tutelato e come rilievo della necessità del giudizio di
compatibilità in concreto pretermesso in relazione ad un
intervento di trasformazione del territorio, capace di
incidere, per natura ed entità, sul bene vincolato.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, dunque, può
affermarsi che il decreto di annullamento è sufficientemente
motivato in ordine al riscontrato vizio di difetto di
motivazione del nulla osta paesaggistico, giacché ha
rilevato la predetta mancanza ed ha evidenziato la
peculiarità della concreta situazione di fatto che imponeva
una adeguata esternazione delle ragioni di compatibilità
dell’intervento. La legittimità del decreto ministeriale
impugnato, sotto il profilo dell’avvenuto riscontro del
difetto di motivazione del nulla osta paesaggistico, ne
impedisce l’annullamento in virtù del principio
giurisprudenziale in premessa ricordato e consente
l’assorbimento dell’esame dei residui motivi di ricorso".
Deve solo aggiungersi che, ad escludere la rilevanza
viziante della carenza motivazionale correttamente ravvisata
dall'amministrazione intimata a carico dell'annullata
autorizzazione paesaggistica, non varrebbe richiamare
(attraverso una applicazione ante litteram dei
principi fissati dall'art. 21-octies l. n. 241/1990)
l'inidoneità delle opere de quibus ad arrecare
pregiudizio alcuno ai valori paesaggistici oggetto di
tutela, soprattutto in considerazione delle loro (affermate)
modeste dimensioni: trattasi infatti di circostanza
suscettibile di orientare, adeguatamente valutata ed
esternata in sede motivazionale, l'esercizio del potere
autorizzatorio comunale, ma inidonea ad impedire la sanzione
caducatoria (applicata dall'amministrazione statale nei
confronti dell'autorizzazione paesaggistica carente sul
piano giustificativo) a pena di ribaltamento del corretto
rapporto istituzionale che, nel settore della tutela del
paesaggio, vede (rectius, vedeva) contrapposti (nel
senso della alterità, non della conflittualità dei
rispettivi ruoli) l'amministrazione locale preposta alla
valutazione (di merito) della compatibilità paesaggistica
dell'intervento e quella statale responsabile del controllo
(di legittimità) della rispondenza dell'autorizzazione
eventualmente rilasciata agli inderogabili parametri di
legge.
La sufficienza del rilievo concernente la carenza
motivazionale dell'autorizzazione annullata, al fine di
integrare i presupposti legittimanti l'adozione del
provvedimento di annullamento, consente di prescindere
dall'esame delle ulteriori censure articolate dalla parte
ricorrente, a cominciare da quella incentrata sulla
contraddittorietà della determinazione di annullamento
rispetto al parere favorevole (asseritamente) espresso
dall'intimata amministrazione con riguardo al progetto di
variante precedentemente presentato ed avente ad oggetto le
stesse opere interessate dall'istanza di condono cui si
riferisce il provvedimento impugnato (identità peraltro
smentita dal provvedimento impugnato, laddove evidenzia che
“negli elaborati grafici trasmessi sono indicate come
"superfici da condonare" le parti dell'edificio eseguite in
difformità rispetto a quanto rappresentato negli elaborati
tecnici inerenti la citata variante in corso d'opera”)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 24.10.2012 n. 1941 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Sussiste
la giurisdizione del g.a. sulle controversie relative
all’esecuzione delle convenzioni urbanistiche, e quindi
anche sull’accertamento di eventuali violazioni e
sull’irrogazione delle conseguenti sanzioni previste, le
convenzioni urbanistiche rientrano, infatti, nella categoria
degli accordi procedimentali ex art. 11 l. n. 241 del 1990,
con conseguente giurisdizione esclusiva del g.a.. La
giurisdizione del g.a. sulle controversie in questione è
attualmente confermata dagli artt. 7, 133, comma 1, lett.
a), n. 2, e 133, comma 1, lett. d) c.p.a..
Le convenzioni urbanistiche, attuative di un p.i.p.,
rientrano tra gli “accordi sostitutivi” del provvedimento
per i quali l’art. 11, comma 5, l. n. 241 del 1990 prevede
la giurisdizione esclusiva del g. a. sulle controversie
relative alla loro formazione, conclusione ed esecuzione.
---------------
È legittima la deliberazione della giunta comunale con la
quale è stato disposto di procedere, nei confronti di
assegnatari di aree PEEP, al recupero di somme conseguenti
ad una nuova determinazione dell’indennità di esproprio
operata con sentenza dalla Corte di Appello all’esito del
giudizio di opposizione alla stima in precedenza effettuata
della commissione provinciale, sentenza (motivata con
riguardo alla sopravvenuta normativa, di cui all’art. 2,
commi 89 e 90, della l. n. 244 del 2007, i quali nel
frattempo avevano modificato i criteri per il calcolo
dell’indennità di esproprio) resa dopo l’avvio del
procedimento per l’assegnazione dei lotti espropriati e la
loro cessione in proprietà, in conseguenza della quale il
Comune ha dovuto corrispondere al proprietario l’ulteriore
importo oltre ad interessi legali e ha così stabilito di
recuperare la maggior somma nei confronti degli assegnatari,
compresi gli acquirenti finali degli alloggi, in misura
proporzionale alla superficie dagli stessi acquisita,
secondo quanto disposto dall’art. 35 della l. n. 865 del
1971: tale norma, infatti, dispone che i prezzi delle aree
cedute per la realizzazioni dei P.E.E.P. devono, nel loro
insieme, assicurare la copertura delle spese sostenute dal
comune o dal consorzio per l’acquisizione delle aree, così
enunciando la regola per cui i costi inerenti la procedura
espropriativa devono gravare totalmente sugli assegnatari, e
non sull’Amministrazione espropriante.
Allorché la giunta comunale abbia disposto di procedere, nei
confronti di assegnatari di aree PEEP, al recupero di somme
conseguenti ad una nuova determinazione dell’indennità di
esproprio operata con sentenza dalla Corte di Appello
all’esito del giudizio di opposizione alla stima in
precedenza effettuata della commissione provinciale, se pure
nelle convenzioni erano stati puntualmente quantificati sia
il costo per l’acquisizione delle aree sia le spese per
l’urbanizzazione, ciò non esclude il diritto del Comune di
pretendere il rimborso anche degli ulteriori importi:
infatti, tale adeguamento dei costi deve comunque ritenersi
operante ex art. 35, l. n. 865 del 1971 ed art. 1339 c.c.
(inserzione automatica di clausole e di prezzi imposti per
legge).
---------------
In materia di piani per le aree da destinare ad insediamenti
produttivi (p.i.p.) previsti e disciplinati dall’art. 27, l.
22.10.1971 n. 865, deve ritenersi che, nonostante l’espressa
quantificazione del costo delle aree e delle spese di
urbanizzazione, come contenuta nella convenzione–contratto
stipulata tra le parti, il comune abbia diritto a ripetere
dai singoli acquirenti l’importo pro quota di quanto
effettivamente speso per l’acquisizione delle aree e per le
spese di urbanizzazione. Ciò anche nell’ipotesi in cui
nessuna riserva in tal senso fosse contenuta nel contratto
stesso, dovendosi ritenere operante il meccanismo di
inserzione automatica di clausole per l’integrazione del
contenuto del contratto prevista dall’art. 1339 del codice
civile, in relazione alla natura inderogabile della
disposizione legislativa sopra richiamata in tema di
copertura delle spese sostenute dall’Ente pubblico per gli
scopi in questione”.
I piani per le aree da destinare ad insediamenti produttivi
sono previsti e disciplinati dalla l. 22.10.1971, n. 865 il
cui art. 27 stabilisce che “I comuni dotati di piano
regolatore generale o di programma di fabbricazione
approvati possono formare, previa autorizzazione della
Regione, un piano delle aree da destinare a insediamenti
produttivi”.
Le aree comprese nel piano approvato sono espropriate dai
comuni o da loro consorzi ed utilizzate per la realizzazione
di impianti produttivi di carattere industriale,
artigianale, commerciale e turistico mediante la cessione in
proprietà o la concessione del diritto di superficie sulle
aree medesime.
Dispone, poi, l’ultimo comma della citata disposizione che
“Contestualmente all’atto di concessione, o all’atto di
cessione della proprietà dell’area, tra il comune da una
parte e il concessionario o l’acquirente dall’altra, viene
stipulata una convenzione per atto pubblico con la quale
vengono disciplinati gli oneri posti a carico del
concessionario o dell’acquirente e le sanzioni per la loro
inosservanza”.
Analoghe disposizioni sono contenute nell’art. 35 per quanto
riguarda i piani per l’edilizia economica e popolare nel
quale, peraltro, sono dettagliatamente stabiliti i contenuti
della convenzione da stipularsi con i soggetti assegnatari
delle aree, nonché il principio per cui “il prezzo di
cessione delle aree è determinato in misura pari al costo di
acquisizione delle aree stesse (...)”.
In proposito non si è mancato di rilevare l’analoga funzione
di promozione sociale svolta da entrambe le tipologie di
piani che, attraverso lo strumento dell’espropriazione, si
propongono l’intento di offrire ai soggetti assegnatari, ad
un prezzo inferiore a quello di mercato, le aree necessarie
per la realizzazione di attività imprenditoriali o di case
di abitazione producendo, di fatto, un trasferimento di
ricchezza dal proprietario espropriato all’assegnatario di
aree a basso prezzo.
Ne consegue che la disciplina pubblicistica di cui all’art.
27 l. n. 865 cit. non si esaurisce alla fase di
delimitazione, individuazione ed espropriazione delle aree
ma caratterizza anche il trasferimento ai privati, da parte
del Comune, delle aree suddette, riflettendosi
necessariamente sugli oneri e le sanzioni previste a carico
dei privati nella convenzione relativa alla cessione di cui
si palesa evidente la preordinazione alla tutela
dell’interesse pubblico.
Sulla scorta di tale premessa deve ritenersi che, nonostante
l’espressa quantificazione del costo delle aree e delle
spese di urbanizzazione, come contenuta nella
convenzione–contratto stipulata tra le parti, il Comune
abbia diritto a ripetere dai singoli acquirenti l’importo
pro quota di quanto effettivamente speso per l’acquisizione
delle aree e per le spese di urbanizzazione. Ciò anche
nell’ipotesi in cui nessuna riserva in tal senso fosse
contenuta nel contratto stesso, dovendosi ritenere operante
il meccanismo di inserzione automatica di clausole per
l’integrazione del contenuto del contratto prevista
dall'art. 1339 del codice civile, in relazione alla natura
inderogabile della disposizione legislativa sopra richiamata
in tema di copertura delle spese sostenute dall’Ente
pubblico per gli scopi questione.
---------------
Nell’ipotesi in cui l’acquisizione delle aree da destinare
alla realizzazione dei piani di edilizia economica e
popolare avvenga non già mediante le procedure espropriative
di legge, bensì come effetto di un fatto illecito che, da un
lato, determina l’acquisto della proprietà del suolo di mano
pubblica e, dall’altro, fa sorgere nei proprietari delle
aree il diritto al risarcimento del danno per la perdita
della proprietà ai sensi dell’art. 2043 c.c., il principio
dell’integrale copertura dei costi sostenuti per l’acquisto
viene meno, atteso che si è fuori dalla lettera e dalla
ratio dell’art. 35, l. 22.10.1971 n. 865, non potendosi fare
ricadere sui concessionari delle aree e loro aventi causa i
maggiori costi determinatisi in forza di una acquisizione
delle aree realizzate con un fatto civilisticamente
illecito, quale l’occupazione acquisitiva; il principio
dell’integrale copertura dei costi di acquisto delle aree è
infatti espressione di una garanzia economica nei confronti
dell’ente procedente, ma contiene in sé anche un principio
di garanzia giuridica verso il beneficiario, che è obbligato
nei confronti del Comune nei soli limiti impostigli dalla
legge e dal corretto comportamento dell’Amministrazione,
legato alla corretta acquisizione delle aree nel rispetto
della procedura espropriativa prevista dalla legge.
---------------
In sede di concessione di aree o lotti di un piano per
insediamenti produttivi (P.I.P.), trova applicazione il
principio generale di cui all’art. 35 della l. 22.10.1971,
n. 865, in base al quale il prezzo di cessione delle aree da
destinare all’edilizia residenziale pubblica è determinato
in misura pari al costo di acquisizione delle aree stesse,
nonché al costo delle relative opere di urbanizzazione in
proporzione al volume edificabile.
Come di recente affermato in giurisprudenza: “Sussiste la
giurisdizione del g.a. sulle controversie relative
all’esecuzione delle convenzioni urbanistiche, e quindi
anche sull’accertamento di eventuali violazioni e
sull’irrogazione delle conseguenti sanzioni previste, le
convenzioni urbanistiche rientrano, infatti, nella categoria
degli accordi procedimentali ex art. 11 l. n. 241 del 1990,
con conseguente giurisdizione esclusiva del g.a.. La
giurisdizione del g.a. sulle controversie in questione è
attualmente confermata dagli artt. 7, 133, comma 1, lett.
a), n. 2, e 133, comma 1, lett. d) c.p.a. (nella specie
veniva in rilievo una convenzione urbanistica stipulata per
la realizzazione di un intervento in area PEEP)” –
Consiglio di Stato – Sez. IV – 02.02.2012, n. 616 (conferma
TAR Veneto, Sezione II, 05.07.2010, n. 2783).
Cfr. anche la seguente ulteriore massima: “Le convenzioni
urbanistiche, attuative di un p.i.p., rientrano tra gli
“accordi sostitutivi” del provvedimento per i quali l’art.
11, comma 5, l. n. 241 del 1990 prevede la giurisdizione
esclusiva del g. a. sulle controversie relative alla loro
formazione, conclusione ed esecuzione” – Consiglio di
Stato – Sez. IV – 16.02.2011, n. 1014 (Riforma TAR Toscana,
Sez. I, n. 733 del 2004).
Nel merito, la pretesa dei ricorrenti, a sottrarsi al
pagamento delle maggiori somme dovute per l’esproprio delle
aree comprese nel P.I.P., a seguito della sentenza della
Corte d’Appello di Salerno, che in accoglimento dell’azione
esercitata dai proprietari dei suoli, ha condannato il
Comune di Eboli a corrispondere ai medesimi un’indennità di
esproprio commisurata al valore venale dei suoli,
considerati come edificatori, in base quindi ad un valore al
mq. assai superiore a quello al quale le aree erano state
inizialmente cedute agli assegnatari, tra cui le ricorrenti,
non può essere accolta.
La giurisprudenza è unanimemente orientata, infatti, in
senso contrario.
“È legittima la deliberazione della giunta comunale con
la quale è stato disposto di procedere, nei confronti di
assegnatari di aree PEEP, al recupero di somme conseguenti
ad una nuova determinazione dell’indennità di esproprio
operata con sentenza dalla Corte di Appello all’esito del
giudizio di opposizione alla stima in precedenza effettuata
della commissione provinciale, sentenza (motivata con
riguardo alla sopravvenuta normativa, di cui all’art. 2,
commi 89 e 90, della l. n. 244 del 2007, i quali nel
frattempo avevano modificato i criteri per il calcolo
dell’indennità di esproprio) resa dopo l’avvio del
procedimento per l’assegnazione dei lotti espropriati e la
loro cessione in proprietà, in conseguenza della quale il
Comune ha dovuto corrispondere al proprietario l’ulteriore
importo oltre ad interessi legali e ha così stabilito di
recuperare la maggior somma nei confronti degli assegnatari,
compresi gli acquirenti finali degli alloggi, in misura
proporzionale alla superficie dagli stessi acquisita,
secondo quanto disposto dall’art. 35 della l. n. 865 del
1971: tale norma, infatti, dispone che i prezzi delle aree
cedute per la realizzazioni dei P.E.E.P. devono, nel loro
insieme, assicurare la copertura delle spese sostenute dal
comune o dal consorzio per l’acquisizione delle aree, così
enunciando la regola per cui i costi inerenti la procedura
espropriativa devono gravare totalmente sugli assegnatari, e
non sull’Amministrazione espropriante” (TAR Veneto –
Sez. II – 13.10.2011, n. 1561).
Altra massima tratta dalla stessa sentenza: “Allorché la
giunta comunale abbia disposto di procedere, nei confronti
di assegnatari di aree PEEP, al recupero di somme
conseguenti ad una nuova determinazione dell’indennità di
esproprio operata con sentenza dalla Corte di Appello
all’esito del giudizio di opposizione alla stima in
precedenza effettuata della commissione provinciale, se pure
nelle convenzioni erano stati puntualmente quantificati sia
il costo per l’acquisizione delle aree sia le spese per
l’urbanizzazione, ciò non esclude il diritto del Comune di
pretendere il rimborso anche degli ulteriori importi:
infatti, tale adeguamento dei costi deve comunque ritenersi
operante ex art. 35, l. n. 865 del 1971 ed art. 1339 c.c.
(inserzione automatica di clausole e di prezzi imposti per
legge)”.
Lo stesso principio è stato affermato anche per le aree
comprese in zona p.i.p.: “In materia di piani per le aree
da destinare ad insediamenti produttivi previsti e
disciplinati dall’art. 27, l. 22.10.1971 n. 865, deve
ritenersi che, nonostante l’espressa quantificazione del
costo delle aree e delle spese di urbanizzazione, come
contenuta nella convenzione–contratto stipulata tra le
parti, il comune abbia diritto a ripetere dai singoli
acquirenti l’importo pro quota di quanto effettivamente
speso per l’acquisizione delle aree e per le spese di
urbanizzazione. Ciò anche nell’ipotesi in cui nessuna
riserva in tal senso fosse contenuta nel contratto stesso,
dovendosi ritenere operante il meccanismo di inserzione
automatica di clausole per l’integrazione del contenuto del
contratto prevista dall’art. 1339 del codice civile, in
relazione alla natura inderogabile della disposizione
legislativa sopra richiamata in tema di copertura delle
spese sostenute dall’Ente pubblico per gli scopi in
questione” (TAR Toscana – Sez. I – 28.06.2006, n. 2956).
In motivazione, la suddetta sentenza specificava che: “I
piani per le aree da destinare ad insediamenti produttivi
sono previsti e disciplinati dalla l. 22.10.1971, n. 865 il
cui art. 27 stabilisce che “I comuni dotati di piano
regolatore generale o di programma di fabbricazione
approvati possono formare, previa autorizzazione della
Regione, un piano delle aree da destinare a insediamenti
produttivi”;
Le aree comprese nel piano approvato sono espropriate dai
comuni o da loro consorzi ed utilizzate per la realizzazione
di impianti produttivi di carattere industriale,
artigianale, commerciale e turistico mediante la cessione in
proprietà o la concessione del diritto di superficie sulle
aree medesime.
Dispone, poi, l’ultimo comma della citata disposizione
che “Contestualmente all’atto di concessione, o all’atto di
cessione della proprietà dell’area, tra il comune da una
parte e il concessionario o l’acquirente dall’altra, viene
stipulata una convenzione per atto pubblico con la quale
vengono disciplinati gli oneri posti a carico del
concessionario o dell’acquirente e le sanzioni per la loro
inosservanza”.
Analoghe disposizioni sono contenute nell’art. 35 per
quanto riguarda i piani per l’edilizia economica e popolare
nel quale, peraltro, sono dettagliatamente stabiliti i
contenuti della convenzione da stipularsi con i soggetti
assegnatari delle aree, nonché il principio per cui “il
prezzo di cessione delle aree è determinato in misura pari
al costo di acquisizione delle aree stesse (...)”.
In proposito non si è mancato di rilevare l’analoga funzione
di promozione sociale svolta da entrambe le tipologie di
piani che, attraverso lo strumento dell’espropriazione, si
propongono l’intento di offrire ai soggetti assegnatari, ad
un prezzo inferiore a quello di mercato, le aree necessarie
per la realizzazione di attività imprenditoriali o di case
di abitazione producendo, di fatto, un trasferimento di
ricchezza dal proprietario espropriato all’assegnatario di
aree a basso prezzo (Consiglio Stato, sez. IV, 22.05.2000,
n. 2939).
Ne consegue che la disciplina pubblicistica di cui all’art.
27 l. n. 865 cit. non si esaurisce alla fase di
delimitazione, individuazione ed espropriazione delle aree
ma caratterizza anche il trasferimento ai privati, da parte
del Comune, delle aree suddette, riflettendosi
necessariamente sugli oneri e le sanzioni previste a carico
dei privati nella convenzione relativa alla cessione di cui
si palesa evidente la preordinazione alla tutela
dell’interesse pubblico (Cassazione civile, sez. I,
27.09.1997, n. 9508).
Sulla scorta di tale premessa deve ritenersi che,
nonostante l’espressa quantificazione del costo delle aree e
delle spese di urbanizzazione, come contenuta nella
convenzione–contratto stipulata tra le parti, il Comune
abbia diritto a ripetere dai singoli acquirenti l’importo
pro quota di quanto effettivamente speso per l’acquisizione
delle aree e per le spese di urbanizzazione. Ciò anche
nell’ipotesi in cui nessuna riserva in tal senso fosse
contenuta nel contratto stesso, dovendosi ritenere operante
il meccanismo di inserzione automatica di clausole per
l’integrazione del contenuto del contratto prevista
dall'art. 1339 del codice civile, in relazione alla natura
inderogabile della disposizione legislativa sopra richiamata
in tema di copertura delle spese sostenute dall’Ente
pubblico per gli scopi questione (Consiglio di stato, Sez.
V, 01.12.2003, n. 7820; id., sez. IV, 21.02.2005, n. 577)”.
Ai principi di cui sopra si è ritenuto che sia possibile
derogare esclusivamente (ma non è il caso che viene in esame
nella specie) quando –anziché di una procedura
espropriativa, condotta secondo la scansione procedimentale
imposta dalla legge– ci si trovi in cospetto di un fatto
illecito, sotto il profilo civilistico, quale l’occupazione
acquisitiva, giusta la massima –espressione di un indirizzo
pacifico– che segue: “Nell’ipotesi in cui l’acquisizione
delle aree da destinare alla realizzazione dei piani di
edilizia economica e popolare avvenga non già mediante le
procedure espropriative di legge, bensì come effetto di un
fatto illecito che, da un lato, determina l’acquisto della
proprietà del suolo di mano pubblica e, dall’altro, fa
sorgere nei proprietari delle aree il diritto al
risarcimento del danno per la perdita della proprietà ai
sensi dell’art. 2043 c.c., il principio dell’integrale
copertura dei costi sostenuti per l’acquisto viene meno,
atteso che si è fuori dalla lettera e dalla ratio dell’art.
35, l. 22.10.1971 n. 865, non potendosi fare ricadere sui
concessionari delle aree e loro aventi causa i maggiori
costi determinatisi in forza di una acquisizione delle aree
realizzate con un fatto civilisticamente illecito, quale
l’occupazione acquisitiva; il principio dell’integrale
copertura dei costi di acquisto delle aree è infatti
espressione di una garanzia economica nei confronti
dell’ente procedente, ma contiene in sé anche un principio
di garanzia giuridica verso il beneficiario, che è obbligato
nei confronti del Comune nei soli limiti impostigli dalla
legge e dal corretto comportamento dell’Amministrazione,
legato alla corretta acquisizione delle aree nel rispetto
della procedura espropriativa prevista dalla legge”
(Consiglio Stato – Sez. IV – 22.07.2010, n. 4813) (Annulla
Tar Puglia, Bari, sez. II, 20.02.2004, n. 169).
---------------
La prospettiva, adottata dai ricorrenti, non può essere
seguita, per la semplice ma dirimente ragione che il
principio dell’integrale copertura dei costi sostenuti per
l’acquisizione delle aree da assegnare in zona p.i.p. è
sancito, in maniera inderogabile, dalla legge e non può
essere superato, in virtù di considerazioni imperniate
sull’affidamento, in tesi ingenerato nei ricorrenti (per
effetto della condotta, violativa del principio di buona
fede, del Comune) circa la definitività del prezzo di
cessione di tali aree (cfr. l’ulteriore massima che segue: “In
sede di concessione di aree o lotti di un piano per
insediamenti produttivi (P.I.P.), trova applicazione il
principio generale di cui all’art. 35 della l. 22.10.1971,
n. 865, in base al quale il prezzo di cessione delle aree da
destinare all’edilizia residenziale pubblica è determinato
in misura pari al costo di acquisizione delle aree stesse,
nonché al costo delle relative opere di urbanizzazione in
proporzione al volume edificabile” – TAR Sardegna – Sez.
I – 26.03.2010, n. 364)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 24.10.2012 n. 1939 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nell’arco temporale anteriore
alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 157 del 2006 le
domande di accertamento di compatibilità paesaggistica ex
art. 181, comma 1-quater, del d.lgs. n. 42 del 2004 erano
preordinate al solo esonero da responsabilità penale per il
reato contravvenzionale ivi previsto, di modo che nessun
effetto di sanatoria era suscettibile di determinarsi sotto
il profilo amministrativo, a meno che –fino all’esaurirsi
della fase transitoria regolata dall’art. 159–
l’Amministrazione non ritenesse di poter rilasciare
un’autorizzazione postuma.
Con il sopraggiungere, invece, dell’assetto normativo dovuto
al d.lgs. n. 157 del 2006, si è imposto il principio della
duplice rilevanza –sia in àmbito penale sia in àmbito
amministrativo– dell’accertamento di compatibilità
paesaggistica delle opere realizzate in assenza o difformità
dal titolo abilitativo, con l’effetto di assoggettare al
nuovo regime anche i procedimenti ancora pendenti al momento
dell’entrata in vigore della normativa di riforma del
settore, in linea del resto con l’inapplicabilità in simili
casi dell’istituto del silenzio-assenso e con l’operatività,
a fronte dell’eventuale inosservanza del termine perentorio
ivi previsto, del diverso istituto del silenzio-rifiuto.
---------------
Essendo nella circostanza l’abuso
caratterizzato da un aumento di volumetria, legittimamente
l’Amministrazione comunale ha opposto la sussistenza di una
ragione ostativa all’autorizzazione postuma, in relazione al
divieto insito nella fattispecie di cui all’art. 167, comma
4, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004 (risultante dalle
modifiche introdotte dal d.lgs. n. 157/2006).
Né rileva il fatto che la presentazione della domanda di
accertamento di compatibilità paesaggistica risalisse
all’anno 2005, nella vigenza della precedente disciplina, e
che sarebbe rimasto inosservato il termine perentorio per
provvedere, essendo notorio che, in ragione del principio
del tempus regit actum, deve essere sempre applicata la
normativa vigente al momento dell’adozione del provvedimento
–e quindi della conclusione del procedimento–, ancorché si
tratti di normativa emanata dopo la presentazione della
domanda del privato e ancorché l’Amministrazione abbia
provveduto tardivamente sull’istanza, attesa oltretutto
l’inapplicabilità –in questa materia– dell’istituto del
silenzio-assenso.
Occorre preliminarmente definire il quadro
normativo di riferimento, alla luce anche degli orientamenti
interpretativi prevalsi in giurisprudenza (v., tra le altre,
Cons. Stato, Sez. VI, 21.05.2009 n. 3140; TAR Puglia, Lecce,
Sez. I, 13.04.2011 n. 669; TAR Campania, Napoli, Sez. VII,
21.04.2009 n. 2088; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II,
14.01.2009 n. 10; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 10.09.2008
n. 4037).
La formulazione originaria dell’art. 146, comma 10, del
d.lgs. n. 42 del 2004 («Codice dei beni culturali e del
paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della L. 06.07.2002, n.
137») prevedeva che “l’autorizzazione paesaggistica …
non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla
realizzazione, anche parziale, degli interventi”, ma
l’operatività del divieto veniva rinviata dal successivo
art. 159 ad una fase posteriore alla conclusione del periodo
transitorio ivi disciplinato, sicché la preclusione legale
al rilascio di un’autorizzazione paesaggistica postuma non
entrava immediatamente in vigore; al contempo, l’art. 167
stabiliva che, in caso di abuso (non rimosso con un titolo
abilitativo ex post), il “…trasgressore è tenuto, secondo
che l’autorità amministrativa preposta alla tutela
paesaggistica ritenga più opportuno nell’interesse della
protezione dei beni indicati nell’articolo 134, alla
rimessione in pristino a proprie spese o al pagamento di una
somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato
e il profitto conseguito mediante la trasgressione …”.
Una sanatoria ai fini penali, in via autonoma, veniva
introdotta dai commi 1-ter e 1-quater dell’art. 181
(aggiunti dall’art. 1, comma 36, della legge n. 308 del
2004) limitatamente ai c.d. “abusi minori”, quali –ad
es.– i “…lavori, realizzati in assenza o difformità
dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati …” [comma
1-ter, lett. a)], e ciò a mezzo di “…apposita domanda
all’autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini
dell’accertamento della compatibilità paesaggistica degli
interventi medesimi. L’autorità competente si pronuncia
sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta
giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da
rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni”
(comma 1-quater); con il risultato che l’accertamento della
compatibilità paesaggistica ivi previsto esplicava effetti
solo sull’applicazione delle misure penali e non dava luogo
ad alcuna forma di regolarizzazione degli abusi sotto il
profilo amministrativo, che presupponeva invece
un’autorizzazione distinta (il comma 1-ter precisava: “ferma
restando l’applicazione delle sanzioni amministrative
ripristinatorie o pecuniarie di cui all’articolo 167”).
L’automatica estensione della regolarizzazione all’àmbito
amministrativo interveniva successivamente, con la riforma
operata dal d.lgs. n. 157 del 2006, atteso che, in virtù
delle modifiche normative in tal modo disposte, l’art. 146,
comma 12, veniva a prevedere –a regime– un temperamento al
precedente assoluto divieto di autorizzazione postuma (“L’autorizzazione
paesaggistica, fuori dai casi di cui all’articolo 167, commi
4 e 5, non può essere rilasciata in sanatoria
successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli
interventi”) e l’art. 167 veniva a far proprio un
meccanismo di sanatoria analogo a quello già in essere ai
fini penali, sia per quanto stabilito al comma 4 (“L’autorità
amministrativa competente accerta la compatibilità
paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei
seguenti casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o
difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non
abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; b) …; c)
…”) sia per quanto stabilito al comma 5 (“Il
proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo
dell’immobile o dell’area interessati dagli interventi di
cui al comma 4 presenta apposita domanda all’autorità
preposta alla gestione del vincolo ai fini dell’accertamento
della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi.
L’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il
termine perentorio di centottanta giorni, previo parere
vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine
perentorio di novanta giorni. Qualora venga accertata la
compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al
pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra
il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la
trasgressione. L’importo della sanzione pecuniaria è
determinato previa perizia di stima. In caso di rigetto
della domanda si applica la sanzione demolitoria di cui al
comma 1 …”), con conseguente modifica del regime
sanzionatorio di cui al comma 1 (“…il trasgressore è
sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese,
fatto salvo quanto previsto al comma 4”); il raccordo
con le determinazioni da assumere ai fini penali, poi,
veniva realizzato sia prescrivendo al comma 5 dell’art. 167
che la “…domanda di accertamento della compatibilità
paesaggistica presentata ai sensi dell’articolo 181, comma
1-quater, si intende presentata anche ai sensi e per gli
effetti di cui al presente comma”, sia prescrivendo –in
via transitoria– all’art. 182, comma 3-quater, che “agli
accertamenti della compatibilità paesaggistica effettuati,
alla data di entrata in vigore della presente disposizione,
ai sensi dell’articolo 181, comma 1-quater, si applicano le
sanzioni di cui all’articolo 167, comma 5”.
In conclusione, nell’arco temporale anteriore alle modifiche
apportate dal d.lgs. n. 157 del 2006 le domande di
accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 181,
comma 1-quater, del d.lgs. n. 42 del 2004 erano preordinate
al solo esonero da responsabilità penale per il reato
contravvenzionale ivi previsto, di modo che nessun effetto
di sanatoria era suscettibile di determinarsi sotto il
profilo amministrativo, a meno che –fino all’esaurirsi della
fase transitoria regolata dall’art. 159– l’Amministrazione
non ritenesse di poter rilasciare un’autorizzazione postuma;
con il sopraggiungere, invece, dell’assetto normativo dovuto
al d.lgs. n. 157 del 2006, si è imposto il principio della
duplice rilevanza –sia in àmbito penale sia in àmbito
amministrativo– dell’accertamento di compatibilità
paesaggistica delle opere realizzate in assenza o difformità
dal titolo abilitativo, con l’effetto di assoggettare al
nuovo regime anche i procedimenti ancora pendenti al momento
dell’entrata in vigore della normativa di riforma del
settore, in linea del resto con l’inapplicabilità in simili
casi dell’istituto del silenzio-assenso e con l’operatività,
a fronte dell’eventuale inosservanza del termine perentorio
ivi previsto, del diverso istituto del silenzio-rifiuto.
Ciò posto, essendo nella circostanza l’abuso caratterizzato
da un aumento di volumetria, legittimamente
l’Amministrazione comunale ha opposto la sussistenza di una
ragione ostativa all’autorizzazione postuma, in relazione al
divieto insito nella fattispecie di cui all’art. 167, comma
4, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004 (risultante dalle
modifiche introdotte dal d.lgs. n. 157/2006).
Né rileva il fatto che la presentazione della domanda di
accertamento di compatibilità paesaggistica risalisse
all’anno 2005, nella vigenza della precedente disciplina, e
che sarebbe rimasto inosservato il termine perentorio per
provvedere, essendo notorio che, in ragione del principio
del tempus regit actum, deve essere sempre applicata
la normativa vigente al momento dell’adozione del
provvedimento –e quindi della conclusione del procedimento–,
ancorché si tratti di normativa emanata dopo la
presentazione della domanda del privato (v., ex multis,
TAR Lazio, Sez. II, 06.03.2012 n. 2249) e ancorché
l’Amministrazione abbia provveduto tardivamente sull’istanza
(v., tra le altre, TAR Veneto, Sez. I, 07.05.2010 n. 1850),
attesa oltretutto l’inapplicabilità –in questa materia–
dell’istituto del silenzio-assenso (v. TAR Puglia, Lecce,
Sez. I, 13.04.2011 n. 669)
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 24.10.2012 n. 634 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Consiglio di stato sull'autorizzazione unica. Sul fotovoltaico
termini perentori.
È perentorio il termine per la conclusione dei procedimento
di autorizzazione unica ex art. 12 del dlgs 387/2003 (180
giorni, ora 90 giorni dopo le modifiche del dlgs 28/2011)
per la realizzazione di un impianto fotovoltaico destinato
alla produzione di energia elettrica da fonte solare
rinnovabile.
La mancata adozione di un provvedimento espresso sulla
richiesta autorizzazione unica è del tutto ingiustificata e
configura un sostanziale inadempimento, avuto riguardo al
termine perentorio di 180 giorni entro cui doveva
concludersi il relativo procedimento. Vi era quindi
l'obbligo della regione di condurre il procedimento nel
rispetto della normativa di settore, espressione dei
principi di economicità, e di efficacia dell'azione
amministrativa, nonché dei principi dell'ordinamento
comunitario, concludendo lo stesso nel termine
tassativamente prescritto.
Questo è quanto espresso dal
Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 23.10.2012 n. 5413.
I giudici di Palazzo Spada confermando un orientamento
consolidato condannano la pubblica amministrazione regionale
che, dopo la richiesta dell'autorizzazione unica per
realizzare un impianto fotovoltaico non aveva adottato un
provvedimento espresso nel termine perentorio previsto
dall'articolo 12, dlgs 387/2003.
I Supremi giudici ricordano
che la Corte costituzionale (sentenza 09.11.2006, n.
364; Corte cost. sentenza n. 282/2009) ha ribadito la
perentorietà del termine di conclusione delle procedure autorizzative in materia di impianti di produzione di
energia elettrica da fonti rinnovabili.
La perentorietà
costituisce il principio fondamentale in materia di
produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia
e risulta ispirato alle regole della semplificazione
amministrativa e della celerità garantendo, in modo uniforme
sull'intero territorio nazionale la conclusione entro un
termine definito del procedimento autorizzativo
(articolo ItaliaOggi del 10.11.2012). |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
27 del t.u. dell'edilizia (ex art. 7 l. n. 47 del 1985) è
applicabile sia in presenza della fase iniziale delle
lavorazioni che di opere già eseguite e non vede la sua
efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità
assoluta.
---------------
Il provvedimento
sanzionatorio trova giustificazione del tutto sufficiente
nell’indicazione degli abusi realizzati “in difetto dei
prescritti titoli abilitativi” su territorio assoggettato a
vincolo paesaggistico, con la ulteriore conseguenza che non
può essere predicata alcuna violazione delle garanzie
partecipative.
---------------
Ex combinato disposto fra art. 31 e 34 del d.P.R. n. 380 del
2001, l'eventuale pregiudizio derivante dalla demolizione
delle opere abusive rispetto al manufatto esistente viene in
rilievo solo se si è in presenza “di interventi realizzati
in parziale difformità dal permesso di costruire”.
E' il responsabile dell'abuso a doversi primariamente
preoccupare di effettuare la demolizione parziale con tutte
le cautele tecniche necessarie per evitare qualsiasi
pregiudizio strutturale, fermo che, da parte
dell’amministrazione, l’esigibilità dell’adempimento
richiesto al privato sarà (andrà) comprovata in appresso, in
sede di eventuale esecuzione di ufficio della demolizione,
ovvero determinerà quanti effetti risarcitori avessero a
prodursi per la contraria ipotesi.
La possibilità di non procedere alla rimozione delle parti
abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime
costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva,
subordinata alla circostanza dell'impossibilità del
ripristino dello stato dei luoghi.
Migliore sorte non può essere
conferita al secondo mezzo, in quanto a differenza di quanto
assume, del tutto genericamente, parte ricorrente:
- come già sopra precisato, il provvedimento impugnato non
ingiunge la demolizione dell’intera opera;
- alla luce della disciplina vigente e della consolidata
giurisprudenza formatasi sul testo normativo antecedente,
l'art. 27 del t.u. dell'edilizia (ex art. 7 l. n. 47 del
1985) è applicabile sia in presenza della fase iniziale
delle lavorazioni che di opere già eseguite e non vede la
sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità
assoluta (cfr. Tar Campania, questa sesta sezione, ex
multis, n. 2636 del 05.06.2012, n. 1302 del 16.03.2012,
n. 5804 del 14.12.2011, n. 2382 del 28.04.2011; n. 1636 del
23.03.2011, n. 2814 del 06.05.2010, n. 2076 del 21.04.2010,
n. 1775 del 07.04.2010, n. 1731 del 30.03.2010 e n.
10.03.2011, n. 1410; e cfr. anche, sezione terza,
11.03.2009, n. 1376 e Tribunale Roma, 28.04.2000).
---------------
Infondati sono poi i mezzi a seguire che possono essere
accomunati nell’esame. Ed invero, sempre per consolidata
giurisprudenza, in essa compresa quella della Sezione fin
qui riportata e cui si rinvia:
- alcun onere di verifica della compatibilità delle opere
con la strumentazione urbanistica risiedeva in capo
all’amministrazione, stante anche -lo si ribadisce-
l’avvenuta realizzazione dell’intervento in difetto di
autorizzazione paesaggistica non rilasciabile a sanatoria ex
art. 146, comma 12, d.l.vo n. 42 del 2004 non rientrandosi,
in pacifica evidenza, nelle eccezioni ivi previste, ossia
nei casi di cui all’art. 167, comma 4 e 5, stesso decreto;
- nelle ripetute descritte condizioni, alcun rilievo può
esser attribuito alla presentazione (anch’essa genericamente
indicata) di un’istanza di accertamento di conformità
urbanistica, a fronte della quale, in assenza di attuali
contrarie indicazioni, deve ritenersi essersi formato
(all’epoca) il provvedimento di diniego ex lege;
- sempre nelle descritte condizioni, il provvedimento
sanzionatorio, quale adottato, trova giustificazione del
tutto sufficiente nell’indicazione degli abusi realizzati “in
difetto dei prescritti titoli abilitativi” su territorio
assoggettato a vincolo paesaggistico, con la ulteriore
conseguenza che non può essere predicata alcuna violazione
delle garanzie partecipative (cfr., oltre la riportata
giurisprudenza della Sezione, Cons. Stato, sezione quinta,
sentenza 07.04.2011 n. 2159).
---------------
Ancorché non vi sia in ricorso una denuncia specifica ed
espressa al riguardo, stante comunque il sia pur mero
accenno contenuto in seno all’esposizione “dei dati di
fatto”, è il caso ancora di precisare che
l’amministrazione non aveva alcun onere di valutare il
possibile pregiudizio all’esistente recato dall’esecuzione
dell’ordine di ripristino. Ciò perché:
- ex combinato disposto fra art. 31 e 34 del d.P.R. n. 380
del 2001, l'eventuale pregiudizio derivante dalla
demolizione delle opere abusive rispetto al manufatto
esistente viene in rilievo solo se si è in presenza “di
interventi realizzati in parziale difformità dal permesso di
costruire” (Tar Campania, Napoli, questa sesta sezione,
n. 2811 del 06.05.2010; sezione seconda, 27.01.2009, n.
443);
- è “il responsabile dell'abuso a doversi primariamente
preoccupare di effettuare la demolizione parziale con tutte
le cautele tecniche necessarie per evitare qualsiasi
pregiudizio strutturale” (cfr., cennata pronuncia n.
2811 del 06.05.2010 e Tar Umbria, Perugia, sezione prima,
21.01.2010, n. 24), fermo che, da parte
dell’amministrazione, “l’esigibilità dell’adempimento
richiesto al privato sarà (andrà) comprovata in appresso, in
sede di eventuale esecuzione di ufficio della demolizione,
ovvero determinerà quanti effetti risarcitori avessero a
prodursi per la contraria ipotesi” (ancora la ripetuta
pronuncia della sezione e, sezione settima, sentenza n. 9355
del 24.07.2008);
- in definitiva, “la possibilità di non procedere alla
rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio
alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della
fase esecutiva, subordinata alla circostanza
dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi”
(cfr., ex multis, fra le ultime, Tar Campania Napoli,
questa sesta sezione, n. 3538 del 24.07.2012, 18.05.2012, n.
2291 cit.; 22.02.2012, n. 913, 08.04.2011, n. 2039 e
15.07.2010, n. 16807; Salerno, sez. II, 13.04.2011, n. 702)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 23.10.2012 n.
4204
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L’acquiescenza, come accettazione del
provvedimento lesivo, va prestata con atti univoci, chiari e
concordanti, che evidenzino in modo chiaro ed incontestabile
la volontà dell’interessato di accettare il medesimo
provvedimento. Tali atti debbono, perciò, essere totalmente
incompatibili con la volontà dell’interessato di avvalersi
dell’impugnazione.
La necessità di atti o comportamenti univoci, compiuti
liberamente dal destinatario dell’atto, che dimostrino la
chiara ed incondizionata (cioè non rimessa ad eventi futuri
ed incerti) volontà di questi di accettarne gli effetti e
l’operatività, porta ad escludere che possa affermarsi la
sussistenza dell’acquiescenza per mera presunzione, non
potendosi in questo caso trovare riscontro univoco della
volontà dell’interessato di accettare tutte le conseguenze
derivanti dall’atto amministrativo.
Si è poi chiarito che sussistono, in via di principio, gli
estremi della rinuncia preventiva all’iniziativa
giurisdizionale ove la condotta consapevole da parte
dell’avente titolo all’impugnazione, libera e diretta in
maniera inequivocabile ad accettare l’assetto di interessi
definito dalla P.A. con il provvedimento lesivo, si
verifichi dopo l’emissione del provvedimento stesso, ma
prima della proposizione del gravame nei confronti del
medesimo.
Invero, secondo l’insegnamento della migliore dottrina e
della giurisprudenza, l’acquiescenza, come accettazione (nel
caso in discorso, implicita) del provvedimento lesivo, va
prestata con atti univoci, chiari e concordanti, che
evidenzino in modo chiaro ed incontestabile la volontà
dell’interessato di accettare il medesimo provvedimento
(cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. V, 25.08.2011, n.
4805; id., 21.09.2010, n. 7031; id., 30.03.1998, n. 398).
Tali atti debbono, perciò, essere totalmente incompatibili
con la volontà dell’interessato di avvalersi
dell’impugnazione (cfr. C.d.S., Sez. V, 20.02.2012, n. 872;
id., Sez. III, 14.12.2011, n. 6574).
La necessità di atti o comportamenti univoci, compiuti
liberamente dal destinatario dell’atto, che dimostrino la
chiara ed incondizionata (cioè non rimessa ad eventi futuri
ed incerti) volontà di questi di accettarne gli effetti e
l’operatività, porta ad escludere che possa affermarsi la
sussistenza dell’acquiescenza per mera presunzione, non
potendosi in questo caso trovare riscontro univoco della
volontà dell’interessato di accettare tutte le conseguenze
derivanti dall’atto amministrativo (C.d.S., Sez. V, n.
7031/2010, cit.).
Si è poi chiarito che sussistono, in via di principio, gli
estremi della rinuncia preventiva all’iniziativa
giurisdizionale ove la condotta consapevole da parte
dell’avente titolo all’impugnazione, libera e diretta in
maniera inequivocabile ad accettare l’assetto di interessi
definito dalla P.A. con il provvedimento lesivo, si
verifichi dopo l’emissione del provvedimento stesso, ma
prima della proposizione del gravame nei confronti del
medesimo (C.d.S., Sez. IV, 27.06.2008, n. 3255) (TAR
Lazio-Latina,
sentenza 22.10.2012 n. 789 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di omissione
della comunicazione dell'avvio del procedimento (strumento
principale di partecipazione), l'adozione di provvedimenti
repressivi degli abusi edilizi non deve essere preceduta dal
suddetto avviso, trattandosi di provvedimenti tipici e
vincolati emessi all'esito di un mero accertamento tecnico
della consistenza delle opere realizzate e del carattere
abusivo delle medesime.
La violazione dell'obbligo di comunicazione
dell'avvio del procedimento non costituisce un motivo idoneo
a determinare l'annullabilità dei provvedimenti sanzionatori
in materia di abusi edilizi, in quanto è palese, attesa
l'assenza di qualsivoglia titolo abilitativo
all'edificazione, che il contenuto dispositivo del
provvedimento "non avrebbe potuto essere diverso da quello
in concreto adottato", sicché sussiste la condizione
prevista dall'art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241 del
1990 per determinare la non annullabilità del provvedimento
impugnato.
---------------
Sul presunto difetto di motivazione si osserva che l'ordine
di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza
di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare.
In particolare l’infondatezza del ricorso poggia sulle
seguenti argomentazioni:
a) sul primo motivo di ricorso -per consolidata regola
giurisprudenziale, ampiamente condivisa da questo TAR- in
tema di omissione della comunicazione dell'avvio del
procedimento (strumento principale di partecipazione),
l'adozione di provvedimenti repressivi degli abusi edilizi
non deve essere preceduta dal suddetto avviso, trattandosi
di provvedimenti tipici e vincolati emessi all'esito di un
mero accertamento tecnico della consistenza delle opere
realizzate e del carattere abusivo delle medesime (Cons.
Stato, sez. IV, 30.03.2000, n. 1814; TAR Campania, sez. IV,
28.03.2001, n. 1404, 14.06.2002, n. 3499, 12.02.2003, n.
797).
Più recentemente è stato precisato che la violazione
dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento
non costituisce un motivo idoneo a determinare
l'annullabilità dei provvedimenti sanzionatori in materia di
abusi edilizi, in quanto è palese, attesa l'assenza di
qualsivoglia titolo abilitativo all'edificazione, che il
contenuto dispositivo del provvedimento "non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato",
sicché sussiste la condizione prevista dall'art. 21-octies,
comma 2, della L. n. 241 del 1990 per determinare la non
annullabilità del provvedimento impugnato (Consiglio di
Stato, sez. IV, 15.05.2009, n. 3029).
...
d) infine, sul presunto difetto di motivazione si osserva
che l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure
ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare (C.d.S., sez. IV,
01.10.2007, n. 5049; 10.12.2007, n. 6344; 31.08.2010, n.
3955; sez. V, 07.09.2009, n. 5229) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 19.10.2012 n. 8661 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Modifica di destinazione d'uso e ristrutturazione
urbanistica.
La modifica di destinazione d’uso che determina un impatto
urbanistico rilevante, anche se incidente sul medesimo
sedime, configura una ipotesi di ristrutturazione
urbanistica e non di semplice ristrutturazione edilizia
realizzabile mediante denuncia di inizio attività.
Il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, con
sentenza 19.10.2012 n. 2563, torna sull’annosa
questione relativa alla possibilità per i privati di
ricomprendere le opere di demolizione e ricostruzione tra le
ristrutturazioni edilizie realizzabili mediante la
presentazione della sola dia.
Nel caso in esame i giudici amministrativi hanno ritenuto
legittimo il provvedimento con il quale l’amministrazione
comunale ordinava di non effettuare le trasformazioni
previste dalla dia “in quanto esso è rivolto a sostituire
l’esistente tessuto urbanistico ed edilizio con altro
sostanzialmente diverso, senza peraltro rispettare la
previsione del P.R.G. vigente.”.
La pronuncia in commento si fonda sulla distinzione tra la
nozione di ristrutturazione edilizia, prevista dall’art. 3,
comma 1, lett. d), del Dpr n. 380/2001 (Testo Unico
dell’Edilizia) e quella di ristrutturazione urbanistica,
dettata dalla lettera f) della stessa norma.
La sentenza in esame richiama in primo luogo la
giurisprudenza maggioritaria, secondo la quale: “il
concetto di ristrutturazione di un edificio preesistente
presuppone che non si tratti di opere implicanti radicali
interventi di adattamento delle strutture interne eseguite
per creare nuovi vani o volumi, in quanto l’aumento di
questi ultimi determina a sua volta un maggiore carico
urbanistico di cui l’amministrazione non può non tenere
conto in sede di approvazione del progetto stesso (cfr.
C.d.S. sez. 5^ 10.08.2000 n. 4397).”; successivamente in
relazione al caso di specie, considera che: “il progetto
presentato dalla società ricorrente realizza all’evidenza
–il Collegio ne ha preso visione in contraddittorio anche
nel corso della discussione in udienza- un intervento di
ristrutturazione urbanistica dell’area, in quanto esso
interviene su alcuni capannoni di proprietà della società
ricorrente attraverso un insieme di opere volte a
trasformare le strutture preesistenti da immobili ad uso
produttivo in immobili ad uso misto, attraverso la creazione
di una serie di appartamenti residenziali e relativi
giardini di pertinenza nonché di un certo numero di
laboratori.
Tutto ciò anche con la prevista demolizione e ricostruzione
di alcuni dei fabbricati e con lo svuotamento di porzioni di
immobili, onde ricavare adeguati rapporti aeroilluminanti.”
In conclusione, deve ritenersi che la realizzazione di
interventi che comportano una diversa destinazione d’uso
delle strutture edilizie, determinando conseguentemente una
sostanziale modifica della morfologia del lotto di
riferimento non possono essere assentiti mediante lo
strumento edilizio della denuncia di inizio attività
(commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Salvo che una norma non disponga specificamente
nel senso della perentorietà, il termine di conclusione del
procedimento amministrativo ha natura meramente ordinatoria
od acceleratoria, con la conseguenza che il provvedimento
tardivo non è di per sé illegittimo ma, a seguito
dell'introduzione, nell'ambito della L. 07.08.1990 n. 241,
dell'art. 2-bis per effetto della L. 18.06.2009 n. 69,
vengono, a certe condizioni, correlate all'inosservanza del
termine finale conseguenze significative sul piano della
responsabilità civile dell'Amministrazione (c.d. danno da
ritardo), ma non anche profili afferenti alla legittimità
dell'atto tardivamente adottato.
A proposito della dedotta violazione del termine sancito
dall’art. 17 del PRAE occorre osservare che “Salvo che
una norma non disponga specificamente nel senso della
perentorietà, il termine di conclusione del procedimento
amministrativo ha natura meramente ordinatoria od
acceleratoria, con la conseguenza che il provvedimento
tardivo non è di per sé illegittimo ma, a seguito
dell'introduzione, nell'ambito della L. 07.08.1990 n. 241,
dell'art. 2-bis per effetto della L. 18.06.2009 n. 69,
vengono, a certe condizioni, correlate all'inosservanza del
termine finale conseguenze significative sul piano della
responsabilità civile dell'Amministrazione (c.d. danno da
ritardo), ma non anche profili afferenti alla legittimità
dell'atto tardivamente adottato” (cfr. Tar Catania, Sez.
