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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di NOVEMBRE 2012

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aggiornamento al 26.11.2012

aggiornamento al 19.11.2012

aggiornamento al 15.11.2012

aggiornamento al 12.11.2012

aggiornamento al 06.11.2012

aggiornamento al 02.11.2012

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 26.11.2012

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DOTTRINA E CONTRIBUTI

URBANISTICA: G. Vitella, Brevi osservazioni alla deliberazione di Giunta Regionale n. IX/4300, seduta 26.10.2012 (26.11.2012 - tratto da www.ordinearchitettivarese.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: T. Grandelli e M. Zamberlan, I compensi per la progettazione tra vecchi e nuovi problemi (Risorse Umane n. 4-5/2012).

ATTI AMMINISTRATIVI: P. Terracciano, Il Parere di regolarità contabile è un parere di legittimità secondo la CdC a nulla servono i chiarimenti del Ministero dell’Interno ed i principi emanati dall’Osservatorio della Finanza Locale. Solo al giudice è affidato il compito di interpretare le disposizioni dell’ordinamento (Sezioni Unite Corte di Cassazione, decisione 23031/2007) (14.07.2012 - tratto da www.pinoterracciano.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: M. Lucca, Parere di regolarità contabile e viaggi all’estero (01.02.2012 - link a www.mauriziolucca.com).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: iscrizione all'albo pubblici dipendenti (Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati, nota 20.11.2012 n. 11925 di prot.).
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Finalmente: anche i geometri pubblici dipendenti -a tempo pieno- possono iscriversi all'albo professionale siccome già avviene per gli architetti e gli ingegneri.
Potremmo dire che è stata eliminata quella disparità di trattamento che sussisteva tra i laureati ed i diplomati: tuttavia, ci sembra un "conquista" improduttiva poiché nulla cambia sul piano pratico. Né prima, né adesso, i pubblici dipendenti diplomati a tempo pieno (ed anche i laureati) possono svolgere la libera professione !!
Quindi ?? Perché un geometra a tempo pieno dovrebbe iscriversi all'albo pagando annualmente (per far nulla) la relativa quota ??
26.11.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Modulistica di presentazione delle istanze, delle segnalazioni ed elle dichiarazioni, prevista nel decreto del Ministro dell'Interno 07.08.2012 (Ministero dell'Interno, nota 31.10.2012 n. 13552 di prot.).
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Tutta la modulistica, vecchia (sino al 26.112012) e nuova (dal 27.11.2012), è scaricabile cliccando qui.

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

PUBBLICO IMPIEGOPermessi, ok di Patroni Griffi.
I permessi previsti dalla legge 104 per i disabili gravi sono cumulabili con quelli per l'assistenza ad altro portatore di handicap grave: 3 giorni + 3 giorni per ogni mese.

E' quanto si evince dalla nota 05.11.2012 n. 44274 di prot. della funzione pubblica.
Il dipartimento ha fatto presente che, di solito, la fruizione dei permessi previsti dall'articolo 33, comma 3, avviene nella medesima giornata. E quindi, il disabile grave fruisce contemporaneamente sia del permesso per se stesso che quello per assistere l'altro portatore di handicap grave.
Ma può succedere che la fruizione dell'assenza sia necessitata dallo svolgimento di attività per conto dell'altro disabile, senza che esse avvengano in presenza del disabile medesimo. Di qui la liceità del cumulo. Va detto subito che palazzo Vidoni ha menzionato questo caso solo a titolo esemplificativo. Pertanto, esso non va inteso in senso tassativo. Tanto più che la casistica in cui potrebbe giustificarsi il cumulo è molto ampia e «una limitazione da questo punto di vista difficilmente potrebbe giustificarsi in base alla legge».
Dunque, il dipartimento ha preso atto che non sussistono elementi giuridicamente validi per impedire il cumulo dei permessi (articolo ItaliaOggi del 20.11.2012).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Tornare a tempo pieno è un diritto soggettivo del dipendente pubblico (CGIL-FP di Bergamo, nota 19.11.2012).

PUBBLICO IMPIEGO: TFS-TFR.
DOPO LA POSITIVA CONCLUSIONE DELLA VERTENZA SUL TFR ED IL RIPRISTINO DELL'INDENNITA' DI BUONUSCITA, SI PARTE CON I RICORSI PER LA RESTITUZIONE DELLE SOMME INDEBITAMENTE TRATTENUTE AI LAVORATORI GIA' IN REGIME DI TFR.
Dopo la nota sentenza della Corte Costituzionale, emanata a seguito dei numerosi ricorsi presentati e la pronta emanazione, da parte del Governo, del DL 185 che ha di fatto ripristinato per tutti i lavoratori già in servizio al 31.12.2000 il trattamento di fine servizio o buonuscita, la UIL PA intende procedere alla verifica, in sede giudiziaria, della legittimità delle trattenute operate da molte amministrazioni sulle retribuzioni dei lavoratori assunti dopo il 31.12.2000, in regime di Trattamento di Fine Rapporto ai sensi dell'art. 2120 CC.
Da accertamenti effettuati sui cedolini dello stipendio di molti di questi colleghi sembra che continui ad essere operata la trattenuta del 2,5% in favore delle gestioni previdenziali ex INPDAP.
D'intesa con il nostro studio legale convenzionato Avv. Galleano, stiamo predisponendo una serie di ricorsi ai Tribunali del Lavoro di alcune città campione (Roma, Milano, Foggia, Torino, Venezia, Napoli) per l'accertamento della illegittimità della trattenuta.
I costi dei ricorsi pilota, come sempre, sono a totale carico della UIL PA ed i lavoratori iscritti non dovranno versare alcun contributo.
In allegato una illustrazione della situazione vigente, commentata alla luce delle recenti novità intervenute (19.11.2012 - link a www.uilpa.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 26.11.2012, "Nuove misure fitosanitarie obbligatorie contro il cinipide del castagno Dryocosmus Kuriphilus Yasumatsu in Lombardia" (decreto D.U.O. 21.11.2012 n. 10528).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 26.11.2012, "Certificazione energetica degli edifici: modifiche ed integrazioni alle disposizioni allegate alla d.g.r. 8745 del 22.12.2008 e alla d.g.r. 2555 del 24.11.2011" (deliberazione G.R. 21.11.2012 n. 4416).

TRIBUTI: G.U. 23.11.2012 n. 274 "Regolamento da adottare ai sensi dell’articolo 91-bis, comma 3, del decreto-legge 24.01.2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n. 27 e integrato dall’articolo 9, comma 6, del decreto-legge 10.10.2012, n. 174" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 19.11.2012 n. 200).
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NDR: Le disposizioni del presente regolamento sono dirette a stabilire, ai sensi dell’articolo 91-bis , comma 3, del decreto-legge 24.01.2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n. 27, le modalità e le procedure per l’applicazione proporzionale, a decorrere dall'01.01.2013, dell’esenzione dall’IMU per le unità immobiliari destinate ad un’utilizzazione mista, nei casi in cui non sia possibile procedere, ai sensi del comma 2 del citato articolo 91-bis , all’individuazione degli immobili o delle porzioni di immobili adibiti esclusivamente allo svolgimento delle attività istituzionali con modalità non commerciali.

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 23.11.2012, "Aggiornamento e modifica del decreto n. 6154 dell’11.07.2012" (decreto D.G. 15.11.2012 n. 10267).
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NDR: il suddetto decreto approva il documento dal titolo "L’impiego di apparecchiature per il trattamento dell’acqua destinata al consumo umano: linee guida per l’attività di vigilanza e controllo – aggiornamento e modifica del Decreto n. 6154 dell'11.07.2012".

CORTE DEI CONTI

LAVORI PUBBLICICorte dei conti. Contratti di disponibilità. Vincoli di bilancio «pesati» sul rischio.
È la ripartizione del rischio il criterio per la valutazione degli aspetti contabili del contratto di disponibilità.

Lo ha affermato la Corte dei conti, sezione Lombardia, nel parere 23.10.2012 n. 439.
Un ente ha chiesto se il contratto di disponibilità possa comportare la violazione dei tetti agli interessi passivi, e se per il Patto il canone vada imputato alla spesa corrente (Titolo I, int. 4) o in conto capitale imputarsi alla spesa corrente o a quella in conto capitale
Il contratto di disponibilità rientra nell'ambito del partenariato pubblico-privato contrattuale, che pone il rischio in capo al privato. Il contratto prevede l'affidamento, a rischio e spesa del privato, della costruzione e messa a disposizione della Pa aggiudicatrice di un'opera di proprietà privata destinata all'esercizio di un pubblico servizio a fronte di un corrispettivo.
La legge, secondo la Corte, riconosce la possibilità di personalizzare la causa giuridica del contratto in base alle esigenze dell'opera, potendosi integrare il canone con altri corrispettivi monetari. Di conseguenza, spetta all'interprete valutarne le caratteristiche anche per definire i corretti profili di finanza pubblica, verificando che, nella ripartizione del rischio, siano rispettati gli indirizzi di Eurostat. In particolare va tenuta presente la decisione 11/02/2004 sul trattamento contabile delle partnership, dove si chiarisce che non rilevano nei conti delle Pa, ai fini dell'indebitamento netto e del debito, i contratti che prevedano un sostanziale trasferimento di rischio al privato.
Perché questo accada, il privato deve assumersi il rischio costruzione e uno fra il rischio disponibilità (impossibilità di pagamenti costanti in caso di scadenti o insufficienti modalità di gestione dell'opera in termini di quantità e qualità del servizio) e il rischio domanda (impossibilità di pagamenti garantiti per prestazioni non erogate a causa della minore domanda del servizio).
Nello specifico dei quesiti, la Corte ritiene che se non vi sia il trasferimento del rischio al privato, il contratto debba essere considerato indebitamento, rilevando così anche sui limiti agli interessi passivi. L'impatto dovrebbe però essere limitato agli oneri riferibili alla parte di finanziamento.
Circa la rilevanza ai fini del patto, invece, dal parere (sibillino) si può dedurre che se c'è un corretto trasferimento del rischio, non essendo il contratto qualificabile come indebitamento, il canone possa essere imputato a spesa corrente (articolo Il Sole 24 Ore del 19.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

QUESITI & PARERI

APPALTI: Giudizio di non anomalia.
Domanda
Quali sono i limiti e la sindacabilità delle scelte dell'Amministrazione da parte del Giudice Amministrativo riguardo al giudizio di non anomalia?
Risposta
Nelle gare di appalto, riguardo al giudizio di non anomalia, in relazione alla natura, all'oggetto ed ai limiti del sindacato esercitabile dal Giudice Amministrativo, bisogna sottolineare che vi è un'ampia espressione di quello che è definito un potere ampiamente discrezionale, connotato da elementi di tecnicismo non direttamente sindacabili dal Giudice Amministrativo.
Viene, ovviamente, fatto salvo e tutelato il limite della manifesta abnormità; inoltre, la discrezionalità tecnica è assimilabile al merito, vale a dire al concetto di opportunità dell'azione amministrativa, con conseguente preclusione al Giudice Amministrativo di qualsiasi sindacato di tipo intrinseco.
Infine, la positiva valutazione di congruità della presunta offerta anomala è sufficientemente istruita e motivata per relationem alle giustificazioni rese dall'impresa offerente, sempre che queste ultime non siano manifestamente illogiche (21.11.2012 - tratto da www.ipsoa.it).

APPALTI: Responsabilità solidale negli appalti.
Domanda
Quale titolare di un'azienda di trasporti chiedo se prima di pagare le fatture ai miei subappaltatori devo farmi rilasciare da ciascuno una dichiarazione asseverata del loro commercialista che hanno regolarmente versato l'Iva e l'Irpef dei loro lavoratori dipendenti impegnati nell'appalto. E se in mancanza di questa, posso rifiutarmi di pagare.
Risposta
Con circolare n. 40 dello scorso 8 ottobre, l'Agenzia delle entrate ha innanzitutto precisato che le disposizioni che prevedono l'obbligo dell'appaltatore di verificare gli adempimenti fiscali consistenti nel versamento delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente e nel versamento dell'Iva per le prestazioni effettuate nell'ambito del subappalto, trovano applicazione solo per i contratti stipulati a decorrere dal 12.08.2012, data di entrata in vigore della nuova normativa (art. 13-ter dl n. 83/2012).
Inoltre, in base allo statuto del contribuente, si deve ritenere che tali adempimenti siano esigibili a partire dal sessantesimo giorno successivo, con la conseguenza che la certificazione deve essere richiesta solamente in relazione ai pagamenti effettuati a partire dall'11.10.2012, in relazione ai contratti stipulati a partire dal 12.08.2012.
Per quanto riguarda la documentazione che i subappaltatori devono produrre per dimostrare di aver adempiuto ai propri obblighi, l'Agenzia delle entrate ritiene valida, in alternativa alle asseverazioni prestate dai professionisti abilitati, una dichiarazione sostitutiva, resa ai sensi del dpr n. 445 del 2000, con cui i subappaltatori attestino l'avvenuto adempimento degli obblighi richiesti dalla disposizione.
La mancanza di tale documentazione autorizza l'appaltatore a non pagare i subappaltatori (articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2012).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIEsiste una proposta di direttiva che modifica la disciplina della VIA? Perché? (06.11.2012 - link a www.ambientelegale.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIQuali sono i termini della proposta di modifica della Commissione UE alla disciplina della VIA? (06.11.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIANelle zone terremotate dell’Emilia è applicata la disciplina della terre e rocce da scavo da ultimo introdotta con DM 61/2012? (06.11.2012 - link a www.ambientelegale.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Personale degli enti locali. Parere di regolarità tecnica/contabile.
Il parere di regolarità tecnica/contabile prescritto dall'art. 49 del d.lgs. 267/2000 deve essere richiamato nelle deliberazioni ed acquisito preventivamente all'adozione degli atti.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla competenza a firmare il parere di regolarità tecnica/contabile sull'originale atto di Consiglio o di Giunta, qualora alla data di adozione dell'atto il rispettivo responsabile risulti assente, ancorché il parere sia stato reso preventivamente.
Com'è noto, l'art. 49 del d.lgs. 267/2000 prescrive che, su ogni proposta di deliberazione sottoposta al Consiglio e alla Giunta che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere in ordine alla sola regolarità tecnica del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti impegno di spesa o diminuzione di entrata, del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile.
I predetti pareri debbono essere acquisiti preventivamente all'adozione degli atti deliberativi, sono inseriti nella deliberazione cui si riferiscono, e la funzione dei medesimi è quella di individuare, sul piano formale, i funzionari responsabili, in via amministrativa e contabile ed eventualmente in solido con i componenti degli organi deliberanti, delle deliberazioni da questi assunte [1].
Il parere tecnico comporta la responsabilità di attestare che l'atto corrisponde all'attività istruttoria compiuta, ai fatti acquisiti nell'attività istruttoria, e che, nella sua composizione formale, è conforme a quanto disposto dalla normativa sulla formazione della deliberazione nel suo aspetto estrinseco. Con l'espressione del suddetto parere, inoltre, nulla si attesta in ordine alla legittimità delle ragioni di merito che sottostanno alla deliberazione adottata.
La giurisprudenza peraltro è concorde nel ritenere che i pareri espressi dai responsabili dell'area tecnica e del servizio finanziario dei comuni costituiscono atti preparatori che non possono certo interferire sull'autonomo e corretto esercizio dei poteri spettanti all'organo deliberante; a quest'ultimo compete, infatti, la ponderazione concreta e corretta dei pubblici interessi in gioco, al di là della mera relazione funzionale dei pareri resi, che sono formulati 'ex ante' sulla proposta di deliberazione e costituiscono il presupposto al corretto esercizio dei poteri amministrativi dell'organo deliberante, senza condizionare la volontà dello stesso [2] .
Premesso un tanto, si evince come i pareri in argomento siano acquisiti in una fase comunque precedente all'adozione delle deliberazioni di riferimento e non debbano, quindi, essere necessariamente resi nella stessa giornata in cui l'organo deliberante adotta il formale atto.
Conseguentemente, al momento dell'adozione dell'atto il parere richiamato nella deliberazione reca già la firma del funzionario competente, che ha provveduto in precedenza ad effettuare le verifiche del caso, assumendosi la responsabilità di quanto attestato e ha apposto la firma prescritta in tale sede.
Il fatto che poi lo stesso funzionario responsabile risulti assente il giorno dell'adozione dell'atto deliberativo si ritiene non assuma rilevanza, in quanto l'attività istruttoria si è già conclusa con l'emissione del parere firmato dal medesimo in una determinata data.
In conclusione, il responsabile competente provvederà a firmare poi l'originale dell'atto non appena consentitogli materialmente.
---------------
[1] Cfr. TAR Napoli, Campania, sez. I, n. 1320 del 2009.
[2] Cfr. Corte dei conti, sez. giur. d'appello per la Sicilia, n. 1 del 13.01.2009
(29.02.2012 - link a link a www.regione.fvg.it).

NEWS

CONDOMINIOLA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ La distinzione tra decisioni contrattuali e deliberative. Nuovi millesimi, serve unanimità. La rettifica per errore può invece avvenire a maggioranza.
Per cambiare le tabelle millesimali condominiali non ci vuole sempre l'unanimità; la rettifica per errore o mutamento dello stato dell'immobile può avvenire a maggioranza.
La riforma del condominio precisa quando la decisione sui valori proporzionali delle singole unità immobiliari ha natura contrattuale (e ci vuole l'accordo di tutti) e quando, invece, ha natura deliberativa (e basta la maggioranza). Vediamo, dunque, il nuovo articolo 69 delle disposizioni per l'attuazione del codice civile, partendo dalla situazione del codice civile previgente.
Nella normativa previgente, spiegano gli atti parlamentari, secondo l'orientamento tradizionale, l'approvazione o la revisione delle tabelle millesimali non poteva essere deliberata a maggioranza dall'assemblea condominiale. Come accade per il regolamento contrattuale, si riteneva invece necessario il consenso di tutti i condomini; in assenza di tale consenso unanime, alla formazione delle tabelle provvedeva il giudice su istanza degli interessati, in contraddittorio con tutti i condomini.
Tra gli argomenti a sostegno della tesi dell'unanimità, si affermava che la materia non rientrava tra le competenze della assemblea e che l'approvazione delle tabelle si risolverebbe in un atto negoziale di accertamento, cioè una manifestazione di volontà volta ad accertare il contenuto di diritti reali spettanti a ciascun condomino.
Una sentenza della Corte di cassazione si è pronunciata, a Sezioni Unite, in materia di approvazione e modifica delle tabelle millesimali allegate al regolamento di condominio rendendo più facile l'intervento dell'assemblea condominiale (Cassazione civile, S.U., sentenza 09.08.2010, n. 18477). Per la Cassazione, infatti, «le tabelle millesimali non devono essere approvate con il consenso unanime dei condomini, essendo sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'articolo 1136 codice civile, comma 2 (voto a maggioranza degli intervenuti e che rappresenti almeno la metà del valore dell'edificio)».
Il nuovo articolo 69 citato comincia con il disporre che i valori proporzionali delle singole unità immobiliari espressi nella tabella millesimale possono essere rettificati o modificati all'unanimità.
L'assemblea totalitaria è sovrana e può decidere la misura dei millesimi, anche eventualmente, se i condomini lo vogliono, senza corrispondenza precisa con lo stato di fatto. No si può escludere ì, infatti che i condomini intendano modificare la portata dei loro rispettivi diritti e obblighi di partecipazione alla vita del condominio. Ma questa non è l'unica via per la modifica dei millesimi.
La norma prosegue prescrivendo che in alcuni casi i valori possono essere rettificati o modificati anche nell'interesse di un solo condomino, con la maggioranza prevista dall'articolo 1136, secondo comma, del codice civile (maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio).
I casi di modifica a maggioranza sono: valori conseguenza di un errore; alterazione per più di un quinto del valore proporzionale dell'unità immobiliare anche di un solo condomino, in conseguenza di mutate condizioni di una parte dell'edificio, in conseguenza di sopraelevazione, di incremento di superfici o di incremento o diminuzione delle unità immobiliari.
In questo caso il costo è sostenuto da chi ha dato luogo alla variazione.
A questo proposito va sottolineato che per errore si intende la obiettiva divergenza tra il valore effettivo delle singole unità immobiliari e il valore proporzionale ad esse attribuito.
Inoltre, allo scopo di rivedere i valori proporzionali espressi nella tabella millesimale allegata al regolamento di condominio, può essere convenuto in giudizio unicamente il condominio in persona dell'amministratore. Questi è tenuto a darne senza indugio notizia all'assemblea dei condomini. L'amministratore che non adempie a quest'obbligo può essere revocato ed è tenuto al risarcimento degli eventuali danni.
Le norme richiamate si applicano per la rettifica o la revisione delle tabelle per la ripartizione delle spese redatte in applicazione dei criteri legali o convenzionali.
Infine va ricordato che il Condominio può esperire l'azione di indebito arricchimento per far valere le proprie ragioni contro il singolo condomino che si è avvalso di un errore nelle tabelle millesimali per non concorrere alle spese (articolo ItaliaOggi del 24.11.2012).

CONDOMINIOLA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Le deliberazioni impugnabili anche dagli astenuti. Assemblee ad assetto variabile. Maggioranza semplice per le modifiche di minore rilievo.
Maggioranze più snelle e deliberazioni impugnabili anche dagli astenuti. Per cambiare la tabella millesimale ci vuole l'unanimità, ma basta la maggioranza se la variazione riguarda una rettifica per un solo condomino, anche a seguito di sopraelevazione o aumento delle unità.
Queste le novità della legge di riforma del condominio, che riscrive l'articolo 1136 del codice civile, attesa alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Vediamo come.
L'assemblea in prima convocazione è regolarmente costituita con l'intervento di tanti condomini che rappresentino i due terzi del valore dell'intero edificio e la maggioranza dei partecipanti al condominio.
Nella vecchia versione occorreva il medesimo quorum di millesimi, ma un più alto quorum per teste: questo significa che sarà più facile far svolgere l'assemblea in prima convocazione.
Per l'approvazione delle deliberazioni occorre un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio. Il computo della maggioranza per l'assemblea in prima convocazione è rimasto invariato (ma calcolato su un diverso quorum partecipativo).
Se l'assemblea in prima convocazione non può deliberare per mancanza di numero legale, l'assemblea in seconda convocazione delibera in un giorno successivo a quello della prima e, in ogni caso, non oltre dieci giorni dalla medesima.
Quindi non ci possono essere prima e seconda convocazione nello stesso giorno. La riforma inserisce una soglia per considerare regolarmente costituita l'assemblea in seconda convocazione: occorre l'intervento di tanti condomini che rappresentino almeno un terzo del valore dell'intero edificio e un terzo dei partecipanti al condominio. Per l'approvazione delle deliberazioni occorre la maggioranza degli intervenuti con un numero di voti che rappresenti almeno un terzo del valore dell'edificio.
Una maggioranza qualificata ci vuole per le deliberazioni che concernono la nomina e la revoca dell'amministratore o le liti attive e passive relative a materie che esorbitano dalle attribuzioni dell'amministratore medesimo, quelle che concernono la ricostruzione dell'edificio o riparazioni straordinarie di notevole entità e le deliberazioni di cui agli articoli 1117-ter (tutela delle destinazioni di uso), 1120, secondo comma (opere per sicurezza impianti, eliminazione barriere architettoniche, contenimento consumo energetico, realizzazione parcheggi, installazione pannelli solari, impianti centralizzati di ricezione televisiva e dati), 1122-ter (impianti di videosorveglianza) nonché 1135, secondo comma (manutenzione straordinaria): devono essere sempre approvate con la maggioranza stabilita dal secondo comma, e cioè maggioranza degli intervenuti rappresentante almeno la metà del valore dei millesimi.
Le deliberazioni di cui all'articolo 1120, primo comma (innovazioni), e all'articolo 1122-bis, terzo comma (prescrizioni e cautele per impianti individuali di ricezione televisiva e di produzione di energia da fonti non rinnovabili), devono essere approvate dall'assemblea con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno i due terzi del valore dell'edificio.
L'articolo 1136 nuova versione conferma che l'assemblea non può deliberare, se non consta che tutti gli aventi diritto sono stati regolarmente convocati.
Infine, delle riunioni dell'assemblea si redige processo verbale da trascrivere nel registro tenuto dall'amministratore.
IMPUGNAZIONI
La regola della maggioranza impone che le deliberazioni prese dall'assemblea sono obbligatorie per tutti i condomini.
La riforma allarga la platea dei soggetti che possono impugnare la deliberazione. Il codice civile, nella vecchia versione, si riferiva ai condomini assenti e a quelli dissenzienti. Si aggiunge ora la categoria degli astenuti.
Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio ogni condomino assente, dissenziente o astenuto, dunque, può rivolgersi all'autorità giudiziaria chiedendone l'annullamento.
Rimane il termine di decadenza di 30 giorni, trascorsi i quali la deliberazione si consolida.
Il termine di 30 giorni decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti.
L'azione di annullamento non sospende l'esecuzione della deliberazione, salvo che la sospensione sia ordinata dall'autorità giudiziaria.
L'istanza per ottenere la sospensione proposta prima dell'inizio della causa di merito non sospende né interrompe il termine per la proposizione dell'impugnazione della deliberazione.
MILLESIMI
Per la rettifica e modifica della tabelle dei millesimi (valori proporzionali delle singole unità immobiliari) di regola ci vuole l'unanimità.
Tuttavia in alcuni casi basta la maggioranza degli intervenuti e la metà del valore dell'edificio: ciò vale per rettificare o modificare i millesimi anche nell'interesse di un solo condomino. Questo capita quando i valori sono conseguenza di un errore e a seguito di sopraelevazione, incremento di superfici o di incremento o diminuzione delle unità immobiliari, con conseguente alterazione di più di un quinto il valore proporzionale dell'unità immobiliare anche di un solo condomino. In questa ipotesi il relativo costo è sostenuto da chi ha dato luogo alla variazione (articolo ItaliaOggi del 23.11.2012).

LAVORI PUBBLICIDirettiva pagamenti, Tajani: si applica ai lavori pubblici.
La disciplina europea sui ritardati pagamenti si applica anche al settore dei lavori e in particolare alla progettazione e all'esecuzione di opere e edifici pubblici, nonché ai lavori di ingegneria civile.
È quanto conferma il vicepresidente della Commissione europea, Antonio Tajani, nella lettera 14.11.2012 con la quale risponde al presidente dell'Ance, Paolo Buzzetti, rispetto al problema dell'inclusione del settore delle costruzioni nell'ambito applicativo della nuova disciplina comunitaria sui ritardati pagamenti (direttiva 7/2011) recepita dal decreto 192 del 09.11.2012.
Il punto delicato, sollevato nei giorni scorsi non soltanto dall'Ance, ma anche da Confartigianato, Cna, Aniem, Ancpl e Oice, riguarda la nozione di «transazione commerciale» che il decreto prevede sia riferita ai contratti che hanno a oggetto «la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo». Da ciò il timore che interpretazioni restrittive possano escludere la realizzazione di opere pubbliche, nonostante la direttiva, in un «considerando», preveda esplicitamente che i settori cui si applica la disciplina «dovrebbero anche includere la progettazione e l'esecuzione di opere e edifici pubblici, nonché i lavori di ingegneria civile».
Nella lettera di risposta all'Ance il commissario europeo, dopo avere espresso apprezzamento per il fatto che l'Italia ha recepito la direttiva n. 7 ben prima del termine del 16.03.2013 (le norme del decreto 192 entreranno in vigore il 01.01.2013), afferma che il campo di applicazione della direttiva «riguarda tutti i settori produttivi senza eccezioni incluso il settore edile».
Per Tajani, «la nozione di fornitura di merci e di prestazione di servizi dietro corrispettivo include anche la progettazione e l'esecuzione di opere e edifici pubblici, nonché i lavori di ingegneria civile», come dice anche il considerando. Nei giorni scorsi, in alcune dichiarazioni alla stampa, anche il viceministro Ciaccia aveva confermato che le norme del decreto 192 sono da ritenersi applicabili anche ai lavori. A questo punto, per fugare ogni residuo e possibile dubbio, manca soltanto un piccolo intervento integrativo o interpretativo sul decreto 192 (articolo ItaliaOggi del 23.11.2012).

PUBBLICO IMPIEGODimissioni, niente convalida nella p.a..
La nuova procedura sulle dimissioni introdotta dalla riforma Fornero non si applica ai dipendenti pubblici almeno fino a quando non verrà recepita con appositi provvedimenti. Lo spiega il ministero del lavoro nell'interpello n. 35/2012, rispondendo all'Università di Firenze. Dal 18 luglio, la legge n. 92/2012 ha introdotto una nuova procedura di convalida delle dimissioni dal lavoro finalizzata a contrastare il cosiddetto fenomeno delle «dimissioni in bianco». La stessa legge, tuttavia, precisa che le nuove disposizioni «costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del dlgs n. 165/2001». Da tale norma, spiega il ministero, si evince che la nuova disciplina sulle dimissioni trova applicazione pure nei confronti del personale delle pubbliche amministrazioni ma soltanto una volta che saranno stati emessi i necessari provvedimenti di attuazione (articolo ItaliaOggi del 23.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIAnticorruzione con armi spuntate. Il segretario è il responsabile. Ma non può essere sanzionato.  Il sistema di prevenzione disegnato dalla legge 190 appare tarato solo sui dirigenti pubblici.
Inapplicabili ai segretari comunali le sanzioni previste dalla legge 190/2012 in capo alla figura del responsabile della prevenzione della corruzione.
La «legge anticorruzione» stabilisce che il responsabile della prevenzione negli enti locali coincida col segretario comunale, a meno che motivatamente non si assegni la funzione a un altro soggetto.
Tuttavia, il sistema delle sanzioni per il responsabile appare disegnato solo ed esclusivamente per i dirigenti pubblici e non si attaglia alla figura del segretario.
Per il responsabile sono elementi di valutazione della responsabilità dirigenziale «la mancata predisposizione del piano e la mancata adozione delle procedure per la selezione e la formazione dei dipendenti». Ma si vede subito come questa indicazione valga poco o nulla per il segretario comunale.
Il sistema della responsabilità dirigenziale è regolato dall'articolo 21, comma 1, del dlgs 267/2000, ai sensi del quale «il mancato raggiungimento degli obiettivi accertato attraverso le risultanze del sistema di valutazione di cui al Titolo II del decreto legislativo di attuazione della legge 04.03.2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni ovvero l'inosservanza delle direttive imputabili al dirigente comportano, previa contestazione e ferma restando l'eventuale responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, l'impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi, l'amministrazione può inoltre, previa contestazione e nel rispetto del principio del contraddittorio, revocare l'incarico collocando il dirigente a disposizione dei ruoli di cui all'articolo 23 ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo».
Come si nota, esso si fonda su tre livelli di sanzioni, connesse alla gravità della responsabilità dirigenziale rilevata: l'impossibilità di rinnovare, alla scadenza, l'incarico dirigenziale, oppure la revoca anticipata o, ancora, il recesso dal rapporto di lavoro.
Si tratta di una disciplina in gran parte incompatibile con la regolazione del rapporto dei segretari comunali, i quali dipendono, ancora per poco, dall'Agenzia per poi tornare nei ruoli del ministero dell'interno. Il recesso, dunque, non appare attivabile.
Ma, anche l'impossibilità del rinnovo dell'incarico non ha alcun senso. Il segretario comunale non può che avere l'incarico da segretario comunale. Semmai, la responsabilità dirigenziale connessa al ruolo di responsabile della prevenzione della corruzione potrebbe essere utile per levarsi il peso da dosso di tale incarico, ma ovviamente l'ente non potrebbe «non rinnovare l'incarico», posto che tale eventualità rimane esclusivamente legata al succedersi dei sindaci e dei presidenti delle province, dato lo spoils system particolarmente spinto che caratterizza lo status dei segretari.
Pertanto, l'unica vera e concreta sanzione attivabile per il segretari potrebbe essere quella della revoca dell'incarico. Ma tale istituto è regolato dal dlgs 267/2000 ed è connesso soprattutto alle funzioni tipicamente proprie del segretario.
Nella sostanza, questo primo lotto di responsabilità ha senso solo per i dirigenti veri e propri, molto meno, quasi riducendosi a pura forma, per i segretari comunali. Un secondo tipo di responsabilità, quella oggettivamente più sorprendente e meno giustificabile, è quella che rende il responsabile responsabile, appunto, per la condotta altrui.
La legge prevede che «in caso di commissione, all'interno dell'amministrazione, di un reato di corruzione accertato con sentenza passata in giudicato, il responsabile individuato ai sensi del comma 7 del presente articolo risponde ai sensi dell'articolo 21 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, nonché sul piano disciplinare, oltre che per il danno erariale e all'immagine della pubblica amministrazione».
La norma scarica sul responsabile, in primo luogo, la già vista «responsabilità dirigenziale», replicando gli stessi problemi di applicabilità ai segretari comunali visti prima. Vi è poi la responsabilità disciplinare, che nel sistema degli enti locali, data la posizione di autonomia spiccatissima del segretario, non si capisce bene chi potrebbe mai contestare.
Insomma, proprio con riferimento alle responsabilità del segretario, la legge 190/2012 rivela il suo eccessivo formalismo burocratico, che lascia pochi spazi alla concreta efficacia (articolo ItaliaOggi del 23.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGOGiro di vite su chi svolge una seconda attività.  Responsabilità erariale oltre all'obbligo di restituire i compensi.
Limitazioni alla possibilità di autorizzare i dipendenti e i dirigenti pubblici allo svolgimento di una seconda attività; maturazione di responsabilità erariale, oltre all'obbligo del versamento al proprio ente, in caso di percezione di compensi provenienti da seconde attività svolte illegittimamente dai dipendenti pubblici, comunicazione immediata alla Funzione pubblica degli incarichi conferiti e di quelli autorizzati a vantaggio del personale pubblico e divieto per i dipendenti pubblici collocati in quiescenza di ricevere incarichi di qualunque sorta da parte dei privati con cui si è avuto a che fare per ragioni di ufficio.
Sono queste le principali novità per il personale dipendente dalle p.a. contenute nel testo della legge anticorruzione.
La norma entrerà in vigore mercoledì 28 novembre, decorsi 15 giorni dalla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, immediatamente per questi aspetti. Non vi è ombra di dubbio nel fatto che queste prescrizioni si applicano a regioni ed enti locali in quanto sono dettate nella forma della modifica del dlgs n. 165/2001 e che esse entrano immediatamente in vigore
Ogni singola amministrazione dovrà darsi uno specifico regolamento per la disciplina del conferimento di incarichi a dipendenti pubblici e per il rilascio delle autorizzazioni a svolgere una seconda attività per i propri dipendenti. Nel regolamento deve essere prevista la maturazione la nuova ipotesi del «conflitto, anche potenziale, di interessi» come elemento di cui le p.a. devono tenere conto nel rilascio di autorizzazioni in aggiunta alla incompatibilità di diritto e di fatto ed alla tutela dell'interesse al buon funzionamento, nella individuazione delle condizioni che vietano sia il conferimento di incarichi sia l'autorizzazione a svolgerne per conto di altri soggetti.
I dipendenti e dirigenti pubblici che ricevono illegittimamente compensi erogati da altri soggetti per seconde attività svolte in modo illegittimo, ad esempio senza la prescritta autorizzazione, devono versare tali somme alla propria amministrazione. Questa è la conferma di un vincolo già operativo; l'elemento di novità è dato dal rafforzamento della sanzione: il mancato versamento di queste somme al proprio datore di lavoro determina la maturazione di responsabilità erariale.
Viene stabilito che tutte le p.a. devono comunicazione alla Funzione pubblica, in forma telematica, degli incarichi conferiti a dipendenti pubblici e di quelli attribuiti da altri soggetti ai propri dipendenti che hanno avuto una specifica e preventiva autorizzazione. Con una assai discutibile previsione si stabilisce che questo obbligo si estende anche agli incarichi conferiti in via gratuita. In precedenze queste informazioni dovevano essere trasmesse entro il 30 giugno di ogni anno, dopo la legge 190/2012 tale comunicazione deve essere effettuata entro i 15 giorni successivi. E deve contenere l'oggetto dell'incarico ed il compenso lordo; va corredata da una relazione con cui si indicano le disposizioni che sono alla base del conferimento dell'incarico, i criteri con cui i dipendenti sono stati scelti e le misure di contenimento di questo tipo di spesa.
Viene limitata la possibilità per i dipendenti pubblici cessati dal servizio di ricevere qualsivoglia tipo di incarico, anche sotto la forma della assunzione, da parte dei soggetti nei cui confronti «negli ultimi tre anni di servizio hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle p.a.». Da sottolineare la durezza delle sanzioni: nullità dei contratti che violano tale obbligo, divieto di contattare con tutte le p.a. per le aziende che violano il divieto e, ovviamente, restituzione dei compensi eventualmente percepiti (articolo ItaliaOggi del 23.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALILa giunta approva il Piano.
È la giunta comunale l'organo competente ad approvare il piano anticorruzione. La legge 190/2012 demanda all'«organo di indirizzo politico» il compito di adottare il piano, su proposta del dirigente responsabile della prevenzione della corruzione, che negli enti locali coincide col segretario comunale, a meno che motivatamente non si stabilisca di assegnare questo compito ad un altro soggetto.

La locuzione «organo di indirizzo politico» pone il problema di comprendere quale sia tale organo negli enti locali, in cui la funzione di indirizzo è ripartita tra consiglio, giunta e sindaco (nelle province a breve la giunta dovrebbe sparire).
Evidentemente il legislatore ha tenuto presente il modello dell'organo di indirizzo politico monocratico, tipico dell'assetto ministeriale, lasciando aperto il problema della corretta determinazione delle competenze negli enti locali. Ad un primo sguardo, sembrerebbe di poter concludere che la competenza sia del consiglio, considerando che ai sensi dell'articolo 42, comma 1, del dlgs 267/2000 «è l'organo di indirizzo e di controllo politico–amministrativo».
Tuttavia, non si deve dimenticare che il consiglio è competente esclusivamente ed in via tassativa per le sole attribuzioni ad esso assegnate dallo stesso articolo 42 del Tuel, il quale richiama solo programmi, mentre utilizza il lemma «piani» solo per quelli urbanistici. La tassatività delle competenze del consiglio, allora, porta a far ritenere che l'adozione del piano di prevenzione della corruzione ricada nell'organo dotato di competenza generale e residuale, ovvero la giunta, anche in relazione alla funzione fondamentalmente esecutiva e non di programmazione generale che riveste il piano anticorruzione.
Basti porre mente alla necessità che il responsabile della prevenzione della convenzione controlli in corso d'opera l'utilità e l'efficacia del piano ed al suo obbligo di proporne tempestivamente adeguamenti e modifiche, anche connesse a modifiche organizzative dell'ente. L'organizzazione è strettamente connessa al regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, unico regolamento che il Testo unico degli enti locali assegni alla competenza della giunta.
Considerando il valore di atto non di indirizzo generale, ma organizzativo, del piano di prevenzione della corruzione ed anche la non necessarietà di un dibattito tra maggioranza e opposizione sul tema e, ancora, una rilevante snellezza del procedimento di approvazione e revisione, sembra di poter affermare, allora, che la competenza ricada sulla giunta e non sul consiglio. Nel caso delle province, una volta soppresse le giunte, sarà il presidente della provincia a svolgerne le funzioni e dunque sarà detto organo monocratico competente ad approvare il piano e le relative modifiche (articolo ItaliaOggi del 23.11.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Il sindaco non può porre paletti alle richieste dei consiglieri comunali. Diritto di accesso illimitato. La tutela della privacy passa in secondo piano.
In assenza di apposite norme regolamentari di disciplina del diritto di accesso dei consiglieri, il sindaco può individuare autonomamente delle limitazioni al suddetto diritto, anche con riferimento ad esigenze di tutela dei dati personali?