III, n. 2944 del 07.12.2011) (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 19.10.2012 n. 1889 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La disposizione di cui all’art. 879 c.c., nel
disporre che <alle costruzioni che si fanno in confine con
le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme
relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i
regolamenti che le riguardano>, intenda significare che, in
presenza di una strada pubblica, non si fa tanto questione
di tutelare un diritto soggettivo privato (tutelato dalla
normativa codicistica sulle distanze, rinunciabile e
negoziabile), ma di perseguire il preminente interesse
pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico intorno alla
strade ed alle piazze, ordinato sviluppo che trova la sua
disciplina esclusivamente nelle leggi e regolamenti
urbanistico-edilizi, tra i quali -per l’appunto- il D.M.
1444/1968.
Tanto ciò è vero che distanze inferiori sono ammesse, in
deroga, “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto
di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche” (art. 9 u.c. D.M. 1444/1968),
cioè soltanto se previste –a loro volta- in strumenti
urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario
(cioè, che contempli la contestuale edificazione degli
edifici antistanti) di determinate zone del territorio.
In presenza di una strada pubblica tra due fondi, non è
dunque consentito derogare alla distanza minima stabilita
dall’art. 9 D.M. 02.04.1968 tra pareti finestrate di edifici
antistanti, neppure con il consenso del vicino frontistante,
in quanto, trattandosi di tutelare un interesse pubblico, di
natura urbanistica, superiore a quello individuale dei
proprietari dei fondi finitimi (interesse specificamente
tutelato dalle norme del codice civile sulle distanze nelle
costruzioni), non trovano applicazione -ex art. 879 comma 2
c.c.- le disposizioni civilistiche (e quelle di esse
integrative) sulle distanze, in quanto recessive rispetto
alla speciale normativa urbanistico-edilizia (le “leggi e i
regolamenti” di cui all’art. 879, comma 2 c.c.), che si
applica in luogo delle stesse.
Dunque, l'art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sui limiti di
distanza tra i fabbricati ricadenti in zone territoriali
diverse dalla zona A, costituisce un principio assoluto ed
inderogabile … che prevale –ad un tempo- sia sulla potestà
legislativa regionale, in quanto integra la disciplina
privatistica delle distanze (C. Cost., 16.06.2005, n. 232),
sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni,
in quanto deriva da una fonte normativa statale
sovraordinata, sia, infine, sull'autonomia negoziale dei
privati, in quanto tutela interessi pubblici che, per loro
natura, non sono nella disponibilità delle parti.
Esso, inoltre, è applicabile anche quando tra le pareti
finestrate (o tra una parete finestrata e una non
finestrata) si interponga una via pubblica. La fattispecie è
specificamente regolata dal comma 2 del medesimo art. 9, che
prescrive in questo caso distacchi addirittura maggiorati in
relazione alla larghezza della strada, con la precisazione
che l'esclusione della viabilità a fondo cieco prevista
nella stessa norma va riferita alle maggiorazioni e non alla
distanza minima assoluta di 10 metri, che rimane
inderogabile.
In conclusione, in presenza di pareti finestrate poste a
confine con la via pubblica, non è mai ammissibile la deroga
prevista dall'art. 879, comma 2 c.c., per le distanze tra
edifici.
RITENUTO, altresì, che è fondato anche il quarto motivo di
ricorso, nella parte in cui si deduce, che, nel caso di
specie, non potrebbe trovare applicazione, in funzione
derogatoria della distanza minima di 10 metri di cui al D.M.
1444/1968, l’art. 879, comma 2, cod. civ..
Il Collegio ritiene, infatti, condivisibile, anche riguardo
al caso di specie, l’orientamento giurisprudenziale secondo
cui “la disposizione di cui all’art. 879 c.c., nel
disporre che <alle costruzioni che si fanno in confine con
le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme
relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i
regolamenti che le riguardano>, intenda significare che, in
presenza di una strada pubblica, non si fa tanto questione
di tutelare un diritto soggettivo privato (tutelato dalla
normativa codicistica sulle distanze, rinunciabile e
negoziabile), ma di perseguire il preminente interesse
pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico intorno alla
strade ed alle piazze, ordinato sviluppo che trova la sua
disciplina esclusivamente nelle leggi e regolamenti
urbanistico-edilizi, tra i quali -per l’appunto- il D.M.
1444/1968.
Tanto ciò è vero che distanze inferiori sono ammesse, in
deroga, “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto
di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche” (art. 9 u.c. D.M. 1444/1968),
cioè soltanto se previste –a loro volta- in strumenti
urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario
(cioè, che contempli la contestuale edificazione degli
edifici antistanti) di determinate zone del territorio
(Cons. di St., IV, 12.03.2007, n. 1206).
In presenza di una strada pubblica tra due fondi, non è
dunque consentito derogare alla distanza minima stabilita
dall’art. 9 D.M. 02.04.1968 tra pareti finestrate di edifici
antistanti, neppure con il consenso del vicino frontistante,
in quanto, trattandosi di tutelare un interesse pubblico, di
natura urbanistica, superiore a quello individuale dei
proprietari dei fondi finitimi (interesse specificamente
tutelato dalle norme del codice civile sulle distanze nelle
costruzioni), non trovano applicazione -ex art. 879 comma 2
c.c.- le disposizioni civilistiche (e quelle di esse
integrative) sulle distanze, in quanto recessive rispetto
alla speciale normativa urbanistico-edilizia (le “leggi e i
regolamenti” di cui all’art. 879, comma 2 c.c.), che si
applica in luogo delle stesse.
Dunque, l'art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sui limiti di
distanza tra i fabbricati ricadenti in zone territoriali
diverse dalla zona A, costituisce un principio assoluto ed
inderogabile … che prevale –ad un tempo- sia sulla potestà
legislativa regionale, in quanto integra la disciplina
privatistica delle distanze (C. Cost., 16.06.2005, n. 232),
sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni
(Cons. di St., IV, 02.11.2010, n. 7731), in quanto deriva da
una fonte normativa statale sovraordinata, sia, infine,
sull'autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela
interessi pubblici che, per loro natura, non sono nella
disponibilità delle parti.
Esso, inoltre, è applicabile anche quando tra le pareti
finestrate (o tra una parete finestrata e una non
finestrata) si interponga una via pubblica. La fattispecie è
specificamente regolata dal comma 2 del medesimo art. 9, che
prescrive in questo caso distacchi addirittura maggiorati in
relazione alla larghezza della strada, con la precisazione
che l'esclusione della viabilità a fondo cieco prevista
nella stessa norma va riferita alle maggiorazioni e non alla
distanza minima assoluta di 10 metri, che rimane
inderogabile.
In conclusione, in presenza di pareti finestrate poste a
confine con la via pubblica, non è mai ammissibile la deroga
prevista dall'art. 879, comma 2 c.c., per le distanze tra
edifici (così TAR Lombardia, Brescia, I, 03.07.2008, n. 788;
nello stesso senso, più recentemente, Tribunale di Teramo,
10.01.2011, n. 4)” (TAR Liguria, Genova, I, 20.07.2011,
n. 1148)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 17.10.2012 n. 2049 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il soggetto che avanza la
domanda di risarcimento dei danni provocati da illegittimo
esercizio del potere amministrativo deve fornire in modo
rigoroso la prova dell'esistenza del danno.
RITENUTO, infine, che dev’essere, invece, rigettata
la domanda di risarcimento dei danni, in quanto generica e
priva di supporto probatorio.
Nel rispetto del principio
generale sancito dall'art. 2697 c.c. secondo cui chi agisce
in giudizio deve provare i fatti costitutivi della domanda,
il soggetto che avanza la domanda di risarcimento dei danni
provocati da illegittimo esercizio del potere amministrativo
deve fornire in modo rigoroso la prova dell'esistenza del
danno (cfr. Cons. Stato., V, 13.06.2008, n. 2967; TAR
Lombardia, IV, 05.07.2006, n. 1707)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 17.10.2012 n. 2049 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
conoscenza effettiva e completa della concessione edilizia
rilasciata a terzi, che deve essere provata da chi eccepisce
la tardività dell’impugnazione, si verifica di regola, in
mancanza di diversi mezzi di inoppugnabile prova, con
l’ultimazione dei lavori di costruzione dell’immobile e non
solo con il loro inizio, con la conseguente necessità che le
parti evidenzino elementi di prova di una conoscenza
anteriore dell’opera assentita e della sua consistenza o una
ultimazione dei lavori in epoca anteriore oltre sessanta
giorni rispetto alla proposizione del ricorso”.
Se è quindi vero che “la conoscenza effettiva e completa
della concessione edilizia rilasciata a terzi (…) si
verifica di regola, in mancanza di diversi mezzi di
inoppugnabile prova, con l’ultimazione dei lavori di
costruzione dell’immobile e non solo con il loro inizio”, è
altrettanto vero che è fatta espressamente salva la
possibilità, per i controinteressati (intestatari del titolo
ad aedificandum), di addurre elementi di prova (non solo di
una ultimazione dei lavori, in epoca anteriore oltre
sessanta giorni rispetto alla proposizione del ricorso) ma
anche –com’è fatto palese dalla disgiuntiva “o”– “di una
conoscenza anteriore dell’opera assentita e della sua
consistenza”.
In pratica: fermo restando che, di regola, è l’ultimazione
dei lavori a costituire il discrimine temporale, dal quale
far decorrere il termine per impugnare, a tale regola deve
derogarsi, ove coloro che hanno sollevato l’eccezione
d’intempestività del gravame abbiano dimostrato, in maniera
incontrovertibile, che i ricorrenti, malgrado il mancato
completamento delle opere assentite, erano comunque al
corrente della consistenza delle medesime.
---------------
Il termine per l’impugnazione della concessione edilizia da
parte dei terzi, che assumano di aver subito pregiudizio
dalla costruzione assentita, decorre dalla piena ed
effettiva conoscenza del provvedimento, intendendosi tale
conoscenza come un fatto, la cui prova rigorosa incombe alla
parte che eccepisce la tardività; in mancanza di inequivoci
elementi probatori, occorre far riferimento alla data di
ultimazione dei lavori, salvo che non emerga la prova di una
conoscenza anticipata che può essere riferita anche alla
data di inizio dei lavori, allorquando già da tale momento
sia possibile verificare l’entità della modifica dei luoghi.
----------------
La decorrenza del termine per ricorrere in sede
giurisdizionale avverso atti abilitativi dell’edificazione
si ha, per i soggetti diversi da quelli cui l’atto è
rilasciato (ovvero che in esso sono comunque indicati) dalla
data in cui si renda palese ed oggettivamente apprezzabile
la lesione del bene della vita protetto, la qual cosa si
verifica quando sia percepibile dal controinteressato la
concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva
sulla propria posizione giuridica.
In materia di impugnazione del permesso di costruire, è
sufficiente la cd. “vicinitas”, quale elemento che distingue
la posizione giuridica del ricorrente da quella della
generalità dei consociati, di talché è corretto riconoscere
a chi si trovi in tale situazione un interesse tutelato a
che il provvedimento dell’Amministrazione sia
procedimentalmente e sostanzialmente ossequioso delle norme
vigenti in materia.
Secondo il Tribunale, onde decidere sulla suddetta
eccezione, occorre partire dai più recenti approdi della
giurisprudenza, secondo cui: “La conoscenza effettiva e
completa della concessione edilizia rilasciata a terzi, che
deve essere provata da chi eccepisce la tardività
dell’impugnazione, si verifica di regola, in mancanza di
diversi mezzi di inoppugnabile prova, con l’ultimazione dei
lavori di costruzione dell’immobile e non solo con il loro
inizio, con la conseguente necessità che le parti evidenzino
elementi di prova di una conoscenza anteriore dell’opera
assentita e della sua consistenza o una ultimazione dei
lavori in epoca anteriore oltre sessanta giorni rispetto
alla proposizione del ricorso” (Consiglio di Stato –
Sez. IV – 30.07.2012, n. 4287, che in motivazione richiama
TAR Liguria Genova – Sez. I – 19.12.2006 , n. 1711).
Se è quindi vero che “la conoscenza effettiva e completa
della concessione edilizia rilasciata a terzi (…) si
verifica di regola, in mancanza di diversi mezzi di
inoppugnabile prova, con l’ultimazione dei lavori di
costruzione dell’immobile e non solo con il loro inizio”,
è altrettanto vero che è fatta espressamente salva la
possibilità, per i controinteressati (intestatari del titolo
ad aedificandum), di addurre elementi di prova (non
solo di una ultimazione dei lavori, in epoca anteriore oltre
sessanta giorni rispetto alla proposizione del ricorso) ma
anche –com’è fatto palese dalla disgiuntiva “o”– “di una
conoscenza anteriore dell’opera assentita e della sua
consistenza”.
In pratica: fermo restando che, di regola, è l’ultimazione
dei lavori a costituire il discrimine temporale, dal quale
far decorrere il termine per impugnare, a tale regola deve
derogarsi, ove coloro che hanno sollevato l’eccezione
d’intempestività del gravame abbiano dimostrato, in maniera
incontrovertibile, che i ricorrenti, malgrado il mancato
completamento delle opere assentite, erano comunque al
corrente della consistenza delle medesime.
---------------
A conforto dell’interpretazione, adottata dal Collegio, si
legga anche l’ulteriore massima che segue: “Il termine
per l’impugnazione della concessione edilizia da parte dei
terzi, che assumano di aver subito pregiudizio dalla
costruzione assentita, decorre dalla piena ed effettiva
conoscenza del provvedimento, intendendosi tale conoscenza
come un fatto, la cui prova rigorosa incombe alla parte che
eccepisce la tardività; in mancanza di inequivoci elementi
probatori, occorre far riferimento alla data di ultimazione
dei lavori, salvo che non emerga la prova di una conoscenza
anticipata che può essere riferita anche alla data di inizio
dei lavori, allorquando già da tale momento sia possibile
verificare l’entità della modifica dei luoghi” (TAR
Marche – Sez. I – 26.09.2007, n. 1574); mentre sulla
rilevanza, “in subiecta materia”, delle dichiarazioni
sostitutive di atto di notorietà, si legga, invece,
Consiglio Stato – Sez. IV – 27.05.2010, n. 3378: nella
specie, le risultanze della dichiarazione sostitutiva di
atto di notorietà, rilasciata da Marciano Francesco,
risultano confermate da una serie di indici documentali,
tutti convergenti nel senso della conoscenza delle opere
assentite, anche tenuto conto della conformazione dei luoghi
(strada privata ad uso pubblico, posta a servizio esclusivo
di alcune residenze), quale emerge dalla documentazione
fotografica in atti, la quale rende difficile sostenere che
ai ricorrenti non fosse chiara, sin dall’inizio dei lavori,
“l’entità della modifica dei luoghi”.
---------------
L’eccezione è pertanto infondata: secondo il principio,
autorevolmente fissato nella seconda parte della massima che
segue (rilevante anche, nella sua prima parte, per quanto
concerne l’ormai accertata tardività del ricorso, proposto
da Bignami Margherita ed altri): “La decorrenza del
termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti
abilitativi dell’edificazione si ha, per i soggetti diversi
da quelli cui l’atto è rilasciato (ovvero che in esso sono
comunque indicati) dalla data in cui si renda palese ed
oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita
protetto, la qual cosa si verifica quando sia percepibile
dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la
sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica.
In materia di impugnazione del permesso di costruire, è
sufficiente la cd. “vicinitas”, quale elemento che distingue
la posizione giuridica del ricorrente da quella della
generalità dei consociati, di talché è corretto riconoscere
a chi si trovi in tale situazione un interesse tutelato a
che il provvedimento dell’Amministrazione sia
procedimentalmente e sostanzialmente ossequioso delle norme
vigenti in materia” (Consiglio di Stato – Sez. IV –
05.01.2011, n. 18)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 17.10.2012 n. 1868 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
|
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini dell’osservanza delle norme in materia di distanze
legali stabilite dall’art. 873 c.c. o da norme regolamentari
integrative, la nozione di costruzione comprende qualsiasi
opera non completamente interrata avente i caratteri della
solidità e immobilizzazione rispetto al suolo, con la
conseguenza, particolarmente aderente al caso di specie,
che: “Un garage totalmente interrato può essere
legittimamente realizzato senza rispettare la distanza di
tre metri dal confine stabilita dall’art. 873 del codice
civile, in quanto tale norma fa riferimento alle sole
costruzioni che, erette sopra il suolo, ne sporgano
stabilmente, con esclusione quindi dei manufatti
completamente interrati”.
Ai sensi dell’art. 9 l. 24.03.1989 n. 122 (come modificato
dall’art. 37 l. 07.12.1999 n. 472) la realizzazione di un
parcheggio pertinenziale può essere effettuata –fatti salvi
i vincoli previsti dalla legislazione in materia
paesaggistica ed ambientale– anche in deroga agli strumenti
urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti, comprese le
distanze previste dal p.r.g. o da altre fonti normative.
Al riguardo, rileva il Tribunale che, in considerazione del
carattere interrato delle erigende autorimesse, rispetto al
piano di calpestio, diviene applicabile il consolidato
principio, di marca giurisprudenziale, secondo cui: “Ai
fini dell’osservanza delle norme in materia di distanze
legali stabilite dall’art. 873 c.c. o da norme
regolamentari integrative, la nozione di costruzione
comprende qualsiasi opera non completamente interrata avente
i caratteri della solidità e immobilizzazione rispetto al
suolo” (Cassazione civile – Sez. II – 18.02.2011, n.
4008), con la conseguenza, particolarmente aderente al caso
di specie, che: “Un garage totalmente interrato può
essere legittimamente realizzato senza rispettare la
distanza di tre metri dal confine stabilita dall’art. 873
del codice civile, in quanto tale norma fa riferimento alle
sole costruzioni che, erette sopra il suolo, ne sporgano
stabilmente, con esclusione quindi dei manufatti
completamente interrati” (TAR Abruzzo Pescara – Sez. I –
05.03.2009, n. 134).
Si consideri, per di più, che, sempre secondo la
giurisprudenza: “Ai sensi dell’art. 9 l. 24.03.1989 n.
122 (come modificato dall’art. 37 l. 07.12.1999 n. 472) la
realizzazione di un parcheggio pertinenziale può essere
effettuata –fatti salvi i vincoli previsti dalla
legislazione in materia paesaggistica ed ambientale– anche
in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti
edilizi vigenti, comprese le distanze previste dal p.r.g. o
da altre fonti normative” (TAR Puglia Lecce – Sez. III,
21.11.2007, n. 3932)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 17.10.2012 n. 1868 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
|
EDILIZIA PRIVATA: La
“concessione edilizia” è priva dei caratteri tipici del
provvedimento di concessione amministrativa e consistenti
nella discrezionalità, revocabilità, incommerciabilità,
nell’intuitus personae”.
Sicché, la concessione edilizia ha carattere reale, ed al
relativo rilascio resta estraneo l’intuitus personae. Ne
consegue che la successione nel diritto reale, pur non
comportando l’automatico trasferimento della concessione
stessa in capo al subentrante, tuttavia rende la voltura
atto dovuto.
È, infatti, costante in giurisprudenza l’affermazione,
secondo la quale: “La “concessione edilizia” è priva dei
caratteri tipici del provvedimento di concessione
amministrativa e consistenti nella discrezionalità,
revocabilità, incommerciabilità, nell’intuitus personae”
(Cassazione penale – Sez. Un. – 20.11.1996 – n. 673);
sicché: “La concessione edilizia ha carattere reale, ed al
relativo rilascio resta estraneo l’intuitus personae. Ne
consegue che la successione nel diritto reale, pur non
comportando l’automatico trasferimento della concessione
stessa in capo al subentrante, tuttavia rende la voltura
atto dovuto” (Consiglio Stato – Sez. V, 19.09.1991, n.
1168)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 17.10.2012 n. 1868 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
|
EDILIZIA PRIVATA: Il
Collegio conosce l’indirizzo giurisprudenziale secondo il
quale: “In materia di esecuzione di lavori edilizi nelle
zone sottoposte a vincolo paesistico, la cessazione di
validità del nulla–osta ambientale si verifica
automaticamente per il solo fatto obiettivo del decorso del
termine quinquennale previsto ex art. 16 r.d. 03.06.1940 n.
1357, senza che possano rilevare fatti impeditivi ancorché
di carattere assoluto, quali il “factum principis” o la
causa di forza maggiore, ivi compreso il sequestro del
cantiere”.
Tuttavia il Collegio ritiene che il principio, ivi espresso,
debba di necessità trovare un equo contemperamento proprio
nei casi in cui, come nella specie, sia stato proprio il
comportamento del Comune –vale a dire proprio dell’ente, che
ha poi contestato la decadenza del nulla-osta, per decorso
del termine quinquennale– a porsi come ostacolo al
completamento dell’opera, nel termini di validità della
stessa autorizzazione paesaggistica.
Ragionare diversamente significherebbe addossare al privato,
in violazione dei principi dell’affidamento, della
correttezza procedimentale e della buona fede, le
conseguenze dell’agire dell’Amministrazione,
concretizzatosi, nella specie, in plurime sospensioni dei
lavori, disposte talora anche –e in maniera illegittima–
senza la fissazione di un termine finale; e ciò, nonostante
che il Tribunale avesse esplicitamente avvertito, già dopo
la prima sospensione, che la stessa non poteva essere
ulteriormente reiterata; nonché concretizzatosi nell’aver
tenuto in piedi, oltre ogni ragionevole limite temporale, il
procedimento di riesame del titolo edilizio, rilasciato nel
2008 alle ricorrenti.
In accoglimento della corrispondente ulteriore censura del
settimo atto di motivi aggiunti, in particolare, il
Tribunale osserva come sia stato proprio il Comune,
attraverso una serie di provvedimenti di sospensione dei
lavori, che si sono posti in contrasto con il piano dettato
delle ordinanze cautelari, pronunziate dal Collegio, oltre
attraverso il provvedimento di “sospensione d’ufficio”
del permesso di costruire (ritenuto dal Tribunale
illegittimo, in accoglimento dei quarti motivi aggiunti), ad
ostacolare l’esecuzione dei lavori, con la conseguenza che,
decorso il termine quinquennale di validità della prima
autorizzazione paesaggistica (quella riferita al primo
progetto), sarebbe stato in ogni caso iniquo, nonché in
contrasto con i principi dell’affidamento e della lealtà
nella conduzione del procedimento, farne subire le
conseguenze alle ricorrenti, impossibilitate a concludere i
lavori, nei termini fissati dalla suddetta (prima)
autorizzazione paesaggistica, proprio a causa degli
innumerevoli fermi del cantiere, disposti dal Comune ma
stigmatizzati, in sede cautelare, dal Tribunale.
Il Collegio conosce, ovviamente, l’indirizzo
giurisprudenziale, citato dalle controparti, e fatto proprio
anche dalla Seconda Sezione di questo Tribunale, secondo il
quale: “In materia di esecuzione di lavori edilizi nelle
zone sottoposte a vincolo paesistico, la cessazione di
validità del nulla–osta ambientale si verifica
automaticamente per il solo fatto obiettivo del decorso del
termine quinquennale previsto ex art. 16 r.d. 03.06.1940
n. 1357, senza che possano rilevare fatti impeditivi
ancorché di carattere assoluto, quali il “factum principis”
o la causa di forza maggiore, ivi compreso il sequestro del
cantiere” (TAR Campania Salerno – Sez. II – 25.03.2010, n. 2351).
Tuttavia il Collegio ritiene che il principio, ivi espresso,
debba di necessità trovare un equo contemperamento proprio
nei casi in cui, come nella specie, sia stato proprio il
comportamento del Comune –vale a dire proprio dell’ente,
che ha poi contestato la decadenza del nulla-osta, per
decorso del termine quinquennale– a porsi come ostacolo al
completamento dell’opera, nel termini di validità della
stessa autorizzazione paesaggistica; ragionare diversamente
significherebbe addossare al privato, in violazione dei
principi dell’affidamento, della correttezza procedimentale
e della buona fede, le conseguenze dell’agire
dell’Amministrazione, concretizzatosi, nella specie, in
plurime sospensioni dei lavori, disposte talora anche –e in
maniera illegittima– senza la fissazione di un termine
finale; e ciò, nonostante che il Tribunale avesse
esplicitamente avvertito, già dopo la prima sospensione, che
la stessa non poteva essere ulteriormente reiterata (cfr.
l’ordinanza cautelare, n. 1040 del 26.11.2009); nonché
concretizzatosi nell’aver tenuto in piedi, oltre ogni
ragionevole limite temporale, il procedimento di riesame del
titolo edilizio, rilasciato nel 2008 alle ricorrenti (cfr.
l’ordinanza cautelare n. 710 dell’08.07.2010, ove si
censurava la dilatazione, “usque ad infinitum”, di un
procedimento di secondo grado, avente ad oggetto un titolo
edilizio già rilasciato, in contrasto con il principio di
certezza delle situazioni giuridiche, oltre che con i
dettami cautelari della Sezione)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 17.10.2012 n. 1868 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
|
ATTI AMMINISTRATIVI: Ai
fini dell’ammissibilità della domanda di risarcimento del
danno a carico della p.a., non è sufficiente il solo
annullamento giurisdizionale del provvedimento lesivo, ma è
anche necessario che sia configurabile la sussistenza
dell’elemento soggettivo del dolo ovvero della colpa, con
conseguente previa verifica della circostanza se l’adozione
e l’esecuzione dell’atto impugnato sia avvenuta in
violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona
fede, alle quali l’esercizio della funzione deve
costantemente ispirarsi; segue da ciò che, in sede di
accertamento della responsabilità della p.a. per danni a
privati conseguenti ad un atto illegittimo da essa adottato,
il giudice amministrativo può affermare la responsabilità
solo quando la violazione risulti grave e commessa in un
contesto di circostanze di fatto e in un quadro di
riferimenti normativi e giuridici tali da palesare la
negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del
provvedimento viziato, negandola, invece, quando l’indagine
conduce al riconoscimento dell’onere (rectius: errore)
scusabile per la sussistenza di contrasti giurisprudenziali,
per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per
la complessità della situazione di fatto.
Tale essendo la domanda azionata dalle ricorrenti, il
Tribunale ritiene che la stessa vada esaminata alla luce
dell’indirizzo giurisprudenziale, espresso nella massima che
segue: “Ai fini dell’ammissibilità della domanda di
risarcimento del danno a carico della p.a., non è
sufficiente il solo annullamento giurisdizionale del
provvedimento lesivo, ma è anche necessario che sia
configurabile la sussistenza dell’elemento soggettivo del
dolo ovvero della colpa, con conseguente previa verifica
della circostanza se l’adozione e l’esecuzione dell’atto
impugnato sia avvenuta in violazione delle regole di
imparzialità, correttezza e buona fede, alle quali
l’esercizio della funzione deve costantemente ispirarsi;
segue da ciò che, in sede di accertamento della
responsabilità della p.a. per danni a privati conseguenti
ad un atto illegittimo da essa adottato, il giudice
amministrativo può affermare la responsabilità solo quando
la violazione risulti grave e commessa in un contesto di
circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi
e giuridici tali da palesare la negligenza e l’imperizia
dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato,
negandola, invece, quando l’indagine conduce al
riconoscimento dell’onere (rectius: errore) scusabile per la
sussistenza di contrasti giurisprudenziali, per l’incertezza
del quadro normativo di riferimento o per la complessità
della situazione di fatto” (TAR Basilicata – Sez. I –
11.05.2011, n. 300)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 17.10.2012 n. 1868 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
|
APPALTI:
PA arricchita senza giusta causa: a volte non
deve neanche l'indennizzo.
L'impresa aggiudicataria di una gara pubblica, cui non abbia
fatto seguito la stipulazione del contratto per iscritto, ha
diritto all'indennizzo di cui all'articolo 2041 del codice
civile solo e soltanto nella misura in cui abbia
efficacemente documentato le spese sostenute per il servizio
reso all'amministrazione o, in mancanza, provando la
notevole difficoltà di tale incombente.
Lo ha stabilito la I Sez. civile del TRIBUNALE di Messina,
con la sentenza 28.09.2012.
Nel caso di specie un imprenditore ha partecipato ad una
gara indetta dal Comune per l'affidamento del servizio di
manutenzione ordinaria e straordinaria dell'arredo urbano.
Risultato aggiudicatario, l'imprenditore, pur non in assenza
di contratto, ha iniziato ad eseguire i lavori (così come
previsti dal bando) su esplicita indicazione
dell'amministrazione che, nel mentre, si stava attivando per
la formalizzazione del contratto. Quest'ultimo, tuttavia,
non è mai stato stipulato, anche se i lavori sono stati
portanti a compimento. Quando l'imprenditore ha chiesto di
essere ricompensato per l'opera svolta, l'amministrazione ha
negato il suo diritto di credito proprio perché eseguito in
assenza di accordo scritto.
Per tale ragione l'imprenditore si è visto costretto ad
adire il Tribunale ordinario per vedersi indennizzato dei (“sommariamente”
quantificati) costi sostenuti per l'opera svolta in favore
dell'amministrazione in applicazione dell'articolo 2041 del
codice civile o, in subordine, per ottenere la declaratoria
di condanna al risarcimento del danno derivante da
responsabilità precontrattuale dell'amministrazione o, in
ulteriore subordine, per ottenere quantomeno la condanna
alla stipulazione coatta del contratto e di conseguenza il
versamento del corrispettivo.
Il Tribunale messinese, nonostante abbia riconosciuto i
presupposti per l'esperibilità dell'azione di ingiustificato
arricchimento -aderendo all'orientamento di legittimità in
virtù del quale detta azione, di natura sussidiaria, deve
trovare accoglimento anche alla luce della mera
utilizzazione di un'opera o di una prestazione, da parte di
un ente pubblico, posto il riconoscimento implicito
dell'utilità della stessa ne deriva– ha ritenuto di non
accordare l'indennizzo richiesto dall'imprenditore.
Il Tribunale ha osservato come in ordine all’ammontare
dell'indennizzo in presenza di un contratto nullo di ente
locale per difetto di forma scritta, il privato abbia
diritto all'indennizzo previsto dall'articolo 2041 del
codice civile quantificabile nella minor somma tra
l'arricchimento dell'ente e la sua diminuzione patrimoniale.
Sul punto, sussiste tuttavia la necessità di fornire al
giudicante tutti gli elementi utili ai fini della
quantificazione delle spese sostenute.
E' vero, infatti, che si potrebbe procedere tramite una
liquidazione in via equitativa dell’indennizzo ai sensi del
disposto dell'articolo 2041 del codice. Ma è altrettanto
vero, ha precisato il Tribunale richiamando un
pronunciamento della Corte di legittimità (Cass., sent. n.
3102/2000), che ciò è possibile fin tanto che nel corso del
giudizio, vi sia stata un’attività processuale della parte
finalizzata a fornire la prova o, al contrario, la parte sia
stata nell’impossibilità di fornire sicuri elementi per
determinare detto ammontare.
In linea con date premesse, si è concluso negando che
l'imprenditore avesse adempiuto diligentemente il proprio
onere probatorio, essendosi limitato ad indicare una cifra
senza una idonea documentazione a conforto della richiesta.
Una mancanza ritenuta inescusabile per il Tribunale, secondo
non vi sarebbero state notevoli difficoltà a documentare le
somme spese per i lavoratori impiegati o per l’acquisto dei
materiali utilizzati nell'esecuzione dei lavori cui
necessitava l'amministrazione.
La sentenza merita attenzione per la severità del giudizio,
pure obbiettivo, adottato dal Tribunale di Messina.
All'esclusione dell'indennizzo, ad onta del pure avvenuto
riconoscimento dei presupposti della domanda che sorreggeva
il diritto a richiederlo, ha fatto seguito anche la
negazione delle ulteriori domande avanzate dal ricorrente,
quella tesa a far valere la responsabilità precontrattuale
dell'amministrazione e quella volta ad ottenere la stipula
del contratto e, di riflesso, il titolo per il
riconoscimento del diritto di credito. Le ulteriori domande,
infatti, sono state parimenti rigettate, la prima, alla luce
del ritenuto “concorso colposo” dell'imprenditore
dato dalla sua negligenza nel fornire all'amministrazione i
documenti necessari per la redazione del contratto, la
seconda perché la domanda doveva esperirsi in via
principale, e non subordinatamente a quella, sussidiaria, di
ingiustificato arricchimento (commento tratto da
www.ipsoa.it). |
CONDOMINIO:
L'ascensore e' indispensabile per la reale
abitabilità dell'appartamento.
La II Sez. civile della Corte di Cassazione, con
sentenza 03.08.2012 n. 14096,
ha evidenziato come l'installazione di un ascensore, al fine
dell’eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata
da un condomino su parte di un cortile e di un muro comuni,
debba considerarsi indispensabile ai fini dell’accessibilità
dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento, e
rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini
ai sensi dell'art. 1102 c.c.
Ove siano, pertanto, rispettati i limiti di uso delle cose
comuni stabiliti da tale ultima norma, non rileva, allora,
la disciplina dettata dall'art. 907 c.c. sulla distanza
delle costruzioni dalle vedute, neppure per effetto del
richiamo a essa operato nell’art. 3, comma 2, legge
09.01.1989, n. 13, non trovando quest’ultima disposizione
applicazione in ambito condominiale.
DISTANZE E CONDOMINIO
Già più volte, in passato, la giurisprudenza aveva affermato
che le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i
condomini di un edificio condominiale, purché siano però
compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose
comuni, ovvero quando l'applicazione di quest'ultima non sia
in contrasto con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la
prevalenza della norma speciale in materia di condominio
determina, allora, l'inapplicabilità della disciplina
generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e
nei rapporti tra singolo condomino e condominio, deve
ritenersi in rapporto di subordinazione rispetto alla prima.
Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di
cui all'art. 1102 c.c. (secondo cui ciascun partecipante
alla comunione può servirsi della cosa comune, sempre che
non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri
partecipanti di farne parimenti uso), deve ritenersi
legittima l'opera realizzata anche senza il rispetto delle
norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà
contigue, sempre che venga rispettata la struttura
dell'edificio condominiale (Cass. 18.03.2010, n. 6546; Cass.
23.02. 2012, n. 2741).
Nella specie, si trattava di utilizzare un cortile per
realizzare un impianto di ascensore. È altrettanto noto, in
proposito, come i cortili comuni, assolvendo alla precipua
finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti, sono
utilmente fruibili a tale scopo dai condomini stessi, cui
spetta la facoltà di farne uso ai fini di maggiore comodità,
amenità o accessibilità delle porzioni solitarie, senza
incontrare, quindi, le limitazioni prescritte, in materia di
luci e vedute, a tutela dei proprietari degli immobili di
proprietà esclusiva. In proposito, l'indagine del giudice
deve essere indirizzata a verificare esclusivamente se l'uso
del cortile comune sia avvenuto nel rispetto dei limiti
stabiliti dal citato art. 1102, e, quindi, se non ne sia
stata alterata la destinazione e sia stato consentito agli
altri condomini di farne parimenti uso secondo i loro
diritti: una volta accertato che l'uso del bene comune sia
risultato conforme a tali parametri dovrà, perciò, comunque
escludersi che si sia potuta configurare un'innovazione
vietata (Cass. 09.06.2010, n. 13874).
Di per sé, l'installazione dell'ascensore, rientrando fra le
opere dirette a eliminare le barriere architettoniche di cui
all'art. 27, comma 1, legge n. 118/1971 e all'art. 1, comma
1, D.P.R. n. 384/1978, costituisce innovazione che, ai sensi
dell'art. 2, legge n. 13/1989, è approvata dall'assemblea
con la maggioranza prescritta rispettivamente dall'art.
1136, comma 2 e 3 c.c., dovendo, però, essere rispettati (in
forza del comma 3 del citato art. 2) i limiti previsti dagli
artt. 1120 e 1121 c.c. Non può, quindi, essere consentita
quell'installazione che renda talune parti comuni
dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un
solo condomino (Cass. 27.12.2011, n. 28920; Cass.
25.06.1994, n. 6109).
Merito di Cass. n. 14096/2012, è, tuttavia, quella di aver
qualificato l’impianto di ascensore come indispensabile ai
fini di una reale abitabilità dell'appartamento, intesa
questa nel senso di una condizione abitativa che rispetti
l'evoluzione delle esigenze generali dei cittadini e lo
sviluppo delle moderne concezioni in tema di igiene, salvo
l'apprestamento di accorgimenti idonei ad evitare danni alle
unità immobiliari altrui: questa indispensabilità vale,
infatti, ad esonerare l’ascensore condominiale
dall'osservanza delle norme del codice civile in tema di
distanze (cfr. Cass. 15.07.1995, n. 7752) (tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Scorrimento graduatoria di concorso e procedura
di mobilità volontaria.
Il TAR Puglia-Lecce, Sez. II, con la
sentenza 31.07.2012 n. 1419, risolve una
controversia avente ad oggetto una procedura concorsuale, la
validità della conseguente graduatoria e la decisione
dell'amministrazione di indire successivamente una procedura
selettiva per mobilità volontaria.
In disparte gli aspetti peculiari del contenzioso, il
Giudice, in relazione ai contenuti dell'art. 30 del d.lgs.
165/2001, argomenta:
- "Le disposizioni ... citate evidenziano il chiaro
intento del legislatore di accordare all'istituto della
mobilità priorità assoluta rispetto all'assunzione di nuovo
personale pubblico (anche se alla nuova assunzione si
proceda mediante lo scorrimento di graduatorie ancora
efficaci), nell'evidente scopo di ottenere un più efficace e
razionale utilizzo delle risorse umane esistenti e, quindi,
il contenimento della spesa pubblica relativa al personale
di tutte le pubbliche Amministrazioni (TAR Puglia-Bari, sez.
II, 28.07.2008 n. 1307; sulla preferenza da accordare alla
mobilità rispetto allo scorrimento di graduatorie ancora
efficaci si è pronunciata anche questa Sezione, cfr. sent.
n. 12 del 05.01.2008 e n. 2406 del 29.09.2008)";
- "Secondo una parte della giurisprudenza amministrativa
(TAR Lombardia-Milano, n. 2250/2011, ...), la preferenza
normativa accordata all'istituto della mobilità comporta
l'inesistenza di un obbligo di motivazione in capo alla P.A.
in merito alla scelta di immettere in ruolo dipendenti
provenienti da altre Amministrazioni piuttosto che procedere
al reclutamento di nuovo personale, anche mediante
scorrimento di una graduatoria ancora valida, con la
conseguenza che, in tal caso, sono inapplicabili i principi
enunciati dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato
nella pronuncia n. 14 del 28.07.2011" (commento tratto
da www.publika.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 06.11.2012 |
ã |
SINDACATI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Preoccupazione per il nuovo decreto-legge di
riordino delle province a statuto ordinario
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 04.11.2012). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 06.11.2012, "Individuazione
dei periodi di divieto di spandimento degli effluenti di
allevamento e dei fertilizzanti azotati di cui al d.m.
07.04.2006 per la stagione autunno inverno 2012/2013"
(decreto
D.G. 31.10.2012 n. 9761). |
CORTE DEI
CONTI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Progressioni orizzontali senza effetti economici.
Lo hanno sancito le sezioni unite
della Corte conti.
Per il pubblico impiego, anche le progressioni economiche
orizzontali, vale a dire i passaggi economici all'interno
delle categorie di appartenenza, soggiacciono alle
disposizioni contenute all'articolo 9, comma 21 della
manovra del 2010 (il dl n. 78/2010). Questo significa che
per tali progressioni, i miglioramenti eventualmente
conseguiti dai dipendenti non possono che essere
riconosciuti ai soli fini giuridici, dovendosi escludere
qualsiasi effetto economico.
È quanto hanno messo nero su bianco le sezioni riunite della
Corte dei conti, nel testo della
deliberazione
24.10.2012 n. 27 diffusa
nei giorni scorsi, in merito alla portata applicativa delle
disposizioni contenute al citato articolo 9 del dl n.
78/2010.
Come noto, nell'ottica di un perseguimento di obiettivi di
contenimento della spesa pubblica mediante la
razionalizzazione e la riduzione della spesa del personale
della p.a., la norma richiamata dispone che le progressioni
di carriera «comunque denominate» eventualmente disposte nel
2011, 2012 e 2013, avranno effetto ai soli fini giuridici.
Ora, la questione sottoposta al collegio della magistratura
contabile è quella di considerare o meno le progressioni
economiche orizzontali ex art. 23 del dlgs n. 150/2009 (la
riforma cosiddetta Brunetta del pubblico impiego) nella più
generale locuzione «progressioni di carriera comunque
denominate» utilizzata dal legislatore.
Le sezioni riunite non hanno avuto dubbi in merito, non
discostandosi da quanto affermato da altre articolazioni
regionali della stessa magistratura contabile. La querelle
deve essere vista sotto l'ottica della ratio delle
disposizioni sopra richiamate, ovvero quella di contenere le
spese di personale. Un obiettivo, si ammette, cui devono
concorrere tutti, anche gli enti locali, siano essi
sottoposti o meno al Patto di stabilità interno.
La norma ex art. 9, comma 21, del dl n. 78/2010 risponde
alla logica di contenere la dinamica retributiva del
pubblico impiego per il triennio 2011-2013, dettando una
disciplina che, dice la Corte, non ammette deroghe, anche
per l'eccezionalità della crisi finanziaria che avvolge
l'intero ciclo economico.
In conclusione, le disposizioni
richiamate si intendono valide anche per le progressioni
orizzontali (o passaggi economici tra le aree), dovendosi
rilevare, anche nell'ottica di una generale
cristallizzazione stipendiale ai valori del 2010, che ogni
variazione di inquadramento del dipendente potrà produrre
effetti solo sul suo status giuridico, ma non sul suo
trattamento economico (articolo ItaliaOggi del
02.11.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE: Quesito in ordine
alla corretta applicazione dell’articolo 92, comma 6, del
d.lgs. n. 163/2006, in particolare sulla possibilità di
riconoscere l’incentivo ivi previsto non solo a chi ha
redatto l’atto di pianificazione ma anche ai componenti
dell’Ufficio di Piano con compiti di supporto ed altresì
nell’ipotesi di redazione dell’atto a cura di professionisti
esterni.
...
Il sindaco del comune di Seregno, con nota n. 51042 del
17.09.2012, chiedeva all’adita Sezione l’espressione di un
parere in ordine alla corretta applicazione dell’articolo
92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, in particolare sulla
possibilità di riconoscere l’incentivo ivi previsto non solo
a chi ha redatto l’atto di pianificazione ma anche ai
componenti dell’Ufficio di Piano con compiti di supporto ed
altresì nell’ipotesi di redazione dell’atto a cura di
professionisti esterni.
Rappresentava, il Sindaco del comune, che, a seguito di un
orientamento favorevole all’estensione assunto dalla Sezione
Regionale Veneto (parere
26.07.2011 n. 337), la Giunta Comunale con
delibera n. 213/2011 aveva modificato il Regolamento
sull’ordinamento di uffici e servizi prevedendo l’estensione
dei beneficiari dell’incentivo nei termini sopra esposti
...
La questione in esame concerne la possibilità o meno di
riconoscere il beneficio di cui all’articolo 92, comma 6,
anche in caso di redazione dell’atto di pianificazione a
cura di progettista esterno nonché la possibilità di
riconoscere il medesimo incentivo anche al personale
dell’Ufficio di Piano avente compiti di mera partecipazione
a supporto.
Sulla corretta interpretazione dell’articolo 92, comma 6,
del d.lgs. n. 163/2006 la Sezione si è già espressa con
numerose pronunce, le ultime delle quali (parere
06.03.2012 n. 57 e
parere 30.05.2012 n. 259) sono qui da richiamare
e confermare per l’esauriente impianto motivo da cui non vi
è motivo alcuno per discostarsi.
In estrema sintesi, rimandando alla lettura dei pareri
citati per l’analitica ricostruzione dei vari passaggi,
la norma trova la sua giustificazione in due
fondamentali principi: quello dell’autosufficienza delle
risorse (e dunque dell’incentivazione all’autoproduzione) e
quello dell’onnicomprensività della retribuzione,
determinata dalla legge e dai contratti collettivi, cui solo
la stessa legge può eccepire.
Dai principi sopra richiamati deriva chiaramente che “si
deve escludere che un ente locale, con un proprio
regolamento, possa fissare unilateralmente specifici
compensi, al di fuori di previsione di legge che a ciò
espressamente l’autorizzino, ovvero al di fuori della
disciplina fissata dalla contrattazione collettiva nazionale
e, nei limiti di questa, decentrata”
(Lombardia,
parere 30.05.2012 n. 259).
L’articolo 92, comma 6, del d.lgs. n.
163/2006 costituisce, quindi, una delle eccezioni al
principio di onnicomprensività della retribuzione introdotte
dal legislatore: proprio in quanto norma eccezionale essa
non solo è insuscettibile di estensione analogica ma va
anche interpretata in modo rigoroso.
Tanto è vero che il rinvio ai regolamenti, contenuto nella
stessa norma, è limitato all’individuazione di “criteri e
modalità” di riparto e non, invece, all’an
dell’attribuzione.
Le condivisibili conclusioni di questa stessa Sezione
(parere n. 259 sopra citato) sono pertanto che “l’art.
92, comma 6, non potrebbe costituire titolo per l’erogazione
di speciali compensi ai dipendenti che svolgono attività
sussidiarie, strumentali o di supporto alla redazione di
atti di pianificazione affidata a professionisti esterni.
Tale disposizione, infatti, abilita (nella misura
autoritativamente fissata dalla legge) a riconoscere uno
speciale compenso, al di là del trattamento economico
ordinariamente spettante, solo in presenza dei due seguenti
elementi di fattispecie:
a) sul piano dell’oggetto, che la prestazione consista nella
diretta “redazione di un atto di pianificazione”, non in
attività variamente sussidiarie che rientrano nei doveri
d’ufficio dei dipendenti, nel contesto dell’attività di
governo del territorio (cfr. il
parere 27.01.2009 n. 9
di questa Sezione);
b) implicitamente, che la redazione dello stesso non sia
stata esternalizzata ad un professionista esterno ai sensi
dell’art. 90, comma 6”.
Con riferimento a quest’ultimo requisito, infine, va
ricordato al Sindaco di Seregno ciò che è già palese dalla
norma: la disciplina incentivante (art. 92,
comma 6) risulta giustificata se e nei limiti in cui
l’incarico interno esoneri l’ente dal dispendio di risorse
derivante dal ricorso ad appalto per il conseguimento della
medesima professionalità
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 23.10.2012 n. 440). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Corte
dei conti. Fondi decentrati. Doppio vincolo per le risorse
ai contratti locali.
PROGRAMMAZIONE/ L'inserimento di risorse variabili è
possibile se l'ente rispetta i vincoli del Patto dell'anno
precedente e dell'esercizio in corso.
Per inserire qualunque tipo di risorse
variabili nel fondo, i vincoli di finanza pubblica vanno
rispettati non solo nell'anno precedente ma anche in quello
in corso.
A questa conclusione è giunta la Sezione di controllo della
Corte dei conti della Lombardia con il
parere 04.10.2012 n. 422.
Un Comune, richiamando l'articolo 40, comma 3-quinquies Dlgs
165/2001, nella parte in cui dispone che «gli enti locali
possono destinare risorse aggiuntive alla contrattazione
integrativa nei limiti stabiliti dalla contrattazione
nazionale (...) nel rispetto dei vincoli di bilancio e del
Patto di stabilità», ha chiesto se i vincoli da
rispettare siano quelli dell'anno precedente o sia
necessario assicurarne il rispetto anche in fase di
previsione e stanziamento del l'esercizio in corso.
Il Comune nell'anno precedente ha rispettato il Patto e gli
altri vincoli di finanza pubblica. Nell'esercizio in corso
risulta in linea con l'articolo 9, commi 1 e 2-bis, del Dl
78/2010, ma non è in grado di conseguire l'obiettivo di
progressiva riduzione della spesa di personale (articolo 1,
comma 557, della legge 296/2006), a causa dell'inserimento
di risorse variabili nel fondo per la contrattazione
integrativa.
Con una motivazione tanto sintetica quanto efficace, i
giudici lombardi hanno ribadito che in fase di deliberazione
ed erogazione delle risorse aggiuntive, sono tenuti a
rispettare anche in sede previsionale gli obiettivi del
Patto e le norme di contenimento della spesa di personale.
I vincoli, infatti, sono dettati a tutela dell'unità
economica della Repubblica e per il concorso delle autonomie
alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica e
costituiscono principi fondamentali di coordinamento della
finanza pubblica ex articoli 117, comma 3 e 119, comma 2
della Costituzione. La loro funzione principale è assicurare
ex ante il conseguimento di obiettivi fondamentali
all'unità economico-giuridica della Repubblica.
Si precisa che, in caso di superamento dei vincoli
finanziari posti alla contrattazione integrativa, la legge
obbliga al recupero nella sessione negoziale successiva e
che, nei casi di violazione dei limiti di legge, le clausole
contrattuali decentrate sono nulle, non possono essere
applicate e sono sostituite ex articoli 1339 e 1419, comma 2
del Codice civile. Lo sforamento dei limiti di spesa e la
violazione del Patto, in questo contesto, rappresentano un
impedimento insuperabile all'inserimento nel fondo di
risorse integrative, anche se tempestivamente deliberate ed
impegnate.
Gli enti locali, di conseguenza, nella deliberazione ed
erogazione di risorse aggiuntive debbono rispettare gli
obiettivi del patto e le norme di contenimento della spesa
di personale, fra cui l'articolo 1, comma 557, anche con
riferimento all'esercizio finanziario venturo o in corso,
attraverso lo strumento del bilancio di previsione ed i
relativi assestamenti
(articolo Il
Sole 24 Ore del 05.11.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
I comuni
possono riapprovare i preventivi. Se
costretti dalle numerose proroghe come quest'anno.
Nessuna norma impedisce agli enti locali di poter
riapprovare il proprio bilancio di previsione, alla luce
delle numerose proroghe intervenute con decreti ministeriali
e soprattutto se le amministrazioni locali necessitano di un
«nuovo» documento programmatorio per introdurre o rimodulare
tariffe e imposte di propria pertinenza. L'unico limite è
quindi costituito dal termine entro cui i consigli devono
dare il proprio benestare al bilancio, che deve intervenire
entro la data stabilita dal decreto ministeriale di
differimento.
Così la sezione regionale di controllo della Corte dei conti
per la regione Lombardia, nel testo del
parere 03.10.2012 n. 431, con il quale ha fatto
chiarezza sulla portata delle disposizioni contenute
all'articolo 151 del Tuel, alla luce delle numerose proroghe
che, in questi anni, hanno portato allo slittamento del
termine ultimo previsto per l'adozione (quest'anno il
termine scade al 31 ottobre).
Rispondendo in merito a un'istanza formulata dal comune di
Rovato (Bs) per sapere se fosse possibile adottare un nuovo
bilancio di previsione per introdurre l'addizionale comunale
all'Irpef, la Corte ha risposto che la prassi oramai
consueta di questi ultimi anni, ovvero quella di prorogare
il termine ultimo di approvazione del bilancio di previsione
ha raggiunto i livelli di una «consueta anomalia». Prassi
che tuttavia non può costituire un elemento discriminatorio
per quegli enti che, nei termini imposti dalla legge, hanno
approvato tale documento programmatorio. Soprattutto, se
questi ritengono di dover «mettere mano» alla rimodulazione
di tariffe o imposte.
Ne consegue che anche gli enti che hanno già approvato il
bilancio di previsione possono (sempre entro il 31 ottobre
prossimo) provvedere all'approvazione di un nuovo documento
e, a tal fine, rimodulare preliminarmente le aliquote che
ritengono opportune.
Infatti, il Tuel non contiene alcuna norma che contempli
espressamente la possibilità di riapprovazione. Tuttavia, in
assenza di un esplicito divieto, la Corte ha ritenuto che
l'ente, con l'approvazione, non esaurisca il potere di
deliberare in merito, dovendo solo osservare l'unico limite
costituito dal termine ultimo imposto dal decreto
ministeriale di differimento e che la riadozione sia
giustificata da provate ragioni di fatto o di diritto. A
detta della Corte, in tali casi non è sufficiente ricorrere
a una semplice variazione di bilancio (articolo ItaliaOggi del
02.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
Bonus fiscali e lavori in casa. Ultimi otto mesi per
centrare lo sconto del 50%. La detrazione extra sulle
ristrutturazioni vale per le spese fino al 30.06.2013 (articolo
Il Sole 24 Ore del 05.11.2012). |
APPALTI:
Oggetto, soggetti coinvolti, limite temporale: tutto quello
che c'è da sapere sulla responsabilità solidale negli
appalti.
La responsabilità solidale negli appalti attribuisce al
creditore la facoltà di chiedere l’adempimento della
prestazione ad uno qualunque dei debitori il cui adempimento
libera definitivamente gli altri, obbligati per una stessa
prestazione; a sua volta il soggetto che ha pagato l’intero
debito può rivalersi verso gli altri, esigendo da ciascuno
solo la parte per cui è obbligato.
Negli appalti di opere e servizi, appaltatore e
subappaltatore sono obbligati a corrispondere ai lavoratori
le retribuzioni, i contributi previdenziali e i premi
assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione
del contratto di appalto.