L'esercizio del diritto di accesso è previsto dal secondo comma dell'articolo 43 del dlgs 267/2000, definito dal Consiglio di stato (sent. n. 4471/2005) «diritto soggettivo pubblico funzionalizzato», finalizzato al controllo politico-amministrativo sull'ente nell'interesse della collettività e, come tale, diverso dal diritto di accesso previsto dalla legge n. 241/1990, riconosciuto ai soggetti interessati allo scopo di predisporre la tutela di posizioni soggettive lese. Il diritto del consigliere comunale ad ottenere dall'ente tutte le informazioni utili all'espletamento del mandato non incontra neppure alcuna limitazione derivante dalla loro eventuale natura riservata, in quanto il consigliere è vincolato al segreto d'ufficio.
Gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi, per un verso, nel fatto che esso deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali (attraverso modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell'ente) e, per altro verso, che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche, ovvero meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso.
Anche la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi ha richiamato il consolidato principio giurisprudenziale, secondo cui il diritto del consigliere di accesso agli atti «non può subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica dell'ente con l'unico limite di poter esaudire la richiesta, qualora sia di una certa gravosità, secondo i tempi necessari per non determinare interruzione delle altre attività di tipo corrente».
Il consigliere deve quindi contemperare il diritto di accesso con l'esigenza di non intralciare lo svolgimento dell'attività amministrativa ed il regolare funzionamento degli uffici comunali, comportando ad essi il minor aggravio possibile, sia dal punto di vista organizzativo che economico. Sul tema dell'esercizio del diritto di accesso ad atti dell'amministrazione comunale da parte del consigliere comunale si è espressa la Commissione per l'acceso ai documenti amministrativi.
Relativamente all'ammissibilità dell'accesso ad atti istituzionali del comune mediante uso di tecnologie informatiche, nonché all'acquisizione in formato digitale (a mezzo Pec) delle deliberazioni consiliari e di giunta e dei relativi atti preparatori, la Commissione ha ritenuto che, sulla base del quadro normativo vigente e della oramai generalizzata diffusione degli strumenti informatici presso i soggetti pubblici e privati, «l'accesso telematico debba essere sempre consentito, soprattutto ove richiesto, non solo nei reciproci rapporti posti in essere tra le pubbliche amministrazioni e in quelli da esse intrattenuti con l'utenza privata, ma anche nei rapporti tra le stesse amministrazioni locali e i componenti eletti nei loro organi consiliari».
In merito alla problematica relativa all'accesso di un consigliere comunale agli elenchi dei contribuenti locali e dei cittadini morosi nel pagamento dei tributi comunali, la Commissione osserva che «la disposizione contenuta nell'art. 43, comma 2, Tuel riconosce al consigliere comunale il diritto di ottenere dagli uffici comunali tutte le notizie e le informazioni utili all'espletamento del proprio mandato e gli impone l'obbligo del segreto nei casi specificatamente determinati dalla legge. Indipendentemente dall'inclusione, fra i casi soggetti al segreto, della divulgazione dei contribuenti morosi, gli uffici comunali non possono limitare in alcun caso il diritto di accesso del consigliere comunale, ancorché possa sussistere il pericolo della divulgazione dei dati di cui il medesimo entri in possesso. La responsabilità di aver messo in condizione il consigliere comunale di conoscere dati sensibili cede di fronte al diritto di accesso incondizionato del medesimo, ma può essere invocata dal terzo eventualmente danneggiato solo nei confronti di chi (consigliere comunale) del suo diritto abbia fatto un uso contra legem».
Circa la possibilità che al sindaco sia riconosciuta la facoltà, in assenza di puntuali disposizioni regolamentari, di individuare autonomamente i limiti al diritto di accesso dei consiglieri, appare dirimente la sentenza del Tar Campania n. 19672/2008 con la quale è stato accolto il ricorso avverso un decreto sindacale recante la disciplina delle modalità di esercizio del diritto di accesso ex art. 43, comma 2, del dlgs 267/2000.
Il giudice amministrativo ha ritenuto sussistente il vizio di incompetenza considerato che la materia del diritto di accesso dei consiglieri avrebbe dovuto trovare la propria disciplina nel regolamento adottato dal consiglio comunale, «tenuto conto che il potere di informazione è uno dei tratti caratteristici del controllo affidato alla minoranza politica» (articolo ItaliaOggi del 23.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

SEGRETARI COMUNALIBotta e risposta dopo il varo del dl 174. Sul controllo strategico scontro tra Anci, segretari e direttori.
Tra le numerose forme di controllo sull'attività degli enti locali previste dalla legislazione vigente, riprese e potenziate dal decreto-legge 174 del 10 ottobre scorso, figura il controllo strategico. Di che si tratta? Esso rappresenta un aspetto cruciale della riforma della p.a. in quanto mira a verificare se e in quale misura siano stati realizzati gli obiettivi finali dell'ente intesi in termini di servizi resi ai cittadini. È pertanto evidente che tale forma di controllo presuppone l'esistenza di documenti di programmazione strategica e modelli di organizzazione e di gestione orientati al risultato. Presupposti che mancano in quasi tutte le amministrazione tanto che la Corte dei conti ha più volte segnalato la sostanziale inosservanza della norma in materia.
In realtà, la pianificazione strategica, che spetta agli organi di governo, è carente quasi ovunque e gli stessi strumenti di programmazione previsti dalla legge sono spesso vuoti di contenuto, inadeguati e tardivi (programma di governo, piani di sviluppo, strumenti di bilancio). In tale quadro, come si manifesta possibile dare concreta attuazione all'articolo 147 del Testo unico, come sostituito dal decreto 174, che sostanzialmente ripete la definizione e le finalità del controllo strategico diretto a «valutare l'adeguatezza delle scelte compiute in sede di attuazione dei piani, dei programmi e degli altri strumenti di determinazione dell'indirizzo politico, in termini di congruenza tra i risultati conseguiti e gli obiettivi predefiniti»? Come è possibile operare se i piani non ci sono o sono carenti e i risultati non sono individuati, né misurati?
Il decreto-legge va oltre e dispone che, nell'ambito della loro autonomia, gli enti locali disciplinano e organizzano il sistema dei controlli interni cui il controllo strategico appartiene. A detta organizzazione partecipano il segretario dell'ente, il direttore generale laddove previsto, i responsabili dei servizi e le unità di controllo. Un po' tutti insomma. Sul funzionamento del sistema vigila questa volta la Corte dei conti attraverso le sezioni regionali. A tali fini il sindaco, o il presidente della provincia, trasmette alla Corte un referto sulla regolarità della gestione e sull'efficacia e sull'adeguatezza del sistema dei controlli interni avvalendosi del direttore generale o del segretario negli enti in cui non è prevista la figura del dg. Ancora, il decreto 174 prevede che debba essere istituita una unità organizzativa preposta al controllo strategico che effettua rilevazioni ed elabora rapporti periodici da sottoporre alla giunta e al consiglio.
 E qui si innesta un'aspra querelle tra l'Anci, l'Unione dei segretari e l'Andigel, l'associazione dei direttori generali degli enti locali. È accaduto infatti che in sede di esame del decreto da parte della commissione affari costituzionali della camera è stato approvato, tra gli altri, un emendamento che pone tout court l'unità organizzativa suddetta «sotto la direzione del segretario comunale». L'emendamento non fa menzione alcuna del direttore generale laddove previsto, come nel caso della trasmissione del referto alla Corte dei conti. L'Anci interviene con un comunicato del presidente in cui si rappresenta l'inopportunità di affidare la suddetta direzione al segretario.
Con un duro comunicato, l'Unione nazionale dei segretari stigmatizza l'intervento di Delrio, chiede addirittura di riconsiderare la propria posizione, conferma la proposta di un direttore operativo che supporti e non sostituisca le funzioni e le competenze del segretario. Non meno duro il comunicato del presidente dell'Andigel che considera l'emendamento «un colpo di mano e un insulto a qualsiasi principio di autonomia e che conferma una pericolosa involuzione centralistica in corso».
Si ripropone dunque lo scontro tra le due unità di vertice determinatosi in seguito alla introduzione negli enti locali di maggiori dimensioni della figura del direttore generale prevista dalla riforma Bassanini del 1997. Oggi, a distanza di 15 anni il problema non è stato ancora risolto (articolo ItaliaOggi del 23.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

CONDOMINIOLA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Condomini morosi, meno privacy. L'amministratore può svelare il nome di chi non è in regola. Cosa cambia nelle comunicazioni con la legge approvata.
Il condomino moroso perde un po' della sua privacy. L'amministratore, secondo la legge di riforma del condominio, approvata definitivamente dalle camere martedì scorso e ora in attesa della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, è tenuto a comunicare i dati dei condomini morosi ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino. Possono essere resi noti, dunque, i nominativi dei condomini non in regola con il pagamento della somma dovuta e delle rispettive quote millesimali.
Questa comunicazione è propedeutica a far sapere ai creditori del condominio l'esatta identità dei condomini, che non avendo pagato le rate condominiali, mettono in difficoltà il condominio nel suo complesso. Senza il versamento di tutti i partecipanti alla compagine condominiale, sul conto del condominio non ci sono le somme necessarie per pagare i fornitori del condominio.

Il problema di conoscere i dati dei singoli condomini è nato a seguito della presa di posizione della Cassazione che ha costretto i fornitori del condominio a intentare cause contro i singoli condomini per recuperare quanto dovuto da ognuno: la Cassazione ha escluso il vincolo di solidarietà giuridica.
Sul punto era già intervenuto il garante della privacy, con un'apertura alla possibilità di comunicazione dei dati dei morosi. Ma vediamo di riepilogare la questione.
Con nota del 26.09.2008 il garante per la protezione dei dati personali ha dato riscontro a un'associazione di categoria in merito agli effetti della sentenza della Cassazione, sezioni unite, n. 9148 del 2008, che ha ritenuto legittimo, facendo propria la tesi minoritaria, il principio della parziarietà, ossia della ripartizione tra i condomini delle obbligazioni assunte nell'interesse del condominio in proporzione alle rispettive quote. In particolare, la Suprema corte ha sottolineato che l'obbligazione, ancorché comune, è divisibile trattandosi di somma di denaro; la solidarietà nel condominio, al contrario, non è contemplata da nessuna disposizione di legge e l'articolo 1123 del codice civile non distingue il profilo esterno da quello interno; l'amministratore vincola i singoli nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote.
In sostanza, se una ditta esegue lavori per il condominio e non riceve il pagamento, prima della sentenza del 2008 poteva fare causa al condominio e anche a uno solo dei condomini chiedendo a uno tutto il debito. Si parlava, infatti, di responsabilità solidale. Tutto è cambiato con la sentenza citata. La Cassazione impone, nell'esempio, alla ditta esecutrice dei lavori, di dividere il proprio credito nei confronti di ciascuno dei condomini. E per recuperare il credito si dovranno fare tante cause quanti sono i condomini e quindi conoscere i nominativi dei condomini e sapere la quota di debito loro attribuibile.
La sentenza della Cassazione è stata smentita da alcune successive sentenze di merito, ma l'orientamento delle sezioni unite non è stato successivamente ribaltato dalla Suprema corte.
Si è posto dunque il problema di privacy dei singoli condomini e cioè se può l'amministratore passare i dati dei condomini alle ditte. Con la nota del 2008 il garante ha risposto a una richiesta dall'Anaci, associazione degli amministratori, e ha risolto in senso positivo il quesito.
L'Autorità garante ha innanzitutto richiamato l'attenzione su quanto affermato in occasione del proprio provvedimento generale del 18 maggio 2006, relativo al trattamento dei dati personali connessi all'attività di gestione di condomini: al punto 2.1 veniva precisato che le informazioni trattate, per finalità di gestione e amministrazione del condominio ai sensi dell'articolo 24, comma 1, lettere a), b) o c), del codice privacy, possono essere riferite a ciascun partecipante condominiale in quanto funzionali all'amministrazione comune.
Pertanto, concludeva il garante, anche a seguito della sentenza della Suprema corte, non sussiste alcun vincolo nella normativa privacy alla comunicazione di detti dati. Infatti, fermo restando che le informazioni oggetto del trattamento devono essere pertinenti e non eccedenti, i dati personali riferiti ai singoli condomini possono essere trattati dai fornitori di beni e servizi condominiali in assenza del consenso degli interessati per dare esecuzione agli obblighi derivanti da un contratto stipulato dai partecipanti alla compagine condominiale, ancorché di regola tramite amministratore ed eventualmente ex articolo 24, comma 1, lettera f), del codice privacy per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria.
Questo significa che ricorre la causa di esonero dal consenso derivante dalla necessità di eseguire contratti: il rapporto contrattuale intrattenuto dal condominio si può riferire, infatti, ai singoli condomini. E dove c'è necessità di eseguire un rapporto contrattuale non ci sono restrizioni poste dalla legge sulla privacy. In sede di esemplificazione nella nota in questione il garante cita come dati suscettibili di tale trattamento quelli che consentono di identificare i condomini obbligati al pagamento del corrispettivo per l'esecuzione dei contratti di fornitura di beni e servizi, le rispettive quote millesimali e, se del caso, le ulteriori informazioni necessarie a determinare le somme individualmente dovute.
Stando alla legge di riforma del condominio, dalla facoltà si è passati all'obbligo di comunicare le informazioni necessarie ai creditori.
L'articolo 63 delle disposizioni per l'attuazione del codice civile e disposizioni transitorie, riformulato dalla novella, prevede infatti che l'amministratore è tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti i dati dei condomini morosi. L'unica condizione è che i creditori lo chiedano, non potendo l'amministratore fare comunicazioni unilaterali di sua iniziativa.
Il condomino moroso non può invocare più la privacy e l'amministratore, osservando la legge, non ha nulla da temere quanto al rispetto della riservatezza.
Peraltro l'amministratore deve limitarsi a dare i dati dei condomini morosi e non altro. Va aggiunto, però, che l'articolo 63, nella nuova formulazione, prevede che l'escussione dei condomini, quelli in regola con i pagamenti, può avvenire solo dopo che i creditori abbiano esperito le cause contro i morosi. A quel punto il creditore ha l'esigenza di conoscere i dati dei condomini in regola, ma la norma non lo contempla esplicitamente (articolo ItaliaOggi del 22.11.2012).

APPALTIGare, flop stazioni uniche. Accorpamenti p.a. al ralenti per gestire gli appalti. I dati del ministero dell'interno sulla natalità delle Sua. Aumentano i contenziosi.
Sono soltanto tredici le stazioni uniche appaltanti in tutta Italia che hanno consentito di accorpare 477 stazioni appaltanti di cui 205 comuni per gestire 729 gare, per un importo di 3,2 miliardi; il contenzioso, pari al 5,6% delle gare svolte, è però più alto della media nazionale (4,3%).
Sono questi alcuni dei dati, in verità deludenti, diffusi nei giorni scorsi dal gabinetto del ministro dell'interno (Ufficio II - Ordine e sicurezza pubblica) per fare il punto, a seguito di una circolare ministeriale del 12.05.2012, sul funzionamento dello strumento della stazione unica appaltante (la cosiddetta Sua). In realtà si tratta di dati assolutamente inidonei a realizzare quella auspicabile concentrazione degli enti appaltanti che da più parti viene richiesta, ma il problema nasce dal fatto che il ricorso alla stazione unica appaltante, nelle sue varie forme, è da sempre facoltativa.
Qualcosa è probabile che potrà cambiare in applicazione di quanto previsto dall'articolo 14, commi 12-31 del decreto 78/2010, come modificato dal decreto 95/2012 (legge 135/2012) che ha introdotto l'obbligo a partire dal mese di marzo 2013, per tutti i comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti di svolgere le funzioni di stazioni appaltanti in una dimensione ottimale il cui limite demografico minimo è stato fissato in 10.000 abitanti.
L'applicazione di questa norma dovrebbe quindi accelerare il ricorso alla diverse tipologie di stazione unica appaltante per venire incontro all'esigenza di riduzione del numero delle stazioni appaltanti al fine di migliorare l'efficienza e la trasparenza dell'azione amministrativa. La rilevazione del Viminale prende in considerazione diverse tipologie partendo da quella disciplinata dal dpcm 30.06.2011 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 200 del 29.08.2011) in attuazione dell'articolo 13 della legge 13.08.2010, n. 136 relativo al Piano straordinario contro le mafie approvato dal Consiglio dei ministri il 28.01.2010.
Si tratta in sostanza di una centrale di committenza e, come prevede il Codice dei contratti pubblici, ha il compito di procedere all'acquisizione di forniture, lavori e servizi destinati ad altre amministrazioni e all'aggiudicazione di appalti o alla conclusione di accordi quadro. Oltre a quelle di più recente disciplina rileva poi il modello costituito su base provinciale (in Calabria, Campania e a Trento) che ha visto la costituzione di cinque strutture; c'è poi il modello della Suar su base regionale, operante in due regioni, istituito con leggi regionali. Infine c'è il modello che fa capo ai provveditorati regionali alle opere pubbliche, a valenza generale e inquadrato nell'articolo 33 del Codice dei contratti pubblici.
Caso a parte è quello dell'Ufficio regionale per la gestione delle gare d'appalto (Urega) istituito in Sicilia con la legge 7/2002, primo esempio di stazione unica appaltante. Dai dati forniti dal ministero si ricava quindi che in tutto sono state costituite 13 stazioni uniche che hanno raccolto 477 stazioni appaltanti di cui 205 comuni; le strutture costituite utilizzano personale degli enti convenzionati o di appartenenza. La rilevazione mette però in luce che sono in fase di costituzione nuove stazioni uniche appaltanti (per esempio, a Genova e nella regione Liguria).
I loro compiti sono quelli di espletare le procedure di gara, dal bando all'aggiudicazione provvisoria, ma 11 strutture su 13 dichiarano di svolgere anche altre funzioni (acquisizione informazioni antimafia, validazione dei progetti e predisposizione del contratto). Nove strutture su 13 si attivano, oltre che sulle procedure aperte, anche sulle procedure ristrette e negoziate, mentre soltanto quattro affidano cottimi fiduciari. Le 13 stazioni operative hanno gestito 729 gare (erano 130 nel 2009) per un importo complessivo dei contratti pari a 3,247 miliardi. Per quanto riguarda la gestione del contenzioso nei confronti delle gare esperite sono stati registrati ricorsi per una percentuale pari al 5,6%, dato più elevato del 4,3% della media nazionale.
Fra le proposte che il ministero avanza per promuovere il ricorso alle Sua vengono citate: l'obbligo di adesione per gli enti locali i cui organi sono stati sciolti «per mafia»; l'obbligo di ricorso alla Sua quando sono coinvolte più stazioni appaltanti in relazione alla costruzione di grandi opere e di interventi a esse assimilabili per tipologia (ricostruzioni post sisma) (articolo ItaliaOggi del 22.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI - INCARICHI PROFESSIONALIDal primo gennaio 2013 parcelle pagate puntualmente.
«Finalmente i liberi professionisti non saranno più costretti ad aspettare mesi e mesi per vedere onorata la loro prestazione professionale. Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto legislativo sulle transazioni commerciali si colma l'ennesima lacuna normativa che fino a oggi ha penalizzato il lavoro dei professionisti, perché il ritardo dei pagamenti è un grosso problema che coinvolge le pmi, ma soprattutto i liberi professionisti che lavorano con la pubblica amministrazione e con le imprese».

Con queste parole, il presidente di Confprofessioni saluta il varo definitivo del decreto legislativo 09.11.2012, n. 192 recante «Modifiche al decreto legislativo 09.10.2002, n. 231, per l'integrale recepimento della direttiva 2011/7/Ue relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, a norma dell'articolo 10, comma 1, della legge 11.11.2011, n. 180», che è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 267 del 15.11. scorso.
«Si tratta di un provvedimento che va nella stessa direzione cui Confprofessioni lavora da mesi, richiedendo l'estensione ai professionisti del diritto di compensare i crediti con la pubblica amministrazione», aggiunge Stella, «come confermano gli emendamenti presentati da Confprofessioni al decreto sulla crescita in Commissione industria al Senato».
Dal 01.01.2013, dunque, i liberi professionisti potranno contare su regole più severe per la riscossione dei propri crediti nei confronti della p.a. Il decreto sulle transazione commerciali, infatti, riformula la definizione di «pubblica amministrazione» ai fini della tempestività dei pagamenti, estendendo le nuove regole a tutti i soggetti che già oggi rientrano nella disciplina del codice degli appalti.
Parecchie le altre novità introdotte con il decreto 192/2012 che coinvolgono i liberi professionisti. Decorso il termine di pagamento, che rimane fissato in 30 giorni dal ricevimento della fattura o della parcella, scatta automaticamente la decorrenza degli interessi moratori, senza la necessità di costituzione in mora. Il tasso minimo di interesse legale moratorio passa dal 7 all'8%, oltre al saggio fissato dalla Bce per le operazioni di rifinanziamento.
Più strette anche le regole per derogare i termini di pagamenti e tempi certi per la verifica della congruità della prestazione professionale. Infine, è prevista una somma forfettaria di 40 euro da aggiungere all'importo dovuto al creditore in caso di ritardato pagamento, a titolo di rimborso per le spese di recupero (articolo ItaliaOggi del 22.11.2012).

CONDOMINIOLA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ La legge è stata approvata in via definitiva dal senato. Nuove regole per la vita in comune. Ingiunzione ai proprietari morosi senza l'ok dell'assemblea.
La riforma del condominio è legge. Il via libera definitivo è arrivato ieri dalla commissione giustizia del senato che ha approvato in sede deliberante e senza apportare modifiche il testo varato il 27 settembre scorso dalla camera dei deputati.
Per la prima volta, dal lontano 1942, cambiano le regole del codice civile che disciplinano la convivenza in condominio e che interessano circa 30 milioni di italiani. Ma vediamo le principali novità a cominciare dalla figura dell'amministratore che esce profondamente ridisegnata dalla riforma.
Amministratore. Il provvedimento rende più snelle le decisioni e valorizza la figura dell'amministratore che resterà in carica due anni, dovrà avere requisiti di formazione e onorabilità, non dovrà essere stato condannato per delitti contro la pubblica amministrazione, dovrà avere conseguito almeno il diploma di maturità, aver frequentato un apposito corso e, ove ciò sia richiesto dall'assemblea, aver stipulato una speciale polizza assicurativa a tutela dai rischi derivanti dal proprio operato. L'amministratore potrà essere licenziato prima della fine del mandato qualora abbia commesso gravi irregolarità fiscali o non abbia aperto o utilizzato il conto corrente condominiale.
Nei confronti dei condòmini morosi l'amministratore potrà procedere con l'ingiunzione senza chiedere una preventiva autorizzazione dell'assemblea e potrà comunicare ai creditori i dati di chi non paga. Questi così potranno agire in prima battuta sui «morosi». Se la mora dura più di sei mesi, l'amministratore dovrà sospendere il condomino debitore dalla fruizione dei servizi comuni qualificato.
Riscaldamento. Chi si vuole «staccare» dall'impianto centralizzato può farlo senza dover attendere il benestare dell'assemblea, ma a patto di non creare pregiudizi agli altri e di continuare a pagare la manutenzione straordinaria dell'impianto condominiale.
Nuovi quorum. Quorum più basso (dovrà essere pari alla maggioranza degli intervenuti in assemblea, che rappresentino almeno la metà dei millesimi) per deliberare, ad esempio, l'installazione di impianti di videosorveglianza sulle parti comuni dell'edificio. Uguale il quorum per deliberare l'installazione di impianti per la produzione di energia eolica, solare o comunque rinnovabile, anche da parte di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto reale o personale di godimento del lastrico solare o di altra idonea superficie comune. Stessa maggioranza anche per deliberare l'attivazione, a cura dell'amministratore e a spese dei condomini, di un sito internet del condominio, ad accesso individuale protetto da una password, per consultare e stampare in formato digitale i rendiconti mensili e gli altri documenti dell'assemblea.
Basteranno i 4/5 dei consensi, infine, per il cambio di destinazione d'uso dei locali comuni. Potranno impugnare le delibere assembleari, per annullarle, anche i condomini che si sono astenuti. Mediazione obbligatoria in caso di controversie.
Nessun divieto per gli animali. Il regolamento condominiale non potrà più vietare di tenere animali in casa. Ma questi dovranno essere «domestici».
Condòmini molesti. Maggior rigore contro chi arreca danni o disturba. Per chi viola il regolamento condominiale la sanzione è stata aggiornata: da 0,052 euro (pari a 100 lire) a 200 euro. In caso di recidiva si arriva a 800 euro (articolo ItaliaOggi del 21.11.2012).

CONDOMINIO LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ La legge ridisegna i requisiti morali e professionali. Bollino blu per l'amministratore. Obbligatori diploma, formazione iniziale e aggiornamento.
Amministratore con il bollino blu. Dovrà essere diplomato e deve avere seguito un corso di formazione; ma deve anche possedere severi requisiti morali: non deve essere stato condannato per delitti puniti con reclusione da due a cinque anni.

La riforma del condominio ridisegna l'identikit dell'amministratore, codificando che la carica può essere svolta anche da una società e ridefinisce i compiti e i poteri.
Requisiti. Per diventare amministratore di condominio occorre godere dei diritti civili e non essere stati condannati per delitti contro la p.a., la giustizia, la fede pubblica, il patrimonio e per ogni altro delitto non colposo per il quale la legge commina la pena della reclusione non inferiore, nel minimo, a due anni e, nel massimo, a cinque anni.
È ostativa alla funzione l'avere subito una misura di prevenzione (salvo riabilitazione) e non essere sottoposti a tutela o curatela. La strada è bloccata anche per i protestati. Passando ai requisiti professionali bisogna avere un diploma di scuola superiore e avere frequentato un corso di formazione iniziale e aggiornarsi periodicamente. Ultimo requisito è la sottoscrizione di un'assicurazione per responsabilità professionale.
La novella esclude i requisiti professionali quando l'amministratore è un interno, nominato tra i condomini dello stabile. Anche le società possono svolgere l'incarico di amministratore di condominio: i requisiti morali e professionali dovranno essere posseduti dai soci illimitatamente responsabili, dagli amministratori e dai dipendenti incaricati di svolgere le funzioni di amministrazione. La perdita dei requisiti morali comporta la cessazione dall'incarico. La norma stabilisce una disposizione transitoria: chi ha svolto attività di amministrazione di condominio per almeno un anno nell'arco dei tre anni precedenti è consentito lo svolgimento dell'attività di amministratore anche in assenza dei requisiti di titolo di studio e di frequenza del corso di formazione iniziale (ma rimane l'obbligo di formazione periodica).
Obblighi. L'obbligo di nomina scatta quando i condomini sono più di otto. L'amministratore deve essere rintracciabile dai condomini e deve fornire orari nei quali è a disposizione, anche per far visionare i documenti dell'amministrazione. Un obbligo specifico concerne le somme versate dai condomini: si deve aprire un apposito conto e i relativi estratti sono a disposizione degli interessati. Altro obbligo di natura gestionale è quello di agire per recuperare le rate non pagate dai morosi: l'amministratore deve farlo entro sei mesi chiusura dell'esercizio.
L'incarico di amministratore ha durata di un anno e si intende rinnovato per uguale durata. L'amministratore può essere licenziato dall'assemblea in qualunque momento oppure dal giudice, anche su richiesta di un solo condomino per gravi irregolarità. La riforma codifica i casi di gravi inadempienze: ad esempio mancata rendicontazione, mancata esecuzione di provvedimenti giudiziari e amministrativi e di deliberazioni dell'assemblea, mancata apertura e utilizzazione del conto corrente dedicato al condominio.
Compiti. Tra i compiti dell'amministratore, introdotti dalla novella, si segnalano la tenuta di alcuni registri, tra cui il registro di anagrafe condominiale e il registro di contabilità. Il registro dell'anagrafe contiene le generalità dei condomini, i dati catastali di ciascuna unità immobiliare, ogni dato relativo alle condizioni di sicurezza.
Nel registro di contabilità sono annotati in ordine cronologico, entro 30 giorni da quello dell'effettuazione, i singoli movimenti in entrata e in uscita. Il registro può tenersi anche con modalità informatizzate.
Altri registri sono quello dei verbali delle assemblee e quello del registro di nomina e revoca dell'amministratore. Nel registro dei verbali delle assemblee sono annotate le deliberazioni e le brevi dichiarazioni rese dai condomini che ne hanno fatto richiesta. Nel registro di nomina e revoca dell'amministratore sono annotate, in ordine cronologico, le date della nomina e della revoca di ciascun amministratore del condominio e gli estremi dei provvedimenti giudiziari. Specifico obbligo dell'amministratore è la redazione del rendiconto condominiale annuale.
Il rendiconto. A proposito del rendiconto, la riforma prevede per l'assemblea condominiale di nominare un revisore che verifichi la contabilità del condominio. Per ragioni di auditing interno l'assemblea può anche nominare, oltre all'amministratore, un consiglio di condominio composto da almeno tre condomini negli edifici di almeno dodici unità immobiliari. Il consiglio ha funzioni consultive e di controllo (articolo ItaliaOggi del 21.11.2012).

CONDOMINIOLA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Le nuove regole puntano ad assicurare stabilità finanziaria. Il rendiconto come un bilancio. Entrate e uscite da evidenziare col criterio della competenza.
Il rendiconto condominiale dovrà somigliare sempre di più al bilancio delle società ed evidenziare in maniera trasparente le somme in entrata e quelle in uscita secondo il criterio di competenza. Queste ultime dovranno necessariamente transitare su un conto corrente intestato al condominio e l'amministratore, che potrà essere anche una società, dovrà curare i necessari adempimenti fiscali. Questi avrà a sua disposizione nuovi ed efficaci strumenti per contrastare il dilagante fenomeno della morosità condominiale e dovrà attivarsi senza indugio per recuperare le somme non versate nelle casse condominiali.
La maggiore stabilità finanziaria del condominio costituirà quindi una garanzia in più per i fornitori esterni: in caso di lavori di manutenzione straordinaria o di innovazioni dovrà infatti obbligatoriamente essere costituito un fondo speciale di ammontare pari a quello dell'appalto deliberato dall'assemblea. I singoli condomini avranno a loro volta qualche tutela in più nei confronti delle imprese che vantino crediti nei confronti del condominio, in quanto le stesse dovranno necessariamente provare a recuperare le somme dovute dai comproprietari in mora nel versamento degli oneri condominiali (previa obbligatoria indicazione della loro identità da parte dell'amministratore) e solo in caso di insuccesso potranno agire nei confronti dei condomini in regola con i pagamenti.
Queste alcune delle novità introdotte dalla legge di riforma della disciplina condominiale approvata ieri in via definitiva dalla commissione giustizia del senato, che ha riscritto in maniera quasi completa gli articoli 1117 e seguenti del codice civile e 61 e seguenti delle relative disposizioni di attuazione (si veda la tabella relativa alle principali novità introdotte). Ma la nuova normativa interviene in modo rilevante anche sui requisiti, i poteri e i doveri dell'amministratore condominiale (la cui figura si avvia a diventare sempre più professionale per allontanare dal mercato operatori improvvisati), sulle modalità di costituzione, partecipazione ed espressione della volontà dell'assemblea condominiale (le maggioranze necessarie all'adozione delle delibere vengono generalmente abbassate per migliorare il relativo processo decisionale), sull'utilizzo delle parti comuni (viene ammesso il distacco dall'impianto comune di riscaldamento o condizionamento, purché ciò non influisca negativamente sul suo funzionamento), sulla disciplina di nuove fattispecie quali il supercondominio e il cosiddetto condominio orizzontale (articolo ItaliaOggi del 21.11.2012).

EDILIZIA PRIVATAPrevenzione incendi al restyling. Dal 27 novembre prossimo cambia la modulistica per i vigili.
Dal 27 novembre per la presentazione delle istanze ai Vigili del fuoco relative ai procedimenti di prevenzione degli incendi è necessario utilizzare la nuova modulistica definita con decreto dirigenziale del direttore centrale per la prevenzione e la sicurezza tecnica del ministero dell'interno 31.10.2012, n. 200.
I nuovi moduli tengono conto dell'avvento della Scia (legge n. 122/2010) sui procedimento di spettanza del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco nonché di quanto previsto in materia di Sportello unico per le attività produttive (Suap, dpr n. 160/20101).
Per la prima volta, in una materia così difficile come quella della prevenzione incendi, viene concretamente preferita un'impostazione fondata sul principio della proporzionalità, in base al quale gli adempimenti amministrativi vengono diversificati in relazione alla grandezza dell'impresa, al settore in cui esercita l'attività principale e soprattutto viene perseguita l'effettiva esigenza di tutela degli interessi pubblici collettivi.
È con il decreto del ministero dell'interno 07.08.2012 che viene stabilita la data del 27 novembre per l'utilizzato della nuova modulistica sostitutiva di quella contenuta nel decreto del ministro dell'interno 04.05.1998.
La modulistica di prevenzione e incendi valida dal 27 novembre è la seguente: valutazione dei progetti (richiesta di esame del progetto); Scia (Scia; asseverazione per Scia; Scia Gpl; asseverazione per Scia Gpl); rinnovo periodico di conformità antincendio (attestato di rinnovo periodico, asseverazione per rinnovo periodico, attestato di rinnovo periodico per Gpl); domanda di deroga (richiesta di deroga); nulla osta di fattibilità (richiesta di nulla osta di fattibilità); verifiche in corso d'opera (richiesta di verifica in corso d'opera, certificazione di resistenza al fuoco di prodotti/elementi costruttivi in opera, dichiarazione di corretta installazione e funzionamento dell'impianto, certificazione di corretta installazione e funzionamento dell'impianto, dichiarazione inerente i prodotti impiegati, Pin 7 2012 voltura, Pin 2.7 Gpl 2012 dichiarazione, Pin 2.6 dichiarazione non aggravio rischio).
Va ricordato che il 07.10.2011 era entrato in vigore il dpr 01.08.2011, n. 151 contenente il regolamento recante la semplificazione della disciplina dei procedimenti di prevenzione degli incendi e all'articolo 2, comma 7, dello stesso dpr veniva stabilito che per garantire l'uniformità delle procedure, nonché la trasparenza e la speditezza dell'attività amministrativa, le modalità di presentazione delle istanze e la relativa documentazione, da allegare, sarebbero state definite con un successivo decreto del ministro dell'interno.
Nell'art. 11, 1 comma, del dpr n. 151/2011 era, inoltre, fissato un periodo transitorio ed era stabilito che fino all'adozione del decreto ministeriale di cui al comma 7 dell'articolo 2, si applicano le disposizioni normative contenute nel decreto del ministro dell'interno del 04.05.1998 riguardante le modalità di presentazione e il contenuto delle domande per l'avvio di procedimenti di prevenzione incendi, nonché l'uniformità dei connessi servizi resi dai comandi provinciali dei vigili del fuoco. Il dpr n. 151/2011, recependo quanto stabilito dalla legge del 30.07.2010, n. 122 in materia di semplificazione amministrativa ha individuato le attività soggette alla disciplina della prevenzione incendi e contemporaneamente ha semplificato gli adempimenti per i soggetti interessati (articolo ItaliaOggi del 20.11.2012).

ENTI LOCALILe novità previste nel dm al vaglio della conferenza stato-regioni. Rendicontazione online. Autovelox, contabilità separata. Dal 2013 i proventi vanno divisi dalle altre multe stradali.
Nel 2013 i proventi connessi alle sanzioni per autovelox e telelaser dovranno essere contabilizzati separatamente dai proventi derivanti in generale dalle multe stradali, con apposita rendicontazione da inviare per via informatica al ministero delle infrastrutture e dei trasporti e al ministero dell'interno.
Disciplina più dettagliata per l'utilizzo dei misuratori di velocità, con indicazioni supplementari rispetto a quelle contenute nella direttiva del 14.08.2009.
Sono queste le importanti novità previste dalla bozza di un decreto ministeriale che attende il via libera della conferenza stato-regioni prima della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
La legge n. 120 del 29.07.2010 aveva riscritto l'art. 142 del codice della strada in materia di eccesso di velocità e proventi delle multe, prevedendo che per tutte le violazioni dei limiti di velocità accertate mediante l'impiego di apparecchi o di sistemi di rilevamento oppure attraverso l'utilizzazione di dispositivi o di mezzi tecnici di controllo a distanza delle violazioni i relativi proventi devono essere ripartiti in misura uguale fra l'ente dal quale dipende l'organo accertatore e l'ente proprietario della strada restando comunque escluse le strade in concessione.
Le somme derivanti dall'attribuzione delle quote dei proventi ripartiti devono essere destinate alla manutenzione e messa in sicurezza delle infrastrutture stradali e al potenziamento delle attività di controllo e accertamento delle violazioni in materia di circolazione stradale, comprese le spese relative al personale. Ma queste nuove disposizioni non sono mai diventate operative, in quanto non è stato emanato il decreto attuativo. In sede di conversione, con modificazioni, del decreto legge n. 16 del 02.03.2012, la legge n. 44 del 26.04.2012 ha disposto che il decreto ministeriale di cui all'art. 25, comma 2, della legge 120/2010 deve essere emanato entro 90 giorni dal 29.04.2012 e che, in caso di mancata emanazione, saranno comunque applicate le disposizioni sulla ripartizione dei proventi di cui ai commi 12-bis, 12-ter e 12-quater dell'art. 142.
Sul punto, però, l'Anci aveva immediatamente chiarito che, in ogni caso, non essendo stato abrogato il comma 3 dell'art. 25 della legge 120/2010, la nuova disciplina non avrebbe trovato immediata applicazione, ma si sarebbe dovuto attendere il 01.01.2013. Dunque, alla luce di questo complesso iter normativo, manca solo il tanto atteso decreto ministeriale attuativo, che, finalmente, sembra essere in dirittura d'arrivo. Infatti, la bozza, già predisposta dai tecnici del ministero delle infrastrutture e dei trasporti e del ministero dell'interno, deve attendere solo il parere della conferenza stato-regioni prima di poter essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, con entrata in vigore fissata per il 01.01.2013.
La bozza del decreto ministeriale prevede che gli enti locali dovranno trasmettere per via informatica al ministero delle infrastrutture e dei trasporti e al ministero dell'interno entro il del 31 maggio di ogni anno (con prima scadenza il 31.05.2014) una relazione relativa al periodo intercorrente tra il 1° gennaio e il 31 dicembre dell'anno precedente, una relazione, suddivisa su tre sezioni, indicando le informazioni generali, i proventi delle sanzioni amministrative pecuniarie di propria spettanza di cui all'art. 208, comma 1, e all'art. 142, comma 12-bis, del codice della strada e le informazioni relative alla destinazione dei proventi stessi. Deve essere tenuta una contabilità separata fra i proventi in generale e quelli derivanti da accertamenti delle violazioni dei limiti massimi di velocità.
In particolare, per questi ultimi deve risultare la distinzione a seconda che siano di intera spettanza dell'ente locale, oppure siano soggetti a ripartizione al 50% con l'ente proprietario della strada, oppure derivino dagli accertamenti eseguiti da organi accertatori di altri enti locali. Con qualche perplessità sulla conformità al dettato normativo, il decreto esclude dall'obbligo di ripartizione i proventi delle sanzioni derivanti dalle multe elevate dagli organi di polizia stradale dipendenti dallo stato.
Le somme introitate per i verbali di contestazione dell'eccesso di velocità rilevato con misuratori elettronici sono attribuiti interamente all'ente da cui dipende l'organo accertatore per gli accertamenti eseguiti su strade e autostrade in concessione (fra le quali sia le autostrade e le strade statali di interesse nazionale che le strade di interesse statale a gestione regionale), su strade di interesse regionale gestite direttamente dalle regioni o da queste date in concessione e su tutte le altre strade non di proprietà degli enti locali.
In via provvisoria, nel 2013 per i proventi da ripartire si dovrà fare riferimento alle somme incassate per pagamento di sanzioni accertate nel corso dell'anno. La ripartizione, da rendicontare entro il 31.01.2014, interesserà il totale delle somme incamerate, al netto delle spese sostenute per tutti i procedimenti amministrativi connessi. Per gli anni successivi saranno contabilizzati anche i proventi incassati, derivanti da accertamenti di violazioni relative ad anni precedenti (articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2012).

APPALTIPubblicato in G.U. il decreto che recepisce la norma Ue. Regole al via dal 01.01.2013. Giorni contati ai pagamenti lenti. La p.a. dovrà saldare i conti dei fornitori entro un mese.
Tempi certi nei pagamenti alle imprese fornitrici di beni o servizi alla p.a..
È stato pubblicato, infatti, sulla G.U. n. 267 del 15 novembre scorso il decreto 09.11.2012, n. 192 che fissa a trenta giorni il termine di pagamento (con possibilità di deroghe distinte a seconda che si tratti di contratti tra privati o di transazioni tra imprese e pubbliche amministrazioni), eleva il tasso minimo degli interessi legali moratori (da sette a otto punti percentuali della maggiorazione del tasso fissato dalla Bce) e chiarisce cosa si intende per «grave iniquità» che fa scattare la sanzione della nullità del contratto tra le parti.
Le nuove regole, che entrano in vigore il 30.11.2012, ma si applicheranno a partire dal 01.01.2013, riguardano tutti i «contratti, comunque denominati, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo».
Il decreto, in attuazione della delega contenuta nel cosiddetto Statuto delle imprese (legge 11.11.2011, n. 180), recepisce con largo anticipo rispetto alla scadenza (fissata al 16.03.2013) la direttiva 2011/7/Ue del 16.02.2011 relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali e per farlo modifica le norme dettate dal precedente decreto legislativo n. 231 del 09.10.2002 che aveva recepito la prima direttiva comunitaria sul tema (direttiva 2000/35/Ce del 29.06.2000).
L'urgenza di approntare una soluzione al problema della tempestività dei pagamenti fra imprese e, soprattutto, di quelli della pubblica amministrazione alle imprese non è una novità. Lo stesso governo, nella relazione illustrativa del decreto, parte dalla constatazione che Italia è all'ultimo posto nelle classifiche europee in relazione a questo problema, «che riguarda tutte le imprese ma finisce per colpire principalmente le piccole e medie imprese e gli artigiani, che costituiscono l'ossatura del tessuto produttivo italiano, che hanno minore capacità finanziaria e di ricorso al credito e minore forza contrattuale nei rapporti con le grandi aziende e con la pubblica amministrazione, così da essere spesso indotti a rinunciare contrattualmente ai diritti ad essi spettanti per legge».
La nuova disciplina si applica alla pubblica amministrazione, per tale intendendosi «l'amministrazione aggiudicatrice» prevista dal cosiddetto Codice dei contratti pubblici (decreto legislativo n. 163/2006), ma ricomprendendo anche soggetti di diritto privato quando svolgano attività per la quale sono tenuti al rispetto della disciplina sui contratti pubblici. Restano, invece, esclusi: a) i debiti oggetto di procedure concorsuali aperte a carico del debitore, comprese le procedure finalizzate alla ristrutturazione del debito; b) i pagamenti effettuati a titolo di risarcimento del danno, compresi i pagamenti effettuati a tale titolo da un assicuratore.
Il sistema approntato dal decreto distingue i contratti tra imprese da quelli tra imprese e pubbliche amministrazioni quando definisce i termini di pagamento imposti, mentre il precedente decreto fissava a 30 giorni il pagamento per ogni tipo di transazione commerciale e con libertà delle parti di accordarsi per un termine superiore rispetto a quello legale a condizione che le diverse pattuizioni fossero stabilite per iscritto e rispettassero i limiti concordati nell'ambito di accordi sottoscritti dalle organizzazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale. A partire da gennaio prossimo, invece, il termine di 30 giorni indicato nei contratti tra le imprese potrà essere derogato fino a un massimo di 60 giorni, sempre che l'accordo sia in forma espressa (per iscritto) e non risulti «gravemente iniquo» per il creditore.
Per quanto riguarda i contratti in cui il debitore è una pubblica amministrazione sarà possibile fissare un termine legale di pagamento fino a un massimo di sessanta giorni in due casi: (1) per le imprese pubbliche che svolgono attività economiche di natura industriale o commerciale, offrendo merci o servizi sul mercato; (2) per gli enti pubblici che forniscono assistenza sanitaria; fatta eccezione per tali casi, è lasciata facoltà alle parti di concordare, anche in questo caso in forma (scritta) espressa, un termine superiore a 30 giorni ma comunque non superiore a 60 giorni, se questo termine risulta oggettivamente giustificato dalla natura o dall'oggetto del contratto o da particolari circostanze esistenti al momento della conclusione dell'accordo.
Sempre nell'ottica di un doppio binario, il decreto distingue i contratti tra privati da quelli tra imprese e p.a. prevedendo che siano corrisposti, nel primo caso, «interessi moratori» (che sono interessi legali di mora o interessi a un tasso concordato tra le imprese) e, nel secondo caso, «interessi legali di mora» (ossia interessi a un tasso che non può essere inferiore al tasso legale, vale a dire il tasso Bce maggiorato dell'8%). In aggiunta al rimborso dei costi e fatta salva la prova del maggior danno (che può comprendere anche i costi di assistenza per il recupero del credito), si prevede anche la corresponsione di una somma forfettaria di 40 euro, volta a rimborsare i costi amministrativi e interni di recupero del credito, che si cumula agli interessi di mora e che dovrà essere corrisposta senza che sia necessaria la costituzione in mora ed indipendentemente dalla dimostrazione dei costi. Il decreto assicura la facoltà delle parti di concordare pagamenti a rate: in tal caso, le conseguenze negative del ritardo (interessi e risarcimento) saranno calcolate esclusivamente sulle singole rate scadute.
Infine, la nullità del contratto tra le parti è stabilita nei casi in cui risultano «gravemente inique» le clausole relative al termine di pagamento, al saggio degli interessi moratori e al risarcimento dei costi di recupero. Mentre il precedente decreto forniva solo degli orientamenti all'interprete per decifrare il concetto di «grave iniquità» ora vengono considerate ex lege gravemente inique, senza ammettere prova contraria, le clausole che escludono il diritto al pagamento degli interessi di mora e quelle relative alla data di ricevimento della fattura e si presumono gravemente inique quelle che escludono il risarcimento dei costi di recupero (articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2012).