In seguito ai recenti sviluppi normativi, l’Ance ha
pubblicato un vademecum sulla responsabilità solidale negli
appalti, fornendo una sintesi in materia di responsabilità
solidale.
Obiettivo del vademecum è spiegare il funzionamento della
responsabilità solidale negli appalti e cosa è cambiato nel
versamento delle ritenute fiscali e dell’Iva dopo l’entrata
in vigore delle misure introdotte dal Decreto Crescita
83/2012.
Il Vademecum dell’Ance, dopo aver fornito le definizioni
e le fonti normative ed amministrative necessarie, fornisce
indicazioni su:
● novità normative
●
soggetti coinvolti
●
oggetto della responsabilità solidale
●
limite temporale
●
DURC
●
interventi sostitutivi della stazione appaltante ai sensi
degli articoli 4 e 5 del D.P.R. n. 207/2010
(02.11.2012 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Quando
e come è possibile perdere la detrazione fiscale del 50%?
Dall'01.01.2012 la detrazione delle spese sostenute per gli
interventi di ristrutturazione edilizia si è stabilizzata:
per il periodo che va dal 26.06.2012 al 30.06.2013 il bonus
è pari al 50% dopodiché tornerà al 36%.
La possibilità di detrarre dalla dichiarazione dei redditi
le spese sostenute è concreta qualora vengono soddisfatte le
procedure e gli adempimenti burocratici previsti.
Sono, viceversa, previste situazioni in cui l’agevolazione
fiscale non è applicabile; non solo, ma anche casi in cui la
detrazione eventualmente richiesta, potrebbe essere
revocata.
La redazione di BibLus-net propone un documento in cui sono
riassunte le casistiche per cui potrebbe essere perso il
diritto allo sconto fiscale sull’IRPEF.
Ricordiamo ai lettori di BibLus-net la possibilità di
accedere al portale web dedicato alle detrazioni fiscali,
detrazione50.net, che contiene tutto quello che c’è da
sapere sulle detrazioni, incluso un forum di discussione, in
cui scambiarsi idee, informazioni e porre quesiti
(02.11.2012 - link a www.acca.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
D.M. 161/2012 GESTIONE TERRE E ROCCE (30.10.2012
- ANCE).
---------------
L'Ance, nella nota allegata, compie una prima disamina della
problematica nell'ottica di fornire indicazioni di natura
operativa, sulle modalità per il riutilizzo di tali
materiali come sottoprodotti. |
ENTI LOCALI:
AMMINISTRAZIONE DIGITALE E GESTIONE ASSOCIATA NEI PICCOLI
COMUNI - Strumento di autovalutazione.
Le norme che regolano l'obbligatorietà dell'esercizio
associato per i Comuni con popolazione fino a 5.000
abitanti, impongono una rapida riconsiderazione degli
assetti istituzionali e dei processi organizzativi.
Il D.L. 31.05.2010 n. 78, come recentemente modificato dal
D.L. 06.07.2012 n. 95, richiede la gestione associata di:
• tutte le attività connesse all'utilizzo delle “tecnologie
dell'informazione e della comunicazione”, quali la
realizzazione e la gestione di infrastrutture tecnologiche,
rete dati, fonia, apparati, di banche dati, di applicativi
software, l'approvvigionamento di licenze per il software,
la formazione informatica e la consulenza nel settore
dell'informatica;
• almeno tre funzioni fondamentali, entro il 01.01.2013;
• tutte le funzioni fondamentali entro il 01.01.2014.
Consapevoli della complessità di tali riforme, Ancitel ha
attivato un applicativo di autodiagnosi, totalmente
gratuito, mediante il quale il Comune potrà verificare, con
tempi e modalità estremamente semplificati, il livello di “compliance
normativa” sui temi dell'amministrazione digitale e
della cooperazione intercomunale.
Lo strumento prevede la compilazione elettronica di un
questionario e la restituzione, in tempo reale, a
conclusione della citata compilazione, di un documento che
sintetizza, per ogni tematica trattata, il quadro normativo
e i principali adempimenti previsti. Il Comune potrà:
• in prima analisi, comparare il suo attuale contesto
(risposte del questionario) con il quadro normativo e gli
adempimenti stabili dal legislatore (singole note di lettura
presenti nel documento di restituzione);
• in seconda analisi, approfondire gli specifici ambiti
giudicati al momento maggiormente rilevanti o critici e
poter pianificare un eventuale percorso di adeguamento, sia
in relazione agli assetti istituzionali che a quelli
strettamente organizzativi (link a
www.autovalutazioneict.ancitel.it). |
QUESITI &
PARERI |
EDILIZIA PRIVATA: Impianti
idroelettrici: quando occorre la verifica di
assoggettabilità a VIA?
(05.11.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI: Quando
entreranno in vigore le sanzioni per la vendita degli
shopper-bio?
(05.11.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Direttiva
sul decoro.
Domanda.
Ho letto che è
stata firmata dal ministro dei beni culturali la cosiddetta
«direttiva sul decoro». Di cosa si tratta?
Risposta.
La direttiva citata è stata firmata dal ministro per i beni
e le attività culturali, Lorenzo Ornaghi, lo scorso 11
ottobre. Come ben chiarito sul sito del Mibac
(www.beniculturali.it), la direttiva «finalizzata a
rafforzare le misure di tutela nelle aree pubbliche di
particolare valore archeologico, storico, artistico,
architettonico e paesaggistico, in prossimità dei monumenti
interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti_
sarà efficace su tutto il territorio nazionale».
L'obiettivo dichiarato è quello di assicurare il decoro dei
complessi monumentali contrastando l'esercizio, in aree
particolarmente significative, di attività commerciali e di
qualsiasi altra attività non compatibile con le esigenze di
tutela del patrimonio culturale.
A tal fine «con il coordinamento dei direttori regionali,
i sovrintendenti proporranno ai competenti Enti locali
l'individuazione di aree per le quali vietare o sottoporre a
condizioni l'esercizio del commercio. Inoltre, gli uffici
territoriali del Mibac collaboreranno con le amministrazioni
locali mediante la segnalazione delle attività commerciali o
ambulanti che si svolgano illecitamente in tali aree, perché
vengano adottati gli opportuni provvedimenti».
Altro aspetto degno di nota: la direttiva prevede la
possibilità di adottare, per le aree costituenti l'ambiente
circostante i beni vincolati, prescrizioni di tutela
indiretta «allo specifico fine di impedire che, specie
mediante l'installazione di posteggi, banchetti o strutture
stabili o precarie di varia natura e tipologia, sia
pregiudicata la visuale dei beni direttamente vincolati,
ovvero ne siano alterate le condizioni di ambiente e di
decoro»
(articolo ItaliaOggi Sette del 05.11.2012). |
EDILIZIA PRIVATA: Reato
da sanzionare
Domanda.
Lavori di
costruzione di una struttura per eventi in zona montana
sottoposta a vincolo paesaggistico. Non essendone a
conoscenza e non avendo richiesto per tempo le
autorizzazioni, mi trovo ora impossibilitato a replicare
alle accuse dell'amministrazione e alla conseguente
condanna. Mi potreste dire se ci sono alternative,
precedenti o dare riferimenti normativi che a Vostro parere
chiariscano la situazione?
Risposta.
Facciamo
riferimento al Codice (dlgs 42/2004 e successive
modificazioni). All'articolo 181 (Opere eseguite in assenza
di autorizzazione o in difformità da essa), comma 1: «Chiunque,
senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa,
esegue lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici è
punito con le pene previste dall'articolo 44, lettera c),
del decreto del presidente della repubblica 06.06.2001, n.
380».
Nel dettaglio, la fattispecie citata dal lettore rientra nel
comma 1-bis: «La pena è della reclusione da uno a quattro
anni qualora i lavori di cui al comma 1_ ricadano su
immobili o aree che, per le loro caratteristiche
paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse
pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca
antecedente alla realizzazione dei lavori».
E purtroppo a nulla vale in questo caso quanto stabilito al
comma 1-quinquies: «La rimessione in pristino delle aree
o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici, da parte
del trasgressore, prima che venga disposta d'ufficio
dall'autorità amministrativa, e comunque prima che
intervenga la condanna, estingue il reato di cui al comma 1».
Per conferma di quanto appena esposto, il lettore può
consultare anche la recente sentenza (31.08.2012, n. 33542)
della Corte di cassazione, nella quale viene ribadito quanto
appena esposto, con i medesimi riferimenti al Codice dei
beni culturali e del paesaggio
(articolo ItaliaOggi Sette del 05.11.2012). |
EDILIZIA PRIVATA:
Tutela beni parrocchiali.
Domanda.
I beni artistici
contenuti nelle parrocchie sono vincolati anche se non è
stato emesso apposito procedimento? E in tal caso non
possono essere modificati o alterati in nessun modo senza
apposito permesso della sovrintendenza?
Risposta.
La risposta deve
essere positiva, e la argomentiamo facendo riferimento
all'interessantissima sentenza n. 11412 della Corte di
cassazione penale, sez. III, del 23.03.2012.
I supremi giudici, infatti, confermando la sentenza del
24.02.2011 Corte d'appello di Firenze e coerentemente con
quanto stabilito dal codice dei beni culturali e del
paesaggio, hanno ribadito che in tema di tutela, ai fini
della configurabilità del reato di cui all'art. 169, comma
1, lett. a) del codice, che stabilisce la sanzionabilità con
l'arresto da sei mesi a un anno e con l'ammenda da euro 775
a euro 38.734,50 di chiunque, privo di autorizzazione,
demolisca, rimuova, modifichi, restauri o esegua opere di
qualunque genere sui beni culturali indicati nell'articolo
10, non è necessario alcun vincolo esplicito per i beni
culturali appartenenti alle parrocchie in virtù della
preesistenza della dichiarazione di interesse culturale.
In particolare, nella sentenza, viene ribadito che, «in
tema di protezione delle bellezze naturali, ai fini della
configurabilità del reato di cui all'art. 169, comma primo,
lett. a) del dlgs 22.01.2004, n. 42 che punisce l'abusiva
demolizione, rimozione, modifica, restauro o esecuzione di
opere di qualunque genere su beni culturali, non è
necessaria per i beni artistici appartenenti alle parrocchie
la preesistenza della dichiarazione di interesse culturale
del bene, giacché si presumono per legge beni culturali, se
hanno valore artistico, ecc..
Di conseguenza, l'affermazione del funzionario della
soprintendenza secondo il quale i beni delle chiese aperte
al pubblico sono stati sempre considerati beni culturali, se
aventi valore artistico, è conforme alle disposizioni
normative che si sono succedute nel tempo in materia di
tutela di beni artistici e all'orientamento di questa Corte»
(articolo ItaliaOggi Sette del 05.11.2012). |
EDILIZIA PRIVATA: Belvedere
e tutela.
Domanda
È possibile che un
«belvedere» sia vincolato in funzione del paesaggio
(naturalistico o culturale) che da lì si può ammirare?
Risposta
Sì. All'articolo
136, comma 1, lettera d), del Codice dei beni culturali e
del paesaggio, infatti, si chiarisce che tra gli immobili e
aree che possono essere individuati come tutelati come beni
paesaggistici per il loro notevole interesse pubblico ci
sono «le bellezze panoramiche e così pure quei punti di
vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si
goda lo spettacolo di quelle bellezze»
(articolo ItaliaOggi Sette del 05.11.2012). |
NEWS |
PUBBLICO
IMPIEGO - VARI: Le
nuove norme allargano l'applicazione del reato.
Responsabilità amministrativa della società. Stretta sulla
corruzione privata, ritoccare documenti costerà caro
Corruzione privata a maglie strettissime. Inasprite le pene
per chi «ritocca» bilanci e documenti ufficiali lasciandosi
corrompere; allargato inoltre, l'ambito applicativo del
reato. Non solo: scatterà anche la responsabilità
amministrativa della società per l'illecito penale commesso
dal proprio dipendente i sensi del dlgs. n. 231/2001.
La legge anticorruzione, appena approvata dal parlamento,
fissa più rigidi paletti non solo nei rapporto tra privati e
pubbliche amministrazioni, ma anche nelle operazioni
intercorse tra impresa e impresa.
L'art. 20 della legge riformula il testo dell'art. 2635
c.c., modificandone altresì la rubrica in «Corruzione tra
privati» (in luogo dell'«Infedeltà a seguito di
dazione o promessa di utilità»). Si prevede ora che «Salvo
che il fatto costituisca più grave reato, gli
amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti
alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci
e i liquidatori, che, a seguito della dazione o della
promessa di denaro o altra utilità, per sé o per altri,
compiono od omettono atti, in violazione degli obblighi
inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà,
cagionando nocumento alla società, sono puniti con la
reclusione da uno a tre anni. Si applica la pena della
reclusione fino a un anno e sei mesi se il fatto è commesso
da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno
dei soggetti indicati al primo comma. Le pene sono
raddoppiate se si tratta di società con titoli quotati in
mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell'Unione
europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante. Si
procede a querela della persona offesa, salvo che dal fatto
derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione
di beni o servizi».
Risulta dunque ampliato l'elenco dei possibili autori del
reato che possono essere, oltre ai soggetti individuati nel
primo comma (amministratori, direttori generali, dirigenti
preposti alla redazione dei documenti contabili societari,
sindaci e liquidatori), anche coloro i quali sono sottoposti
alla direzione o alla vigilanza di questi ultimi.
Tale ampliamento tiene conto del rilievo in proposito
specificamente, con riferimento al reato di corruzione
privata descritto nel previgente art. 2635 c.c., ritenuto
non conforme agli articoli 7 e 8 della Convenzione penale di
Strasburgo del 27/01/1999.
La pena è ridotta fino a un anno e sei mesi allorché il
reato sia commesso da un soggetto sottoposto a quelli cui la
norma si rivolge in prima battuta: si tratta del personale
che è sotto la vigilanza o la direzione degli
amministratori, dei direttori generali ecc. È proprio in
questo l'allargamento principale della fattispecie: il
coinvolgimento di soggetti che non hanno responsabilità
dirette verso l'esterno, ma che agiscono in funzione di un
rapporto con i rappresentanti dell'impresa.
Per il soggetto che dà o promette utilità in cambio della
manipolazione dei documenti contabili è prevista la stessa
pena, con ciò disincentivando ancor più le condotte
criminose individuate.
Infine la pena è raddoppiata laddove siano coinvolte società
quotate in mercati regolamentati. Come anticipato la nuova
previsione penale trova riscontro anche nella disciplina
della responsabilità amministrativa delle imprese per i
reati commessi da propri apicali.
L'inserimento tra i reati societari di cui all'art. 25-ter
del dlgs 231/01 viene disposto con riferimento ai «casi
previsti dal terzo comma dell'art. 2635 c.c.»: la
responsabilità amministrativa ex dlgs 231/2001 conseguente
alla commissione del reato di corruzione tra privati, e
quindi l'eventuale irrogazione della sanzione pecuniaria da
duecento a quattrocento quote, sarebbe pertanto
configurabile a carico della società cui appartiene il
soggetto corruttore, ossia colui che «dà o promette
denaro o altra utilità alle persone indicate nel primo e nel
secondo comma» dell'art. 2635 c.c. (soggetti corrotti).
---------------
Concussione, non per induzione.
Semaforo verde alla legge anticorruzione, che aggiorna anche
il catalogo dei reati presupposto della responsabilità
amministrativa delle imprese per i reati commessi da manager
e dipendenti: scatta anche per la concussione per induzione
e per la corruzione tra privati. La legge ha fatto molto
discutere anche per i possibili effetti sui processi con
imputati eccellenti, ma è da analizzare nel suo complesso.
Si tratta di una riforma che generalmente innalza i livelli
sanzionatori e precisa le fattispecie incriminatrici.
Significativa è l'inversione di tendenza per la
procedibilità della corruzione tra privati: da procedibile a
querela a procedibile di ufficio quando dal fatto derivi una
distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o
servizi. Un netto distacco rispetto all'impostazione del
decreto legislativo 61/2002, che ha depenalizzato il falso
in bilancio e ha subordinato molti reati societari alla
querela dell'interessato.
Il reato di concussione diventa riferibile al solo pubblico
ufficiale (e non più anche all'incaricato di pubblico
servizio) e non è più prevista la fattispecie per induzione,
oggetto di un autonomo reato; la corruzione impropria del
pubblico ufficiale (corruzione per un atto d'ufficio) viene
riformulata in modo da rendere punibile chi tiene condotte
illecite a prescindere dall'adozione o dall'omissione di
atti inerenti al proprio ufficio. La legge aggiunge al
codice penale il nuovo articolo 319-quater, «Induzione
indebita a dare o promettere utilità» (cosiddetta
concussione per induzione), che punisce sia il pubblico
ufficiale o incaricato di pubblico servizio che induce il
privato a pagare (reclusione da 3 a 8 anni) sia il privato
che dà o promette denaro o altra utilità (reclusione fino a
3 anni). Viene inserito nel codice il delitto di «Traffico
di influenze illecite» (nuovo articolo 346-bis) che
sanziona chi sfrutta le sue relazioni con un soggetto
pubblico al fine di farsi dare o promettere denaro o altro
vantaggio patrimoniale come prezzo della sua mediazione
illecita oppure per remunerare il funzionario, in relazione
al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o
all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio.
Vediamo ora le novità in dettaglio.
Concussione.
Il reato di concussione diventa riferibile al solo pubblico
ufficiale; scompare la fattispecie della concussione per
induzione ed è previsto un aumento del minimo della pena,
portato da quattro a sei anni di reclusione.
L'eliminazione del riferimento alla figura dell'incaricato
di pubblico servizio ripristina il testo dell'articolo 317
del codice penale vigente anteriormente alla riforma
effettuata con la legge n. 86 del 1990. L'impostazione
originaria del codice penale infatti non contemplava gli
incaricati di pubblico servizio fra i soggetti attivi del
delitto di concussione, limitando l'ambito di applicazione
dello stesso ai soli pubblici ufficiali.
Corruzione.
La «corruzione per un atto d'ufficio» si chiama «corruzione
per l'esercizio della funzione». Il reato ha una
sanzione più elevata. La corruzione è incentrata
sull'indebita ricezione o accettazione della promessa di
denaro o altra utilità collegata all'esercizio delle
funzioni o dei poteri del pubblico ufficiale, e non al
compimento di un atto dell'ufficio. Viene soppressa
l'ipotesi più lieve per il pubblico ufficiale che riceve la
retribuzione per un atto già compiuto. La disposizione si
applica anche all'incaricato di pubblico servizio.
Corruzione per atti contrari ai doveri
d'ufficio. Il
reato continua ad applicarsi anche all'incaricato di
pubblico servizio e ne è aumentata la pena, da quattro a
otto anni, in luogo della reclusione da due a cinque anni.
Corruzione in atti giudiziari.
Viene aumentata da quattro a dieci anni (anziché da tre a
otto anni) la pena della reclusione per la corruzione in
atti giudiziari.
Concussione per induzione.
Si chiama «induzione indebita a dare o promettere utilità»
il nuovo reato previsto dall'articolo 319-quater, codice
penale, di nuova introduzione. La norma punisce il pubblico
ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che induce il
privato a pagare; il privato che dà o promette denaro o
altra utilità è punito invece con la reclusione fino a tre
anni.
Traffico di influenze.
È nuovo il reato di «traffico di influenze illecite» che
punisce con la reclusione chi, sfruttando relazioni
esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di
un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a
sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come
prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico
ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio oppure per
remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario
ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto
del suo ufficio.
Abuso di ufficio.
La legge punisce più severamente l'abuso d'ufficio,
prevedendo l'applicazione della pena della reclusione da uno
a quattro anni, anziché da sei mesi a tre anni.
Interdizione.
La legge modifica l'articolo 317-bis del codice penale nel
senso di far conseguire l'interdizione perpetua dai pubblici
uffici anche alla condanna per corruzione per un atto
contrario ai doveri d'ufficio e in atti giudiziari.
---------------
Trasparenza della p.a. online.
La trasparenza della p.a. passa dal sito internet. Dal sito
istituzionale devono essere assicurate le informazioni
relative ai procedimenti amministrativi. Il tutto in un
quadro di facile accessibilità, completezza e semplicità di
consultazione. Nei siti web istituzionali delle
amministrazioni pubbliche si devono trovare le comunicazioni
di atti istituzionali (ad esempio, bilanci e conti
consuntivi), ma anche dati statistici per la valutazione
della regolarità ed efficienza dell'amministrazione (ad
esempio, i costi unitari di realizzazione delle opere
pubbliche e di produzione dei servizi erogati ai cittadini).
Tramite la rete deve avvenire il dialogo tra ente pubblico e
cittadino e impresa con riferimento all'iter di una singola
pratica. Non si deve perdere tempo allo sportello pubblico e
l'amministrazione deve rispondere per posta elettronica. Per
arginare la corruzione la legge appena approvata dal
parlamento (atto camera 4434-B) agisce non solo sul versante
repressivo penale, ma anche su quello preventivo: questo
significa impedire che si creino le condizioni in cui la
corruzione attecchisce. Una amministrazione efficiente e
rapida argina le situazioni in cui per far andare avanti la
pratica bisogna pagare un prezzo illecito. Ma vediamo le
novità della legge sotto il profilo della trasparenza
amministrativa.
Tutto sul web.
La legge fa un elenco degli atti da mettere sotto i
riflettori. Si tratta di autorizzazioni e concessioni;
appalti e gare pubbliche; concessione ed erogazione di
sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari, nonché
attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a
persone ed enti pubblici e privati; concorsi e prove
selettive per l'assunzione del personale e progressioni di
carriera.
Tempi senza veli.
La legge stabilisce che le amministrazioni devono provvedere
al monitoraggio periodico del rispetto dei tempi
procedimentali attraverso la tempestiva eliminazione delle
anomalie. Inoltre i risultati del monitoraggio devono essere
consultabili nel sito web istituzionale di ciascuna
amministrazione.
Per il cittadino.
Ogni amministrazione pubblica deve rendere noto, sul proprio
sito web istituzionale, almeno un indirizzo di posta
elettronica certificata cui il cittadino possa rivolgersi
per trasmettere istanze e ricevere informazioni circa i
provvedimenti e i procedimenti amministrativi che lo
riguardano.
Appalti.
Con riferimento alle gare e alle procedure per l'affidamento
di contratti pubblici la legge precisa che cosa debbono
pubblicare le stazioni appaltanti sul sito web. Ecco
l'elenco: la struttura proponente; l'oggetto del bando;
l'elenco degli operatori invitati a presentare offerte;
l'aggiudicatario; l'importo di aggiudicazione; i tempi di
completamento dell'opera, servizio o fornitura; l'importo
delle somme liquidate.
Entro il 31 gennaio di ogni anno, inoltre, tali
informazioni, relativamente all'anno precedente, sono
pubblicate in tabelle riassuntive rese liberamente
scaricabili in un formato digitale standard aperto che
consenta di analizzare e rielaborare, anche a fini
statistici, i dati informatici
(articolo ItaliaOggi Sette del 05.11.2012). |
APPALTI: Appalti,
slalom sul campo minato della responsabilità solidale.
Le principali problematiche, e le relative
possibili soluzioni, sul nuovo adempimento.
Caos in azienda per la nuova ipotesi di responsabilità
solidale nel caso di appalto di opere e servizi. Una norma
(magari anche con valide motivazioni alle spalle) sparata
nel mucchio senza troppe delimitazioni sta rischiando di
creare l'impasse totale.
Ecco allora una serie di questioni che a oggi, nonostante la
normativa sia ormai in vigore, sono ancora sul tappeto e su
cui neanche la circolare 40/E dell'Agenzia delle entrate è
riuscita a fare luce. Per ognuna di esse offriremo una
possibile soluzione adatta a coloro i quali, per poter
continuare a operare, devono assumere una decisione.
La norma e le spiegazioni.
La norma di riferimento è l'articolo 13-ter del dl n. 83 del
2012 titolato «Disposizioni in materia di responsabilità
solidale dell'appaltatore». Gli unici chiarimenti fino a
oggi intervenuti sono quelli contenuti nella circolare n.
40/E dell'08.10.2012 (si veda ItaliaOggi Sette del 29
ottobre) che ha compiuto degli sforzi per facilitare alcuni
compiti, ma non è riuscita a superarli in toto. Anche perché
non vi è certezza che sia proprio l'Agenzia delle entrate
che deve superare alcuni di questi ostacoli, quali per
esempio l'esatto ambito di applicazione oggettivo della
disposizione (cos'è un contratto di appalto).
L'entrata in vigore.
Almeno su questo punto non vi sono incertezze dopo i
chiarimenti dell'Agenzia. Erano sorti dubbi, infatti,
nell'individuare il momento a partire dal quale il
committente/appaltatore era tenuto, in forza delle nuove
disposizioni, a verificare gli adempimenti fiscali in
relazione alle prestazioni effettuate nell'ambito del
rapporto di appalto/subappalto.
Secondo l'Agenzia si devono considerare due fatti
(concorrenti):
● le regole trovano applicazione solo per i contratti di
appalto/subappalto stipulati dal 12 agosto 2012;
●
in forza di quanto previsto dallo statuto del contribuente,
visto che la norma introduce un adempimento di natura
tributaria, gli adempimenti devono essere posti in essere a
partire dal sessantesimo giorno successivo a quello di
entrata in vigore della norma e quindi in relazione ai
pagamenti effettuati a partire dall'11.10.2012, in relazione
ai contratti stipulati a partire dal 12.08.2012.
Ambito oggettivo.
La disposizione prevede la responsabilità dell'appaltatore e
del committente per il versamento all'Erario delle ritenute
fiscali sui redditi di lavoro dipendente e dell'imposta sul
valore aggiunto dovuta dal subappaltatore e dall'appaltatore
in relazione alle prestazioni effettuate nell'ambito del
contratto. Il contratto in questione deve essere di appalto
di opere o servizi.
Ma come fare a identificare tale fattispecie? La
qualificazione giuridica di un contratto genericamente di
servizi non è facile e da anni la stessa giurisprudenza
(anche di legalità) sta proponendo interpretazione di volta
in volta non del tutto coincidente. L'unico riferimento
certo è il codice civile (art. 1655), che definisce il
contratto di appalto come quel contratto «col quale una
parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con
gestione a proprio rischio, il compimento di una opera o di
un servizio verso un corrispettivo in danaro».
Inoltre: i contratti d'opera sono inclusi o esclusi?
Provando a immaginare i rapporti esistenti in una azienda
l'individuazione diviene un rompicapo (anche pensando che
molti di questi rapporti non sono nemmeno formalizzati in
forma scritta). Torna alla mente la pioggia di risoluzioni
che sono intervenute quando era stato introdotto il
reverse charge obbligatorio nel campo dei sub appalti
edili (e i dubbi esistono ancora). Il consiglio più facile
sarebbe quello nella pratica operativa di estendere al
massimo l'ambito oggettivo, ma ciò non può certo dirsi una
soluzione.
Il settore dell'attività.
L'art. 13-ter non fa alcun riferimento a una particolare
settore a cui lo stesso deve applicarsi facendo presumere la
sua applicazione a qualsiasi contratto di appalto o servizi.
È vero però che il titolo I della norma in cui è compreso
anche l'art. 13-ter è denominato Misure per l'edilizia e da
ciò vi è chi sta cercando di sostenere la limitazione
dell'applicazione delle regole agli appalti di tale settore.
A oggi la scelta di questa strada non appare però
sufficientemente sorretta da motivazioni giuridica e
potrebbe significare esporsi a rischi non di poco conto.
Anche perché ripercorrendo la volontà del legislatore questa
limitazione del campo di applicazione della novità non pare
così evidente.
I soggetti.
Appaltatore, sub appaltatore e committente sono tutti e tre
in diversa misura nella morsa della nuova regola.
Anche dopo la circolare 40/E le diverse posizioni dovrebbero
così riassumersi:
● tra appaltatore scatta la solidarietà in assenza delle
cautele imposte dalla norma;
●
per il committente non scatta invece la solidarietà ma una
sanzione nella misura da 5 mila a 200 mila euro.
Il committente.
Appurato che la responsabilità solidale non è un problema
del committente (sarebbe bene che anche sul punto arrivasse
una conferma esplicita) la circolare 40/E non risolve tutti
i problemi di quest'ultimo. La stessa infatti fa intuire (ma
ciò è desumibile purtroppo anche dalla norma) che il rischio
sanzionatorio per il committente non riguarda unicamente gli
adempimenti dell'unico soggetto con cui lui ha a che fare
(l'appaltatore), ma anche i comportamenti dei sub
appaltatori che potrebbe anche non conoscerlo (potrebbe non
sapere nemmeno del loro intervento).
Il committente Alfa per stare al sicuro deve ottenere la
documentazione sia dal suo appaltatore beta che da tutti i
sub appaltatori di quest'ultimo (in molti casi ciò è
materialmente impossibile). Un altro problema del
committente riguarda la sanzione. La stessa è fissata in
misura variabile da 5 mila a 200 mila euro senza che vi sia
un proporzionalità con il pagamento effettuato.
Un esempio: il committente paga prima di aver verificato la
regolarità del comportamento dell'appaltatore o dei sub
appaltatori e la sanzione sembra in ogni caso scattare
(minimo di 5 mila euro), anche nel caso in cui il pagamento
sia di soli 100 euro. Il tutto appare un po' eccessivo
(articolo ItaliaOggi Sette del 05.11.2012). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Fatture
sprint. Sulla carta.
La pubblica amministrazione dovrebbe pagare in 30 giorni, ma
non ci sono soldi. Oppure non si possono spendere per via
del patto di Stabilità.
La pubblica amministrazione salderà i suoi debiti in 30
giorni, massimo due mesi, e non più in sei mesi, un anno, e
anche oltre, come succede oggi. Lo stesso vale per i
pagamenti tra imprese.
Lo prevede un decreto legge approvato dal governo nei giorni
scorsi. Una norma salutata con favore dalle imprese,
ovviamente. Ma che segna un bel passo in avanti nel
velleitarismo giuridico. Perché se le pubbliche
amministrazioni hanno finora accumulato quasi 100 miliardi
di arretrati la causa non è la pigrizia o l'indolenza dei
responsabili dei pagamenti. Il motivo è che non ci sono i
soldi. O, se ci sono, non si possono spendere a causa delle
regole imposte dal patto di Stabilità.
Il governo Monti invece di affrontare questi macigni
preferisce aggirare l'ostacolo e, con una norma che comunque
consente di guadagnare tanti bei titoli sui giornali, impone
una regola che, si sa già, non potrà essere rispettata.
Primo perché l'obbligo di pagare in 30 giorni è già
contenuto nel dlgs 231 del 2002, anche se poteva essere
derogato. Poi perché il patto di Stabilità interno, una
delle cause principali dei ritardi di pagamento, non solo
non viene allentato, ma dal 01.01.2013, guarda caso la
stessa data di avvio delle nuove disposizioni, sarà esteso
ai comuni sopra i mille abitanti (ora interessava gli enti
con popolazione sopra i 5 mila).
D'altra parte i trasferimenti agli enti locali sono in
continua diminuzione. Tanto che questi motivi hanno reso
molto difficoltosa addirittura la certificazione dei crediti
delle imprese nei confronti della p.a., figuriamoci il
pagamento. Un sindaco o un governatore che non ha i soldi o
che se li ha non li può spendere, potrà rispettare i termini
di pagamento solennemente fissati dal nuovo decreto?
Improbabile. Lo stesso vale per i rapporti tra imprese
private, dove le norme già esistono, ma non sono riuscite a
ridurre i tempi di pagamento che anzi, a causa della crisi
degli ultimi anni, si sono allungati sempre più. Anche in
materia di lotta alla corruzione, l'approccio del governo
ricorda sempre più quello delle grida di manzoniana memoria.
La legge approvata mercoledì scorso infatti cerca di
chiudere le maglie normative, estendendo la rilevanza penale
e la sanzionabilità anche a quelle figure aziendali che non
hanno rappresentanza esterna ma che sono sottoposte al
controllo degli amministratori e quindi dei vertici
aziendali. Con il rischio concreto di ingessare l'azione
delle aziende che dovranno, quantomeno, ampliare i propri
modelli organizzativi.
Inasprire le pene o allargare l'ambito di applicazione dei
reati rischia però di danneggiare solo chi opera in buona
fede. Non intimorisce certo i corrotti. Che normalmente si
preoccupano di non farsi trovare con le mani nel sacco, non
se e quale sanzione potrà essere loro comminata
(articolo ItaliaOggi Sette del 05.11.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Saldo
in 30 giorni o interessi top. Cambiano le regole per la p.a..
Il dlgs che dimezza i tempi di
pagamento. Ma lo stock di crediti incagliati è ormai
ingestibile.
Obbligo di saldare le fatture entro uno
o al massimo due mesi e interessi di mora intorno al 10% per
i ritardatari.
Basteranno
queste misure per riportare a un livello fisiologico i tempi
di pagamento della p.a.? Lo scorso 31 ottobre il governo ha
licenziato uno schema di decreto legislativo che recepisce
nel nostro ordinamento la direttiva n. 2011/7/Ue relativa
alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni
commerciali.
Come noto, il problema dei ritardi riguarda soprattutto le
fatture emesse nei confronti di soggetti pubblici, che
spesso costringono i creditori ad aspettare il saldo per
mesi (e nei casi peggiori anni). Tale prassi è purtroppo
molto diffusa nel nostro paese. Secondo le rilevazioni
dell'Ance, la p.a. paga, in media, con un ritardo di 114
giorni, ma in alcuni casi si superano i due anni. Il dato
più allarmante, però, è il continuo peggioramento della
situazione. Complice la crisi economica, mentre nel 2010
circa la metà delle imprese segnalava aumenti nei ritardi,
il dato per il 2011 è salito al 77%. Nella quasi totalità
dei casi (97%), inoltre, gli ultimi 12 mesi non hanno
portato alcun miglioramento.
Tale quadro è confermato da una recente indagine di Confapi,
secondo cui sei pmi su dieci hanno riscontrato, negli ultimi
quattro anni, un allungamento dei tempi medi per i
pagamenti, mentre una su due denuncia ritardi superiori
all'anno. In pratica, quando va bene i tempi di pagamento
rimangono invariati, ma sempre più spesso continuano ad
allungarsi.
Non sorprende, quindi, che negli anni passati si sia
accumulato uno stock di crediti incagliati di proporzioni
impressionanti. La cifra complessiva non è neppure
facilmente verificabile, dato che le attuali regole della
contabilità pubblica non consentono agevolmente di
distinguere, nel coacervo dei «residui passivi» della p.a.,
i debiti veri e propri. In ogni caso, si tratta di un numero
che oscilla fra i 70 e i 100 miliardi di euro. Le imprese
interessate rischiano di cadere in un circolo vizioso da cui
è difficile uscire: i ritardati pagamenti rischiano di
generare irregolarità fiscali (con tutte le conseguenze del
caso) e contributive (che, fotografate nei Durc, impediscono
di accedere a nuove commesse).
Ecco perché sono sempre più diffusi i casi di fallimenti di
imprese «in bonis».
In questo contesto si inserisce il provvedimento varato la
scorsa settimana dal Governo. Come detto, esso è stato
adottato per adeguare il diritto interno alle indicazioni
sempre più stringenti provenienti da Bruxelles, che ha fatto
della repressione dei pagamenti-lumaca un obiettivo
strategico.
Il decreto del Governo corregge il precedente dlgs 231/2002
(anch'esso a suo tempo adottato per recepire una direttiva
europea, la n. 2000/35/Ce) prevedendo due principali novità,
che diventeranno operative per tutte le transazioni
commerciali concluse dal 01.01.2013.
In primo luogo, alle p.a. viene imposto di effettuare i
pagamenti entro un termine molto breve: di norma non si
potranno superare i 30 giorni e solo in casi eccezionali si
potrà arrivare a 60.
In secondo luogo, chi non rispetterà questo timing dovrà
corrispondere alla controparte un interesse molto elevato,
pari al tasso fissato dalla Banca centrale europea
maggiorato dell'8% (al momento, quindi, la soglia si aggira
intorno al 10%). Tale sanzione scatterà in automatico
(ovvero senza necessità di costituzione in mora) dal giorno
successivo alla scadenza del termine.
Si tratta di una disciplina più restrittiva della
precedente, che pure imponeva in via generale di pagare
entro un mese e fissava uno spread elevato (+7%) rispetto al
tasso Bce, ma che consentiva sia stabilire un termine
superiore a quello legale, sia di fissare in diversa misura
il tasso degli interessi dovuti nell'ipotesi di ritardato
pagamento. Sebbene fosse previsto espressamente il divieto
(sanzionato con la nullità parziale) di clausole gravemente
inique per il creditore, spesso quest'ultimo ha stentato ad
ottenere giustizia, perlopiù a causa della mancanza di forza
contrattuale
D'ora in avanti, invece queste deroghe non saranno più
consentite.
Ma sarà sufficiente a correggere una tendenza così radicata
e che affonda le proprie radici nei mali atavici del sistema
pubblico italiano?
Qualche dubbio, al riguardo, è legittimo
(articolo ItaliaOggi Sette del 05.11.2012). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI: Debiti
commerciali. Obbligo di versamento a 30-60 giorni e tassi
maggiorati per i ritardi solo sui contratti dal 2013.
Il pagamento si scontra col Patto. Via libera al Dlgs sui
termini ridotti - Da gennaio vincoli estesi ai mini-enti.
LE NUOVE REGOLE/ Impossibile inserire clausole che allungano
i tempi, o modificano la data di fattura Obbligo di
riconoscere anche i micro-interessi.
Interessi di mora con tasso Bce
maggiorato dell'8% per i pagamenti oltre il termine e
rimborso obbligatorio delle spese di recupero; sono alcune
delle novità che andranno seguite per i pagamenti dei
contratti stipulati dalle Pa dal 01.01.2013 (non si
estendono retroattivamente ai contratti già conclusi).
Le nuove regole sono arrivate la scorsa settimana, con
l'approvazione del Dlgs di recepimento della direttiva
europea 2011/7/UE del 16.02.2011. L'ambito di applicazione,
come per il Dlgs legislativo 231/2002 con cui il nostro
Paese aveva attuato la precedente direttiva, è riferito alle
transazioni commerciali, cioè ai contratti che comportano la
consegna di merci o la prestazione di servizi contro il
pagamento di un prezzo.
I pagamenti nei contratti stipulati dalla Pa dovranno
prevedere termini di regola non superiori a 30 giorni; che
potranno essere portati al massimo a 60, se le parti
concordano per iscritto e se ciò risulta oggettivamente
giustificato dal contratto o da particolari circostanze.
Per disincentivare i ritardi è previsto l'obbligo di
corrispondere interessi legali di mora, a un tasso minimo
che non può essere inferiore al tasso Bce maggiorato
dell'8%; gli interessi decorrono dal giorno successivo alla
scadenza del termine, senza che sia necessaria la
costituzione in mora.
Fra le conseguenze negative del ritardo è stato inserito
anche il diritto del creditore al risarcimento dei costi
amministrativi e interni di recupero del credito, che sono
forfetizzati in 40 euro, salvo la prova di maggiori costi;
anche questo rimborso, come gli interessi, va corrisposto
senza che sia necessaria la costituzione in mora e
indipendentemente dalla dimostrazione di aver sostenuto
costi.
Sono nulle per legge, senza ammissione di prova contraria in
quanto considerate gravemente inique, le clausole che
escludono l'applicazione di interessi di mora e nei
contratti della Pa la clausola relativa alla
predeterminazione o modifica della data di ricevimento della
fattura. Inoltre si presume gravemente iniqua la clausola
che esclude il risarcimento dei costi di recupero del
credito. Tra le novità viene meno l'esclusione delle
richieste di interessi inferiori a 5 euro. Nei casi di
pagamenti a rate, gli interessi e il risarcimento maturano
dalle singole rate scadute.
La tutela della tempestività dei pagamenti è da tempo
presente negli interventi del legislatore, ed ha già
ispirato numerose misure a carico delle amministrazioni
pubbliche. Va ricordato innanzi tutto l'obbligo imposto a
tutte le Pa di adottare, entro il 31.12.2009 le opportune
misure organizzative per garantire il tempestivo pagamento
delle somme dovute per somministrazioni, forniture e
appalti.
Relativamente al Patto di stabilità, con il cosiddetto visto
di compatibilità monetaria, il funzionario che adotta
provvedimenti con impegni di spesa deve accertare
preventivamente che il programma dei conseguenti pagamenti
sia compatibile con i relativi stanziamenti di bilancio e
con le regole di finanza pubblica (articolo 9, comma 1, del
DL 78/2009). In sostanza, l'obbligo di verificare la
compatibilità della spesa con i limiti previsti dal Patto è
finalizzato a prevenire l'insorgenza di spese e quindi di
contratti da cui scaturiscano pagamenti non compatibili con
i vincoli del Patto stesso. A ciò si aggiunge la necessità
di programmazione dei pagamenti, altro strumento utile al
raggiungimento degli obiettivi del Patto di stabilità da
parte delle Pa.
Patto di stabilità che dal 01.01.2013 sarà esteso per la
prima volta anche ai Comuni con popolazione compresa fra
mille e 5mila abitanti, ai quali si raccomanda quindi di
adottare da subito, qualora non lo avessero già effettuato,
la programmazione degli incassi e dei pagamenti ed il visto
di compatibilità monetaria, la cui mancanza è fonte di
responsabilità amministrativa.
---------------
I paletti
01 | PATTO DI STABILITÀ
A bloccare i pagamenti è spesso la decisione di impegni di
spesa che poi non trovano capienza nei limiti imposti dal
Patto.
Dal 1° gennaio prossimo i vincoli del Patto di stabilità
saranno estesi ai Comuni fra mille e 5mila abitanti.
02 | RESPONSABILITÀ
Le norme impongono ai funzionari di non firmare atti di
spesa che non trovino capienza nei limiti ai pagamenti
consentiti dal Patto di stabilità.
03 | PROGRAMMAZIONE
Obbligatoria per tutti la definizione di un piano dei
pagamenti che rispetti il Patto
(articolo Il
Sole 24 Ore del 05.11.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
SEGRETARI
COMUNALI: Anticorruzione.
Modifiche al Tuel. Revoca del segretario soggetta a
verifica.
Le disposizioni approvate in via definitiva dalla Camera
sulla repressione della corruzione vedono il segretario
comunale come soggetto chiamato ad assolvere, negli enti
locali, le funzioni di responsabile della prevenzione della
corruzione attribuendogli precise funzioni (tra le altre, la
predisposizione del piano triennale di prevenzione della
corruzione e la vigilanza sulla sua attuazione) e ampie
responsabilità di natura disciplinare e erariale in caso di
omissione di controllo.
Quello che emerge dalla disciplina è però il fatto che a
fronte di queste ulteriori funzioni di garanzia e controllo
e delle responsabilità previste, nessuna garanzia
sostanziale è prevista per il segretario comunale: È
semplicemente aggravata la procedura di revoca prevista
dall'articolo 100 del Tuel (Dlgs 267/2000), prevedendo che
il provvedimento di revoca del sindaco per gravi violazioni
d'ufficio sia comunicato tramite il prefetto all'autorità
nazionale anticorruzione, che entro 30 giorni vaglierà se la
revoca si ricolleghi o meno alle attività anticorruzione
svolte dal segretario. Trascorso il termine senza obiezioni
da parte dell'autorità, la revoca del segretario diventerà
efficace.
Si tratta di una garanzia blanda, più formale che
sostanziale, dato che a oggi i casi di revoca dei segretari
in base all'articolo 100 del Tuel sono sporadici.
Il provvedimento quindi nulla prevede su maggiori garanzie,
sia nella nomina, sia nella non conferma del segretario,
auspicate dall'apposita commissione ministeriale ma
soprattutto da settori della categoria, in considerazione
del fatto che la nomina fiduciaria e lo spoil sistem
automatico, mal si conciliano con le sempre più ampie
funzioni di controllo e garanzia che sono assegnate ai
segretari.
Si pensi infatti alle funzioni di controllo e garanzia
previste sia nel provvedimento anti corruzione, sia nel
decreto legge 174/2012 in materia di controlli sugli enti
locali
(articolo Il
Sole 24 Ore del 05.11.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Le
scadenze. Le materie sottoposte da gennaio all'obbligo di
gestione associata.
Piccoli Comuni insieme anche per l'urbanistica. La spending
review ha «liberato» dalle limitazioni i segretari.
La gestione della segreteria comunale
non rientra tra le funzioni fondamentali che i piccoli
Comuni devono gestire necessariamente in forma associata,
mentre gli strumenti urbanistici dovranno essere adottati in
modo unitario.
Con i correttivi portati dal Dl 95/2012 si definisce il
quadro normativo delle gestioni che i Comuni fino a 5mila
abitanti devono mettere in cantiere in queste settimane
perché siano operative dal 1° gennaio prossimo. Regole che
si aggiungono al superamento del vincolo per i Comuni al di
sotto dei mille abitanti di dare corso alla gestione
associata di tutte le attività e alla spinta a fare ricorso
alle convenzioni rispetto alle Unioni.
Senza dimenticare che entro la fine di marzo in questi
centri le gare di lavori pubblici, di beni e di forniture
dovranno essere realizzate dalle centrali uniche di
committenza e non più dalle singole amministrazioni: è
questo un vincolo che si applica anche alle attività che i
singoli Comuni potranno continuare a svolgere da soli.
Il passaggio da un'individuazione delle attività che i
piccoli Comuni devono gestire insieme basata sui capitoli di
bilancio a una che assume una logica istituzionale è assai
corretto in termini di impostazione e di efficienza, ma pone
problemi di prima applicazione. Si passa, in primo luogo,
dalle attività generali, di amministrazione e controllo per
almeno il 70% della spesa corrente all'organizzazione
generale dell'amministrazione, gestione finanziaria e
contabile e controllo.
La norma precedente imponeva di mettere insieme almeno il
70% della spesa del personale, della ragioneria e dei
compiti generali, ambito in cui rientrava la segreteria
comunale, che quindi doveva essere gestita in modo unitario
salvo il caso in cui il Comune avesse deciso di considerarla
compresa tra la quota di spesa esclusa. Adesso si resta
nell'ambito dell'organizzazione generale di queste attività,
con una specifica attenzione al settore finanziario. La
limitazione alla organizzazione generale determina come
conseguenza che non è indispensabile mettere insieme le
segreterie nell'ambito della gestione unitaria della
funzione.
Considerazioni analoghe si devono fare anche per
l'organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale
di ambito comunale. La norma non obbliga i piccoli municipi
a mettere insieme la gestione dei servizi idrici, di
distribuzione del gas, dei trasporti pubblici locali, ma a
dettare in modo unitario le regole fondamentali. Mentre
devono mettere insieme, per esplicita indicazione, la
gestione del servizio rifiuti, insieme alla riscossione dei
relativi tributi.
È rilevante la scelta del Dl 95 di imporre la gestione
associata della pianificazione urbanistica ed edilizia di
ambito comunale, mentre in precedenza ci si riferiva
solamente al governo del territorio e dell'ambiente. Questa
scelta determina che sia gli strumenti urbanistici sia
quelli edilizi saranno gestiti in forma associata; anche il
rilascio dei permessi edilizi dovrebbe quindi essere gestito
in forma associata. Queste scelte confermano che i compiti
più importanti che i piccoli Comuni potranno continuare a
gestire da soli sono i lavori pubblici, ambito che con il Dl
95 si estende anche alla viabilità
(articolo Il
Sole 24 Ore del 05.11.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Modelli organizzativi. Le resistenze. La
convenzione salva il personale.
La realizzazione della gestione associata delle funzioni
fondamentali da parte dei piccoli Comuni determina un primo,
certo, risparmio nella diminuzione del numero dei
responsabili, e quindi della relativa spesa. Il che sta già
provocando ostilità dei vertici burocratici di questi enti
verso la concreta applicazione della gestione associata,
ostilità che si aggiunge a quella che serpeggia tra tutto il
personale dei piccoli Comuni, preoccupato di dovere mutare
sede e datore di lavoro.
Infatti se fino a oggi tre Comuni gestivano la polizia
locale ed avevano ognuno il proprio responsabile che godeva
quindi delle indennità di posizione e di risultato,
con la gestione associata il responsabile non
potrà che essere uno solo e l'indennità una sola.
Questo effetto sarà prodotto sia nel caso di unioni che in
quello delle convenzioni.
Le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti del
Piemonte (parere
30.08.2012 n. 287) e della Lombardia (parere
08.10.2012 n. 426) hanno già chiarito che
non è possibile prevedere più responsabili per la
stessa funzione nel caso di gestione associata.
In caso di realizzazione della gestione associata tramite
l'unione i Comuni dovranno trasferire definitivamente a
questo soggetto i dipendenti impegnati nello svolgimento di
questa attività e cancellare i posti dalla propria dotazione
organica.
Conseguenze a cui la gran parte del personale guarda con
sfiducia perché si ritiene che l'unione sia un datore di
lavoro meno certo. Mentre nel caso delle convenzioni è
sufficiente la semplice assegnazione funzionale: si rimane
dipendenti del Comune e i posti non vengono cancellati dalla
dotazione organica. Il che è una delle ragioni che
incentivano la gestione associata attraverso la convenzione.
In molte realtà, inoltre, la sede di lavoro potrebbe essere
modificata.
Se aggiungiamo che non è prevista alcuna forma di
incentivazione, cui invece si può dare corso solamente nel
caso di utilizzo in parte alle dipendenze del Comune ed in
parte alle dipendenze della gestione associata, l'ostilità
della gran parte del personale si accresce. Il che
costituisce uno degli ostacoli di maggiore rilievo al
successo della gestione associata
(articolo Il
Sole 24 Ore del 05.11.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI: Appalti
e arbitrato, l'anticorruzione è un passo indietro.
Il Ddl anticorruzione approvato, in via definitiva, dal
Senato torna a occuparsi dell'arbitrato negli appalti
pubblici, regolato dall'articolo 241 del Codice degli
appalti. Il disegno di legge non sembra andare però nella
giusta direzione per favorire il buon successo
dell'arbitrato a tutela tanto della stazione appaltante e
dell'impresa aggiudicataria, troppo prigioniero di un'ottica
di controllo della Pa e di contenimento di costi.
In primo luogo il Ddl propone che l'arbitrato debba essere
previamente e motivatamente autorizzato dall'organo di
governo dell'amministrazione a pena di nullità. Il Dlgs
53/2010 aveva già riformato l'articolo 241 introducendo un
obbligo per la stazione appaltante di indicare fin dal bando
di gara se il contratto conterrà la clausola compromissoria,
sempre a pena di nullità dell'arbitrato. Ancora, era stato
inserito il divieto di stipulare un compromesso ad hoc per
la soluzione di controversie già insorte tra Pa e
aggiudicatario. A soli due anni dalla riforma, oggi neppure
l'indicazione obbligatoria della clausola compromissoria fin
dal bando di gara e il divieto di compromesso sembrano
sufficiente garanzia di trasparenza, dovendo sussistere
l'ulteriore elemento della previa e motivata autorizzazione
dell'organo di governo dell'amministrazione.
È un segno del
permanere di una diffidenza verso l'arbitrato, che però può
travolgere l'affidamento che il terzo ripone nell'esistenza
di una valida clausola compromissoria, qualora risulti a
posteriori che un atto interno della Pa, volto a fornire la
previa e motivata autorizzazione, fosse carente o viziato.
L'arbitrato dovrebbe invece essere visto come una forma di
risoluzione delle controversie nell'interesse di entrambe le
parti, perché operante su un piano di parità, e in cui anche
la parte privata sceglie l'arbitrato come forma di garanzia
ulteriore in una controversia contro una parte pubblica.
Così è negli arbitrati di investimento tra Stati e
investitori privati e così è, in generale, negli altri paesi
europei.
Altro tema sensibile sono le nomine degli arbitri e dei
compensi. Anche qui era intervenuto il Dlgs 53, rafforzando
le garanzie a tutela della terzietà degli arbitri e
introducendo un tetto per i compensi. L'articolo 241 prevede
oggi che il presidente del collegio deve avere «precipui
requisiti di indipendenza» e non avere esercitato
nell'ultimo triennio funzioni di arbitro di parte o di
difensore in giudizi arbitrali in materia di appalti
pubblici (a eccezione dei casi in cui l'esercizio della
difesa sia dovere d'ufficio del difensore dipendente
pubblico), e che anche gli arbitri di parte non possano aver
avuto alcun coinvolgimento nella materia del contendere. Il
Dlgs 53 ha poi introdotto un compenso massimo per l'intero
collegio arbitrale, incluso il segretario, di 100 mila euro.
Con il Ddl anticorruzione si ritiene che queste garanzie non
siano più sufficienti, ma da un lato si dice che la nomina
deve avvenire «nel rispetto dei principi di pubblicità e di
rotazione», dall'altro si specifica che se la controversia è
tra due Pa, gli arbitri di parte possono essere solo
dirigenti pubblici, mentre se è tra una Pa e un privato,
l'arbitro nominato dalla Pa deve essere scelto
preferibilmente tra i dirigenti pubblici. Ci pare che il
funzionario pubblico mal potrebbe sottrarsi all'indicazione
"preferenziale" del legislatore, con il paradosso che
l'arbitro di nomina della Pa sarebbe perlopiù un dirigente
pubblico e quindi molto poco terzo, e con una prevedibile
compressione anche del principio di rotazione.
Ancora, il Ddl prevede che la Pa debba stabilire, a pena di nullità
della nomina, il compenso massimo per l'arbitro dirigente
pubblico e che l'eventuale differenza tra l'importo
spettante agli altri arbitri e quello massimo stabilito per
il dirigente è acquisita al bilancio della stazione
appaltante.
Il quadro è quindi quello di nomine da parte
della Pa sempre di dirigenti pubblici, con compensi più
bassi di quelli degli altri arbitri e con un incameramento
da parte della Pa della differenza. Difficile però che possa
operare in maniera equilibrata un collegio arbitrale in cui
un arbitro, per definizione di nomina della Pa, abbia un
compenso inferiore rispetto agli altri.
L'esigenza di controllare la procedura e di contenere i
costi sembra non sposarsi con quella di migliorare
l'efficacia del ricorso all'arbitrato
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.11.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Nuove province, rebus
funzioni.
I compiti trasferiti rischiano di far collassare regioni e
comuni. Non sono state ancora
definite le prerogative che passeranno di mano. Col rischio
che nulla cambi.
Resta ancora irrisolto il nodo della titolarità delle
funzioni provinciali. Da un lato il governo non è ancora
riuscito a fissare quali siano quelle attribuite alle
province con leggi dello stato attinenti alla potestà
legislativa esclusiva statale, mancando clamorosamente il
termine dello scorso 5 settembre, entro il quale un dpcm
avrebbe dovuto individuarle, per assegnarle ai comuni.
Dall'altro, il decreto di riordino cerca di chiarire meglio
la sorte delle funzioni provinciali, attribuite alle
province da leggi regionali.
A questo scopo, si introduce nell'articolo 17 del dl
95/2012, convertito in legge 135/2012, un nuovo comma
10-bis, che colma un vuoto francamente clamoroso della
disciplina di riordino provinciale.
Infatti, sebbene le regioni fossero state onerate del
compito di rivedere le funzioni attribuite alle province,
non era stato chiarito esattamente il percorso.
Il nuovo comma 10-bis dell'articolo 17 della spending review
dispone, dunque che nelle materie di cui all'articolo 117,
commi terzo e quarto, della Costituzione (cioè nell'ambito
della potestà legislativa concorrente e residuale) le
regioni dovranno trasferire con propria legge ai comuni le
funzioni già conferite alle province dalla normativa
vigente.
Tuttavia, le regioni, dispone la norma, potranno decidere
diversamente. Qualora ritengano necessario assicurare un
esercizio unitario e non polverizzato tra molteplici enti,
potranno acquisire esse stesse le funzioni a suo tempo
attribuite alle province.
Il percorso, tuttavia, per la ridefinizione delle funzioni
regionali appare piuttosto complesso ed accidentato (come
del resto per le altre funzioni provinciali non qualificate
come fondamentali).
Infatti, il decreto sul riordino precisa che insieme con le
funzioni debbono essere trasferiti ai comuni (o riacquisiti
dalle regioni) le risorse umane, finanziarie e strumentali.
Questa è una previsione corretta, che rischia, tuttavia, di
bloccare sul nascere il percorso di riforma. Infatti,
moltissime funzioni assegnate alle province anche dalle
regioni, a suo tempo in base al dlgs 112/1998, non sono mai
state finanziate dalle regioni medesime.
Nei bilanci provinciali, pertanto, non vi è alcuna traccia
di un collegamento tra l'esercizio delle competenze svolte e
i finanziamenti regionali. Il che significa che, in realtà,
le province le hanno svolte attingendo alle entrate proprie,
prevalentemente, dunque, i trasferimenti statali, le imposte
sulla trascrizione delle vendite degli autoveicoli e le
addizionali.
In assenza, allora, di un riordino della finanza locale e
regionale, sia i comuni, sia le regioni che si vedano
piovere addosso le funzioni provinciali rischiano non solo
di ritrovarsi senza le necessarie dotazioni di personale, ma
anche senza fonti di finanziamento.
Si pensi ai servizi sociali delle province, che in molte
regioni assicurano il supporto socio-educativo ai disabili
sensoriali. Pochissimi dipendenti provinciali (due, tre)
lavorano su servizi estremamente costosi, che richiedono
l'operato di lettori-ripetitori, che aiutano gli allievi a
studiare a scuola e a casa, con un servizio dedicato. Spesso
si tratta di appalti del valore di milioni, mai finanziati
dalle casse regionali.
Il governo, comunque, pare essere consapevole della
difficoltà estrema di modificare l'assetto delle competenze
provinciali, perché il nuovo comma 10-bis afferma che nelle
more del trasferimento delle risorse necessarie, le funzioni
provinciali restano conferite alle province. Senza nemmeno
prevedere un termine entro il quale le regioni dovrebbero
completare l'opera di trasferimento delle funzioni.
Come dire, insomma, che le competenze provinciali potrebbero
non cambiare mai, in barba agli intenti di riorganizzazione
ed economia di scala enunciati.
D'altra parte, il decreto non può ovviamente modificare
quanto prevede l'articolo 118, comma 2, della Costituzione,
ai sensi del quale «i comuni, le province e le Città
metropolitane sono titolari di funzioni amministrative
proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale,
secondo le rispettive competenze». Dunque, in ogni caso le
regioni possono riattribuire alle province funzioni che il
decreto vuole si assegnino ai comuni o siano da esse avocate
(articolo ItaliaOggi del 03.11.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Il
caso dell'impiegato in soprannumero al Comune di Carnago. La
spending review mette il geometra in disponibilità.
Avvio del procedimento di «messa in
disponibilità» per un geometra, capo dell'ufficio tecnico
del comune di Carnago (Varese). La misura già prevista, dal
2001, è applicata ora in considerazione del taglio alle
dotazioni organiche contenuto nella spending review.
Continua a far discutere la notizia della messa in
disponibilità del funzionario del comune di Carnago
(Varese), con i sindacati che hanno chiesto al sindaco un
immediato ripensamento. Mentre il diretto interessato ha
presentato ricorso chiedendo la reintegra (e 265mila euro di
risarcimento danni).
La vicenda nasce dall'applicazione dell'articolo 16 della
legge di stabilità 2012 (legge n. 183 del 2011) che,
novellando l'articolo 33 del Dlgs 165 del 2001, stabilisce
come le amministrazioni pubbliche che hanno situazioni di
soprannumero o eccedenze di personale possano collocare in
disponibilità il personale che non sia impiegabile
diversamente. In questi casi, dalla data di collocamento in
disponibilità, prevede ancora la legge, restano sospese
tutte le obbligazioni inerenti il rapporto di lavoro. E il
lavoratore ha diritto a un'indennità pari all'80% dello
stipendio e dell'indennità integrativa speciale per la
durata massima di 24 mesi (i periodi di godimento
dell'indennità sono comunque riconosciuti ai fini della
determinazione dei requisiti di accesso alla pensione e
della misura della stessa).
Il geometra in questione ha diretto per circa 10 anni
l'ufficio tecnico del comune di Carnago, e, riferiscono
fonti sondacali, è stato collocato in disponibilità dopo
essere stato "messo all'angolo" sul lavoro. La
procedura della messa in disponibilità è prevista dal 2001,
e non si tratta di un licenziamento. Certo «è un'ipotesi
rara. Ma può accadere, specie nelle piccole amministrazioni»,
ha sottolineato il presidente dell'Aran, Sergio Gasparrini.
Questa procedura, poi, prevede anche una comunicazione alla
Funzione pubblica (in modo tale che eventuali altre
amministrazioni in carenza di personale prima di attivare
procedure concorsuali possano richiedere il personale messo
in eccedenza). Ma questa comunicazione, a quanto si
apprende, non sarebbe stata effettuata.
I sindacati lamentano però anche altre violazioni
nell'operato del comune di Carnago, come quella, ha
sottolineato Gianna Moretto (Fp-Cgil di Varese) «che non
ha agito con trasparenza. E, in più, non ha fornito elementi
per giustificare l'esubero di personale». Anzi,
l'amministrazione di Carnago avrebbe una situazione di
carenza di almeno 13 dipendenti nella pianta organica.
Ma la messa in disponibilità del geometra in questione
potrebbe essere legata ai tagli previsti dalla spending
review. Su questo fronte però non sono ancora stati
emanati i decreti con i tagli alle piante organiche (il
termine è scaduto il 31 ottobre). A quanto si apprende
dovrebbero arrivare nelle prossime settimane.
---------------
Messa in disponibilità.
Il
collocamento in disponibilità è previsto dall'articolo 16
della legge di Stabilità 2012, che ha modificato l'articolo
33 del Dlgs 165 del 2001. Con la messa in disponibilità il
lavoratore pubblico vede sospese tutte le obbligazioni
inerenti al rapporto di lavoro. Ma percepisce una indennità
pari all'80% dello stipendio e dell'indennità integrativa
speciale per la durata massima di 24 mesi. La legge prevede
che i periodi di godimento dell'indennità siano riconosciuti
ai fini della determinazione dei requisiti di accesso alla
pensione (e dell'importo)
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.11.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI/PROGETTUALI: Integrativo
in pensione, tutto tace. Silenzio sulla possibilità di
applicare il 4% anche alla p.a.. Dal
ministero del lavoro l'apertura, ma dall'economia nessun
segnale dopo oltre un mese.
Un mese senza nessun segnale. Questa è la risposta attuale
del ministero dell'Economia alla posizione assunta da Michel
Martone circa la legittimità che i liberi professionisti
applichino il «contributo integrativo» al 4% anche alle
pubbliche amministrazioni. Stiamo parlando dell'opportunità
concreta di aumentare le loro pensioni introdotta dalla
mini-riforma Lo Presti (legge 133/2011) e dal suo
indebolimento dato proprio dal ministero dell'Economia con
una propria interpretazione restrittiva del testo di legge:
i suoi tecnici hanno imposto che il contributo integrativo
rimanga al 2% invece di salire al 4% (o al 5%) nel caso in
cui la richiesta di parcella del libero professionista sia
diretta a comuni, regioni, Asl e così via.
La posizione dell'Economia è frutto di soggettiva
interpretazione di una clausola di salvaguardia prevista
effettivamente nel testo di legge Lo Presti, che esorta a
varare provvedimenti «senza maggiori oneri per la finanza
pubblica», paventando una necessaria politica di
controllo della spesa. Il monito contenuto
nell'interpretazione del ministero non ha nulla a che
vedere, però, con lo spirito del provvedimento, dato che
negare di innalzare il contributo al 4%, contrariamente a
quanto invece fanno già molti liberi professionisti di altri
ordini professionali, significa discriminare solo alcune
categorie malcapitate, tra cui biologi, psicologi, periti
industriali e tanti altri. Inoltre una simile
interpretazione contraddice la volontà stessa del
legislatore, come risulta dagli atti preparatori al testo.
Il viceministro del Welfare, tagliando la testa al toro,
aveva sottolineato come non fosse giusto impedire solo ad
alcuni liberi professionisti ciò che è permesso ad altri,
dato che un simile atteggiamento si macchierebbe in ogni
caso di incostituzionalità. Rispondendo all'interrogazione
parlamentare urgente proposta proprio da Antonino Lo Presti
(Fli), Martone invitava il ministero dell'Economia ad un
ripensamento della posizione assunta che non trovava
fondamento: invece ad oggi nessuna risposta.
Ovviamente la questione coinvolge immediatamente non solo
gli interessi delle Casse di previdenza, ma prima di tutto i
diritti previdenziali dei liberi professionisti iscritti.
Minore contribuzione integrativa si traduce, infatti, in
minori disponibilità economiche da poter ridistribuire sulle
future pensioni in un clima di sostanziale disparità e con
un mercato del lavoro abbastanza statico. Invece la legge Lo
Presti è chiarissima e si rivolge indistintamente alla
collettività, non operando distinzione tra cliente pubblico
e privato.
E in uno Stato di diritto in cui la certezza della norma è
un pilastro, un ritardo, o meglio, il protrarsi della una
presa di posizione da parte dell'Economia senza aperture al
confronto non appare assolutamente giustificabile
(articolo ItaliaOggi del 02.11.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Pagamenti della p.a. in 30
giorni.
Termine estensibile a 60 giorni. E valido anche tra imprese.
Il decreto approvato dal Consiglio dei ministri pronto per
approdare in Gazzetta Ufficiale.
Conto salato per la pubblica amministrazione in ritardo con
i pagamenti: gli interessi sono pari al tasso Bce aumentato
di 8 punti. E di regola l'amministrazione deve pagare in
trenta giorni, derogabili, ma solo fino a sessanta giorni.
Lo schema di decreto legislativo sui ritardi di pagamento,
approvato il 31 ottobre dal Consiglio dei ministri,
recepisce la direttiva n. 2011/7/Ue, del 16.02.2011,
del Parlamento europeo e del Consiglio, e riscrive il
decreto legislativo n. 231/2002, creando un doppio binario:
da un lato le transazioni tra imprese e dall'altro quelle in
cui il debitore è un ente pubblico o equiparato.
Vediamo le
principali novità.
TASSO. Il tasso degli interessi legali moratori viene alzato
di un punto. Passa da sette a otto punti percentuali lo
spread da aggiungere al tasso fissato da Bce.
ESCLUSIONI. La normativa si applica anche alle richieste di
interessi inferiori ai 5 euro. Non si applicherà, invece, ai
debiti oggetto di procedure finalizzate alla
ristrutturazione del debito.
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE. Viene definita riprendendo la
nozione di amministrazione aggiudicatrice del codice degli
appalti (dlgs 163/2006): vi rientrano, quindi, anche
soggetti di diritto privato tenuti al rispetto della
disciplina sui contratti pubblici.
TERMINI DI PAGAMENTO TRA PRIVATI. Il termine di pagamento,
se non diversamente stabilito nel contratto, è di trenta
giorni. Le parti possono stabilire contrattualmente un
diverso termine di pagamento che non deve, di regola,
superare i sessanta giorni; può essere, però, superiore, se
concordato in forma espressa e non gravemente iniquo per il
creditore.
TERMINI DI PAGAMENTO A CARICO DELLA P.A. Per i contratti in
cui il debitore è una pubblica amministrazione, il termine
di pagamento, di regola, è non superiore a trenta giorni. Si
può fissare un termine legale di pagamento fino a un massimo
di sessanta giorni in due casi: per le imprese pubbliche
(che svolgono attività economiche di natura industriale o
commerciale, offrendo merci o servizi sul mercato) e per gli
enti pubblici che forniscono assistenza sanitaria. Le parti
possono concordare, in forma espressa, un termine superiore
a trenta giorni, se oggettivamente giustificato dalla natura
o dall'oggetto del contratto o da particolari circostanze
esistenti al momento della conclusione dell'accordo, ma
comunque non superiore a sessanta giorni.
VERIFICA MERCI. La durata massima delle procedure di
accettazione o di verifica delle merci e dei servizi non può
superare, di norma, trenta giorni.
RATE. Interessi e risarcimento devono essere calcolati
esclusivamente sulle singole rate scadute.
INTERESSI DI MORA TRA PRIVATI. Per i contratti tra imprese
devono essere corrisposti «interessi moratori», che sono
interessi legali di mora (tasso Bce più 8%) o interessi a un
tasso concordato tra le imprese.
INTERESSI DI MORA A CARICO DELLA P.A. Per i rapporti tra
imprese e pubblica amministrazione, è previsto l'obbligo di
corrispondere interessi legali di mora, e cioè interessi ad
un tasso che non può essere inferiore al tasso legale (tasso
Bce maggiorato dell'8%).
RECUPERO SPESE. Sono dovuti 40 euro fissi, come rimborso dei
costi amministrativi ed interni di recupero del credito: la
somma si cumula agli interessi di mora, è dovuta senza che
sia necessaria la costituzione in mora e indipendentemente
dalla dimostrazione dei costi. In ogni caso è salva la prova
di maggiori costi sostenuti.
CLAUSOLE NULLE. La nuova direttiva codifica la grave
iniquità da cui deriva la nullità delle clausole
contrattuali. Nel recepire la direttiva, lo schema di
decreto prevede che sono nulle, se gravemente inique, le
clausole relative al termine di pagamento, al saggio degli
interessi moratori e al risarcimento dei costi di recupero.
La legge considera automaticamente gravemente inique, senza
ammettere prova contraria, le clausole che escludono il
diritto al pagamento degli interessi di mora e quelle
relative alla data di ricevimento della fattura.
Sono
presunte gravemente inique (e quindi possibile la prova
contraria) le clausole che escludono il risarcimento dei
costi di recupero. In caso di nullità, si verifica la
sostituzione automatica delle clausole invalide con la
disciplina legislativa. Sono nulle anche le clausole
relative alla data di ricevimento della fattura, al fine di
escludere che attraverso simili accordi si eluda la
perentorietà del termine di pagamento.
SUBFORNITURA. Viene innalzato il tasso degli interessi
legali di mora: la maggiorazione del tasso di riferimento
(tasso applicato dalla Bce nelle sue più recenti operazioni
di rifinanziamento) passa da sette ad otto punti
percentuali.
DECORRENZA. La nuova disciplina (si veda altro articolo in
pagina) si applicherà alle transazioni commerciali concluse
a partire dal 01.01.2013, in anticipo rispetto alla
scadenza prevista dalla normativa Ue di riferimento (16.03.2013). Quindi la nuova disciplina non si applica
retroattivamente ai contratti già conclusi, ma soltanto a
quelli stipulati a partire dal 01.01.2013. I
destinatari delle nuove norme hanno, dunque, tempo per
adeguare la modulistica contrattuale e le procedure interne
di pagamento.
---------------
Tempi brevi anche per gli appalti. E interessi salati per tutti.
Il termine di pagamento a 30 giorni che dal 1° gennaio le
pubbliche amministrazioni dovranno rispettare verso i
fornitori di beni e servizi si applicherà anche a tutti gli
appalti.
Lo rivelano a ItaliaOggi fonti del ministero degli
affari europei, guidato da Enzo Moavero Milanesi. Dunque,
dal 01.01.2013 i termini di pagamento previsti (30
giorni estensibili a 60 nel caso in cui il debitore sia
un'impresa pubblica, un'Asl e un ospedale) e gli interessi
connessi (8 punti percentuali più il tasso legale Bce)
dovranno essere rispettati per ogni genere di fornitura di
beni e servizi. Lavori pubblici inclusi.
È quanto prevede il
decreto legislativo, che recepisce nell'ordinamento italiano
la direttiva europea sui ritardati pagamenti nelle
transazioni commerciali (2011/7/Ue del 16.02.2011),
approvato in via definitiva il 31 ottobre dal Consiglio dei
ministri, in anticipo rispetto alla scadenza fissata a marzo
2013.
La delega, frutto di un'attività di coordinamento
svolta dal ministero di Moavero, è immediatamente esecutiva;
non prevede cioè il passaggio dalle commissioni
parlamentari. Il dlgs è ora al vaglio del Quirinale e, salvo
rilievi, dovrebbe andare in G.U. la prossima settimana.
Secondo quanto risulta a ItaliaOggi, tra i ministeri
proponenti non comparirà lo Sviluppo economico. La
motivazione è formale. La delega infatti non prevedeva alcun
ruolo esplicito per il dicastero guidato da Corrado Passera.
Altro nodo sostanziale è la convivenza tra il dlgs che
recepisce la direttiva pagamenti e l'art. 62 del decreto
liberalizzazioni (1/2012), che impone alle transazioni tra
privati tempi di pagamento certi (30 giorni per le merci
deperibili e 60 giorni per i prodotti non deperibili) e
contratti di fornitura scritti e firmati da entrambi i
contraenti, per le forniture di prodotti agroalimentari.
Fonti delle politiche europee chiariscono che la direttiva
Ue non entra nel merito dei rapporti tra imprese e lascia
libertà ai privati di accordarsi sui tempi diversi di
pagamento, salvo che termini e interessi concordati non
siano iniqui per il creditore. Stessa cosa fa il dlgs
attuativo. Di conseguenza, tra le due normative non c'è
conflitto.
E in Italia si applica quanto deciso dal
parlamento col decreto Liberalizzazioni. Infine, per quanto
riguarda la possibilità di far certificare i crediti già
vantati dalle imprese verso le pubbliche amministrazioni
(processo in itinere) e di incassare pagamenti a mezzo di
Certificati di credito del Tesoro (Cct), il dicastero delle
politiche europee chiarisce che la misura riguarda
soprattutto il passato, ma non esclude una sua eventuale
applicazione anche in futuro. Qualora dovessero verificarsi
analoghe situazioni di difficoltà nei pagamenti delle p.a..
L'obiettivo, ovviamente, è che per i contratti di fornitura
di beni e servizi, stipulati dal 01.01.2013 in poi, i nuovi
termini di pagamenti a 30 giorni consentano di superare tali
sofferenze. Resta, in ogni caso, esclusa ogni ipotesi di
retroattività della direttiva pagamenti al debito in essere (articolo ItaliaOggi del
02.11.2012). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Rimborsi
spese dei politici assoggettati all'Iperf. Question time in
commissione finanze della camera.
Rimborsi spese dei titolari di cariche elettive pagano
l'Irpef.
A seguito di un'interrogazione formulata da
Francesco Barbato, Idv, che chiedeva chiarimenti «in merito
al trattamento fiscale applicabile alle somme corrisposte a
titolo diverso dai rimborsi spese dai gruppi politici,
costituiti presso le assemblee elettive a livello
parlamentare o locale, ai loro componenti», Vieri Ceriani,
sottosegretario al ministero dell'economia in commissione
finanze alla Camera, ha precisato che le somme erogate da
soggetti diversi dalle assemblee elette (parlamento,
assemblee regionali, consigli provinciali e comunali) devono
essere assoggettati a Irpef. Anche se si tratta di rimborsi
spese.
Ciò in ossequio al combinato disposto degli art. 50,
comma 1, lett. g) e 52, comma 1, lett. b) del Tuir, dal
quale si evince che non la «non imponibilità» Irpef dei
rimborsi in questione spetta soltanto per le somme erogate
direttamente ai componenti dei collegi «dagli organi
competenti a determinare i trattamenti dei soggetti stessi»,
vale a dire dalle diverse assemblee elette, competenti a
determinare i criteri di riparto e le spese rimborsabili.
Va da sé che le somme ricevute dai parlamentari (o dai
consiglieri regionali, provinciali e comunali), direttamente
dai gruppi politici, ancorché a titolo di rimborso spese a
piè di lista, dovranno comunque essere assoggettate a Irpef
in relazione allo specifico rapporto intercorrente tra il
soggetto erogatore (il gruppo politico) e il percipiente (il
parlamentare o il consigliere).
Immobili di interesse storico artistico con doppia riduzione
Irpef. Il corrispettivo spettante per la locazione a canone
convenzionato di immobili di interesse storico o artistico,
gode di una doppia riduzione ai fini Irpef. Dall'anno
d'imposta 2012, infatti, il canone di locazione sarà prima
ridotto del 35% e sul risultato così ottenuto spetterà
un'ulteriore detrazione del 30%. In altri termini il reddito
del fabbricato che concorrerà alla determinazione del
reddito complessivo Irpef sarà pari al 45,5% del canone di
locazione pattuito.
Lo ha precisato al question time di
mercoledì scorso Vieri Ceriani in risposta a un quesito
volto a conoscere se il reddito imponibile, determinato ai
sensi dell'art. 37, comma 4, del Tuir vada ulteriormente
ridotto del 30%, ai sensi dell'articolo 8, comma 1, della
legge n. 431/1998, qualora il fabbricato riconosciuto di
interesse storico o artistico sia concesso in locazione a
canone convenzionato.
Il Mef, dopo avere ricordato che
l'ulteriore detrazione del 30% spetta qualora l'unità
immobiliare sia concessa in locazione a canone
convenzionale, sulla base di appositi accordi definiti in
sede locale fra le organizzazioni della proprietà edilizia e
le organizzazioni dei conduttori, ha significato che
l'agevolazione riguarda anche i redditi derivanti dalla
locazione di immobili di interesse storico o artistico che
siano ubicati in comuni cosiddetti ad alta densità abitativa
e siano locati con contratti stipulati o rinnovati ai sensi
del comma 3 dell'art. 2 della legge n. 431/1998 .
Tares senza differimenti. L'entrata in vigore della Tares,
il nuovo tributo che dal prossimo anno andrà a sostituire la
Tarsu, la Tia1 e la Tia 2, non può essere differito in
quanto rientra nell'ambito di una manovra di finanza
pubblica più vasta e complessa. Il sottosegretario Ceriani
ha ritenuto ininfluente, al fine dell'avvio del nuovo
prelievo, la mancata emanazione del regolamento con il quale
i competenti ministeri, entro il 31/10/2012, avrebbero
dovuto stabilire i criteri per l'individuazione del costo
del servizio di gestione dei rifiuti e per la determinazione
della tariffa. Trattandosi di un termine ordinatorio Vieri
Ceriani precisa che nelle more dell'adozione sarà comunque
possibile introdurre la Tares applicando le disposizioni del
dpr n. 158/1999 (recante il cosiddetto «metodo
normalizzato»).
Per quanto concerne invece la riscossione la
cui tariffa se avente natura corrispettiva sarà effettuata
dal soggetto affidatario del servizio di gestione dei
rifiuti urbani, mentre, in ogni caso, la maggiorazione (da
30 a 40 cent di euro per ogni mq) potrà essere incassata
solo dal comune, il Mef, dopo aver precisato che la distinta
modalità di riscossione trova il suo fondamento nella
circostanza che detta tariffa ha natura corrispettiva,
mentre la maggiorazione ha natura tributaria, si è comunque
dichiarato disposto a valutare l'opportunità di evitare lo
sdoppiamento della modalità di riscossione, prevedendo, ad
esempio, che la citata maggiorazione sia riscossa dallo
stesso affidatario del servizio rifiuti il quale dovrà poi
contestualmente riversarla al comune (articolo ItaliaOggi del
02.11.2012). |
ENTI LOCALI:
Province, 56.000
posti a rischio.
Gli accorpamenti non garantiscono il mantenimento del lavoro.
Il decreto legge del governo è chiaro: si terrà conto
dell'effettivo fabbisogno. Esuberi in vista.
A rischio 56.000 dipendenti provinciali. Contrariamente a
quanto ha sempre asserito il governo, il «riordino» delle
province non garantisce affatto il mantenimento delle
posizioni lavorative dei lavoratori impiegati nelle
province, per i quali, al contrario, si avvia un percorso
incertissimo, sia sulla destinazione lavorativa, sia sulla
stessa possibilità di proseguire il rapporto di lavoro.
Tutte le province istituite ex novo, per effetto degli
accorpamenti, dovranno gestire il passaggio diretto dei
dipendenti.
Il decreto legge disciplina questa fase delicatissima in
modo a dir poco confuso.
Infatti, prevede che il passaggio avvenga nel rispetto della
disciplina prevista dall'articolo 31 del dlgs 165/2001.
Ma questa norma, non ha nulla a che vedere con la
fattispecie, in quanto è finalizzata a regolamentare il
passaggio dei dipendenti pubblici verso soggetti pubblici o
privati, costituiti per effetto di esternalizzazioni. C'è un
ente di provenienza e un ente di destinazione.
Nel caso, invece, delle nuove province, vi è un ente
neocostituito, nel quale ne confluiscono due. Non è
un'esternalizzazione, ma una fusione. In effetti, manca
completamente una disciplina che regolamenta simile
evenienza.
Il decreto prevede un esame congiunto tra le amministrazioni
provinciali interessati e i sindacati, per individuare
criteri e modalità condivisi. In assenza, le nuove province
adotteranno comunque gli atti necessari per il passaggio di
ruolo dei dipendenti.
Tuttavia, precisa il decreto, «le relative dotazioni
organiche saranno rideterminate tenendo conto dell'effettivo
fabbisogno». Dunque, non si dà affatto per scontato che le
nuove province assorbiranno l'intera dotazione di personale
di quelle che vi confluiscono.
Occorrerà ridefinire i fabbisogni e l'obiettivo, non
dichiarato esplicitamente, è quello di individuare casi di
personale in esubero.
Comunque, a maggior chiarimento, il decreto lascia ferma
l'applicazione della disciplina contenuta nell'articolo 16,
comma 8, della legge 135/2012, che rinvia a un dpcm, per la
fissazione dei criteri di virtuosità in base ai quali gli
enti locali saranno tenuti a dichiarare esuberi di
personale.
Il decreto precisa che l'esame congiunto con i sindacati
dovrà essere attivato anche ai processi di mobilità
conseguenti all'applicazione dell'articolo 17, commi 8 e
10-bis (introdotto dal decreto sul riordino), della legge
135/2012, in conseguenza del passaggio delle funzioni
provinciali verso i comuni, evento che interesserà non solo
le province neocostituite, ma anche quelle non interessate
dal riordino territoriale.
Pertanto, i margini di incertezza sono fortissimi. Per un
verso, l'effetto dell'accorpamento dei territori potrebbe
determinare un quantitativo di esuberi allo stato non
stimabile. Per altro verso, laddove le province non
risulteranno virtuose dovranno comunque porre in
disponibilità i propri dipendenti e, in ogni caso, per
effetto del trasferimento delle funzioni provinciali ai
comuni o alle regioni, il personale dovrà cambiare casacca.
Una migrazione di proporzioni gigantesche, decine di
migliaia di dipendenti, senza che vi sia la minima
indicazione generale sui criteri, in particolare per guidare
il processo di passaggio verso i comuni (articolo ItaliaOggi del
02.11.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In soffitta le
commissioni di vigilanza sugli spettacoli.
Nota del viminale sulla spending review.
La spending review manda in pensione definitivamente le
commissioni provinciali di vigilanza sui locali di pubblico
spettacolo. Ma lo stesso destino potrebbe essere riservato
anche alle commissioni comunali, qualora i comuni dovessero
decidere di non ritenerle indispensabili e, quindi, non
confermarle. E c'è già chi immagina defaticanti conferenze
di servizi che potrebbero rischiare di appesantire ancor
più, invece che semplificare, i procedimenti del Suap.
È questo lo scenario che si prospetta per effetto dell'art.
12, comma 20, del dl 95/2012 letta la
nota 21.09.2012 n. 557 di prot. del ministero
dell'interno diretta alla prefettura di Perugia e relativa
a problematiche connesse allo spettacolo viaggiante.
Del
resto, la burocrazia comunale, in questo momento, naviga a
vista. Ciò in quanto dal 2008 a oggi sono una ventina i
decreti leggi, e le relative leggi di conversione, che hanno
novellato l'ordinamento giuridico, introducendo norme in
materia di semplificazione: dal dl 112/1998 al disegno di
legge approvato dal Consiglio dei ministri il 16 ottobre
scorso.
Per questo motivo è passata inosservata una disposizione, di
forte impatto, contenuta nella spending review. Si tratta
dell'art. 12, comma 20, del dl 06.07.2012, n. 95
(convertito nella legge 135/2012) il quale dispone che «a
decorrere dalla data di scadenza degli organismi collegiali
operanti presso le pubbliche amministrazioni, in regime di
proroga ai sensi dell'art. 68, comma 2, del decreto legge
112/2008 (convertito nella legge 133/2008), le attività
svolte dagli organismi stessi sono definitivamente
trasferite ai competenti uffici delle amministrazioni
nell'ambito delle quali operano».
Per individuare gli organismi collegiali nel mirino del
governo tecnico occorre procedere a un'analisi complessa che
porta a individuare, tra le altre, anche le commissioni
provinciali di vigilanza. Ma dalla lettura delle
disposizioni in questione, emerge anche che (art. 29, comma
6, l. 248/2006) regioni, province autonome, enti locali,
nonché gli enti del Servizio sanitario nazionale, avrebbero
dovuto operare in maniera analoga tenuto conto che
«l'obiettivo di risparmio della spesa costituisce
disposizioni di principio».
Ed è questo, in sostanza, il
nocciolo della questione; perché non pare che, allo stato
attuale, alcuna regione o alcun comune si sia mosso su
questo fronte con la conseguenza che l'omissione avrebbe
dovuto comportare l'implicita soppressione della commissione
comunale di vigilanza pubblico spettacolo (articolo ItaliaOggi del
02.11.2012). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Progressioni
verticali fuorilegge.
Incompatibili con la Brunetta. Non così le norme sui
dirigenti. L'Aran ha raccolto le
principali disposizioni contrattuali per dipendenti e
manager degli enti locali.
Sono da considerare abrogate perché in contrasto con il dlgs
n. 150/2009, c.d. legge Brunetta, le norme dei contratti
nazionali del personale che disciplinano le progressioni
verticali. Mentre non vanno considerate abrogate le regole
dettate dai contratti nazionali dei dirigenti sugli
incarichi, nonostante la stessa disposizione esclude questa
materia da quelle che possono essere oggetto di
contrattazione collettiva.
E sono da considerare superate le disposizioni che indicano
in modo analitico le componenti che devono dare corso alla
costituzione della parte stabile del fondo per il personale,
mentre per il fondo dei dirigenti le corrispondenti
disposizioni sono pienamente valide.
Sono queste alcune delle principali scelte contenute nelle
raccolte sistematiche realizzate nei giorni scorsi dall'Aran
delle disposizioni contrattuali dettate per il personale e
per i dirigenti degli enti locali. Analoga raccolta è stata
messa a punto anche per le norme contrattuali dei segretari.
Questi lavori sono assai utili, perché permettono di avere
sotto mano un testo di facile ed immediata consultazione.
Occorre considerare che tali elaborazioni non hanno un
valore impegnativo; solamente una specifica intesa
contrattuale consente di arrivare a tale risultato: per i
dipendenti era stato prevista dai contratti nazionali una
delega alla redazione del testo unico delle norme
contrattuali, ma non è stata fino ad oggi esercitata.
Si deve subito rilevare la estrema prudenza con cui l'Aran
procede nella constatazione delle disposizioni che si devono
ritenere superate per contrasto con la legislazione
successiva. Nel caso delle progressioni verticali si deve
ricordare che questa indicazione è stata già fornita dalle
sezioni unite di controllo della Corte dei conti, in quanto
il dlgs n. 150/2009 prevede esclusivamente concorsi pubblici
con riserva non superiore al 50% per gli interni, superando
la possibilità dei concorsi e/o prove selettive interamente
riservati agli interni.
Le nuove disposizioni, modificando anche per questo aspetto
le regole dettate dal Ccnl 31/03/1999, hanno stabilito che
gli interni debbano essere in possesso degli stessi
requisiti previsti per i candidati esterni, a partire dal
titolo di studio. In mancanza di specifiche indicazioni in
questo senso l'Aran non se la è sentita di dichiarare
abrogate le disposizioni dei contratti collettivi della
dirigenza che dettano regole, discipline, criteri e durata
per gli incarichi dirigenziali.
Ciò nonostante in modo esplicito il citato dlgs n. 150/2009
escluda il conferimento degli incarichi dirigenziali dalle
materie oggetto di contrattazione e nonostante il dlgs n.
141/2011 stabilisca che le disposizioni dettate dalla legge
cd Brunetta prevalgano sulle norme contrattuali nazionali in
contrasto.
Occorre segnalare la estrema prudenza con cui l'Aran
affronta uno dei nodi più caldi: la revisione del sistema
delle relazioni sindacali a seguito delle novità dettate
dalle citate disposizioni. È evidente che una delle finalità
essenziali della legge c.d. Brunetta è costituita dal
ridimensionamento del ruolo e delle prerogative delle
organizzazioni sindacali; ridimensionamento che si è fin qui
realizzato in misura molto parziale in quanto le volontà
legislative non hanno trovato concreta applicazione nella
contrattazione collettiva nazionale.
Per questa ragione le raccolte sistematiche delle norme
contrattuali dei dipendenti, dei dirigenti e dei segretari
si limitano a segnalare la esistenza delle nuove regole
legislative, ma evitano di trarre la conseguenza della
constatazione della avvenuta abrogazione delle scelte
contrattuali effettuate in precedenza.
Un'altra significativa differenza che emerge dalle raccolte
sistematiche dei contratti dei dipendenti e dei dirigenti è
quella relativa alle regole per la costituzione del fondo
per la contrattazione decentrata. Per quello dei dipendenti
la raccolta considera abrogate le disposizioni dettate in
modo analitico, soprattutto dall'articolo 15 del Ccnl 01/04/1999, per la costituzione della parte stabile. Si
considera sufficiente il lavoro che è stato compito con
l'articolo 31 del Ccnl 22/1/2004, cioè la unificazione di
tutte le componenti in una voce unitaria. Invece per il
fondo dei dirigenti questa scelta non viene riproposta e si
torna a suggerire che la individuazione delle risorse
decentrate continui ad essere articolata sulla base di tutte
le voci «storiche» comprese nell'articolo 26 del Ccnl
23/12/1999.
Questa diversità, che a prima vista sembra illogica, deve
invece essere considerata come pienamente giustificata in
quanto nel fondo dei dirigenti, a differenza di quello del
personale, non è prevista la distinzione tra la parte
stabile e la parte variabile, per cui la esigenza di tornare
ogni anno a verificare le regole che presiedono alla sua
costituzione è pienamente giustificata (articolo ItaliaOggi del
02.11.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Mobilità volontaria previa ricognizione degli
esuberi. Obbligatorio per le p.a. verificare le liste di disponibilità.
La mobilità volontaria tra dipendenti delle amministrazioni
pubbliche deve essere preceduta dalla verifica di dipendenti
inseriti nelle liste di disponibilità, prevista
dall'articolo 34-bis del dlgs 165/2001.
La nuova disciplina sugli esuberi del personale pubblico,
introdotta dalla spending review, il dl 95/2012, convertito
in legge 135/2012, non lascia dubbi sulla necessità di
superare l'avviso espresso dalla Funzione pubblica col
parere 198/2005 e ritenere obbligatorio per le
amministrazioni di verificare se nelle liste di
disponibilità siano presenti lavoratori in esubero, prima di
effettuare qualsiasi assunzione a qualsiasi titolo, compresa
la mobilità.
A suo tempo, palazzo Vidoni in merito ai rapporti tra
articoli 30 (sulla mobilità volontaria) e 34-bis (sulle
misure di tutela nel mercato del lavoro per i dipendenti in
disponibilità) aveva sostenuto che l'interpretazione più
corretta fosse di «escludere l'obbligo di comunicazione
preventiva rispetto l'acquisizione di personale in
mobilità». Secondo il parere della funzione pubblica,
risalente a sette anni fa, la circostanza che con la
mobilità non comporti l'ingresso di nuove unità nella
pubblica amministrazione, bensì uno spostamento tra enti di
personale già dipendente non crea «pregiudizio per i
dipendenti in situazione di disponibilità», dal momento che
si copre un posto vacante presso un ente, ma se ne libera
simmetricamente un altro, presso un diverso ente.
La motivazione non appariva persuasiva nemmeno all'epoca
dell'emanazione del parere, perché influenzata
esclusivamente da logiche finanziarie. È evidente che per il
lavoratore pubblico in disponibilità e, dunque, alle soglie
del licenziamento, è fondamentale poter contare sulla
possibilità di ricollocarsi in un ente ove sia evidenziata
la carenza di organico, piuttosto che in un altro.
Condizioni come la distanza dalla residenza, le modalità
lavorative, l'organizzazione sono, ovviamente, fondamentali
per un incontro domanda offerta.
Altrettanto fondamentale, per un lavoratore alle soglie del
licenziamento, è conoscere in anticipo se un ente abbia
possibilità ed intenzione di assumere qualcuno, per
categoria, profilo e mansione corrispondenti, in modo da
potersi proporre per ottenere l'assunzione.
Lo scopo precipuo dell'articolo 34-bis del dlgs 165/2001 è
consentire ai dipendenti in disponibilità di ottenere una
proposta di assunzione mediante mobilità obbligatoria, da
parte di un'amministrazione che intenda bandire un concorso,
così da tirare fuori il dipendente in esubero dal rischio
del licenziamento. È evidente che se l'articolo 34-bis si
esclude dal campo di applicazione delle procedure di
mobilità volontaria di cui all'articolo 30 del dlgs
165/2001, le tutele e le opportunità per il lavoratore in
disponibilità si riducono drasticamente. Il che risulta
contrastare con un nuovo assetto normativo, introdotto nel
2009, che rende le procedure per mobilità sostanzialmente
identiche a quelle dei concorsi, essendo necessario un
avviso pubblico. Non pare abbia coerenza ridurre le tutele
ai lavoratori in disponibilità ai meri adempimenti
obbligatori connessi ad assunzioni per concorsi (sempre più
rare), senza coinvolgerli in procedure per trasferimenti,
ormai per altro pubbliche.
Il tutto, comunque, non regge più alla luce dell'articolo 2,
comma 13, della legge 135/2012. Tale disposizione impone al
dipartimento della funzione pubblica di censire e redigere
un elenco dei posti vacanti nelle pubbliche amministrazioni,
da pubblicare sul relativo sito web.
I dipendenti in disponibilità avranno il diritto di
presentare domanda di ricollocazione in quei posti vacanti,
con simmetrico obbligo di accoglimento, da parte delle
amministrazioni, che, in caso contrario «non possono
procedere ad assunzioni di personale».
Non pare più possibile, allora, che un'amministrazione
assuma mediante mobilità volontaria, senza curarsi di
attuare le previsioni dell'articolo 34-bis. Infatti, visto
il diritto soggettivo riconosciuto ad un dipendente in
disponibilità di presentare domanda su un posto vacante, se
si consentisse all'amministrazione di rendere indisponibile
il posto si vulnererebbe il diritto del lavoratore di
attivarsi autonomamente, per ricollocarsi (articolo ItaliaOggi del
02.11.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Salvo
l'assessore assenteista.
Non decade se snobba le sedute del consiglio.
Il sindaco potrà revocarlo se
la condotta fa venir meno il rapporto fiduciario.
È applicabile anche alla carica di assessore comunale la
disciplina relativa all'istituto della decadenza per
ingiustificata assenza a più sedute dell'organo collegiale?
Il legislatore statale contempla l'ipotesi della decadenza
per mancata partecipazione alle sedute con esclusivo
riferimento alla carica di consigliere (art. 43, ultimo
comma, del Tuel n. 267/2000; tale norma va letta in
combinato disposto con l'art. 273, c. 6, del medesimo Tuel n.
267 in base al quale, nelle more dell'adozione della
prescritta disciplina statutaria, trova applicazione, per il
profilo considerato, il disposto dell'art. 289 del Tulcp n.
148/1915).
Nulla di analogo si prevede, alla stregua del vigente
ordinamento, per la carica di assessore, a differenza dal
pregresso ordinamento (v. art. 289, c. 2 del citato Tulcp n.
148/1915)
Tale circostanza è da imputarsi alla configurazione della
giunta quale organo fiduciario, di diretta collaborazione
con il sindaco che dispone, fra l'altro, del potere di
revoca dell'assessore allorché venga meno il rapporto di
fiducia alla base dell'investitura a tale carica per le più
svariate cause, ivi compresa la protratta e ingiustificata
assenza alle sedute, quale esternazione di un atteggiamento
di indisponibilità alla prosecuzione del rapporto instaurato
con l'accettazione della nomina; appare evidente come, in
un'ipotesi di tale tipo, debba desumersi l'inevitabilità di
una nuova valutazione da parte del sindaco in ordine alla
permanenza dei presupposti che avevano condotto
all'individuazione di quel soggetto quale suo stretto
collaboratore per l'attuazione del programma di governo.
Pertanto, la norma dello statuto comunale che disciplina
l'ipotesi della decadenza dell'assessore per assenze
ingiustificate alle sedute della giunta appare di dubbia
applicabilità, sia perché, secondo i comuni canoni
ermeneutici, le previsioni statutarie conformate a un regime
giuridico successivamente riformato possono continuare a
trovare applicazione solo nella misura in cui non
confliggono con il nuovo sistema; sia per la difficoltà
d'individuare, nell'ambito dell'organo collegiale di cui
l'amministratore locale fa parte, l'organo deputato alla
valutazione della posizione dell' assessore stesso.
Infatti, se per il consiglio vale il principio, proprio
degli organi collegiali elettivi, per cui la valutazione
circa la posizione dei singoli componenti il consesso (cioè
la legittimazione a farne parte) costituisce materia di
esclusiva competenza del collegio medesimo, per la giunta
non sembrerebbe possibile l'applicazione di analogo
principio, trattandosi di un organo collegiale che non è
elettivo, bensì nominato fiduciariamente dal sindaco che
appare, pertanto, come l'unico soggetto legittimato a
pronunciarsi sulla legittimità della partecipazione del
singolo assessore alla compagine della giunta (articolo ItaliaOggi del
02.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Gruppi consiliari.
Il capogruppo e il vicecapogruppo possono estromettere un
consigliere comunale dal gruppo consiliare, a cui
l'interessato aveva aderito nel corso della consiliatura, se
questo ha manifestato al presidente del consiglio la volontà
di continuare a militare nel partito da cui è stato espulso
e a far parte del gruppo consiliare che si identifica nel
medesimo partito?
L'istituto dei gruppi consiliari non è espressamente
previsto dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle
disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative
in capo ai gruppi o ai capigruppo (in particolare, art. 38,
comma 3; art. 39, comma 4, e art. 125 del dlgs n. 267/2000).
Pertanto, la costituzione così come il funzionamento dei
gruppi non sono disciplinati in modo uniforme dalla fonte
legislativa statale, bensì da statuto e regolamento in
quanto, trattandosi di aggregazioni politiche interne ai
consigli, si riconducono alla materia afferente al
funzionamento dei consigli demandata, ex art. 38, commi 2 e 3,
del decreto dlgs n. 267/2000, alle citate fonti normative
locali.
Nel caso di specie, se le norme statutarie e regolamentari
non contemplano l'evenienza dell'estromissione di un
consigliere comunale dal gruppo consigliare di appartenenza
ad opera del capogruppo, mentre si rinvengono chiari
elementi da cui si desume che la volontà di appartenenza a
un gruppo, anche nell'evenienza dell'adesione a un gruppo,
diverso da quello corrispondente alla lista in cui si sia
stati eletti, si riconduce esclusivamente ad una scelta
individuale del diretto interessato, esercitabile nel
rispetto delle condizioni poste dalla norma medesima, si
ritiene sia preclusa la possibilità che un consigliere possa
essere estromesso, contro la sua volontà, dal gruppo in cui
è transitato legittimamente (articolo ItaliaOggi del
02.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Il termine per l’impugnazione dell’aggiudicazione
definitiva per le imprese che hanno partecipato alla gara
decorre dalla data di notifica o comunicazione individuale
dell’aggiudicazione definitiva così come dispone l’art. 79,
comma 5, del codice dei contratti pubblici.
In mancanza di comunicazione individuale il termine decorre
dalla conoscenza dell’atto.
E’, invece, del tutto irrilevante la pubblicazione all’albo
pretorio del provvedimento con cui è stata disposta
l’aggiudicazione definitiva, sussistendo, come detto, un
onere per le stazioni appaltanti di portare gli esiti della
procedura di gara a conoscenza dei concorrenti per mezzo di
apposite comunicazioni.
---------------
La necessità per i raggruppamenti di tipo orizzontale di
indicare la quota di partecipazione riviene direttamente
dall’art. 37 citato, che al comma 13 stabilisce che le
imprese raggruppate devono eseguire le prestazioni nella
percentuale corrispondente alle quote di partecipazione,
così prevedendo una esatta corrispondenza tra l’impegno
assunto in sede di partecipazione e la fase dell’esecuzione.
La questione, comunque, allo stato deve ritenersi
definitivamente acclarata nel senso dell’obbligo di tutti i
raggruppamenti sia di tipo orizzontale che verticale di
indicare già in sede di partecipazione le rispettive quote
di partecipazione e di esecuzione dei lavori dalle recenti
decisioni dell’adunanza plenaria n. 22 del 13.06.2012 e 24
del 2012, seppure relative al settore dei servizi.
L’orientamento giurisprudenziale citato è suffragato da una
serie di argomenti di natura sistematica e teleologica che
tengono conto del contesto normativo, della ratio legis e
delle finalità perseguite dalla norma.
Invero, l’aggregazione economica di potenzialità
organizzative e produttive per la prestazione oggetto
dell’appalto, connotante l’istituto delle associazioni di
imprese, non dà luogo alla creazione di un soggetto autonomo
e distinto dalle imprese che lo compongono, né ad un loro
rigido collegamento strutturale, per cui grava su ciascuna
impresa, ancorché mandante, l’onere di documentare il
possesso dei requisiti di capacità tecnico-professionale ed
economico-finanziaria richiesti per l’affidamento
dell’appalto. Tanto al fine di evitare l’esecuzione di quote
rilevanti dell’appalto da parte di soggetti sprovvisti delle
qualità all’uopo occorrenti e per consentire alla stazione
appaltante l’accertamento dell’impegno e dell’idoneità delle
imprese, indicate quali esecutrici a svolgere effettivamente
le ‹‹parti›› di lavori indicate, in particolare consentendo
la verifica della coerenza dell’offerta con i requisiti di
qualificazione, e dunque della serietà e dell’affidabilità
dell’offerta.
Ne consegue che l’offerta contrattuale, che non contiene la
specificazione delle ‹‹parti›› dei lavori che saranno
eseguite dalle singole imprese associande o associate, deve
ritenersi parziale e incompleta, non permettendo di ben
individuare l’esecutore di una determinata prestazione
nell’ambito dell’a.t.i., e rimanendo dunque indeterminato il
profilo soggettivo della prestazione offerta.
Le esigenze di controllo e di trasparenza si pongono
maggiormente nei raggruppamenti a struttura orizzontale,
dove tutti gli operatori riuniti eseguono il medesimo tipo
di prestazioni, per cui, in difetto di specificazione è
preclusa una verifica in ordine alla coerenza dei requisiti
di qualificazione con l’entità delle prestazioni dalle
stesse assunte e ciò anche per impedire che il
raggruppamento sia utilizzato non per unire le rispettive
disponibilità tecniche e finanziarie, ma per aggirare le
norme di ammissione stabilite dal bando e consentire così la
partecipazione di imprese non qualificate, con effetti
negativi sull’interesse pubblico.
Invero, come rilevato dal TAR, il termine per l’impugnazione
dell’aggiudicazione definitiva per le imprese che hanno
partecipato alla gara decorre dalla data di notifica o
comunicazione individuale dell’aggiudicazione definitiva
così come dispone l’art. 79, comma 5, del codice dei
contratti pubblici.
In mancanza di comunicazione individuale il termine decorre
dalla conoscenza dell’atto.
E’, invece, del tutto irrilevante la pubblicazione all’albo
pretorio del provvedimento con cui è stata disposta
l’aggiudicazione definitiva, sussistendo, come detto, un
onere per le stazioni appaltanti di portare gli esiti della
procedura di gara a conoscenza dei concorrenti per mezzo di
apposite comunicazioni (cfr. Cons. Stato, VI, 25.01.2008, n. 213;
02.05.2006, n. 2445).
---------------
La necessità per i
raggruppamenti di tipo orizzontale di indicare la quota di
partecipazione riviene direttamente dall’art. 37 citato, che
al comma 13 stabilisce che le imprese raggruppate devono
eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente
alle quote di partecipazione, così prevedendo una esatta
corrispondenza tra l’impegno assunto in sede di
partecipazione e la fase dell’esecuzione (in tal senso era
già la disposizione dell’art. 13 della legge n. 109 del
1994, Legge Quadro in materia di lavori pubblici, abrogata
dall’art. 256 del d.lgs. n. 163 del 2006, e l’art. 95
d.p.r. 21.12.1999, n. 554, recante il Regolamento di
attuazione della legge quadro in materia di lavori pubblici
11.02.1994, n. 109).
La questione, comunque, allo stato deve ritenersi
definitivamente acclarata nel senso dell’obbligo di tutti i
raggruppamenti sia di tipo orizzontale che verticale di
indicare già in sede di partecipazione le rispettive quote
di partecipazione e di esecuzione dei lavori dalle recenti
decisioni dell’adunanza plenaria n. 22 del 13.06.2012 e
24 del 2012, seppure relative al settore dei servizi.
L’orientamento giurisprudenziale citato è suffragato da una
serie di argomenti di natura sistematica e teleologica che
tengono conto del contesto normativo, della ratio legis
e delle finalità perseguite dalla norma.