APPALTIGli effetti della nuova disciplina sulla responsabilità solidale Iva. Non sono esclusi i privati. Appalti, come evitare l'impasse. Dalle sanzioni all'entrata in vigore: le soluzioni ai nodi irrisolti.
La nuova responsabilità solidale e sanzionatoria per Iva e ritenute nel caso di appalti e subappalti rischia di bloccare le attività. Una norma volutamente rigida ma scritta forse troppo frettolosamente sta creando un numero incredibile di difficoltà. I comportamenti da tenere non sono ancora certi e considerando i rischi a cui si va incontro in caso di errore, spesso le imprese stanno tenendo un comportamento orientato alla massima prudenza. Ci si muove con cautela con il risultato però di rallentare anche la produttività.
Ecco allora da un esame del testo normativo le questioni di maggiore rilevanza ancora sul tappeto con le possibili soluzioni.
Appalto e subappalto. L'ambito oggettivo di applicazione è delineato dal comma 28 dell'art. 35 del decreto 223/2006 come dal dl 83/2012. La locuzione utilizzata è molto secca facendo riferimento ai casi di «appalto di opere o di servizi». Il riferimento normativo per definire la fattispecie è l'articolo 1655 del codice civile che dispone «l'appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di una opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro».
Tale definizione è però alquanto difficile da declinare nei casi concreti, i quali non di rado non sono nemmeno formalizzati in forma scritta. Senza contare che proprio su tale definizione la stessa cassazione ormai da decenni fornisce interpretazioni che non permettono di riconoscere con certezza i limiti di tale fattispecie contrattuale. Se si cerca un aiuto nella prassi un riferimento può essere nella circolare 7 del 07.02.2007 che ha illustrato le regole in tema di ritenute sui corrispettivi dovuti dal condominio all'appaltatore. Anche in questo caso la norma limiti l'ambito di intervento ai corrispettivi «dovuti per prestazioni relative a contratti di appalto di opere o servizi».
La prassi interpretando questo passaggio (ed estendendo il contenuto letterale della norma) ha affermato che «deve ritenersi che la norma trova applicazione per le prestazioni convenute nei contratti d'opera in generale e, in particolare, nei contratti che comportano l'assunzione, nei confronti del committente, di un'obbligazione avente ad oggetto la realizzazione, dietro corrispettivo, di un'opera o servizio, nonché l'assunzione diretta, da parte del prestatore d'opera, del rischio connesso con l'attività, svolta senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente». Si può non essere d'accordo (il contratto d'opera non è un contratto di appalto) ma certo la posizione della prassi in assenza di indicazioni contrarie deve essere quanto meno considerata.
I privati. Il comma 28-ter prevede che «Le disposizioni di cui ai commi 28 e 28-bis si applicano in relazione ai contratti di appalto e subappalto di opere, forniture e servizi conclusi da soggetti che stipulano i predetti contratti nell'ambito di attività rilevanti ai fini dell'imposta sul valore aggiunto». Ciò ha fatto dire che i privati sono esclusi da tale normativa. In realtà nononostante sia questa la soluzione da preferire sarebbe bene un intervento che elimini qualsiasi dubbio. Infatti fermandosi al testo i dubbi possono esistere. Il committente infatti in base a quanto indicato nel comma 28-bis è responsabile nel caso di irregolari inadempimenti sia dell'appaltatore che del subappaltatore.
Se ipotizziamo una situazione in cui con un committente privato intervengo quali appaltatori e subappaltate due esercenti attività d'impresa, è chiaro che il contratto tra questi ultimi due è concluso «da soggetti che stipulano i predetti contratti nell'ambito di attività rilevanti ai fini dell'imposta sul valore aggiunto». Quindi la norma si applica in tutte le sue parti e anche in quella che prevede una responsabilità sanzionatoria del committente per le irregolarità del subappaltatore. Almeno la prassi elimini in fretta questo dubbio.
I non residenti. Difficile dal testo normativo escludere i non residenti dall'ambito di applicazione. Se l'appaltatore o il subappaltatore (più facilmente) non sono soggetti italiani non vi sono particolari limiti di applicazione. Se ci si ferma al modo Ue difficile ipotizzare che, ad esempio, il subappaltatore che viene a lavorare in una cantiere in Italia non svolga un'attività rilevante ai fini Iva (anche se magari solo nel suo paese). Quindi anche a costoro è da richiedere l'autocertificazione.
Il committente. È fuori di dubbio che anche il committente abbia una responsabilità seppur di natura sanzionatoria. La stessa è riferita alle irregolarità di tutti gli anelli della possibile catena (appaltatore, subappaltatore 1, subappaltatore 2 ecc.). Il comma 28-bis prevede infatti che «il committente provvede al pagamento del corrispettivo dovuto all'appaltatore previa esibizione da parte di quest'ultimo della documentazione attestante (_) Il committente può sospendere il pagamento del corrispettivo fino all'esibizione della predetta documentazione da parte dell'appaltatore».
Da qui una piccola notizia positiva: il committente ha la possibilità di avere a che fare solo con il committente. È a lui che può richiedere la documentazione attestante la regolarità anche dei subappaltatori e sospendere il pagamento fino al mancato ricevimento di questa da parte dell'appaltatore. D'altra parte spesso capita che il committente non sappia neanche o quanto nemmeno conosce i subappaltatori.
Le sanzioni del committente. C'è un limite alle sanzioni a carico del committente ma nonostante ciò le stesse possono esser sproporzionate. Il comma 28-bis trattando della sanzione a carico del committente si prevede che «ai fini della predetta sanzione si applicano le disposizioni previste per la violazione commessa dall'appaltatore». Quindi deve valere la previsione secondo cui la stessa deve rimanere «nei limiti dell'ammontare del corrispettivo dovuto».
Oltre al dubbio a quale corrispettivo occorre riferirsi nel caso di presenza di subappalto (a quello del contratto di appalto in genere o del singolo subappalto) tale locuzione lascia aperto il rischio della sproporzione. Si pensi a un contratto che prevede corrispettivo di 5 mila euro (con Iva 10%). L'appaltatore non versa 500 euro la sanzione a carico del committente è quella minima che però è di 5 mila euro (10 volte l'importo non versato!!!).
Il settore edile. Giustamente si sta cercando in via interpretativa di limitare l'ambito di applicazione della norma. Torna allora il riferimento al fatto che la norma in questione è contenuta nell'art. 13-ter del dl 83/2012 e precisante nel capo III del provvedimento titolato misure per l'edilizia. Ma questo unico elemento per limitare all'edilizia la nuova previsione non pare decisivo (almeno fino a quando almeno la prassi non dovesse confermare tale soluzione).
Si noti inoltre che la norma è «di passaggio» in questo provvedimento in quanto l'art. 13-ter in questione va a sostituire il comma 28 dell'articolo 35 del decreto-legge 04.07.2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 04.08.2006, n. 248 articolo titolato «Misure di contrasto dell'evasione e dell'elusione fiscale» compreso nel titolo III a sua volta titolato «Misure in materia di contrasto all'evasione ed elusione fiscale, di recupero della base imponibile, di potenziamento dei poteri di controllo dell'Amministrazione finanziaria, di semplificazione degli adempimenti tributari e in materia di giochi» (e qui il riferimento al comparto edile non lo si ritrova più).
Entrata in vigore. La circolare 40 ha affermato che la norma si applica solo per i contratti di appalto e subappalto stipulati a decorrere dal 12 agosto e con riguardo ai pagamenti effettuati dall'11.10.2012 (grazie allo statuto del contribuente).
Una presa di posizione favorevole ma che comporta la necessità di verificare la data di stipula del contratto. Ora nel caso di contratto verbale (fattispecie alquanto comune e che non pare poter essere esclusa dall'ambito di applicazione) non è di certo facile individuare tale data e soprattutto non sarà poi facile in futuro riuscire a provare la stessa (articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2012).

EDILIZIA PRIVATALe istruzioni per accedere al finanziamento previsto dal Conto termico sulle fonti rinnovabili. Energia, case e imprese efficienti. Fondi di 700 mln per chi migliora l'impianto di riscaldamento.
Arriva il conto termico per persone fisiche, condomini e imprese. Uno stanziamento di 700 milioni di euro finanzierà i soggetti privati che effettuano interventi per migliorare le prestazioni termiche dei propri edifici. Mentre altri 200 mln di euro sono a disposizione delle pubbliche amministrazioni.
Il decreto ministeriale congiunto tra sviluppo economico, ambiente e tutela del territorio e del mare e ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali è stato approvato negli scorsi giorni ed è ora al vaglio della conferenza unificata. Una volta pubblicato in Gazzetta Ufficiale potranno essere avviati gli investimenti a seguito dei quali i soggetti interessati potranno richiedere l'erogazione dell'incentivo.
Si tratterà di un contributo che potrà coprire circa il 40% della spesa sostenuta, con dei limiti massimi di potenza, e sarà erogato in un periodo di due o cinque anni a seconda del tipo di intervento. Il soggetto gestore dell'agevolazione sarà il Gse, a cui andranno presentate le domande di accesso all'incentivo. Ai fini dell'accesso agli incentivi, i beneficiari possono avvalersi dello strumento del finanziamento tramite terzi o di un contratto di rendimento energetico ovvero di un servizio energia, anche tramite l'intervento di un fornitore di servizi energetici.
Finanziabili caldaie e solare termico. Il conto termico finanzia interventi di piccole dimensioni di produzione di energia termica da fonti rinnovabili e di sistemi ad alta efficienza, con una potenza massima di 500 Kw (700 mq in caso di solare termico). È possibile ottenere un contributo per la sostituzione di impianti di climatizzazione invernale esistenti con impianti di climatizzazione invernale utilizzanti pompe di calore elettriche o a gas, anche geotermiche. Inoltre, è finanziabile la sostituzione di impianti di climatizzazione invernale o di riscaldamento delle serre esistenti con impianti di climatizzazione invernale dotati di generatore di calore alimentato da biomassa. Infine, l'incentivo sostiene anche l'installazione di collettori solari termici, anche abbinati a sistemi di solar cooling, nonché la sostituzione di scaldacqua elettrici con scaldacqua a pompa di calore.
Ammissibili manodopera, apparecchiature e opere murarie. Per gli interventi impiantistici relativi alla produzione di acqua calda, anche se destinata, con la tecnologia solar cooling, alla climatizzazione estiva sono finanziabili le spese per smontaggio e dismissione dell'impianto esistente, parziale o totale, fornitura e posa in opera di tutte le apparecchiature termiche, meccaniche, elettriche ed elettroniche, nonché delle opere idrauliche e murarie necessarie per la realizzazione a regola d'arte degli impianti organicamente collegati alle utenze. Per gli interventi impiantistici concernenti la climatizzazione invernale, sono invece ammissibili lo smontaggio e dismissione dell'impianto di climatizzazione invernale esistente, parziale o totale, la fornitura e posa in opera di tutte le apparecchiature termiche, meccaniche, elettriche ed elettroniche, delle opere idrauliche e murarie necessarie per la sostituzione, a regola d'arte, di impianti di climatizzazione invernale o di produzione di acqua calda sanitaria preesistenti nonché i sistemi di contabilizzazione individuale. Oltre a quelli relativi al generatore di calore, sono ammessi anche gli eventuali interventi sulla rete di distribuzione, sui sistemi di trattamento dell'acqua, sui dispositivi di controllo e regolazione, sui sistemi di estrazione e alimentazione dei combustibili nonché sui sistemi di emissione. Sono inoltre comprese tutte le opere e i sistemi di captazione per impianti che utilizzino lo scambio termico con il sottosuolo. L'avvio delle spese sarà possibile solo a partire dal giorno successivo all'entrata in vigore del decreto.
Contributo del 50% per la certificazione energetica. Sono ammesse a contributo anche le prestazioni professionali connesse alla realizzazione degli interventi finanziabili e per la redazione di diagnosi energetiche e di attestati di certificazione energetica relativi agli edifici oggetto degli interventi. Infatti, per molti degli interventi finanziati, la normativa richiede la presentazione della relativa certificazione energetica. I soggetti privati possono ottenere un contributo secco del 50% sulle spese per la relativa certificazione.
Rata unica se il contributo è inferiore a 600 euro. Il contributo viene erogato in rate annuali per un periodo di due o cinque anni a seconda della complessità dell'intervento. L'unica possibilità di ottenere immediatamente il contributo spettante è che lo stesso sia inferiore o uguale a 600 euro.
Possibile il cumulo con altri incentivi. L'incentivo può essere cumulato con altri incentivi statali sotto forma di fondi di garanzia, fondi di rotazione e contributi in conto interesse. In caso di incentivi non statali cumulabili, anche se in conto capitale, l'incentivo è attribuibile in misura complementare fino al raggiungimento dei massimali stabiliti, per specifici interventi, o al raggiungimento dell'incentivo che sarebbe stato erogabile per il medesimo intervento senza considerare il cumulo (articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2012).

ENTI LOCALIBilanci. La legge di conversione del Dl 174/2012 prevede la decadenza immediata con nuovi collegi.
Tagliati oltre mille revisori. Niente professionisti nei Comuni che appartengono alle Unioni.
EFFETTI SUI GIOVANI/ Con il riordino tutti i municipi sotto i 5mila abitanti dovrebbero unirsi e si chiuderebbe ogni chance per chi è al debutto.

Il decreto enti locali che dopo il voto della Camera si avvia verso la conversione definitiva in legge al Senato segna l'ennesimo giro di giostra per i revisori dei conti, sia dal punto di vista del numero dei posti in gioco sia da quello dei compiti da svolgere nelle verifiche sui bilanci dei Comuni.
Sul primo versante, la novità più rilevante intervenuta a Montecitorio è rappresentata dal l'abrogazione dello slancio centralista che aveva spinto il Governo a prevedere la scelta ministeriale del presidente del collegio nelle città con più di 60mila abitanti e nei capoluoghi di Provincia (oltre che nelle Province). Con gli emendamenti approvati alla Camera, i collegi tornano a essere completamente composti da commercialisti e revisori legali, senza l'ingresso dei dipendenti ministeriali che avrebbe comportato più di un problema di professionalità, e forse anche di legittimità costituzionale visto che in base al Titolo V gli enti locali sono allo stesso livello dello Stato nell'architettura della Repubblica. Traducendo il tutto in numeri, si tratta di 208 posti "riconquistati" dalla categoria (nelle 99 città con più di 60mila abitanti, nei 29 Comuni capoluogo di Provincia sotto quella soglia e nelle 80 Province che sopravviveranno al riordino).
Ciò che si recupera negli enti più grandi, però, rischia di venir perso, con gli interessi, nei Comuni più piccoli, e sempre per effetto della legge di conversione del decreto sugli enti locali. Il provvedimento cambia infatti la geografia della revisione nelle Unioni di Comuni, introducendo un collegio di tre membri in capo all'Unione che sostituisce il revisore monocratico oggi al lavoro sia nelle Unioni sia negli enti che le compongono. Già oggi le Unioni sono 370 e raccolgono 1.871 Comuni per cui, come ha calcolato per esempio Patrizio Battisti, presidente della commissione enti locali dell'Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili di Tivoli (Roma), il saldo sarebbe negativo per 1.131 posti. Ma c'è di più: anche nella versione più flessibile scritta nel decreto di luglio sulla revisione di spesa, il riordino dei piccoli enti porterà all'interno di nuove Unioni molti piccoli enti che oggi vivono "in solitudine", con il risultato di ridurre ulteriormente gli spazi per i professionisti che lavorano con la Pa locale.
Non è finita: nei Comuni che già oggi sono aggregati in Unioni, il cambio della guardia dovrebbe essere rapido. Gli emendamenti approvati la scorsa settimana alla Camera stabiliscono infatti che i revisori attuali «decadono» all'atto della costituzione dei nuovi collegi, che vanno formati con il meccanismo dell'estrazione dalle liste regionali introdotto dalla riforma in via di attuazione. In pratica, la norma non prevede nemmeno la fine del mandato dei professionisti attuali, incappando nello stesso errore che caratterizzava la prima versione del taglio-Lanzillotta del 2006 (quello che portò da tre a uno i revisori negli enti fra 5mila e 15mila abitanti) e che fu poi costretto a cedere il passo alle norme ordinarie del Codice civile.
La riscrittura della revisione nei piccoli enti rischia dunque di tornare a infiammare le polemiche sul ruolo dei professionisti nella Pa locale, e di creare più di qualche problema applicativo. Non è solo questione di posti: in linea teorica l'azzeramento dei revisori nei piccoli enti può essere considerato coerente con la struttura delle Unioni future, con il bilancio dell'Unione che diventa il pilastro dei conti locali a scapito del bilancio del singolo ente. Il compito, però, non si presenta facile, anche perché lo stesso decreto sugli enti locali riempie di nuovi compiti l'agenda dei guardiani dei conti comunali all'interno del nuovo sistema dei controlli interni chiamato a verificare oltre agli equilibri finanziari il grado di attuazione dei programmi e a intervenire con «correttivi tempestivi» a correggere i casi di inefficienza.
Ma c'è un ultimo aspetto, che rischia di avere un effetto paradossale. In teoria, la riforma dei piccoli enti dovrebbe aggregare in Unioni tutti i Comuni sotto i 5mila abitanti, che sono però gli unici in cui possono debuttare i revisori al primo incarico secondo la riforma. Se quindi l'eccezione alle Unioni, che consente ai Comuni di legarsi in convenzioni rimanendo però distinti, non fosse seguita da nessuno, non ci sarebbe più una via d'accesso al ruolo di revisore dei conti per chi non ha già altri mandati alle spalle.
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Le novità
01 | NELLE CITTÀ
Cancellata la norma, contenuta nella versione originaria del decreto enti locali, che prevedeva nelle città sopra i 60mila abitanti, nelle Province e nei capoluoghi di Provincia la nomina del presidente dei revisori da parte del Governo, scegliendolo tra i dipendenti ministeriali
02 | NEI PICCOLI COMUNI
Nei Comuni inseriti in Unioni decade il revisore dei conti: la revisione è affidata esclusivamente a un collegio in capo all'Unione, chiamato a controllare i conti della stessa Unione ma anche dei Comuni che la compongono
03 | EFFETTO IMMEDIATO
Si prevede che i revisori decadono all'atto della costituzione dei nuovi collegi
04 | NUOVI REVISORI
Per la riforma i revisori al debutto possono operare solo negli enti fino a 5mila abitanti, dunque la nuova norma rischia di chiudere ogni accesso (articolo Il Sole 24 Ore del 19.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTINuovi compiti. Dopo il recepimento della direttiva Ue. Controlli periodici estesi anche ai tempi di pagamento.
ESAME COSTANTE/ Va rilevato tempestivamente l'emergere di possibili passività non previste a causa degli automatismi sugli interessi di mora.

Dal primo gennaio prossimo, i revisori degli enti locali dovranno preoccuparsi di verificare con maggiore attenzione la dinamica dei pagamenti delle Pubbliche amministrazioni sottoposte al loro controllo.
È questo uno degli effetti –e non certo di poco conto– del recepimento in Italia della Direttiva 2011/7/EU del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16.02.2011, relativa alla «lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali».
Con le modifiche apportate al Dlgs 231/2002, per le operazioni poste in essere dal 01.01.2013, gli enti locali saranno tenuti a onorare i propri impegni di pagamento al massimo entro 60 giorni dal ricevimento della fattura (o da altri particolari, specifici momenti individuati dalla norma). Ogni possibile eccezione a questo adempimento è stata rimossa proprio dalla Direttiva citata, e dal conseguente provvedimento varato dal nostro Governo lo scorso 31 ottobre. La sanzione per l'inadempimento è l'applicazione all'intero importo dovuto (somma scaduta e relative imposte, tasse e altri oneri applicabili) di pesanti interessi di mora (oggi fissati a un tasso di circa il 10% annuo).
Il Testo unico degli enti locali prevede che l'organo di revisione vigili sulla regolarità contabile, finanziaria e –in questo caso– economica della gestione, relativamente all'effettuazione delle spese e all'attività contrattuale, anche con tecniche motivate di campionamento. Pertanto, sarà compito specifico dei revisori effettuare delle verifiche periodiche (anche a campione) sulle modalità con le quali vengono disciplinate –in via contrattuale– le modalità di attribuzioni di penali e risarcimenti per danni subiti da ritardo di pagamento, tenendo a mente che il nuovo testo del Dlgs 231/2002 prevede la nullità di eventuali clausole che stabiliscano l'impossibilità di applicare interessi di mora, che escludano il risarcimento per i costi di recupero o che siano finalizzate a predeterminare o modificare la data di ricevimento della fattura.
Ancora con maggiore attenzione, l'organo di revisione dovrà monitorare la corretta dinamica dei pagamenti, rilevando –ove ne ricorrano i presupposti– i pericoli dell'emersione di passività non preventivate, ovvero quelle legate al l'eventuale necessità di corrispondere i non certo "economici" interessi di mora.
A tal fine, sarà necessario implementare –nei casi, non infrequenti, in cui non sia stato già fatto a cura del responsabile economico finanziario dell'ente– procedure ad hoc che effettuino il monitoraggio costante (e automatico) del decorso dei giorni dal recepimento ufficiale delle fatture passive, di modo da segnalare per tempo l'avvicinarsi del termine massimo per il pagamento (che, per i casi "normali", è addirittura di 30 e non 60 giorni). Tale procedura sarà, ovviamente utile per i "controlli in itinere" –demandati agli uffici dell'ente– ma anche all'organo di revisione che, oggi più di ieri, non potrà esimersi dal rilevare potenziali oneri non previsti, in tutti i casi di sforamento dei tempi massimi.
Bisogna, infatti, al riguardo rammentare che il creditore dell'ente ben potrebbe attivare le procedure giurisdizionali per l'ottenimento degli interessi moratori anche dopo il soddisfacimento del credito residuo e che -dunque- l'ente locale non è al riparo da tale evenienza nemmeno a pagamento effettuato (articolo Il Sole 24 Ore del 19.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

SEGRETARI COMUNALILa petizione. Spoil system, valanga di firme dai segretari.
I segretari comunali scendono in campo e si rivolgono direttamente al Governo per lamentare lo spoil system a cui sono soggetti.

Il fatto degno di nota è che la petizione, circolata in rete nei giorni scorsi (http://petizionepubblica.it) ha già ricevuto la firma di oltre mille sottoscrittori, coinvolgendo quindi circa un terzo dei segretari oggi in attività.
Lo spunto per la presa di posizione è la norma del decreto legge sugli enti locali, confermata con qualche correzione durante la conversione in legge alla Camera, che blinda la figura dei responsabili dei servizi finanziari; con le nuove regole, per revocare l'incarico occorre il riscontro di «gravi irregolarità nell'esercizio delle funzioni», e l'ordinanza di revoca firmata dal sindaco deve ricevere il via libera da parte del collegio dei revisori dei conti (nella versione originale del decreto 174/2012 era addirittura previsto il timbro da parte della Ragioneria generale dello Stato).
«Perché noi no?», si chiedono in sostanza i segretari comunali, che rimarcano la «scarsa considerazione prestata alla figura del segretario, a cui è esplicitamente affidata la direzione dei controlli interni, e che opera oggi in condizione di assoluta precarietà, dato che il suo incarico scade alla scadenza del mandato del sindaco». L'incongruenza agli occhi dei segretari si fa più grave alla luce delle nuove regole scritte nello stesso decreto legge sugli enti locali, che affidano proprio a segretari e responsabili dei servizi finanziari compiti gemelli nel coordinamento dei nuovi controlli interni.
Segretari e ragionieri capo, solo per fare un esempio, devono sovrintendere alle nuove regolazioni di inizio e fine mandato previste per sindaci e presidenti della Provincia, e rispondono personalmente con il dimezzamento dello stipendio per tre mesi se l'adempimento non viene effettuato. Senza «un adeguato sistema di tutela del ruolo -sostengono però i segretari- il potenziamento dei controlli è vanificato nella sostanza» (articolo Il Sole 24 Ore del 19.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGOLegge anticorruzione. Forte spinta alla trasparenza delle Pa.
Nomine discrezionali e incarichi extra assegnati in chiaro. Va attestata l'assenza di un conflitto d'interessi.

La legge anticorruzione "stringe" sulla trasparenza delle nomine discrezionali e l'assegnazione di incarichi nella pubblica amministrazione, imponendo una serie di nuovi adempimenti, finalizzati a mettere in chiaro i criteri di scelta e a garantire che l'affidamento di attività extradoveri d'ufficio non generi conflitti di interesse.
Le amministrazioni e le società partecipate devono anzitutto comunicare al dipartimento della Funzione pubblica –tramite organismi indipendenti di valutazione– tutti i dati utili a rilevare le posizioni dirigenziali attribuite a persone, anche esterne alle Pa, individuate discrezionalmente dal l'organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione. La previsione (articolo 1, comma 39, legge 190/2012) è finalizzata a garantire al meglio la separazione tra indirizzo politico e gestione.
Nella prospettiva invece di ridurre il rischio di potenziali conflitti di interesse, le nuove norme delineano un intervento integrativo nella legge 241/1990, inserendo nella stessa un articolo (il 6-bis) che disciplina la regolazione generale di questa situazione.
La disposizione prevede che il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale.
Se la norma incardinata nella legge sul procedimento amministrativo fornisce garanzie per l'azione dei funzionari pubblici in relazione alle attività amministrative, la legge anticorruzione rafforza e rende più stringenti le procedure relative all'autorizzazione di incarichi professionali ai dipendenti pubblici da parte di soggetti privati o pubblici, rimodulando e integrando varie parti dell'articolo 53 del Dlgs 165/2001.
In particolare, il provvedimento con cui l'amministrazione di appartenenza consente al dipendente di svolgere queste attività esterne deve ora contenere l'attestazione dell'avvenuta verifica dell'insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi. E la linea di tutela si estende anche a un periodo di garanzia successivo all'eventuale cessazione del rapporto di lavoro con l'amministrazione pubblica.
È infatti previsto che i dipendenti che, negli ultimi tre anni di servizio, hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni non possono svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell'attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri.
I contratti conclusi e gli incarichi conferiti in violazione di quanto previsto dal presente comma sono nulli ed è fatto divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o conferiti di contrattare con le pubbliche amministrazioni per i successivi tre anni con obbligo di restituzione dei compensi eventualmente percepiti e accertati ad essi riferiti.
La massima responsabilizzazione dei dipendenti pubblici sarà peraltro sostenuta (comma 44) con un nuovo e più articolato codice di comportamento generale, rispetto al quale ciascuna amministrazione definirà un proprio codice integrativo (con la collaborazione dell'organismo indipendente di valutazione) (articolo Il Sole 24 Ore del 19.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ATTI AMMINISTRATIVICittadini. L'accesso agli atti è garantito come i diritti sociali e civili. Sul web i bilanci e i costi dei servizi.
La legge anticorruzione ha elevato la trasparenza dell'attività amministrativa a livello essenziale delle prestazioni relative ai diritti sociali e civili in base all'articolo 117 della Costituzione, individuando una serie di adempimenti che permettano ai cittadini conoscere le dinamiche operative delle Pa.
Prima di tutto, vanno pubblicate le informazioni sui procedimenti amministrativi, in modo tale da risultare facilmente accessibili e semplici da consultare. Nel sito entrano poi i bilanci e i conti consuntivi, così da rendere operativo il principio di pubblicità previsto per questi documenti dall'articolo 151 del Tuel.
Ampia evidenza va fornita anche ai costi unitari di realizzazione delle opere pubbliche, in base a un modello schematico che dovrà essere approvato dall'Authority appalti. E, allo stesso modo, vanno resi pubblici i costi unitari di produzione dei servizi erogati ai cittadini, così come avviene oggi per solo i servizi a domanda individuale (peraltro in relazione alla percentuale di copertura con le tariffe).
Per garantire appieno l'accessibilità ai cittadini, la pubblicizzazione deve riguardare alcuni particolari tipi di documenti e dati: i provvedimenti di autorizzazione e di concessione, le informazioni sulla scelta dei contraenti e sulle modalità selettive per gli appalti pubblici, le concessioni di erogazioni e contributi, le informazioni sui concorsi e le prove selettive del personale. Si tratta peraltro di atti che, in forme diverse, hanno già percorsi di pubblicizzazione strutturata, come ad esempio l'albo dei beneficiari di contributi e di benefici economici o gli avvisi di post-aggiudicazione degli appalti.
La legge anticorruzione prevede anche norme specifiche sulla gestione dei procedimenti amministrativi. Scatta infatti l'obbligo di monitoraggio periodico del rispetto dei tempi procedimentali attraverso la tempestiva eliminazione delle anomalie: i risultati del monitoraggio devono essere resi consultabili nel sito web.
Ogni amministrazione deve anche rendere noto almeno un indirizzo di Pec al quale i cittadini possono inviare le istanze dei procedimenti e ricevere informazioni sull'attività amministrativa che li riguarda. Questo profilo si correla alle previsioni che rendono obbligatoria la messa a disposizione dei cittadini di strumenti telematici e informatici per accedere ai provvedimenti e ai procedimenti amministrativi che li riguardano, comprese quelle relative allo stato della procedura e ai tempi.
La formalizzazione delle decisioni delle Pa va garantita anche in caso di istanze manifestamente irricevibili, inammissibili, improcedibili o di domande infondate: in tutte queste ipotesi vanno prodotti provvedimenti espressi, redatti in forma semplificata, con una motivazione che può consistere in un sintetico riferimento all'elemento ritenuto risolutivo (articolo Il Sole 24 Ore del 19.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTIGare. Arbitrati solo se autorizzati dalla giunta. Appalti tracciabili a tutto campo sui siti istituzionali.
Gli appalti vanno pubblicizzati in modo specifico con informazioni sulle procedure, sugli affidatari e sui tempi di realizzazione, mentre il ricorso agli arbitrati va motivato e autorizzato dall'organo di governo dell'ente.
La legge anticorruzione prevede che le amministrazioni aggiudicatrici rendano disponibili in forma semplificata molte informazioni relative alla scelta del contraente e alla procedura selettiva. Le stazioni appaltanti hanno un obbligo specifico di pubblicazione, sui propri siti istituzionali, dei dati relativi al l'oggetto della gara, all'elenco degli operatori invitati a presentare offerte, all'aggiudicatario e all'importo di aggiudicazione. Lo stesso pacchetto informativo deve evidenziare i tempi di completamento dell'opera, del servizio o della fornitura, nonché l'importo delle somme liquidate. Entro il 31 gennaio di ogni anno, queste informazioni, relative alle gare dell'anno precedente, vanno pubblicate in tabelle riassuntive, liberamente scaricabili.
Una selezione di queste informazioni va trasmessa all'Authority degli appalti (che determinerà quelle rilevanti con proprio provvedimento), che le pubblica nel proprio sito web in una sezione liberamente consultabile da tutti i cittadini e che è tenuta a trasmettere alla Corte dei conti (entro il 30 aprile di ogni anno) l'elenco delle amministrazioni che non hanno adempiuto all'obbligo informativo (passibili di rilevanti sanzioni).
La legge delinea un quadro di maggior trasparenza anche per gli arbitrati sulle controversie derivanti dai contratti di appalto. Il ricorso agli arbitri, infatti, va motivato e autorizzato dalla giunta. L'inclusione della clausola compromissoria, senza preventiva autorizzazione, nel bando o nell'avviso di gara ovvero, per le procedure senza bando, nell'invito, o il ricorso all'arbitrato, senza preventiva autorizzazione, sono nulli (comma 19).
La nuova disciplina degli arbitrati (che si applica anche agli appalti delle società partecipate, ma che non riguarda quelli conferiti prima dell'entrata in vigore della legge) prevede che la nomina degli arbitri avvenga nel rispetto dei principi di pubblicità e di rotazione, nonché di quelli previsti dal codice dei contratti pubblici.
Le Pa devono nominare come arbitro preferibilmente un dirigente pubblico, prevedendo il compenso massimo. Qualora non sia possibile individuarlo tra i dirigenti pubblici, può essere nominato un altro soggetto, secondo le procedure del Dlgs 163/2006 e con provvedimento motivato.
Sul piano procedurale, la legge anticorruzione contiene una specificazione dei reati contro la pubblica amministrazione che costituiscono causa ostativa a contrattare.
Le stazioni appaltanti possono prevedere negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito che il mancato rispetto delle clausole contenute nei protocolli di legalità o nei patti di integrità costituisce causa di esclusione dalla gara.
Proprio per potenziare il contrasto all'influenza delle organizzazioni criminali sugli appalti, la legge prevede (commi 52-56) la costituzione presso le prefetture di elenchi di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a infiltrazioni mafiose (white list), con riferimento alle attività a rischio (articolo Il Sole 24 Ore del 19.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

INCARICHI PROFESSIONALICASSAZIONE/ Specificata l'applicazione per i legali. I parametri? Subito.
Conta il momento della parcella.

I nuovi parametri per la liquidazione degli onorari dell'avvocato sono applicabili anche per le attività difensive svolte nel precedente regime tariffario. Quello che conta, in sostanza, ai fini dell'uso della nuova o vecchia disciplina, è il momento in cui sono liquidati i compensi.
Lo ha chiarito la Sez. lavoro della Corte di Cassazione che, con la sentenza 21.11.2012 n. 20421, che ha quantificato secondo il nuovo metodo l'onorario di un avvocato per l'intero giudizio di Cassazione anche se quasi tutte le attività difensive erano state svolte nella vigenza delle tariffe forensi.
Secondo il collegio di legittimità il riferimento testuale al momento della liquidazione contenuto nell'articolo 41 del dm 140/2012 «depone per la soluzione interpretativa che porta a ritenere applicabile la nuova disciplina anche ai casi in cui le attività difensive si siano svolte o siano comunque iniziate nella vigenza dell'abrogato sistema tariffario forense». Dunque la Cassazione, nel determinare il compenso del professionista, ha in primo luogo ritenuto che non ci fossero elementi per giustificare un discostamento dal valore medio di riferimento indicato per ciascuna delle tre fasi previste per il giudizio di Cassazione e, quindi, liquidato per le fasi di studio, introduttiva e decisoria, un importo in misura onnicomprensiva.
La vicenda riguarda un dipendente di un consorzio di bonifica che aveva chiesto senza successo all'azienda l'indennità di trasferta o chilometrica.
Ma i giudici di merito avevano respinto l'istanza sostenendo che l'uomo era stato assegnato presso la nuova sede già da tre anni e che quindi si trattava di un trasferimento a tutti gli effetti. Contro questa decisione lui ha fatto ricorso in Cassazione ma senza successo. La sezione lavoro ha confermato il verdetto di merito fornendo queste ulteriori indicazioni circa l'applicabilità dei nuovi parametri forensi. Questa volta ha ancora il discrimine dell'uso fra le vecchie tariffe e i nuovi standard al momento della liquidazione e non a quello di svolgimento dell'attività difensiva in senso stretto.
Poco più di un mese fa le Sezioni unite della Cassazione avevano decretato genericamente la retroattività dei parametri senza altre indicazioni. In particolare in quella decisione (sentenza n. 17405) è stato stabilito che parametri di cui al dm 140/2012 per i compensi dei professionisti e in particolare degli avvocati devono essere applicati ogni volta che la liquidazione sia operata da un organo giurisdizionale in epoca successiva all'entrata in vigore del regolamento (articolo ItaliaOggi del 23.11.2012).

EDILIZIA PRIVATA: La c.d. “vicinitas” è l’elemento sufficiente che distingue la posizione giuridica del ricorrente da quella della generalità dei privati, sicché a chi si trovi in tale situazione va riconosciuto la tutela dell’interesse al rispetto delle norme procedimentali e sostanziali di regolamentazione urbanistico-edilizia; e nel caso in esame la ricorrente, come è pacifico in giudizio, è proprietaria d’immobili confinanti con quelli oggetto dei titoli edilizi da essa contestati, conseguendone la sussistenza della sua legittimazione ad agire.
In materia d’impugnazione dei titoli edilizi rilasciati a terzi, dopo l’abrogazione ad opera dell’art. 136 del D.P.R. n. 380/2001 dell’art. 31, comma 9, della legge n. 1150/1942 prevedente l’impugnabilità dei detti titoli da parte di “chiunque” inteso come coloro che abbiano uno stabile collegamento con la zona, la giurisprudenza (condivisa da questo Tribunale) ha avuto modo di affermare che la c.d. “vicinitas” è l’elemento sufficiente che distingue la posizione giuridica del ricorrente da quella della generalità dei privati, sicché a chi si trovi in tale situazione va riconosciuto la tutela dell’interesse al rispetto delle norme procedimentali e sostanziali di regolamentazione urbanistico-edilizia (Cfr. Cons. di Stato – Sez. IV – 23/01/2012 n. 184; id. Sez. 05/01/2011 n. 18); e nel caso in esame la ricorrente, come è pacifico in giudizio, è proprietaria d’immobili confinanti con quelli oggetto dei titoli edilizi da essa contestati, conseguendone la sussistenza della sua legittimazione ad agire (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 21.11.2012 n. 2112 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Anche ai sensi dell’art. 35 d.P.R. n. 380/2001, la realizzazione sine titulo da parte di privati di interventi su suoli di pertinenza pubblica può essere sanzionata con la misura ripristinatoria solo qualora essa sia avvenuta “in assenza di permesso di costruire, ovvero in totale o parziale difformità dal medesimo”.
La sanzione demolitoria comminata dall’Amministrazione intimata presuppone che, ai fini della lecita realizzazione dell’opera de qua, sarebbe stata necessaria l’acquisizione del permesso di costruire: invero, anche ai sensi dell’art. 35 d.P.R. n. 380/2001, la realizzazione sine titulo da parte di privati di interventi su suoli di pertinenza pubblica può essere sanzionata con la misura ripristinatoria solo qualora essa sia avvenuta “in assenza di permesso di costruire, ovvero in totale o parziale difformità dal medesimo”.
Ebbene, la giurisprudenza amministrativa, con riferimento ad opere analoghe -per finalità e dimensioni- a quella interessata dal provvedimento impugnato, ha affermato la sufficienza, ai fini della loro lecita realizzazione, della d.i.a. (cfr. TAR per la Campania, Napoli, Sez. VIII, n. 95 del 14.01.2010, concernente un muro di recinzione in cls. armato di spessore mt. 0,25 ed altezza di c.a. mt. 3,00: “per quanto attiene alla contestata realizzazione del muro -premesso che, secondo il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, la valutazione in ordine alla necessità del tipo di titolo abilitativo per la realizzazione di opere di recinzione va effettuata sulla scorta dei due parametri consistenti nella natura e dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione- deve rilevarsi come nel caso di specie le opere contestate, non comportando significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, non richiedono il rilascio di una concessione edilizia (oggi permesso di costruire), ma la presentazione di una semplice dichiarazione di inizio di attività, di tal che, in assenza, è irrogabile la sola sanzione pecuniaria e giammai la misura della demolizione”).
Ne consegue che, a prescindere dalla effettiva insistenza dell’opera in discorso su suolo comunale e dall’epoca della sua realizzazione (se cioè precedente o successiva all’acquisizione del suolo da parte del Comune di San Mango Piemonte), fa difetto il presupposto legittimante il provvedimento impugnato, connesso alla necessità, per la lecita esecuzione dell’intervento contestato, del permesso di costruire (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 21.11.2012 n. 2103 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Pur dovendosi normalmente commisurare gli oneri concessori al momento in cui il titolo abilitativo viene rilasciato, giusta la giurisprudenza citata dalla difesa del Comune, nella specie detta regola deve trovare di necessità un contemperamento, attesa l’operatività del principio generale, immanente al sistema processuale, non solo amministrativo, secondo il quale il tempo necessario per pervenire ad una decisione nel merito non può andare a detrimento di chi ha ragione.
Pur dovendosi normalmente commisurare gli oneri concessori al momento in cui il titolo abilitativo viene rilasciato, giusta la giurisprudenza citata dalla difesa del Comune, nella specie detta regola deve trovare di necessità un contemperamento, attesa l’operatività del principio generale, immanente al sistema processuale, non solo amministrativo, secondo il quale il tempo necessario per pervenire ad una decisione nel merito non può andare a detrimento di chi ha ragione.
Nella specie, alcuni dati risaltano incontrovertibili: che il ricorrente ha chiesto il rilascio della concessione edilizia nel 2000; che ha integrato detta richiesta nel 2001; che il nulla osta sindacale è stato rilasciato nello stesso 2001; che non è seguito il rilascio della concessione edilizia, perché detto nulla osta è stato annullato dall’organo tutorio statale; che detto annullamento, ritualmente impugnato dinanzi agli organi della giustizia amministrativa, è stato infine dichiarato illegittimo e, a sua volta, annullato dal Consiglio di Stato nel 2009; che, dopo detta sentenza, il ricorrente, all’uopo interpellato dal Comune, ha chiesto di poter proseguire proprio il procedimento, scaturito dall’istanza del 2000, arrestatosi per effetto dell’intervento della Soprintendenza, reputato illegittimo dal Consiglio di Stato.
Orbene, la pretesa del Comune di Battipaglia, d’applicare alla determinazione degli oneri concessori la disciplina, fissata con deliberazione consiliare dell’ottobre 2010, significherebbe svuotare di significato il principio generale di cui sopra, il cui scopo consiste nell’impedire che il decorso del tempo necessario all’emissione della decisione possa vanificare la satisfattività, sotto ogni aspetto, della pronuncia.
Di tale principio, del resto, ha implicitamente ma sicuramente fatto applicazione la sentenza della Terza Sezione del TAR Puglia–Bari (n. 1139/2011), richiamata a supporto delle argomentazioni spiegate in ricorso, allorquando in parte motiva i Giudici hanno osservato: “Non è quindi revocabile in dubbio che l’amministrazione potesse provvedere in modo favorevole ai richiedenti già alla data del primo diniego poi annullato”, dovendo quindi l’Amministrazione quantificare gli oneri dovuti, secondo il regime vigente a tale data.
Analogamente, nella specie, gli oneri concessori andranno quantificati dal Comune, secondo il regime vigente al momento della proposizione del ricorso al TAR, avverso il provvedimento della Soprintendenza, di annullamento del nulla osta sindacale del 25.07.2001, dovendo appunto gli effetti favorevoli della sentenza del C. di S. retroagire alla data di esercizio dell’azione, a tutela degli effetti conformativi del giudicato di annullamento del provvedimento della Soprintendenza, che aveva determinato l’illegittimo arresto del procedimento volto al rilascio del titolo abilitativo in materia edilizia.
L’argomento è dirimente, e vale a superare anche la, pur pertinente, osservazione di parte ricorrente, secondo cui il Comune ben avrebbe potuto, in ogni caso, concludere il procedimento in questione, nel tempo intercorrente tra la domanda dello stesso ricorrente (dell’11–14.06.2010), di voler coltivare l’originaria istanza e la successiva emanazione della delibera consiliare, di rideterminazione degli oneri concessori (del 06.10.2010), in tal modo impedendo che lo stesso ricorrente dovesse corrispondere un importo maggiorato, a titolo di pagamento degli oneri in questione.
L’accoglimento della domanda principale, di annullamento, in parte qua, degli atti impugnati, assorbe quella subordinata, di risarcimento del danno, la quale va quindi dichiarata improcedibile, per sopravvenuta carenza d’interesse (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 21.11.2012 n. 2097 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Con specifico riferimento ai poteri della Regione (o dell’ente subdelegato), va rilevato che la funzione dell’autorizzazione paesaggistica è quella di verifica della compatibilità dell’opera edilizia che si intende realizzare con l’esigenza di conservazione dei valori paesistici protetti dal vincolo.
E’ stato, infatti, evidenziato che quest’ultimo contiene un accertamento circa l’esistenza di valori paesistici oggettivamente non derogabile e che è compito dell’autorizzazione accertare in concreto la compatibilità dell’intervento con il mantenimento e l’integrità dei richiamati valori.
Difatti, il paesaggio è un valore costituzionale primario e, pertanto, l’autorità amministrativa non deve svolgere una ponderazione comparativa tra un interesse primario ed un interesse secondario, ma unicamente operare un giudizio in concreto circa il rispetto da parte dell’intervento progettato delle esigenze connesse alla tutela del paesaggio stesso.
La determinazione dell’ente locale deve, dunque, essere motivata anche quando abbia contenuto positivo, favorevole al richiedente.
Tale principio, già consolidato in giurisprudenza in relazione alla peculiare natura dell’atto ed alla rilevanza degli interessi coinvolti, trova oggi espresso fondamento normativo nell’articolo 3 della legge n. 241/1990, secondo il quale ogni provvedimento amministrativo, di contenuto sia negativo che positivo, deve essere motivato, recando l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione in relazione alle risultanze dell’istruttoria.
Quanto, poi, al contenuto di tale motivazione, la giurisprudenza è ferma nel ritenere, ai fini della congruità e sufficienza della stessa, che debba esservi l’indicazione della ricostruzione dell’iter logico seguito, in ordine alle ragioni di compatibilità effettive che –in riferimento agli specifici valori paesistici dei luoghi- possano consentire tutti i progettati lavori, considerati nella loro globalità e non esclusivamente in semplici episodi di dettaglio.
E’, dunque, necessario motivare l’autorizzazione in modo tale che emerga l’apprezzamento di tutte le rilevanti circostanze di fatto e la non manifesta irragionevolezza della scelta effettuata sulla prevalenza di un valore in conflitto con quello tutelato in via primaria, non potendo l’autorità amministrativa limitarsi ad affermazioni apodittiche e dovendosi pure riferire non all’entità atomisticamente valutata del singolo intervento, ma al complesso strutturalmente individuato che deriva dalla sovrapposizione con quello preesistente.
Occorre, quindi, esternare adeguatamente l’avvenuto apprezzamento comparativo, da un lato, del contenuto del vincolo e, dall’altro, di tutte le rilevanti circostanze di fatto relative al manufatto ed al suo inserimento nel contesto protetto, in modo da giustificare la scelta di dare prevalenza all’interesse del privato rispetto a quello tutelato in via primaria attraverso l’imposizione del vincolo.
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Ci si deve porre il problema del contenuto dell’obbligo di motivazione facente capo all’autorità ministeriale nel pronunziare l’annullamento dell’autorizzazione paesistica, considerato che l’articolo 82 del DPR n. 616/1977 (di poi l’articolo 151 del D.Lgs. n. 490/1999 ed oggi l’art. 159 del D.Lgs. n. 42/2004) sancisce espressamente che questo possa essere disposto “con provvedimento motivato”.
E’ evidente, peraltro, che la sufficienza e la congruità della motivazione va individuata in relazione al potere in concreto esercitato, che nel caso di specie si identifica “nel quadro di un più generale potere-dovere di vigilanza sull’esercizio delle funzioni delegate, in un potere di annullamento di ufficio per motivi di legittimità delle determinazioni assunte dall’autorità regionale (o subregionale)”.
Orbene, essendo quest’ultima, per le ragioni sopra esposte, obbligata ad esternare le ragioni per le quali ritiene l’opera compatibile con i valori protetti dal vincolo, risulta evidente che, nel caso di avvenuta enunciazione dei motivi, l’autorità ministeriale che pronunzi l’annullamento deve specificare diffusamente le ragioni della riscontrata illegittimità, con riferimento a quanto affermato dall’ente locale.
Al contrario, quando l’autorità regionale o subregionale siano venute clamorosamente meno all’obbligo di motivazione, risulta sufficiente il rilievo da parte del Ministero della suddetta mancanza, non essendo stata in concreto esternata alcuna verifica di compatibilità dell’opera con il valore paesistico protetto, accertamento che costituisce funzione e contenuto essenziale del nulla osta.
In tale situazione il riferimento, contenuto nella determinazione statale, alla natura e consistenza dell’opera progettata ed alle caratteristiche del luogo, lungi dal configurare un riesame del merito, si afferma come evidenziazione dell’esistenza di un valore paesistico tutelato e come rilievo della necessità del giudizio di compatibilità in concreto pretermesso in relazione ad un intervento di trasformazione del territorio, capace di incidere, per natura ed entità, sul bene vincolato.
Va, peraltro, precisato che il Consiglio di Stato ha, da ultimo, affermato che:
- il potere di annullamento della Soprintendenza non consente il riesame nel merito delle valutazioni discrezionali compiute dalla Regione o dall’ente subdelegato (nella specie, il Comune), ma si esprime in un controllo di legittimità, esteso a tutte le ipotesi riconducibili all’eccesso di potere, anche per difetto di motivazione e di istruttoria;
- il Comune deve quindi esercitare il proprio potere motivando adeguatamente sulla compatibilità dell’opera con il vincolo paesaggistico dell’opera oggetto di assentimento, in relazione a tutte le circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo in caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o di istruttoria;
- l’autorità statale, se ravvisa un tale vizio nell’atto oggetto del suo riesame, nel proprio provvedimento, perché sia a sua volta immune da vizi di legittimità, motiva sulla non compatibilità degli interventi programmati rispetto ai valori paesistici compendiati nel vincolo.