Invero, l’aggregazione economica di potenzialità
organizzative e produttive per la prestazione oggetto
dell’appalto, connotante l’istituto delle associazioni di
imprese, non dà luogo alla creazione di un soggetto autonomo
e distinto dalle imprese che lo compongono, né ad un loro
rigido collegamento strutturale, per cui grava su ciascuna
impresa, ancorché mandante, l’onere di documentare il
possesso dei requisiti di capacità tecnico-professionale
ed economico-finanziaria richiesti per l’affidamento
dell’appalto. Tanto al fine di evitare l’esecuzione di quote
rilevanti dell’appalto da parte di soggetti sprovvisti delle
qualità all’uopo occorrenti e per consentire alla stazione
appaltante l’accertamento dell’impegno e dell’idoneità delle
imprese, indicate quali esecutrici a svolgere effettivamente
le ‹‹parti›› di lavori indicate, in particolare consentendo
la verifica della coerenza dell’offerta con i requisiti di
qualificazione, e dunque della serietà e dell’affidabilità
dell’offerta.
Ne consegue che l’offerta contrattuale, che non contiene la
specificazione delle ‹‹parti›› dei lavori che saranno
eseguite dalle singole imprese associande o associate, deve
ritenersi parziale e incompleta, non permettendo di ben
individuare l’esecutore di una determinata prestazione
nell’ambito dell’a.t.i., e rimanendo dunque indeterminato il
profilo soggettivo della prestazione offerta.
Le esigenze di controllo e di trasparenza si pongono
maggiormente nei raggruppamenti a struttura orizzontale,
dove tutti gli operatori riuniti eseguono il medesimo tipo
di prestazioni, per cui, in difetto di specificazione è
preclusa una verifica in ordine alla coerenza dei requisiti
di qualificazione con l’entità delle prestazioni dalle
stesse assunte e ciò anche per impedire che il
raggruppamento sia utilizzato non per unire le rispettive
disponibilità tecniche e finanziarie, ma per aggirare le
norme di ammissione stabilite dal bando e consentire così la
partecipazione di imprese non qualificate, con effetti
negativi sull’interesse pubblico
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 31.10.2012 n. 5565 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
a) allorquando viene presentata la domanda di
sanatoria, diventano inefficaci i precedenti atti
sanzionatori (ordini di demolizione, inibitorie, ordini di
sospensione dei lavori);
b) conseguentemente, sul piano procedimentale, il comune è
tenuto innanzi tutto a esaminare ed eventualmente a
respingere la domanda di condono, effettuando, comunque, una
nuova valutazione della situazione;
c) dal punto di vista processuale, infine, la documentata
presentazione di istanza di condono comporta la
improcedibilità del ricorso per carenza di interesse avverso
i provvedimenti repressivi sopra indicati.
---------------
a) nel processo di impugnazione del diniego di concessione
edilizia in sanatoria sono inammissibili le censure che
contestino il carattere abusivo del manufatto, atteso che il
procedimento per condono, ai sensi della l. n. 47 del 1985,
è ad istanza di parte e richiede una dichiarazione
sostitutiva d’atto notorio relativa alla descrizione e
collocazione temporale dell’abuso che s’intende sanare, la
quale assume carattere e natura di atto confessorio per ciò
che concerne la realizzazione dell’abuso e la sua
collocazione temporale;
b) il diniego di sanatoria delle opere abusive per
incompatibilità ambientale è notoriamente frutto di una
valutazione tecnica ampiamente discrezionale, tipica
manifestazione del potere autoritativo dell’amministrazione
che, come tale, si sottrae al sindacato di legittimità,
tranne le ipotesi di manifesta abnormità ovvero macroscopico
travisamento dei fatti;
c) sui rapporti tra provvedimento di sanatoria edilizia e
parere dell’autorità preposta alla gestione del vincolo
paesaggistico è stato chiarito che l’autorità preposta alla
tutela del vincolo deve verificarne la sussistenza con
riferimento al momento in cui valuta la domanda di sanatoria
poiché oggetto del giudizio è l’attuale compatibilità dei
manufatti realizzati abusivamente; tanto anche in relazione
ad una domanda di concessione edilizia in sanatoria
d’immobile costruito anteriormente all’imposizione del
vincolo e, comunque, nell’ipotesi di intervento della
determinazione vincolistica in un torno di tempo successivo
all’entrata in vigore della legge sul condono;
d) il parere negativo espresso dall’autorità preposta alla
tutela del vincolo ha valore dirimente impedendo il rilascio
del provvedimento di condono.
La sezione non intende decampare dai consolidati principi
elaborati sul punto da questo Consiglio (cfr. da ultimo sez.
V, 08.06.2011, n. 3460; sez. V, 29.12.2009, n. 8935; sez. II,
11.07.2007, n. 624/2005, cui si rinvia a mente del combinato
disposto degli artt. 74, co. 1, e 88, co. 2, lett. d),
c.p.a.), secondo cui:
a) allorquando viene presentata la domanda di sanatoria,
diventano inefficaci i precedenti atti sanzionatori (ordini
di demolizione, inibitorie, ordini di sospensione dei
lavori);
b) conseguentemente, sul piano procedimentale, il comune è
tenuto innanzi tutto a esaminare ed eventualmente a
respingere la domanda di condono, effettuando, comunque, una
nuova valutazione della situazione;
c) dal punto di vista processuale, infine, la documentata
presentazione di istanza di condono comporta la
improcedibilità del ricorso per carenza di interesse avverso
i provvedimenti repressivi sopra indicati.
---------------
Queste le censure articolate
nei confronti del diniego di condono (pagine 9 – 15 del
ricorso nrg. 1479/1995):
a) il comune ha errato nel qualificare come abusive le
infrastrutture per cui è causa, oggetto di sanatoria solo
per finalità tuzioristiche, posto che, al momento della loro
realizzazione (fra il 1961 e il 1965), non era necessario
acquisire né la licenza edilizia né nulla osta
paesaggistico;
b) il comune ha errato nell’acquisire il parere della
commissione edilizia integrata per la tutela dell’ambiente,
in quanto sulle aree in questione non era presente,
all’epoca della costruzione, alcun vincolo e comunque non
verrebbero in rilievo vincoli successivi apposti in base
alla l. n. 431 del 1985 (c.d. legge Galasso);
c) lo stato di degrado dei manufatti non costituisce motivo
ostativo al condono e comunque caratterizza solo alcuni
degli immobili, sicché gli altri dovevano essere condonati;
d) non è stata motivata la possibilità del cambio di
destinazione d’uso di alcuni manufatti per renderli
compatibili con il vincolo a zona E rurale;
e) difetto di motivazione sull’incompatibilità ambientale
delle opere presenti in sito da oltre trent’anni e dunque
divenute parte integrante del paesaggio e dell’ambiente.
Tutte le su riportate doglianze sono inammissibili ed
infondate e devono essere respinte nella loro globalità, per
le seguenti autonome ragioni e per i correlati principi
elaborati da questo Consiglio in materia (cfr., da ultimo,
Cons. St., sez. V, 11.01.2011, n. 79; sez. IV, 14.04.2010,
n. 2086; sez. V, 07.09.2009, n. 5232; ad. plen., 22.07.1999,
n. 20):
a) nel processo di impugnazione del diniego di concessione
edilizia in sanatoria sono inammissibili le censure che
contestino il carattere abusivo del manufatto, atteso che il
procedimento per condono, ai sensi della l. n. 47 del 1985,
è ad istanza di parte e richiede una dichiarazione
sostitutiva d’atto notorio relativa alla descrizione e
collocazione temporale dell’abuso che s’intende sanare, la
quale assume carattere e natura di atto confessorio per ciò
che concerne la realizzazione dell’abuso e la sua
collocazione temporale;
b) il diniego di sanatoria delle opere abusive per
incompatibilità ambientale è notoriamente frutto di una
valutazione tecnica ampiamente discrezionale, tipica
manifestazione del potere autoritativo dell’amministrazione
che, come tale, si sottrae al sindacato di legittimità,
tranne le ipotesi di manifesta abnormità ovvero macroscopico
travisamento dei fatti; nella specie, contrariamente a
quanto sostenuto dai ricorrenti, non emerge che sulle aree
in questione, già all’epoca della realizzazione degli
interventi costruttivi, non vi fossero vincoli; è risultata
al contrario, la presenza ab imis di vincolo
idrogeologico e ambientale sulle aree di sedime e su quelle
immediatamente circostanti come accertato dal verificatore e
comprovato da debita certificazione comunale –fidafecente– e
dalla stessa documentazione esibita dai ricorrenti (in
particolare v. nota Soprintendenza del 1989 cit. –che non
appare affatto univoca dal punto di vista oggettivo e
soggettivo in quanto si riferisce a generiche aree in
proprietà della ditta Italsud e non del signor Santoro,
ubicate nella medesima località vallone Cernicchiara-; v.
autorizzazione delle opere a sanatoria n. 6022-A del
05.09.1990 rilasciata dall’autorità preposta alla gestione
del vincolo idrogeologico);
c) sui rapporti tra provvedimento di sanatoria edilizia e
parere dell’autorità preposta alla gestione del vincolo
paesaggistico è stato chiarito che l’autorità preposta alla
tutela del vincolo deve verificarne la sussistenza con
riferimento al momento in cui valuta la domanda di sanatoria
poiché oggetto del giudizio è l’attuale compatibilità dei
manufatti realizzati abusivamente; tanto anche in relazione
ad una domanda di concessione edilizia in sanatoria
d’immobile costruito anteriormente all’imposizione del
vincolo e, comunque, nell’ipotesi di intervento della
determinazione vincolistica in un torno di tempo successivo
all’entrata in vigore della legge sul condono;
d) il parere negativo espresso dall’autorità preposta alla
tutela del vincolo ha valore dirimente impedendo il rilascio
del provvedimento di condono
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 31.10.2012 n. 5553 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L’obbligo
legale della verifica della integrità dei plichi in seduta
pubblica non esaurisce la sua funzione nella constatazione
che gli stessi non hanno subito manomissioni o alterazioni,
ma è destinato a garantire che il materiale documentario
trovi correttamente ingresso nella procedura di gara,
giacché la pubblicità delle sedute risponde all’esigenza di
tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti,
ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni
riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di
avere così la garanzia che non siano successivamente
intervenute indebite alterazioni, ma anche dell’interesse
pubblico alla trasparenza ed all’imparzialità dell’azione
amministrativa, le cui conseguenze negative sono
difficilmente apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli
ed aperti i plichi, in mancanza di un riscontro immediato.
Tale regola costituisce corretta interpretazione dei
principi comunitari e di diritto interno in materia di
trasparenza e di pubblicità nelle gare per i pubblici
appalti e, come tale, si applica anche all’apertura della
busta dell’offerta tecnica. L’operazione, infatti, come per
la documentazione amministrativa e per l’offerta economica,
costituisce passaggio essenziale e determinante dell’esito
della procedura concorsuale e quindi richiede di essere
presidiata dalle medesime garanzie, a tutela degli interessi
privati e pubblici coinvolti dal procedimento.
Com’è noto, l’Adunanza plenaria 28.07.2011
n. 13 ha enunciato il principio, già invalso nella
giurisprudenza maggioritaria (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 17.09.2010 n. 6939, 10.11.2010 n. 8006,
04.03.2008 n. 901, 03.12.2008 n. 5943 e 18.03.2004 n.
1427; Sez. VI, 22.04.2008 n. 1856 e 11.10.2007 n.
5354), secondo cui l’obbligo legale della verifica della
integrità dei plichi in seduta pubblica non esaurisce la sua
funzione nella constatazione che gli stessi non hanno subito
manomissioni o alterazioni, ma è destinato a garantire che
il materiale documentario trovi correttamente ingresso nella
procedura di gara, giacché la pubblicità delle sedute
risponde all’esigenza di tutela non solo della parità di
trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso
di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità
formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che
non siano successivamente intervenute indebite alterazioni,
ma anche dell’interesse pubblico alla trasparenza ed
all’imparzialità dell’azione amministrativa, le cui
conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post
una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in mancanza di
un riscontro immediato.
Tale regola costituisce corretta interpretazione dei
principi comunitari e di diritto interno in materia di
trasparenza e di pubblicità nelle gare per i pubblici
appalti e, come tale, si applica anche all’apertura della
busta dell’offerta tecnica. L’operazione, infatti, come per
la documentazione amministrativa e per l’offerta economica,
costituisce passaggio essenziale e determinante dell’esito
della procedura concorsuale e quindi richiede di essere
presidiata dalle medesime garanzie, a tutela degli interessi
privati e pubblici coinvolti dal procedimento
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza
31.10.2012 n. 1976 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: In
tema di sindacabilità della discrezionalità tecnica
nell’ipotesi di valutazioni operate nell’ambito di procedure
concorsuali alcuni recenti pronunciamenti giurispridenziali.
In linea generale, le valutazioni tecniche sono suscettibili
di sindacato giurisdizionale, non potendo ritenersi che le
stesse coincidano con il merito amministrativo. Si è,
inoltre, definitivamente chiarito che è necessario
distinguere l'opportunità che identifica il merito, con
l'opinabilità, che connota l'esercizio della discrezionalità
tecnica. Ne consegue che quest'ultima è sindacabile quando
risulta, in ragione del procedimento e dei criteri adottati,
che la scelta tecnica sia irragionevole. Non è, però,
possibile, in ossequio al principio di separazione delle
funzioni giurisdizionali e amministrative, che il giudice
sostituisca le valutazioni tecniche opinabili, ma non
irragionevoli, espresse dall'amministrazione con proprie
valutazioni.
Nel controllo sull'esercizio della discrezionalità tecnica,
al giudice amministrativo è consentito, dunque, censurare la
sola valutazione che si ponga al di fuori dell'ambito di
opinabilità, di modo che il relativo giudizio non divenga
sostitutivo con l'introduzione di una valutazione parimenti
opinabile. Pertanto, il giudice amministrativo –nella
ricerca di un punto di equilibrio, da verificare di volta in
volta in relazione alla fattispecie concreta, tra l'esigenza
di garantire la pienezza e l'effettività della tutela
giurisdizionale e quella di evitare che il giudice possa
esercitare egli stesso il potere amministrativo che compete
all'autorità– può sindacare con pienezza di cognizione i
fatti oggetto dell'indagine e il processo valutativo
mediante il quale l'autorità applica al caso concreto la
regola individuata, ma, ove ne accerti la legittimità sulla
base di una corretta applicazione delle regole tecniche
sottostanti, il suo sindacato deve arrestarsi, in quanto
diversamente vi sarebbe un'indebita sostituzione del giudice
all'amministrazione, titolare del potere esercitato.
Il sindacato giurisdizionale sui concetti giuridici
indeterminati aventi valenza tecnica, nel rispetto della
disciplina che presiede alla loro possibile impugnazione e
disapplicazione, è consentito, quindi, soltanto nel caso in
cui le scelte effettuate si pongano in contrasto con il
principio di ragionevolezza tecnica. Non è sufficiente che
la determinazione assunta sia, sul piano del metodo e del
procedimento seguito, meramente opinabile; il giudice
amministrativo, infatti, non può in attuazione del principio
costituzionale di separazione dei poteri sostituire proprie
valutazioni a quelle effettuate dall'amministrazione.
Il sindacato giurisdizionale in materia di valutazioni
rimesse alla discrezionalità tecnica della p.a. (nella
specie, ad un organo consultivo e temporaneo quale la
commissione giudicatrice ex art. 84 d.lgs. 12.04.2006, n.
163) può svolgersi anche con la verifica dell'attendibilità
delle valutazioni tecniche compiute dall'amministrazione
rispetto alla correttezza dei criteri utilizzati e
applicati, ma resta comunque fermo il limite della
relatività delle valutazioni tecnico-scientifiche, potendo
il giudice amministrativo censurare la sola valutazione che
si ponga al di fuori dell'ambito di opinabilità, poiché,
diversamente, all'apprezzamento opinabile
dell'amministrazione sostituirebbe quello proprio e
altrettanto opinabile.
E’ stato, inoltre, statuito dalla giurisprudenza più
tradizionale che nell'ambito del sistema di aggiudicazione
secondo il criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa, le valutazioni tecniche delle commissioni di
gara sono espressione di ampia discrezionalità, suscettibili
di sindacato solo nei limiti della manifesta illogicità.
Invero, le valutazioni delle commissioni di gara
relativamente agli aspetti tecnici delle offerte sono
espressione di discrezionalità tecnica sindacabile dal
giudice amministrativo non attraverso una sostituzione dei
giudizi, ma soltanto per manifesta illogicità o per palese
travisamento dei fatti alla stregua di elementi oggettivi di
riscontro e che il giudizio di discrezionalità tecnica reso
dalla Commissione di gara in sede di valutazione delle
offerte, essendo connotato dalla complessità delle
discipline specialistiche di riferimento e dall'opinabilità
dell'esito della valutazione, sfugge al sindacato di
legittimità del giudice amministrativo laddove non vengano
in rilievo indici sintomatici del non corretto esercizio del
potere sotto i profili del difetto di motivazione,
dell'illogicità manifesta e dell'erroneità dei presupposti
di fatto.
Sia la scelta del criterio più idoneo per l'aggiudicazione
di un appalto (tra quello dell'offerta economicamente più
vantaggiosa e quello del prezzo più basso), sia la scelta
dei criteri più adeguati (tra quelli esemplificativamente
indicati dall'art. 83, d.lgs. 12.04.2006 n. 163) per
l'individuazione dell'offerta economicamente più
vantaggiosa, costituiscono espressione tipica della
discrezionalità della stazione appaltante, e impingendo nel
merito dell'azione amministrativa restano sottratte al
sindacato di legittimità del giudice amministrativo, tranne
che, in relazione alla natura, all'oggetto e alle
caratteristiche del contratto, non siano manifestamente
illogiche, arbitrarie ovvero macroscopicamente viziate da
travisamento di fatto, con la conseguenza che il giudice
amministrativo non può sostituire con proprie scelte quelle
operate dall'amministrazione. La Commissione di gara, per
l'individuazione dell'offerta economicamente più
vantaggiosa, gode, quindi, di un'ampia discrezionalità
nell'attribuzione del punteggio agli elementi costituenti
l'offerta tecnica, purché in linea con i criteri predefiniti
nella lex specialis di gara. Tale discrezionalità, di natura
tecnico amministrativa, non può essere oggetto di sindacato
giurisdizionale se non in presenza di macroscopiche
irrazionalità e incongruenze.
La discrezionalità tecnica espressa dalla Commissione
nell'ambito di una procedura di gara per l'affidamento di un
appalto si esplica nella valutazione di fatti mediante un
giudizio da effettuarsi alla stregua di canoni scientifici e
tecnici e detto giudizio non può essere sindacato se non in
presenza di irragionevolezza o incoerenza tecnica delle
valutazioni medesime.
Si è, infine, osservato che, laddove l'attribuzione dei
punteggi, analiticamente ripartiti secondo i criteri e
sub-criteri della lex specialis trovi puntuale riscontro nei
relativi verbali, le censure dedotte in sede di impugnazione
e che prospettano una diversa valutazione delle offerte
rispetto a quella seguita dalla Commissione si traducono in
un inammissibile sindacato sul merito delle opzioni attinte,
riservato all'amministrazione quale espressione della
discrezionalità tecnica che informa la procedura.
In relazione, invece, all’assunta insindacabilità del
giudizio di merito valutativo della commissione di gara,
devono premettersi i più recenti orientamenti cui è
pervenuta la giurisprudenza amministrativa in tema di sindacabilità della discrezionalità tecnica nell’ipotesi di
valutazioni operate nell’ambito di procedure concorsuali.
E’ stato, innanzitutto, statuito in linea generale che le
valutazioni tecniche sono suscettibili di sindacato
giurisdizionale, non potendo ritenersi che le stesse
coincidano con il merito amministrativo. Si è, inoltre,
definitivamente chiarito che è necessario distinguere
l'opportunità che identifica il merito, con l'opinabilità,
che connota l'esercizio della discrezionalità tecnica. Ne
consegue che quest'ultima è sindacabile quando risulta, in
ragione del procedimento e dei criteri adottati, che la
scelta tecnica sia irragionevole. Non è, però, possibile, in
ossequio al principio di separazione delle funzioni
giurisdizionali e amministrative, che il giudice sostituisca
le valutazioni tecniche opinabili, ma non irragionevoli,
espresse dall'amministrazione con proprie valutazioni.
Nel controllo sull'esercizio della discrezionalità tecnica,
al giudice amministrativo è consentito, dunque, censurare la
sola valutazione che si ponga al di fuori dell'ambito di
opinabilità, di modo che il relativo giudizio non divenga
sostitutivo con l'introduzione di una valutazione parimenti
opinabile. Pertanto, il giudice amministrativo –nella
ricerca di un punto di equilibrio, da verificare di volta in
volta in relazione alla fattispecie concreta, tra l'esigenza
di garantire la pienezza e l'effettività della tutela
giurisdizionale e quella di evitare che il giudice possa
esercitare egli stesso il potere amministrativo che compete
all'autorità– può sindacare con pienezza di cognizione i
fatti oggetto dell'indagine e il processo valutativo
mediante il quale l'autorità applica al caso concreto la
regola individuata, ma, ove ne accerti la legittimità sulla
base di una corretta applicazione delle regole tecniche
sottostanti, il suo sindacato deve arrestarsi, in quanto
diversamente vi sarebbe un'indebita sostituzione del giudice
all'amministrazione, titolare del potere esercitato (cfr.
Cons. Stato, sez. VI, 13.09.2012, n. 4873).
Il sindacato giurisdizionale sui concetti giuridici
indeterminati aventi valenza tecnica, nel rispetto della
disciplina che presiede alla loro possibile impugnazione e
disapplicazione, è consentito, quindi, soltanto nel caso in
cui le scelte effettuate si pongano in contrasto con il
principio di ragionevolezza tecnica. Non è sufficiente che
la determinazione assunta sia, sul piano del metodo e del
procedimento seguito, meramente opinabile; il giudice
amministrativo, infatti, non può in attuazione del principio
costituzionale di separazione dei poteri sostituire proprie
valutazioni a quelle effettuate dall'amministrazione (Cons.
Stato, sez. VI, 01.06.2012, n. 3283).
Il sindacato giurisdizionale in materia di valutazioni
rimesse alla discrezionalità tecnica della p.a. (nella
specie, ad un organo consultivo e temporaneo quale la
commissione giudicatrice ex art. 84 d.lgs. 12.04.2006,
n. 163) può svolgersi anche con la verifica
dell'attendibilità delle valutazioni tecniche compiute
dall'amministrazione rispetto alla correttezza dei criteri
utilizzati e applicati, ma resta comunque fermo il limite
della relatività delle valutazioni tecnico-scientifiche,
potendo il giudice amministrativo censurare la sola
valutazione che si ponga al di fuori dell'ambito di
opinabilità, poiché, diversamente, all'apprezzamento
opinabile dell'amministrazione sostituirebbe quello proprio
e altrettanto opinabile (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 08.03.2012, n. 1332).
E’ stato, inoltre, statuito dalla giurisprudenza più
tradizionale che nell'ambito del sistema di aggiudicazione
secondo il criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa, le valutazioni tecniche delle commissioni di
gara sono espressione di ampia discrezionalità, suscettibili
di sindacato solo nei limiti della manifesta illogicità.
Invero, le valutazioni delle commissioni di gara
relativamente agli aspetti tecnici delle offerte sono
espressione di discrezionalità tecnica sindacabile dal
giudice amministrativo non attraverso una sostituzione dei
giudizi, ma soltanto per manifesta illogicità o per palese
travisamento dei fatti alla stregua di elementi oggettivi di
riscontro (cfr. TAR Cagliari, sez. I, 20.02.2012, n.
137) e che il giudizio di discrezionalità tecnica reso dalla
Commissione di gara in sede di valutazione delle offerte,
essendo connotato dalla complessità delle discipline
specialistiche di riferimento e dall'opinabilità dell'esito
della valutazione, sfugge al sindacato di legittimità del
giudice amministrativo laddove non vengano in rilievo indici
sintomatici del non corretto esercizio del potere sotto i
profili del difetto di motivazione, dell'illogicità
manifesta e dell'erroneità dei presupposti di fatto (cfr.
TAR Campania, sez. I, 03.04.2012, n. 1557).
Sia la scelta del criterio più idoneo per l'aggiudicazione
di un appalto (tra quello dell'offerta economicamente più
vantaggiosa e quello del prezzo più basso), sia la scelta
dei criteri più adeguati (tra quelli esemplificativamente
indicati dall'art. 83, d.lgs. 12.04.2006 n. 163) per
l'individuazione dell'offerta economicamente più
vantaggiosa, costituiscono espressione tipica della
discrezionalità della stazione appaltante, e impingendo nel
merito dell'azione amministrativa restano sottratte al
sindacato di legittimità del giudice amministrativo, tranne
che, in relazione alla natura, all'oggetto e alle
caratteristiche del contratto, non siano manifestamente
illogiche, arbitrarie ovvero macroscopicamente viziate da
travisamento di fatto, con la conseguenza che il giudice
amministrativo non può sostituire con proprie scelte quelle
operate dall'amministrazione. La Commissione di gara, per
l'individuazione dell'offerta economicamente più
vantaggiosa, gode, quindi, di un'ampia discrezionalità
nell'attribuzione del punteggio agli elementi costituenti
l'offerta tecnica, purché in linea con i criteri predefiniti
nella lex specialis di gara. Tale discrezionalità, di natura
tecnico amministrativa, non può essere oggetto di sindacato
giurisdizionale se non in presenza di macroscopiche
irrazionalità e incongruenze.
La discrezionalità tecnica espressa dalla Commissione
nell'ambito di una procedura di gara per l'affidamento di un
appalto si esplica nella valutazione di fatti mediante un
giudizio da effettuarsi alla stregua di canoni scientifici e
tecnici e detto giudizio non può essere sindacato se non in
presenza di irragionevolezza o incoerenza tecnica delle
valutazioni medesime (TAR Calabria, sez. I, 03.04.2012,
n. 345).
Si è, infine, osservato che, laddove l'attribuzione dei
punteggi, analiticamente ripartiti secondo i criteri e
sub-criteri della lex specialis trovi puntuale riscontro nei
relativi verbali, le censure dedotte in sede di impugnazione
e che prospettano una diversa valutazione delle offerte
rispetto a quella seguita dalla Commissione si traducono in
un inammissibile sindacato sul merito delle opzioni attinte,
riservato all'amministrazione quale espressione della
discrezionalità tecnica che informa la procedura (cfr., sul
punto, TAR Liguria, sez. II, 11.04.2012, n. 526).
Solo in questi limiti, dunque, l’operato valutativo posto in
essere dalla commissione di gara è sindacabile ad opera del
giudice amministrativo (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza
30.10.2012 n. 2628 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
pendenza del procedimento di sanatoria, il ricorso
giurisdizionale avverso l’ordinanza di demolizione è
improcedibile, atteso che, se la domanda di sanatoria viene
favorevolmente definita, l’ingiunzione di demolizione perde
efficacia, mentre, se viene respinta, l’Amministrazione
dovrà necessariamente procedere, con autonomo procedimento,
al riesame dell’intera fattispecie ed emanare un nuovo
provvedimento sanzionatorio con assegnazione in tal caso di
un nuovo termine per eseguirlo, con la conseguenza, anche in
quest’ultimo caso, dell’inefficacia del precedente
provvedimento demolitorio.
Non appare coerente con i principi dell’ordinamento e di
quelli di logicità e razionalità consentire, senza la previa
valutazione della domanda di sanatoria dell’abuso, la
distruzione di un bene di valenza economica che potrebbe, in
caso di conformità del manufatto alle previsioni
urbanistico-edilizie, essere assentito dopo la sua
distruzione.
Si osserva infatti che la giurisprudenza, condivisa da
questo Tribunale, ha avuto modo di affermare che, in
pendenza del procedimento di sanatoria, il ricorso
giurisdizionale avverso l’ordinanza di demolizione è improcedibile, atteso che, se la domanda di sanatoria viene
favorevolmente definita, l’ingiunzione di demolizione perde
efficacia, mentre, se viene respinta, l’Amministrazione
dovrà necessariamente procedere, con autonomo procedimento,
al riesame dell’intera fattispecie ed emanare un nuovo
provvedimento sanzionatorio con assegnazione in tal caso di
un nuovo termine per eseguirlo, con la conseguenza, anche in
quest’ultimo caso, dell’inefficacia del precedente
provvedimento demolitorio (Cfr. Cons. di Stato – Sez. IV
– 03/12/2010 n. 8502; TAR Piemonte - TO – Sez. I – 07/04/2011 n.
358; TAR Liguria Genova - sez. I - 28.01.2011 n.
169; TAR Lazio Roma - sez. II - 22.12.2010 n.
38234; TAR Campania Napoli - sez. VI - 25.10.2010 n.
21366; TAR Lombardia Milano - sez. IV – 08.09.2010
n. 5159; TAR Campania – SA – 22/02/2011 n. 350)
E’ stato anche osservato che non appare coerente con i
principi dell’ordinamento e di quelli di logicità e
razionalità consentire, senza la previa valutazione della
domanda di sanatoria dell’abuso, la distruzione di un bene
di valenza economica che potrebbe, in caso di conformità del
manufatto alle previsioni urbanistico-edilizie, essere
assentito dopo la sua distruzione
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza
30.10.2012 n. 1968 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: L'art.
2 della L. n. 241/1990 ha fissato un principio generale
secondo cui ove il procedimento consegue obbligatoriamente
ad un'istanza del privato ovvero debba essere iniziato
d'ufficio, la P.A. ha il dovere di concluderlo mediante
l'adozione di un provvedimento espresso; in particolare,
giusta la previsione di cui all'art. 2, comma 3, della
suddetta disposizione la P.A. è tenuta a definire i
procedimenti attivati dai privati entro il termine di 90
giorni dal deposito della relativa istanza.
La giurisprudenza ha però rilevato che l'obbligo non
sussiste nelle ipotesi di:
a) istanza di riesame dell'atto inoppugnabile per spirare
del termine di decadenza;
b) istanza manifestamente infondata;
c) istanza di estensione ultra partes del giudicato.
Va preliminarmente ricordato che l'art. 2 della L. n.
241/1990 ha fissato un principio generale secondo cui ove il
procedimento consegue obbligatoriamente ad un'istanza del
privato ovvero debba essere iniziato d'ufficio, la P.A. ha
il dovere di concluderlo mediante l'adozione di un
provvedimento espresso; in particolare, giusta la previsione
di cui all'art. 2, comma 3, della suddetta disposizione la
P.A. è tenuta a definire i procedimenti attivati dai privati
entro il termine di 90 giorni dal deposito della relativa
istanza.
La giurisprudenza ha però rilevato che l'obbligo non
sussiste nelle ipotesi di:
a) istanza di riesame dell'atto
inoppugnabile per spirare del termine di decadenza (cfr. ex multis: Cons. St., Sez. IV, n. 69/1999; TAR Napoli, Sez. III, n. 5014/200);
b) istanza manifestamente infondata
(cfr.: Cons. St., Sez. IV, n. 6181/2000; TAR Napoli, Sez. III, n. 1969/2002);
c) istanza di estensione ultra partes
del giudicato (Cons. St., Sez. VI, n. 4592/2001)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza
30.10.2012 n. 1748 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
nozione di pertinenza, in materia edilizia, è più ristretta
di quella civilistica ed è riferibile solo a manufatti tali
da non alterare in modo significativo l'assetto del
territorio, cioè di dimensioni modeste e ridotte rispetto
alla cosa cui ineriscono.
La giurisprudenza richiede che dette opere, per loro natura,
risultino funzionalmente ed esclusivamente inserite al
servizio di un manufatto principale, siano prive di autonomo
valore di mercato e non valutabili in termini di cubatura (o
comunque dotate di volume minimo e trascurabile), in modo da
non poter essere utilizzate autonomamente e separatamente
dal manufatto cui accedono.
La Sezione ha sottolineato che la strumentalità non può mai
desumersi dalla destinazione soggettivamente data dal
proprietario e devono comportare una circoscritta incisione
sul cd. “carico urbanistico”. Peraltro, la norma regionale
-pur non fornendo una definizione del concetto di
pertinenzialità, sicché deve farsi riferimento al concetto,
generalmente accettato, di pertinenza in materia edilizia-
ha cura di specificare che le strutture pertinenziali
debbono essere “prive di funzionalità autonoma”.
Va rilevato che la proporzionalità del manufatto accessorio
rispetto a quello principale non può costituire l’unico
criterio di giudizio, dovendo in concomitanza operare anche
il criterio oggettivo, dato che, in caso contrario, si
perverrebbe a riconoscere carattere pertinenziale a
qualsiasi nuova costruzione, in palese contrasto con la
ratio sottesa alla norma regionale.
La norma invece esclude dal divieto suddetto le
(sole) strutture pertinenziali degli edifici prive di
funzionalità autonoma, sicché viene in rilievo quanto
articolato dai ricorrenti con il secondo profilo di
doglianza del primo motivo, vale a dire la possibilità di
qualificare l’opera abusiva come pertinenza.
Si tratta dunque di determinare quali strutture risultino
ascrivibili a tale definizione.
Al riguardo la Sezione ha svolto (cfr. la sentenza 01.07.2010
n. 2408) le seguenti considerazioni.
Sotto un primo profilo, va ricordato che la nozione di
pertinenza, in materia edilizia, è più ristretta di quella
civilistica ed è riferibile solo a manufatti tali da non
alterare in modo significativo l'assetto del territorio,
cioè di dimensioni modeste e ridotte rispetto alla cosa cui
ineriscono.
La giurisprudenza richiede (cfr. da ultimo Cons. St. Sez. IV,
17.05.2010 n. 3127 e precedenti ivi richiamati) che
dette opere, per loro natura, risultino funzionalmente ed
esclusivamente inserite al servizio di un manufatto
principale, siano prive di autonomo valore di mercato e non
valutabili in termini di cubatura (o comunque dotate di
volume minimo e trascurabile), in modo da non poter essere
utilizzate autonomamente e separatamente dal manufatto cui
accedono.
La Sezione (cfr. TAR Brescia 11.01.2006 n. 32) ha
sottolineato che la strumentalità non può mai desumersi
dalla destinazione soggettivamente data dal proprietario e
devono comportare una circoscritta incisione sul cd. “carico
urbanistico”. Peraltro, la norma regionale -pur non fornendo
una definizione del concetto di pertinenzialità, sicché deve
farsi riferimento al concetto, generalmente accettato, di
pertinenza in materia edilizia- ha cura di specificare che
le strutture pertinenziali debbono essere “prive di
funzionalità autonoma”.
Va rilevato che la proporzionalità del manufatto accessorio
rispetto a quello principale non può costituire l’unico
criterio di giudizio, dovendo in concomitanza operare anche
il criterio oggettivo, dato che, in caso contrario, si
perverrebbe a riconoscere carattere pertinenziale a
qualsiasi nuova costruzione, in palese contrasto con la
ratio sottesa alla norma regionale.
Venendo ora a fare applicazione dei suddetti principi alla
fattispecie all’esame occorre rilevare che si è in presenza
(cfr. il doc. n. 4a) di un’ abitazione avente la superficie
di mq. 150,78; di una autorimessa di mq. 50,16, rispetto ai
quali risulta difficile poter riconoscere carattere
pertinenziale, sotto il profilo urbanistico, all’opera in
questione: una tettoia di mq. 65,83
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza
30.10.2012 n. 1747 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'istituto
del preavviso di rigetto di cui all'art. 10-bis della legge
n. 241 del 1990, stante la sua portata generale, trova
applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di
condono edilizio.
Tuttavia tale omissione non sempre determina l'annullabilità
del provvedimento qualora venga a trovare applicazione il
disposto dell'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della
legge n. 241 del 1990 ("non è annullabile il provvedimento
adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla
forma degli atti qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato").
Invero, il provvedimento di diniego di condono edilizio
costituisce espressione di potere vincolato rispetto ai
presupposti normativi richiesti e dei quali deve farsi
applicazione.
Con riguardo al secondo motivo, va osservato che (cfr. da
ultimo TAR Bari, sez. III 05.04.2012 n. 676) l'istituto
del preavviso di rigetto di cui all'art. 10-bis della legge
n. 241 del 1990, stante la sua portata generale, trova
applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di
condono edilizio (cfr. TAR Bari, Sez. III, 22.09.2011, n. 1383, TAR Liguria, Sez. I, 22.04.2011, n.
666).
Tuttavia tale omissione non sempre determina l'annullabilità
del provvedimento qualora venga a trovare applicazione il
disposto dell'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della
legge n. 241 del 1990 ("non è annullabile il provvedimento
adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla
forma degli atti qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato").
Invero, il provvedimento di diniego di condono edilizio
costituisce espressione di potere vincolato rispetto ai
presupposti normativi richiesti e dei quali deve farsi
applicazione (cfr. TAR Liguria, Sez. I, 22.04.2011,
n. 666, Cons. St., Sez. IV, 14.04.2010, n. 2105; TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 22.07.2010, n. 3253, TAR Bari,
Sez. III, 08.03.2012, n. 520)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza
30.10.2012 n. 1747 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
silenzio-rifiuto disciplinato dall'ordinamento è istituto
riconducibile a inadempienza dell'Amministrazione, in
rapporto a un sussistente obbligo di provvedere; tale
obbligo può discendere dalla legge, da un regolamento o
anche da un atto di autolimitazione dell'Amministrazione
stessa, e in ogni caso deve corrispondere a una situazione
soggettiva protetta, qualificata come tale dall'ordinamento.
Peraltro, al di là dell’obbligo normativamente imposto alla
P.A. di concludere il procedimento mediante l’adozione di un
provvedimento espresso e motivato (artt. 2 e 3 L. n.
241/1990), appartiene a una giurisprudenza consolidata il
principio secondo cui l’Amministrazione è parimenti tenuta a
pronunciarsi laddove ragioni di giustizia ed equità
impongono l’adozione di un provvedimento, nonché tutte le
volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di
buona amministrazione, sorga per il privato una legittima
aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle
determinazioni amministrative, quali che esse siano.
Il silenzio-rifiuto disciplinato
dall'ordinamento è istituto riconducibile a inadempienza
dell'Amministrazione, in rapporto a un sussistente obbligo
di provvedere; tale obbligo può discendere dalla legge, da
un regolamento o anche da un atto di autolimitazione
dell'Amministrazione stessa, e in ogni caso deve
corrispondere a una situazione soggettiva protetta,
qualificata come tale dall'ordinamento (Cons. St., sez. IV,
04.09.1985, n. 333 e 06.02.1995, n. 51; sez. V, 06.06.1996, n. 681 e 15.09.1997, n. 980, Consiglio
Stato, sez. VI, 11.11.2008, n. 5628, Consiglio Stato, sez. IV, 22.06.2006, n. 3883).
Peraltro, al di là dell’obbligo normativamente imposto alla
P.A. di concludere il procedimento mediante l’adozione di un
provvedimento espresso e motivato (artt. 2 e 3 L. n.
241/1990), appartiene a una giurisprudenza consolidata il
principio secondo cui l’Amministrazione è parimenti tenuta a
pronunciarsi laddove ragioni di giustizia ed equità
impongono l’adozione di un provvedimento, nonché tutte le
volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di
buona amministrazione, sorga per il privato una legittima
aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle
determinazioni amministrative, quali che esse siano (C. St. Sez. VI 14.10.1992 n. 762; TAR Campania I Sez. 28.06.2001 n. 1034; TAR Puglia–Lecce III
sez. 21.12.2007 n. 4370) (TAR
Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza
25.10.2012 n. 1807 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione dell'istanza di sanatoria -sia essa di
accertamento di conformità, sia essa di condono- produce
l'effetto di rendere inefficace il provvedimento
sanzionatorio dell'ingiunzione di demolizione e, quindi,
improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza
di interesse. Invero, il riesame dell'abusività dell'opera
provocato dalla predetta istanza di sanatoria comporta la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento (esplicito o
implicito, di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a
superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa.
Infatti, nell'ipotesi di rigetto dell'istanza,
l'Amministrazione dovrà adottare un nuovo provvedimento
sanzionatorio, con l'assegnazione di un nuovo termine per
adempiere. Del pari, in caso di positiva delibazione
dell'istanza non si avrebbe più interesse alla definizione
del giudizio, essendo stato sanato il lamentato abuso, con
effetto estintivo anche delle sanzioni acquisitive,
eventualmente già adottate.
Ritiene il Collegio che il ricorso sia improcedibile,
conformemente al consolidato orientamento giurisprudenziale,
espresso, da ultimo, nella seguente massima: "La
presentazione dell'istanza di sanatoria -sia essa di
accertamento di conformità, sia essa di condono- produce
l'effetto di rendere inefficace il provvedimento
sanzionatorio dell'ingiunzione di demolizione e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza
di interesse. Invero, il riesame dell'abusività dell'opera
provocato dalla predetta istanza di sanatoria comporta la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento (esplicito o
implicito, di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a
superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa.
Infatti, nell'ipotesi di rigetto
dell'istanza, l'Amministrazione dovrà adottare un nuovo
provvedimento sanzionatorio, con l'assegnazione di un nuovo
termine per adempiere. Del pari, in caso di positiva
delibazione dell'istanza non si avrebbe più interesse alla
definizione del giudizio, essendo stato sanato il lamentato
abuso, con effetto estintivo anche delle sanzioni
acquisitive, eventualmente già adottate" (cfr. ex multis TAR Campania Napoli, sez. III, 11.09.2009,
n. 4918)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza
22.10.2012 n. 1920 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Pur
nel nuovo sistema introdotto dagli artt. 2 e 3 L. 07.08.1990
n. 241, il silenzio serbato dall’amministrazione
sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica di
cui all’art. 13 L. 28.02.1985 n. 47 (ora, art. 36 T.U.
06.06.2001 n. 380), ha natura di atto tacito di reiezione (e
quindi di silenzio-significativo) e non di silenzio-rifiuto.
Ne consegue che tale provvedimento, in quanto tacito, è ope
legis privo di motivazione ed è perciò impugnabile non per
tale carenza, bensì per il suo contenuto tipico di rigetto.
In punto di rito, occorre premettere che, pur
nel nuovo sistema introdotto dagli artt. 2 e 3 L. 07.08.1990 n. 241, il silenzio serbato dall’amministrazione
sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica di
cui all’art. 13 L. 28.02.1985 n. 47 (ora, art. 36 T.U.
06.06.2001 n. 380), ha natura di atto tacito di reiezione
(e quindi di silenzio-significativo) e non di silenzio-rifiuto.
Ne consegue che tale provvedimento, in quanto tacito, è ope
legis privo di motivazione ed è perciò impugnabile non per
tale carenza, bensì per il suo contenuto tipico di rigetto
(cfr. TAR Campania, Salerno, Sez. II, 07.03.2008 n. 257)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza
22.10.2012 n. 1909 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
demolizione e successiva ricostruzione di un rudere è
qualificabile come intervento di nuova costruzione, in
quanto la ristrutturazione edilizia dev’essere sempre
rivolta alla conservazione di un edificio ancora esistente e
strutturalmente identificabile al momento dell’inizio dei
lavori.
Orbene, in materia edilizia, anche alla luce
delle disposizioni contenute nel T.U. 06.06.2001 n. 380,
la demolizione e successiva ricostruzione di un rudere è
qualificabile come intervento di nuova costruzione, in
quanto la ristrutturazione edilizia dev’essere sempre
rivolta alla conservazione di un edificio ancora esistente e
strutturalmente identificabile al momento dell’inizio dei
lavori (cfr. Cass. pen., Sez. III, 28.03.2003 n. 14455;
Cons. Stato, Sez. V, 10.02.2004 n. 475).
Ne consegue che, già sulla scorta del titolo di proprietà
esibito dalla parte ricorrente, ai fini richiesti
dall’interessato non potevano essere autorizzati semplici
lavori di ristrutturazione (TAR
Umbria,
sentenza
22.10.2012 n. 440 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Correttamente,
nel motivare l’atto di annullamento impugnato, la P.A. non
ha compiuto un approfondito accertamento della sussistenza
di una situazione di interesse pubblico attuale e concreto
idoneo a giustificare il ricorso all’autotutela, in quanto
il rilascio dello stesso è derivato da un’erronea
rappresentazione dei fatti -non importa se dolosa o colposa-
da parte del privato richiedente.
Va infine soggiunto che correttamente, nel motivare l’atto
di annullamento impugnato, la P.A. non ha compiuto un
approfondito accertamento della sussistenza di una
situazione di interesse pubblico attuale e concreto idoneo a
giustificare il ricorso all’autotutela, in quanto il
rilascio dello stesso è derivato da un’erronea
rappresentazione dei fatti -non importa se dolosa o colposa-
da parte del privato richiedente (cfr. Cons. Stato, Sez. V,
12.10.2004 n. 6554) (TAR
Umbria,
sentenza
22.10.2012 n. 440 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente
all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce
l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento e,
quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta
carenza di interesse, atteso che a seguito dell'istanza di
sanatoria l'ordinanza di demolizione deve essere sostituita
o dalla concessione in sanatoria o da un nuovo provvedimento
sanzionatorio.
Più precisamente, la presentazione dell’istanza di sanatoria
per opere edilizie già oggetto di provvedimenti sanzionatori
determina l’improcedibilità del ricorso proposto nei
confronti di quest'ultimi e ciò in quanto la ricorrente non
può avere alcun interesse a coltivare un gravame concernente
misure che —all’esito del procedimento di sanatoria—
dovranno essere sostituite con un nuovo provvedimento
sanzionatorio ovvero dal titolo edilizio rilasciato in
sanatoria.
Invero, posto che la presentazione dell’istanza di sanatoria
dell'abuso edilizio produce in capo all'Amministrazione
l'obbligo di avviare e concludere il relativo procedimento
con provvedimento espresso e motivato, la determinazione
amministrativa, in caso di contenuto favorevole al privato,
avrà come effetto l'integrale soddisfacimento delle sue
pretese con conseguente cessazione della materia del
contendere del ricorso giurisdizionale avverso la
demolizione dell'opera, mentre, in caso di rigetto della
domanda, la lesione della sfera giuridica del richiedente
originerà da questo nuovo provvedimento e dalla rinnovata
misura sanzionatoria che a tale atto dovrà necessariamente
seguire, con conseguente improcedibilità del ricorso per
sopravvenuta carenza di interesse.
Infatti, secondo costante giurisprudenza (TAR
Piemonte Torino, sez. I, 07.04.2011, n. 358), la
presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente
all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce
l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento e,
quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta
carenza di interesse, atteso che a seguito dell'istanza di
sanatoria l'ordinanza di demolizione deve essere sostituita
o dalla concessione in sanatoria o da un nuovo provvedimento
sanzionatorio.
Più precisamente si afferma in sede pretoria
(TAR Lazio Roma, sez. II, 01.02.2011, n. 936) che la
presentazione dell’istanza di sanatoria per opere edilizie
già oggetto di provvedimenti sanzionatori determina
l’improcedibilità del ricorso proposto nei confronti di
quest'ultimi e ciò in quanto la ricorrente non può avere
alcun interesse a coltivare un gravame concernente misure
che —all’esito del procedimento di sanatoria— dovranno
essere sostituite con un nuovo provvedimento sanzionatorio
ovvero dal titolo edilizio rilasciato in sanatoria.
Invero, posto che la presentazione dell’istanza di sanatoria
dell'abuso edilizio produce in capo all'Amministrazione
l'obbligo di avviare e concludere il relativo procedimento
con provvedimento espresso e motivato, la determinazione
amministrativa, in caso di contenuto favorevole al privato,
avrà come effetto l'integrale soddisfacimento delle sue
pretese con conseguente cessazione della materia del
contendere del ricorso giurisdizionale avverso la
demolizione dell'opera, mentre, in caso di rigetto della
domanda, la lesione della sfera giuridica del richiedente
originerà da questo nuovo provvedimento e dalla rinnovata
misura sanzionatoria che a tale atto dovrà necessariamente
seguire, con conseguente improcedibilità del ricorso per
sopravvenuta carenza di interesse
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza
19.10.2012 n. 1902 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Come
si evince dall’art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 -che
dispone la decadenza “di diritto” dal permesso di costruire
per mancato inizio dei lavori nel termine di un anno dal
rilascio dello stesso- il provvedimento dichiarativo di
decadenza ha natura ricognitiva e si concreta in un atto
d’accertamento il cui effetto nasce ex lege, conseguendone
che siffatto effetto può essere evitato, come la medesima la
disposizione legislativa prevede, solo a seguito
dell’accoglimento della domanda di proroga dell’efficacia
del titolo di assentimento inoltrata anteriormente alla
scadenza dello stesso.
Si deve, poi, osservare che, come si
evince dall’art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 che
dispone la decadenza “di diritto” dal permesso di costruire
per mancato inizio dei lavori nel termine di un anno dal
rilascio dello stesso, il provvedimento dichiarativo di
decadenza ha natura ricognitiva e si concreta in un atto
d’accertamento il cui effetto nasce ex lege (Cfr. Cons. di
Stato – Sez. IV – 10/08/2007 n. 4423; TAR - Liguria – GE –
Sez. I – 11/12/2007 n. 2050), conseguendone che siffatto
effetto può essere evitato, come la medesima la disposizione
legislativa prevede, solo a seguito dell’accoglimento della
domanda di proroga dell’efficacia del titolo di assentimento
inoltrata anteriormente alla scadenza dello stesso,
circostanza questa non verificatasi nel caso in esame
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza
19.10.2012 n. 1900 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: A
regioni e comuni, ciascuno per la parte di sua competenza, è
consentito introdurre criteri localizzativi degli impianti
di stazione radio mobile ai sensi degli artt. 3, comma 1,
lett. d) e 8, commi 1, lett. e), e 6 della L. 22.02.2001 n.
36, mentre non è consentito introdurre limitazioni alla
localizzazione.
---------------
Non è consentito agli enti territoriali introdurre criteri
distanziali generici ed eterogenei, come la prescrizione di
distanze minime dal perimetro esterno di edifici destinati
ad abitazioni, a luoghi di lavoro o ad attività diverse da
quelle specificamente connesse all’esercizio degli impianti
stessi, di ospedali, case di cura e di riposo, edifici
adibiti al culto, scuole e asili nido nonché di immobili
vincolati ai sensi della legislazione sui beni
storico-artistici o individuati come edifici di pregio
storico-architettonico, di parchi pubblici, parchi gioco,
aree verdi attrezzate ed impianti sportivi.
Eventuali disposizioni regolamentari in contrasto con la
normativa imperativa nazionale devono essere direttamente
disapplicate dal giudice amministrativo, configurando le
richieste dei soggetti interessati all’installazione degli
impianti espressione di un diritto soggettivo che non può
essere limitato da discipline locali che, se in contrasto
con la normativa nazionale, sono recessive.
Comunque, anche a fronte di posizioni di interesse
legittimo, il giudice amministrativo ha il potere-dovere di
disapplicare d’ufficio le norme regolamentari illegittime
per palese contrasto con la disposizione legislativa per
l’esecuzione della quale il regolamento è stato emanato.
- Rilevato che la domanda di autorizzazione per la
realizzazione di stazione radio base, avanzata dalla società
ricorrente in data 29.12.2011, è stata respinta dal comune
di Baiano in ragione della sua localizzazione in aree
qualificate come “territoriale urbanizzata” e come
“sensibile” dall’art. 3 del regolamento comunale per
l’insediamento di impianti di telecomunicazione e
radiotelevisivi, sulle quali “non possono essere installati
impianti”;
-
Ritenuto che, nell’ambito della definizione degli obiettivi
di qualità, a regioni e comuni, ciascuno per la parte di sua
competenza, è consentito introdurre criteri localizzativi
degli impianti di stazione radio mobile ai sensi degli artt.
3, comma 1, lett. d) e 8, commi 1, lett. e), e 6 della L. 22.02.2001 n. 36, mentre non è consentito introdurre
limitazioni alla localizzazione (cfr. Cons. Stato, Sez. VI,
09.06.2006 n. 3452);
-
Ritenuto che per giurisprudenza anche di questo Tribunale:
--- non è consentito agli enti territoriali introdurre criteri
distanziali generici ed eterogenei, come la prescrizione di
distanze minime dal perimetro esterno di edifici destinati
ad abitazioni, a luoghi di lavoro o ad attività diverse da
quelle specificamente connesse all’esercizio degli impianti
stessi, di ospedali, case di cura e di riposo, edifici
adibiti al culto, scuole e asili nido nonché di immobili
vincolati ai sensi della legislazione sui beni
storico-artistici o individuati come edifici di pregio
storico-architettonico, di parchi pubblici, parchi gioco,
aree verdi attrezzate ed impianti sportivi (cfr. TAR
Campania, Napoli, Sez. VII, 14.03.2007 n. 5445; Sez. I,
10.03.2005 n. 1708);
--- eventuali disposizioni regolamentari in contrasto con la
normativa imperativa nazionale devono essere direttamente
disapplicate dal giudice amministrativo, configurando le
richieste dei soggetti interessati all’installazione degli
impianti espressione di un diritto soggettivo che non può
essere limitato da discipline locali che, se in contrasto
con la normativa nazionale, sono recessive (cfr. TAR
Campania, Napoli, Sez. I, 05.04.2004, n. 4044 e Sez. VII,
14.03.2007 n. 5445; TAR Abruzzo, L’Aquila, 04.07.2006, n. 500);
--- comunque, anche a fronte di posizioni di interesse
legittimo, il giudice amministrativo ha il potere-dovere di
disapplicare d’ufficio le norme regolamentari illegittime
per palese contrasto con la disposizione legislativa per
l’esecuzione della quale il regolamento è stato emanato
(cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 29.05.2008 n. 2535; C.G.A.
09.07.2007 n. 561)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza
19.10.2012 n. 1893 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
diritto di accesso è conformato dalla legge per offrire al
titolare, più che utilità finali (caratteristica, questa,
ormai riconoscibile non solo ai diritti soggettivi, ma anche
agli interessi legittimi), poteri autonomi di natura
procedimentale, aventi finalità strumentali di tutela di
posizioni sostanziali propriamente dette, sia di diritto
soggettivo, sia di interesse legittimo.
Pertanto, la valutazione della p.a. sulla sussistenza di un
interesse concreto, attuale e differenziato all’accesso, che
si risolve nel requisito di ammissibilità della relativa
azione, si sostanzia solo nell’accertamento dell’esistenza
di un legittimo bisogno differenziato di conoscenza in capo
a chi richiede i documenti, e sempre che la richiesta di
accesso non sia preordinata ad un controllo generalizzato ed
indiscriminato di chiunque sull’azione amministrativa
(espressamente vietato dall’art. 24, comma 3, l. 241/1990).
E’ principio ormai pacifico quello secondo cui il
diritto di accesso è conformato dalla legge per offrire al
titolare, più che utilità finali (caratteristica, questa,
ormai riconoscibile non solo ai diritti soggettivi, ma anche
agli interessi legittimi), poteri autonomi di natura
procedimentale, aventi finalità strumentali di tutela di
posizioni sostanziali propriamente dette, sia di diritto
soggettivo, sia di interesse legittimo (ex plurimis, Cons.
Stato, III, 07.08.2012, n. 530 e Ad. Plen. n. 6/2006).
Pertanto, la valutazione della p.a. sulla sussistenza di un
interesse concreto, attuale e differenziato all’accesso, che
si risolve nel requisito di ammissibilità della relativa
azione, si sostanzia solo nell’accertamento dell’esistenza
di un legittimo bisogno differenziato di conoscenza in capo
a chi richiede i documenti, e sempre che la richiesta di
accesso non sia preordinata ad un controllo generalizzato ed
indiscriminato di chiunque sull’azione amministrativa
(espressamente vietato dall’art. 24, comma 3, l. 241/1990)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza
19.10.2012 n. 1692 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI
PROGETTUALI: L'appalto
è aperto.
Ok al progettista collaboratore p.a..
Tar Lazio: niente stop se la consulenza non dà vantaggi.
Un professionista che ha collaborato con la stazione
appaltante per gli studi preparatori di un appalto può
partecipare alla gara con una impresa di costruzioni se la
sua collaborazione non ha determinato effettivi vantaggi
competitivi rispetto agli altri concorrenti.
Lo afferma il
TAR Lazio-Roma, Sez. I, con la
sentenza
18.10.2012 n. 8595
che
affronta il tema della portata dell'art. 90, comma 8 del
Codice contratti in relazione all'incompatibilità del
progettista in un appalto integrato (di progettazione
esecutiva e costruzione) affidato sulla base di un progetto
preliminare.
L'impresa aveva indicato quale progettista
qualificato un professionista che aveva avuto modo di
collaborare alla redazione degli studi specialistici del
progetto preliminare. Si doveva quindi verificare se si
fosse determinata una asimmetria informativa con gli altri
partecipanti alla gara, tale da alterare la concorrenza.
Il
Tar premette che la ratio della norma del Codice è quella di
evitare che colui che ha avuto una parte determinante
nell'elaborazione del progetto posto a base di gara possa
poi concorrere all'aggiudicazione della stessa,
compromettendo o falsando la concorrenza tra i partecipanti
alla gara stessa, a esclusivo favore dell'impresa posta in
grado di profittare di informazioni riservate attinenti alla
fase progettuale, o addirittura giovandosi di un progetto
redatto in maniera da favorire nell'aggiudicazione l'impresa
stessa.
La sentenza richiama quindi la giurisprudenza Ue del
2005 (sentenza del 03 marzo, sez. III) che ha avuto modo di
chiarire che la normativa nazionale non può ex se
precludere, la partecipazione alla gara di un soggetto che
sia stato incaricato della ricerca, della sperimentazione,
dello studio o dello sviluppo di attività propedeutiche a un
appalto, «senza che si conceda alla medesima la
possibilità di provare che, nel caso di specie, l'esperienza
da essa acquisita non possa falsare la concorrenza».
Occorre, quindi, una valutazione caso per caso sulla reale
configurabilità di una simmetria informativa che evidenzi la
presenza di «indizi seri, precisi e concordanti sulla
circostanza che il partecipante alla gara, o il soggetto a
questo collegato, abbia rivestito un ruolo determinante
nell'indirizzo delle scelte dell'amministrazione o ne abbia
ricevuto un tale flusso di informazioni riservate da falsare
la concorrenza».
Nel caso specifico, la verifica fatta dalla commissione
giudicatrice aveva fatto emergere alcuni elementi ritenuti
sufficienti ad escludere l'incompatibilità alla
partecipazione alla gara di lavori: a) l'alterità della
predisposizione del documento tecnico alla cui redazione ha
collaborato il professionista e dell'apporto specifico
fornito dal professionista rispetto alla formazione
dell'elaborato progettuale posto a base di gara; b) la
integrale rimessione della fase progettuale dell'intervento
a funzionari pubblici; c) la soluzione di continuità
intervenuta nell'andamento di tale fase; d) la messa a
disposizione degli studi specialistici a tutti i
partecipanti.
Diverso sarebbe stato, ovviamente, laddove il professionista
avesse predisposto materialmente il progetto posto a base di
gara (articolo ItaliaOggi del
02.11.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
INCARICHI
PROGETTUALI:
Progettisti nelle gare di appalto: quali incompatibilità?
Il TAR Lazio-Roma, Sez. I, con la corposa
sentenza
18.10.2012 n. 8595 ha fornito un interessante orientamento
giurisprudenziale in merito alle incompatibilita' per i
progettisti ai sensi del comma 8, dell'articolo 90, del
Codice degli Appalti Pubblici.
In merito, si deve rilevare che il citato art. 90, comma 8,
del D.Lgs. n. 163/2006 testualmente dispone che:
“Gli affidatari di incarichi di progettazione non possono
partecipare agli appalti o alle concessioni di lavori
pubblici, nonché agli eventuali subappalti o cottimi, per i
quali abbiano svolto la suddetta attività di progettazione;
ai medesimi appalti, concessioni di lavori pubblici,
subappalti e cottimi non può partecipare un soggetto
controllato, controllante o collegato all'affidatario di
incarichi di progettazione. Le situazioni di controllo e di
collegamento si determinano con riferimento a quanto
previsto dall'articolo 2359 del codice civile. I divieti
(….) sono estesi ai dipendenti dell'affidatario
dell'incarico di progettazione, ai suoi collaboratori nello
svolgimento dell'incarico e ai loro dipendenti, nonché agli
affidatari di attività di supporto alla progettazione e ai
loro dipendenti”.
L’Autorità per la Vigilanza sui Contratti, al pari della
giurisprudenza, ha già avuto modo di evidenziare la ratio e
la portata della disposizione applicata nel caso di specie
dalla stazione appaltante, ricordando che incorre nel
divieto in essa sancito il partecipante alla procedura di
affidamento di lavori che abbia predisposto o abbia avuto
modo di conoscere, anche indirettamente, la progettazione
preliminare, in quanto è sufficiente il solo sospetto della
possibile lesione della trasparenza nella circolazione delle
informazioni legate all’intervento, a costituire un vulnus
al principio della par condicio.
Ciò rileva soprattutto in considerazione del criterio di
aggiudicazione prescelto per l’affidamento dei lavori di cui
trattasi, che è quello dell’offerta economicamente più
vantaggiosa nell’ambito del quale sono previsti specifici
punteggi per le soluzioni progettuali migliorative proposte
in sede di offerta tecnica.
La vicenda Il Sindaco di un ente locale nella qualità di
Commissario delegato per l’emergenza traffico indiceva in
data 25.01.2010 una procedura aperta ai sensi dell’art.
53, comma 2, lett. c), del Codice degli Appalti Pubblici per
l’affidamento della progettazione e realizzazione della
“piattaforma logistica intermodale con annesso scalo
portuale” .
Il disciplinare di gara prevedeva l’attribuzione alle
offerte dei partecipanti ammessi alla gara di un punteggio
complessivo massimo pari a 100, da determinarsi sulla base
di elementi di valutazione in parte qualitativi, in forza di
valutazioni discrezionali della competente commissione
esaminatrice (75/100), in parte oggettivi (25/100).
A conclusione dei lavori, protrattisi per 17 sedute, la
commissione valutatrice formalizzava in data 27/28.07.2010 la graduatoria di merito della gara, nella quale si
classificava al primo posto, l’offerta di una SPA .
Una delle ditte partecipanti classificatasi al quarto posto
della graduatoria richiedeva infruttuosamente alla stazione
appaltante, mediante memorie e diffide, l’esclusione dalla
gara dei soggetti figuranti nelle prime tre posizioni e
l’aggiudicazione a se dei lavori. Intervenivano nel
procedimento l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici
di lavori, servizi e forniture e l’Avvocatura dello Stato.
Con decreto n. 26 del 22.08.2011 il Commissario delegato
aggiudicava definitivamente la gara alla SPA classificatasi
prima in graduatoria.
L’analisi del TAR La contestazione avanzata dalla società
ricorrente era relativa al fatto che vi era la presenza, tra
i progettisti incaricati di un ingegnere con elementi di
incompatibilità in quanto già collaboratore nell’ambito
della redazione della relazione generale degli studi
specialistici del progetto del porto oggetto
dell’affidamento ; in sostanza era contestato la contestuale
partecipazione alla gara di un professionista sotto la
duplice veste di progettista per la stazione appaltante e
affidatario o dipendente/consulente dell’affidatario.
Al riguardo, l’Avvocatura dello Stato premette che la ratio
della normativa risponde all’esigenza di assicurare par
condicio, trasparenza e concorrenzialità nello svolgimento
delle procedure a evidenza pubblica, ciò in particolare
mirando a evitare che colui che ha avuto una parte
determinante nell’elaborazione del progetto posto a base di
gara possa poi concorrere all’aggiudicazione della stessa.
L’Avvocatura dello Stato osserva che la giurisprudenza
comunitaria recepita da pronunciamenti del giudice
nazionale, ha evidenziato come l’art. 90, comma 8, del Codice
degli Appalti Pubblici sia norma di stretta interpretazione
e che la normativa nazionale non può precludere, pena la
violazione del principio di proporzionalità e di libertà di
iniziativa economica, la presentazione di una domanda di
partecipazione o di una offerta per un appalto pubblico di
lavori, di forniture o di servizi da parte di una impresa (o
di una persona fisica alla stessa collegata nei termini
sopra considerati) che sia stata incaricata della ricerca,
della sperimentazione, dello studio o dello sviluppo di tali
lavori, forniture o servizi, senza che si conceda alla
medesima la possibilità di provare che, nel caso di specie,
l’esperienza da essa acquisita non possa falsare la
concorrenza.
Il TAR osserva che le norme sulle incompatibilità ed i
connessi divieti agiscono in prevenzione, ovvero sono norme
che tendono a prevenire il pericolo di pregiudizio, e,
verificato il caso di incompatibilità, tendono a
salvaguardare la genuinità della gara attraverso la
prescrizione del divieto di partecipazione; le stesse non
presuppongono né intervenuta la lesione, né la sussistenza
di un concreto tentativo di compromissione.
E’, dunque, sufficiente che gli indizi (ferma la loro
serietà, precisione e concordanza) riguardino situazioni
che, oggettivamente, pongono un determinato concorrente in
una posizione di squilibrio (per sé favorevole) nei
confronti degli altri concorrenti, e tale da determinare,
indipendentemente dal concretizzarsi del vantaggio, una
violazione della par condicio.
Il Tribunale amministrativo ritiene di dover concordare:
• sia con il professionista, quando afferma, nelle stesse
controdeduzioni, che l’esperienza acquisita dalla
partecipante alla gara di appalto mediante l’indicazione del
progettista non era idonea a falsare la concorrenza, non
rinvenendosi in capo alla stessa, per il suo tramite, alcun
vantaggio ingiustificato, derivante dalla conoscenza di
elementi specifici, non in possesso delle altre imprese pure
partecipanti;
• sia con la commissione di gara che, nel vagliare la
posizione della stessa partecipante ha escluso che lo stesso
potesse essere escluso dalla partecipazione alla
competizione per l’indicazione di cui trattasi.
Può ancora aggiungersi e l’elemento ancora testimonia a
sfavore della tesi della ditta ricorrente che le conclusioni
cui è pervenuta la commissione di gara in relazione alla
posizione della partecipante e dell’ingegnere sono state
comunicate dalla stazione appaltante anche all’Autorità per
la vigilanza sui contratti pubblici, nell’ambito dell’esame
da quest’ultima effettuato di una più ampia serie di
questioni relative alla gara per cui è causa, e sono state
oggetto di un vaglio sostanzialmente favorevole da parte
dell’Autorità, espressamente per quanto concerne l’andamento
e la consistenza del segmento procedimentale costituito
dalla predetta verifica, avendo la detta Autorità rilevato,
con atto n. 51360 del 10.05.2011, che “la commissione ha
seguito una procedura completa, acquisendo ulteriore
documentazione e le controdeduzioni dell’impresa” ,
senza null’altro approfondire o richiedere sul punto (commento tratto da www.ispoa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gare, nell'offerta economica oneri di sicurezza
da indicare sempre.
Va esclusa da una gara di appalto di servizi un'impresa
che abbia omesso di indicare specificamente, nell'offerta
economica, l'importo relativo agli oneri per la sicurezza, a
nulla rilevando che la lex specialis non prevedeva alcunché
al riguardo.
Una ditta partecipante alla gara indetta dall’Autorità
garante per le comunicazioni per l’affidamento del servizio
di monitoraggio dei contenuti della pubblicità televisiva
trasmessa dalle emittenti nazionali, ha impugnato il
provvedimento di propria esclusione dalla procedura a
cagione della mancata indicazione nell’offerta economica
degli oneri di sicurezza .
Al riguardo, ha evidenziato che il disciplinare di gara
richiedeva, oltre al resto, la presentazione della
dichiarazione riguardante la regolarità della posizione dei
partecipanti relativamente agli obblighi in materia di
sicurezza e condizioni di lavoro, senza tuttavia prevedere
l’onere di indicare (anche) i costi di sicurezza.
Per tal ragione, l’interessata è insorta avverso il
menzionato provvedimento di esonero dalla gara, contestando
la violazione dell’art. 86, comma 3-bis e dell’art. 87,
comma 4, D.Lgs. n, 163/2006 alla stregua della
considerazione per cui la mancata previsione, nel bando come
nel disciplinare di gara, dell’obbligo di specifica
indicazione dei costi della sicurezza, avrebbe eliminato la
ricorrenza, in capo ai partecipanti, dell’onere di
rappresentazione di questi ultimi in seno all’offerta.
Il ricorso è stato respinto.
Il Collegio di Roma, in primis, non ha ritenuto
meritevole di condivisione la prospettazione avanzata dalla
ricorrente per cui la propria esclusione sarebbe stata
illegittimamente disposta in assenza di un’espressa
previsione nel disciplinare dell’obbligo di indicazione dei
costi inerenti la sicurezza.
Sul proposito, ha osservato come questi ultimi costi, ai
sensi dell'art. 87, comma 4, D.Lgs. n. 163/2006: "…
devono essere specificamente indicati nell'offerta e
risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche
dei servizi o delle forniture".
Parallelamente, ha richiamato il disposto di cui al
precedente art. 86, comma 3-bis, secondo cui: "… nella
predisposizione delle gare d’appalto e nella valutazione
dell'anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento
di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture,
gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore
economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del
lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve
essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto
all'entità e alle caratteristiche dei lavori, dei `servizi o
delle forniture".
Sicché, in virtù delle menzionate disposizioni, il
giudicante non ha potuto che constatare come sulla
ricorrente gravasse l’onere di segnalare tutti i costi che
riteneva di sopportare al fine di adempiere esattamente agli
obblighi di sicurezza sul lavoro; tanto, al duplice fine di
assicurare una consapevole formulazione dell'offerta
economica, nonché di consentire alla stazione appaltante la
valutazione della congruità dell'importo destinato ai costi
per la sicurezza.
Siffatta considerazione, del resto, non è stata neppure
scalfita dalla circostanza per cui, ai sensi dell’art. 131,
D.Lgs. n. 163/2006, solo nei bandi di gara relativi agli
appalti di lavori devono essere evidenziati gli oneri di
sicurezza non soggetti a ribasso.
Infatti, l’adito G.A. ha precisato che nelle altre procedure
di gara, in assenza della preventiva fissazione del costo
per la sicurezza quale specifica componente del costo del
lavoro, il relativo importo dev’essere, in linea di
principio, scorporato dalle offerte dei singoli concorrenti
e sottoposto a verifica ai fini della congruità dello stesso
rispetto alle esigenze di tutela dei lavoratori.
Pertanto, la mancanza di una specifica previsione sul tema
in seno alla contestata lex specialis non escludeva
che l’applicabilità della predetta norma primaria e, dunque,
l’imposizione dell’obbligo di indicare separatamente i costi
per la sicurezza.
Al contempo, ha considerato che, nonostante la mancanza di
una comminatoria espressa nella disciplina speciale di gara,
l'inosservanza della suddetta prescrizione primaria da parte
della ricorrente aveva comportato la sanzione
dell'esclusione a causa della presentazione di un'offerta
incompleta, rispetto alla quale la stazione appaltante non
aveva potuto esercitare un adeguato controllo
sull'affidabilità della stessa (ex multis, Cons.
Stato, Sez. V, 23.07.2010, n. 4849; TAR Lombardia, Brescia,
Sez. II, 20.04.2011, n. 583).
Una diversa opzione interpretativa -attraverso un’eventuale
integrazione del dato mancante nell'ambito della procedura
in contraddittorio ex art. 88, D.Lgs. n. 163/2006- avrebbe
determinato, a opinione del Collegio capitolino, una sorta
di interpretatio abrogans della disciplina normativa
che, invero, riserva una specifica attenzione ai costi di
sicurezza in ragione della particolare delicatezza dei
valori in gioco.
Alla stregua di quanto evidenziato, il Tribunale
amministrativo di Roma ha ritenuto legittimo l’impugnato
provvedimento di esclusione dalla gara, ancorché l’obbligo
di indicazione dei costi di sicurezza non era presidiato da
un’omologa disposizione di lex specialis (cfr., TAR
Veneto, Sez. I, 22.11.2011, n. 1720) (commento tratto da
www.iposa.it - TAR Lazio-Roma, Sez. I,
sentenza 17.10.2012 n. 8522 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: L’interesse
pubblico all’annullamento del provvedimento autorizzatorio
va rinvenuto nell’esigenza di salvaguardia dell’assetto
territoriale così come disciplinato dalle norme edilizie e
di piano, mentre non si configura alcuna posizione di
legittimo affidamento in capo alla ricorrente, anche in
considerazione del breve arco temporale intercorso tra la
data del rilascio del permesso di costruire successivamente
annullato (05.07.2000) e l’attivazione delle garanzie
partecipative di cui al procedimento di autotutela
(comunicazione di avvio del procedimento contenuta
nell’ordinanza n. 44 del 21.11.2000), circostanza che impone
di qualificare tale periodo come "termine ragionevole" per
un valido esercizio della potestà di annullamento ai sensi
dell’art. 21-nonies della legge 07.08.1990 n. 241.
Nella comparazione dell’interesse pubblico con l’interesse
privato sacrificato, infatti, quest’ultimo è più debole ove
l’atto di autotutela non incida su posizioni soggettive
consolidatesi nel tempo.
Ed invero, nel caso in esame, l’interesse
pubblico all’annullamento del provvedimento autorizzatorio
va rinvenuto nell’esigenza di salvaguardia dell’assetto
territoriale così come disciplinato dalle norme edilizie e
di piano, mentre non si configura alcuna posizione di
legittimo affidamento in capo alla ricorrente, anche in
considerazione del breve arco temporale intercorso tra la
data del rilascio del permesso di costruire successivamente
annullato (05.07.2000) e l’attivazione delle garanzie
partecipative di cui al procedimento di autotutela
(comunicazione di avvio del procedimento contenuta
nell’ordinanza n. 44 del 21.11.2000), circostanza che
impone di qualificare tale periodo come "termine
ragionevole" per un valido esercizio della potestà di
annullamento ai sensi dell’art. 21-nonies della legge 07.08.1990 n. 241 (TAR Puglia Lecce, sez. II, 23.06.2012, n. 1136; TAR Campania Napoli, sez. II, 26.10.2011, n. 4923).
Nella comparazione dell’interesse pubblico con l’interesse
privato sacrificato, infatti, quest’ultimo è più debole ove
l’atto di autotutela non incida su posizioni soggettive
consolidatesi nel tempo (TAR
Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza
16.10.2012 n. 1676 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L’informativa
antimafia tipica cd. interdittiva non deve necessariamente
collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere
definitivo e certi sull’esistenza della contiguità
dell’impresa con organizzazione malavitose e quindi del
condizionamento in atto dell’attività di impresa, ma può
essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui
emergano sufficienti elementi del pericolo che possa
verificarsi il tentativo di ingerenza nell’attività
imprenditoriale della criminalità organizzata.
Anche se occorre che siano individuati (ed indicati) idonei
e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e
rivelatori di concrete connessioni o possibili collegamenti
con le organizzazioni malavitose che sconsigliano
l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con la pubblica
amministrazione, non è necessario un grado di dimostrazione
probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare
l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo
camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi su
fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e
con l’ausilio di indagini che possono risalire anche ad
eventi verificatisi a distanza di tempo.
---------------
La misura interdittiva prefettizia per tentativo di
infiltrazione mafiosa non è sufficientemente motivata sulla
mera scorta della frequentazione di soggetti malavitosi od
anche del rapporto di parentela con gli stessi, in mancanza
di una loro specifica significatività e pregnanza circa la
finalizzazione al condizionamento mafioso dell’attività
imprenditoriale, essendo necessari ulteriori elementi
indiziari, quali il carattere plurimo e stabile delle
frequentazioni e la loro connessione con vicende
dell’impresa, che depongano nel senso di un’attività
sintomaticamente connessa a logiche ed interessi malavitosi.
Premesso che:
- l’informativa antimafia tipica cd. interdittiva non deve
necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di
carattere definitivo e certi sull’esistenza della contiguità
dell’impresa con organizzazione malavitose e quindi del
condizionamento in atto dell’attività di impresa, ma può
essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui
emergano sufficienti elementi del pericolo che possa
verificarsi il tentativo di ingerenza nell’attività
imprenditoriale della criminalità organizzata;
- anche se occorre che siano individuati (ed indicati)
idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente
sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili
collegamenti con le organizzazioni malavitose che
sconsigliano l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con
la pubblica amministrazione, non è necessario un grado di
dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per
dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di
tipo camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi
su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario
e con l’ausilio di indagini che possono risalire anche ad
eventi verificatisi a distanza di tempo (cfr. Cons. Stato,
Sez. III, 19.01.2012 n. 254).
Ritenuto tuttavia che, secondo la giurisprudenza costante,
la misura interdittiva prefettizia per tentativo di
infiltrazione mafiosa non è sufficientemente motivata sulla
mera scorta della frequentazione di soggetti malavitosi od
anche del rapporto di parentela con gli stessi, in mancanza
di una loro specifica significatività e pregnanza circa la
finalizzazione al condizionamento mafioso dell’attività
imprenditoriale, essendo necessari ulteriori elementi
indiziari, quali il carattere plurimo e stabile delle
frequentazioni e la loro connessione con vicende
dell’impresa, che depongano nel senso di un’attività
sintomaticamente connessa a logiche ed interessi malavitosi
(cfr. Cons. Stato, Sez. III, 23.02.2012 n. 1068; Sez. VI,
28.04.2010 n. 2441 e 19.10.2009 n. 6380; TAR Emilia-Romagna,
Parma, 26.07.2011 n. 271)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza
10.10.2012 n. 1820 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Sentenza
della Cassazione. L'unico obbligo è riferire all'assemblea,
ma non serve l'autorizzazione. Amministratore sempre in
causa. Il condomino può citare in giudizio senza alcuna
limitazione.
L'amministratore di condominio può essere convenuto in
giudizio senza alcuna limitazione e senza bisogno
dell'autorizzazione dell'assemblea per qualunque azione
relativa alle parti comuni promosse contro il condominio da
terzi o anche dal singolo condomino: in tal caso
l'amministratore ha il solo obbligo di riferire
all'assemblea, con la conseguenza che la sua presenza in
giudizio esclude la necessità di citare in giudizio tutti i
condomini.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nella recente
sentenza 04.10.2012 n. 16901.
La vicenda che ha portato a tale decisione prendeva l'avvio
allorché un condomino si rivolgeva al giudice di pace
richiedendo che fosse accertata la titolarità del vano
soffitta (che sosteneva di aver usucapito) e la quota di
millesimi di proprietà che era certo fosse inferiore
rispetto a quella utilizzata dall'amministratore per la
ripartizione delle spese. In ogni caso il condomino
pretendeva che il condominio fosse condannato alla
restituzione delle maggiori somme pagate a partire
dall'approvazione del regolamento condominiale e della
relativa tabella millesimale. Si costituiva in giudizio il
condominio che rilevava, tra l'altro, come l'amministratore
non potesse stare in giudizio per questo tipo di vertenza e
fosse necessario chiamare in causa tutti i condomini,
nessuno escluso. Il giudice di pace dava ragione al
condominio, ritenendo la domanda dell'attore come richiesta
di modificazione della tabella millesimale.
Successivamente il Tribunale confermava la sentenza di primo
grado cambiando, tuttavia, motivazione. Quest'ultimo,
infatti, aveva ritenuto che il condomino non avesse
domandato la modifica delle tabelle millesimali, ma avesse
solo denunciato l'errore in cui era incorso
l'amministratore, attribuendo al medesimo una quota di
millesimi di proprietà maggiore rispetto a quella che gli
sarebbe spettata in base alla tabella millesimale allegata
al regolamento. Ma, sempre secondo il tribunale, il
condomino aveva anche domandato un accertamento di proprietà
(del sottotetto) che non andava chiesto nei confronti del
condominio ma di tutti i condomini, e sotto questo profilo,
aveva dichiarato la mancata legittimazione passiva
dell'amministratore. In ogni caso, lo stesso tribunale aveva
aggiunto come il condominio, nel chiederne l'accertamento
della titolarità, non avesse allegato alcun titolo di
proprietà esclusiva sul vano soffitto indicato nell'atto di
citazione.
Queste considerazioni non sono state condivise dalla
Cassazione, perché il giudice di appello avrebbe dovuto
accertare, comunque, anche in via incidentale se il
condomino fosse proprietario del vano soffitta e, in
mancanza di altro titolo di acquisto, se lo stesso lo avesse
acquistato per usucapione. D'altra parte, secondo i giudici
supremi, il condomino non aveva richiesto il mero
accertamento dell'errore materiale delle tabelle, ma anche
l'accertamento del fatto che egli fosse titolare di una
quota (minore) di millesimi di proprietà relativi al
sottotetto, e dunque, un accertamento di proprietà. Tale
accertamento, come precisato dalla Cassazione, poteva
certamente essere richiesto citando il giudizio solo
l'amministratore del condominio che, senza limiti, può
resistere anche in ordine alle azioni di natura reale
relative alle parti comuni dell'edificio promosse contro il
condominio da terzi o anche dal singolo condomino. In tal
caso l'amministratore ha il solo obbligo di riferire
all'assemblea, con la conseguenza che la sua presenza in
causa esclude la necessità di chiamare in causa tutti i
condomini.
In ogni caso, merita di essere rilevato che, secondo
l'attuale orientamento dei giudici di legittimità, se anche
il condomino avesse richiesto la revisione delle tabelle per
errore (errata misurazione della superficie o della cubatura
di un'unità immobiliare, operazioni matematiche di calcolo
errate, confusione della stima di un'unità con quella di
un'altra ecc.), non sarebbe stato necessario chiamare in
giudizio tutti i condomini, in quanto tale richiesta può
essere rivolta al condominio in persona dell'amministratore.
La revisione (e l'approvazione) delle tabelle, infatti,
viene ritenuta come una semplice operazione tecnica e non
un'attività di natura contrattuale che richieda il consenso
di tutti i condomini
(articolo ItaliaOggi Sette del 05.11.2012). |
EDILIZIA PRIVATA: La
costruzione di una tettoia deve rispettare le distanze
legali?
La realizzazione di una struttura metallica con tettoia sul
muro di confine, anche se priva di pareti di chiusura, è da
considerarsi a tutti gli effetti una costruzione ai fini
della distanza dal confine.
Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, Sez. IV,
con
sentenza 02.10.2012 n. 16776 nel rispetto delle distanze
tra edifici, ai sensi dell’art. 873 del Codice Civile, che
impone la misura di almeno 3 metri come distanza legale.
Il caso riguarda la realizzazione di una tettoia da parte di
un circolo di tennis e il proprietario del terreno
confinante il quale, presentato ricorso in Cassazione,
chiede la rimozione della stessa e il risarcimento per i
danni provocati dalla costruzione sul proprio muro
confinante.
La risposta della Cassazione è positiva: la tettoia in
questione è da considerarsi una costruzione avendo i
caratteri della stabilità, consistenza ed immobilizzazione
al suolo e, in quanto tale, deve rispettare le norme del
codice sulle distanze minime.
Gli ermellini, dopo il rigetto di primo e secondo grado,
accolgono il ricorso del proprietario del fondo: sia per il
risarcimento del danno che per la rimozione della tettoia
(link a www.acca.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI SERVIZI: Deve
ritenersi legittimo il ricorso all’istituto della ordinanza
contingibile ed urgente per la proroga del contratto in
essere in quanto, malgrado il Comune non si sia
tempestivamente attivato per la indizione della gara per
l’affidamento del servizio in questione, la situazione di
pericolo per la salute pubblica e l’ambiente connesse alla
gestione dei rifiuti, non fronteggiabile adeguatamente con
le ordinarie misure, legittimava comunque il Sindaco
all’esercizio dei poteri extra ordinem riconosciutigli
dall’ordinamento giuridico (art. 50 del d.lgs. 18.08.2000 n.
267).
Del resto, secondo un orientamento giurisprudenziale
pienamente condiviso dal collegio, le ordinanze sindacali
contingibili ed urgenti prescindono dall'imputabilità
all'Amministrazione o a terzi ovvero a fatti naturali, delle
cause che hanno generato la situazione di pericolo:
pertanto, di fronte all'urgenza di provvedere, non rileva
affatto chi o cosa abbia determinato la situazione di
pericolo che il provvedimento è rivolto a rimuovere.
---------------
L’ordinanza contingibile ed urgente impugnata deve ritenersi
illegittima nella parte in cui il Sindaco ha ordinato
all’A.T.I. ricorrente la prosecuzione del servizio di
gestione dei rifiuti, mantenendo invariato il corrispettivo
economico fissato col precedente contratto (risalente al
04.12.2003).
Il principio generale secondo il quale in materia di
provvedimenti contingibili ed urgenti deve essere arrecato
al privato destinatario dell'ordinanza il minor sacrificio
possibile comporta l’obbligo di non imporre, attraverso il
ricorso ai poteri extra ordinem, corrispettivi ancorati a
valori risalenti nel tempo e non preceduti dalla previa
verifica della loro idoneità a remunerare con carattere di
effettività il servizio reso.
Invero, il provvedimento contingibile ed urgente non può
giustificare anche una sorta di prezzo imposto
dall'Amministrazione al privato, dovendo all’obbligo di
proseguire nell'espletamento del servizio essere connessa la
corresponsione di un giusto compenso per il destinatario del
provvedimento. L’imposizione di una prestazione ad un prezzo
non più corrispondente ai prezzi di mercato determinerebbe,
infatti, un ingiustificato sacrificio dell'iniziativa
economica privata a beneficio della p.a., con violazione dei
principi desumibili dall'art. 41 Cost..
La società SI.ECO s.p.a., in proprio e quale mandante
dell’A.T.I. con Ecologica s.p.a. (mandataria) sottoscriveva
con il Comune di Ginosa, in data 04.12.2003 (Rep. n.
9/2003), un contratto d’appalto per la gestione dei rifiuti
urbani nel territorio comunale per la durata di n. 7 (sette)
anni.
Durante la vigenza del contratto la società Avvenire s.r.l.
subentrava, a seguito della cessione di ramo d’azienda, alla
società Ecologica s.p.a.
La scadenza naturale del contratto del contratto (fissata
per il 03.12.2010) è stata inizialmente prorogata di quattro
mesi (con deliberazione di G.C. n. 379 del 02.011.2011 e
determinazione n. 739 del 12.11.2001) e successivamente di
ulteriori due mesi (con deliberazione di G.C. n. 77 del
31.03.2011 e determinazione n. 278 dell’08.04.2011), in base
all’art. 33 del capitolato speciale d’appalto, a norma del
quale l’impresa appaltatrice era tenuta ad assicurare il
servizio per un arco di tempo non superiore a sei mesi alle
stesse condizioni contrattuali del contratto scaduto (la
proroga è stata giustificata dall’Ente con la necessità di
indire una nuova gara per l’affidamento del servizio).
Successivamente, con ordinanza n. 80 del 07.06.2011, il
Sindaco di Ginosa, dopo aver rappresentato che la gara
indetta per l’aggiudicazione dell’appalto era andata deserta
(per mancanza di offerte valide), al fine di assicurare la
prosecuzione del servizio e di garantire la tutela della
salute dei cittadini e dell’ambiente, ha disposto
l’ulteriore prosecuzione del rapporto contrattuale “agli
stessi patti e condizioni del Contratto Rep. n. 9 del
05.12.2003 fino al 30.09.2011 ed in ogni caso fino al
subentro del nuovo gestore”.
Avverso la predetta ordinanza sono insorte le società
ricorrenti (Avvenire s.r.l.; SI.ECO s.p.a.), contestandone
la legittimità e chiedendone il conseguente annullamento.
...
Deve infatti ritenersi non illegittimo il ricorso
all’istituto della ordinanza contingibile ed urgente per la
proroga del contratto in essere in quanto, malgrado il
Comune non si sia tempestivamente attivato per la indizione
della gara per l’affidamento del servizio in questione, la
situazione di pericolo per la salute pubblica e l’ambiente
connesse alla gestione dei rifiuti, non fronteggiabile
adeguatamente con le ordinarie misure, legittimava comunque
il Sindaco all’esercizio dei poteri extra ordinem
riconosciutigli dall’ordinamento giuridico (art. 50 del
d.lgs. 18.08.2000 n. 267).
Del resto, secondo un orientamento giurisprudenziale
pienamente condiviso dal collegio, le ordinanze sindacali
contingibili ed urgenti prescindono dall'imputabilità
all'Amministrazione o a terzi ovvero a fatti naturali, delle
cause che hanno generato la situazione di pericolo:
pertanto, di fronte all'urgenza di provvedere, non rileva
affatto chi o cosa abbia determinato la situazione di
pericolo che il provvedimento è rivolto a rimuovere
(Consiglio di Stato, Sez. V, del 09.11.1998 n. 1585; Tar
Campania Napoli, Sez. I, 27.03.2000 n. 813).
L’ordinanza impugnata deve ritenersi, invece, illegittima
nella parte in cui il Sindaco ha ordinato all’A.T.I.
ricorrente la prosecuzione del servizio di gestione dei
rifiuti, mantenendo invariato il corrispettivo economico
fissato col precedente contratto (risalente al 04.12.2003).
Il principio generale secondo il quale in materia di
provvedimenti contingibili ed urgenti deve essere arrecato
al privato destinatario dell'ordinanza il minor sacrificio
possibile comporta l’obbligo di non imporre, attraverso il
ricorso ai poteri extra ordinem, corrispettivi
ancorati a valori risalenti nel tempo e non preceduti dalla
previa verifica della loro idoneità a remunerare con
carattere di effettività il servizio reso.
Secondo un condivisibile e consolidato orientamento
giurisprudenziale, il provvedimento contingibile ed urgente
non può giustificare anche una sorta di prezzo imposto
dall'Amministrazione al privato, dovendo all’obbligo di
proseguire nell'espletamento del servizio essere connessa la
corresponsione di un giusto compenso per il destinatario del
provvedimento. L’imposizione di una prestazione ad un prezzo
non più corrispondente ai prezzi di mercato determinerebbe,
infatti, un ingiustificato sacrificio dell'iniziativa
economica privata a beneficio della p.a., con violazione dei
principi desumibili dall'art. 41 Cost. (Consiglio di Stato,
Sez. V, 02.12.2002 n. 6624) (TAR
Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 16.04.2012 n. 691 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 02.11.2012 |
ã |
IN EVIDENZA |
Licenziato il geometra comunale: primo licenziamento
senza motivo nel pubblico impiego !! |
PUBBLICO IMPIEGO:
Geometra di 53 anni in mobilità per due anni,
poi più niente. Sindaco bersaniano licenzia un
dipendente pubblico in esubero.
C'è un sindaco che licenzia i lavoratori
pubblici in esubero. È quello di Carnago nel
Varesotto. Un geometra di 53 anni, in municipio da
11, è stato messo in mobilità (due anni all'80%
dello stipendio) perché di troppo secondo una
ricognizione della pianta organica.
È la prima volta che accade in Italia, ha assicurato
la cronaca milanese del Corsera. Una rottamazione
bella e buona, direbbe qualcuno. Anche perché in
questo comune del Varesotto anziché sventolare il
labaro leghista, ondeggia proprio la bandiera
democrat. E dunque il sindaco dal taglio facile è
l'ennesimo renziano? No, anzi è un bersaniano tutto
d'un pezzo, uno di quegli amministratori lombardi
che, pronti-via, hanno firmato il loro sostegno a
Pier Luigi Bersani. E forse non ci pensava Maurizio
Andreoli Andreoni, 58 anni, medico di base
specializzato in ematologia, con passione per la
politica, prima assessore al bilancio e dal 2009
sindaco, sconfiggendo con 1400 voti i lumbard, che
questo singolare primato, del licenziamento di un
pubblico dipendente cadesse proprio nel mezzo di
primarie di coalizione piuttosto vivaci proprio per
colpa (o per merito) degli esponenti del suo
partito.
Ormai però è andata: Enrico Cirrincione, ha ricevuto
la lettera con allegata delibera comunale che gli
indica la porta d'uscita del palazzo municipale. Il
sindaco ha allargato le braccia, ha «parlato di
un esercito senza generali», e portando a
esempio proprio il settore del licenziato, ha
protestato che il suo comune «ha quattro geometri
e solo due stradini», ha ricordato l'uscita
dolce con due annualita pagate per oltre i tre
quarti, ha negato insomma qualsiasi fatto personale
col mobilitando Cirrincione. Il quale invece, al
medesimo giornale, ricordando di non aver mai avuto
un richiamo né un provvedimento disciplinare e di
sentirsi mobbizzato. E rammentando, anche di uno
screzio che c'era stato fra lui e il sindaco quando,
anni prima, il medico faceva l'assessore.
La vicenda, par di capire, oltre a fare scuola per
le nuove norme che regolano la Pubblica
amministrazione si trasferirà presto davanti al
magistrato del lavoro, anche perché la Cisl, ma
soprattutto la Cgil, sono scatenatissime e parlano
del mancato rispetto delle procedure e si sono
precipitate ieri a incontrare l'amministrazione e
minacciano lo sciopero. E qualche ricaduta politica
potrebbe non mancare se si considera che il
vicesindaco della giunta «rottamatrice» è il
segretario provinciale del Pd di Varese, Fabrizio
Taricco, che, come la stragrande maggioranza dei
segretari provinciali piddini d'Italia, sta con
Bersani. Quando anzi, il segretario nazionale decise
di far partire proprio dal capoluogo le primarie, il
vicesindaco lo visse come un successo personale.
Il sito Varese Report riporta ancora una
dichiarazione soddisfatta: «Il fatto che Bersani
inizi da qui la presentazione della Carta d'intenti
rappresenta per noi anche il riconoscimento di
cinque anni di grande e appassionato lavoro per la
costruzione del Partito democratico sul territorio»,
aveva detto Taricco. Il guaio è che proprio a
Varese, Renzi aveva trovato un convinto supporter
nell'ex candidato sindaco Alessandro Alfieri,
consigliere regionale, che aveva abbandonato la
corrente di Enrico Letta per mettersi dalla sua,
organizzandogli, in una domenica di ottobre, un mega
raduno in un teatro cittadino.
Il licenziamento di Carnago, seppure edulcorato
dalla mobilità, entrerà nel dibattito delle
primarie, in cui spesso s'è cercato di accreditare
Renzi del più forsennato liberismo, ricordando
spesso le sue polemiche con la Cgil? Se lo chiedono
anche al già citato ristorante, fra i commenti del
ricco «menu di Halloween»: gnocchi di zucca
con taleggio e noci, cosciotto di maiale con patate
e frittelle, ancora di zucca. A 22 euro (articolo
ItaliaOggi dell'01.11.2012). |
Altri articoli sull'argomento ... |
La prima volta dell'amministrazione pubblica. A
Carnago un funzionario licenziato per esubero.
Il posto pubblico non è più sicuro. Il comune di
Carnago in provincia di Varese ha licenziato per
esubero un funzionario. È la prima volta che
un'amministrazione pubblica adotta un provvedimento
di questo genere ... (link a
http://www.ilsole24ore.com). |
Geometra licenziato per esubero dal Comune. I
sindacati: "Non rispettate le norme"
- L'amministrazione di Carnago (VA) ha messo in
mobilità il responsabile dell'ufficio tecnico. Per i
sindacati "il primo caso di licenziamento per
esubero senza motivazioni nel pubblico impiego''
... (link a http://www.ilgiorno.it). |
Enzo, il primo licenziato del pubblico: “Geometra,
non servi più” - In 34 anni di onesto lavoro
il geometra Enzo Cirrincione a tutto pensava fuorché
stabilire un record e diventare famoso suo malgrado:
è infatti il primo dipendente pubblico in Italia a
essere licenziato perché in esubero. Come un
metalmeccanico, come un dipendente di una azienda
privata ... (link a http://nuvola.corriere.it). |
Carnago, via il geometra del Comune. “Primo
licenziato senza motivo nella Pa” - L'ex
responsabile dell'ufficio tecnico
dell'amministrazione collocato in "disponibilità
con l'80 per cento dello stipendio per due anni".
I sindacati: "Eppure c'è un organico carente".
Il sindaco (di centrosinistra): "Abbiamo risposto
a un obbligo di legge" ... (link a
http://www.ilfattoquotidiano.it). |
Geometra comunale "licenziato" dalla Giunta
- A Carnago, in provincia di Varese, è caduto il
dogma del posto pubblico fisso per la vita. Un
dipendente comunale è stato "licenziato"
dalla giunta sulla scorta della legge di stabilità
(la 183 del 2011) ... (link a
http://www.laprovinciadicomo.it). |
Il geometra del Comune: "Licenziato senza
motivazioni" - Vincenzo Cirrincione contesta
la decisione dell'amministrazione comunale che l'ha
messo in mobilità. Davanti al municipio, alcuni
colleghi preoccupati e un "contestatore"
venuto ad applaudire al licenziamento ... (link a
http://www3.varesenews.it). |
Non conosciamo i dettagli del caso di specie e non
azzardiamo alcun commento. Tuttavia, non possiamo
esimerci dall'esprimere la nostra solidarietà al
Collega Enzo Cirrincione con i migliori auguri che
la vicenda possa ricomporsi favorevolmente. E nel
contempo, non possiamo esimerci altresì
dall'esternare l'incredulità che un comune del
varesotto, così come tutti i comuni del nord, possa
vantare personale in esubero (quando il Governo, ad
oggi e per quanto ci consta, non ha ancora emanato
il criterio numerico di rapporto
dipendenti/popolazione per stabilire l'eventuale
esubero o meno !!) e quando tutto il nord sconta
ancora oggi l'errore di politiche decennali di
assunzioni ridotte all'osso poiché quel poco personale in
servizio (sino a 20 anni fa circa) era abituato a
sbrigare ogni tipo di mansione e rendeva (volente o
nolente) per tre ...
Certo, questo è un precedente pericolosissimo se (ed
usiamo il se) il legislatore ha normato la
possibilità di consentire agli amministratori locali
di licenziare personale in esubero e tale lo è dopo
aver esternalizzato (legittimamente o meno lo dirà
-presto o tardi- il Procuratore regionale della
Corte dei Conti ...) servizi sempre svolti
all'interno del palazzo comunale (con la scusa
dell'efficienza, efficacia ed economicità
dell'azione amministrativa) sicché, guarda caso,
quel dipendente che rompe le
balle di continuo (perché compie il proprio dovere
!!)
adesso è di troppo ...
02.11.2012 - LA SEGRETERIA PTPL |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
ENTI LOCALI:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 44 del 31.10.2012, "Norme
per l’elezione del Consiglio regionale e del Presidente
della Regione" (L.R.
31.10.2012 n. 17). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 30.10.2012, "Riordino
dei reticoli idrici di Regione Lombardia e revisione dei
canoni di polizia idraulica" (deliberazione
G.R. 25.10.2012 n. 4287).
---------------
Riordino dei reticoli idrici e revisione dei canoni di
polizia idraulica.
Il 25.10.2012 la Giunta Regionale ha approvato la dgr n.
4287 che sostituisce integralmente la precedente dgr n. 2762
del 22.12.2011.
Tale ripubblicazione era prevista dal punto 8 della dgr
2762/2011.
Le modifiche all’odierna delibera riguardano quasi tutti gli
allegati che la compongono, in particolare:
Allegato A - Elenco corsi d’acqua
appartenenti al reticolo principale e Allegato D – Elenco
corsi d’acqua gestiti dai consorzi di bonifica.
I nuovi allegati sono stati modificati per adeguarli agli
ambiti amministrativi ed ai nuovi “rapporti” con i consorzi
di bonifica dopo le osservazioni pervenute a seguito della
pubblicazione degli elenchi dell’allegato D negli albi
pretori dei comuni.
Allegato B - Criteri per l’esercizio
dell’attività di polizia idraulica di competenza comunale.
Il nuovo allegato B è stato modificato nelle modalità di
presentazione dei reticoli minori in capo ai comuni, sui
contenuti dell'elaborato ed è stata eliminata la tabella con
le indicazioni per gli shape file da inoltrare a regione
Lombardia rimandando i dettagli ad un area dedicata sul sito
web della DG Territorio e Urbanistica.
Allegato C – Canoni regionali di polizia
idraulica.
Nell’allegato C vengono ridotte ulteriormente le tipologie
di canone e vengono apportate alcune modifiche, in
dettaglio:
1. Accorpamento delle tipologie di canone A e P
attraversamenti e parallelismi calcolandoli tutti a misura
riducendo le voci a solo due sottocategorie;
2. Inserito un canone a costo fisso per gli scaricatori di
piena pari a 450,00 € per bocca di scarico;
3. Inserito di un costo fisso di 75,00 €. per i guadi;
4. Inserita una proporzionalità per lo occupazioni di aree
demaniali, in modo tale che all’aumentare delle superfici
diminuisce il costo unitario a mq;
5. Viene applicato il canone al 10 % alle società del
Sistema Regionale;
6. Viene introdotto il nuovo valore del canone minimo pari a
75,00 €. per tutte le tipologie sia pubbliche che private e
pari a 15,00 €. in caso di suddivisione per multi
titolarità;
Vengono infine inserite alcune note di dettaglio sulle
modalità di applicazione dei canoni.
Allegato E – Linee guida di Polizia
Idraulica.
Le linee guida sono state rivedute ed aggiornate modificando
il tempo di conclusione del procedimento amministrativo a 90
gg ai sensi della nuova legge regionale 1/2012 in materia di
procedimento amministrativo.
Allegato F – Modelli documenti
(disciplinari, decreti e convenzioni).
Nei modelli vengono eliminati i riferimenti per i pagamenti
visto che gli enti pubblici devono utilizzare il pagamento
tramite tesoreria unica presso la Banca d’Italia, viene
inserito nel modello di decreto una dicitura relativa
all'adeguamento automatico dei canoni in seguito
all'approvazione di un nuovo provvedimento ai sensi della
legge regionale 10/2009 (link a
http://www.territorio.regione.lombardia.it). |
ENTI LOCALI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 30.10.2012, "Adozione
delle linee guida per la determinazione delle quote di
partecipazione degli enti locali nelle agenzie del trasporto
pubblico locale, ai sensi dell’art. 7, comma 10, della l.r.
n. 6/2012" (deliberazione
G.R. 25.10.2012 n. 4261). |
UTILITA' |
ENTI LOCALI:
SCHEMA DI ATTO CONVENZIONALE PER LA GESTIONE ASSOCIATA DELLE
FUNZIONI COMUNALI (ANCI, ottobre 2012). |
SINDACATI |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Trattenuta del 2,5%: dopo la sentenza della Corte
Costituzionale il Governo decide di tornare al vecchio
regime (CGIL-FP
di Bergamo,
nota 31.10.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
TRATTENUTA DEL 2,50% SULL’INDENNITA’ DI
BUONUSCITA (C.S.A.
di Milano,
nota 30.10.2012). |
PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI:
Con l'IMU spariscono gli incentivi per il
personale addetto all'ufficio tributi
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 29.10.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
In merito all'impossibilità di pagare le ferie
arretrate (CGIL-FP
di Bergamo,
nota 20.10.2012). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
A. Bianco,
Uffici tecnici: gli incentivi per dipendenti e dirigenti
(Guida al Pubblico Impiego n. 10/2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
S. Allegretti,
L’Inps fa il punto sul congedo per assistenza ai disabili
(Guida al Pubblico Impiego n. 4/2012). |
CORTE DEI
CONTI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Rimborsi spese di missione dipendenti in convenzione.
La Corte dei Conti, sezione regionale Puglia, con il
parere 07.03.2012 n. 31, conferma la
propria precedente n. 5/PAR/2012, e relativamente a quanto
in oggetto, ritiene:
"... il personale utilizzato in convenzione ai sensi
dell'art. 14 del CCNL 22.01.2004, in analogia con
quanto affermato dalle SSRR con riferimento alla fattispecie
del segretario comunale titolare di sede di segreteria
convenzionata, effettua spostamenti tra il Comune
convenzionato e quello di cui è dipendente, che possono
configurarsi quali 'spostamenti tra le varie sedi
istituzionali' secondo quanto prevedono le Sezioni riunite
nella deliberazione 9/CONTR/2011 citata.
Di conseguenza, in
quanto estranee al campo di applicazione dell'art. 6, comma
12, del D.L. 78/2010, trovano applicazione le norme di CCNL
che prevedono il rimborso delle spese di viaggio nei limiti
previsti dall'art. 41, commi 2 e 4, del CCNL del 14.09.2000, richiamato dall'art. 14 del CCNL del 22.01.2004.
Tuttavia il Collegio ritiene doveroso
precisare che, al fine di assicurare la compatibilità del
sistema con i principi di risparmio di spesa fissati dalla
manovra del DL 78/2010 è necessario prevedere misure volte a
circoscrivere gli spostamenti del personale tra il comune di
provenienza e la sede dell'Ufficio associato attraverso una
rigorosa pianificazione delle attività ed una programmazione
delle presenze che riduca al minimo indispensabile gli oneri
di rimborso per gli enti" (tratto da www.publika.it). |
NEWS |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI: Dal
2013 pagamenti entro 30 giorni.
Per la pubblica amministrazione saranno possibili deroghe
fino a 60 giorni.
IL SÌ DEL GOVERNO/
Il via libera dopo una lunga discussione in Consiglio sul
Ponte sullo stretto. La stretta sui tempi riguarda anche i
rapporti tra imprese.
Dal 01.01.2013, la pubblica amministrazione dovrà
pagare i propri fornitori entro 30 giorni. Al più si potrà
arrivare a 60 sono in casi ben individuati. Lo stesso limite
riguarderà anche le transazioni azienda-azienda, ma in
questo caso il tetto potrà essere superato nel caso ci siano
accordi tra le parti. Intese che comunque non dovranno
essere inique per il creditore.