Orbene, ritiene il Tribunale che legittimamente l’autorità ministeriale ha rilevato, ponendolo a base del disposto annullamento, il difetto di motivazione dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dall’autorità comunale.
L’articolo 82 del DPR n. 616/1977 (di poi la normativa di cui all’art. 151 del D.Lgs. n. 490/1999 ed oggi quella contenuta nel D.Lgs. n. 42/2004) configura un sistema complesso di tutela del paesaggio, implicante l’intervento sia della Regione che dello Stato, in cui la concorrenza dei poteri è disciplinata dal principio di leale cooperazione (Corte Cost., sent. n. 359/1995, n. 151/1986, n. 302/1988).
Con specifico riferimento ai poteri della Regione (o dell’ente subdelegato), va rilevato che la funzione dell’autorizzazione è quella di verifica della compatibilità dell’opera edilizia che si intende realizzare con l’esigenza di conservazione dei valori paesistici protetti dal vincolo.
E’ stato, infatti, evidenziato (cfr. Cons. Stato, VI, 14-11-1991, n. 828; VI, 25-09-1995, n. 963) che quest’ultimo contiene un accertamento circa l’esistenza di valori paesistici oggettivamente non derogabile e che è compito dell’autorizzazione accertare in concreto la compatibilità dell’intervento con il mantenimento e l’integrità dei richiamati valori.
Difatti, il paesaggio è un valore costituzionale primario e, pertanto, l’autorità amministrativa non deve svolgere una ponderazione comparativa tra un interesse primario ed un interesse secondario, ma unicamente operare un giudizio in concreto circa il rispetto da parte dell’intervento progettato delle esigenze connesse alla tutela del paesaggio stesso.
La determinazione dell’ente locale deve, dunque, essere motivata anche quando abbia contenuto positivo, favorevole al richiedente.
Tale principio, già consolidato in giurisprudenza in relazione alla peculiare natura dell’atto ed alla rilevanza degli interessi coinvolti (cfr. Cons. Stato, VI, 15-12-1981, n.751; 19-05-1981, n.221; IV, 18-11-1980, n. 1104), trova oggi espresso fondamento normativo nell’articolo 3 della legge n. 241/1990, secondo il quale ogni provvedimento amministrativo, di contenuto sia negativo che positivo, deve essere motivato, recando l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione in relazione alle risultanze dell’istruttoria.
Quanto, poi, al contenuto di tale motivazione, la giurisprudenza è ferma nel ritenere, ai fini della congruità e sufficienza della stessa, che debba esservi l’indicazione della ricostruzione dell’iter logico seguito, in ordine alle ragioni di compatibilità effettive che –in riferimento agli specifici valori paesistici dei luoghi- possano consentire tutti i progettati lavori, considerati nella loro globalità e non esclusivamente in semplici episodi di dettaglio (cfr. Cons. Stato, VI, 05-07-1990, n. 692; 14-11-1991, n. 828; 25-09-1993, n. 963; 20-06-1995, n. 952).
E’, dunque, necessario motivare l’autorizzazione in modo tale che emerga l’apprezzamento di tutte le rilevanti circostanze di fatto e la non manifesta irragionevolezza della scelta effettuata sulla prevalenza di un valore in conflitto con quello tutelato in via primaria (cfr. Cons. Stato, VI, 04-06-2004, n. 3495), non potendo l’autorità amministrativa limitarsi ad affermazioni apodittiche e dovendosi pure riferire non all’entità atomisticamente valutata del singolo intervento, ma al complesso strutturalmente individuato che deriva dalla sovrapposizione con quello preesistente (cfr. Cons. Stato, VI, 03-03-2004, n. 1060; 14-05-2004, n. 3116).
Occorre, quindi, esternare adeguatamente l’avvenuto apprezzamento comparativo, da un lato, del contenuto del vincolo e, dall’altro, di tutte le rilevanti circostanze di fatto relative al manufatto ed al suo inserimento nel contesto protetto, in modo da giustificare la scelta di dare prevalenza all’interesse del privato rispetto a quello tutelato in via primaria attraverso l’imposizione del vincolo (cfr. Cons. Stato, VI, 21-02-2007, n. 924).
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Ciò posto, ci si deve porre il problema del contenuto dell’obbligo di motivazione facente capo all’autorità ministeriale nel pronunziare l’annullamento dell’autorizzazione paesistica, considerato che l’articolo 82 del DPR n. 616/1977 (di poi l’articolo 151 del D.Lgs. n. 490/1999 ed oggi l’art. 159 del D.Lgs. n. 42/2004) sancisce espressamente che questo possa essere disposto “con provvedimento motivato”.
E’ evidente, peraltro, che la sufficienza e la congruità della motivazione va individuata in relazione al potere in concreto esercitato (cfr. Cons. Stato, VI, 20-06-1997, n. 952 cit.), che nel caso di specie si identifica “nel quadro di un più generale potere-dovere di vigilanza sull’esercizio delle funzioni delegate, in un potere di annullamento di ufficio per motivi di legittimità delle determinazioni assunte dall’autorità regionale (o subregionale)”.
Orbene, essendo quest’ultima, per le ragioni sopra esposte, obbligata ad esternare le ragioni per le quali ritiene l’opera compatibile con i valori protetti dal vincolo, risulta evidente che, nel caso di avvenuta enunciazione dei motivi, l’autorità ministeriale che pronunzi l’annullamento deve specificare diffusamente le ragioni della riscontrata illegittimità, con riferimento a quanto affermato dall’ente locale.
Al contrario, quando l’autorità regionale o subregionale siano venute clamorosamente meno all’obbligo di motivazione, risulta sufficiente il rilievo da parte del Ministero della suddetta mancanza, non essendo stata in concreto esternata alcuna verifica di compatibilità dell’opera con il valore paesistico protetto, accertamento che costituisce funzione e contenuto essenziale del nulla osta.
In tale situazione il riferimento, contenuto nella determinazione statale, alla natura e consistenza dell’opera progettata ed alle caratteristiche del luogo, lungi dal configurare un riesame del merito, si afferma come evidenziazione dell’esistenza di un valore paesistico tutelato e come rilievo della necessità del giudizio di compatibilità in concreto pretermesso in relazione ad un intervento di trasformazione del territorio, capace di incidere, per natura ed entità, sul bene vincolato.
Va, peraltro, precisato che il Consiglio di Stato (cfr. VI, 26-07-2010, n. 4861; VI, 14-07-2011, n. 4297) ha, da ultimo, affermato che:
- il potere di annullamento della Soprintendenza non consente il riesame nel merito delle valutazioni discrezionali compiute dalla Regione o dall’ente subdelegato (nella specie, il Comune), ma si esprime in un controllo di legittimità, esteso a tutte le ipotesi riconducibili all’eccesso di potere, anche per difetto di motivazione e di istruttoria;
- il Comune deve quindi esercitare il proprio potere motivando adeguatamente sulla compatibilità dell’opera con il vincolo paesaggistico dell’opera oggetto di assentimento, in relazione a tutte le circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo in caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o di istruttoria;
- l’autorità statale, se ravvisa un tale vizio nell’atto oggetto del suo riesame, nel proprio provvedimento, perché sia a sua volta immune da vizi di legittimità, motiva sulla non compatibilità degli interventi programmati rispetto ai valori paesistici compendiati nel vincolo
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 21.11.2012 n. 2094 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Chi contesta la legittimità dell’ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo, realizzato al di fuori del centro abitato, ha l’onere di fornire per lo meno un principio di prova in ordine al tempo di ultimazione di quest’ultimo, se asserisce che è stato realizzato prima dell’entrata in vigore della legge n. 755/1967, ossia quando per tali tipi di costruzione non era prescritta alcuna licenza edilizia.
La giurisprudenza (cfr. TAR Campobasso, Molise, I, 17-02-2012, n. 37) ha avuto modo di affermare che chi contesta la legittimità dell’ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo, realizzato al di fuori del centro abitato, ha l’onere di fornire per lo meno un principio di prova in ordine al tempo di ultimazione di quest’ultimo, se asserisce che è stato realizzato prima dell’entrata in vigore della legge n. 755/1967, ossia quando per tali tipi di costruzione non era prescritta alcuna licenza edilizia (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 21.11.2012 n. 2091 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’istituto della variante in corso d’opera, o “variante leggera”, previsto dall’articolo 15 della legge n. 47/1985, è finalizzato ad ottenere la regolarizzazione di opere minori realizzate nel corso della esecuzione dei lavori e non conformi rispetto al titolo abilitativo originario.
Esso si caratterizza, rispetto alla variante cd. “ordinaria” ed a quella cd. “essenziale” per la circostanza che la sua approvazione può essere richiesta fino alla ultimazione dei lavori e, dunque, non opera la regola della necessaria preventiva emanazione del provvedimento amministrativo abilitativo.
La domanda di variante costituisce comunque manifestazione della volontà del privato di regolarizzare le opere edilizie realizzate e, pone, di conseguenza, anche perché espressamente prevista dal legislatore, un obbligo di pronunzia in capo all’autorità amministrativa.
Tale obbligo di pronunzia, in considerazione della manifestata volontà di regolarizzazione, sussiste anche quando, per ipotesi, il privato abbia errato nella qualificazione dell’istituto utilizzabile (ad esempio, richiedendo una variante leggera in luogo di una pesante ovvero, avendo già realizzato gli interventi e non sussistendo i presupposti di applicabilità del richiamato articolo 15, in luogo di una ordinaria istanza di sanatoria o accertamento di conformità).
Invero, questi, edotto della esatta natura giuridica della vicenda, ben potrebbe modificare ed adeguare a norma la sua richiesta, valendo in ogni caso, avuto riguardo alla avvenuta espressione di una volontà di regolarizzazione, la regola generale che tale strada debba sempre essere percorsa e comunque precedere l’attività sanzionatoria propriamente intesa (arg. ex art. 6 l. n. 241/1990 ).
In considerazione di quanto sopra e della identità di ratio (trattandosi di istituti diretti a ricondurre nella sfera della legalità l’attività costruttiva svolta) valgono, dunque, nella fattispecie in esame i principi pacificamente affermati dalla giurisprudenza in materia di sanatoria edilizia.
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Costituisce costante affermazione giurisprudenziale che le sanzioni per illeciti edilizi, pur obbligatorie per legge, non sono irrogabili fino a che l’amministrazione non si sia pronunziata sulla eventuale domanda di sanatoria dell’abuso.
La suddetta regola costituisce espressione del generale principio di ragionevolezza dell’azione amministrativa, costituente principio assoluto del procedimento e concretatesi nella adeguatezza e plausibilità della valutazione degli interessi da parte della p.a..
Essa, invero, risponde altresì al canone di economicità dell’azione amministrativa, risultando, oltre che illogico ed irragionevole, anche antieconomico procedere alla irrogazione di sanzioni se, in presenza di una violazione meramente formale, l’attività di trasformazione del territorio compiuta dal privato può essere ricondotta alla legalità.
Il procedimento sanzionatorio e quello di sanatoria costituiscono tipici procedimenti collegati: trattasi di procedimenti tra loro distinti ed autonomi (a differenza dei subprocedimenti), ma reciprocamente interferenti, nel senso che i vizi e le anomalie dell’uno incidono anche sull’altro.
In tal modo, pertanto, proposta la domanda di sanatoria prima della irrogazione di sanzioni, il procedimento sanzionatorio non può essere portato a conclusione prima della definizione del procedimento di sanatoria; prodotta, invece, l’istanza di sanatoria dopo la irrogazione della sanzione, quest’ultimo procedimento deve essere sospeso fino alla definizione del primo.

Osserva al riguardo il Tribunale che l’istituto della variante in corso d’opera, o “variante leggera”, previsto dall’articolo 15 della legge n. 47/1985, è finalizzato ad ottenere la regolarizzazione di opere minori realizzate nel corso della esecuzione dei lavori e non conformi rispetto al titolo abilitativo originario.
Esso si caratterizza, rispetto alla variante cd. “ordinaria” ed a quella cd. “essenziale” per la circostanza che la sua approvazione può essere richiesta fino alla ultimazione dei lavori e, dunque, non opera la regola della necessaria preventiva emanazione del provvedimento amministrativo abilitativo.
La domanda di variante costituisce comunque manifestazione della volontà del privato di regolarizzare le opere edilizie realizzate e, pone, di conseguenza, anche perché espressamente prevista dal legislatore, un obbligo di pronunzia in capo all’autorità amministrativa.
Tale obbligo di pronunzia, in considerazione della manifestata volontà di regolarizzazione, sussiste anche quando, per ipotesi, il privato abbia errato nella qualificazione dell’istituto utilizzabile (ad esempio, richiedendo una variante leggera in luogo di una pesante ovvero, avendo già realizzato gli interventi e non sussistendo i presupposti di applicabilità del richiamato articolo 15, in luogo di una ordinaria istanza di sanatoria o accertamento di conformità).
Invero, questi, edotto della esatta natura giuridica della vicenda, ben potrebbe modificare ed adeguare a norma la sua richiesta, valendo in ogni caso, avuto riguardo alla avvenuta espressione di una volontà di regolarizzazione, la regola generale che tale strada debba sempre essere percorsa e comunque precedere l’attività sanzionatoria propriamente intesa (arg. ex art. 6 l. n. 241/1990 ).
In considerazione di quanto sopra e della identità di ratio (trattandosi di istituti diretti a ricondurre nella sfera della legalità l’attività costruttiva svolta) valgono, dunque, nella fattispecie in esame i principi pacificamente affermati dalla giurisprudenza in materia di sanatoria edilizia.
L’ente locale, anziché previamente definire il procedimento di variante con provvedimento espresso e motivato, ha irrogato ai sig.ri Pisapia e Rega la sanzione edilizia della demolizione.
Tale provvedimento è illegittimo.
Costituisce, invero, costante affermazione giurisprudenziale che le sanzioni per illeciti edilizi, pur obbligatorie per legge, non sono irrogabili fino a che l’amministrazione non si sia pronunziata sulla eventuale domanda di sanatoria dell’abuso.
La suddetta regola costituisce espressione del generale principio di ragionevolezza dell’azione amministrativa, costituente principio assoluto del procedimento e concretatesi nella adeguatezza e plausibilità della valutazione degli interessi da parte della p.a..
Essa, invero, risponde altresì al canone di economicità dell’azione amministrativa, risultando, oltre che illogico ed irragionevole, anche antieconomico procedere alla irrogazione di sanzioni se, in presenza di una violazione meramente formale, l’attività di trasformazione del territorio compiuta dal privato può essere ricondotta alla legalità.
Il procedimento sanzionatorio e quello di sanatoria costituiscono tipici procedimenti collegati: trattasi di procedimenti tra loro distinti ed autonomi (a differenza dei subprocedimenti), ma reciprocamente interferenti, nel senso che i vizi e le anomalie dell’uno incidono anche sull’altro.
In tal modo, pertanto, proposta la domanda di sanatoria prima della irrogazione di sanzioni, il procedimento sanzionatorio non può essere portato a conclusione prima della definizione del procedimento di sanatoria; prodotta, invece, l’istanza di sanatoria dopo la irrogazione della sanzione, quest’ultimo procedimento deve essere sospeso fino alla definizione del primo.
La violazione di tali regole comporta l’illegittimità del provvedimento adottato (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 21.11.2012 n. 2090 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha interpretato l'art. art. 3 della L.r. 93/1980 nel senso che l'accertamento del Sindaco deve soffermarsi sull'effettiva destinazione funzionale dei manufatti progettati all'attività di produzione agricola, indipendentemente dalla preesistenza sull'area di un'azienda agricola.
Detta disposizione, per aderenza alla ratio che ispira la legge ed in armonia con i principi costituzionali di uguaglianza e libertà di iniziativa economica, non può quindi essere interpretata nel senso di limitare la possibilità edificatoria di soggetti che, pur intendendo attivare un'azienda agricola, non siano titolari di un complesso produttivo a ciò già destinato ed operante.

L’art. 9, comma 1, della L. 10/1977 stabilisce che il contributo di cui al precedente articolo 3 (per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione) non è dovuto “per le opere da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell'art. 12, L. 09.05.1975, n. 153” (lett. a). L’art. 3, comma 2, della L.r. 93/1980 subordina a sua volta il rilascio della concessione edilizia all'accertamento da parte del Sindaco dell'effettiva esistenza e funzionamento dell'azienda agricola.
La giurisprudenza ha interpretato il predetto art. 3 della L.r. 93/1980 nel senso che l'accertamento del Sindaco deve soffermarsi sull'effettiva destinazione funzionale dei manufatti progettati all'attività di produzione agricola, indipendentemente dalla preesistenza sull'area di un'azienda agricola (cfr. TAR Lombardia Brescia – 22/06/1989 n. 718; TAR Lombardia Milano, sez. II – 26/09/2002 n. 3810). Detta disposizione, per aderenza alla ratio che ispira la legge ed in armonia con i principi costituzionali di uguaglianza e libertà di iniziativa economica, non può quindi essere interpretata nel senso di limitare la possibilità edificatoria di soggetti che, pur intendendo attivare un'azienda agricola, non siano titolari di un complesso produttivo a ciò già destinato ed operante (Consiglio di Stato, sez. V – 21/10/1998 n. 1509).
Se dunque il Comune si deve limitare a verificare l’esistenza dell’Azienda (anche appena insediata) e l’effettiva destinazione delle opere all’attività agricola (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II – 17/10/2008 n. 5151), ne deriva che nel caso in esame ricorrevano i presupposti richiesti dal citato art. 3 per il rilascio della concessione edilizia gratuita. E’ infatti dedotta, fino al 2000, la gestione di un allevamento di capi equini, mentre il titolo abilitativo richiesto aveva lo scopo (dichiarato) di ricostruire i manufatti danneggiati dall’incendio per riprendere l’attività: l’autorità pubblica doveva dunque soltanto verificare la compatibilità delle opere richieste con le potenzialità produttive dell’Azienda, salvo focalizzare “ex post” l’indagine sull’effettiva riattivazione.
Il ricorso è dunque fondato e deve essere accolto nel senso sopra indicato, con l’obbligo per il Comune di restituire quanto indebitamente preteso, salvo il controllo (ora per allora) sull’esercizio in concreto dell’attività nelle annate successive alla conclusione dei lavori.
Sulla somma vanno calcolati gli interessi i quali decorrono –trattandosi di azione di ripetizione di indebito– dalla data di proposizione della domanda giudiziale, dovendosi presumere la buona fede dell’amministrazione resistente in assenza di dimostrazione contraria, mentre non spetta la rivalutazione monetaria trattandosi di indebito oggettivo il quale genera solo l’obbligazione di restituzione degli interessi a norma dell’art. 2033 del c.c. (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II – 05/05/2004 n. 1620; TAR Lazio Roma, sez. I – 19/01/1999 n. 99; Consiglio di Stato, sez. V – 30/10/1997 n. 1207) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 21.11.2012 n. 1822 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa lottizzazione abusiva sussiste in tutti i casi in cui la combinazione e la coordinata esplicazione di attività legittime e di attività abusive, si risolve in un’illegittima interferenza con la programmazione urbanistica ed integra un illegittimo mutamento della destinazione all'uso del territorio, in quanto le variazioni apportate e gli abusi realizzati incidano esclusivamente sulla destinazione d'uso dei manufatti realizzati.
In via generale in materia edilizia, è configurabile la lottizzazione abusiva materiale, anche solo mediante modifica della destinazione d'uso di edifici già esistenti, quando risulti alterato il complessivo assetto del territorio comunale attuato mediante lo strumento urbanistico al quale è affidata la pianificazione delle diverse destinazioni d'uso del territorio e l'assegnazione a ciascuna di esse di determinate quantità e qualità di servizi.

Come la Sezione ha avuto modo di rilevare, la lottizzazione abusiva sussiste in tutti i casi in cui la combinazione e la coordinata esplicazione di attività legittime e di attività abusive, si risolve in un’illegittima interferenza con la programmazione urbanistica ed integra un illegittimo mutamento della destinazione all'uso del territorio, in quanto le variazioni apportate e gli abusi realizzati incidano esclusivamente sulla destinazione d'uso dei manufatti realizzati (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 07.06.2012 n. 3381).
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La Suprema Corte aveva infatti affermato (sia pure a proposito della modifica della destinazione d'uso da alberghiera a residenziale di un immobile già regolarmente edificato) che, in via generale in materia edilizia, è configurabile la lottizzazione abusiva materiale, anche solo mediante modifica della destinazione d'uso di edifici già esistenti, quando risulti alterato il complessivo assetto del territorio comunale attuato mediante lo strumento urbanistico al quale è affidata la pianificazione delle diverse destinazioni d'uso del territorio e l'assegnazione a ciascuna di esse di determinate quantità e qualità di servizi (così Cass. Pen citata nella sentenza gravata: Sez. III 07.03.2008 n. 24096 con un indirizzo sostanzialmente conforme ai suoi precedenti: Cass. pen. n. 13687 del 2007, Cass. pen. n. 6396 del 2007, Cass. pen. n. 6990 del 2006, Cass. pen., sez. III, 21.01.2005 n. 10889, Cass. pen., sez. III, 02.03.2004 n. 20661) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.11.2012 n. 5883 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZILa normativa nazionale e comunitaria consente anche a soggetti senza scopo di lucro di partecipare alle procedure per l’affidamento di contratti pubblici alla condizione che esercitino anche attività d’impresa funzionale ai loro scopi ed in linea con la relativa disciplina statutaria, giacché l’assenza di fini di lucro non esclude che tali soggetti possano esercitare un’attività economica e che, dunque, siano ritenuti “operatori economici”, potendo soddisfare i necessari requisiti per essere qualificati come “imprenditori”, “fornitori” o “prestatori di servizi”.
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L’assenza dello scopo di lucro non impedisce la qualificazione di un soggetto come imprenditore e non ne giustifica l'esclusione dalla partecipazione alle gare a priori e senza ulteriori analisi, atteso che la normativa comunitaria, segnatamente la direttiva 2004/18/CE, osta all’esclusione di concorrenti dall’aggiudicazione di appalti pubblici per il solo motivo che essi non abbiano la forma giuridica corrispondente ad una determinata categoria di persone giuridiche, non avendo inteso restringere la nozione di “operatore economico che offre servizi sul mercato” unicamente agli operatori che sia dotati di un'organizzazione d'impresa né introdurre limitazioni a monte in ragione dell'organizzazione interna dell'operatore stesso, bensì mirando all'apertura alla concorrenza nella misura più ampia possibile sia nell'interesse comunitario alla libera circolazione dei prodotti e dei servizi, sia dell’interesse della stessa stazione appaltante.
Pertanto, deve ritenersi consentita la partecipazione ad appalti pubblici a soggetti i quali, autorizzati dalla normativa nazionale ad offrire servizi sul mercato, “non perseguono un preminente scopo di lucro, non dispongono di una struttura organizzativa di un'impresa e non assicurano una presenza regolare sul mercato …”; con la conseguenza che la normativa nazionale dev’essere interpretata in senso a ciò conforme e, all'occorrenza, disapplicata.
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Circa le onlus la giurisprudenza nazionale ha affermato che esse possono essere ammesse alle gare pubbliche quali “imprese sociali”, a cui il d.lgs. 24.03.2006 n. 155 ha riconosciuto la legittimazione ad esercitare in via stabile e principale un'attività economica organizzata per la produzione e lo scambio di beni o di servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità d'interesse generale, anche se non lucrativa.

Ciò posto, in ordine al primo motivo, con cui si ribadisce che Croce Bianca avrebbe dovuto essere esclusa in quanto associazione di volontariato alla stregua della normativa nazionale e comunitaria, la Sezione osserva che è invece orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, pienamente condiviso, che detta normativa consenta anche a soggetti senza scopo di lucro di partecipare alle procedure per l’affidamento di contratti pubblici alla condizione che esercitino anche attività d’impresa funzionale ai loro scopi ed in linea con la relativa disciplina statutaria, giacché l’assenza di fini di lucro non esclude che tali soggetti possano esercitare un’attività economica e che, dunque, siano ritenuti “operatori economici”, potendo soddisfare i necessari requisiti per essere qualificati come “imprenditori”, “fornitori” o “prestatori di servizi” (cfr. Cons. St., Sez. V, 18.08.2010 n. 5815 e 26.08.2010 n. 5956, quest’ultima richiamata, nella specie, dal capitolato speciale d’appalto).
Invero, secondo l’art. 1, par. 8, della direttiva n. 2004/18/CE “i termini «imprenditore», «fornitore» e «prestatore di servizi» designano una persona fisica o giuridica o un ente pubblico o un raggruppamento di tali persone e/o enti che offra sul mercato, rispettivamente, la realizzazione di lavori e/o opere, prodotti o servizi. Conformemente, per gli artt. 3, co. 19 e 22, e 34, co. 1, lett. a), del codice dei contratti, l’imprenditore, fornitore o prestatore di servizi, rientranti nella definizione di “operatore economico”, è “una persona fisica, o una persona giuridica, o un ente senza personalità giuridica (…), che offra sul mercato, rispettivamente, la realizzazione di lavori o opere, la fornitura di prodotti, la prestazione di servizi” ed è ammesso nel novero dei soggetti che possono partecipare alle anzidette procedure.
D’altro canto, la giurisprudenza comunitaria ha chiarito che l’assenza dello scopo di lucro non impedisce la qualificazione di un soggetto come imprenditore e non ne giustifica l'esclusione dalla partecipazione alle gare a priori e senza ulteriori analisi, atteso che la normativa comunitaria, segnatamente la direttiva 2004/18/CE, osta all’esclusione di concorrenti dall’aggiudicazione di appalti pubblici per il solo motivo che essi non abbiano la forma giuridica corrispondente ad una determinata categoria di persone giuridiche, non avendo inteso restringere la nozione di “operatore economico che offre servizi sul mercato” unicamente agli operatori che sia dotati di un'organizzazione d'impresa né introdurre limitazioni a monte in ragione dell'organizzazione interna dell'operatore stesso, bensì mirando all'apertura alla concorrenza nella misura più ampia possibile sia nell'interesse comunitario alla libera circolazione dei prodotti e dei servizi, sia dell’interesse della stessa stazione appaltante.
Pertanto, deve ritenersi consentita la partecipazione ad appalti pubblici a soggetti i quali, autorizzati dalla normativa nazionale ad offrire servizi sul mercato, “non perseguono un preminente scopo di lucro, non dispongono di una struttura organizzativa di un'impresa e non assicurano una presenza regolare sul mercato …”; con la conseguenza che la normativa nazionale dev’essere interpretata in senso a ciò conforme e, all'occorrenza, disapplicata (cfr. Corte giustizia CE, Sez. IV, 23.12.2009, causa C. 305/08).
Inoltre, circa le onlus la giurisprudenza nazionale ha affermato che esse possono essere ammesse alle gare pubbliche quali “imprese sociali”, a cui il d.lgs. 24.03.2006 n. 155 ha riconosciuto la legittimazione ad esercitare in via stabile e principale un'attività economica organizzata per la produzione e lo scambio di beni o di servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità d'interesse generale, anche se non lucrativa (cfr. Cons. St., sez. VI, 25.01.2008 n. 185 e 16.06.2009 n. 3897, nonché V, 25.02.2009 n. 1128) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 20.11.2012 n. 5882 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae.
Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.) nell’area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione d’uso concretamente impressa all’alloggio: poiché l’entità degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza correlata alla variazione del carico urbanistico, è ben possibile che un intervento di ristrutturazione e mutamento di destinazione d’uso possa non comportare aggravi di carico urbanistico e quindi l’obbligo della relativa corresponsione degli oneri; al contrario è altrettanto possibile che in caso di mutamento di destinazione di uso nell’ambito della stessa categoria urbanistica, faccia seguito un maggior carico urbanistico indotto dalla realizzazione di quanto assentito e correlativamente siano dovuti gli oneri concessori.
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Nella fattispecie non affiorano elementi utili a comprovare che la nuova modalità di utilizzo dei locali sia stata accompagnata da un’alterazione del carico urbanistico, tenendo conto che l’aggregazione di cui si discute ha interessato due appartamenti aventi già in precedenza destinazione direzionale.
In ogni caso, in presenza di un insediamento già in possesso di analoghe caratteristiche funzionali (nella fattispecie, i locali incorporati erano adibiti ad ufficio) l’amministrazione –per poter legittimamente esigere il contributo per gli oneri di urbanizzazione– deve dare contezza degli indici o, comunque, delle condizioni da cui si evinca il maggior carico urbanistico addebitabile alla nuova destinazione.
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La giurisprudenza è dell’avviso che gli interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l’originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l’inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell’ambito della ristrutturazione edilizia.
In altre parole, affinché sia ravvisabile un intervento di ristrutturazione edilizia è sufficiente che risultino modificati la distribuzione della superficie interna e dei volumi, ovvero l’ordine in cui risultavano disposte le diverse porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d’uso esistente: anche in questi casi si configurano il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio ed un’alterazione dell’originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo che presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie.
Nella fattispecie le modifiche effettuate inducono ad ascrivere l’intervento edilizio nel genus della ristrutturazione, poiché si assiste alla riallocazione e al rinnovato dimensionamento di alcuni vani esistenti (taluni dei quali adibiti a nuove funzioni come “sterilizzazione” e “deposito”) nonché al rifacimento degli impianti tecnologici e dei servizi igienici. Sono quindi ravvisabili i tratti distintivi della ristrutturazione, per il duplice elemento del recupero dello spazio e della diversità e “non alterità” dell’organismo che si viene a realizzare rispetto a quello originario, dato che gli ambienti mantengono una sostanziale omogeneità rispetto ai precedenti quanto ai loro principali caratteri identificativi (collocazione, sagoma, altezza, volumetria): in buona sostanza si compie una modifica totale o parziale dell’edificio, che in positivo è rappresentata dalla creazione di un organismo “diverso” dal precedente, ed in negativo dal fatto che per effetto delle opere non vengono sensibilmente alterati i volumi, le superfici, le dimensioni o la tipologia del fabbricato.
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L’obbligazione contributiva per costo di costruzione è a-causale e si correla alla produzione di ricchezza connessa all’utilizzazione edificatoria del territorio ed alle potenzialità economiche che ne derivano e, pertanto, ha natura essenzialmente paratributaria.
Il contributo afferente al costo di costruzione, a norma dell’art. 6 della L. 10/1977, è determinato in rapporto alle caratteristiche, alle tipologie delle costruzioni e delle loro destinazioni ed ubicazioni (oggi occorre fare riferimento all’art. 16 del D.P.R. 380/2001).
Ne deriva, quindi, che nell’ipotesi di rinnovo degli elementi costitutivi di un immobile mediante la realizzazione di opere, sussiste il presupposto per il pagamento della parte di contributo afferente al costo di costruzione, da riferire al dato oggettivo della ristrutturazione dell’edificio.

I ricorrenti lamentano l’erronea determinazione del contributo di urbanizzazione da parte dell’amministrazione in sede di rilascio del titolo abilitativo.
Nell’ambito di un tipico giudizio di accertamento, è opportuno esaminare separatamente i presupposti per l’applicazione degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione.
Sottolinea anzitutto il Collegio che –contrariamente a quanto affermato dal Comune resistente– parte ricorrente ha lamentato (classificando il proprio intervento come restauro e risanamento conservativo - pag. 4 del gravame introduttivo) l’assenza di un maggiore carico urbanistico a seguito dell’ampliamento dello studio dentistico originario.
Va ribadito sul tema che il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae (cfr. per tutti TAR Puglia Bari, sez. III – 10/02/2011 n. 243). Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.) nell’area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione d’uso concretamente impressa all’alloggio: poiché l’entità degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza correlata alla variazione del carico urbanistico, è ben possibile che un intervento di ristrutturazione e mutamento di destinazione d’uso possa non comportare aggravi di carico urbanistico e quindi l’obbligo della relativa corresponsione degli oneri; al contrario è altrettanto possibile che in caso di mutamento di destinazione di uso nell’ambito della stessa categoria urbanistica, faccia seguito un maggior carico urbanistico indotto dalla realizzazione di quanto assentito e correlativamente siano dovuti gli oneri concessori (TAR Lazio Roma, sez. II – 14/11/2007 n. 11213).
Nella fattispecie non affiorano elementi utili a comprovare che la nuova modalità di utilizzo dei locali sia stata accompagnata da un’alterazione del carico urbanistico, tenendo conto che l’aggregazione di cui si discute ha interessato due appartamenti aventi già in precedenza destinazione direzionale. In ogni caso, come sostenuto di recente (cfr. sentenze Sezione 02/03/2012 n. 355; 24/08/2012 n. 1467) in presenza di un insediamento già in possesso di analoghe caratteristiche funzionali (i locali incorporati erano adibiti ad ufficio) l’amministrazione –per poter legittimamente esigere il contributo per gli oneri di urbanizzazione– avrebbe dovuto dare contezza degli indici o, comunque, delle condizioni da cui si evinceva il maggior carico urbanistico addebitabile alla nuova destinazione (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. IV – 04/05/2009 n. 3604).
Nel caso concreto la difesa dell’amministrazione ha evidenziato –nella memoria finale– che il raddoppio delle sale dedicate a gabinetto dentistico provoca una maggiore domanda di servizi, senza tuttavia raffrontare la situazione attuale (studio dentistico ampliato) con quella concretamente preesistente. Al riguardo non è sufficiente il paragone con una media struttura di vendita (la quale avrebbe maggiore capacità di attrazione di clientela di due esercizi di vicinato sommati tra loro): si tratta infatti di una struttura del settore commerciale (soggetta ad una disciplina specifica sugli standard necessari) caratterizzata da una superficie ben maggiore (oltre 250 mq.).
Deve in conclusione ritenersi indebitamente preteso l’importo di € 15.312,81, da restituire alla parte ricorrente.
A differenti conclusioni deve pervenirsi con riguardo al costo di costruzione.
Come ha già sottolineato questo Tribunale (cfr. sentenza sez. I – 19/04/2011 n. 582) la giurisprudenza è dell’avviso che gli interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l’originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l’inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell’ambito della ristrutturazione edilizia (cfr. TAR Molise – 27/03/2009 n. 99; Consiglio di Stato, sez. V – 17/12/1996 n. 1551).
In altre parole, affinché sia ravvisabile un intervento di ristrutturazione edilizia è sufficiente che risultino modificati la distribuzione della superficie interna e dei volumi, ovvero l’ordine in cui risultavano disposte le diverse porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d’uso esistente: anche in questi casi si configurano il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio ed un’alterazione dell’originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo che presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V – 18/10/2002 n. 5775; Consiglio di Stato, sez. V – 23/05/2000 n. 2988).
Nella fattispecie le modifiche effettuate inducono ad ascrivere l’intervento edilizio nel genus della ristrutturazione, poiché (dall’analisi della planimetria in atti) si assiste alla riallocazione e al rinnovato dimensionamento di alcuni vani esistenti (taluni dei quali adibiti a nuove funzioni come “sterilizzazione” e “deposito”) nonché al rifacimento degli impianti tecnologici e dei servizi igienici. Sono quindi ravvisabili i tratti distintivi della ristrutturazione, per il duplice elemento del recupero dello spazio e della diversità e “non alterità” dell’organismo che si viene a realizzare rispetto a quello originario, dato che gli ambienti mantengono una sostanziale omogeneità rispetto ai precedenti quanto ai loro principali caratteri identificativi (collocazione, sagoma, altezza, volumetria): in buona sostanza si compie una modifica totale o parziale dell’edificio, che in positivo è rappresentata dalla creazione di un organismo “diverso” dal precedente, ed in negativo dal fatto che per effetto delle opere non vengono sensibilmente alterati i volumi, le superfici, le dimensioni o la tipologia del fabbricato (sentenza TAR Brescia – 11/06/2004 n. 646).
Posta questa premessa, osserva il Collegio che l’obbligazione contributiva per costo di costruzione è a-causale e si correla alla produzione di ricchezza connessa all’utilizzazione edificatoria del territorio ed alle potenzialità economiche che ne derivano e, pertanto, ha natura essenzialmente paratributaria (TAR Campania Salerno, sez. II – 11/06/2002 n. 459). Il contributo afferente al costo di costruzione, a norma dell’art. 6 della L. 10/1977, è determinato in rapporto alle caratteristiche, alle tipologie delle costruzioni e delle loro destinazioni ed ubicazioni (oggi occorre fare riferimento all’art. 16 del D.P.R. 380/2001). Ne deriva, quindi, che nell’ipotesi di rinnovo degli elementi costitutivi di un immobile mediante la realizzazione di opere, sussiste il presupposto per il pagamento della parte di contributo afferente al costo di costruzione, da riferire al dato oggettivo della ristrutturazione dell’edificio (sentenza Sezione 02/03/2012 n. 355): pertanto l’esazione è stata correttamente pretesa dal Comune.
In conclusione il ricorso è parzialmente fondato e deve essere accolto nella parte in cui il Comune ha erroneamente richiesto la quota di oneri di urbanizzazione (€ 15.312,81), che devono essere restituiti. Sulla somma vanno calcolati gli interessi i quali decorrono –trattandosi di azione di ripetizione di indebito– dalla data di proposizione della domanda giudiziale, dovendosi presumere la buona fede dell’amministrazione resistente in assenza di dimostrazione contraria, mentre non spetta la rivalutazione monetaria trattandosi di indebito oggettivo il quale genera solo l’obbligazione di restituzione degli interessi a norma dell’art. 2033 del c.c. (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II – 05/05/2004 n. 1620; TAR Lazio Roma, sez. I – 19/01/1999 n. 99; Consiglio di Stato, sez. V – 30/10/1997 n. 1207). Non spetta alcuna altra somma a titolo risarcitorio, in difetto della dimostrazione di danni ulteriori e diversi (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 20.11.2012 n. 1818 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’atto di assenso relativo ai cartelloni pubblicitari appartiene a una categoria speciale e non corrisponde ad un permesso di costruire, e tuttavia il coinvolgimento della Commissione edilizia nella valutazione delle richieste di autorizzazione non incontra alcun divieto normativo: poiché “il Comune può effettuare valutazioni che riguardano la coerenza urbanistica di un cartellone pubblicitario rispetto al contesto, la Commissione edilizia è senz’altro un organo tecnico qualificato a svolgere questo tipo di esame”.
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I) in sede di rilascio del provvedimento autorizzatorio l’Ente proprietario della strada deve accertare il rispetto di tutte le condizioni poste dal legislatore e –poiché l’obiettivo primario è quello di salvaguardare la sicurezza della circolazione stradale e la pubblica incolumità– può legittimamente inibire la collocazione dei cartelli su tutte le tipologie di strade quando emergano circostanze ostative al perseguimento di quell’obiettivo;
II) la valutazione della pericolosità dei cartelli pubblicitari è rimessa alla discrezionalità dell’amministrazione e, in quanto tale, non è censurabile in sede di legittimità se non per errori di valutazione o vizi logici;
III) l’amministrazione deve optare per la preminenza delle esigenze di sicurezza della circolazione rispetto al pur rilevante interesse economico di cui sono portatori gli imprenditori del settore, con una scelta perfettamente legittima anche alla luce dei canoni costituzionali di salvaguardia dell’integrità fisica e della salute degli individui: infatti il valore dell’iniziativa economica privata della quale l’attività pubblicitaria costituisce estrinsecazione –seppur riconosciuto e protetto dalla Carta costituzionale– recede nel giudizio di bilanciamento con il valore superiore della salute individuale e collettiva, al quale è garantita la massima protezione;
IV) il Comune può valorizzare l’interesse pubblico alla coerenza urbanistica del territorio con la ricerca del punto di equilibrio tra la “pulizia” della visuale e le esigenze della produzione e del commercio (di cui la pubblicità stradale è una componente), consumando in misura proporzionata la visuale stradale e il paesaggio urbano.

Ha già affermato questo Tribunale (cfr. sentenza 06/09/2004 n. 1013), l’atto di assenso relativo ai cartelloni pubblicitari appartiene a una categoria speciale e non corrisponde ad un permesso di costruire, e tuttavia il coinvolgimento della Commissione edilizia nella valutazione delle richieste di autorizzazione non incontra alcun divieto normativo: poiché “il Comune può effettuare valutazioni che riguardano la coerenza urbanistica di un cartellone pubblicitario rispetto al contesto, la Commissione edilizia è senz’altro un organo tecnico qualificato a svolgere questo tipo di esame” (cfr. sentenza citata).
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In via subordinata la ricorrente lamenta, quale vizio del provvedimento, il fatto che l’insegna ed il traliccio sono collocati nell’area in prossimità del raccordo autostradale da circa 20 anni, e che l’impianto insiste su un terreno di proprietà privata a distanza ragguardevole dalla carreggiata che porta alla barriera autostradale e non contrasta con il Codice della Strada né altera in alcun altro modo il contesto ambientale: in particolare non si registrerebbero mutamenti di fatto e di diritto e la zona non sarebbe sottoposta ad alcun tipo di vincolo, mentre l’indicazione dell’ora e della temperatura soddisferebbe un bisogno di pubblica utilità.
Il motivo è privo di fondamento.
Il Collegio ripropone alcune considerazioni già sviluppate dalla giurisprudenza, anche di questo TAR:
I) in sede di rilascio del provvedimento autorizzatorio l’Ente proprietario della strada deve accertare il rispetto di tutte le condizioni poste dal legislatore e –poiché l’obiettivo primario è quello di salvaguardare la sicurezza della circolazione stradale e la pubblica incolumità– può legittimamente inibire la collocazione dei cartelli su tutte le tipologie di strade quando emergano circostanze ostative al perseguimento di quell’obiettivo (sentenza Sezione 20/04/2011 n. 593; TAR Toscana, sez. III – 11/06/2004 n. 2047);
II) la valutazione della pericolosità dei cartelli pubblicitari è rimessa alla discrezionalità dell’amministrazione e, in quanto tale, non è censurabile in sede di legittimità se non per errori di valutazione o vizi logici (TAR Lombardia Milano, sez. IV – 07/07/2008 n. 2886);
III) l’amministrazione deve optare per la preminenza delle esigenze di sicurezza della circolazione rispetto al pur rilevante interesse economico di cui sono portatori gli imprenditori del settore, con una scelta perfettamente legittima anche alla luce dei canoni costituzionali di salvaguardia dell’integrità fisica e della salute degli individui: infatti il valore dell’iniziativa economica privata della quale l’attività pubblicitaria costituisce estrinsecazione –seppur riconosciuto e protetto dalla Carta costituzionale– recede nel giudizio di bilanciamento con il valore superiore della salute individuale e collettiva, al quale è garantita la massima protezione (cfr. sentenze Sezione 28/02/2008 n. 174; 27/11/2008 n. 1702; 05/03/2009 n. 529);
IV) il Comune può valorizzare l’interesse pubblico alla coerenza urbanistica del territorio con la ricerca del punto di equilibrio tra la “pulizia” della visuale e le esigenze della produzione e del commercio (di cui la pubblicità stradale è una componente), consumando in misura proporzionata la visuale stradale e il paesaggio urbano (TAR Brescia – 06/09/2004 n. 1013)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 20.11.2012 n. 1816 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per “pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non solo le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce), bastando altresì che sia finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento.
Deve tuttavia rilevarsi che, per il vaglio di fondatezza del ricorso incidentale, basta fermarsi al dirimente accertamento storico di una porta che (indipendentemente se ora sostituita o da sostituire con una nuova finestra) preesisteva sulla parete dei controinteressati allorquando il ricorrente principale è stato (illegittimamente) autorizzato a realizzare opere edilizie, in violazione delle distanze legali.
Come correttamente evidenziato dal patrono incidentale, infatti, per “pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non solo le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce), bastando altresì che sia finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento (cfr. Tar Lombardia -MI- n. 1419/2011, Tar Piemonte 2565/2008, TAR Toscana, Sez. III, 04.12.2001, n. 1734).
Pertanto, la circostanza accertata in giudizio di una edificazione ad eccessivo ridosso della confinante parete finestrata (nel caso di specie, porta del sottotetto) ha a suo tempo postulato la violazione della normativa inderogabile sulle distanze di cui al DM 1444/1968, con conseguente illegittimità del permesso di costruire rilasciato in sanatoria alla ricorrente principale (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 20.11.2012 n. 788 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa sopravvenuta scadenza del termine di validità dell’offerta a seguito dell’eccessivo prolungamento delle operazioni di gara (ovvero per effetto di ulteriori trattative intraprese per la modifica di alcune pattuizioni) consente all’aggiudicatario la scelta di disimpegnarsi da ogni vincolo negoziale senza incorrere in alcuna sanzione, ovvero di “confermare”, anche tacitamente, l’offerta stessa accettando la stipula contrattuale.
In sostanza, è riservata all’aggiudicatario, nell’ambito della sue autonome determinazioni imprenditoriali, la scelta se “confermare” la sua offerta ormai scaduta, addivenendo alla stipula, ovvero esercitare il suo diritto di “recesso” dalla fase della stipula.

Il codice dei contratti (art. 11, c. 6) individua il termine di 180 giorni (recepito nel bando di gara in questione) per mantenere ferma l’offerta presentata; si tratta di “spatium deliberandi” massimo per addivenire alla sottoscrizione del contratto, evitando che ulteriori lungaggini possano andare a danno dell’impresa concorrente ovvero della stessa Stazione appaltante ove costretta ad un’aggiudicazione che di fatto non conduce all’esito cui la stessa procedura mira; nel caso di specie, la individuazione dell’operatore economico per la progettazione, realizzazione e gestione dell’opera.
Orbene, è del tutto evidente che l’intervenuta previa notifica dell’avviso dell’impresa aggiudicataria, all’esito della scadenza del termine di 180 giorni, di volersi svincolare dal contratto (non ancora concluso) rende del tutto inutile il procedimento instaurato dal Comune per far venir meno l’aggiudicazione, comunque non più efficace proprio per effetto della disposta “rinuncia” dell’aggiudicatario.
In proposito, la giurisprudenza ha più volte affermato che la sopravvenuta scadenza del termine di validità dell’offerta a seguito dell’eccessivo prolungamento delle operazioni di gara (ovvero, come nel caso di specie, per effetto di ulteriori trattative intraprese per la modifica di alcune pattuizioni) consente all’aggiudicatario la scelta di disimpegnarsi da ogni vincolo negoziale senza incorrere in alcuna sanzione, ovvero di “confermare”, anche tacitamente, l’offerta stessa accettando la stipula contrattuale (cfr. Cons. di Stato, n. 4019/2010 e TAR Abruzzo – L’AQUILA, n. 299/2011).
In sostanza, è riservata all’aggiudicatario, nell’ambito della sue autonome determinazioni imprenditoriali, la scelta se “confermare” la sua offerta ormai scaduta, addivenendo alla stipula, ovvero esercitare il suo diritto di “recesso” dalla fase della stipula (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 20.11.2012 n. 783 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Nell’ambito del pubblico impiego lo svolgimento di fatto da parte del dipendente di mansioni superiori a quelle dovute in base all’inquadramento è del tutto irrilevante, sia ai fini economici, sia ai fini della progressione di carriera, salva l’esistenza di un’espressa disposizione che disponga diversamente; né la domanda del dipendente, tesa ad ottenere la retribuzione superiore a quella riconosciuta dalla normativa applicabile, per effetto dello svolgimento delle mansioni superiori, può fondarsi sull’articolo 36 della Costituzione, in quanto il principio della corrispondenza della retribuzione dei lavoratori alla qualità e alla quantità del lavoro prestato non trova incondizionata applicazione nel rapporto di pubblico impiego, concorrendo con altri principi di pari rilievo costituzionale, quali quelli di cui agli articoli 97 e 98 ovvero sugli articoli 2126 C.C. (concernente solo l’ipotesi della retribuibilità del lavoro prestato sulla base di atto nullo o annullato) e 2041 C.C., stante, per un verso, la natura sussidiaria dell’azione di arricchimento senza causa e, per altro verso, la circostanza che l’ingiustificato arricchimento postula un correlativo depauperamento del dipendente, non riscontrabile e dimostrabile nel caso del pubblico dipendente che, come nel caso di specie, ha comunque percepito la retribuzione prevista per la qualifica rivestita.
Nel pubblico impiego presupposto indefettibile per la stessa configurabilità dell’esercizio di mansioni superiori è l’esistenza di un posto vacante in pianta organica, al quale corrispondano le mansioni effettivamente svolte, oltre che un atto formale di incarico o investitura di dette funzioni, proveniente dall’organo amministrativo a tanto legittimato, non potendo l’attribuzione delle mansioni e il relativo trattamento economico essere oggetto di libere determinazioni dei funzionari amministrativi.

La giurisprudenza amministrativa ha più volte ribadito che nell’ambito del pubblico impiego lo svolgimento di fatto da parte del dipendente di mansioni superiori a quelle dovute in base all’inquadramento è del tutto irrilevante, sia ai fini economici, sia ai fini della progressione di carriera, salva l’esistenza di un’espressa disposizione che disponga diversamente (C.d.S., sez. IV, 15.09.2009, n. 5529; 24.12.2008, n. 6571; sez. VI, 03.02.2011, n. 758; 20.10.2010, n. 7584; 08.05.2009, n. 2845); né la domanda del dipendente, tesa ad ottenere la retribuzione superiore a quella riconosciuta dalla normativa applicabile, per effetto dello svolgimento delle mansioni superiori, può fondarsi sull’articolo 36 della Costituzione, in quanto il principio della corrispondenza della retribuzione dei lavoratori alla qualità e alla quantità del lavoro prestato non trova incondizionata applicazione nel rapporto di pubblico impiego, concorrendo con altri principi di pari rilievo costituzionale, quali quelli di cui agli articoli 97 e 98 (tra le più recenti, C.d.S., sez. V, 02.08.2010, n. 5064; 25.05.2010, n. 3314; sez. VI, 15.06.2011, n. 3639; 03.02.2011, n. 758; 18.09.2009, n. 5605) ovvero sugli articoli 2126 C.C. (concernente solo l’ipotesi della retribuibilità del lavoro prestato sulla base di atto nullo o annullato) e 2041 C.C., stante, per un verso, la natura sussidiaria dell’azione di arricchimento senza causa (C.d.S., sez. IV, 24.04.2009, n. 2626) e, per altro verso, la circostanza che l’ingiustificato arricchimento postula un correlativo depauperamento del dipendente, non riscontrabile e dimostrabile nel caso del pubblico dipendente che, come nel caso di specie, ha comunque percepito la retribuzione prevista per la qualifica rivestita (C.d.S., sez. V, 09.03.2010, n. 1382).
E’ stato anche rilevato che nel pubblico impiego presupposto indefettibile per la stessa configurabilità dell’esercizio di mansioni superiori è l’esistenza di un posto vacante in pianta organica, al quale corrispondano le mansioni effettivamente svolte, oltre che un atto formale di incarico o investitura di dette funzioni, proveniente dall’organo amministrativo a tanto legittimato, non potendo l’attribuzione delle mansioni e il relativo trattamento economico essere oggetto di libere determinazioni dei funzionari amministrativi (C.d.S., sez. V, 04.03.2008, n. 879; 06.12.2007, n. 6254) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.11.2012 n. 5852 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Infortunio e dipendenza da causa di servizio della conseguente infermità.
Il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 19.11.2012 n. 5850, si occupa di un infortunio occorso ad una dipendente mentre si recava nel proprio ufficio, scivolando sulle scale, sdrucciolevoli e poco illuminate, del palazzo ospitante la sede di servizio e riscontra che:
- "l'evento si era verificato, ..., in prossimità dell'inizio dell'orario di lavoro, lungo il percorso usuale (anzi, obbligatorio) per recarsi in ufficio, e senza che l'infortunio potesse in alcun modo ricondursi ad alcun fatto imputabile a dolo o colpa dell'interessata (come è noto, la giurisprudenza suole ritenere che il nesso di causalità tra l'attività lavorativa e l'evento dannoso si interrompa quando quest'ultimo sia stato determinato dalla stessa condotta del dipendente versante in dolo o colpa grave: v. ad es. C.d.S., IV, 22.09.2005, n. 4951)";
- risultano dunque soddisfatte le condizioni per cui "la particolare figura dell'infortunio in itinere può ritenersi verificata in occasione di lavoro, e come tale meritevole di tutela, soltanto quando sussista uno specifico collegamento tra l'evento e l'attività di lavoro, sicché non è sufficiente, ai fini dell'attribuzione dei benefici previsti al dipendente, il rischio generico connesso all'attività di spostamento spaziale, ma occorre il rischio specifico collegato all'attività lavorativa (C.d.S., VI, 17.07.2006, n. 4572...)" (commento tratto da www.publika.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'esame delle giustificazioni presentate dal soggetto richiesto di dimostrare la non anomalia della propria offerta chiama difatti in causa la discrezionalità tecnica dell'Amministrazione, per cui il Giudice della legittimità può intervenire soltanto in caso di macroscopiche illogicità, vale a dire di errori di valutazione evidenti e gravi, oppure di valutazioni abnormi o affette da errori di fatto.
La giurisprudenza è infatti saldamente orientata nel senso che, nel caso di ricorso proposto avverso il giudizio di anomalia dell'offerta economica presentata in una pubblica gara, il Giudice amministrativo possa sindacare le valutazioni compiute dall’Amministrazione sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza e della congruità dell'istruttoria, ma non possa, invece, operare autonomamente la verifica della congruità dell'offerta, sovrapponendo così la propria idea tecnica al giudizio -non erroneo né illogico- formulato dall'organo amministrativo cui la legge attribuisce la tutela dell'interesse pubblico nell'apprezzamento del caso concreto, atteso che diversamente il Giudice invaderebbe una sfera propria della P.A..

Il focalizzarsi dell’attenzione legislativa sul profilo procedurale della delicata materia della verifica di congruità delle offerte ha una sua precisa ragione d’essere.
L'esame delle giustificazioni presentate dal soggetto richiesto di dimostrare la non anomalia della propria offerta chiama difatti in causa la discrezionalità tecnica dell'Amministrazione, per cui il Giudice della legittimità può intervenire soltanto in caso di macroscopiche illogicità, vale a dire di errori di valutazione evidenti e gravi, oppure di valutazioni abnormi o affette da errori di fatto (C.d.S., V, 18.08.2010, n. 5848; 23.11.2010, n. 8148; 22.02.2011, n. 1090). La giurisprudenza è infatti saldamente orientata nel senso che, nel caso di ricorso proposto avverso il giudizio di anomalia dell'offerta economica presentata in una pubblica gara, il Giudice amministrativo possa sindacare le valutazioni compiute dall’Amministrazione sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza e della congruità dell'istruttoria, ma non possa, invece, operare autonomamente la verifica della congruità dell'offerta, sovrapponendo così la propria idea tecnica al giudizio -non erroneo né illogico- formulato dall'organo amministrativo cui la legge attribuisce la tutela dell'interesse pubblico nell'apprezzamento del caso concreto, atteso che diversamente il Giudice invaderebbe una sfera propria della P.A. (C.d.S., IV, 27.06.2011, n. 3862; V, 28.10.2010, n. 7631) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.11.2012 n. 5846 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'illegittimità dell'atto amministrativo già costituisce un indice presuntivo della colpa della P.A., sulla quale incombe l'onere di provare la sussistenza di un proprio ipotetico errore scusabile.
Al privato danneggiato da un provvedimento illegittimo non è richiesto un particolare impegno probatorio per dimostrare la colpa dell’Amministrazione. Questi può limitarsi ad allegare l'illegittimità dell'atto, potendosi ben fare applicazione, al fine della prova dell'elemento soggettivo, delle regole di comune esperienza e della presunzione semplice di cui all'art. 2727 del codice civile. E spetta a quel punto all'Amministrazione dimostrare, se del caso, di essere incorsa in un errore scusabile.

Circa le condizioni di accesso al risarcimento è appena il caso di ricordare, infatti, che l'illegittimità dell'atto amministrativo già costituisce un indice presuntivo della colpa della P.A., sulla quale incombe l'onere di provare la sussistenza di un proprio ipotetico errore scusabile (C.d.S., V, 31.10.2008, n. 5453).
La giurisprudenza ha sottolineato, più ampiamente (cfr. ad es. C.d.S., VI, 09.03.2007 n. 1114 e 09.06.2008 n. 2751), che al privato danneggiato da un provvedimento illegittimo non è richiesto un particolare impegno probatorio per dimostrare la colpa dell’Amministrazione. Questi può limitarsi ad allegare l'illegittimità dell'atto, potendosi ben fare applicazione, al fine della prova dell'elemento soggettivo, delle regole di comune esperienza e della presunzione semplice di cui all'art. 2727 del codice civile. E spetta a quel punto all'Amministrazione dimostrare, se del caso, di essere incorsa in un errore scusabile (cfr., tra le tante, C.d.S., IV, 12.02.2010, n. 785; V, 20.07.2009, n. 4527)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.11.2012 n. 5846 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nel riconoscimento del danno da mancata aggiudicazione, se viene attribuito il ristoro del danno da mancato utile, viene escluso il danno relativo alle spese subite, in quanto nelle pubbliche gare di appalto all’aggiudicatario non viene riconosciuto il rimborso delle spese sostenute per la gara, implicitamente assorbite dal compenso per l’esecuzione dell’appalto.
E, invero, nella somma liquidata a titolo di ristoro dell’utile di impresa perduto, è già ricompresa la remunerazione del capitale impiegato per la partecipazione alla gara; si evitano in tal modo ingiustificate locupletazioni derivanti dalla medesima partita di danno. Sicché, se in luogo dell’aggiudicazione si consegue il danno da mancato utile, parallelamente non spetta il danno per le spese di gara.

Alla ricorrente non può invece attribuirsi alcuna forma di rimborso delle spese di partecipazione alla gara.
La giurisprudenza sullo specifico tema ha difatti recentemente osservato quanto segue: “Nel riconoscimento del danno da mancata aggiudicazione, se viene attribuito il ristoro del danno da mancato utile, viene escluso il danno relativo alle spese subite, in quanto nelle pubbliche gare di appalto all’aggiudicatario non viene riconosciuto il rimborso delle spese sostenute per la gara, implicitamente assorbite dal compenso per l’esecuzione dell’appalto. E, invero, nella somma liquidata a titolo di ristoro dell’utile di impresa perduto, è già ricompresa la remunerazione del capitale impiegato per la partecipazione alla gara; si evitano in tal modo ingiustificate locupletazioni derivanti dalla medesima partita di danno (Cons. giust. sic., 22.06.2006 n. 315; Cons. St., sez. V, 13.06.2008 n. 2967). Sicché, se in luogo dell’aggiudicazione si consegue il danno da mancato utile, parallelamente non spetta il danno per le spese di gara” (VI, 11.01.2010, n. 20; nello stesso senso v. anche, ad es., la n. 5168 del 16.09.2011, nonché la n. 3966 del 06.07.2012 della Sezione)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.11.2012 n. 5846 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nei concorsi a posti di pubblico impiego, la Commissione esaminatrice deve stabilire preventivamente ed in astratto i criteri di massima solo in relazione alla valutazione dei titoli e non anche per la valutazione delle prove scritte o pratiche, che è rimessa alla sua discrezionalità tecnica .
L’onere di motivazione circa le valutazioni effettuate di un esame o delle prove di un concorso pubblico “è sufficientemente adempiuto con l’attribuzione di un punteggio numerico, configurandosi quest’ultimo come formula sintetica, ma eloquente, che esterna la valutazione tecnica compiuta dalla Commissione esaminatrice”, conformandosi, citandola, alla prevalente giurisprudenza di questo Consiglio di Stato.
Se l’onere di motivazione della valutazione delle prove scritte è sufficientemente adempiuto con il solo punteggio numerico, un obbligo di motivazione integrativa può invece sussistere solo laddove la valutazione tecnica investa giudizi legati all’espressione di nozioni di particolare complessità, nei quali l’aderenza ai criteri preventivamente costituiti, la correttezza delle soluzioni e la coerenza nell’esposizione concettuale si rilevi determinante nella scelta sulla reciproca prevalenza dei candidati nel senso della loro idoneità a ricoprire posizioni lavorative di significativa importanza per l’Amministrazione.
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Il voto numerico attribuito dalla competente commissione alle prove scritte od orali di un concorso pubblico o di un esame esprime e sintetizza il giudizio tecnico discrezionale della commissione stessa e la sindacabilità di tali giudizi, per tale loro natura, è da considerare potenzialmente possibile solo in caso di manifesta illogicità od erroneità.

Va tenuto conto, peraltro che, per prevalente giurisprudenza, nei concorsi a posti di pubblico impiego, la Commissione esaminatrice deve stabilire preventivamente ed in astratto i criteri di massima solo in relazione alla valutazione dei titoli e non anche per la valutazione delle prove scritte o pratiche, che è rimessa alla sua discrezionalità tecnica (C.d.S., Sez. IV, 24.7.2003, n. 4238; Sez. V, 11.5.2009, n. 2880).
Il TAR ha poi osservato che l’onere di motivazione circa le valutazioni effettuate di un esame o delle prove di un concorso pubblico “è sufficientemente adempiuto con l’attribuzione di un punteggio numerico, configurandosi quest’ultimo come formula sintetica, ma eloquente, che esterna la valutazione tecnica compiuta dalla Commissione esaminatrice”, conformandosi, citandola, alla prevalente giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (C.d.S., Sez. VI, 10.12.2010, n. 8694).
Se l’onere di motivazione della valutazione delle prove scritte è sufficientemente adempiuto con il solo punteggio numerico, un obbligo di motivazione integrativa può invece sussistere solo laddove la valutazione tecnica investa giudizi legati all’espressione di nozioni di particolare complessità, nei quali l’aderenza ai criteri preventivamente costituiti, la correttezza delle soluzioni e la coerenza nell’esposizione concettuale si rilevi determinante nella scelta sulla reciproca prevalenza dei candidati nel senso della loro idoneità a ricoprire posizioni lavorative di significativa importanza per l’Amministrazione.
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Va premesso sul punto che il voto numerico attribuito dalla competente commissione alle prove scritte od orali di un concorso pubblico o di un esame esprime e sintetizza il giudizio tecnico discrezionale della commissione stessa e la sindacabilità di tali giudizi, per tale loro natura, è da considerare potenzialmente possibile solo in caso di manifesta illogicità od erroneità (C.d.S., Sez. I, 15.05.2010, n. 5002) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.11.2012 n. 5831 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Se è vero che in generale i requisiti per la partecipazione ad un concorso per l’accesso al pubblico impiego debbono essere posseduti dai concorrenti al momento della scadenza del termine per la presentazione della domanda…i dipendenti utilmente collocati in graduatoria debbono continuare a possedere questo status anche al momento della nomina, dal momento che i requisiti di partecipazione sono anche requisiti necessari per la successiva costituzione del rapporto…in particolare, la formula per cui i requisiti debbono essere posseduti anche al momento della nomina deve intendersi nel senso che i requisiti in questione (nella specie la status di dipendente del Comune di Roma), posseduti al momento dell’ammissione debbono essere posseduti “fino” alla nomina, non essendo in altri termini consentite vacanze intermedie nel possesso del requisito, che va appunto mantenuto senza soluzione di continuità.
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Nei concorsi a posti di pubblico impiego devono essere distinti i requisiti di ammissione al concorso da quelli previsti per la nomina; tra i primi, alcuni requisiti, per il loro carattere generale, devono sussistere fino alla data di nomina, (cittadinanza italiana, buona condotta, idoneità fisica e simili); altri invece, essendo requisiti specifici per il singolo posto messo a concorso, si differiscono in relazione ai singoli ordinamenti e “devono essere posseduti entro il termine di decadenza del bando ai soli fini dell’ammissione al concorso (età, possesso di una determinata qualifica o status, di una data anzianità di sevizio etc.) per cui il variare di questi requisiti, è irrilevante e non comporta la perdita di un requisito per la nomina”.
L’interpretazione delle clausole del bando di concorso deve ispirarsi ai principi dell’affidamento, con la conseguenza ulteriore che l’atto con il quale l’Amministrazione indice un procedimento concorsuale deve essere interpretato per ciò che espressamente dice, restando l’aspirante dispensato da ogni indagine rivolta a ricostruire attraverso procedure ermeneutiche ed integrative ulteriori ed inespressi significati.

Il TAR ha quindi ritenuto che, “se è vero che in generale i requisiti per la partecipazione ad un concorso per l’accesso al pubblico impiego debbono essere posseduti dai concorrenti al momento della scadenza del termine per la presentazione della domanda…i dipendenti utilmente collocati in graduatoria debbono continuare a possedere questo status anche al momento della nomina, dal momento che i requisiti di partecipazione sono anche requisiti necessari per la successiva costituzione del rapporto…in particolare, la formula per cui i requisiti debbono essere posseduti anche al momento della nomina deve intendersi nel senso che i requisiti in questione (nella specie la status di dipendente del Comune di Roma), posseduti al momento dell’ammissione debbono essere posseduti “fino” alla nomina, non essendo in altri termini consentite vacanze intermedie nel possesso del requisito, che va appunto mantenuto senza soluzione di continuità”.
A sostegno di tale assunto il TAR ha citato, tra le altre, la sentenza del Consiglio di Stato n. 3169, Sezione IV, del 13.06.2007.
Invero nella sentenza richiamata questo Consiglio di Stato ha affermato che non può non farsi applicazione del principio in base al quale i requisiti per la partecipazione ad un concorso interno, fra i quali l’appartenenza all’Amministrazione in costanza di rapporto di servizio, devono sussistere non solo al momento dell’inizio della procedura, ma anche a quello successivo della sua conclusione; il che significa che i candidati, anche se utilmente collocati in graduatoria, non possono comunque ottenere la nomina ove, nelle more, siano cessati dal servizio.
Nella sentenza citata, viene evidenziato che, in particolare per ciò che concerne i concorsi interni, rileva l’interesse pubblico di potere operare la scelta di vincitori nell’ambito di una selezione più ristretta, riservata cioè a coloro che durante il rapporto di impiego abbiano già dato prova di piena affidabilità, sia sotto l’aspetto della capacità professionale, sia in relazione all’adempimento di tutti i doveri d’ufficio, con l’innegabile vantaggio per l’Amministrazione di poter valorizzare ed utilizzare esperienze precedentemente acquisite e ciò non sarebbe di certo possibile nella ipotesi di personale già collocato a riposo e, dunque, ormai al di fuori dall’Amministrazione stessa.
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Giova far presente che nei concorsi a posti di pubblico impiego devono essere distinti i requisiti di ammissione al concorso da quelli previsti per la nomina; tra i primi, alcuni requisiti, per il loro carattere generale, devono sussistere fino alla data di nomina, (cittadinanza italiana, buona condotta, idoneità fisica e simili); altri invece, essendo requisiti specifici per il singolo posto messo a concorso, si differiscono in relazione ai singoli ordinamenti e “devono essere posseduti entro il termine di decadenza del bando ai soli fini dell’ammissione al concorso (età, possesso di una determinata qualifica o status, di una data anzianità di sevizio etc.) per cui il variare di questi requisiti, è irrilevante e non comporta la perdita di un requisito per la nomina” (Cons. Stato, Comm. Spec., 23.06.1997, n. 388).
Rileva, inoltre, quanto evidenziato dall’appellante principale circa le effettive prescrizioni del bando di concorso riservato agli interni, per il conferimento di tre posti nel profilo di dirigente della Polizia Municipale a tempo indeterminato.
Sul punto va premesso che l’interpretazione delle clausole del bando di concorso deve ispirarsi ai principi dell’affidamento, con la conseguenza ulteriore che l’atto con il quale l’Amministrazione indice un procedimento concorsuale deve essere interpretato per ciò che espressamente dice, restando l’aspirante dispensato da ogni indagine rivolta a ricostruire attraverso procedure ermeneutiche ed integrative ulteriori ed inespressi significati (Consiglio di Stato, Sez. V n. 582 del 30.05.1997; n. 3796 del 14.06.2004)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.11.2012 n. 5828 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Se è vero che la proroga dei termini fissati dalla dichiarazione di pubblica utilità deve essere preceduta dalla comunicazione di cui all’art. 7 della legge 07.08.1990, nr. 241, nel caso di specie non vi è alcuna prova di quale apporto concreto la partecipazione dell’espropriato avrebbe potuto comportare, e quindi di una rilevanza non meramente formale dell’omissione.
Inoltre, come risulta dalla stessa tempistica dell’adozione della determinazione de qua (ultima di una lunga serie di proroghe e circoscritta a soli sei mesi, evidentemente per un imprevisto allungamento dei tempi ritenuti ormai maturi per la conclusione della procedura), l’urgenza intrinsecamente connessa all’imminente scadenza dei termini giustificava l’omissione dell’avviso.

Del pari insussistente è l’ulteriore vizio, pure rilevato dal primo giudice, di omessa notifica agli interessati della comunicazione di avvio del procedimento culminato nell’adozione della più volte citata determinazione di proroga nr. 4442 del 2009.
Infatti, se è vero che per prevalente giurisprudenza la proroga dei termini fissati dalla dichiarazione di pubblica utilità deve essere preceduta dalla comunicazione di cui all’art. 7 della legge 07.08.1990, nr. 241, nel caso di specie non vi è alcuna prova –anche alla luce dell’assenza nel presente giudizio di doglianze nel merito delle scelte relative alla localizzazione e alla realizzazione dell’opera pubblica– di quale apporto concreto la partecipazione dell’espropriato avrebbe potuto comportare, e quindi di una rilevanza non meramente formale dell’omissione (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 17.10.2006, nr. 6194).
Inoltre, come risulta dalla stessa tempistica dell’adozione della determinazione de qua (ultima di una lunga serie di proroghe e circoscritta a soli sei mesi, evidentemente per un imprevisto allungamento dei tempi ritenuti ormai maturi per la conclusione della procedura), l’urgenza intrinsecamente connessa all’imminente scadenza dei termini giustificava l’omissione dell’avviso (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 23.12.2008, nr. 6516) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.11.2012 n. 5822 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sui diversi tipi di censure che un'impresa può dedurre quando si impugna un provvedimento di esclusione da una gara ed anche (o poi con motivi aggiunti) l’aggiudicazione della stessa gara ad un’altra impresa partecipante.
Si può allora osservare che, quando si impugna un provvedimento di esclusione da una gara ed anche (o poi con motivi aggiunti) l’aggiudicazione della stessa gara ad un’altra impresa partecipante, possono essere dedotte dall’impresa esclusa diversi tipi di censure.
Tali censure possono riguardare solo l’esclusione dalla gara ed in tal caso la decisione del giudice amministrativo (su tale esclusione) determina effetti solo sulla prosecuzione della gara alla quale può essere stata eventualmente riammessa l’impresa esclusa.
Le censure possono poi riguardare (anche) la correttezza della procedura di gara seguita dall’amministrazione. In tal caso la decisione del giudice amministrativo produce effetti sulla prosecuzione (o sulla non prosecuzione) della gara.
Le censure possono ancora riguardare (anche) l’ammissione dell’impresa risultata nelle more eventualmente aggiudicataria. E, a sua volta, l’aggiudicataria può sostenere, con ricorso incidentale, che l’impresa già esclusa (per il motivo contestato) dovesse essere esclusa anche per altri motivi.
Qualora il giudizio (sull’esclusione dalla gara) si sia concluso con la dichiarazione della illegittimità di tale esclusione e l’esclusa sia stata riammessa alla gara (con la conseguente caducazione degli atti successivi ed anche del contratto eventualmente sottoscritto), la procedura di gara deve essere (in parte) rinnovata e si conclude con una nuova aggiudicazione che può essere (ovviamente) impugnata da tutte le imprese partecipanti che hanno interesse e quindi anche dalla impresa che in un primo momento era stata (illegittimamente) esclusa e poi, dopo la riammissione, era risultata comunque non aggiudicataria.
L’impresa non aggiudicataria può censurare sia le valutazioni che hanno condotto all’aggiudicazione della gara in favore dell’altra impresa, sia sostenere l’erronea valutazione della propria offerta (tecnica o economica). Può poi censurare la correttezza della procedura seguita o può chiedere l’esclusione della impresa aggiudicataria per vizi riguardanti la sua ammissione alla gara.
Se tuttavia l’impresa non aggiudicataria, come nella fattispecie in esame, ha già proposto un precedente ricorso avverso la sua esclusione dalla gara (e la conseguente aggiudicazione della stessa ad altra impresa), contestando anche l’ammissione alla gara della aggiudicataria, si deve ritenere che la non aggiudicataria possa impugnare, a conclusione della gara, gli atti ulteriori della procedura, e la nuova aggiudicazione conseguente alla parziale rinnovazione della gara, per vizi propri delle nuove fasi del procedimento, ma non possa anche riproporre questioni che erano state oggetto del precedente giudizio e sulle quali si è formato il giudicato.
L’impresa che ha già fatto ricorso al giudice amministrativo che si è pronunciato con una sentenza passata in giudicato -a differenza delle altre (eventuali) imprese non aggiudicatarie che possono sollevare nel giudizio avverso la nuova aggiudicazione qualsiasi motivo (di carattere sostanziale o procedurale, riguardante anche l’ammissione alla procedura dell’aggiudicataria)- non può quindi riproporre nel nuovo giudizio vizi riguardanti la precedente fase della gara che sono stati oggetto di un precedente giudizio e sui quali si è formato il giudicato.
Analoghe considerazioni possono essere fatte per l’impresa che, in quanto aggiudicataria e resistente in un precedente giudizio, ha proposto in tale giudizio un ricorso incidentale nei confronti dell’impresa esclusa e ricorrente contestandone, per altri profili non considerati dall’amministrazione, i requisiti di ammissione (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 19.11.2012 n. 5820 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La ricostruzione dell’orientamento giurisprudenziale attualmente prevalente in ordine all’applicazione dell’art. 38 Codice dei Contratti.
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IX. L’attuale orientamento giurisprudenziale sull’art. 38 Cod. contratti.
Parimenti preliminare si rivela la ricostruzione dell’orientamento giurisprudenziale attualmente prevalente in ordine all’applicazione dell’art. 38 Codice dei Contratti.
Orbene, i principali punti di approdo del non sempre lineare percorso ermeneutico compiuto, in materia, dal giudice amministrativo di I e II grado risultano, allo stato, i seguenti.
IX.1 Il carattere inderogabile e di ordine pubblico dell’art. 38.
Secondo Consiglio di Stato, sez. V, 20.04.2012, n. 2319, la necessità di produrre la dichiarazione in ordine ai requisiti di cui all’art 38 Cod. contr. <<trova fonte in norma inderogabile dell'ordinamento, con la conseguenza che, qualora la dichiarazione sia omessa o sia incompleta, è del tutto legittima l'esclusione dalla gara del soggetto che non ha reso le dovute dichiarazioni (per tutte, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 01.04.2011, n. 2068; sez. V, 21.11.2011, n. 6136; 21.10.2011, n. 5638; 24.03.2011, n. 1782; 25.01.2011, n. 513).>>; la medesima Sezione V ribadisce di lì a poco (10.05.2012, n. 2702) il carattere di ordine pubblico delle disposizioni di cui all’art. 38;
IX.2 La conseguente impossibilità di integrazione postuma dell’omissione della dichiarazione del pregiudizio penale e l’ulteriore conseguenza dell’esclusione dalla gara.
La sentenza Cons. Stato n. 2319/2012 prosegue, poi, affermando che <<la omissione della dichiarazione del pregiudizio penale, peraltro insuscettibile di integrazione postuma, in quanto prevista da norma imperativa, attesa la sua funzione di consentire all'amministrazione di verificare ex ante il possesso dei requisiti di moralità richiesti, nonché per il rispetto della par condicio dei concorrenti, comporta l'esclusione dalla gara dell'impresa che non abbia reso la dichiarazione.>>; la ratio dell’insuscettibilità di integrazione postuma -neppure attraverso il potere di soccorso ex art. 46, comma 1, del Codice contratti- era stata chiarita già da TAR Piemonte, sez. I, 05.10.2011, n. 1060, secondo cui «è illegittima la mancata esclusione di una ditta che aveva omesso di presentare la dichiarazione ex art. 38 D.Lgs. n. 163/2006, relativa a un membro del consiglio di amministrazione investito, in ossequio a previsioni statutarie, di poteri di rappresentanza della società; infatti, in casi del genere, non si può sopperire alla carenza documentale mediante richiesta di chiarimenti, in esercizio del potere di cui all’art. 46 del codice dei contratti, né tantomeno la fattispecie può essere inquadrata negli schemi del cd. ‘‘falso innocuo’’, dal momento che la rilevanza esimente della ‘‘innocuità’’ presuppone l’indefettibile esistenza, a monte, di una dichiarazione che, proprio perché dotata di un puntuale contenuto, si presta astrattamente, per le sue lacune, a essere considerata ‘‘falsa’’, mentre, nel caso in esame, la dichiarazione ex art. 38 dell’amministratore è stata totalmente omessa»;
IX.3. L’inapplicabilità alla specifica materia degli appalti pubblici della teorica penalistica del falso innocuo e l’esclusione del c.d. potere di soccorso.
La recente sentenza Cons. Stato, Sez. III, 16.03.2012, n. 1471 ha esaminato ancor più analiticamente il profilo del c.d. falso innocuo, affermando perentoriamente al Capo 6 che la tesi del falso innocuo non può trovare applicazione nella specifica materia degli appalti pubblici.
Gli snodi argomentativi della pronuncia sono i seguenti:
• al capo 6.1., viene richiamata giurisprudenza della Cassazione Penale e soprattutto Cass. S.U. penali 27.11.2008 n. 6591, che hanno escluso la possibilità di applicare la categoria del falso innocuo al reato di cui all'art. 95 D.P.R. n. 115 del 2002, che punisce le falsità o le omissioni nelle dichiarazioni e nelle comunicazioni per l'attestazione delle condizioni di reddito in vista dall'ammissione al patrocinio a spese dello Stato “… indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni previste per l'ammissione al beneficio”.
Le S.U. penali hanno affermato la rilevanza penale del falso compiuto da chi si trovava effettivamente nelle condizioni per accedere al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, perché bisogna avere riguardo alla funzione che l'atto svolge per l'ordinamento giuridico (porre subito nelle condizioni il decidente di ammettere o meno al gratuito patrocinio). Donde la necessità di una compiuta ed affidabile informazione del destinatario che, a fronte della complessità del tenore dell'istanza cui è speculare la valutazione da svolgere, ha urgenza di decidere.
• capo 6.2. Inoltre, a giudizio del Collegio, il falso è innocuo quando non incide neppure minimamente sugli interessi tutelati.
Nelle procedure di evidenza pubblica la completezza delle dichiarazioni, invece, è già di per sé un valore da perseguire perché consente -anche in ossequio al principio di buon andamento dell'amministrazione e di proporzionalità- la celere decisione in ordine all'ammissione dell'operatore economico alla gara. Conseguentemente una dichiarazione inaffidabile (perché falsa o incompleta) è già di per sé stessa lesiva degli interessi considerati dalla norma a prescindere dal fatto che l'impresa meriti 'sostanzialmente' di partecipare alla gara. In altri termini, nel diritto degli appalti occorre poter fare affidamento su una dichiarazione idonea a far assumere tempestivamente alla stazione appaltante le necessarie determinazioni in ordine all'ammissione dell'operatore economico alla gara o alla sua esclusione. La dichiarazione ex articolo 38, dunque, è sempre utile perché l'amministrazione sulla base di quella può/deve decidere la legittima ammissione alla gara e conseguentemente la sua difformità dal vero o la sua incompletezza non possono essere "sanate" ricorrendo alla categoria del falso innocuo.
• capo 6.4. Infine, il Giudice amministrativo d’appello fa leva sulle modifiche apportate dal legislatore all'articolo 38, comma 2, Cod. Appalti, osservando che l'intenzione del legislatore, con riferimento alle condanne penali, è stata quella di indicare ai partecipanti ciò che deve essere dichiarato e ciò che può non essere dichiarato proprio muovendo, a giudizio del Collegio, dalla necessità di presentare dichiarazioni complete e fedeli.
• ai capi 7 e 7.3, esclude che si possa fare applicazione del c.d. “potere di soccorso”, perché -se è vero, per un verso, che il legislatore ha introdotto il comma 1-bis all'articolo 46 Codice Contratti rendendo esplicito l'intento di ampliare il campo di operatività del "soccorso" e riducendo le ipotesi di esclusione dalla gara- per altro verso, per la dottrina, non ogni mancanza potrà essere regolarizzata soprattutto nel caso in cui ciò dovesse tradursi in un'alterazione della regola della par condicio. La novella non vale ad evitare l'esclusione del partecipante che non abbia adempiuto all'obbligo di legge di rendere le dovute dichiarazioni ex articolo 38 Codice Appalti dovendosi intendere la norma di legge nel senso che l'esclusione dalla gara può essere disposta sia nel caso in cui la legge o il regolamento la comminino espressamente, sia nell'ipotesi in cui la legge imponga "adempimenti doverosi" o introduca, come nel caso di specie, "norme di divieto", pur senza prevedere espressamente l'esclusione. In altri termini l'incompletezza o la falsità delle dichiarazioni prescritte dall'articolo 38, comma 1 e 2, e l'omessa osservanza degli adempimenti prescritti dalla legge determinano, per il chiaro tenore della legge, l'esclusione dell'operatore economico e dunque nessuno spazio può avere il dovere di soccorso.
A distanza di un paio di mesi, altrettanto decisa è la Sez. V del Consiglio di Stato (22.05.2012, n. 2946) nell’asserire che il cd. falso innocuo non ha cittadinanza nel sistema degli appalti pubblici.
Ugualmente netta è la sentenza, pubblicata il giorno successivo, con cui TAR Sardegna, sez. I, 23.05.2012, n. 508, esclude l’applicabilità, in subiecta materia, sia del principio del "falso innocuo", sia del principio del "dovere di soccorso".
IX.4. I soggetti tenuti ex lege alla dichiarazione: in particolare, gli amministratori con potere di rappresentanza della società.
Secondo il Consiglio di Stato (Sez. VI, sent. n. 178 del 18-01-2012; Sez. III, sent. n. 5018 del 06-09-2011 e Sez. IV, sent. n. 2066 dell’01-04-2011), il primo criterio da seguire per l'individuazione dei soggetti obbligati alla dichiarazione ex art. 38 d.lgs. n. 163/2006 è costituito dalla riconoscibilità ed ufficialità del potere della persona fisica di trasferire direttamente, al soggetto rappresentato, gli effetti del proprio operare e di trasmettere quindi al soggetto rappresentato la riprovazione dell'ordinamento nei riguardi della sua personale condotta.
Ne discende (Cons. Stato Sez. IV, 04.07.2012, n. 3925) che a essere tenuti alle dichiarazioni di cui all'art. 38 D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 sono soltanto “i soggetti titolari di ampi e generali poteri di amministrazione”, per cui, a tal fine, occorre aver riguardo ai poteri effettivi conferiti a ciascun amministratore e alla loro ampiezza, in quanto si estrinsechino sull'organizzazione complessiva dell'apparato organizzativo societario, nei suoi riflessi operativi esterni.
Secondo tale criterio, l'obbligo dichiarativo vale anche nei confronti del soggetto che esercita la rappresentanza in via vicaria (Cons. Stato, sez. VI, 25.05.2010, n. 3325 e Sez. V, 23.06.2010, n. 3972), cioè quando lo statuto della società prevede che il Vice Presidente sostituisce il Presidente nei casi di sua assenza o impedimento (CdS, Sez. III, n. 447/2012); non assume, infatti, alcun rilievo che i poteri di rappresentanza possano essere esercitati solo in funzione vicaria, ma ciò che conta è la titolarità del potere, laddove lo stesso statuto abiliti il soggetto a sostituire, in qualsiasi momento e per qualsiasi atto, il titolare principale della rappresentanza senza intermediazione di autorizzazione o di investitura (Cons. Stato Sez. V, 21-06-2012, n. 3658).
Anzi, TAR Sardegna, Sez. I, 20.03.2012, n. 295 attribuisce l’onere dichiarativo anche alla sola carica in quanto tale di Vice-Presidente ed anche se lo Statuto attribuisca espressamente al solo Presidente i poteri di rappresentanza, ritenendo insita nella stessa natura vicaria della vicepresidenza la possibilità di esercizio dei poteri di rappresentanza della società in caso di temporanea assenza o impedimento del titolare.
A ribadire che rileva la titolarità del potere e non anche il suo esercizio è, in altro passo, la citata pronuncia della Sez. III del Consiglio di Stato n. 1471/2012, secondo cui gli amministratori muniti di potere di rappresentanza devono necessariamente rendere la dichiarazione richiesta dalla legge a prescindere dal fatto, peraltro di difficile (e dubbia) prova, che nella sostanza non svolgano attività.
Ancora, secondo Sez. VI n. 1843/2012 (che richiama per tutte, sul punto, Cons. Stato, sez. V, 07.10.2009, n. 6114), <<l'obbligo di dichiarare l'assenza del c.d. "pregiudizio penale" concerne tutti i soggetti, in atto muniti dei poteri di rappresentanza, anche institoria o vicaria … indipendentemente dalla circostanza che non abbiano materialmente speso i loro poteri nella specifica gara.>>.
Nello stesso senso è Cons. Stato n. 2319/2012, nonché la posizione dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, la quale -nella determinazione n. 1 del 16.05.2012- ha affermato che gli amministratori muniti di potere di rappresentanza devono necessariamente rendere la dichiarazione richiesta dall’art. 38 codice, a prescindere dal fatto che nella sostanza svolgano o meno tale attività.
E’, infatti, anche sulla scorta della formula di legge ("muniti"), che la giurisprudenza (cfr. C.d.S., Sez. III, 31.08.2011, n. 4892) ritiene che ciò che conta è la titolarità del potere e non anche il suo esercizio.
In definitiva, la dichiarazione di onorabilità risulta circoscritta agli amministratori dotati di poteri di rappresentanza, tenuto conto che, ai sensi dell’art. 2380-bis c.c., la gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori (TAR Veneto, sez. I, 04.04.2011, n. 557) e può essere concentrata in un unico soggetto (amministratore unico) o affidata a più persone, che sono i componenti del consiglio di amministrazione (in caso di scelta del sistema monistico ex artt. 2380 e 2409-sexiesdecies c.c.) o del consiglio di gestione (in caso di opzione in favore del sistema dualistico ex artt. 2380 e 2409-octies c.c.): a essi, o a taluno tra essi, spetta la rappresentanza istituzionale della società (così: Cons. Stato, sez. V, 25.01.2011, n. 513 e 24.03.2011, n. 1782).
L’art. 38, in buona sostanza, richiede la compresenza della qualifica di amministratore e del potere di rappresentanza (Cons. Stato, sez. V, 21.10.2011, n. 5638).
IX.5. Il valore della “formale carica rivestita” e l’irrilevanza delle deleghe interne.
Ciò che conta è, infatti, la “formale carica rivestita” alla quale è per legge istituzionalmente connesso il possesso di poteri rappresentativi (cfr. TAR Friuli V.G. 10.05.2012, n. 168); ovvero l’astratta attribuzione della carica e non l’effettivo svolgimento della funzione (TAR Sicilia, sez. III, 19.01.2012, n. 136; Cons. Stato, sez. III, 30.01.2012, n. 447); ovvero ancora l’astratta titolarità del potere di rappresentanza (TAR Veneto, sez. I, 26.01.2012, n. 73): senza che possa avere rilevanza alcuna l'eventuale ripartizione interna di compiti e deleghe, mentre solo per altri soggetti -quali procuratori o institori- può porsi il problema della verifica in concreto del possesso di siffatti poteri: infatti, ancora Cons. Stato Sez. III, 16-03-2012, n. 1471 ha ritenuto illegittima, ex art. 38 d.lg. 12.04.2006 n. 163, l'ammissione alla gara d'appalto dell'impresa che non abbia presentato in allegato alla domanda di ammissione la dichiarazione di assenza di pregiudizi penali in capo a tutti gli amministratori muniti del potere di rappresentanza, per essi intendendosi tutti i soggetti che rivestano cariche societarie ai quali per legge sono istituzionalmente connessi poteri rappresentativi, senza che abbia rilevanza l'eventuale ripartizione interna di compiti e deleghe.
Questi i relativi passaggi motivazionali:
- capo 2. “Prescindendo in questa sede dalla dibattuta questione circa la necessità di richiedere la dichiarazione di cui all'articolo 38 ora citato anche ai procuratori speciali muniti di potere di rappresentanza, va rilevato che la giurisprudenza del Consiglio di Stato è ferma nell'interpretare la norma in questione, peraltro in piena sintonia con il dato legislativo, nel senso che coloro i quali rivestono cariche societarie, alle quali è per legge istituzionalmente connesso il possesso di poteri rappresentativi, sono in ogni caso tenuti a rendere la dichiarazione de qua, senza che possa avere rilevanza alcuna l'eventuale ripartizione interna di compiti e deleghe, mentre solo per altri soggetti, quali procuratori o institori, può porsi il problema della verifica in concreto del possesso di siffatti poteri (Cons. St., IV, 03.12.2010 n. 8535)”;
- capo 4.2. “A giudizio del Collegio, in applicazione del chiaro disposto dell'articolo 38 Codice Contratti, gli amministratori muniti di potere di rappresentanza devono necessariamente rendere la dichiarazione richiesta dalla legge a prescindere dal fatto, peraltro di difficile (e dubbia) prova, che nella sostanza non svolgano attività. Occorre ora aggiungere che il riferimento ai poteri sostanziali è stato utilizzato da parte della giurisprudenza, non già per restringere - come vorrebbe l'appellante - il novero dei soggetti chiamati a rendere la dichiarazione ma, al contrario, per ampliarlo anche a coloro che, pur non rivestendo formalmente la carica di amministratore, sono investiti di sostanziali poteri di rappresentanza; in tale ultima direzione si muove anche la sentenza 16..11.2010 n. 8059 del Consiglio di Stato (…)”:
- 4.5. ultimo periodo: “In terzo luogo non può accogliersi la tesi dell'appellante per cui sarebbe stato "falso" "...dichiarare che Carrato al momento della presentazione della domanda di partecipazione aveva poteri di rappresentanza generale della società..." perché, come già detto, non v'è dubbio che per legge le dichiarazioni di cui all'articolo 38 Cod. Appalti devono certamente essere rese da chi risulta all'esterno avere poteri di rappresentanza”.
IX.6. In particolare: la necessità della dichiarazione sia del Presidente, sia dell’Amministratore delegato.
In sintonia con le coordinate ermeneutiche da ultimo riportate e in riferimento a una fattispecie concernente le medesime figure (Presidente e Amministratore delegato) che vengono in rilievo nella presente controversia, TAR Molise 11.02.2009, n. 19 ha ritenuto che:
- qualora, al momento della partecipazione alla gara, i poteri di rappresentanza di una Società sussistano in capo sia al Presidente del Consiglio di Amministrazione (munito di ampi poteri, legale rappresentante della società) sia all’Amministratore delegato (con poteri delegati dal Consiglio di amministrazione, la suddetta società è tenuta comprovare i requisiti prescritti dall'art. 38 con apposita dichiarazione sostitutiva tanto del Presidente del Consiglio di amministrazione, quanto dell'Amministratore delegato;
- per cui, se invece tale dichiarazione è stata resa soltanto dall'Amministratore delegato, ne deriva l’insufficienza della stessa e la conseguente, automatica esclusione della ditta dalla gara.
IX.7. In ogni caso: la necessaria indicazione nominativa di Presidente e Vice-Presidente, ove la dichiarazione non sia dagli stessi sottoscritta.
In ulteriore sintonia con le medesime coordinate interpretative, la giurisprudenza giunge ad ammettere che la dichiarazione ex art. 38 possa anche non essere sottoscritta da Presidente e Vice Presidnete della Società, ma in tal caso esige che i rispettivi nominativi figurino espressamente nella dichiarazione resa da altro soggetto abilitato.
Si vedano, in tal senso, le sentenze del Consiglio di Stato citate dalla ricorrente nel ricorso introduttivo (n. 3069/2011), nella memoria conclusionale 21.09.2012 (n. 6053/2011) e in quella di replica 28.09.2012 (n. 1516/2012 e n. 5385/2011); nonché le seguenti:
- Consiglio di Stato, sez. VI, 20.06.2012, n. 3590 che, richiamando precedenti di altra Sezione (sez. V, 15.10.2010, n. 7524; idem, 27.01.2009, n. 521, ord.), riafferma (capo 6.4.) il principio per cui l'obbligo della dichiarazione può ritenersi assolto dal legale rappresentante dell'impresa, con la specifica indicazione degli altri soggetti in carica, muniti di rappresentanza, immuni dai c.d. "pregiudizi penali";
- Consiglio di Stato, sez. V, 14.02.2012, n. 725, secondo cui -dovendo essere consentito alla stazione appaltante di verificare autonomamente la presenza di cause di esclusione- il concorrente è conseguentemente obbligato a dichiarare i nominativi dei soggetti elencati all'art. 38 (anche cessati dalla carica) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 19.11.2012 n. 1814 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIANell'attuale sistema normativo, l'obbligo di bonifica dei siti inquinati grava, in primo luogo, sull'effettivo responsabile dell'inquinamento stesso, mentre la mera qualifica di proprietario o detentore del terreno inquinato non implica di per sé l'obbligo di effettuarne la relativa bonifica.
In tal senso disponevano già il D.Lgs. 22/1997 (c.d. decreto "Ronchi") ed il DM 471/1999 ed allo stesso modo era orientata la giurisprudenza.
La fattispecie del mero abbandono o deposito di rifiuto -che coinvolge anche i proprietari delle aree- va distinta da una situazione di vero e proprio inquinamento di un determinato sito, che è invece disciplinata dall'art. 17 dello stesso Decreto Legislativo -seguito dal Regolamento Attuativo di cui al D.M. 25.10.1999 n. 471- che disciplina la messa in sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale dei siti inquinati, ponendone l'obbligo a carico dei responsabili dell'inquinamento (comma 2); demandando al Comune (comma 9), ove i responsabili non provvedano o non siano individuabili, la realizzazione d'ufficio dei relativi interventi; e disponendo che detti interventi costituiscano onere reale sulle aree inquinate (comma 10), con relativa spesa è assistita da privilegio speciale immobiliare sulle aree stesse oltre che da privilegio generale mobiliare (comma 11).
Il suindicato assetto normativo sul dovere di bonifica è stato confermato dal vigente D.Lgs. 03.04.2006 n. 152, che pone l'obbligo di bonifica in capo al responsabile dell'inquinamento, che le Autorità amministrative hanno l'onere di ricercare ed individuare (artt. 242 e 244 D.Lgs. 152/2006), mentre il proprietario non responsabile dell'inquinamento o altri soggetti interessati hanno una mera "facoltà" di effettuare interventi di bonifica (art. 245); nel caso di mancata individuazione del responsabile o di assenza di interventi volontari, le opere di bonifica saranno realizzate dalle Amministrazioni competenti (art. 250), salvo, a fronte delle spese da esse sostenute, l'esistenza di un privilegio speciale immobiliare sul fondo, a tutela del credito per la bonifica e la qualificazione degli interventi relativi come onere reale sul fondo stesso, onere destinato pertanto a trasmettersi unitamente alla proprietà del terreno (art. 253).
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Ferma la doverosità degli accertamenti indirizzati ad individuare con specifici elementi i responsabili dei fatti di contaminazione, l'imputabilità dell'inquinamento può avvenire per condotte attive ma anche per condotte omissive, e che la prova può essere data in via diretta od indiretta, ossia mediante "presunzioni semplici", ai sensi dell'art. 2727 c.c. (le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato), prendendo in considerazione elementi di fatto dai quali possano trarsi indizi gravi precisi e concordanti, che inducano a ritenere verosimile, secondo l'"id quod plerumque accidit", che sia verificato un inquinamento e che questo sia attribuibile a determinati autori.
Ai sensi dell'art. 2729 del cod. civ. "le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti."
Orbene tale norma -che spiega il proprio effetto diretto nel giudizio civile- pone un principio generale, che consente alla pubblica amministrazione, specie quando deve svolgere complesse attività di indagine su fatti che non sono a sua diretta conoscenza ma che, per essere illeciti, sono conosciuti dai privati, il ricorso alla prova logica, alle presunzioni semplici, ad indizi gravi precisi e concordanti per la prova di determinati fatti.
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In tema di abbandono di rifiuti, la giurisprudenza amministrativa, già con riferimento alla misura reintegratoria prevista e disciplinata dall'art. 14 del D.lgs. n. 22/1997 (c.d. "DecretoRonchi"), ha statuito che il proprietario dell'area sia tenuto a provvedere allo smaltimento solo a condizione che ne venga dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori dell'illecito abbandono di rifiuti, per aver posto in essere un comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o colposo.
In particolare, viene affermata l'illegittimità degli ordini di smaltimento di rifiuti indiscriminatamente rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua sola qualità, ma in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell'amministrazione procedente, sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione (quand'anche fondata su ragionevoli presunzioni o su condivisibili massime d'esperienza), dell'imputabilità soggettiva della condotta.
I suddetti principi "a fortiori" si attagliano al disposto di cui all'art. 192 del D.lgs. n. 152/2006, dal momento che siffatta disposizione legislativa non soltanto riproduce il tenore dell'abrogato art. 14 del D.lgs. n. 22/1997, con riferimento alla necessaria imputabilità a titolo di dolo o colpa, ma, in più, integra il precedente precetto, precisando che l'ordine di rimozione può essere adottato esclusivamente "in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo".