Il Governo ieri ha approvato
il
decreto legislativo che attua la direttiva del Parlamento
europeo e del Consiglio del 16.02.2011 (2011/7/UE)
«relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento delle
transazioni commerciali».
Il Dlgs, arrivato già martedì sul tavolo di Palazzo Chigi, è
poi slittato a ieri, con il via libera arrivato a tarda sera
(già domani sarà al Quirinale per la firma) dopo una lunga
discussione dovuta al nodo Ponte sullo stretto (per il quale
è stata prorogata di due anni la verifica di fattibilità).
Il testo è stato elaborato in tre riunioni tecniche, con il
coinvolgimento di quattro ministeri: Economia, Giustizia,
Sviluppo economico e il coordinamento del ministero per gli
Affari europei. I tre articoli del decreto riscrivono in
maniera più restrittiva il precedente Dlgs 231 del 2002.
Il Dlgs non dovrà passare per i pareri del Parlamento: in
questo modo viene rispettata la data stabilita dalla legge
sullo statuto di impresa (la 180/2011) che oltre a prevedere
la delega ad hoc per il Governo anticipa di quattro mesi –a
metà novembre (invece che a metà marzo)– l'introduzione
della direttiva Ue 2011/7. Le nuove regole scatteranno per
le transazioni commerciali che si concluderanno dal 01.01.2013 in poi.
Un lasso di tempo, questo, –spiega la
relazione illustrativa al decreto– necessario per dare
tempo a tutti, Pubblica amministrazione in primis, di
adeguarsi anche per quanto riguarda la «modulistica
contrattuale» e le «procedure interne di pagamento».
Quella dei ritardi nei pagamenti è da sempre un'emergenza,
soprattutto in questa fase in cui le imprese sono a corto di
liquidità. In particolare, a essere penalizzate sono le
piccole aziende, costrette ad aspettare in media circa
180-190 giorni per essere pagate (anche la Grecia fa meglio:
174 giorni), con punte record al Sud dove si superano anche
i 1.500 giorni.
E le regole già in vigore –come quelle
previste ad esempio per i lavori pubblici– finora non hanno
sortito effetti. Da qui l'attesa per i nuovi paletti europei
che, come detto, fissano a 30 giorni il termine ordinario
che la Pa deve rispettare per pagare. Anche se ci saranno
delle deroghe: in particolare per asl, ospedali e imprese
pubbliche che possono portare a 60 giorni il termine
massimo. Ma anche tutte le altre Pa potranno accedere a
questa deroga nel caso "eccezionale" in cui l'eventuale
proroga sia giustificata «dalla natura o dall'oggetto del
contratto» oppure dalle «circostanze esistenti al momento
della sua conclusione». In ogni caso, il nuovo limite dovrà
essere pattuito «in modo espresso».
Per le amministrazioni pubbliche che non rispetteranno i
tempi scatterà la "sanzione" degli interessi legali
di mora. Che decorreranno automaticamente dal giorno
successivo alla scadenza del termine del pagamento senza che
sia necessaria la costituzione in mora (vale a dire la la
richiesta scritta al debitore di adempiere all'obbligo). Gli
«interessi legali di mora» si calcoleranno prevedendo una
maggiorazione di 8 punti percentuali sul tasso fissato dalla
Banca centrale europea: in sostanza si aggireranno intorno
alla soglia del 10 per cento. Per le imprese invece ci sarà
maggiore libertà contrattuale: oltre a concordare l'entità
degli interessi moratori potranno decidere, pattuendolo per
iscritto, anche di superare la soglia massima dei 60 giorni
per pagare.
Il decreto però prevede espressamente tutta una serie di
paletti per escludere automaticamente clausole vessatorie
che puntino ad aggirare i tempi massimi, il pagamento degli
interessi e l'eventuale risarcimento per i costi che sono
necessari per recuperare i crediti
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.11.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Il Ddl anticorruzione è legge Severino: ampia condivisione.
No solo dell'Idv - Prescrizione, riparte la proposta del Pd.
IL GUARDASIGILLI/
«Non è un compromesso al ribasso. Inserire anche il falso in
bilancio o il voto di scambio avrebbe bloccato il
provvedimento».
L'anticorruzione è legge. Con un voto quasi unanime, fatta
eccezione per l'Idv, la Camera ha approvato definitivamente
le norme sulla prevenzione e la repressione della
corruzione, che diventeranno operative tra 15-20 giorni.
Un
successo per il governo, che dopo la fiducia del giorno
prima, ha incassato 480 sì (19 i no e 25 gli astenuti) al
provvedimento riscritto –rispetto al testo originario del
2010 firmato da Angelino Alfano– dai ministri Filippo
Patroni Griffi e Paola Severino. Quest'ultima non nasconde
la soddisfazione per «la grande condivisione del progetto» e
definisce «non corretto parlare di compromesso al ribasso»
come aveva detto Antonio Di Pietro.
Quanto al «si poteva
fare di più» risuonato nell'aula come un mantra, il ministro
ha detto che no, non si poteva fare più di così perché le
norme su prescrizione, falso in bilancio, autoriciclaggio,
voto di scambio, se inserite nel ddl ne «avrebbero
rallentato, se non bloccato» la legge. «Sono norme su cui il
Parlamento si dibatte da anni e sulle quali ora viene
espressa una volontà politica che non posso non apprezzare –ha osservato il ministro–. Questo governo ha le risorse
tecniche per offrire il suo contributo».
Insomma, sembra che l'approvazione della legge abbia fatto
il miracolo di avvicinare posizioni da sempre inconciliabili
e che nei pochi mesi che mancano alla fine della legislatura
potrebbe essere approvata non solo una riforma del falso in
bilancio ma persino della prescrizione, sebbene su questi
temi non sia stato possibile trovare un accordo nei cinque
mesi di gestazione dell'anticorruzione.
Ieri, in commissione
Giustizia è stata ricalendarizzata per mercoledì prossimo la
proposta di legge del Pd sulla prescrizione, «accantonata –spiega Donatella Ferranti– all'epoca in cui si parlava di
prescrizione breve e processo lungo. Ci sembrava giusto
riprendere in mano la questione, anche se il testo base è da
migliorare, per affrontarla a tutto tondo. Abbiamo
constatato la ...
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.11.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Con
il decreto del Governo le Province scendono a 51.
Dal 2014 addio a 35 enti - Via le giunte già dal 2013.
CITTÀ METROPOLITANE/
Firenze apre le porte non solo a Prato ma anche a Pistoia,
conferma per Milano che acquista Monza-Brianza Venezia resta
da sola.
Il Governo affonda il bisturi nella carne delle Province un
centimetro più in basso del previsto. E si avvia a
cancellarne 35 anziché 34 come anticipato ieri su questo
giornale.
Per effetto del
decreto approvato durante la
sessione mattutina del Consiglio dei ministri, dal 2014, gli
enti di area vasta delle Regioni ordinarie passeranno da 86
a 51, incluse le 10 città metropolitane. Ma un antipasto del
taglio si avrà già dal 01.01.2013 quando decadranno
tutte le giunte locali. Sul risultato complessivo della
riorganizzazione pesano però due interrogativi: le autonomie
speciali attueranno la stretta? E il Parlamento riuscirà, in
sede di conversione, a respingere le spinte campanilistiche?
Dalla risposta a questi due quesiti dipenderà l'impatto
dell'intera operazione-Province. Sia economico, visto che
per ora non sono cifrati i risparmi; sia in termini di
equità, poiché il mancato adeguamento di alcune realtà
renderebbe ancora più veementi le proteste delle altre,
costrette dal Dl a stringere unioni forzate. E i segnali
giunti fin qui non promettono nulla di buono. A parte la
Sardegna (dove un referendum popolare ha deciso di ridurre
da 8 a 4 gli "enti di mezzo") le altre "super-autonomie" non
si sono ancora poste il problema di avviare l'iter che, in
base alla spending, dovrà concludersi entro il 7 gennaio
sulla base dei due requisiti decisi dall'Esecutivo: 350mila
abitanti e 2.500 chilometri quadrati di estensione. Senza
contare che, nel corso della conferenza stampa di
presentazione delle misure, il ministro della Pubblica
amministrazione, Filippo Patroni Griffi, si è limitato a
dire: «Ci occuperemo in seguito delle speciali». Pur
definendo «irreversibile» l'intero processo in atto.
Stesso discorso per le Camere che già a luglio hanno dovuto
respingere richieste di eccezioni di ogni tipo. Ed è
presumibile che il copione si ripeta identico nelle prossime
settimane vista la levata di scudi già partita lungo la
penisola. Con formule diverse –appelli al premier, minacce
di ricorso alla Consulta, proposte di passare alla Regione
limitrofa e, addirittura, interviste concesse sul water– ma
un unico obiettivo: ottenere l'agognata deroga. Anche perché
alcuni distinguo sono stati operati dallo stesso decreto:
Sondrio e Belluno escluse perché montane al 100% e Arezzo
"salvata" dai dati anagrafici in quanto superiori all'ultimo
censimento Istat.
Rimandando alla cartina accanto per capire come cambierà dal
2014 l'intera geografia provinciale, qui appare opportuno
sottolineare alcune novità rispetto alla bozza del giorno
precedente. In primis in Lombardia, dove Lodi va con Cremona
e Mantova, oppure in Toscana, dove nasce la maxi-Provincia
di Lucca-Massa-Pisa-Livorno e Pistoia confluisce insieme a
Prato nella città metropolitana di Firenze. E, restando alle
città metropolitane, va segnalata un'altra novità rispetto
ai desiderata dei territori: Padova non confluirà in Venezia
ma si unirà alla Provincia di Treviso. E due conferme:
Milano che acquista Monza-Brianza e Bari che non "vince" la
Bat. Barletta-Andria-Trani finirà infatti con Foggia.
Tra gli altri cambiamenti rispetto al testo d'ingresso in
Cdm va segnalata la retromarcia innestata sulla composizione
dei futuri consigli provinciali. In attesa della sentenza
della Consulta prevista per il 6 novembre, è stata eliminata
la modifica all'articolo 23 del salva-Italia che li
trasforma in organi di secondo livello eletti dai Comuni del
circondario. Anziché salire fino a 16 per gli enti con più
di 700mila abitanti, come immaginato in un primo momento, il
numero massimo di membri eleggibili resta fermo a 10. E lo
stesso limite varrà anche per le città metropolitane.
Passando alle altre disposizioni degne di nota spicca la
conferma della previsione che vuole l'indizione delle nuove
elezioni in una domenica compresa tra il 1° e il 30.11.2013. E ciò sia che l'amministrazione resti in vita sia che
scompaia. Fermo restando che il mandato del presidente e dei
consiglieri attualmente in carica scadrà il 31 dicembre, a
meno che l'ente non venga sciolto. In quel caso arriverà il
commissario ad acta governativo. Vita più breve avranno
invece gli assessori che decadranno dalla carica all'inizio
del 2013; al loro posto il numero uno dell'ente potrà
delegare alcune funzioni a massimo tre consiglieri. Una
stretta aggiuntiva che non è piaciuta all'Upi, già critica
per le «forzature» operate su alcuni territori.
L'ultima curiosità riguarda i futuri capoluoghi. In teoria
saranno tali gli enti più popolosi. A meno che un diverso
accordo dei sindaci, preso anche a maggioranza, non porti a
una soluzione alternativa. Con conseguenze non da poco anche
sulla vita di consiglieri e dipendenti. Durante l'ultimo
miglio a Palazzo Chigi il testo si è arricchito della
precisazione che gli organi dell'ente saranno ubicati nel
capoluogo e non ci saranno sedi decentrate
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.11.2012). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI: Contratti.
Lo schema del decreto varato dal Governo.
Per i pagamenti in ritardo la mora va in automatico.
ARTICOLO 1 - Modifiche al decreto legislativo 9 ottobre
2002, n. 231
1. Al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, recante
attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta
contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali,
sono apportate le seguenti modificazioni:
a) l'articolo 1 è sostituito dal seguente: «Articolo 1. –
Ambito di applicazione. – 1. Le disposizioni contenute nel
presente decreto si applicano a ogni pagamento effettuato a
titolo di corrispettivo in una transazione commerciale.
2. Le disposizioni del presente decreto non trovano
applicazione per:
a) debiti oggetto di procedure concorsuali aperte a carico
del debitore, comprese le procedure finalizzate alla
ristrutturazione del debito;
b) pagamenti effettuati a titolo di risarcimento del danno,
compresi i pagamenti effettuati a tale titolo da un
assicuratore.»;
b) l'articolo 2 è sostituito dal seguente: «Articolo 2. –
Definizioni. – 1. Ai fini del presente decreto si intende
per:
a) "transazioni commerciali": i contratti, comunque
denominati, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche
amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o
prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi
contro il pagamento di un prezzo;
b) "pubblica amministrazione": le amministrazioni di cui
all'articolo 3, comma 25, del decreto legislativo 12 aprile
2006, n. 163 e ogni altro soggetto, allorquando svolga
attività per la quale è tenuto al rispetto della disciplina
di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163;
c) "imprenditore": ogni soggetto esercente un'attività
economica organizzata o una libera professione;
d) "interessi moratori": interessi legali di mora ovvero
interessi a un tasso concordato tra imprese;
e) "interessi legali di mora": interessi semplici di mora su
base giornaliera a un tasso che è pari al tasso di
riferimento maggiorato di otto punti percentuali;
f) "tasso di riferimento": il tasso di interesse applicato
dalla Banca centrale europea alle sue più recenti operazioni
di rifinanziamento principali;
g) "importo dovuto": la somma che avrebbe dovuto essere
pagata entro il termine contrattuale o legale di pagamento,
comprese le imposte, i dazi, le tasse o gli oneri
applicabili indicati nella fattura o nella richiesta
equivalente di pagamento.»;
c) all'articolo 3, dopo le parole: «interessi moratori» sono
inserite le seguenti: «sull'importo dovuto»;
d) l'articolo 4 è sostituito dal seguente: «Articolo 4. –
Decorrenza degli interessi moratori. – 1. Gli interessi
moratori decorrono, senza che sia necessaria la costituzione
in mora, dal giorno successivo alla scadenza del termine per
il pagamento.
2. Salvo quanto previsto dai commi 3, 4 e 5, ai fini della
decorrenza degli interessi moratori si applicano i seguenti
termini:
a) trenta giorni dalla data di ricevimento da parte del
debitore della fattura o di una richiesta di pagamento di
contenuto equivalente. Non hanno effetto sulla decorrenza
del termine le richieste di integrazione o modifica formali
della fattura o di altra richiesta equivalente di pagamento;
b) trenta giorni dalla data di ricevimento delle merci o
dalla data di prestazione dei servizi, quando non è certa la
data di ricevimento della fattura o della richiesta
equivalente di pagamento;
c) trenta giorni dalla data di ricevimento delle merci o
dalla prestazione dei servizi, quando la data in cui il
debitore riceve la fattura o la richiesta equivalente di
pagamento è anteriore a quella del ricevimento delle merci o
della prestazione dei servizi;
d) trenta giorni dalla data del l'accettazione o della
verifica eventualmente previste dalla legge o dal contratto
ai fini del l'accertamento della conformità della merce o
dei servizi alle previsioni contrattuali, qualora il
debitore riceva la fattura o la richiesta equivalente di
pagamento in epoca non successiva a tale data.
3. Nelle transazioni commerciali tra imprese le parti
possono pattuire un termine per il pagamento superiore
rispetto a quello previsto dal comma 2. Termini superiori a
sessanta giorni, purché non siano gravemente iniqui per il
creditore ai sensi dell'articolo 7, devono essere pattuiti
espressamente. La clausola relativa al termine deve essere
provata per iscritto.
4. Nelle transazioni commerciali in cui il debitore è una
pubblica amministrazione le parti possono pattuire, purché
in modo espresso, un termine per il pagamento superiore a
quello previsto dal comma 2, quando ciò sia giustificato
dalla natura o dall'oggetto del contratto o dalle
circostanze esistenti al momento della sua conclusione. In
ogni caso i termini di cui al comma 2 non possono essere
superiori a sessanta giorni. La clausola relativa al termine
deve essere provata per iscritto.
5. I termini di cui al comma 2 sono raddoppiati:
a) per le imprese pubbliche che sono tenute al rispetto dei
requisiti di trasparenza di cui al decreto legislativo 11
novembre 2003, n. 333;
b) per gli enti pubblici che forniscono assistenza sanitaria
e che siano stati debitamente riconosciuti a tal fine.
6. Quando è prevista una procedura diretta ad accertare la
conformità della merce o dei servizi al contratto essa non
può avere una durata superiore a trenta giorni dalla data
della consegna della merce o della prestazione del servizio,
salvo che sia diversamente ed espressamente concordato dalle
parti e previsto nella documentazione di gara e purché ciò
non sia gravemente iniquo per il creditore ai sensi
dell'articolo 7. L'accordo deve essere provato per iscritto.
7. Resta ferma la facoltà delle parti di concordare termini
di pagamento a rate. In tali casi, qualora una delle rate
non sia pagata alla data concordata, gli interessi e il
risarcimento previsti dal presente decreto sono calcolati
esclusivamente sulla base degli importi scaduti.»;
e) l'articolo 5 è sostituito dal seguente: «Articolo 5. –
Saggio degli interessi. – 1. Gli interessi moratori sono
determinati nella misura degli interessi legali di mora.
Nelle transazioni commerciali tra imprese è consentito alle
parti di concordare un tasso di interesse diverso, nei
limiti previsti dall'articolo 7.
2. Il tasso di riferimento è così determinato:
a) per il primo semestre del l'anno cui si riferisce il
ritardo, è quello in vigore il 1° gennaio di quell'anno;
b) per il secondo semestre del l'anno cui si riferisce il
ritardo, è quello in vigore il 1° luglio di quell'anno.
3. Il ministero dell'Economia e delle finanze dà notizia del
tasso di riferimento, curandone la pubblicazione nella
«Gazzetta Ufficiale» della Repubblica italiana nel quinto
giorno lavorativo di ciascun semestre solare.»;
f) l'articolo 6 è sostituito dal seguente: «Articolo 6. –
Risarcimento delle spese di recupero. – 1. Nei casi previsti
dall'articolo 3, il creditore ha diritto anche al rimborso
dei costi sostenuti per il recupero delle somme non
tempestivamente corrisposte.
2. Al creditore spetta, senza che sia necessaria la
costituzione in mora, un importo forfettario di 40 euro a
titolo di risarcimento del danno. È fatta salva la prova del
maggior danno, che può comprendere i costi di assistenza per
il recupero del credito.»;
g) l'articolo 7 è sostituito dal seguente: «Articolo 7. –
Nullità. – 1. Le clausole relative al termine di pagamento,
al saggio degli interessi moratori o al risarcimento per i
costi di recupero, a qualunque titolo previste o introdotte
nel contratto, sono nulle quando risultano gravemente inique
in danno del creditore. Si applicano gli articoli 1339 e
1419, secondo comma, del Codice civile.
2. Il giudice dichiara, anche d'ufficio, la nullità della
clausola avuto riguardo a tutte le circostanze del caso, tra
cui il grave scostamento dalla prassi commerciale in
contrasto con il principio di buona fede e correttezza, la
natura della merce o del servizio oggetto del contratto,
l'esistenza di motivi oggettivi per derogare al saggio degli
interessi legali di mora, ai termini di pagamento o
all'importo forfettario dovuto a titolo di risarcimento per
i costi di recupero.
3. Si considera gravemente iniqua la clausola che esclude
l'applicazione di interessi di mora. Non è ammessa prova
contraria.
4. Si presume che sia gravemente iniqua la clausola che
esclude il risarcimento per i costi di recupero di cui
all'articolo 6.
5. Nelle transazioni commerciali in cui il debitore è una
pubblica amministrazione è nulla la clausola avente a
oggetto la predeterminazione o la modifica della data di
ricevimento della fattura. La nullità è dichiarata d'ufficio
dal giudice.»;
h) all'articolo 8, comma 1, la lettera a) è sostituita dalla
seguente:
«a) di accertare la grave iniquità, ai sensi dell'articolo
7, delle condizioni generali concernenti il termine di
pagamento, il saggio degli interessi moratori o il
risarcimento per i costi di recupero e di inibirne l'uso.».
ARTICOLO 2 -
Modifiche alla legge 18 giugno 1998, n. 192
1. All'articolo 3, comma 3, della legge 18 giugno 1998, n.
192, le parole: «di sette punti percentuali» sono sostituite
dalle seguenti: «di otto punti percentuali».
ARTICOLO 3 -
Disposizioni finali
1. Le disposizioni di cui al presente decreto
legislativo si applicano alle transazioni commerciali
concluse a decorrere dal 1° gennaio 2013
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.11.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: La
camera dei deputati ha approvato definitivamente il disegno
di legge. Pacchetto anticorruzione.
Fino a tre anni per traffico di influenze illecite.
Anticorruzione, nuove norme al via. La camera ha approvato
ieri definitivamente il ddl sul quale aveva già votato il
giorno prima la fiducia al governo. Il provvedimento non è
stato modificato alla camera rispetto al voto del senato in
terza lettura e quindi diventa legge. I voti a favore sono
stati 480, 19 i contrari, 25 gli astenuti. Contrari i
deputati di Idv e Luca D'Alessandro (Pdl). Tra gli astenuti
10 deputati Pdl, un leghista, 3 di Popolo e Territorio, 4
del Gruppo Misto e i Radicali. Diviso, di fatto, in due
parti, il ddl contiene norme di prevenzione e norme sulla
repressione. Ed è su queste che il percorso in parlamento è
stato più complicato.
Tra le novità (si veda tabella in pagina) quelle che
riguardano la corruzione tra privati. Si sostituisce
l'articolo 2635 del codice civile: Salvo che il fatto
costituisca più grave reato, gli amministratori, i direttori
generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti
contabili societari, i sindaci e i liquidatori, che, a
seguito della dazione o della promessa di denaro o altra
utilità, per sé o per altri, compiono od omettono atti, in
violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli
obblighi di fedeltà, cagionando nocumento alla società, sono
puniti con la reclusione da uno a tre anni.
Per quanto riguarda invece il traffico di influenze illecite
si prevede che chi sfruttando relazioni con un pubblico
ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio,
indebitamente, fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro
o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria
mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o
l'incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo,
in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di
ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo
ufficio, è punito con la reclusione da uno a tre anni.
Molte le novità sulla p.a. Via dagli appalti coloro che sono
stati condannati con sentenza passata in giudicato per reati
contro la pubblica amministrazione o per reati gravi, come
il 416-bis. Pubbliche e online le informazioni sulle opere e
gli appalti.
Arriva il codice etico del dipendente pubblico con sanzioni
che giungono fino al licenziamento per i casi più gravi.
Vietato accettare compensi, regali o altre utilità, in
connessione con le proprie funzioni
(articolo ItaliaOggi dell'01.11.2012). |
ENTI LOCALI: Il governo cancella 35 province.
Da 86 a 51 enti nelle regioni ordinarie. Via le giunte dal
2013.
Varato il decreto legge con gli
accorpamenti. Salve in extremis Arezzo, Belluno e Sondrio.
Da 86 a 51 province.
La nuova geografia dell'Italia riparte
da qui e lascia per strada 35 enti di secondo livello nelle
regioni a statuto ordinario. Dopo il dl Salva Italia (dl
201/2011), la spending review (dl 95/2012) e mesi di
discussioni e dibattiti tra chi non voleva cambiare nulla e
chi addirittura le province le avrebbe eliminate tutte, il
consiglio dei ministri di ieri ha approvato il decreto legge
che scrive per il momento la parola fine. Almeno per quanto
riguarda il lavoro del governo che chiude la porta a
qualunque ipotesi di ripensamento futuro.
«È un processo
irreversibile», ha dichiarato il ministro della funzione
pubblica Filippo Patroni Griffi, «un restyling coerente con
i modelli Ue nel solco della spending review». Ora quindi la
palla passa al parlamento. E all'esecutivo non resta che
augurarsi che la politica non smantelli piano piano (come
sta accadendo per esempio al decreto enti locali, dl
174/2012 ndr) la trama istituzionale faticosamente costruita
da Monti&Co.
Ma vediamo la mappa delle nuove province.
Come cambia la geografia italiana.
Molte le novità dell'ultim'ora. Resteranno in vita Sondrio e
Belluno perché bisogna «preservare la specificità delle
province il cui territorio è integralmente montano». Salva
anche la provincia di Arezzo che a discapito dei dati Istat
dovrebbe aver raggiunto in extremis il tetto minimo di 350
mila abitanti necessario per sopravvivere. Prato riabbraccia
Firenze confluendo nella città metropolitana del capoluogo
assieme a Pistoia. Stessa cosa in Lombardia dove la
provincia di Monza-Brianza entrerà a far parte dell'area
metropolitana di Milano invece che unirsi con
Varese-Como-Lecco. Una scelta, quest'ultima, presa contro il
volere dei diretti interessati che ieri hanno accusato il
governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, di aver
fatto pressioni perché la Brianza tornasse sotto Milano
piuttosto che confluire nella provincia di Varese. A
dispetto delle attese, Padova non confluisce nella città
metropolitana di Venezia, ma si aggrega con Treviso, mentre
Verona guadagna anche l'attuale provincia di Rovigo.
In Piemonte, ferme restando Torino (città metropolitana) e
Cuneo, nascono tre nuove realtà composite: Alessandria-Asti,
Novara-Verbania e Vercelli-Biella. In Toscana, detto di
Firenze e di Arezzo, spuntano due maxi province:
Siena-Grosseto e Massa Carrara-Lucca-Pisa-Livorno. In
Liguria, Imperia e Savona si fondono, mentre in
Emilia-Romagna, salve Bologna (città metropolitana) e
Ferrara, vanno a braccetto Piacenza e Parma e Modena e
Reggio Emilia. Ravenna, Forlì Cesena e Rimini si mettono
insieme per costituire un'unica provincia della Romagna.
Nelle Marche Ascoli, Fermo e Macerata andranno a costituire
un solo ente. In Abruzzo dalle attuali 4 province si passerà
a due: Pescara-Chieti e L'Aquila-Teramo. Nel Lazio, Roma
diventerà città metropolitana e le altre quattro province si
dimezzeranno andando a costituire Viterbo-Rieti e
Latina-Frosinone. In Campania, oltre a Napoli (città
metropolitana) si salvano Salerno e Caserta, mentre Avellino
si unisce a Benevento. In Puglia, Foggia ingloba l'attuale
provincia di Barletta-Andria-Trani, mentre Taranto si
aggrega con Brindisi. In Calabria, Catanzaro, Crotone e Vibo
Valentia torneranno insieme. Molise, Basilicata e Umbria
diventeranno regioni monoprovinciali.
La governance delle province.
Le nuove province vedranno la luce dal 01.01.2014.
Questo significa che le attuali amministrazioni resteranno
in carica fino al 31.12.2013, ma già dall'inizio
dell'anno prossimo le giunte scompariranno e gli unici
organi provinciali a restare in carica saranno i consigli e
i presidenti. Questi ultimi, in sostituzione delle giunte,
potranno delegare l'esercizio delle funzioni di governo a
non più di tre consiglieri. Non ci saranno i commissari a
traghettare gli enti verso il riordino. I commissari si
insedieranno solo negli enti che da oggi al 31.12.2013
vanno a scadenza (naturale o anticipata) per gestire la
macchina amministrativa fino all'insediamento dei nuovi
enti.
La elezioni per costituire i nuovi organi dovranno
tenersi in una domenica compresa tra il 1° e il 30.11.2013. Sarà una legge dello stato a definire le modalità
di elezione entro il 31.12.2012. Il consiglio
provinciale non sarà più composto inderogabilmente da dieci
componenti (come prevedeva il Salva Italia) ma il numero
potrà salire a 12 negli enti con popolazione compresa tra
300 mila e 700 mila abitanti e a 16 negli enti con più di
700 mila abitanti.
La successione tra enti.
Nelle province che avranno nuovi confini per effetto degli
accorpamenti il comune capoluogo sarà o il capoluogo di
regione (se rientra nel territorio della neonata provincia)
oppure il comune più popoloso tra quelli già capoluogo di
provincia. La denominazione delle nuove realtà locali potrà
comunque essere modificata con dpr, previa delibera del
consiglio dei ministri.
I nuovi enti subentreranno a quelli esistenti in tutti i
rapporti giuridici. Il passaggio dei dipendenti di ruolo
avverrà previa concertazione sindacale. Gli enti potranno
fare da sé solo in caso di mancato accordo con i sindacati.
Le dotazioni organiche saranno determinate tenendo conto
dell'effettivo fabbisogno. Le regioni trasferiranno ai
comuni le funzioni già conferite alle province a meno che
non decidano di tenerle per sé al fine di assicurarne un
esercizio unitario.
La governance delle città metropolitane.
Le città metropolitane vedranno la luce dal 2014 ad
eccezione di Reggio Calabria in cui il nuovo ente debutterà
90 giorni dopo il rinnovo degli organi del comune
attualmente commissariato. Le nuove realtà saranno rette da
un consiglio metropolitano composto da 18 membri negli enti
con più di 3 milioni di abitanti, 14 in quelli con
popolazione compresa tra 800 mila e 3 milioni di abitanti e
12 nelle altre città metropolitane. Saranno i sindaci e i
consiglieri comunali dei municipi ricompresi nel territorio
metropolitano ad eleggere i componenti del consiglio
(articolo ItaliaOggi dell'01.11.2012). |
APPALTI: Per il codice degli appalti la riforma a getto
continuo. Il ddl delega: regolamento
entro 6 mesi, poi aggiustamenti successivi.
Modifiche infinite per la normativa in materia di appalti
pubblici, con la delega a riordinare il Codice dei contratti
pubblici e il regolamento attuativo entro 6 mesi, con
ulteriori adeguamenti nell'anno successivo.
È quanto
prefigura il
disegno di legge in materia di infrastrutture e
trasporti, che incide anche con nuove norme sulla
bancabilità dei progetti, sulla riduzione dell'overdesign
nel settore ferroviario, sulla consultazione pubblica per le
grandi infrastrutture (il c.d. referendum o débat public).
Per quel che riguarda l'ennesima opera di rivisitazione del
Codice che fu approvato nel 2006 a seguito dei lavori della
Commissione De Lise, la delega per il «consolidamento del
quadro normativo» in materia di contratti avrà ad oggetto
anche il regolamento attuativo del decreto 163/2006 e dovrà
essere esercitata entro sei mesi dall'approvazione del
disegno di legge.
La formulazione della norma in realtà è
stata semplificata nel passaggio da una versione all'altra
del testo (è scomparsa, ad esempio, l'indicazione di
suddividere la normativa primaria da quella regolamentare),
ma rimane, di fondo, la scelta di intervenire in un'ottica
di semplificazione, razionalizzazione e riordino della
normativa vigente anche per evitare sovrapposizioni e
duplicazioni. La delega dovrebbe anche servire ad adeguare
le norme ai principi emersi in sede comunitaria, dove si
stanno mettendo a punto le nuove direttive appalti pubblici,
ma va detto che difficilmente entro sei mesi le direttive
saranno approvate (le posizioni tra Consiglio e Parlamento
sono molto distanti su molti punti e addirittura si parla di
un ritiro della direttiva concessioni) e quindi vi sarà
l'indubbia difficoltà di capire quali siano i principi
effettivamente «emersi».
In ogni caso una delega così ampia
con la finalità di stabilizzazione della normativa, ma con
la contestuale previsione di adeguare ulteriormente i
decreti delegati dopo un anno dalla loro approvazione,
sembra prefigurare un quadro di modifiche perpetue, che
molto difficilmente potrà creare quelle condizioni di
stabilità normativa che da anni il settore invano attende
(questo anno sono già 9 i provvedimenti che hanno cambiato
il Codice dei contratti pubblici). Il tutto considerando che
la stabilizzazione delle norme avviene con l'apparentemente
contraddittoria introduzione di ulteriori nuove norme di
modifica del Codice nello stesso disegno di legge.
Fra
queste (oltre a quelle sullo svincolo delle cauzioni, sui
raggruppamenti temporanei e sulle centrali di committenza,
vedi ItaliaOggi del 23 ottobre) si segnalano quelle relative
alle concessioni di lavori pubblici tese a favorire una
migliore bancabilità dei progetti attraverso il
coinvolgimento del settore bancario già nella fase di
offerta con una manifestazione di interesse a finanziare
l'opera e con la previsione di una clausola risolutiva in
caso di mancata sottoscrizione del finanziamento entro un
congruo termine, che potrebbe velocizzare l'iter.
Anche
l'estensione alle concessioni di lavori pubblici della norma
che consente di indire una consultazione preliminare sul
progetto posto a base di gara (oggi previsto per appalti
oltre i 20 milioni) dovrebbe favorire una maggiore certezza
degli elementi sui quali formulare le offerte e ridurre
l'aleatorietà sotto il profilo della bancabilità
dell'intervento. L'obiettivo finale è quello di attrarre
maggiormente la finanza privata, anche straniera, creando
condizioni di maggiore certezza giuridica e procedurale
rispetto a quanto avviene oggi.
Rilevante, soprattutto
politicamente, è poi l'introduzione della consultazione
pubblica (c.d. débat public o referendum) per la grandi
infrastrutture previste nel DEF al fine della gestione del
consenso sul territorio, che sarà gestita dai Provveditorati
interregionali alle opere pubbliche e si terrà sullo studio
di fattibilità o la massimo sul progetto preliminare.
Prevista anche una norma che limita a trenta giorni il
termine per presentare osservazioni al Ministero
dell'ambiente sui progetti di opere soggette a Via
(articolo ItaliaOggi dell'01.11.2012). |
LAVORI PUBBLICI: Grandi opere,
parola ai territori.
Prima di fare i lavori, il governo chiederà il parere dei
cittadini.
La novità nel disegno di legge delega
sulle infrastrutture, approvato ieri dal Consiglio dei ministri.
Consultazione pubblica prima della realizzazione di opere di
interesse strategico. Seguendo la strada del francese débat
public, il governo chiederà il parere dei cittadini prima
della realizzazione di importanti infrastrutture,
permettendo una maggiore condivisione delle informazioni e
delle finalità dei progetti con le comunità locali.
È una
delle novità contenute nel
disegno di legge delega approvato
ieri dal consiglio dei ministri che prevede anche, sempre
sul fronte infrastrutturale, nuove misure per agevolare
l’utilizzo degli strumenti di partenariato pubblico-privato
per la realizzazione delle opere pubbliche, anche attraverso
una ulteriore semplificazione e accelerazione delle
procedure.
Finanziabilità di progetti e bandi.
Per assicurare che i progetti da realizzare con contratti di
partenariato pubblico-privato siano idonei ad assicurare
adeguati livelli di «bancabilità» fin dalla gara per
l’affidamento, le amministrazioni aggiudicatrici potranno
chiedere che l’offerta presentata sia corredata da una
manifestazione di interesse da parte di una banca a
finanziare l’operazione. Attraverso questa consultazione
preliminare con gli operatori economici invitati a
presentare le offerte, sarà dunque possibile far emergere,
prima dell’affidamento, eventuali criticità del progetto
sotto il profilo della finanziabilità da parte del settore
bancario. Inoltre, vengono introdotti i «bandi-tipo» per
l’affidamento di contratti di partenariato.
Subentro di un
nuovo concessionario designato dagli enti finanziatori del
progetto. Il ddl interviene sull’istituto del subentro, che
consente di assicurare la continuità del rapporto concessorio in caso di risoluzione del rapporto stesso per
motivi addebitabili al concessionario. Viene introdotto, in
particolare, un termine minimo per legge (120 giorni,
prorogabile di altri 60 su richiesta motivata), sostitutivo
del termine rimesso al contratto tra le parti come è nella
situazione vigente, per la designazione del nuovo
concessionario da parte degli enti finanziatori, che hanno
in questo modo maggiore tempo per effettuare le proprie
scelte. Viene lasciata, inoltre, alla volontà negoziale
delle parti la determinazione dei criteri e delle modalità
di attuazione del diritto di subentro. Tramite questa
garanzia, il finanziamento dell’opera risulta maggiormente
attrattivo per il sistema bancario.
Centrale di committenza
per l’affidamento delle concessioni. Per favorire l’impiego
dello strumento della concessione anche da parte delle
amministrazioni di medie e piccole dimensioni, le quali
spesso non possiedono al loro interno le competenze
necessarie per attivare le particolari procedure previste,
si introduce la possibilità di fare ricorso alle centrali di
committenza, istituto già sperimentato per gli appalti
pubblici.
Consultazione pubblica. Per promuovere un più alto
livello di partecipazione delle popolazioni e dei territori
rispetto alla realizzazione di opere strategiche, viene
introdotta la procedura di consultazione pubblica che
permetterà di verificare preliminarmente la percorribilità
di un progetto e consentirà alle popolazioni coinvolte di
valutare e conoscere nel dettaglio le scelte riguardanti la
realizzazione e localizzazione delle grandi opere
infrastrutturali. Scopo della consultazione, che non sarà
vincolante per il decisore pubblico, è aumentare in modo
significativo il livello di coinvolgimento preventivo delle
comunità locali nei processi di realizzazione delle opere
strategiche per il sistema paese.
Semplificazione della
procedura di approvazione unica del Cipe del progetto
preliminare e della procedura di valutazione di impatto
ambientale. La nuova procedura, introdotta dal decreto legge
Salva Italia, di approvazione unica da parte del Cipe del
progetto preliminare di un’opera viene ulteriormente
perfezionata, inserendo una tempistica definita per il
pronunciamento delle singole amministrazioni e la previsione
di azioni conseguenti al mancato rispetto dei termini.
Inoltre, nell’ambito dell’istruttoria sui progetti relativi
alle opere soggette a procedura di valutazione di impatto
ambientale, si fissa il termine di 30 giorni per la
presentazione delle eventuali osservazioni rimesse al
ministero dell’ambiente dai soggetti pubblici e dai privati
interessati. In questo modo sarà più semplice fissare
termini stabiliti per la conclusione della conferenza di
servizi necessaria per l’approvazione del progetto
preliminare.
Semplificazioni normative e riduzione dell’overdesign.
Per ridurre il fenomeno dell’overdesign, e cioè la
fissazione di requisiti tecnici progettuali più stringenti
rispetto a quanto richiesto dalla normativa europea, in
particolare per le opere infrastrutturali ferroviarie, e i
relativi costi da esso generati, si prevede l’allineamento
delle regole minime di sicurezza alle norme europee, anche
già vigenti, limitando l’introduzione di ulteriori norme
nazionali non fondate su standard comuni ed i relativi
sovracosti.
Svincolo garanzie di buona esecuzione. Per
garantire maggiore liquidità alle imprese che operano nel
settore degli appalti pubblici, si prevede -per lo svincolo
progressivo della garanzia in base all’avanzamento
dell’esecuzione del contratto- la riduzione dal 25% al 20%
della percentuale relativa all’ammontare residuo
dell’importo garantito non svincolabile fino al collaudo.
Nei settori speciali (energia, acqua, trasporti, poste), la
messa in esercizio delle opere prima del loro collaudo, se
protratta per oltre 12 mesi, darà luogo allo svincolo
automatico delle garanzie di buona esecuzione. A tutela
della pubblica amministrazione rimane comunque una quota del
20% delle garanzie, che possono essere svincolate solo
all’emissione del certificato di collaudo, ovvero alla
scadenza del termine contrattuale per l’emissione dello
stesso certificato.
Recupero del patrimonio edilizio
esistente. Per incentivare il recupero del patrimonio
edilizio esistente, si prevede una politica di riduzione
degli oneri di costruzione relativi a ristrutturazioni e
recuperi edilizi, differenziando i contributi di costruzione
rispetto alle nuove opere, così da rendere più vantaggioso
il recupero e la ristrutturazione del patrimonio edilizio.
In questo modo si favorisce un utilizzo virtuoso degli
immobili esistenti, limitando il consumo del territorio
(articolo ItaliaOggi del 31.10.2012). |
LAVORI PUBBLICI: Grandi
opere, decolla la consultazione pubblica. Al Governo la
delega per rivedere i codici degli appalti e dell'edilizia.
NORME ANTI-NIMBY/ Il débat public vuole aumentare il
consenso sui progetti: ma alla regìa sarà il provveditore
alle opere pubbliche, non figure terze.
Il Governo manda in Parlamento la
proposta di istituzione della consultazione pubblica per le
grandi opere. È il confronto istituzionalizzato sul
territorio di derivazione francese, il débat public, che
dovrebbe aiutare a ridurre i tempi di approvazione delle
infrastrutture e contrastare l'effetto Nimby, cioè la
ribellione delle popolazioni locali contro la realizzazione
delle infrastrutture.
La norma è contenuta nel
disegno di legge di riforma
complessiva degli appalti che il Consiglio dei ministri ha
approvato ieri. La disciplina della consultazione pubblica
esce piuttosto stravolta dai vari confronti interni al
Governo: era partita, nel testo originario, come confronto
istituzionalizzato guidato da una commissione «neutra»
rispetto agli interessi in campo, per dare spazio a un
confronto preliminare ampio e aperto; ora a fare la regìa
dell'intera consultazione viene chiamato il provveditore
interregionale alle opere pubbliche. Anche la modifica
dell'ultima ora riduce gli spazi del débat public
all'italiana, precludendo la possibilità di presentare
progetti alternativi.
Le opere su cui si potrà attivare la consultazione sono
quelle indicate annualmente dal Def infrastrutture del
Governo, ma la consultazione potrà essere attivata anche dal
soggetto aggiudicatore, dal promotore, da un consiglio
regionale, da un insieme di consigli comunali o provinciali
rappresentativi di almeno 150mila abitanti o da 50mila
cittadini residenti nei comuni interessati all'opera.
Quello varato ieri è un disegno di legge che ora va in
Parlamento per un esame che appare piuttosto difficile da
concludere nei tempi restanti della legislatura. Come per le
semplificazioni, una riforma fondamentale rischia seriamente
di restare in mezzo al guado alla fine della legislatura.
La norma più importante per i settori interessati è
probabilmente la doppia delega per il riordino dei codici
degli appalti e dell'edilizia: si tratta delle due leggi
fondamentali rispettivamente sul fronte pubblico e privato e
devono tener conto delle molte modifiche fatte negli ultimi
mesi. Solo negli ultimi 15 mesi al codice dei contratti
pubblici (o appalti) sono state introdotte 120 modifiche dai
decreti legge e dalle leggi approvate in Parlamento. Un
terremoto continuo che spiazza gli operatori e rende
necessario un nuovo punto fermo sull'intera materia.
All'interno dei criteri di delega c'è un'altra delle novità
rilevanti del disegno di legge, là dove per garantire
«semplificazione delle procedure e creazioni di condizioni
favorevoli per il partenariato pubblico-privato e la finanza
di progetto» si esclude la possibilità di varare norme che
producano una reformatio in pejus dei contratti
rispetto alla disciplina vigente al momento della stipula.
Per il viceministro alle Infrastrutture, Mario Ciaccia, che
della riforma è il padre, anche per le consultazioni a tutto
campo avute in questi mesi con associazioni delle imprese,
banche e fondazioni (tra cui Astrid, Italiadecide e
Respublica hanno avuto un ruolo preminente), si tratta «del
necessario completamento e consolidamento della disciplina».
Ciaccia, così come il ministro delle Infrastrutture, Corrado
Passera, punta soprattutto al rafforzamento delle norme
agevolative dei contratti di partenariato pubblico-privato.
Per aumentare la bancabilità dei progetti –e la
finanziabilità dei progetti da parte del sistema bancario–
viene introdotta la cosiddetta «consultazione preliminare»
anche con le imprese prequalificate in gara, da tenersi
prima del termine di presentazione delle offerte. In questo
modo committenti e imprese potranno «verificare
l'insussistenza di criticità del progetto posto a base di
gara».
Il bando di gara potrà anche prevedere la risoluzione del
rapporto in caso di mancata sottoscrizione del contratto di
finanziamento, il cosiddetto closing finanziario, «o
di adeguati impegni al versamento delle risorse entro un
congruo termine dalla data di approvazione del progetto
definitivo». Per capire quanto sia delicato questo
aspetto, basti ricordare che grandi opere lombarde come Tem
e Brebemi, per cui sono già stati avviati da tempo i
cantieri, non hanno ancora raggiunto il closing
finanziario.
Un altro aspetto della riforma è la maggiore facilità del
subentro nel rapporto concessorio. Il Governo dà 120 giorni
al soggetto finanziatore per individuare l'impresa
subentrante nei lavori dopo la risoluzione per fatti
imputabili al concessionario e si elimina il decreto
ministeriale che avrebbe dovuto dettare «criteri e
modalità» per individuare il subentrante
(articolo Il
Sole 24 Ore del 31.10.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI: I
crediti delle imprese. Slitta a oggi il via libera
dell'esecutivo al decreto legislativo che recepisce la
direttiva europea. Pa, dal primo gennaio pagamenti in 30-60
giorni.
L'IMPATTO IN AZIENDA/ Stessi termini anche per le imprese,
ma ci sarà maggiore libertà contrattuale sull'entità degli
interessi moratori e sulla soglia temporale.
Il governo prova a tener fede all'impegno di sciogliere, una
volta per tutte, il nodo degli eterni tempi di pagamento dei
debiti della pubblica amministrazione, oltre a quelli tra
imprese.
Approda stamattina in consiglio dei ministri il decreto
legislativo che recepisce la direttiva Ue sui tempi massimi
per saldare le fatture. Un Dlgs, arrivato già ieri sul
tavolo di Palazzo Chigi ma poi slittato alla riunione "supplementare"
di oggi, sul quale il via libera sembra scontato visto che
sul testo, seguito da vicino dal ministro per gli Affari
europei, Enzo Moavero, c'è già il consenso dei tecnici degli
altri ministeri.
I tre articoli della bozza di decreto –che riscrive il
precedente Dlgs 231 del 2002– prevedono che dal 01.01.2013
la Pa dovrà pagare i suoi fornitori entro 30 giorni, con
deroghe a 60 giorni in particolari casi. Un tetto a cui
potranno arrivare anche i pagamenti tra imprese e che potrà
essere superato per le loro transazioni commerciali nel caso
ci sia accordo tra le parti. Il Dlgs, che non dovrà passare
per i pareri del Parlamento, dovrebbe dunque rispettare la
data stabilita dalla legge sullo statuto di impresa (la
180/2011) che oltre a prevedere la delega ad hoc per il
Governo anticipa di quattro mesi –a metà novembre (invece
che a metà marzo)– l'introduzione della direttiva Ue 2011/7.
Un'accelerazione, dunque, che sarà molto probabilmente
rispettata anche se poi le nuove regole scatteranno per le
transazioni commerciali che si concluderanno dal 01.01.2013
in poi. Un lasso di tempo, questo, –spiega la relazione
illustrativa al decreto– necessario per dare tempo a tutti,
Pa in primis, di adeguarsi anche per quanto riguarda
la «modulistica contrattuale e le procedure interne di
pagamento».
Quella dei ritardi nei pagamenti è da sempre un'emergenza,
come sa bene anche l'Esecutivo, perché di fatto chiude i
rubinetti togliendo liquidità alle imprese e alle Pmi
costrette ad aspettare in media circa 180-190 giorni per
essere pagate, con punte record al Sud dove si superano
anche i 1.500 giorni. E le regole già in vigore –come quelle
previste ad esempio per i lavori pubblici– finora non hanno
sortito effetti. Da qui l'attesa per i nuovi paletti europei
che, come detto, fissano a 30 giorni il termine ordinario
che la Pa deve rispettare per pagare. Anche se ci saranno
delle deroghe: in particolare per asl, ospedali e imprese
pubbliche che possono portare a 60 giorni il termine
massimo. Ma anche tutte le altre Pa potranno accedere a
questa deroga nel caso "eccezionale" in cui l'eventuale
proroga sia giustificata «dalla natura o dall'oggetto del
contratto» oppure dalle «circostanze esistenti al
momento della sua conclusione».
Per le amministrazioni pubbliche che non rispetteranno i
tempi scatterà la "sanzione" degli interessi legali
di mora. Che decorreranno automaticamente dal giorno
successivo alla scadenza del termine del pagamento senza che
sia necessaria la costituzione in mora. Gli «interessi
legali di mora» si calcoleranno prevedendo una
maggiorazione di 8 punti percentuali sul tasso fissato dalla
Banca centrale europea: in sostanza si aggireranno intorno
alla soglia del 10 per cento.
Per le imprese invece ci sarà maggiore libertà contrattuale:
oltre a concordare l'entità degli interessi moratori
potranno decidere, pattuendolo per iscritto, anche di
superare la soglia massima dei 60 giorni per pagare. Il
decreto però prevede espressamente tutta una serie di
paletti per escludere automaticamente clausole vessatorie
che puntino ad aggirare i tempi massimi, il pagamento degli
interessi e l'eventuale risarcimento per i costi che sono
necessari per recuperare i crediti.
---------------
I punti chiave
I PAGAMENTI DELLA PA -
Saldo entro 30 giorni
Il decreto legislativo prevede che dal 01.01.2013 la
Pubblica amministrazione provveda al saldo dei pagamenti
verso i suoi fornitori entro 30 giorni che scattano dal
ricevimento della fattura o dal ricevimento delle merci o
dalla data di prestazione dei servizi. Oppure
dall'accettazione o dalla verifica (se previsto) della
conformità della merce o dei servizi alla previsioni
contrattuali
LE DEROGHE
- Le proroghe a 60 giorni
Sono previste delle deroghe a 2 mesi per le imprese
pubbliche e per gli enti pubblici che forniscono assistenza
sanitaria. Anche le altre Pa potranno pagare a 60 giorni in
casi eccezionali, e cioè quando l'eventuale proroga sia
giustificata «dalla natura o dall'oggetto del contratto»
oppure dalle «circostanze esistenti al momento della sua
conclusione»
GLI INTERESSI DI MORA -
Decorrenza automatica
Gli interessi moratori decorrono automaticamente dal giorno
successivo alla scadenza del termine del pagamento senza che
sia necessaria la costituzione in mora. Nel caso il debitore
sia una Pa scattano gli «interessi legali di mora»
con una maggiorazione di 8 punti percentuali al tasso
fissato dalla Bce. Per i pagamenti tra imprese si potrà
invece concordare un tasso
LE FATTURE TRA IMPRESE -
Saldo tra 30 e 60 giorni
Anche nelle transazioni commerciali tra le imprese è
prevista la regola ordinaria dei 30 giorni per il pagamento
che possono allungarsi fino a 60 giorni. Un tetto, questo,
che può essere a sua volta superato nel caso sia stato
pattuito espressamente tra le parti un termine di pagamento
superiore. La clausola relativa al nuovo termine dovrà
essere però provata per iscritto e non dovrà risultare «iniqua»
per il creditore
NO A CLAUSOLE INIQUE -
Tutti i casi di grave iniquità
Prevista la nullità delle clausole relative al termine di
pagamento, al saggio degli interessi moratori e al
risarcimento dei costi di recupero. Sono considerate ex
lege gravemente inique le clausole che escludono il
diritto al pagamento degli interessi di mora e quelle
relative alla data di ricevimento della fattura, mentre si
presumono gravemente inique quelle che escludono il
risarcimento dei costi di recupero
I RISARCIMENTI -
Rimborsi automatici dei costi
Il creditore ha diritto anche al rimborso dei costi che ha
sostenuto per il recupero delle somme che non sono state
tempestivamente corrisposte. Al creditore spetta, infatti,
senza che sia necessaria la costituzione in mora, un importo
forfettario di almeno 40 euro (come soglia minima) a titolo
di risarcimento del danno. È comunque fatta salva la prova
del maggior danno, che può comprendere i costi di assistenza
per il recupero del credito
(articolo Il
Sole 24 Ore del 31.10.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Sussiste
difetto di giurisdizione del G.A. con riguardo
all’impugnazione dei provvedimenti di rimozione di impianti
pubblicitari posizionati abusivamente ai sensi dell’art. 23
del d.lgs. n. 285/1992, in quanto tale ordine deriva
direttamente, quale misura consequenziale, dall’accertamento
della violazione e dall’irrogazione della prescritta
sanzione pecuniaria, con riferimento al codice della strada,
sicché il provvedimento del Comune che dispone la rimozione
dell’impianto pubblicitario abusivo ai sensi di detto
articolo 23 costituisce un accessorio della sanzione
amministrativa pecuniaria (e non un mezzo accordato all’Ente
pubblico proprietario della strada per assicurare il
rispetto delle disposizioni di cui a detto art. 23), con la
conseguenza che l’atto deve essere conosciuto dal G.O.,
competente ai sensi del combinato disposto degli articoli 22
e 23 della legge n. 689/1981.
---------------
Occorre per l’installazione di impianto pubblicitario, a
latere strada, non solo l'autorizzazione ex art. 23 del
d.lgs. n. 285/1992, ma anche un provvedimento di concessione
dell'uso del suolo su cui insiste l’impianto.
---------------
L’art. 13-bis del d.lgs. n. 285/1992 stabilisce
genericamente che è l'ente proprietario della strada che
diffida l'autore della violazione e il proprietario o il
possessore del suolo privato, nei modi di legge, a rimuovere
il mezzo pubblicitario a loro spese entro e non oltre 10
giorni dalla data di comunicazione dell'atto, sicché è
irrilevante quale sia l’Organo comunale che dispone la
rimozione, purché competente, non potendo di certo
costituire la circostanza che la disposizione sia contenuta
in un verbale della Polizia Municipale invece che in un
provvedimento di altro Ufficio all’uopo preposto causa
escludente della giurisdizione del G.O. in materia.
Si conviene, infatti, con il primo Giudice che non
sussistono ragioni per discostarsi dalla costante
giurisprudenza, secondo la quale sussiste difetto di
giurisdizione del G.A. con riguardo all’impugnazione dei
provvedimenti di rimozione di impianti pubblicitari
posizionati abusivamente ai sensi dell’art. 23 del d.lgs. n.
285/1992, in quanto tale ordine deriva direttamente, quale
misura consequenziale, dall’accertamento della violazione e
dall’irrogazione della prescritta sanzione pecuniaria, con
riferimento al codice della strada, sicché il provvedimento
del Comune che dispone la rimozione dell’impianto
pubblicitario abusivo ai sensi di detto articolo 23
costituisce un accessorio della sanzione amministrativa
pecuniaria (e non un mezzo accordato all’Ente pubblico
proprietario della strada per assicurare il rispetto delle
disposizioni di cui a detto art. 23), con la conseguenza che
l’atto deve essere conosciuto dal G.O., competente ai sensi
del combinato disposto degli articoli 22 e 23 della legge n.
689/1981 (cfr.: Cass. Civ., SS. UU., 23.06.2010 n. 15170;
14.01.2009, n. 563; 18.11.2008 n. 27334; 06.06.2007 n.
13230; 17.07.2006 n. 16129; 19.11.1998 n. 11721);
La mera circostanza che coesistono, riguardo alla
installazione delle insegne pubblicitarie di cui trattasi,
anche poteri dei Comuni in materia urbanistica ed edilizia,
occorrendo per l’installazione non solo una autorizzazione
ex art. 23 del d.lgs. n. 285/1992, ma anche un provvedimento
di concessione dell'uso del suolo su cui insiste l’impianto,
deve ritenersi, considerato che nella fattispecie non viene
posto in discussione alcuno di detti poteri, inidonea ad
attrarre nella giurisdizione del G.A. il provvedimento del
Comune che dispone la rimozione dell’impianto pubblicitario
abusivo ex articolo 23 del codice della strada, soggetto
alla giurisdizione del G.O. in quanto costituente un
accessorio della sanzione amministrativa pecuniaria.
---------------
Con riguardo agli impianti n.
4, 5, 6 e 7, prosegue l’appello, le rimozioni forzate non
sono state disposte con verbali della Polizia municipale, ma
del Dipartimento Regolazione e Gestione Affissioni e
Pubblicità con le impugnate deliberazioni, sicché essi
sarebbero veri e propri provvedimenti amministrativi in
quanto manifestazione del potere di autogoverno del
territorio per assicurare il rispetto dell’art. 23 del d.lgs.
n. 285/1992, da impugnare innanzi al G.A.
Il motivo in esame non può essere condiviso dal Collegio,
atteso che l’art. 13-bis del d.lgs. n. 285/1992 stabilisce
genericamente che è l'ente proprietario della strada che
diffida l'autore della violazione e il proprietario o il
possessore del suolo privato, nei modi di legge, a rimuovere
il mezzo pubblicitario a loro spese entro e non oltre dieci
giorni dalla data di comunicazione dell'atto, sicché è
irrilevante quale sia l’Organo comunale che dispone la
rimozione, purché competente, non potendo di certo
costituire la circostanza che la disposizione sia contenuta
in un verbale della Polizia Municipale invece che in un
provvedimento di altro Ufficio all’uopo preposto causa
escludente della giurisdizione del G.O. in materia
(Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 31.10.2012 n. 5556 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’attività
edilizia che il privato può legittimamente porre in essere
deve essere necessariamente conforme al titolo abilitativo,
di modo che eventuali limitazioni e/o prescrizioni devono
risultare dal titolo emanato dal Comune.
Ogni prescrizione e/o limitazione all’edificazione deve
risultare sia dal documento rappresentante il titolo
edilizio conservato presso gli uffici comunali, sia dal
documento rappresentativo del titolo edilizio rilasciato al
privato beneficiario, con la conseguenza che non possono
essere opposte a quest’ultimo eventuali prescrizioni che non
risultano dal titolo edilizio allo stesso in concreto
rilasciato.
Il Collegio ritiene fondato il secondo motivo di appello
(sub b) dell’esposizione in fatto), nella parte in cui, con
lo stesso, si evidenzia l’error in iudicando della
sentenza impugnata, per non avere la medesima considerato,
in particolare, la violazione del principio del legittimo
affidamento, in quanto il fabbricato realizzato è stato
posto in relazione “direttamente ed esclusivamente con la
disposizione regolamentare che prevede la distanza di 20
metri dalla strada senza minimamente considerare che il
permesso di costruire consentiva una distanza inferiore e
che, quindi, vi era stato al riguardo un legittimo
affidamento da parte dell’originario ricorrente, nonché
soprattutto il consolidamento del diritto di quest’ultimo al
mantenimento del fabbricato così come assentito e
realizzato, per essere state le opere che lo riguardavano
pressoché ultimate”.
Giova, innanzi tutto, osservare che la costruzione
realizzata dal sig. Ciccone risulta previamente autorizzata
con permesso di costruire n. 3315/2008.
Orbene, la apposizione di una “correzione in rosso”
(così definita dall’appellante: pag. 4 appello), relativa ad
una prescrizione di mantenere il fabbricato ad una distanza
di 20 metri dalla strada comunale San Giorgio La Molara –
Montefalcone, risulta presente solo sulla copia del progetto
esistente agli atti del Comune, mentre, per quel che
interessa nella presente sede, non risulta sulla copia in
possesso dell’attuale appellante.
Su tale circostanza di fatto, mentre non vi è contestazione
da parte del non costituito Comune di San Giorgio La Molara,
la società controinteressata si limita ad osservare che la
citata correzione, se effettivamente apposta, “è da
qualificarsi alla stregua di mera specificazione ricognitiva
dell’obbligo normativo previsto dall’art. 26 DPR 16.12.1992
n. 495, volta a facilitare la cognizione, da parte del sig.
Ciccone, delle previsioni normative concernenti l’attività
edilizia”.
Orbene il Collegio (prescindendo dalle argomentazioni
ampiamente esposte dall’appellante e relative a quanto
emergente dagli atti di un procedimento penale che si assume
essere stato instaurato), rileva che il diniego di
accertamento di conformità ex art. 36 DPR n. 380/2001 è
illegittimo, nella misura in cui detto diniego si fonda su
una non conformità di quanto realizzato alla normativa
relativa alla “distanza dalla strada”.
Ed infatti, occorre osservare che l’attività edilizia che il
privato può legittimamente porre in essere deve essere
necessariamente conforme al titolo abilitativo (nel caso di
specie, permesso di costruire), di modo che eventuali
limitazioni e/o prescrizioni devono risultare dal titolo
emanato dal Comune. E ciò a maggior ragione in un caso come
quello di specie, dove la distanza dalla strada non
costituisce solo una mera “prescrizione” afferente al
rispetto, per ragioni di sicurezza, di una distanza minima
dalla strada comunale, ma condiziona decisamente
l’ubicazione della costruzione nel suo complesso e la
individuazione in concreto dell’area di sedime del
fabbricato.
E’ appena il caso di aggiungere che ogni prescrizione e/o
limitazione all’edificazione deve risultare sia dal
documento rappresentante il titolo edilizio conservato
presso gli uffici comunali, sia dal documento
rappresentativo del titolo edilizio rilasciato al privato
beneficiario, con la conseguenza che non possono essere
opposte a quest’ultimo eventuali prescrizioni che non
risultano dal titolo edilizio allo stesso in concreto
rilasciato.
A fronte di ciò, il Comune di San Giorgio La Molara, in sede
di esame dell’istanza di accertamento di conformità, non
avrebbe potuto non considerare tale discrasia esistente tra
le varie copie dell’elaborato progettuale (ed in particolare
l’assenza di ogni prescrizione nel titolo rilasciato
all’interessato).
Il medesimo Comune, laddove avesse ritenuto la sussistenza
di un limite di distanza non considerato dal rilasciato
titolo autorizzatorio edilizio avrebbe dovuto, ricorrendone
i presupposti di attualità dell’interesse pubblico,
procedere ad annullamento di ufficio del titolo medesimo e
quindi (solo a questo punto) rilevare –impregiudicata ogni
ulteriore valutazione di tale “modus operandi”– la
non conformità del concretamente costruito a norme di legge
e regolamento e la (eventuale) non emanabilità di un
permesso di costruire a sanatoria
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.10.2012 n. 5509 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La posizione giuridica del soggetto che presenta un esposto
al comune chiedendo che venga dichiarato decaduto un
permesso di costruire.
Il TAR Veneto, Sez. II, con l’ordinanza
25.10.2012 n. 644, chiarisce come, coloro che presentano
un esposto al Comune, chiedendo l’accertamento della
decadenza del permesso di costruire del vicino, per mancato
inizio dei lavori entro l’anno, non sono da considerarsi
ex se come controinteressati: “gli odierni
ricorrenti, in qualità di presentatori dell’esposto da cui
ha preso avvio l’attività di controllo da parte
dell’amministrazione, non assumono la qualifica di contro
interessati, per cui il Comune, all’esito dei controlli
effettuati, non era tenuto ad effettuare le comunicazioni ai
sensi dell’art. 10-bis della L. n. 241/1990”.
L’interesse di tali soggetti, infatti, “risulta
soddisfatto dall’avvio dei controlli effettuati
dall’amministrazione, essendo rimessa alla valutazione della
stessa, all’esito degli accertamenti operati, l’adozione del
provvedimento di decadenza del permesso di costruire”.
Il TAR conferma le considerazione già espresse in un caso
analogo: “Premesso che l’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990
risulta applicabile ai soli atti a istanza di parte, in
materia di decadenza (nella specie: decadenza da permesso di
costruire) e con riguardo al caso in cui l’azione d’ufficio
sia eccitata da un terzo mediante diffida, posto che la
pronuncia di decadenza si configura come atto d’ufficio la
diffida ha la sola funzione di far determinare
l’amministrazione all’adozione del provvedimento, ma una
volta che questa abbia autonomamente deciso di avviare il
procedimento di decadenza e, acquisite le deduzioni delle
parti interessate, decida per l’archiviazione dello stesso,
la posizione del diffidante è del tutto recessiva per non
dire irrilevante di fronte all’azione pubblica; in altri
termini due sono i procedimenti, quello cui mira la diffida
e quello deciso dalla p.a.; la pretesa del diffidante è
dunque soddisfatta con l’avvio del procedimento di
decadenza, le cui vicende sono tuttavia governate
esclusivamente dalla amministrazione, la quale richieste le
deduzioni delle parti si determina discrezionalmente; non
deve dunque essere attivato il sub procedimento dell’art.
10-bis della legge n. 241 del 1990 comportante il preavviso
di diniego per consentire così agli stessi istanti di
controdedurre ulteriormente (fattispecie relativa a
richiesta di adozione di decadenza dal permesso di costruire
, il cui procedimento, avviato a seguito di diffida, si era
concluso con un’archiviazione)” (TAR Veneto, Venezia,
sez. II, 14.11.2008, n. 3550) (link a http://venetoius.it). |
APPALTI SERVIZI:
L'illuminazione votiva e' un servizio pubblico di rilevanza
economica.
L’individuazione della rilevanza economica di un servizio
pubblico avviene, caso per caso, in base a questi tre
elementi: scopo di lucro dell’attività svolta; assunzione
dei rischi connessi all’attività; eventuale finanziamento
pubblico dell’attività in questione.
Sono queste le tre condizioni richiamate dalla
sentenza 23.10.2012 n. 5409 del
Consiglio di Stato, Sez. V, che si è pronunciato
su una questione relativa all’affidamento del servizio di
illuminazione votiva da parte di un’amministrazione
comunale.
La sentenza, riformando la decisione dei giudici di primo
grado ribadisce i principi generali di derivazione
comunitaria elaborati dalla Corte di Giustizia CE con la
sentenza 22.05.2003, causa 18/2001, dotati, al pari della
normativa comunitaria, di piena efficacia negli ordinamenti
nazionali ma molto spesso trascurati dal legislatore e dagli
amministratori pubblici nazionali.
La decisione in esame distingue tra servizi pubblici di
rilevanza economica e servizi privi di tale connotazione,
avendo cura inoltre di verificare quali riflessi produce
tale distinzione sulle modalità di affidamento del servizio.
Essa stabilisce: “In sostanza, per qualificare un
servizio pubblico come avente rilevanza economica o meno è
ragionevole pensare che si debba prendere in considerazione
non solo la tipologia o caratteristica merceologica del
servizio (vi sono attività meramente erogative come
l'assistenza agli indigenti), ma anche la soluzione
organizzativa che l'ente locale, quando può scegliere, sente
più appropriata per rispondere alle esigenze dei cittadini
(ad esempio servizi della cultura e del tempo libero da
erogare, a seconda della scelta dell'ente pubblico, con o
senza copertura dei costi).
Dunque, la distinzione di cui si sta parlando può anzitutto
derivare da due presupposti, in quanto non solo vi può
essere un servizio che ha rilevanza economica o meno in
astratto ma anche uno specifico servizio che, per il modo in
cui è organizzato nel caso di specie, presenta o non
presenta tale rilevanza economica.
Saranno, quindi, privi di rilevanza economica i servizi che
sono resi agli utenti in chiave meramente erogativa e che,
inoltre, non richiedono una organizzazione di impresa in
senso obiettivo (invero, la dicotomia tra servizi a
rilevanza economica e quelli privi di rilevanza economica
può anche essere desunta dalle norme privatistiche,
coincidendo sostanzialmente con i criteri che
contraddistinguono l’attività di impresa nella previsione
dell'art. 2082 Cod. civ. e, per quanto di ragione, dell’art.
2195 o, per differenza, con ciò che non vi può essere
ricompreso).
Per gli altri servizi, astrattamente di rilevanza economica,
andrà valutato in concreto se le modalità di erogazione, ne
consentano l’assimilazione a servizi pubblici privi di
rilevanza economica.”
Nel caso in esame i giudici di Palazzo Spada hanno,
pertanto, ritenuto il servizio di illuminazione votiva quale
servizio a rilevanza economica, basandosi sull’orientamento
giurisprudenziale prevalente (ex multis Cons. Stato,
sez. V, 11.08.2010, n. 5620; 29.03.2010, n. 1790;
05.12.2008, n. 6049; 14.04.2008, n. 1600), nonché sulle
considerazioni espresse dall’Autorità di Vigilanza sui
Contratti Pubblici (parere 03.04.2008) (commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Integra gli estremi di una vera e propria revoca di un
provvedimento amministrativo l'atto che, ancorché denominato
dalla Pubblica Amministrazione come annullamento, è adottato
per ritirare, per ragioni di opportunità e per motivi di
interesse pubblico, tutti gli atti di una gara per la
fornitura dei servizi che era stata provvisoriamente
aggiudicata, con sostanziale applicazione dei poteri ora
disciplinati dagli artt. 21-quinquies e 21-nonies della
legge n. 241 del 1990.
Una tale scelta, solo se congruamente
motivata, appartiene alla sfera del merito amministrativo e
non è sindacabile in sede giurisdizionale in assenza di
profili di irrazionalità manifesta e sviamento apprezzabili
in sede di legittimità.
Deve tuttavia qualificarsi come un vero e proprio atto di "revoca
di un provvedimento" tale atto che, ancorché denominato
dalla P.A. come "annullamento", è stato adottato per
ritirare (per ragioni di opportunità e per motivi di
interesse pubblico) tutti gli atti di una gara per la
fornitura dei servizi che era stata provvisoriamente
aggiudicata, con sostanziale applicazione dei poteri ora
disciplinati dall'art. 21-quinquies e nonies della legge n.
241 del 07.08.1990 (che prevede che debba tenersi conto
anche degli interessi dei destinatari).
Tale scelta, solo se congruamente motivata, appartiene alla
sfera del merito amministrativo e non è sindacabile dal G.A.
in assenza di profili di irrazionalità manifesta e sviamento
apprezzabili in sede di legittimità (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 22.10.2012 n. 5397
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
E' illegittimo l'operato dell'Amministrazione che in seguito
all'annullamento giurisdizionale della disposta
aggiudicazione faccia luogo all'annullamento dell'intera
procedura di gara. Nella descritta ipotesi, invero,
l'Amministrazione è tenuta a riprendere il procedimento dal
segmento direttamente viziato e, dunque, a riaprire il
procedimento di gara, adottando tutti gli atti
consequenziali finalizzati alla nuova aggiudicazione, in
ossequio alla regola della conservazione degli atti
giuridici.
Annullata, dunque, l'aggiudicazione della
procedura di gara alla prima classificata, il legittimo e
trasparente operato dell'Amministrazione deve tradursi
nell'aggiudicazione della procedura alla seconda
classificata, la cui offerta era stata considerata in
precedenza ammissibile.
Solo dopo l'attuazione di tale fase rinnovatoria, imposta dalla esecutività della sentenza di
annullamento del provvedimento di aggiudicazione,
l'Amministrazione resta libera, in alternativa alla stipula
del contratto per l'affidamento della concessione, di
procedere in via di autotutela alla rimozione degli atti
indittivi della gara ai sensi dell'art. 21-nonies della
legge n. 241 del 1990, poiché non è ad essa precluso di
provvedere, dopo la riapertura del procedimento di
aggiudicazione ed adozione dei provvedimenti dovuti,
mediante atto adeguatamente motivato con il richiamo ad un
preciso e concreto interesse pubblico, alla revoca d'ufficio
ovvero all'annullamento dell'aggiudicazione.
Osserva in proposito la Sezione
che nel caso di annullamento giurisdizionale degli atti di
una procedura concorsuale volta all’aggiudicazione di un
pubblico appalto la P.A. deve riprendere il procedimento dal
segmento direttamente viziato, con conseguente obbligo per
la stazione appaltante di riaprire il procedimento di gara,
adottando tutti gli atti consequenziali finalizzati alla
nuova aggiudicazione, in ossequio alla regola della
conservazione degli atti giuridici.
A seguito dell'annullamento dell'aggiudicazione della
procedura di gara alla prima classificata, la cui offerta
avrebbe, invece, dovuto sin da subito essere esclusa, il
legittimo e trasparente operato dell'Amministrazione si
sarebbe dovuto quindi tradurre nell'aggiudicazione della
procedura alla seconda classificata, la cui offerta era
stata considerata in precedenza pienamente ammissibile.
In tutti i casi in cui la gara non possa essere aggiudicata
al concorrente classificatosi al primo posto è, infatti,
corretto che l'Amministrazione appaltante proceda ad
assegnare la gara ai concorrenti che seguono nella
graduatoria (Consiglio Stato sez. V, 02.02.2009, n. 557)
Solo dopo l'attuazione, ora per allora, della fase
rinnovatoria imposta dalla esecutività della sentenza di
annullamento del provvedimento di aggiudicazione e dalla
applicazione dei cennati principi l'Amministrazione resta
libera, in alternativa alla stipula del contratto per
l'affidamento della concessione, di procedere in via di
autotutela alla rimozione degli atti indittivi della gara ai
sensi dell'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990.
Non è infatti precluso all'Amministrazione di provvedere,
dopo la riapertura del procedimento di aggiudicazione ed
adozione dei provvedimenti dovuti, mediante atto
adeguatamente motivato con il richiamo ad un preciso e
concreto interesse pubblico, alla revoca d'ufficio ovvero
all'annullamento dell'aggiudicazione.
Detta potestà di ritiro si fonda sul principio
costituzionale di buon andamento dell'azione amministrativa
che impegna l'Amministrazione ad adottare atti il più
possibile rispondenti ai fini da conseguire
(Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 22.10.2012 n. 5397
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Il proprietario, ove non sia responsabile della violazione,
non ha l'obbligo di provvedere direttamente alla bonifica.
Secondo l’avviso già espresso dalla Sezione e dal quale non
si ravvisano motivi per discostarsi, il decreto di
recepimento delle determinazioni conclusive della conferenza
di servizi decisoria relativa ad un sito di bonifica di
interesse nazionale costituisce un mero atto di gestione, di
competenza dirigenziale e non del Ministro, atteso che esso
non concerne le scelte di fondo che la p.a. è chiamata a
compiere in materia di bonifica, avendo invece ad oggetto la
prescrizione di un singolo intervento di messa in sicurezza
d'emergenza e, poi, di bonifica (TAR Toscana, sez. II,
25.11.2009, n. 2088).
Ed invero, l'art. 252 del d.lgs. n. 152/2006 (applicabile al
procedimento in forza della disposizione transitoria di cui
all’art. 265 d.lgs. n. 152 del 2006) distingue tra atti ed
attività di competenza del Ministro dell'Ambiente ed atti e
attività facenti capo al Ministero. Rientra ad es. tra i
primi l'individuazione, ai fini della bonifica, dei siti di
interesse nazionale (art. 252, comma 2, cit.), il che è del
tutto logico, dovendo la suddetta individuazione reputarsi
atto attinente all'indirizzo politico-amministrativo in
materia di bonifica. La rilevanza politica di un tale atto
risulta, del resto, confermata dalla necessità dell'intesa
con le Regioni interessate: intesa prescritta, per
l'appunto, dal comma 2 dell'art. 252. Si deve invece
reputare che l'impugnato decreto di recepimento della
Conferenza di Servizi costituisca un mero atto di gestione,
di competenza dirigenziale e non del Ministro, atteso che
esso certamente non concerne le scelte di fondo che la P.A.
è chiamata a compiere nel settore in esame (come ad es., la
mappatura dei siti di interesse nazionale), avendo invece ad
oggetto la prescrizione di un singolo intervento di messa in
sicurezza d'emergenza e, poi, di bonifica.
Del resto, l'art. 252, comma 4, del d.lgs. n. 152 cit.
attribuisce la competenza per i procedimenti di bonifica di
cui al precedente art. 242, qualora abbiano ad oggetto i
siti di interesse nazionale, "alla competenza del
Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio":
né una simile espressione può esser considerata atecnica o
comunque non voluta e casuale, poiché essa si inserisce in
una disposizione (l'art. 252 cit.) in cui, come accennato,
quando ci si vuole riferire alle competenze del Ministro
dell'Ambiente, lo si dispone espressamente, stabilendo che
l'atto compete al "Ministro" e non al "Ministero"
(in tal senso cfr. anche TAR Lombardia, Brescia, Sez. I,
09.10.2009, n. 1738).
Peraltro, la doglianza si palesa sotto altro profilo
condivisibile.
Lamenta, infatti, la ricorrente che nella fattispecie si sia
violato il precetto contenuto nell’art. 252, co. 4, d.lgs.
n. 152/2006 secondo cui “La procedura di bonifica di cui
all'articolo 242 dei siti di interesse nazionale è
attribuita alla competenza del Ministero dell'ambiente e
della tutela del territorio, sentito il Ministero delle
attività produttive” (ora Ministero dello sviluppo
economico).
A più forte ragione si ritiene pretermesso, ove ritenuto
applicabile ratione temporis, l’art. 15, co. 4, del
d.m. n. 471/1999 a tenore del quale nel procedimento de quo
si rende necessario il “concerto” con gli altri
dicasteri interessati.
Ebbene, dall’esame degli atti risulta evidente che il
Ministero dello sviluppo economico, oltre a non aver
partecipato ad alcuna delle conferenze istruttorie e
decisorie che hanno preceduto l’emissione dei decreti
avversati, neppure consta essere stato “sentito”
successivamente, prima della definitiva assunzione dei
provvedimenti conclusivi.
Né può ritenersi che tale omissione rivesta carattere
meramente formale essendo pacifico che ove la sequenza
procedimentale necessiti per la sua formazione il parere o
il concerto con altra autorità la sua omissione ne vizia gli
esiti conclusivi (cfr. TAR Marche, 23.11.2011, n. 877; TAR
Lazio, sez. I, 01.08.2011, n. 6858).
Fondati si manifestano, altresì il terzo e quarto motivo con
cui Depositi Costieri Livorno lamenta la contraddittorietà
tra gli esiti dell’istruttoria e le conclusioni raggiunte
dalle Conferenze di servizi, poi fatte proprie dal Direttore
generale per la qualità della vita del Ministero
dell’ambiente con i decreti qui avversati, in merito alla
responsabilità della medesima nell’aver causato la
contaminazione rilevata con conseguente violazione degli
artt. 239 e segg. del d.lgs. n. 152/2006 e dell’art. 17
d.lgs. n. 22/1997, nonché del d.m. n. 471/1999.
In proposito occorre premettere che la giurisprudenza
assolutamente prevalente è nel senso che le norme appena
citate non consentono all’Amministrazione procedente di
imporre ai privati che non abbiano alcuna responsabilità, né
diretta, né indiretta sull'origine del fenomeno contestato,
ma che vengano individuati solo quali proprietari o gestori
o addirittura in ragione della mera collocazione geografica
del bene, l'obbligo di bonifica di rimozione e di
smaltimento dei rifiuti e, in generale, della riduzione al
pristino stato dei luoghi che è posto unicamente in capo al
responsabile dell'inquinamento, che le autorità
amministrative hanno l'onere di ricercare ed individuare. Ai
fini della responsabilità in questione è perciò necessario
che sussista e sia provato, attraverso l'esperimento di
adeguata istruttoria, l'esistenza di un nesso di causalità
fra l'azione o l'omissione e il superamento -o pericolo
concreto ed attuale di superamento- dei limiti di
contaminazione, senza che possa venire in rilievo una sorta
di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o
al possessore dell'immobile meramente in ragione di tale
qualità (cfr. Cons. Stato sez. VI 18.04.2011, n. 2376; id.,
Sez. V, 19.03.2009, n. 1612; TAR Campania, Napoli, sez. V,
01.03.2012, n. 1073; TAR Toscana, sez. II, 03.03.2010, n.
594; id. 01.04.2011, n. 565).
Alla luce delle superiori considerazioni, appare evidente
che, nel sistema sanzionatorio ambientale, il proprietario
del sito inquinato è senza dubbio soggetto diverso dal
responsabile dell'inquinamento. Mentre su quest'ultimo
gravano, oltre altri tipi di responsabilità da illecito,
tutti gli obblighi di intervento, di bonifica e lato sensu
ripristinatori, previsti dal Codice dell'ambiente (in
particolare, dagli artt. 242 ss.), il proprietario
dell'immobile, pur incolpevole, non è immune da ogni
coinvolgimento nella procedura relativa ai siti contaminati
e dalle conseguenze della constatata contaminazione dovendo
egli, infatti, attuare le misure di prevenzione di cui
all'art. 242, nonché potendo sempre attivare volontariamente
gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di
ripristino ambientale.
Più in particolare, ciò significa che il proprietario, ove
non sia responsabile della violazione, non ha l'obbligo di
provvedere direttamente alla bonifica, ma solo l'onere di
farlo se intende evitare le conseguenze derivanti dai
vincoli che gravano sull'area sub specie di onere reale e di
privilegio speciale immobiliare (ex multis, Cons.
Stato sez. V, 05.09.2005, n. 4525).
Orbene, nel caso all’esame, emerge dagli atti istruttori
delle conferenze di servizio l’insufficienza delle indagini
eseguite e poste a fondamento dell’obbligo della deducente
di procedere alla messa in sicurezza d’emergenza della falda
acquifera del sito in questione, nonché la contraddittorietà
della condotta dell’Amministrazione procedente.
Anche a prescindere dal repentino mutamento della condotta
del Ministero, inizialmente incline a procedere in maniera
congiunta e coordinata, previo approfondimento delle
indagini istruttorie, all'attività di messa in sicurezza di
emergenza, e poi determinatosi a omettere, senza alcuna
motivazione lo svolgimento dell’istruttoria commissionata a
Sviluppo Italia, va posto in evidenza che nei provvedimenti
non vengono individuati collegamenti fattuali tra l’attività
svolta dalla ricorrente (che, si rammenta, si occupa di
stoccaggio e movimentazione di metanolo) e le fonti della
contaminazione rilevate.
Inoltre, e ciò consente di condividere anche le censure
avanzate con il quinto e sesto motivo, in ordine alla
sussistenza dei presupposti per la messa in sicurezza
d’emergenza.
Si osserva in proposito che l’art. 240, co. 1, lett. i),
definisce le misure di prevenzione come “le iniziative
per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha
creato una minaccia imminente per la salute o per
l'ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile
che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o
ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o
minimizzare il realizzarsi di tale minaccia” e ciò
quando venga accertato il superamento delle “concentrazioni
soglia di rischio (CSR)” che la lettera c) dello stesso
comma indica come “i livelli di contaminazione delle
matrici ambientali, da determinare caso per caso con
l'applicazione della procedura di analisi di rischio sito
specifica secondo i principi illustrati nell'Allegato 1 alla
parte quarta del presente decreto e sulla base dei risultati
del piano di caratterizzazione, il cui superamento richiede
la messa in sicurezza e la bonifica.”.
Analoghi presupposti sono individuati nell'art. 2, d.m.
25.10.1999 n. 471 secondo cui la misura straordinaria della
messa in sicurezza d’emergenza, è quella relativa ad «ogni
intervento necessario ed urgente per rimuovere le fonti
inquinanti, contenere la diffusione degli inquinanti e
impedire il contatto con le fonti inquinanti presenti nel
sito, in attesa degli interventi di bonifica e ripristino
ambientale o degli interventi di messa in sicurezza
permanente».
Fermo restando che non sussiste in capo al proprietario di
un'area inquinata non responsabile dell'inquinamento
l'obbligo di porre in essere interventi di messa in
sicurezza d'emergenza, ma solo la facoltà di eseguirli per
mantenere l'area interessata libera dall'onere reale che
incombe sull'area de qua ai sensi dell'art. 253 del d.lgs.
n. 152/2006, la Sezione ha già avuto modo di affermare in
proposito che nel caso della bonifica dei siti di interesse
nazionale, l'imposizione di misure di messa in sicurezza
d'emergenza ulteriori rispetto a quelle già adottate, deve
essere adeguatamente motivata con riferimento all'urgenza,
al pericolo per la salute e all'inadeguatezza delle misure
preesistenti, al fine di garantire il rispetto del principio
di trasparenza e del contraddittorio con i destinatari delle
prescrizioni (TAR Toscana, sez. II, 22.12.2010, n. 6798; id.
26.07.2010, n. 3140).
Non può essere sufficiente, a tale fine, il mero richiamo al
riscontrato superamento di alcuni limiti tabellari di cui al
DM n. 471/1999 per determinate sostanze senza un
approfondimento, quantomeno sommario, ma pur sempre
completo, al fine di individuare un pericolo per la salute
che imponeva un intervento in termini così immediati, in
considerazione anche delle caratteristiche della falda
sottostante al sito ed alle sue capacità "migratorie"
a valle.
D’altro canto, a chiusura del sistema così delineato, giova
osservare che l’art. 240, co. 1, lett. t), del d.lgs. n.
152/2006 definisce quali condizioni di emergenza cui
corrispondono obblighi di messa in sicurezza: le
concentrazioni attuali o potenziali dei vapori in spazi
confinati prossime ai livelli di esplosività o idonee a
causare effetti nocivi acuti alla salute; la presenza di
quantità significative di prodotto in fase separata sul
suolo o in corsi di acqua superficiali o nella falda; la
contaminazione di pozzi ad utilizzo idropotabile o per scopi
agricoli; il 4) pericolo di incendi ed esplosioni.
Ebbene, nessuna di tali situazioni viene evidenziata
dall’Amministrazione procedente come sussistente nel sito in
questione (TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 19.09.2012 n. 1551 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il possesso del titolo di legittimazione alla proposizione
del ricorso per l'annullamento di una concessione edilizia,
che discende dalla c.d. vicinitas , cioè da una situazione
di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto
dell'intervento costruttivo autorizzato, esime da qualsiasi
indagine al fine di accertare, in concreto, se i lavori
assentiti dall'atto impugnato comportino o meno un effettivo
pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione.
Tutte le
questioni preliminari, esaminate anche alla luce delle
censure svolte a mezzo del gravame, risultano correttamente
decise dal Giudice di prime cure.
In particolare quanto all’idoneità e sufficienza del
criterio della vicinitas a fondare, in materia
edilizia, una posizione giuridica legittimante, è
sufficiente richiamare la costante giurisprudenza della
Sezione, secondo la quale “il possesso del titolo di
legittimazione alla proposizione del ricorso per
l'annullamento di una concessione edilizia, che discende
dalla c.d. vicinitas , cioè da una situazione di stabile
collegamento giuridico con il terreno oggetto
dell'intervento costruttivo autorizzato, esime da qualsiasi
indagine al fine di accertare, in concreto, se i lavori
assentiti dall'atto impugnato comportino o meno un effettivo
pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione”
(tra le tante, Sez. IV, 12.05.2009, n. 2908)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza IV,
sentenza 29.08.2012 n. 4643 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'asservimento prevale sulle successive scelte urbanistiche.
a) l'asservimento della capacità edificatoria di un fondo a
favore di un altro (cd. cessione di cubatura) ha natura
reale ed è opponibile ai terzi a prescindere dalla
trascrizione e dalla certificazione urbanistica;
b) il
successivo frazionamento dell'area asservita non travolge
l'asservimento;
c) l'asservimento è una condizione del fondo
che permane anche se in seguito mutano le destinazioni di
zona.
Secondo l'ultimo dei principi riportati, in pratica,
qualsiasi asservimento di cubatura tra fondi (anche se non
trascritto né indicato nel certificato di destinazione
urbanistica), è idoneo di fatto a paralizzare la successiva potestà pianificatoria comunale, anche nel caso in cui
questa dovesse ampliare la capacità edificatoria generale
della zona ove l'area asservita è azzonata.
Venendo al
merito della vicenda, possono essere agevolmente risolte
mediante il mero richiamo ai precedenti di questo Consiglio
le questioni della mancata menzione del vincolo nel
certificato urbanistico e quella dell’incidenza del
successivo frazionamento sulle sorti del vincolo.
Sul primo versante si è già chiarito che quanto attestato
dal certificato di destinazione edilizia sulla base della
conformazione giuridica astratta impressa in sede di
pianificazione generale non vale ad obliterare l'esigenza di
procedere ad una valutazione concreta delle potenzialità
edificatorie ancora esprimibili dall'area in forza del
computo della cubatura ceduta (Sez. V, 27.06.2011, n. 3823);
sul secondo, che il frazionamento catastale dell’area
asservita non incide sul pregresso asservimento (Sez. IV,
26.09.2008, n. 4647; 20.07.2011, n. 4405; 09.07.2011, n.
4134;)
Maggiore approfondimento necessita la diversa ed ulteriore
questione del rapporto tra asservimento e successiva
strumentazione urbanistica. Invero anche in relazione a tale
aspetto si è privilegiata la natura reale e definitiva del
vincolo inedificandi con conseguente
cristallizzazione della situazione tracciata dalle parti nel
titolo abilitativo “maggiorato” rilasciato
dall’amministrazione, ed inedificabilità assoluta dell’area
asservita, pur a fronte di sopravvenienze urbanistiche più
favorevoli (da ultimo, in termini netti, Sez. IV 20.07.2011,
n. 4405; 09.07.2011, n. 4134)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza IV,
sentenza 29.08.2012 n. 4643 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Condominio, distacco dal riscaldamento
centralizzato: quali conseguenze?
La questione giuridica sottesa alla sentenza n. 7182/2012
della Cassazione civile è così riassumibile: il condòmino
che legittimamente opera il distacco dall’impianto
centralizzato di riscaldamento condominiale è tenuto a
pagare le spese straordinarie di manutenzione del medesimo
oppure no?
La risposta negativa fornita dalla Cassazione è strettamente
connessa alla fattispecie esaminata, ma sembra non risolvere
la questione in radice, perché fornisce un principio di
diritto applicabile non già a tutti i casi di c.d. “distacco
legittimo dell’impianto di riscaldamento afferente la
singola unità abitativa”, ma solo ai casi in cui la
situazione prodotta dal distacco sia irreversibile.
Vediamo nel dettaglio.
Il condomino ricorrente impugna in primo grado due delibere
assembleari che gli attribuivano una quota di partecipazione
sia alle spese d’esercizio inerenti l’uso del riscaldamento
sia alle spese di straordinaria manutenzione dell’impianto
centralizzato da cui si era legittimamente distaccato anni
prima (ricorda la Corte che la legittimità di detto distacco
deve essere valutata in ragione del mancato aggravio di
spese di riscaldamento in capo agli altri condomini e della
totale assenza di doglianze dei medesimi in ordine ad
eventuali squilibri termici e/o irregolarità del servizio).
Il Giudice di prime cure, attestata la legittimità del
distacco operato, annullava la sola delibera ponente a
carico del condomino la partecipazione alle spese ordinarie,
ma non l’altra.
Promossa impugnazione, la Corte d’appello ribaltava quanto
statuito in prime cure argomentando in ordine al fatto che
l’impianto centralizzato in questione, dopo il distacco
dell’appellante, era stato SOSTITUITO e RIDIMENSIONATO in
ragione delle effettive esigenze di riscaldamento dei
condomini rimanenti e che, pertanto, l’appellante non
avrebbe più potuto riattaccarsi: di qui che non vi fosse
ragione alcuna della sua partecipazione alle spese
straordinarie di manutenzione del nuovo impianto sul quale
perdeva ogni diritto di comproprietà.
Interessata della questione a seguito di impugnazione
promossa dal condominio, la Cassazione aderisce alla tesi
espressa in secondo grado che esclude la partecipazione del
condomino distaccato sia dalle spese ordinarie, sia da
quelle straordinarie “in quanto il ridimensionamento
della nuova caldaia per le sole esigenze dei rimanenti
condomini escludeva alcuna possibilità di fruizione di tale
impianto, con conseguente impossibilità di eventuali
riallacci”.
La posizione della Suprema Corte suscita grande interesse e
alcuni interrogativi:
• cosa accade nel caso in cui, a seguito del distacco di uno
dei condomini, l’impianto NON venga sostituito e
ridimensionato: in questo caso, cioè, il condomino
distaccato che potenzialmente potrebbe riallacciarsi, dovrà
pagare le spese straordinarie di manutenzione dell’impianto
oppure no?
• come si coniuga questa tesi interpretativa con l’art. 1118
comma 2 c.c. che sancisce l’obbligo di ciascun condominio di
partecipare alle spese di conservazione delle parti comuni
anche nel caso di rinuncia al diritto su detti beni?
Peraltro, ammettere che la delibera condominiale di
sostituzione e ridimensionamento dell’impianto centralizzato
determini l’estromissione del condomino distaccato dalla
comunione sul bene, significa ammettere che l’assemblea
condominiale ha potere di incidere sulla quota di proprietà
individuale afferente a ciascun condòmino.
Se l’obbligo di partecipazione alle spese di conservazione
della cosa comune è conseguenza diretta del diritto di
proprietà e non dell’uso effettivo o potenziale della cosa
medesima, e se la delibera assembleare non è prevista nel
nostro ordinamento quale atto idoneo costituire o estinguere
il diritto di proprietà, ebbene, se tutto questo è vero, la
tesi del Supremo Collegio oggetto della sentenza in commento
sembra, a sommesso avviso di chi scrive, stridere con i
principi tradizionali del diritto civile (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 10.05.2012 n. 7182
- link a www.altalex.com). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Vizi dell'opera appaltata: sui gravi difetti di
costruzione e la garanzia ex 1669 cc.
Un immobile di nuova costruzione (una villa posta su più
piani) presenta diffuse crepe a ragnatela in quasi tutte le
stanze che lo compongono, dovute –come sarà accertato in
corso di CTU– al cedimento del massetto e ad altri gravi
difetti del sottofondo.
La questione, che giuridicamente potrebbe sembrare banale
(si tratta di vizio rilevante ex art. 1667 o 1669 cod.
civ.?), ha ricevuto soluzioni diverse nei gradi di giudizio
che si sono svolti.
La Corte d’Appello di Milano, infatti, con sentenza
08.05.2008, n. 1268, aveva qualificato quei difetti come
rilevanti soltanto ex art. 1667 cod. civ., e, confermando la
precedente decisione del Tribunale di Como, sezione
distaccata di Cantù, aveva rigettato le domande del
committente, che per quei difetti chiedeva di essere
risarcito, per intervenuta prescrizione.
Viceversa, con la sentenza 06.06.2012, n. 9119 la Corte di
Cassazione ha ribadito il proprio orientamento in tema di
qualificazione del vizio ex art. 1669 cod. civ. dell’opera
appaltata, ed ha cassato con rinvio la decisione della corte
territoriale.
E’ in effetti ben noto che i gravi difetti di costruzione, i
quali danno luogo alla garanzia prevista dall'art. 1669 cod.
civ., non si identificano semplicemente con i fenomeni che
influiscono sulla staticità, durata e conservazione
dell'edificio, espressamente previsti dalla citata norma, ma
possono consistere in tutte le alterazioni che, pur
riguardando direttamente una parte dell'opera (e dunque non
necessariamente la sua interezza), incidano sulla struttura
e sulla funzionalità globale, menomando apprezzabilmente il
godimento dell'opera medesima da parte di chi ha diritto di
usarne. Pertanto, il vizio rileva anche se relativo ad
elementi non strutturali della costruzione, come
rivestimenti o pavimentazione.
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità è del tutto
uniforme in questo senso, e dunque la Cassazione ha fatto
corretta applicazione di consolidati principi di diritto.
Cfr., tra le molte:
• Cass. civ. sez. II, 04.10.2011, n. 20307: “Il "difetto
di costruzione" che, a norma dell'art. 1669 cod. civ.,
legittima il committente all'azione di responsabilità
extracontrattuale nei confronti dell'appaltatore, come del
progettista, può consistere in una qualsiasi alterazione,
conseguente ad un'insoddisfacente realizzazione dell'opera,
che, pur non riguardando parti essenziali della stessa (e
perciò non determinandone la "rovina" o il "pericolo di
rovina"), bensì quegli elementi accessori o secondari che ne
consentono l'impiego duraturo cui è destinata, incida
negativamente e in modo considerevole sul godimento
dell'immobile medesimo” (conformi: Cass. civ. sez. II,
29.04.2008, n. 10857; Cass. civ. sez. II, 04.11.2005, n.
21351);
• Cass. civ. sez. II, 06.02.2009, n. 3040: “Il difetto di
costruzione che, ai sensi dell'art. 1669 c.c., legittima il
committente alla relativa azione può consistere in una
qualsiasi alterazione, conseguente ad un'insoddisfacente
realizzazione dell'opera, che, pur non riguardando parti
essenziali della stessa (e perciò non determinandone la
"rovina" od il "pericolo di rovina"), bensì quegli elementi
accessori o secondari che ne consentono l'impiego duraturo
cui è destinata (quali, ad esempio, le condutture di
adduzione idrica, i rivestimenti, l'impianto di
riscaldamento, la canna fumaria), incida negativamente ed in
modo considerevole sul godimento dell'immobile medesimo
(Cass. n. 11740/2003, n. 117/2000 ed altre, precedenti e
successive, conformi)”;
• Cass. civ. sez. II, 28.04.2004, n. 8140: “Configurano
gravi difetti dell'edificio a norma dell'art. 1669 c.c.
anche le carenze costruttive dell'opera -da intendere anche
come singola unità abitativa- che pregiudicano o menomano in
modo grave il normale godimento e/o la funzionalità e/o
l'abitabilità della medesima, come allorché la realizzazione
è avvenuta con materiali inidonei e/o non a regola d'arte ed
anche se incidenti su elementi secondari ed accessori
dell'opera (quali impermeabilizzazione, rivestimenti,
infissi, pavimentazione, impianti, ecc.), purché tali da
compromettere la sua funzionalità e l'abitabilità ed
eliminabili solo con lavori di manutenzione, ancorché
ordinaria, e cioè mediante opere di riparazione,
rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici o
che mediante opere che integrano o mantengono in efficienza
gli impianti tecnologici installati”.
Ora, se la questione, dal punto di vista giuridico, non
sembra porre grandi interrogativi, qualche perplessità sorge
invece, dal punto di vista della politica del diritto, avuto
riguardo agli interventi legislativi, passati e annunciati,
in tema di disincentivo alle impugnazioni delle sentenze.
Tra quesiti di diritto (prima introdotti e poi cancellati),
aumenti esponenziali del contributo unificato, filtri di
ammissibilità e limitazioni ai motivi di ricorso per
Cassazione (cfr. le modifiche introdotte al codice di
procedura civile dal D.L. 83/2012, convertito con
modificazioni dalla L. 134/2012), il legislatore sembra
porre una grande fiducia sul principio che decide bene chi
decide per primo, e sembra invitare il cittadino che incorre
in una sentenza ingiusta a non insistere, a lasciare
perdere, ché tanto il sistema giudiziario ha altro di cui
occuparsi che non accertare i torti e le ragioni.
A noi sembra invece (e la fattispecie in esame lo dimostra)
che il sistema giudiziario esista apposta per ciò da cui lo
si vuole, in modo non dichiarato ma sempre più evidente,
sottrarre, e nell’assistere impotenti al continuo
assottigliarsi delle possibilità di far valere i propri
diritti (guai a protestare: “la casta degli avvocati
difende i propri privilegi!”, la risposta pronta, mai
nel merito, sarebbe sempre la stessa) ricordiamo le parole
di Alberto Sordi, nel film “Tutti dentro” (1984), il
cui protagonista, magistrato incorrotto che si ritrova sotto
inchiesta, dichiara, ci auguriamo non profeticamente: “Io
mi chiedo se è ancora utile investire tante energie per
l’applicazione delle leggi, o se invece, rinunciando a vacue
speranze e ad aspettative mai ripagate, non ci convenisse
accettare l’ingiustizia come regola e non come eccezione.
Questo nella speranza, ovviamente, che almeno l’ingiustizia
sia uguale per tutti” (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 12.04.2012 n. 9119 -
link a www.altalex.com). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Sì alla decadenza del consigliere comunale
assente per tre sedute consecutive.
E’ legittima la delibera con cui viene dichiarata la
decadenza dalla carica di consigliere comunale che senza un
giustificato motivo, si assenti per tre sedute consecutive,
nella ipotesi in cui lo statuto comunale prevede che i
consiglieri abbiano l’onere di giustificare per iscritto
l’assenza entro il termine di 10 giorni dalla seduta stessa.
Così il Consiglio di Stato, nella Sez. V, ha deciso con la
sentenza 24.03.2011 n. 1789, decidendo sulla legittimità
o meno della delibera di decadenza del consigliere che aveva
presentato le proprie giustificazioni e controdeduzioni
solamente riscontrando la comunicazione di avvio del
procedimento di decadenza.
Nella sentenza de qua si afferma testualmente che …….”Correttamente,
in definitiva, i primi giudici hanno ritenuto la legittimità
del provvedimento impugnato, sia sotto il profilo della
mancanza tempestiva giustificazione delle assenze
contestate, sia sotto il profilo della tardività delle
giustificazioni stesse, prodotte solo con l’atto di
controdeduzioni alla comunicazione di avvio del procedimento
di decadenza, sia sotto il profilo probatorio, essendo stati
prodotti fotocopie di certificati medici, senza neppure
giustificare la causa dell’eventuale impossibilità di
produrre i relativi originali”.
Precedenti giurisprudenziali.
È illegittima la deliberazione del consiglio comunale che
dichiara la decadenza dalla carica di un consigliere
comunale per assenza ingiustificata a tre sedute consecutive
del Consiglio (facendo applicazione dello statuto comunale
laddove prevede che un consigliere comunale che non
partecipi, senza giustificato motivo, a tre sedute
consecutive del Consiglio venga dichiarato decaduto),
dovendosi considerare giustificata l’assenza del consigliere
ad una seduta, in quanto impegnato nella propria attività
lavorativa. Al riguardo va considerato che la possibilità di
ottenere permessi retribuiti dal proprio datore di lavoro,
in concomitanza agli impegni connessi ad un mandato di
consigliere comunale, non significa l’obbligo di
richiederli, ben potendo un cittadino responsabile valutare,
di volta in volta, l’opportunità di essere presente al
proprio posto di lavoro ovvero alla seduta del Consiglio
Comunale di cui fa parte (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I ,
16.04.2010, n. 5377).
La dichiarazione di decadenza del consigliere comunale che
non partecipa alle sedute del consiglio presuppone sempre
una valutazione approfondita delle giustificazioni delle
assenze addotte dall'interessato (TAR Puglia Bari,
07.11.2006, n. 3903).
Le prerogative del consigliere comunale non si esauriscono
nella partecipazione alle sedute dell'organo cui appartiene,
ma contemplano lo svolgimento di tutta una serie di attività
individuali di carattere propulsivo, conoscitivo e di
controllo.
L'astensionismo ingiustificato di un consigliere comunale
dalle sedute dell'organo cui appartiene è una legittima
causa di decadenza qualora l’amministratore mostra
disinteresse e negligenza nell'adempiere il proprio mandato,
con ciò generando non solo difficoltà di funzionamento
dell'organo collegiale cui appartiene, ma violando l'impegno
assunto con il corpo elettorale che lo ha eletto e che
ripone in lui la dovuta fiducia politico-amministrativa.
Diversamente, l'astensionismo deliberato e preannunciato,
ancorché superiore al periodo previsto ai fini della
decadenza, è da considerarsi uno strumento di lotta
politico-amministrativa a disposizione delle forze di
opposizione per far valere il proprio dissenso a fronte di
atteggiamenti ritenuti non partecipativi, dialettici e
democratici delle forze di maggioranza a cui non può
conseguire la sanzione della decadenza dalla carica di
consigliere (TAR Lombardia, Sez. Brescia, 10.04.2006 n. 383)
(link a www.altalex.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il piano paesistico può impedire la costruzione
della piscina.
L’art. 1-quinquies della L. 08.08.1985, n. 431 (Conversione
in legge, con modificazioni, del d.l. 27.06.1985, n. 312,
recante disposizioni urgenti per la tutela delle zone di
particolare interesse ambientale) instaura un rigoroso
regime di regolamentazione degli interventi modificativi del
territorio e delle opere edilizie da compiersi in aree, che,
per importanza paesistica ed ambientale, sono da ritenersi
di notevole interesse pubblico (ai sensi del D.M. del
21.09.1984 sono da ricomprendersi in questa categoria i
territori costieri, i territori contermini ai laghi, i
fiumi, i torrenti, i corsi d’acqua, le montagne, i
ghiacciai, i circhi glaciali, i parchi, le riserve, i
boschi, le foreste, le aree assegnate alle Università
agrarie e le zone gravate da usi civici).
La predetta legge, vieta, sino all’adozione, da parte delle
regioni, di piani attuativi conservativi dei valori
paesistici ed ambientali, ogni modificazione dell’assetto
del territorio nonché ogni opera edilizia, con esclusione
degli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria,
di consolidamento statico e di restauro conservativo che non
alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli
edifici.
Il piano territoriale paesistico ed i
vincoli da esso derivanti.
Questo particolare piano attuativo pone dei vincoli, in
funzione della tutela del valore paesistico ed ambientale di
alcune zone, che si traducono in incisive limitazioni delle
facoltà del titolare del diritto dominicale riguardo,
segnatamente, all’esercizio dello ius aedificandi.
Nel caso di specie, i Giudici di Palazzo Spada evidenziano
che la costruzione di una piscina, in relazione alla sua
consistenza modificativa e trasformativa dell’assetto del
territorio, non si configura come riconducibile fra gli
interventi consentiti dal piano territoriale paesistico.
Difatti, qualora il piano volto a disciplinare la tutela
della zona spieghi effetti inibitori che prescindano
dall’elevazione o meno sul piano delle opere e dalla loro
consistenza volumetrica, anche la costruzione di una piscina
può incorrere nel divieto.
Nella pronuncia viene rilevato che nel caso posto al vaglio
del Consiglio di Stato la costruzione di una piscina nella
zona di protezione integrale altera, per effetto dello
scavo, l’andamento naturale del terreno e non può assumere
valenza di riqualificazione estetica delle aree
pertinenziali ai sensi del piano territoriale paesistico.
D’altronde, come evidenziato nella decisione, il piano
paesistico, “a differenza di uno strumento urbanistico,
non è volto al dimensionamento dei nuovi interventi, quanto
alla valutazione ex ante della loro tipologia ed incidenza
qualitativa” sul territorio (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 02.03.2011 n. 1300 -
link a www.altalex.com). |
|
|