Nell'attuale sistema normativo, l'obbligo di bonifica dei siti inquinati grava, in primo luogo, sull'effettivo responsabile dell'inquinamento stesso, mentre la mera qualifica di proprietario o detentore del terreno inquinato non implica di per sé l'obbligo di effettuarne la relativa bonifica.
In tal senso disponevano già il D.Lgs. 22/1997 (c.d. decreto "Ronchi") ed il DM 471/1999 ed allo stesso modo era orientata la giurisprudenza (ex plurimis: TAR Lombardia, Milano, sez. I, 08.11.2004, n. 5681, per la quale l'ordine di bonifica può essere posto a carico dei proprietari solo se responsabili o corresponsabili dell'illecito abbandono; TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 07.09.2007 n. 5782 e 18.12.2007, n. 6684 ; Cons. Stato, Sez. VI 05.09.2005 n. 4525).
La fattispecie del mero abbandono o deposito di rifiuto -che coinvolge anche i proprietari delle aree- va distinta da una situazione di vero e proprio inquinamento di un determinato sito, che è invece disciplinata dall'art. 17 dello stesso Decreto Legislativo -seguito dal Regolamento Attuativo di cui al D.M. 25.10.1999 n. 471- che disciplina la messa in sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale dei siti inquinati, ponendone l'obbligo a carico dei responsabili dell'inquinamento (comma 2); demandando al Comune (comma 9), ove i responsabili non provvedano o non siano individuabili, la realizzazione d'ufficio dei relativi interventi; e disponendo che detti interventi costituiscano onere reale sulle aree inquinate (comma 10), con relativa spesa è assistita da privilegio speciale immobiliare sulle aree stesse oltre che da privilegio generale mobiliare (comma 11).
Il suindicato assetto normativo sul dovere di bonifica è stato confermato dal vigente D.Lgs. 03.04.2006 n. 152, che pone l'obbligo di bonifica in capo al responsabile dell'inquinamento, che le Autorità amministrative hanno l'onere di ricercare ed individuare (artt. 242 e 244 D.Lgs. 152/2006), mentre il proprietario non responsabile dell'inquinamento o altri soggetti interessati hanno una mera "facoltà" di effettuare interventi di bonifica (art. 245); nel caso di mancata individuazione del responsabile o di assenza di interventi volontari, le opere di bonifica saranno realizzate dalle Amministrazioni competenti (art. 250), salvo, a fronte delle spese da esse sostenute, l'esistenza di un privilegio speciale immobiliare sul fondo, a tutela del credito per la bonifica e la qualificazione degli interventi relativi come onere reale sul fondo stesso, onere destinato pertanto a trasmettersi unitamente alla proprietà del terreno (art. 253).
Il complesso di questa disciplina, conforme al diritto comunitario, appare ispirata al cosiddetto principio del "chi inquina paga", da intendersi in senso sostanzialistico, secondo il principio di effettività come criterio guida nell'interpretazione del diritto comunitario ambientale, sancito con sent. della Corte di Giustizia Ce 15.06.2000 (in causa Arco).
Detto principio del "chi inquina paga" consiste, in definitiva, nell'imputazione dei costi ambientali (c.d. ovvero costi sociali estranei alla contabilità ordinaria dell'impresa) al soggetto che ha causato la compromissione ecologica illecita (poiché esiste una compromissione ecologica lecita data dall'attività di trasformazione industriale dell'ambiente che non supera gli standards legali).
Ciò, sia nel quadro di una logica risarcitoria ex "post factum", che nel quadro di una logica preventiva dei fatti dannosi, poiché il principio esprime anche il tentativo di internalizzare detti costi sociali e di incentivare -per effetto del calcolo dei rischi di impresa- la loro generalizzata incorporazione nei prezzi delle merci, e, quindi, nelle dinamiche di mercato dei costi di alterazione dell'ambiente (con conseguente minor prezzo delle merci prodotte senza incorrere nei predetti costi sociali attribuibili alle imprese e conseguente indiretta incentivazione per le imprese a non danneggiare l'ambiente).
Esso trova molteplici significative applicazioni nel campo della disciplina dei rifiuti e del danno ambientale.
Con specifico riguardo alla contaminazione dei siti, pare rilevante quanto stabilito dalla Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 21.04.2004, "sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale". Anche tale Direttiva è conformata dal principio "chi inquina paga", per cui l'operatore che provoca un danno ambientale o è all'origine di una minaccia imminente di tale danno, dovrebbe, di massima, sostenere il costo delle necessarie misure di prevenzione o di riparazione. Quando l'autorità competente interviene direttamente o tramite terzi al posto di un operatore, detta autorità dovrebbe far sì che il costo da essa sostenuto sia a carico dell'operatore. È inoltre opportuno che gli operatori sostengano in via definitiva il costo della valutazione del danno ambientale ed eventualmente della valutazione della minaccia imminente di tale danno.
La Direttiva non si applica al danno di carattere diffuso se non in presenza di un nesso causale tra il danno e l'attività di singoli operatori.
Va quindi precisato, alla luce di tale esigenza di effettività della protezione dell'ambiente, che, ferma la doverosità degli accertamenti indirizzati ad individuare con specifici elementi i responsabili dei fatti di contaminazione, l'imputabilità dell'inquinamento può avvenire per condotte attive ma anche per condotte omissive, e che la prova può essere data in via diretta od indiretta, ossia mediante "presunzioni semplici", ai sensi dell'art. 2727 c.c. (le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato), prendendo in considerazione elementi di fatto dai quali possano trarsi indizi gravi precisi e concordanti, che inducano a ritenere verosimile, secondo l'"id quod plerumque accidit", che sia verificato un inquinamento e che questo sia attribuibile a determinati autori.
Ai sensi dell'art. 2729 del cod. civ. "le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti."
Orbene tale norma -che spiega il proprio effetto diretto nel giudizio civile- pone un principio generale, che consente alla pubblica amministrazione , specie quando deve svolgere complesse attività di indagine su fatti che non sono a sua diretta conoscenza ma che, per essere illeciti, sono conosciuti dai privati, il ricorso alla prova logica, alle presunzioni semplici, ad indizi gravi precisi e concordanti per la prova di determinati fatti (per un'applicazione del principio in materia di accertamenti di illeciti anticoncorrenziali: cfr. Cons. Stato, Sez. VI 29.02.2008 n. 760; per un'applicazione in tema di urbanistica ai sensi dell'art. 18 della legge 28.02.1985, n. 47: Cons. Stato, Sez. V, 13.09.1991, n. 1157).
Né il difetto della prova testimoniale nel processo amministrativo (arg. ex art. 2729 comma 2 cod. civ. ) esclude la possibilità per la pubblica amministrazione di ricorrere a presunzioni semplici, poiché il canone costituzionale dell'imparzialità della pubblica amministrazione e la previsione del sindacato giurisdizionale sugli atti della medesima (artt. 97 e 113 Cost.) nonché delle preventive garanzie procedimentali (artt. 3 e 7 della legge n. 241 del 1990) sono sufficienti per ritenere che vi sia un sistema equilibrato di pesi e contrappesi, nel riconoscimento del potere (sindacabile) della p.a. di ricostruzione dei fatti rilevanti ai fini dell'adozione di provvedimenti amministrativi sfavorevoli ai privati , anche a mezzo di presunzioni semplici ove ciò sia imposto dalla natura degli accertamenti da espletare.
Va rilevato che il potere è attivabile anche a fronte di una situazione di mero pericolo di inquinamento come imposto dal principio comunitario di precauzione come enunciato sin dalla Conferenza di Rio del 2004 (secondo l'art. 15 del documento conclusivo della Conferenza “in caso di rischi di danni gravi o irreversibili, l'assenza di certezza scientifiche non deve servire come pretesto per rinviare l'adozione di misure efficaci volte a prevenire il degrado dell'ambiente”) e dal principio di doverosa prevenzione dei danni.
L'art. 14, 3° comma, del D.Lgs. n. 22 del 1997, dispone: "fatta salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 50 e 51, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa. Il sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate".
Al comma 1 del medesimo articolo, invece, si stabilisce, in termini più generali, che "l'abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati".
L'esegesi della norma è tracciata da Cons. Stato, Sez. V, 25.08.2008, n. 4061, la quale, ha precisato che, in tema di abbandono di rifiuti, la giurisprudenza amministrativa, già con riferimento alla misura reintegratoria prevista e disciplinata dall'art. 14 del D.lgs. n. 22/1997 (c.d. "DecretoRonchi"), ha statuito che il proprietario dell'area sia tenuto a provvedere allo smaltimento solo a condizione che ne venga dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori dell'illecito abbandono di rifiuti, per aver posto in essere un comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o colposo (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. V, 25.1.2005 n.136), escludendo, conseguentemente, che la norma configurasse un'ipotesi legale di responsabilità oggettiva (vieppiù, per fatto altrui).
In particolare, viene affermata l'illegittimità degli ordini di smaltimento di rifiuti indiscriminatamente rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua sola qualità, ma in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell'amministrazione procedente, sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione (quand'anche fondata su ragionevoli presunzioni o su condivisibili massime d'esperienza), dell'imputabilità soggettiva della condotta.
I suddetti principi "a fortiori" si attagliano al disposto di cui all'art. 192 del D.lgs. n. 152/2006, dal momento che siffatta disposizione legislativa non soltanto riproduce il tenore dell'abrogato art. 14 del D.lgs. n. 22/1997, con riferimento alla necessaria imputabilità a titolo di dolo o colpa, ma, in più, integra il precedente precetto, precisando che l'ordine di rimozione può essere adottato esclusivamente "in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo" (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 19.11.2012 n. 1105 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sufficiente per far rilevare e contestare i danni. Difetto di costruzione, per la decorrenza basta un solo incontro con i tecnici.
Sulla base delle circostanze di fatto la Corte distrettuale è giunta alla conclusione che alla data dell'incontro tra le parti non solo i gravi difetti dell’opera si erano già manifestati nella loro oggettiva consistenza, ma anche che essi furono, proprio in tale occasione, rappresentati e denunziati al progettista e direttore dei lavori; la natura e consistenza dei gravi difetti e la loro progressiva evidenza rendeva infatti chiaro, non lasciando spazio a dubbi in proposito, che essi erano riconducibili a difetti di costruzione e quindi coinvolgessero anche gli apporti forniti in sede di progettazione e direzione dei lavori, la cui convocazione e presenza all’incontro altrimenti non avrebbe avuto ragion d’essere, considerato che di essa la stessa parte ricorrente non ha fornito una giustificazione diversa.
La denunzia dei gravi difetti dell’opera prevista dall’art. 1669 cod. civ. ha lo scopo, non diversamente da quella prevista dal precedente art. 1667, di porre il destinatario (appaltatore o soggetti concorrenti, quali il progettista ed il direttore dei lavori), nella condizione di compiere le opportune verifiche al fine di accertare e dimostrare che il pericolo di rovina non deriva da sua colpa.
Per il proprietario dell’opera l’onere di denunzia scatta, pertanto, nel momento in cui egli acquista un ragionevole grado di conoscenza dell’entità del vizio costruttivo e della sua riferibilità causale, elementi che, ai fini della configurabilità della denunzia, deve rappresentare al destinatario (Cass. n. 4622 del 2002; Cass. n. 1993 del 1999), restando poi alla valutazione del giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità, scrutinare se tale informativa era sufficiente portare a conoscenza dell’altra parte la sussistenza dei difetti lamentati.
La denunzia, in relazione al suo scopo, si perfeziona in virtù della comunicazione al soggetto responsabile dei gravi difetti che si sono manifestati nella costruzione, senza necessità che in essa vengano indicate le sue cause specifiche, il cui addebito implicito alla controparte risiede nella stessa natura di obbligazione di risultato che questi ha assunto, e il cui accertamento tecnico in termini di certezza risulta incompatibile con la stessa esigenza perseguita dalla legge attraverso gli istituti della decadenza e della prescrizione, di consentire all’appaltatore di compiere gli accertamenti necessari per verificare l’esistenza effettiva dei difetti lamentati e la loro imputabilità.
Nel caso di specie, la Corte territoriale, dopo avere richiamato il contenuto delle testimonianze, ha precisato che l’edificio degli attori già nel 1993, subito dopo il completamento dei lavori, aveva manifestato la presenza di fessurazioni che erano andate via via aggravandosi, tanto che le parti avevano inserito dei fessurometri e contattato un’impresa specializzata per il consolidamento del sottosuolo e delle fondazioni; che i committenti, all’inizio del 1996, avevano incaricato un tecnico di eseguire una verifica statica dell’immobile, ricevendo dal professionista una relazione di non collaudabilità dell’opera; che, come riferito dal medesimo tecnico, dopo circa sei mesi dalla sua nomina, vale a dire nel giugno 1996, vi era stato un incontro in loco, alla sua presenza,, in cui si discusse delle modalità di intervento che gli stessi committenti ritenevano indispensabile ed urgente.
Sulla base di tali circostanze la Corte distrettuale è quindi giunta alla conclusione che alla data di tale incontro non solo i gravi difetti dell’opera si erano già manifestati nella loro oggettiva consistenza, ma anche che essi furono, proprio in tale occasione, rappresentati e denunziati al progettista e direttore dei lavori; la natura e consistenza dei gravi difetti e la loro progressiva evidenza rendeva infatti chiaro, non lasciando spazio a dubbi in proposito, che essi erano riconducibili a difetti di costruzione e quindi coinvolgessero anche gli apporti forniti in sede di progettazione e direzione dei lavori, la cui convocazione e presenza all’incontro altrimenti non avrebbe avuto ragion d’essere, considerato che di essa la stessa parte ricorrente non ha fornito una giustificazione diversa.
Tanto precisato, il ragionamento svolto dal giudice territoriale e la conclusione da questi accolta si sottraggono ai vizi denunziati.
Con riferimento al vizio di violazione di legge, apparendo la decisione in linea con l’orientamento della giurisprudenza di questa Corte sopra indicato in tema di denunzia dei vizi e gravi difetti dell’immobile; in relazione al vizio di motivazione, in quanto, ferma l’insindacabilità della valutazione di fatto, che spetta al giudice di merito, la motivazione ed il percorso logico seguito dal giudicante appaiono sufficienti ed adeguati a dare conto della soluzione accolta, nonché rispondenti agli elementi e dati di fatto evidenziati e presi in considerazione, mentre la versione diversa dei fatti sostenuta nel ricorso si risolve soltanto in una diversa interpretazione e lettura delle circostanze, senza contestazione di errori od omissioni specifiche.
Il quarto motivo di ricorso denunzia contraddittorietà della motivazione ed omesso esame di un elemento determinante per la decisione della controversia, non avendo la Corte considerato che al sopraluogo del giugno 1996 parteciparono, i periti, ma nessuno per la società che al momento era già proprietaria dell’immobile.
Il motivo è infondato ed anche inammissibile.
La censura appare infatti trovare smentita in fatto dalla parte della sentenza che, dopo avere dato atto che nell’incontro in cui furono denunziati i vizi era presente anche il perito di parte, qualifica espressamente quest’ultimo come mandatario dei proprietari dell’immobile, riconoscendo quindi che il suddetto professionista rappresentava in tale incontro tutti gli interessati, affermazione che non risulta specificatamente contestata nel ricorso (tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione civile, sentenza 15.11.2012 n. 20004).

EDILIZIA PRIVATAE' doveroso applicare le misure di salvaguardia ad una domanda di titolo edilizio presentata prima dell’adozione di un piano, ma decisa successivamente, in base al generale principio dell’ordinamento per cui “tempus regit actum”.
Ai sensi dell’art. 13, comma 12, della l.r. Lombardia 12/2005 citata in premesse, “Nel periodo intercorrente tra l'adozione e la pubblicazione dell'avviso di approvazione degli atti di PGT si applicano le misure di salvaguardia in relazione a interventi, oggetto di domanda di permesso di costruire, ovvero di denuncia di inizio attività, che risultino in contrasto con le previsioni degli atti medesimi”.
La norma, come è ben noto, riproduce una corrispondente norma di legge ordinaria, l’art. 10, comma 5, della l. 17.08.1942 n. 1150, per cui “Nelle more di approvazione del piano, le normali misure di salvaguardia di cui alla legge 03.11.1952 n. 1902 e successive modificazioni, sono obbligatorie”, là dove l’articolo unico della richiamata l. 1902/1952 disponeva: “a decorrere dalla data della deliberazione comunale di adozione dei piani regolatori generali e particolareggiati, e fino all'emanazione del relativo decreto di approvazione, il sindaco, su parere conforme della Commissione edilizia comunale, può, con provvedimento motivato da notificare al richiedente, sospendere ogni determinazione sulle domande di licenza di costruzione… quando riconosca che tali domande siano in contrasto con il piano adottato”.
In proposito, va poi condiviso l’insegnamento di TAR Toscana 22.06.1977 n. 301, citata dalla difesa del ricorrente ed unica edita sul punto, ovvero che è doveroso applicare le misure di salvaguardia ad una domanda di titolo edilizio presentata prima dell’adozione di un piano, ma decisa successivamente, in base al generale principio dell’ordinamento per cui “tempus regit actum” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 15.11.2012 n. 1807 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’interessato al rilascio di un titolo edilizio circa un dato immobile deve avere “titoli reali” per intervenirvi: non è all’evidenza in generale tale una servitù, che attribuisce come è noto al proprietario del fondo dominante specifiche e limitate possibilità di intervento sul fondo servente, e quindi di regola non la possibilità di edificarvi in via pura e semplice.
Ai sensi del noto art. 11, comma 1, del T.U. 380/2001, “Il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo”; la norma, che è di legge statale, ha evidente carattere di principio ed è quindi valida per tutte le Regioni; comunque, ad essa si conforma l’art. 38, comma 1, della l.r. Lombardia 11.03.2005 n. 12, per cui la domanda di rilascio del permesso è “sottoscritta dal proprietario dell'immobile o da chi abbia titolo per richiederlo”.
La giurisprudenza, per parte sua, ha poi chiarito –da ultimo C.d.S. sez. IV 08.07.2011 n. 3508, che si cita per tutte- che l’interessato al rilascio di un titolo edilizio circa un dato immobile deve avere “titoli reali” per intervenirvi: non è all’evidenza in generale tale una servitù, che attribuisce come è noto al proprietario del fondo dominante specifiche e limitate possibilità di intervento sul fondo servente, e quindi di regola non la possibilità di edificarvi in via pura e semplice (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 15.11.2012 n. 1803 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAData in sintesi la natura paritetica dell’atto di determinazione del dovuto (ndr: contributo di costruzione), il privato il quale versa in buona fede la somma richiestagli dall’amministrazione per gli oneri in parola adempie ad una obbligazione così come avverrebbe nei rapporti fra privati, e con l’adempimento la estingue una volta per tutte, senza che sia permesso all’amministrazione rimettere in discussione il rapporto così definito con la richiesta di conguagli.
Tuttavia, non mancano pronunce di segno contrario le quali riconoscono all’amministrazione comunale il potere di richiedere conguagli per oneri determinati precedentemente in modo inesatto, vuoi riportandolo al più generale potere di autotutela amministrativa, vuoi in base al rilievo sostanziale per cui, così come al privato è consentito ripetere somme versate in eccesso, anche all’amministrazione deve essere accordata la possibilità di richiedere conguagli.

Tutto ciò premesso, nel merito il primo motivo di ricorso è nella sua assolutezza infondato. La ricorrente invoca a suo favore l’orientamento giurisprudenziale per cui, data in sintesi la natura paritetica dell’atto di determinazione del dovuto, il privato il quale versa in buona fede la somma richiestagli dall’amministrazione per gli oneri in parola adempie ad una obbligazione così come avverrebbe nei rapporti fra privati, e con l’adempimento la estingue una volta per tutte, senza che sia permesso all’amministrazione rimettere in discussione il rapporto così definito con la richiesta di conguagli: in tal senso si esprime ad esempio la particolarmente approfondita decisione C.G.A. Sicilia 02.03.2007 n. 64.
In proposito, il Collegio deve anzitutto puntualizzare che tale orientamento non è incontroverso: così come ricorda anche la decisione citata, non mancano pronunce di segno contrario, le quali riconoscono all’amministrazione comunale il potere di richiedere conguagli per oneri determinati precedentemente in modo inesatto, vuoi riportandolo al più generale potere di autotutela amministrativa, come la remota C.d.S. sez. V 25.04.1966 n. 426, vuoi in base al rilievo sostanziale per cui, così come al privato è consentito ripetere somme versate in eccesso, anche all’amministrazione deve essere accordata la possibilità di richiedere conguagli, così come ritenuto da C.d.S. 06.051997 n. 458 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 15.11.2012 n. 1802 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il D.M. 02.04.1968 n. 1444 fissa i limiti "inderogabili" di distanza fra i fabbricati e prevede all'art. 9 che tra i fabbricati debba essere rispettata "in tutti i casi" la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Lo stesso decreto, peraltro, ammette distanze inferiori, solo relativamente alle ipotesi di ristrutturazione in zone A e "nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni plano volumetriche".
La ratio di tale normativa, come sembra evidente, è quella non di tutela del diritto alla riservatezza, bensì di salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie: trattasi cioè di norma volta a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario. Tali distanze tra costruzioni sono, cioè, predeterminate con carattere cogente in via generale e astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni d’igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi.
Tale previsione è dunque, tassativa e inderogabile e può essere derogata solo relativamente alle zone A e nel caso di “strumenti attuativi con previsioni plano volumetriche"; si tratta proprio del caso in esame, ricadendo l’immobile in zona A interessata da un piano particolareggiato con previsioni plano-volumetriche.
Al contrario, solo per gli edifici ricadenti in zona territoriale diversa dalla A la distanza minima assoluta di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, prescritta ai sensi dell'art. 41-quinquies, l. 17.08.1942 n. 1150, modificato dall'art. 17, l. 06.08.1967 n. 765, e dell'art. 9, d.m. 02.04.1968 n. 1444, costituisce una prescrizione di carattere cogente e generale e comporta altresì l'obbligo per il giudice di merito non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, nel caso di strumenti urbanistici contrastanti, ma anche di applicare direttamente la disposizione del menzionato art. 9, che, per inserzione automatica, diviene parte integrante dello strumento urbanistico, anche in sostituzione della eventuale norma illegittima a disapplicata.

Va poi ricordato che il decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968 n. 1444, invocato da parte ricorrente, fissa i limiti "inderogabili" di distanza fra i fabbricati e prevede all'art. 9 che tra i fabbricati debba essere rispettata "in tutti i casi" la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Lo stesso decreto, peraltro, ammette distanze inferiori, solo relativamente alle ipotesi di ristrutturazione in zone A e "nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni plano volumetriche".
La ratio di tale normativa, come sembra evidente, è quella non di tutela del diritto alla riservatezza, bensì di salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie: trattasi cioè di norma volta a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario. Tali distanze tra costruzioni sono, cioè, predeterminate con carattere cogente in via generale e astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni d’igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi (Cons. St., sez. IV, 12.06.2007, n. 3094, e 05.12.2005, n. 6909).
Tale previsione è dunque, tassativa e inderogabile e può essere derogata solo relativamente alle zone A e nel caso di “strumenti attuativi con previsioni plano volumetriche"; si tratta proprio del caso in esame, ricadendo l’immobile in zona A interessata da un piano particolareggiato con previsioni plano-volumetriche.
Al contrario, solo per gli edifici ricadenti in zona territoriale diversa dalla A la distanza minima assoluta di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, prescritta ai sensi dell'art. 41-quinquies, l. 17.08.1942 n. 1150, modificato dall'art. 17, l. 06.08.1967 n. 765, e dell'art. 9, d.m. 02.04.1968 n. 1444, costituisce una prescrizione di carattere cogente e generale e comporta altresì l'obbligo per il giudice di merito non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, nel caso di strumenti urbanistici contrastanti, ma anche di applicare direttamente la disposizione del menzionato art. 9, che, per inserzione automatica, diviene parte integrante dello strumento urbanistico, anche in sostituzione della eventuale norma illegittima a disapplicata (Cass. Civ. sez. II 07.01.2010 n. 56) (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 15.11.2012 n. 411 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il soppalco, per le sue significative dimensioni (pari a 47 mq.), deve essere qualificato come opera di ristrutturazione edilizia in quanto, così come previsto dall’art. 3, lettera d), d.p.r. n. 380/2001, è intervento che comporta un significativo aumento di superficie dell’organismo edilizio preesistente.
La rilevanza giuridica di tale aumento di superficie, ai fini della qualificazione edilizia dell’intervento, è, pertanto, riconducibile alla sua notevole entità e prescinde dall’abitabilità del soppalco e, quindi, dall’altezza dello stesso in quanto comporta, in ogni caso, un significativo incremento, rispetto allo status quo ante, dei vani utilizzabili dal privato anche a fini di mero deposito.
Ne consegue che ogni questione circa l’altezza del soppalco (che, all’esito della verificazione disposta dal Collegio, risulta avere un’altezza utile tra piano di calpestio e controsoffitto pari a mt. 1,48 laddove la distanza tra l’intradosso del controsoffitto e quello del soffitto è pari, nel suo punto più alto, a mt. 0,38) è irrilevante ai fini della qualificazione giuridica dell’intervento e dell’individuazione del regime autorizzativo ad esso applicabile da ravvisarsi, nella fattispecie, nel permesso di costruire o nella c.d. denuncia d’inizio di attività “sostitutiva”, così come previsto dagli artt. 10, comma 1°, lettera c), e 22, comma 3°, d.p.r. n. 380/2001.

Quanto, poi, al soppalco è da rilevare che lo stesso, per le sue significative dimensioni (pari a 47 mq.), deve essere qualificato come opera di ristrutturazione edilizia in quanto, così come previsto dall’art. 3, lettera d), d.p.r. n. 380/2001, è intervento che comporta un significativo aumento di superficie dell’organismo edilizio preesistente (in questo senso TAR Campania–Napoli n. 2776/2012 in relazione ad un soppalco di 19 mq. posto a mt. 1,60 di distanza dal soffitto).
La rilevanza giuridica di tale aumento di superficie, ai fini della qualificazione edilizia dell’intervento, è, pertanto, riconducibile alla sua notevole entità e prescinde dall’abitabilità del soppalco e, quindi, dall’altezza dello stesso in quanto comporta, in ogni caso, un significativo incremento, rispetto allo status quo ante, dei vani utilizzabili dal privato anche a fini di mero deposito.
Ne consegue che ogni questione circa l’altezza del soppalco (che, all’esito della verificazione disposta dal Collegio, risulta avere un’altezza utile tra piano di calpestio e controsoffitto pari a mt. 1,48 laddove la distanza tra l’intradosso del controsoffitto e quello del soffitto è pari, nel suo punto più alto, a mt. 0,38), posta a fondamento del gravame, è irrilevante ai fini della qualificazione giuridica dell’intervento e dell’individuazione del regime autorizzativo ad esso applicabile da ravvisarsi, nella fattispecie, nel permesso di costruire o nella c.d. denuncia d’inizio di attività “sostitutiva”, così come previsto dagli artt. 10, comma 1°, lettera c), e 22, comma 3°, d.p.r. n. 380/2001 (TAR Lazio, Roma, Sez. I-quater, sentenza 13.11.2012 n. 9301 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una veranda, comportando l’aumento della superficie utile, determina una modifica del precedente organismo edilizio e deve essere qualificata come intervento di ristrutturazione edilizia secondo quanto previsto dall’art. 3, lettera d), d.p.r. n. 380/2001.
Ne consegue che, ai sensi dell’art. 10, comma 1°, lettera c), d.p.r. n. 380/2001, l’intervento in esame avrebbe dovuto essere assentito con permesso di costruire la cui mancanza legittima l’applicazione della sanzione demolitoria prevista dall’art. 33 del medesimo testo normativo e applicata con provvedimento impugnato.

La realizzazione di una veranda, comportando l’aumento della superficie utile, determina una modifica del precedente organismo edilizio e deve essere qualificata come intervento di ristrutturazione edilizia secondo quanto previsto dall’art. 3, lettera d), d.p.r. n. 380/2001 (TAR Marche n. 39/2012; TAR Campania–Napoli n. 5912/2011).
Ne consegue che, ai sensi dell’art. 10, comma 1°, lettera c), d.p.r. n. 380/2001, l’intervento in esame avrebbe dovuto essere assentito con permesso di costruire la cui mancanza legittima l’applicazione della sanzione demolitoria prevista dall’art. 33 del medesimo testo normativo e applicata con provvedimento impugnato.
Dall’esame degli atti di causa emerge che la veranda in esame, quale che sia l’intervento concretamente posto in essere in tempi recenti (mera sostituzione di struttura preesistente, come prospettano le ricorrenti, o realizzazione ex novo della stessa), è sprovvista di idoneo titolo edilizio abilitativo.
Per altro, la risalenza dell’opera ad epoca antecedente al 1967, per come concretamente dedotta nel gravame, è circostanza che, al più, legittima il trasferimento per atto inter vivos dei manufatti, così come previsto dall’art. 46 d.p.r. n. 380/2001, ma non determina la regolarità edilizia degli stessi dal momento che già l’art. 31 l. n. 1150/1942 richiedeva la “licenza” del sindaco per la realizzazione di opere quali quella oggetto di causa “nei centri abitati” (TAR Sicilia–Palermo n. 1735/2011).
Pertanto, la prospettata risalenza del manufatto ad epoca anteriore al 1967 non influisce sull’abusività dello stesso e, pertanto, sulla legittimità della sanzione demolitoria irrogata con il provvedimento impugnato (TAR Lazio, Roma, Sez. I-quater, sentenza 13.11.2012 n. 9300 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento di demolizione, avendo natura vincolata e carattere necessitato, deve ritenersi congruamente motivato attraverso la descrizione delle opere e l’indicazione dell’abusività delle stesse –elementi presenti nell’atto impugnato– senza che sia necessaria l’indicazione di alcun interesse pubblico alla demolizione da ritenersi in re ipsa.
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L’esistenza di un sequestro disposto dall’autorità penale non influisce sulla legittimità dell’ordinanza di demolizione potendo l’interessato chiedere il dissequestro al fine di ottemperare alla prescrizione ripristinatoria.

Ed, infatti, il provvedimento di demolizione, avendo natura vincolata e carattere necessitato, deve ritenersi congruamente motivato attraverso la descrizione delle opere e l’indicazione dell’abusività delle stesse –elementi presenti nell’atto impugnato– senza che sia necessaria l’indicazione di alcun interesse pubblico alla demolizione da ritenersi in re ipsa (Cons. Stato sez. IV n. 5183/2012; Cons. Stato sez. IV n. 2185/2012).
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Inaccoglibile, infine, è la quarta censura con cui è stata dedotta l’impossibilità di eseguire la gravata demolizione stante la pendenza di un sequestro penale sui manufatti.
Secondo il costante orientamento giurisprudenziale, infatti, l’esistenza di un sequestro disposto dall’autorità penale non influisce sulla legittimità dell’ordinanza di demolizione potendo l’interessato chiedere il dissequestro al fine di ottemperare alla prescrizione ripristinatoria (Cons. Stato sez. IV n. 1260/2012; Cons. Stato sez. IV n. 297/2012)
(TAR Lazio, Roma, Sez. I-quater, sentenza 13.11.2012 n. 9286 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn merito alla portata applicativa dell'art. 8, comma 6, l. 36/2001 il Consiglio di Stato ha chiarito "la differenza fra 'criteri localizzativi" e "limiti alla localizzazione" ritenendosi consentiti i primi, in quanto recanti criteri specifici rispetto a localizzazioni puntuali, e non i secondi, in quanto recanti divieti generalizzati per intere aree".
E’ stata quindi dichiarata l'illegittimità di un regolamento comunale adottato ai sensi dell'art. 8, comma 6, l. 22.02.2001 n. 36, laddove l'ente territoriale si sia posto quale obiettivo, sebbene non dichiarato, ma evincibile dal contenuto dell'atto regolamentare, quello di preservare la salute umana dalle emissioni elettromagnetiche promananti da impianti di radiocomunicazione (ad esempio attraverso la fissazione di distanze minime delle stazioni radio base da particolari tipologie d'insediamenti abitativi), essendo tale materia attribuita alla legislazione concorrente Stato-regioni dell'art. 117 cost., come riformato dalla l. cost. 18.10.2001 n. 3.
E’ stato ancora affermato che in base alla richiamata disciplina nazionale i comuni possono adottare un regolamento atto ad assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l'esposizione della popolazione comunale ai campi elettromagnetici, ma non possono adottare misure derogatorie ai limiti di esposizione fissati dallo Stato, quali, ad esempio, il generalizzato divieto di installazione delle stazioni radiobase per telefonia cellulare in tutte le zone territoriali omogenee a destinazione residenziale; ovvero, introdurre misure che pur essendo tipicamente urbanistiche (distanze, altezze, ecc.) non siano funzionali al governo del territorio, quanto piuttosto alla tutela della salute dai rischi dell'elettromagnetismo.
Ciò perché "spetta allo Stato la funzione di fissazione dei criteri e dei limiti rilevanti ai fini della protezione della popolazione dalle potenzialità nocive insite nell'esposizione ai campi magnetici”.
Il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti di telefonia mobile e la minimizzazione dell'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici deve tradursi in regole ragionevoli, motivate e certe, poste a presidio di interessi di rilievo pubblico, ma non può tradursi in un generalizzato divieto di installazione in zone urbanistiche identificate. Tale previsione verrebbe infatti a costituire un'inammissibile misura di carattere generale, sostanzialmente cautelativa rispetto alle emissioni derivanti dagli impianti di telefonia mobile, in contrasto con l'art. 4, l. n. 36 del 2001, che riserva alla competenza dello Stato la determinazione, con criteri unitari, dei limiti di esposizione, dei lavori di attenzione e degli obiettivi di qualità, in base a parametri da applicarsi su tutto il territorio dello Stato.
L'introduzione, da parte del Comune, tramite regolamento edilizio, di misure tipicamente di governo del territorio (distanze, altezze, localizzazioni, e così via) si giustifica solo se conforme al principio di ragionevolezza ed alla natura delle competenze urbanistico-edilizie esercitate, e qualora sia sorretta da una sufficiente motivazione sulla base di risultanze acquisite attraverso un'istruttoria idonea a dimostrare la ragionevolezza della misura e l'idoneità della stessa rispetto al fine perseguito. Le misure di minimizzazione da ritenersi distinte da quelle urbanistico-edilizie, non possono prevedere limiti generalizzati di esposizione diversi da quelli previsti dallo Stato, né possono di fatto costituire una deroga generalizzata a tali limiti.

Il comma 6 dell’articolo 8 della legge 36/2001, Legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, dispone che “ I comuni possono adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici”.
In merito alla portata applicativa di questa norma il Consiglio di Stato ha chiarito "la differenza fra 'criteri localizzativi" e "limiti alla localizzazione" ritenendosi consentiti i primi, in quanto recanti criteri specifici rispetto a localizzazioni puntuali, e non i secondi, in quanto recanti divieti generalizzati per intere aree" (ex multis: Cons. Stato, Sez. VI, 19.06.2009 n. 4056; Cons. Stato, Sez. VI, 17.12.2009 n. 8214 e n. 8215; Cons. Stato, Sez. VI, 05.06.2006, n. 3452; 19.05.2008, n. 2287; 17.07.2008, n. 3596).
E’ stata quindi dichiarata l'illegittimità di un regolamento comunale adottato ai sensi dell'art. 8, comma 6, l. 22.02.2001 n. 36, laddove l'ente territoriale si sia posto quale obiettivo, sebbene non dichiarato, ma evincibile dal contenuto dell'atto regolamentare, quello di preservare la salute umana dalle emissioni elettromagnetiche promananti da impianti di radiocomunicazione (ad esempio attraverso la fissazione di distanze minime delle stazioni radio base da particolari tipologie d'insediamenti abitativi), essendo tale materia attribuita alla legislazione concorrente Stato-regioni dell'art. 117 cost., come riformato dalla l. cost. 18.10.2001 n. 3 (Consiglio Stato , Sez. VI, sent. n. 6473 del 06-09-2010, sez. VI, 20.12.2002, n. 7274).
E’ stato ancora affermato che in base alla richiamata disciplina nazionale i comuni possono adottare un regolamento atto ad assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l'esposizione della popolazione comunale ai campi elettromagnetici, ma non possono adottare misure derogatorie ai limiti di esposizione fissati dallo Stato, quali, ad esempio, il generalizzato divieto di installazione delle stazioni radiobase per telefonia cellulare in tutte le zone territoriali omogenee a destinazione residenziale; ovvero, introdurre misure che pur essendo tipicamente urbanistiche (distanze, altezze, ecc.) non siano funzionali al governo del territorio, quanto piuttosto alla tutela della salute dai rischi dell'elettromagnetismo (Consiglio di Stato sez. VI, 27.04.2010 n. 2371).
Ciò perché "spetta allo Stato la funzione di fissazione dei criteri e dei limiti rilevanti ai fini della protezione della popolazione dalle potenzialità nocive insite nell'esposizione ai campi magnetici” (cfr. Consiglio Stato , sez. VI, 03.10.2007, n. 5098, ma si veda anche Consiglio Stato, sez. VI, 05.06.2006, n. 3332).
Il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti di telefonia mobile e la minimizzazione dell'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici deve tradursi in regole ragionevoli, motivate e certe, poste a presidio di interessi di rilievo pubblico, ma non può tradursi in un generalizzato divieto di installazione in zone urbanistiche identificate. Tale previsione verrebbe infatti a costituire un'inammissibile misura di carattere generale, sostanzialmente cautelativa rispetto alle emissioni derivanti dagli impianti di telefonia mobile, in contrasto con l'art. 4, l. n. 36 del 2001, che riserva alla competenza dello Stato la determinazione, con criteri unitari, dei limiti di esposizione, dei lavori di attenzione e degli obiettivi di qualità, in base a parametri da applicarsi su tutto il territorio dello Stato (Consiglio di Stato Sez. VI, sent. n. 3646 del 15-06-2011).
L'introduzione, da parte del Comune, tramite regolamento edilizio, di misure tipicamente di governo del territorio (distanze, altezze, localizzazioni, e così via) si giustifica solo se conforme al principio di ragionevolezza ed alla natura delle competenze urbanistico-edilizie esercitate, e qualora sia sorretta da una sufficiente motivazione sulla base di risultanze acquisite attraverso un'istruttoria idonea a dimostrare la ragionevolezza della misura e l'idoneità della stessa rispetto al fine perseguito. Le misure di minimizzazione da ritenersi distinte da quelle urbanistico-edilizie, non possono prevedere limiti generalizzati di esposizione diversi da quelli previsti dallo Stato, né possono di fatto costituire una deroga generalizzata a tali limiti (Consiglio di Stato, Sez. VI, Sent. n. 3157 del 13-06-2007).
Alla luce di tale consolidato orientamento, dal quale il Collegio non intende discostarsi, deve ritenersi che i provvedimenti impugnati risultano affetti dai vizi censurati. In particolare deve ritenersi che l’articolo 7 del regolamento comunale, che ha fondato il successivo parere negativo dell’amministrazione, nella parte in cui impone il rispetto dei 500 metri per la localizzazione degli impianti “da edifici ed aree in cui risiedono, operino professionalmente o permangono persone per almeno 4 ore al giorno”, pone un precetto che può porsi in contrasto con la disciplina nazionale di riferimento se diretto a salvaguardare solo la salute pubblica e non anche il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti per come prescritto dalla legge.
Il parere negativo reso dall’Ufficio tecnico Comunale, adottato in attuazione della citata norma regolamentare, con il quale è stata vietata la richiesta installazione per la presenza di un ufficio scolastico e di un edificio per attività sportiva all’interno di un raggio di 500 metri dal punto previsto per l’istallazione della stazione radio base, si pone in contrasto con la normativa nazionale in quanto diretto solo a tutelare la salute pubblica, in merito alla quale si è comunque espressa l’Arpa Cal. che con atto del 05.08.2011 ha attestato la conformità e la compatibilità del progetto di installazione dell’impianto di telefonia cellulare, con i limiti di esposizione, i valori di attenzione e gli obiettivi di cui alla legge 36/2001 e al D.P.C.M. 08.07.2003.
Né risulta che il parere negativo del Comune sia supportato da ulteriori motivazioni derivanti da risultanze istruttorie che dimostrino la ragionevolezza della misura e l'idoneità della stessa rispetto al fine perseguito per come richiesto dalla giurisprudenza, risultanze che pur potrebbero costituire una deroga alla normativa richiamata (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 10.11.2012 n. 1092 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ordine di demolizione di opere edilizie abusive non deve essere preceduto dall'avviso ex art. 7, l. n. 241 del 1990, trattandosi di un atto dovuto, che viene emesso quale sanzione per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge.
Pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia, l'abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando lo stesso nella propria sfera di controllo.

Per quanto concerne la violazione delle norme in tema di comunicazione di avvio del procedimento e di partecipazione procedimentale va ricordato il consolidato orientamento giurisprudenziale che si è affermato negli ultimi anni secondo cui l'ordine di demolizione di opere edilizie abusive non deve essere preceduto dall'avviso ex art. 7, l. n. 241 del 1990, trattandosi di un atto dovuto, che viene emesso quale sanzione per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia, l'abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando lo stesso nella propria sfera di controllo (tra le tante TAR Napoli Campania sez. III n. 16548 del 02.07.2010) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 10.11.2012 n. 1089 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl c.d. preavviso di diniego non va inteso in senso meccanico e formalistico, avendo tale regola partecipativa lo scopo di consentire al privato di venire a conoscenza delle ragioni che impediscono l'accoglimento della sua istanza prima che il provvedimento negativo sia divenuto definitivo e quindi di rappresentare all'Amministrazione tutte le circostanze di fatto e di diritto che egli dovesse valutare utili per l'adozione dell'atto finale con la conseguenza che si può prescindere dalla comunicazione ivi prevista quando la parte interessata ha comunque acquisito preventiva conoscenza dei motivi ostativi all'esito positivo del procedimento.
Quanto alla censura che investe la procedura condotta dall’amministrazione, con cui parte ricorrente lamenta violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, osserva il Collegio che il c.d. preavviso di diniego non va inteso in senso meccanico e formalistico, avendo tale regola partecipativa lo scopo di consentire al privato di venire a conoscenza delle ragioni che impediscono l'accoglimento della sua istanza prima che il provvedimento negativo sia divenuto definitivo e quindi di rappresentare all'Amministrazione tutte le circostanze di fatto e di diritto che egli dovesse valutare utili per l'adozione dell'atto finale con la conseguenza che si può prescindere dalla comunicazione ivi prevista quando la parte interessata ha comunque acquisito preventiva conoscenza dei motivi ostativi all'esito positivo del procedimento (cfr. TAR Parma, 14.01.2009 n. 3).
Nella specie, nel corpo dello stesso atto di diniego si dà espressamente conto della già intervenuta interlocuzione sia con il ricorrente che con il tecnico incaricato avente ad oggetto proprio i motivi che reggono poi il diniego di permesso di costruire impugnato. Circostanza questa che parte ricorrente non contesta e che, dunque, ad avviso del Collegio sostanzia una adeguata forma e modalità di preventiva conoscenza –da parte ricorrente- delle ragioni poi poste a sostegno del provvedimento che definisce la procedura. In altri termini, l’amministrazione ha consentito al soggetto istante di esporre il proprio avviso e le proprie ragioni prima di pervenire alla sua definitiva statuizione (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 10.11.2012 n. 1087 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di un porticato chiuso (come nel caso di specie) lateralmente su due lati (cfr. allegazioni fotografiche prodotte dal ricorrente in atti del giudizio) va a costituire una nuova superficie utile, essendo il porticato destinato ad ospitare arredi fissi e, quindi, a consentire di svolgervi in ipotesi varie attività della vita quotidiana. Se ciò e vero e non si è dunque in presenza di mera pertinenza, allora la costruzione del porticato (terrazzato) deve necessariamente rispettare le distanze previste dalle disposizioni attuative del piano regolatore generale.
E regola generale è che la distanza tra costruzioni su fondi finitimi va calcolata tenendo conto di qualsiasi elemento che sporga da una di esse, addirittura non assumendo rilevanza, ai fini dell'interesse tutelato dalla norma (nel suo triplice aspetto della tutela della sicurezza, della salubrità e dell'igiene), che lo sporto sia inadatto all'incremento volumetrico o superficiario della costruzione o che aggetti solo per una parte della facciata.

Quanto al “merito” della questione, occorre cominciare con il rilevare che il porticato per cui è causa deve essere considerato organismo edilizio avente natura e consistenza tali da ampliare in superficie o volume l'edificio stesso (si pensi alla sovrastante terrazza). Esso necessita dunque di permesso di costruire ed in tal senso si è mosso invero lo stesso ricorrente. Infatti, la realizzazione di un porticato chiuso (come nel caso di specie) lateralmente su due lati (cfr. allegazioni fotografiche prodotte dal ricorrente in atti del giudizio) va a costituire una nuova superficie utile, essendo il porticato destinato ad ospitare arredi fissi e, quindi, a consentire di svolgervi in ipotesi varie attività della vita quotidiana (cfr. TAR Napoli, VII Sezione, 14.01.2011 n. 176). Se ciò e vero e non si è dunque in presenza di mera pertinenza, allora la costruzione del porticato (terrazzato) deve necessariamente rispettare le distanze previste dalle disposizioni attuative del piano regolatore generale (cfr. TAR Piemonte, 15.12.2004 n. 3585).
E regola generale è che la distanza tra costruzioni su fondi finitimi va calcolata tenendo conto di qualsiasi elemento che sporga da una di esse, addirittura non assumendo rilevanza, ai fini dell'interesse tutelato dalla norma (nel suo triplice aspetto della tutela della sicurezza, della salubrità e dell'igiene), che lo sporto sia inadatto all'incremento volumetrico o superficiario della costruzione o che aggetti solo per una parte della facciata.
I 10 metri di distanza tra fabbricati, prescritti dal regolamento edilizio del Comune di Mileto, non vi sono tra il fabbricato di altra ditta, che fronteggia quello di proprietà del ricorrente, ed il porticato realizzando ma, sia pure di misura, vi sono tra il detto fabbricato e la parte interna del porticato (e cioè l’attuale muro esterno dell’edificio di proprietà del ricorrente che sarebbe stato interessato dalla richiesta realizzazione).
E tuttavia la distanza deve avere riguardo non già a detta parte interna (del porticato ovvero esterna del fabbricato per come è allo stato) ma alla linea del porticato, peraltro terrazzato e che costituisce dunque pacificamente affaccio e veduta verso altro fabbricato. Non sussiste, del pari e per le medesime ragioni, la prescritta distanza minima dal ciglio stradale, risultando peraltro ininfluente ai fini di che trattasi la circostanza per cui si tratterebbe, allo stato, di strada privata (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 10.11.2012 n. 1087 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAGià da tempo è stata affermata la necessità che, per la realizzazione della canna fumaria di non piccole dimensioni e di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla sua sagoma, venga rilasciato permesso di costruire, in quanto detta opera non può considerarsi un elemento meramente accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell'immobile.
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La necessità del previo rilascio di un titolo abilitativo edilizio può configurarsi anche in presenza di opere che attuino una trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio, anche se esse non consistano in opere murarie, essendo realizzate in metallo, in laminati di plastica, in legno od altro materiale, in presenza di trasformazioni preordinate a soddisfare esigenze non precarie del costruttore.

Viene in questa sede impugnata l’ordinanza con cui si intima ai ricorrenti di demolire una canna fumaria realizzata senza il necessario titolo abilitativo.
Sul punto la giurisprudenza già da tempo ha affermato la necessità che, per la realizzazione della canna fumaria di non piccole dimensioni e di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla sua sagoma, venga rilasciato permesso di costruire, in quanto detta opera non può considerarsi un elemento meramente accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell'immobile (cfr. Tar Campania-Napoli, sez. VIII - sentenza 01.10.2012 n. 4005 - TAR Campania Napoli, sez. VI, 03.06.2009, n. 3039; Tar Veneto Tar Lazio n. 4246 18.05.2001).
Ad avviso del Collegio l’opera realizzata, per il suo impatto visivo, per come evincibile dall’allegato materiale fotografico non può ritenersi di ridotto impatto, tale da non necessitare del prescritto titolo edilizio.
I ricorrenti, poi, fanno rientrare la realizzazione dell’opera nell’ambito degli interventi di manutenzione ordinaria consentiti ex articolo 6 del D.P.R. 380/2001, interventi che possono essere realizzati senza alcun titolo abilitativo.
Anche questo assunto non convince. Come affermato dalla giurisprudenza, la necessità del previo rilascio di un titolo abilitativo edilizio può configurarsi anche in presenza di opere che attuino una trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio, anche se esse non consistano in opere murarie, essendo realizzate in metallo, in laminati di plastica, in legno od altro materiale, in presenza di trasformazioni preordinate a soddisfare esigenze non precarie del costruttore (cfr. Tar Campania-Napoli, sez. VIII - sentenza 01.10.2012 n. 4005) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 10.11.2012 n. 1086 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAnche dopo la scadenza del termine fissato dall’art. 23, comma 6, del testo unico sull’edilizia (che disciplina la d.i.a.) l’amministrazione è titolare del potere di verificare se le opere possano essere realizzate sulla base della denuncia di inizio dell’attività e può esercitare i poteri di vigilanza e sanzionatori previsti dall’ordinamento.
I ricorrenti fanno presente, a fronte dell’affermazione del Comune per cui per la realizzazione dell’opere contestate non risulterebbe presentata Denuncia di Inizio Attività, che detta circostanza sarebbe destituita di fondamento in quanto in data 09.11.2009 avrebbero depositato presso l’Ufficio Protocollo del Comune di Badolato, la Comunicazione di avvio dei lavori con relativi grafici che individuavano i lavori da realizzare.
Anche questa doglianza non può essere accolta.
In base all’articolo 23 del d.P.R. 380/2001 che disciplina la denuncia di inizio attività è prescritto che “il proprietario dell'immobile o chi abbia titolo per presentare la denuncia di inizio attività, almeno trenta giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori, presenta allo sportello unico la denuncia, accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie”.
Come affermato dal Comune e come emerge dagli atti di causa, la comunicazione inoltrata non presenta la documentazione richiesta e pertanto non può essere ricondotta alla prevista disciplina.
Infine, per quanto concerne il contrasto dell’opera realizzata con il disposto dell’articolo 44 del regolamento edilizio, il Collegio osserva che anche dopo la scadenza del termine fissato dall’art. 23, comma 6, del testo unico sull’edilizia l’amministrazione è titolare del potere di verificare se le opere possano essere realizzate sulla base della denuncia di inizio dell’attività e può esercitare i poteri di vigilanza e sanzionatori previsti dall’ordinamento (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 6378/2008 - Sez. IV, 12.09.2007, n. 4828; Sez. IV, 30.06.2005, n. 3498) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 10.11.2012 n. 1086 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presenza di materiali contenenti amianto in un edificio non comporta di per sé un pericolo per la salute degli occupanti. Se il materiale è in buone condizioni e non viene manomesso, è estremamente improbabile che esista un pericolo apprezzabile di rilascio di fibre di amianto. Se invece il materiale viene danneggiato per interventi di manutenzione o per vandalismo, si verifica un rilascio di fibre che costituisce un rischio potenziale. Analogamente se il materiale è in cattive condizioni, o se è altamente friabile, le vibrazioni dell'edificio, i movimenti di persone o macchine, le correnti d'aria possono causare il distacco di fibre legate debolmente al resto del materiale.
Infine, per quanto concerne la rimozione delle canne fumarie in eternit il Comune non indica i motivi per cui deve essere operata detta rimozione, atteso che le canne fumarie, per come affermato dai ricorrenti, non si troverebbero in stato di degrado.
Ciò che infatti non emerge dall’ordinanza è la motivazione su cui poggia la decisione dell’amministrazione di ordinare la demolizione delle contestate canne fumarie, non risultando alcuna verifica o valutazione effettuata al fine di evidenziare la pericolosità delle stesse per la salute pubblica. Secondo il D.M. del 06.09.1994 in tema di valutazione del rischio “La presenza di materiali contenenti amianto in un edificio non comporta di per sé un pericolo per la salute degli occupanti. Se il materiale è in buone condizioni e non viene manomesso, è estremamente improbabile che esista un pericolo apprezzabile di rilascio di fibre di amianto. Se invece il materiale viene danneggiato per interventi di manutenzione o per vandalismo, si verifica un rilascio di fibre che costituisce un rischio potenziale. Analogamente se il materiale è in cattive condizioni, o se è altamente friabile, le vibrazioni dell'edificio, i movimenti di persone o macchine, le correnti d'aria possono causare il distacco di fibre legate debolmente al resto del materiale”.
Dall’ordinanza impugnata non emerge l’espletamento di alcuna attività di valutazione dell’effettivo rischio che le canne fumarie rappresentano per i cittadini.
In conclusione, l’atto impugnato risulta affetto anche da difetto di motivazione per non avere il Comune intimato evidenziato i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno condotto l’amministrazione ad ordinare il ripristino dello stato dei luoghi (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 10.11.2012 n. 1085 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa potestà dell'Amministrazione di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli artt. 21-quinquies e 21-nonies L. 07.08.1990 n. 241, deve ritenersi espressione di un principio generale dell'ordinamento che non ne assoggetta l'esercizio a precisi vincoli temporali, purché la potestà stessa si manifesti conforme a criteri di ragionevolezza e di certezza dei rapporti giuridici. E comunque, come afferma condivisibile giurisprudenza, l'annullamento d'ufficio di una concessione edilizia non necessita di una espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, configurandosi questo nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica.
Per l'autoannullamento della concessione edilizia o del permesso di costruire, è di norma irrilevante —salvi casi di spazi temporali esagerati— il tempo trascorso dall'attività edilizia posta in essere, in quanto la repressione degli abusi edilizi è un preciso obbligo dell'Amministrazione pubblica la quale, a fronte dell'accertamento della violazione delle norme edilizie, non gode di alcuna discrezionalità al riguardo.
A fronte di un accertamento penale che accerti che una concessione edilizia sia il risultato di comportamenti illeciti, ancorché prescritti, l'interesse pubblico alla rimozione dell'atto legittimamente coincide con l'esigenza di ripristino della legalità violata.

Occorre innanzitutto inquadrare correttamente la reale portata del provvedimento impugnato.
Si è in presenza dell’esercizio del potere di autotutela, segnatamente di annullamento di ufficio, da parte della resistente amministrazione, di propria precedente determinazione favorevole alla ricorrente. In tal senso depone non già il richiamo alla circostanza per cui la ricorrente avrebbe realizzato un fabbricato con caratteristiche di villa signorile in luogo del consentito fabbricato rurale, venendo in rilievo in tal caso un’ipotesi di non conformità di quanto realizzato con quanto autorizzato (ed altra avrebbe dovuto essere, in tal caso, la misura repressiva dell’abuso da adottarsi da parte dell’amministrazione), quanto il richiamo al rilevato contrasto dei permessi di costruire rilasciati (e quindi oggetto del contestato annullamento) con la legge urbanistica Regione Calabra n. 19 del 16.04.2002 nonché con il P.R.G. ed il regolamento edilizio dello stesso Comune di Joppolo.
In altri termini, l’amministrazione rileva un vizio negli atti oggetto di annullamento che segna gli stessi ab origine, donde la necessità di intervenire con lo strumento dell’annullamento di ufficio. E coerentemente con questa impostazione l’amministrazione da puntualmente conto, nell’atto avversato, della ritenuta prevalenza dell’interesse pubblico al ripristino della legalità rispetto a quello della ricorrente non avendo il decorso del tempo potuto ingenerare alcun legittimo e incolpevole affidamento. Deve peraltro il Collegio rilevare come lo stesso proposto ricorso, che pur si diffonde sulla qualificabilità dell’immobile comunque come rurale (che, ripetesi, non è il punto centrale della controversia), nulla deduce sul vero presupposto dell’annullamento disposto e cioè la contrarietà del permessi di costruire (rilasciati ed annullati) alla superiori disposizioni di legge regionale ed a quelle di natura programmatoria del Comune di Joppolo.
Di qui la legittimità del disposto annullamento.
Del resto, la potestà dell'Amministrazione di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli artt. 21-quinquies e 21-nonies L. 07.08.1990 n. 241, deve ritenersi espressione di un principio generale dell'ordinamento che non ne assoggetta l'esercizio a precisi vincoli temporali, purché la potestà stessa si manifesti conforme a criteri di ragionevolezza e di certezza dei rapporti giuridici (cfr. TAR Umbria, 22.12.2011 n. 400). E comunque, come afferma condivisibile giurisprudenza, l'annullamento d'ufficio di una concessione edilizia non necessita di una espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, configurandosi questo nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica (cfr., in tal senso, Cons. Stato, V Sezione, 05.09.2011 n. 4982).
Osserva inoltre il Collegio che per l'autoannullamento della concessione edilizia o del permesso di costruire, è di norma irrilevante —salvi casi di spazi temporali esagerati— il tempo trascorso dall'attività edilizia posta in essere, in quanto la repressione degli abusi edilizi è un preciso obbligo dell'Amministrazione pubblica la quale, a fronte dell'accertamento della violazione delle norme edilizie, non gode di alcuna discrezionalità al riguardo (cfr. TAR Trento, 11.05.2011, n. 135).
Giova ancora ricordare che, nella specie, con ordinanza del 02.04.2010 il Tribunale di Vibo Valentia ha rigettato la richiesta di riesame presentata, tra gli altri, dalla odierna ricorrente, avverso ordinanza del GIP che convalidava la misura cautelare del sequestro preventivo disposto dal P.M. dell’area di cui alla presente controversia da cui emerge la ritenuta illegittimità dei permessi a costruire rilasciati. Sul punto la giurisprudenza amministrativa ha specificamente rilevato che “a fronte di un accertamento penale che accerti che una concessione edilizia sia il risultato di comportamenti illeciti, ancorché prescritti, l'interesse pubblico alla rimozione dell'atto legittimamente coincide con l'esigenza di ripristino della legalità violata” (cfr. TAR Milano, II Sezione, 17.01.2011 n. 89).
Quanta alla asserita violazione delle disposizioni di legge in tema di partecipazione procedimentale, è agevole osservare in fatto che la resistente amministrazione ha correttamente proceduto a comunicare alla odierna ricorrente, per come in atti del presente giudizio, l’avvio del procedimento amministrativo conducente in ipotesi all’annullamento in autotutela delle autorizzazioni in precedenza rilasciate (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 10.11.2012 n. 1083 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPremesso che la concessione per l'esercizio dell'attività radiotelevisiva non ricomprende il titolo abilitativo edilizio, che presuppone valutazioni urbanistiche alla stessa sicuramente estranee, non sussistono dubbi che la realizzazione di un traliccio di notevoli dimensioni e l'installazione di antenna televisiva con attiguo casotto, necessitano di titolo abilitativo.
L’opera, infatti, oggettivamente comporta alterazione ambientale ed estetica del territorio circostante. E certamente il titolo autorizzatorio richiamato dalla ricorrente non ha alcuna idoneità a rendere legittima la successiva realizzazione di una vera e propria cabina con impianti tecnologici (che di per sé sola trascende il casotto per contatore Enel) ma anche, e soprattutto, del descritto traliccio.

L’autorizzazione n. 16 del 07.04.1990, che la ricorrente assume costituire quel titolo abilitativo la cui esistenza priverebbe del suo presupposto fondante l’ordinanza di demolizione, concerne espressamente ed inequivocamente “lavori di realizzazione casotto per contatore Enel” che, con ogni evidenza, nulla hanno a che vedere con i lavori accertati quali abusivi dai Vigili Urbani del Comune di Gasperina e consistenti in “cabina contenente impianti tecnologici in muratura….” per un volume di circa mc. 26 e soprattutto in un “traliccio in profilati metallici avente un’altezza di circa mt. 9,00 installato su una piastra in c.a. avente dimensioni fuori terra di mt. 1,60 x 3,90 per un’altezza di mt. 0,60”.
Orbene, premesso che la concessione per l'esercizio dell'attività radiotelevisiva, di cui la ricorrente assume legittima titolarità, non ricomprende il titolo abilitativo edilizio, che presuppone valutazioni urbanistiche alla stessa sicuramente estranee, non sussistono dubbi che la realizzazione di un traliccio, come nella specie, di notevoli dimensioni e l'installazione di antenna televisiva con attiguo casotto, necessitano di titolo abilitativo (cfr. da ultimo, TAR Palermo, I Sezione, 02.11.2011 n. 1954). L’opera, infatti, oggettivamente comporta alterazione ambientale ed estetica del territorio circostante (cfr. TAR Trento, 03.05.2002 n. 137). E certamente il titolo autorizzatorio richiamato dalla ricorrente, del quale del resto ha dato conto la stessa amministrazione in sede di ordinanza di demolizione, non ha alcuna idoneità a rendere legittima la successiva realizzazione di una vera e propria cabina con impianti tecnologici (che di per sé sola trascende il casotto per contatore Enel) ma anche, e soprattutto, del descritto traliccio.
In definitiva, le opere descritte nell’ordinanza risultano abusive perché appunto prive di specifico titolo autorizzatorio, il cui rilascio è di sicura spettanza dell’ente locale.
Irrilevanti si appalesano, infine, le questioni che investono il regolamento comunale per l’installazione di impianti radioelettrici e di telefonia mobile, atteso che è sufficiente a reggere l’ordinanza di demolizione ed a renderla per questa via legittima la rilevata mancanza in capo alla ricorrente di titolo edilizio per le opere sopra citate e dunque correttamente ritenute abusive (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 10.11.2012 n. 1082 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' carente di motivazione il diniego di concessione in sanatoria fondato su un generico contrasto dell'opera con leggi o regolamenti in materia edilizia, dovendo invece il diniego stesso soffermarsi sulle disposizioni che si assumano ostative al rilascio del titolo e sulle previsioni di riferimento contenute negli strumenti urbanistici, in modo da consentire all'interessato da un lato di rendersi conto degli impedimenti che si frappongono alla regolarizzazione ed al mantenimento dell'opera abusiva, dall'altro di confutare in giudizio, in maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la legittimità del provvedimento impugnato.
In questa direzione il provvedimento di diniego di condono, quando si limita ad una apodittica affermazione di principio di contrarietà alla normativa paesaggistica, risulta dunque viziato da difetto di motivazione, atteso che l’obbligo di motivazione, imposto dall’art. 3 della legge n. 241 del 1990, presuppone adeguate argomentazioni volte a chiarire la non compatibilità dell’opera con le esigenze di tutela nel contesto ambientale.

Al riguardo il Collegio ritiene infatti di aderire a quell’orientamento secondo il quale è carente di motivazione il diniego di concessione in sanatoria fondato su un generico contrasto dell'opera con leggi o regolamenti in materia edilizia, dovendo invece il diniego stesso soffermarsi sulle disposizioni che si assumano ostative al rilascio del titolo e sulle previsioni di riferimento contenute negli strumenti urbanistici, in modo da consentire all'interessato da un lato di rendersi conto degli impedimenti che si frappongono alla regolarizzazione ed al mantenimento dell'opera abusiva, dall'altro di confutare in giudizio, in maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la legittimità del provvedimento impugnato (cfr. TAR Toscana, sez. III, 09.04.2009, n. 605; TAR Campania Napoli, sez. VI, 05.04.2012, n. 1640).
In questa direzione il provvedimento di diniego di condono, quando si limita ad una apodittica affermazione di principio di contrarietà alla normativa paesaggistica, risulta dunque viziato da difetto di motivazione, atteso che l’obbligo di motivazione, imposto dall’art. 3 della legge n. 241 del 1990, presuppone adeguate argomentazioni volte a chiarire la non compatibilità dell’opera con le esigenze di tutela nel contesto ambientale (TAR Campania Salerno, sez. II, 22.09.2009, n. 4978) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 09.11.2012 n. 4531 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La richiesta di sanatoria ex art. 36 dpr 380/2001 è successiva all’attivazione del procedimento sanzionatorio, talché non poteva esigersi, in difetto di istanza di parte, che il comune dovesse verificare d’ufficio la conformità urbanistica delle opere in contestazione, atteso che un onere siffatto non è previsto nella disciplina vigente concernente i poteri di vigilanza e sanzionatori sull’attività edilizia abusiva.
Decorso il termine di sessanta giorni stabilito dall’art. 36 del T.U. sull’edilizia, l’istanza deve intendersi respinta; né il silenzio-rigetto formatosi sulla stessa risulta tempestivamente impugnato dalla parte interessata.
Neppure può ritenersi che la validità ovvero l’efficacia dell’ordinanza di demolizione siano definitivamente pregiudicate dalla presentazione dell’istanza di accertamento di conformità. Invero, come chiarito dalla Sezione in analoghe fattispecie, quest’ultima determina piuttosto un arresto dell’efficacia della misura ripristinatoria, nel senso che questa è soltanto sospesa, determinandosi uno stato di temporanea quiescenza dell’atto, all’evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell’istanza, la demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente.
Ne consegue che solo in caso di accoglimento della domanda di sanatoria, l’ordine di demolizione cessa di avere effetto, per il venir meno del suo presupposto, vale a dire del carattere abusivo dell’opera realizzata, in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda. Invece, nel caso di rigetto, anche implicito, il provvedimento sanzionatorio a suo tempo adottato riacquista la sua efficacia, che non era definitivamente cessata ma solo sospesa in attesa della conclusione del nuovo iter procedimentale.
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Nello schema giuridico delineato dall'art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo dell’abuso edilizio costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione, soprattutto quando, come nella specie, è decorso un breve periodo di tempo tra la realizzazione delle opere e l’emissione dei provvedimenti sanzionatori.
In definitiva, l’ingiunzione di demolizione può ritenersi sufficientemente motivata per effetto della stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria.
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L'individuazione dell'area di pertinenza della "res abusiva" non deve necessariamente compiersi al momento dell'emanazione dell'ingiunzione di demolizione, bensì nel provvedimento successivo con il quale viene accertata l'inottemperanza e si procede all'acquisizione gratuita del bene al patrimonio del comune, ai sensi dell'art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001.

Osserva il Collegio che, contrariamente a quanto lamentato, il manufatto realizzato, con le modalità costruttive compiutamente descritte nel richiamato verbale di sopralluogo, assume rilevanza volumetrica (sviluppando una cubatura di mc. 1918 su una superficie complessiva di mq. 347,92) ed integra un nuovo organismo edilizio autonomamente utilizzabile, per il quale occorre munirsi preventivamente del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 380/2001. Né poteva esigersi che l’amministrazione dovesse verificare la possibilità di irrogare una mera sanzione pecuniaria, in quanto siffatta alternativa non è prevista dall’art. 31, comma 2, dello stesso T.U. sull’edilizia.
Con riguardo al successivo motivo –che fa leva sulla presentazione (in data 12.01.2006) della domanda di rilascio del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell’art. 36 dello stesso T.U. n. 380/2001– è agevole rilevare che la richiesta è successiva all’attivazione del procedimento sanzionatorio, talché non poteva esigersi, in difetto di istanza di parte, che il comune dovesse verificare d’ufficio la conformità urbanistica delle opere in contestazione, atteso che un onere siffatto non è previsto nella disciplina vigente concernente i poteri di vigilanza e sanzionatori sull’attività edilizia abusiva (cfr. in termini tra le tante, da ultimo, TAR Campania, Napoli, Sezione II, 12.01.2009, n. 52).
Va peraltro aggiunto che, nel caso di specie, nella domanda ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 la pretesa conformità urbanistica delle opere è formulata in via del tutto generica, senza alcuna concreta dimostrazione del rispetto delle previsioni concernenti la destinazione di zona e dei relativi indici di fabbricabilità. Inoltre, decorso il termine di sessanta giorni stabilito dall’art. 36 del T.U. sull’edilizia, l’istanza deve intendersi respinta; né il silenzio-rigetto formatosi sulla stessa risulta tempestivamente impugnato dalla parte interessata (cfr. TAR Campania, II Sezione, 04.02.2005, n. 816 e 13.07.2004, n. 10128).
Neppure può ritenersi che la validità ovvero l’efficacia dell’ordinanza di demolizione siano definitivamente pregiudicate dalla presentazione dell’istanza di accertamento di conformità. Invero, come chiarito dalla Sezione in analoghe fattispecie, quest’ultima determina piuttosto un arresto dell’efficacia della misura ripristinatoria, nel senso che questa è soltanto sospesa, determinandosi uno stato di temporanea quiescenza dell’atto, all’evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell’istanza, la demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente (cfr., tra le tante, TAR Campania, II Sezione, 04.02.2005, n. 816 e 13.07.2004, n. 10128).
Ne consegue che solo in caso di accoglimento della domanda di sanatoria, l’ordine di demolizione cessa di avere effetto, per il venir meno del suo presupposto, vale a dire del carattere abusivo dell’opera realizzata, in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda. Invece, nel caso di rigetto, anche implicito, il provvedimento sanzionatorio a suo tempo adottato riacquista la sua efficacia, che non era definitivamente cessata ma solo sospesa in attesa della conclusione del nuovo iter procedimentale.
Circa il presunto difetto di motivazione, va osservato che nello schema giuridico delineato dall'art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo dell’abuso edilizio costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione, soprattutto quando, come nella specie, è decorso un breve periodo di tempo tra la realizzazione delle opere e l’emissione dei provvedimenti sanzionatori (cfr. TAR Campania, Sezione II, 23.04.2007 n. 4229; Sezione IV, 24.09.2002, n. 5556; Consiglio Stato, Sezione IV, 27.04.2004, n. 2529).
In definitiva, l’ingiunzione di demolizione può ritenersi sufficientemente motivata per effetto della stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria.
Anche l’ulteriore censura è destituita di fondamento, atteso che, come chiarito pacificamente in giurisprudenza, l'individuazione dell'area di pertinenza della "res abusiva" non deve necessariamente compiersi al momento dell'emanazione dell'ingiunzione di demolizione, bensì nel provvedimento successivo con il quale viene accertata l'inottemperanza e si procede all'acquisizione gratuita del bene al patrimonio del comune, ai sensi dell'art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 (cfr., per tutte, TAR Campania, Sezione III, 08.09.2006, n. 7986).
La questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 3, l. 28.01.1977 n. 10 e dell'art. 7, l. 28.02.1985 n. 47 –nella parte in cui prevedono l'acquisizione gratuita al patrimonio del comune della costruzione abusiva, non tempestivamente demolita, e dell'area sulla quale essa insiste, in riferimento all’art. 42 Cost.– oltre che inammissibile, in quanto l’oggetto dell’odierno giudizio è solo l’ingiunzione di demolizione impugnata, è anche manifestamente infondata (cfr. TAR Campania, Napoli, Sezione III, 09.07.2007 n. 6581; Corte Costituzionale, 15.02.1991 n. 82). Invero, l’acquisizione rappresenta la reazione dell'ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi, dapprima, esegue un'opera in totale difformità o in assenza di idoneo titolo e, poi, non adempie l'obbligo di demolire l'opera stessa entro il termine stabilito, per cui la gratuità del trasferimento al patrimonio indisponibile comunale delle costruzioni edilizie abusive rappresenta la naturale conseguenza del carattere sanzionatorio amministrativo del provvedimento di acquisizione, che esclude a priori ogni problema di indennizzo.
Le considerazioni fin qui svolte permettono di superare anche le residue censure, ove è dedotta la violazione degli artt. 4 e 7 della L. n. 241/1990, per l’omessa comunicazione del nominativo del responsabile del procedimento e dell’avvio del procedimento.
Invero, quanto al primo profilo, è pacifico in giurisprudenza che l'omessa indicazione del responsabile del procedimento non può mai ex se assumere valenza di vizio procedimentale tale da portare all'illegittimità dell'atto, rappresentando una mera irregolarità, alla quale è peraltro possibile supplire considerando responsabile il funzionario preposto alla competente unità organizzativa, in considerazione del richiamo effettuato nella stessa legge all’art. 5 (cfr., tra le tante, TAR Lazio Roma, Sezione III, 09.09.2010 n. 32207; TAR Campania, Napoli, Sezione III, 10.05.2010 n. 3420) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 31.10.2012 n. 4350 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sino a non molto tempo fa l’orientamento quasi univoco dei Giudici Amministrativi era quello di ritenere che, a fronte di una istanza di sanatoria (accertamento di conformità o condono edilizio) per l’abuso già oggetto di sanzione ripristinatoria da parte del Comune, l’impugnazione proposta contro il provvedimento repressivo fosse inammissibile se proposta dopo il deposito di quella istanza, ed improcedibile se proposta prima della stessa: ciò in quanto –si affermava- l’interesse processuale del ricorrente si trasferiva da un provvedimento (quello sanzionatorio) ritenuto oramai privo di effetti a quello che scaturiva dal procedimento innestato sull’istanza di sanatoria, il quale era destinato, a seguito di un riesame dello stato abusivo (o non) dell’opera, a prendere il posto del primo nell’assetto di interessi legati all’abuso edilizio.
Successivamente, però, la parte della giurisprudenza amministrativa ha preso ad affermare che la validità (ovvero l'efficacia) dell'ordine di demolizione non risulta pregiudicata dalla successiva presentazione di un'istanza di sanatoria ai sensi dell'art. 13 della l. n. 47 del 1985 (ora, art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001), posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se, da un lato, la presentazione della domanda di sanatoria attraverso l'istituto dell'accertamento di conformità determina inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione (all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera astrattamente suscettibile di sanatoria), dall'altro occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza. All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione del sopravvenuto venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata.
Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia.
E’, quest’ultimo, l’orientamento che la Sezione ritiene di potere condividere con riguardo ai casi come il presente, in cui in sede di diniego di sanatoria il Comune non ha reiterato l’ordine di demolizione delle opere ritenute abusive, in quanto tale soluzione consente di contemperare efficacemente l’interesse del privato a non subire l’abbattimento di un fabbricato in astratto suscettibile di sanatorie edilizia con l’interesse pubblico alla immediata repressione dell’abuso nel caso in cui detta sanatoria non possa essere riconosciuta, e quindi risulti definitivo lo stato di abusività dell’immobile.

In effetti, sino a non molto tempo fa l’orientamento quasi univoco dei Giudici Amministrativi, ed anche di questo TAR, era quello di ritenere che, a fronte di una istanza di sanatoria (accertamento di conformità o condono edilizio) per l’abuso già oggetto di sanzione ripristinatoria da parte del Comune, l’impugnazione proposta contro il provvedimento repressivo fosse inammissibile se proposta dopo il deposito di quella istanza, ed improcedibile se proposta prima della stessa: ciò in quanto –si affermava- l’interesse processuale del ricorrente si trasferiva da un provvedimento (quello sanzionatorio) ritenuto oramai privo di effetti a quello che scaturiva dal procedimento innestato sull’istanza di sanatoria, il quale era destinato, a seguito di un riesame dello stato abusivo (o non) dell’opera, a prendere il posto del primo nell’assetto di interessi legati all’abuso edilizio.
Successivamente, però, la parte della giurisprudenza amministrativa ha preso ad affermare che la validità (ovvero l'efficacia) dell'ordine di demolizione non risulta pregiudicata dalla successiva presentazione di un'istanza di sanatoria ai sensi dell'art. 13 della l. n. 47 del 1985 (ora, art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001), posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se, da un lato, la presentazione della domanda di sanatoria attraverso l'istituto dell'accertamento di conformità determina inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione (all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera astrattamente suscettibile di sanatoria), dall'altro occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza. All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione del sopravvenuto venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata.
Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia (TAR Campania Napoli, sez. II, 06.07.2012 n. 3249; sez. II, 26.06.2012 n. 3017; sez. III, 04.05.2012 n. 2044; sez. III, 04.05.2012 n. 2051; sez. II, 02.05.2012 n. 1981; TAR Calabria Catanzaro, sez. I, 16.04.2012 n. 389).
E’, quest’ultimo, l’orientamento che la Sezione ritiene di potere condividere con riguardo ai casi come il presente, in cui in sede di diniego di sanatoria il Comune non ha reiterato l’ordine di demolizione delle opere ritenute abusive, in quanto tale soluzione consente di contemperare efficacemente l’interesse del privato a non subire l’abbattimento di un fabbricato in astratto suscettibile di sanatorie edilizia con l’interesse pubblico alla immediata repressione dell’abuso nel caso in cui detta sanatoria non possa essere riconosciuta, e quindi risulti definitivo lo stato di abusività dell’immobile
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 26.10.2012 n. 4303 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La funzione di concentrazione dei poteri pubblici incidenti sulla installazione e l'esercizio degli impianti di distribuzione dei carburanti, assolta dalla pianificazione di cui all'articolo 2 del decreto legislativo 11.02.1998, n. 32, fa sì che tutte le condizioni ed i presupposti per il rilascio, sia dell'autorizzazione che del permesso a costruire, siano definite in questa sede. Diversamente opinando, infatti, verrebbe svuotata di contenuto l'intera riforma.
Ed invero, l’art. 1 del citato decreto prevede esplicitamente che le autorizzazioni in questione siano subordinate esclusivamente alla verifica della conformità alle disposizioni del piano regolatore, alle prescrizioni fiscali e a quelle concernenti la sicurezza sanitaria, ambientale e stradale, alle disposizioni per la tutela dei beni storici e artistici nonché alle norme di indirizzo programmatico delle regioni, e che insieme all'autorizzazione il comune rilascia le concessioni edilizie necessarie ai sensi dell'articolo 2.

Va osservato, al riguardo, che l’art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 32 del 1998 prevede che la localizzazione degli impianti di carburanti costituisce un mero adeguamento degli strumenti urbanistici in tutte le zone e sottozone del piano regolatore generale non sottoposte a particolari vincoli paesaggistici, ambientali ovvero monumentali e non comprese nelle zone territoriali omogenee A.
La disposizione si iscrive nel processo di semplificazione per l’apertura o il mantenimento degli impianti di distribuzione che ha ispirato il d.lgs. n. 32 del 1998.
Sul punto, la giurisprudenza del Giudice d’appello ha condivisibilmente avuto modo di affermare che “la funzione di concentrazione dei poteri pubblici incidenti sulla installazione e l'esercizio degli impianti di distribuzione dei carburanti, assolta dalla pianificazione di cui all'articolo 2 del decreto legislativo 11.02.1998, n. 32, fa sì che tutte le condizioni ed i presupposti per il rilascio, sia dell'autorizzazione che del permesso a costruire, siano definite in questa sede. Diversamente opinando, infatti, verrebbe svuotata di contenuto l'intera riforma” (Consiglio di Stato, sez. V, 21.09.2005 n. 4945).
Ed invero, l’art. 1 del citato decreto prevede esplicitamente che le autorizzazioni in questione siano subordinate esclusivamente alla verifica della conformità alle disposizioni del piano regolatore, alle prescrizioni fiscali e a quelle concernenti la sicurezza sanitaria, ambientale e stradale, alle disposizioni per la tutela dei beni storici e artistici nonché alle norme di indirizzo programmatico delle regioni, e che insieme all'autorizzazione il comune rilascia le concessioni edilizie necessarie ai sensi dell'articolo 2
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 26.10.2012 n. 4303 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La validità dell'ordine di demolizione non risulta pregiudicata dalla successiva presentazione di un'istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001, posto che nell’attuale sistema normativo (coerentemente al principio generale secondo cui la legittimità di un provvedimento amministrativo va verificata esclusivamente con riferimento alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione) non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto.
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Gli atti di natura urgente e vincolata -come appunto quelli sanzionatori in materia edilizia- non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento repressivo.

In ogni caso, sarebbe anche priva di fondamento sul piano giuridico, dal momento che la validità dell'ordine di demolizione non risulterebbe pregiudicata dalla successiva presentazione di un'istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001, posto che nell’attuale sistema normativo (coerentemente al principio generale secondo cui la legittimità di un provvedimento amministrativo va verificata esclusivamente con riferimento alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione) non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto (cfr. C.d.S., sez. IV, 19.02.2008, n. 849, TAR, Campania, Napoli, sez. II, 14.09.2009, n. 4961).
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In relazione alla quarta censura, si deve infine osservare che la stessa risulta destituita di fondamento sia in punto di fatto (dal momento che con l'ordinanza di sospensione lavori del 04.08.2010 l'amministrazione ha espressamente dato comunicazione all'interessato, <<ai sensi e per gli effetti degli articoli 7 e seguenti della legge n. 241/1990, … dell'avvio del procedimento volto a verificare la legittimità delle opere eseguite in base al permesso di costruire n. 19/2007 del 22/5/2007 e a sanzionare eventuali attività non legittimate …>>), sia in punto di diritto (alla luce del pacifico principio giurisprudenziale, pienamente condiviso dalla Sezione, in base al quale gli atti di natura urgente e vincolata -come appunto quelli sanzionatori in materia edilizia- non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento repressivo: cfr. C.d.S., Sez. IV, 01.10.2007, n. 5049; TAR Campania, Napoli, sez. II, 06.07.2012, n. 3249) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 26.10.2012 n. 4288 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo la disposizione di cui all'articolo 22, comma secondo, D.P.R. n. 380/2001 sono realizzabili mediante denuncia di inizio attività (oltre agli interventi di cui al comma primo) <<le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio e non violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire. …>>.
Si tratta delle varianti cosiddette leggere, che consistono nella realizzazione di interventi edilizi in lieve difformità rispetto al progetto assentito, che si rendano necessari nel corso dell'edificazione per ragioni tecniche non previste o prevedibili al momento della redazione di esso.
Da tale ambito vanno invece esclusi gli interventi che consistono nella integrale ristrutturazione dell'edificio, nonché in modifiche esterne, tipologiche e di destinazione dei locali di tale entità da determinare sostanziali variazioni di sagoma, volumetria e destinazione d'uso dell'originario progetto, con la conseguenza che, in tali casi, è invece necessario il permesso di costruire.

Ciò posto, ritiene il Collegio che ai fini della risoluzione della presente controversia occorra fare riferimento alla disposizione di cui all'articolo 22, comma secondo, D.P.R. n. 380/2001, in base alla quale sono altresì realizzabili mediante denuncia di inizio attività (oltre agli interventi di cui al comma primo) <<le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio e non violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire. …>>.
Si tratta delle varianti cosiddette leggere, che consistono nella realizzazione di interventi edilizi in lieve difformità rispetto al progetto assentito, che si rendano necessari nel corso dell'edificazione per ragioni tecniche non previste o prevedibili al momento della redazione di esso.
Da tale ambito vanno invece esclusi gli interventi che consistono nella integrale ristrutturazione dell'edificio, nonché in modifiche esterne, tipologiche e di destinazione dei locali di tale entità da determinare sostanziali variazioni di sagoma, volumetria e destinazione d'uso dell'originario progetto, con la conseguenza che, in tali casi, è invece necessario il permesso di costruire (C.d.S., Sez. IV, 21.05.2010, n. 3231; TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 09.03.2011, n. 642; Cass. Pen., Sez. III, 27.10.2010, n. 41752)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 26.10.2012 n. 4288 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per “sagoma” dell'edificio preesistente deve intendersi <<la conformazione plano-volumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale>>.
La creazione di balconi e l'apertura di finestre, modificando il prospetto principale dell'abitazione, non sono da considerare quale opera di manutenzione straordinaria e ciò si verifica anche se non venga alterata la volumetria dell'edificio, perché nuovi balconi e nuove finestre ne alterano i prospetti ed, in definitiva, la sagoma.

Appare altresì opportuno precisare che per “sagoma” dell'edificio preesistente deve intendersi <<la conformazione plano-volumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale>> (Corte Costituzionale, 23.11.2011, n. 309; TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 29.06.2012, n. 463) ed inoltre che, secondo la giurisprudenza amministrativa, <<la creazione di balconi e l'apertura di finestre, modificando il prospetto principale dell'abitazione, non sono da considerare quale opera di manutenzione straordinaria e ciò si verifica anche se non venga alterata la volumetria dell'edificio, perché nuovi balconi e nuove finestre ne alterano i prospetti ed, in definitiva, la sagoma>> (cfr. C.d.S., Sez. I, 09.05.2012, n. 380) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 26.10.2012 n. 4288 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se è vero che l’art. 9 della legge n. 47/1985 attribuisce espressamente il potere sanzionatorio- qualora le opere siano state eseguite su immobili vincolati ai sensi delle leggi 01.06.1939, n. 1089, e 29.06.1939, n. 1497- all’”amministrazione competente a vigilare sull'osservanza del vincolo”, tuttavia la giurisprudenza ha sempre ritenuto che tale disposizione non inibisca la competenza generale del Sindaco –ed ora del dirigente- in materia di vigilanza e di repressione di detti abusi. Ciò sia per l'insopprimibile differenza degli interessi pubblici tutelati dai due organi amministrativi, mirante l'uno alla salvaguardia del patrimonio artistico ed ambientale e l'altro alla tutela dell'assetto urbanistico edilizio, sia in virtù del dettato dell'art. 4 della stessa l. n. 47 del 1985 (ora art. 27 DPR 380/2001) in forza del quale il Sindaco provvede al ripristino dei luoghi previa comunicazione alle amministrazioni competenti, le quali possono intervenire anche di loro iniziativa.
Pertanto il Collegio non ritiene di doversi discostare dalla giurisprudenza costantemente seguita da questa Sezione in merito alla concorrente competenza del Comune, quale autorità preposta all’osservanza della normativa edilizia ed urbanistica e della Soprintendenza, quale autorità preposta alla vigilanza sul vincolo storico e artistico.
Sul punto, l'art. 27 citato riconosce all'Amministrazione Comunale il potere di vigilanza e controllo sulle attività urbanistico-edilizie del territorio per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici e alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi, e impone l'obbligo, per il dirigente, di adottare immediatamente provvedimenti definitivi, al fine di ripristinare la legalità violata dall'intervento edilizio realizzato, mediante l'esercizio di un potere-dovere del tutto vincolato dell'organo comunale, senza margini di discrezionalità, diretto a reprimere gli abusi edilizi accertati.
Già sotto il vigore della L. 47/1985 non era posto in dubbio che, sebbene gli articoli 9 e 10, comma 3, di tale legge prevedessero, l'intervento dell'autorità preposta al vincolo nei riguardi degli abusi edilizi commessi su edifici vincolati, tali disposizioni non potevano valere a smentire la competenza generale del Comune in materia di vigilanza e di repressione di detti abusi, stante l'insopprimibile differenza degli interessi pubblici tutelati dai due organi amministrativi, mirante l'uno alla salvaguardia del patrimonio artistico ed ambientale e l'altro alla tutela dell'assetto urbanistico-edilizio.
Anche nel sistema delineato dall'art. 27 del DPR 380/2001 il legislatore ha previsto una competenza alternativa tra il Comune e l'Autorità preposta al vincolo in materia di repressione degli abusi perpetrati in zona vincolata, dandosi al contempo carico di evitare la sovrapposizione del concreto esercizio del potere demandato alle due Amministrazioni competenti mediante la prescrizione della previa comunicazione all'Autorità che deve salvaguardare il vincolo, la quale può eventualmente intervenire, ai fini della demolizione, anche di propria iniziativa.
La differenza tra gli interessi pubblici curati dalle due Amministrazioni cui si è fatto riferimento in precedenza giustifica il mantenimento della doppia competenza ad irrogare la sanzione anche dopo le modifiche all'art. 27 citato apportate con l'art. 32 del D.L. 269/2003, per cui:
- il dirigente comunale può comminare la sanzione anche qualora accerti "l'esecuzione" di opere abusive, e non solo il loro "inizio" (comma 44);
- lo stesso organo deve esercitare tale potere "in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e dalle prescrizioni degli strumenti urbanistici" (comma 45);
- per le opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi degli articoli 6 e 7 del decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, o su beni di interesse archeologico, nonché per le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle disposizioni del titolo II del decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, il Soprintendente, su richiesta della regione, del comune o delle altre autorità preposte alla tutela, ovvero decorso il termine di 180 giorni dall'accertamento dell'illecito, procede alla demolizione, anche avvalendosi delle modalità operative di cui ai commi 55 e 56 dell'articolo 2 della legge 23.12.1996, n. 662 (comma 46).

Se è vero, infatti, che l’art. 9 della legge n. 47/1985 (abrogato dall’art. 136, comma 2, d.p.r. 06.06.2001, n. 380 a decorrere dal 30.06.2003) attribuisce espressamente il potere sanzionatorio- qualora le opere siano state eseguite su immobili vincolati ai sensi delle leggi 01.06.1939, n. 1089, e 29.06.1939, n. 1497- all’”amministrazione competente a vigilare sull'osservanza del vincolo”, tuttavia la giurisprudenza ha sempre ritenuto che tale disposizione non inibisca la competenza generale del Sindaco –ed ora del dirigente- in materia di vigilanza e di repressione di detti abusi. Ciò sia per l'insopprimibile differenza degli interessi pubblici tutelati dai due organi amministrativi, mirante l'uno alla salvaguardia del patrimonio artistico ed ambientale e l'altro alla tutela dell'assetto urbanistico edilizio, sia in virtù del dettato dell'art. 4 della stessa l. n. 47 del 1985 (ora art. 27 DPR 380/2001) in forza del quale il Sindaco provvede al ripristino dei luoghi previa comunicazione alle amministrazioni competenti, le quali possono intervenire anche di loro iniziativa (Consiglio Stato, sez. V, 21.01.1997, n. 62).
Pertanto il Collegio non ritiene di doversi discostare dalla giurisprudenza costantemente seguita da questa Sezione in merito alla concorrente competenza del Comune, quale autorità preposta all’osservanza della normativa edilizia ed urbanistica e della Soprintendenza, quale autorità preposta alla vigilanza sul vincolo storico e artistico (cfr. al riguardo TAR Campania Napoli, Sez. IV, 05-08-2009, n. 4733; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 05-08-2009, n. 4735; TAR Campania Napoli, sez. IV, n. 2625 del 13.05.2009; TAR Campania Napoli, sez. IV, n. 7561/2006; TAR Campania Napoli, sez. IV n. 18670/2005).
Sul punto la Sezione ha già avuto modo di rilevare che l'art. 27 citato riconosce all'Amministrazione Comunale il potere di vigilanza e controllo sulle attività urbanistico-edilizie del territorio per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici e alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi, e impone l'obbligo, per il dirigente, di adottare immediatamente provvedimenti definitivi, al fine di ripristinare la legalità violata dall'intervento edilizio realizzato, mediante l'esercizio di un potere-dovere del tutto vincolato dell'organo comunale, senza margini di discrezionalità, diretto a reprimere gli abusi edilizi accertati.
Già sotto il vigore della L. 47/1985 non era posto in dubbio che, sebbene gli articoli 9 e 10, comma 3, di tale legge prevedessero, l'intervento dell'autorità preposta al vincolo nei riguardi degli abusi edilizi commessi su edifici vincolati, tali disposizioni non potevano valere a smentire la competenza generale del Comune in materia di vigilanza e di repressione di detti abusi, stante l'insopprimibile differenza degli interessi pubblici tutelati dai due organi amministrativi, mirante l'uno alla salvaguardia del patrimonio artistico ed ambientale e l'altro alla tutela dell'assetto urbanistico-edilizio.
Anche nel sistema delineato dall'art. 27 del DPR 380/2001 il legislatore ha previsto una competenza alternativa tra il Comune e l'Autorità preposta al vincolo in materia di repressione degli abusi perpetrati in zona vincolata, dandosi al contempo carico di evitare la sovrapposizione del concreto esercizio del potere demandato alle due Amministrazioni competenti mediante la prescrizione della previa comunicazione all'Autorità che deve salvaguardare il vincolo, la quale può eventualmente intervenire, ai fini della demolizione, anche di propria iniziativa.
La differenza tra gli interessi pubblici curati dalle due Amministrazioni cui si è fatto riferimento in precedenza giustifica il mantenimento della doppia competenza ad irrogare la sanzione anche dopo le modifiche all'art. 27 citato apportate con l'art. 32 del D.L. 269/2003, per cui:
- il dirigente comunale può comminare la sanzione anche qualora accerti "l'esecuzione" di opere abusive, e non solo il loro "inizio" (comma 44);
- lo stesso organo deve esercitare tale potere "in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e dalle prescrizioni degli strumenti urbanistici" (comma 45);
- per le opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi degli articoli 6 e 7 del decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, o su beni di interesse archeologico, nonché per le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle disposizioni del titolo II del decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, il Soprintendente, su richiesta della regione, del comune o delle altre autorità preposte alla tutela, ovvero decorso il termine di 180 giorni dall'accertamento dell'illecito, procede alla demolizione, anche avvalendosi delle modalità operative di cui ai commi 55 e 56 dell'articolo 2 della legge 23.12.1996, n. 662 (comma 46).
In particolare, l'aggiunta all'originario testo dell'art. 27 apportata dal comma 46 dell'art. 32 D.L. 269/2003, che contempla il potere soprintendentizio, non vale a privare della competenza il Dirigente comunale, in quanto il legislatore ha chiarito, proprio con il comma 45 del medesimo art. 32 D.L. 269/2003, che la competenza dell'Ente locale riguarda "tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e dalle prescrizioni degli strumenti urbanistici", tra cui, evidentemente, anche quelli relativi ad immobili vincolati.
Pertanto per gli immobili sottoposti a vincolo, come nella specie dichiarati di interesse particolarmente importante, la sanzione demolitoria ben può essere irrogata dal Comune, che deve limitarsi a dare avviso alla Soprintendenza, fermo restando che la Soprintendenza dovrà procedere alla fase esecutiva della demolizione -senza che con ciò sia esclusa la competenza provvedimentale del Comune- ai sensi dell’ultima parte dell’art. 27, comma 2, come aggiunta dall'articolo 32, commi 44, 45 e 46, legge n. 326 del 2003, come palesato dal riferimento al termine “procedere” anziché a quello di “provvedere” di cui all’art. 27, comma 2, prima parte, ed al riferimento alle modalità operative di cui alla legge n. 662 del 1996, riferimento che non può che investire la fase esecutiva della demolizione anziché quella provvedimentale, che rimane di competenza del Comune, pur potendo cumularsi con quella della Soprintendenza.
Né può revocarsi in dubbio che, con riferimento ad un immobile sottoposto a vincolo monumentale, la prescrizione concernente il rispetto della tipologia degli infissi includa anche il materiale costruttivo e non solo il disegno, atteso che nella immagine della facciata di un edificio sottoposto a vincolo monumentale il materiale di cui è composto l’infisso costituisce parte integrante del bene protetto, con riferimento alla filologia del fabbricato.
Va al riguardo precisato che, in tema di tutela delle cose d'interesse artistico o storico, la necessità della previa autorizzazione dell’autorità preposta alla tutela del vincolo si riferisce alle "opere di qualunque genere" comprendendo con tale espressione qualsiasi intervento, anche se di limitata entità, che si presenti potenzialmente idoneo ad arrecare pregiudizio all'interesse tutelato dal vincolo. Nella specie l’intervento in parte qua è consistito nella sostituzione degli infissi esterni, con altri in alluminio, venendo ad incidere sull’aspetto esteriore di un edificio vincolato, sicché non può porsi in dubbio l’esistenza di un pregiudizio all’interesse architettonico tutelato dal vincolo medesimo
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 26.10.2012 n. 4278 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sopravvenuta presentazione della domanda di condono edilizio rende improcedibile il ricorso proposto avverso l’ordine di demolizione degli abusi edilizi, in quanto, in caso di diniego di condono, l’amministrazione sarà tenuta ad emettere il conseguente nuovo provvedimento sanzionatorio, mentre in caso di accoglimento la costruzione diventerà lecita urbanisticamente.
E’ principio costante in giurisprudenza quello in base al quale la sopravvenuta presentazione della domanda di condono edilizio rende improcedibile il ricorso proposto avverso l’ordine di demolizione degli abusi edilizi, in quanto, in caso di diniego di condono, l’amministrazione sarà tenuta ad emettere il conseguente nuovo provvedimento sanzionatorio, mentre in caso di accoglimento la costruzione diventerà lecita urbanisticamente (TAR Lazio Roma, sez. II, 07/09/2010, n. 32129; TAR Campania Napoli, sez. VI, 15/07/2010, n. 16806; TAR Toscana Firenze, sez. III, 26/02/2010, n. 516; TAR Puglia Lecce, sez. I, 03/04/2007, n. 1499) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 26.10.2012 n. 4278 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione adottato in pendenza di istanza di condono contrasta con l'art. 38 della legge n. 47/1985, articolo richiamato, a sua volta, nel decreto legge 269/2003. Questo disposto normativo impone all'Amministrazione di astenersi, sino alla definizione del procedimento attivato per il rilascio della concessione in sanatoria, da ogni iniziativa repressiva che vanificherebbe a priori il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria, sicché il Comune ha l'obbligo di pronunciarsi sulla condonabilità o meno nell'opera edilizia abusiva , non potendo l’ingiunzione a demolire costituire implicito rigetto della domanda di condono.
Invero, in caso di diniego di condono, l’amministrazione sarà tenuta ad emettere il conseguente doveroso nuovo provvedimento sanzionatorio, mentre in caso di accoglimento la costruzione diventerà lecita urbanisticamente.
Né vale in contrario rilevare che si tratta di immobile sito in zona vincolata, che precluderebbe a priori il rilascio del titolo in sanatoria, in quanto la domanda di condono è stata presentata ai sensi della legge 47/1985 e 724/1994, disposizioni entrambe che non escludono in astratto ed a priori la sanabilità degli edifici realizzati in zone sottoposte a vincolo paesaggistico.
Invero solo la sanatoria prevista dalla normativa sul condono edilizio di cui alla Legge n. 326 del 2003, articolo 32, è inapplicabile all'immobile ubicato in zona sottoposta a vincolo paesaggistico. Si afferma al riguardo, nella materia dell’esecuzione penale, che il giudice dell'esecuzione, ai fini dell'accoglimento o rigetto della domanda di sospensione dell'esecuzione, deve accertare se nel caso in esame é stata presentata domanda di condono ai sensi della L. n. 724/1994 ovvero del D.L. n. 269/2003, convertito in L. n. 326/2003, nonché la tempestività della domanda e l'esistenza degli altri requisiti sopra precisati.
L’art. 32, nel testo riformato dalla L. n. 326/2003, al primo comma qualifica come silenzio rifiuto la situazione lesiva generata dall’inerzia dell’autorità competente ad esprimere il parere, al secondo comma indica gli immobili suscettibili di sanatoria insistenti in aree vincolate, tra i quali non rientrano gli immobili siti in zone soggette a tutela ambientale, che dunque debbono essere compresi (terzo comma) tra quelli per cui la sanatoria non è consentita ai sensi dell’art. 33.
Che i limiti di cui al comma 27 dell’articolo 32 siano aggiuntivi e ulteriori rispetto a quelli di cui agli articoli 32 e 33 della legge n. 47 del 1985 è stato affermato, sia pure in obiter dictum, dalla pronuncia della Consulta n. 196 del 2004, dove, al sesto periodo del par. 17 della motivazione in diritto, la Corte ha osservato che il condono del 2003, pur in una linea di sostanziale continuità, diverge in taluni punti rispetto a quello del 1985-1994, tra cui spicca la circostanza di aver introdotto “alcuni nuovi vincoli all’applicabilità del condono (comma 27) che si aggiungono a quanto previsto dagli artt. 32 e 33 della legge n. 47 del 1985” .
L'art. 32, comma 27, d.l. n. 269 del 2003 è dunque previsione normativa che esclude dalla sanatoria le opere abusive realizzate su aree caratterizzate da determinate tipologie di vincoli (in particolare, quelli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e della falde acquifere, dei beni ambientali e paesaggistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali), subordinando peraltro l'esclusione a due condizioni costituite:
a) dal fatto che il vincolo sia stato istituto prima dell'esecuzione delle opere abusive;
b) dal fatto che le opere realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo risultino non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
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In base alla disciplina posta dal d.l. n. 269 del 2003, la sanabilità delle opere realizzate in zona vincolata è radicalmente esclusa solo qualora si tratti di un vincolo di inedificabilità assoluta e non anche nella diversa ipotesi di un vincolo di inedificabilità relativa, ossia di un vincolo superabile mediante un giudizio a posteriori di compatibilità paesaggistica. Infatti, è ben possibile ottenere la sanatoria delle opere abusive realizzate in zona sottoposta ad un vincolo di inedificabilità relativa, purché ricorrano le condizioni previste dall'art. 32, comma 27, lett. d), d.l. n. 269 del 2003, convertito dalla l. n. 326 del 2003.
In conclusione, avuto riguardo all’epoca di presentazione della domanda di condono edilizio nel caso di specie, poiché l’art. 32 della l. n. 47/1985, prevedeva, nel suo testo originario (comma 1): “Fatte salve le fattispecie previste dall'art. 33, il rilascio della concessione o della autorizzazione in sanatoria per opere eseguite su aree sottoposte a vincolo, ivi comprese quelle ricadenti nei parchi nazionali e regionali, è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela dal vincolo stesso. Qualora tale parere non venga reso dalle suddette amministrazioni entro centoventi giorni dalla domanda, si intende reso in senso negativo.”, dal combinato disposto degli artt. 32 e 33 legge n. 47 del 1985 si evince non il divieto assoluto e automatico di condonabilità delle opere ricadenti in zona soggetta a vincolo, ma soltanto la necessità della valutazione, da parte dell’organo competente, della compatibilità o meno delle opere oggetto dell’istanza con il vincolo stesso.
Tale conclusione si estende anche alla domanda di condono presentata ai sensi della legge n. 724/1994, la quale, ha in sostanza comportato la riapertura dei termini del precedente condono –ovverosia risalente al 1985– prevedendo l’art. 39 del citato corpus normativo che “Le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate dal presente articolo, si applicano alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31.12.1993…”.
Il rinvio operato dalla legge alla disciplina del precedente condono comporta che trova applicazione l’art. 32 della legge n. 47/1985 che consente la sanatoria, almeno in linea generale, anche degli immobili insistenti su aree sottoposte a vincolo paesaggistico. Esso, al primo comma, primo periodo, infatti statuisce che “Fatte salve le fattispecie previste dall'articolo 33, il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso”.
La giurisprudenza ha peraltro osservato, in ordine a tale disposizione, che la stessa: “nel prevedere la necessità del parere dell'Amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico ai fini del rilascio delle concessioni in sanatoria, non reca alcuna deroga ai principi generali e pertanto deve interpretarsi nel senso che l'obbligo di pronuncia dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato introdotto, atteso che tale valutazione corrisponde all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati abusivamente”.

Poiché la presentazione della domanda di condono è anteriore alla spedizione dell’ordine di demolizione, quest’ultima determinazione è da considerarsi illegittima, in quanto –secondo costante giurisprudenza di questo TAR- l’ordine di demolizione adottato in pendenza di istanza di condono contrasta con l'art. 38 della legge n. 47/1985, articolo richiamato, a sua volta, nel decreto legge 269/2003. Questo disposto normativo impone all'Amministrazione di astenersi, sino alla definizione del procedimento attivato per il rilascio della concessione in sanatoria, da ogni iniziativa repressiva che vanificherebbe a priori il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria, sicché il Comune ha l'obbligo di pronunciarsi sulla condonabilità o meno nell'opera edilizia abusiva , non potendo l’ingiunzione a demolire costituire implicito rigetto della domanda di condono.
Invero, in caso di diniego di condono, l’amministrazione sarà tenuta ad emettere il conseguente doveroso nuovo provvedimento sanzionatorio, mentre in caso di accoglimento la costruzione diventerà lecita urbanisticamente (TAR Lazio Roma, sez. II, 07/09/2010, n. 32129; TAR Campania Napoli, sez. VI, 15/07/2010, n. 16806; TAR Toscana Firenze, sez. III, 26/02/2010, n. 516; TAR Puglia Lecce, sez. I, 03/04/2007, n. 1499).
Né vale in contrario rilevare che si tratta di immobile sito in zona vincolata, che precluderebbe a priori il rilascio del titolo in sanatoria, in quanto la domanda di condono è stata presentata ai sensi della legge 47/1985 e 724/1994, disposizioni entrambe che non escludono in astratto ed a priori la sanabilità degli edifici realizzati in zone sottoposte a vincolo paesaggistico.
Invero solo la sanatoria prevista dalla normativa sul condono edilizio di cui alla Legge n. 326 del 2003, articolo 32, è inapplicabile all'immobile ubicato in zona sottoposta a vincolo paesaggistico (cfr. Cassazione penale, Sez. III, 14.01.2011, n. 766). Si afferma al riguardo, nella materia dell’esecuzione penale, che il giudice dell'esecuzione, ai fini dell'accoglimento o rigetto della domanda di sospensione dell'esecuzione, deve accertare se nel caso in esame é stata presentata domanda di condono ai sensi della L. n. 724/1994 ovvero del D.L. n. 269/2003, convertito in L. n. 326/2003, nonché la tempestività della domanda e l'esistenza degli altri requisiti sopra precisati (cfr. Cassazione penale Sez. III, 14/01/2011 n. 761).
L’art. 32, nel testo riformato dalla L. n. 326/2003, al primo comma qualifica come silenzio rifiuto la situazione lesiva generata dall’inerzia dell’autorità competente ad esprimere il parere, al secondo comma indica gli immobili suscettibili di sanatoria insistenti in aree vincolate, tra i quali non rientrano gli immobili siti in zone soggette a tutela ambientale, che dunque debbono essere compresi (terzo comma) tra quelli per cui la sanatoria non è consentita ai sensi dell’art. 33.
Che i limiti di cui al comma 27 dell’articolo 32 siano aggiuntivi e ulteriori rispetto a quelli di cui agli articoli 32 e 33 della legge n. 47 del 1985 è stato affermato, sia pure in obiter dictum, dalla pronuncia della Consulta n. 196 del 2004, dove, al sesto periodo del par. 17 della motivazione in diritto, la Corte ha osservato che il condono del 2003, pur in una linea di sostanziale continuità, diverge in taluni punti rispetto a quello del 1985-1994, tra cui spicca la circostanza di aver introdotto “alcuni nuovi vincoli all’applicabilità del condono (comma 27) che si aggiungono a quanto previsto dagli artt. 32 e 33 della legge n. 47 del 1985” .
L'art. 32, comma 27, d.l. n. 269 del 2003 è dunque previsione normativa che esclude dalla sanatoria le opere abusive realizzate su aree caratterizzate da determinate tipologie di vincoli (in particolare, quelli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e della falde acquifere, dei beni ambientali e paesaggistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali), subordinando peraltro l'esclusione a due condizioni costituite:
a) dal fatto che il vincolo sia stato istituto prima dell'esecuzione delle opere abusive;
b) dal fatto che le opere realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo risultino non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici (TAR Campania Napoli, sez. VII, 10/12/2009, n. 8608).
Da tale ricostruzione emerge, quindi, un sistema che consente la sanatoria delle opere realizzate su aree vincolate solo in due ipotesi, previste disgiuntamente, costituite dalla realizzazione delle opere abusive prima dell'imposizione dei vincoli (e, in questo caso, trattasi della mera riproposizione di una caratteristica propria della disciplina posta dalle due precedenti leggi sul condono con riferimento ai vincoli di inedificabilità assoluta di cui all'art. 33, comma 1, l. n. 47 del 1985); dal fatto che le opere oggetto di sanatoria, benché non assentite o difformi dal titolo abilitativo, risultino comunque conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Pertanto, la novità sostanziale della suddetta previsione normativa è costituita proprio dall'inserimento del requisito della conformità urbanistica all'interno della fattispecie del condono edilizio, così dando vita ad un meccanismo di sanatoria che si avvicina fortemente all'istituto dell'accertamento di conformità previsto dall'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, piuttosto che ai meccanismi previsti dalle due precedenti leggi sul condono edilizio.
Poste tali premesse, in base alla disciplina posta dal d.l. n. 269 del 2003, la sanabilità delle opere realizzate in zona vincolata è radicalmente esclusa solo qualora si tratti di un vincolo di inedificabilità assoluta e non anche nella diversa ipotesi di un vincolo di inedificabilità relativa, ossia di un vincolo superabile mediante un giudizio a posteriori di compatibilità paesaggistica. Infatti, è ben possibile ottenere la sanatoria delle opere abusive realizzate in zona sottoposta ad un vincolo di inedificabilità relativa, purché ricorrano le condizioni previste dall'art. 32, comma 27, lett. d), d.l. n. 269 del 2003, convertito dalla l. n. 326 del 2003 (cfr. TAR Campania Napoli sez. VII 14/10/2011 n. 4841).
In conclusione, avuto riguardo all’epoca di presentazione della domanda di condono edilizio nel caso di specie, poiché l’art. 32 della l. n. 47/1985, prevedeva, nel suo testo originario (comma 1): “Fatte salve le fattispecie previste dall'art. 33, il rilascio della concessione o della autorizzazione in sanatoria per opere eseguite su aree sottoposte a vincolo, ivi comprese quelle ricadenti nei parchi nazionali e regionali, è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela dal vincolo stesso. Qualora tale parere non venga reso dalle suddette amministrazioni entro centoventi giorni dalla domanda, si intende reso in senso negativo.”, dal combinato disposto degli artt. 32 e 33 legge n. 47 del 1985 si evince non il divieto assoluto e automatico di condonabilità delle opere ricadenti in zona soggetta a vincolo, ma soltanto la necessità della valutazione, da parte dell’organo competente, della compatibilità o meno delle opere oggetto dell’istanza con il vincolo stesso (cfr. CdS sez. VI n. 6323/2011).
Tale conclusione si estende anche alla domanda di condono presentata ai sensi della legge n. 724/1994, la quale, ha in sostanza comportato la riapertura dei termini del precedente condono –ovverosia risalente al 1985– prevedendo l’art. 39 del citato corpus normativo che “Le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate dal presente articolo, si applicano alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31.12.1993…”.
Il rinvio operato dalla legge alla disciplina del precedente condono comporta che trova applicazione l’art. 32 della legge n. 47/1985 che consente la sanatoria, almeno in linea generale, anche degli immobili insistenti su aree sottoposte a vincolo paesaggistico. Esso, al primo comma, primo periodo, infatti statuisce che “Fatte salve le fattispecie previste dall'articolo 33, il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso”. La giurisprudenza ha peraltro osservato, in ordine a tale disposizione, che la stessa: “nel prevedere la necessità del parere dell'Amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico ai fini del rilascio delle concessioni in sanatoria, non reca alcuna deroga ai principi generali e pertanto deve interpretarsi nel senso che l'obbligo di pronuncia dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato introdotto, atteso che tale valutazione corrisponde all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati abusivamente” (cfr. C. Stato, 5517 - 12.10.2011 - Sez. VI; Cassazione penale sez. III 17/11/2011 n. 42418).
La Legge n. 724 del 1994, articolo 39, comma 7, aveva modificato la formulazione originaria della Legge n. 47 del 1985, articolo 32, prevedendo che: "Per le opere eseguite su immobili soggetti alla Legge 29.06.1939, n. 1497, e al Decreto Legge 27.06.1985, n. 312, convertito, con modificazioni, dalla Legge 08.08.1985, n. 431, relative ad ampliamento o tipologie d'abuso che non comportano aumento di superficie o di volume, il parere deve essere rilasciato entro centoventi giorni; trascorso tale termine il parere stesso si intende reso in senso favorevole".
Tale disposizione, però, fu abrogata dalla Legge 23.12.1996, n. 662, articolo 2, comma 43, ed il successivo comma 44 di detto articolo previde che "il rilascio della concessione edilizia o dell'autorizzazione in sanatoria per opere eseguite su immobili soggetti alla Legge 01.06.1939, n. 1089, Legge 29.06.1939, n. 1497, ed al Decreto Legge 27.06.1985, n. 312, convertito, con modificazioni, dalla Legge 08.08.1985, n. 431, nonché in relazione a vincoli imposti da leggi statali e regionali e dagli strumenti urbanistici, a tutela di interessi idrogeologici e delle falde idriche nonché dei parchi e delle aree protette nazionali e regionali qualora istituiti prima dell'abuso, è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso. Qualora tale parere non venga reso entro centottanta giorni dalla domanda il richiedente può impugnare il silenzio-rifiuto dell'amministrazione".
Conclusivamente, la pendenza della domanda di condono prima della emissione del contestato ordine di demolizione rende lo stesso illegittimo; ciò non esclude anzi rafforza l’obbligo dell’amministrazione di pronunciarsi in tempi brevi su detta domanda, ai fini dell’eventuale riesercizio del potere sanzionatorio, ovvero della definitiva pronuncia sulla sorte urbanistica dell’opus de quo
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 26.10.2012 n. 4275 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per “muro di cinta”, nella dizione di cui alla legge n. 662/1996, possono intendersi quelle opere di recinzione, non suscettibili di modificare o alterare sostanzialmente la conformazione del terreno, che assumono natura pertinenziale in quanto hanno esclusivamente la funzione di delimitare, proteggere o eventualmente abbellire la proprietà. Esse in quanto aventi natura pertinenziale sono assoggettate, nel sistema vigente all’epoca della adozione dell’atto impugnato, della denuncia di inizio attività prevista e disciplinata dall’art. 62 della legge n. 662/1996.
Diversa è invece la consistenza e la funzione dei c.d. "muri di contenimento", che si differenziano sostanzialmente dalle mere recinzioni non solo per funzione, ma anche, come innanzi precisato, perché servono a sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso. Per assolvere a siffatta funzione, i muri di contenimento devono presentare necessariamente una struttura idonea, per consistenza e modalità costruttive, ad assolvere alla funzione di contenimento.
Pertanto, il muro di contenimento, pur potendo avere, in rapporto alla situazione dei luoghi, anche concomitante funzione di recinzione, è, tuttavia, sotto il profilo edilizio, un'opera più consistente di una recinzione (non essendo preordinata a recingere) e soprattutto è dotata di propria specificità ed autonomia, in relazione ai profili dianzi evidenziati. Il che esclude la sua riconducibilità al concetto di pertinenza, conseguendone, data la rilevanza delle modifiche che esso produce sia la necessità della concessione edilizia, sia la legittimità, a torto contestata, dell'applicazione della misura demolitoria prevista per il caso di assenza di concessione.

Ed infatti, dal contenuto del verbale di sopralluogo citato, e dalle risultanze della CTU si ricava che il muro in questione non può qualificarsi quale “muro di cinta”, ma, risulta costruito per “evitare l’ulteriore dilavamento del terreno”. Da tali dichiarazioni si ricava quindi che il muro in questione è stato realizzato dalla ricorrente, asseritamente, quale opera muraria al fine di prevenire possibili smottamenti del terreno.
Da tali risultanze si ricava che l’opera in questione va qualificata come “muro di contenimento” le cui caratteristiche lo differenziano sostanzialmente dal muro c.d. “di cinta” .
A parere del Collegio, per “muro di cinta”, nella dizione di cui alla legge n. 662/1996, possono intendersi quelle opere di recinzione, non suscettibili di modificare o alterare sostanzialmente la conformazione del terreno, che assumono natura pertinenziale in quanto hanno esclusivamente la funzione di delimitare, proteggere o eventualmente abbellire la proprietà. Esse in quanto aventi natura pertinenziale sono assoggettate, nel sistema vigente all’epoca della adozione dell’atto impugnato, della denuncia di inizio attività prevista e disciplinata dall’art. 62 della legge n. 662/1996.
Diversa è invece la consistenza e la funzione dei c.d. "muri di contenimento", che si differenziano sostanzialmente dalle mere recinzioni non solo per funzione, ma anche, come innanzi precisato, perché servono a sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso. Per assolvere a siffatta funzione, i muri di contenimento devono presentare necessariamente una struttura idonea, per consistenza e modalità costruttive, ad assolvere alla funzione di contenimento.
Pertanto, il muro di contenimento, pur potendo avere, in rapporto alla situazione dei luoghi, anche concomitante funzione di recinzione, è, tuttavia, sotto il profilo edilizio, un'opera più consistente di una recinzione (non essendo preordinata a recingere) e soprattutto è dotata di propria specificità ed autonomia, in relazione ai profili dianzi evidenziati. Il che esclude la sua riconducibilità al concetto di pertinenza, conseguendone, data la rilevanza delle modifiche che esso produce sia la necessità della concessione edilizia, sia la legittimità, a torto contestata, dell'applicazione della misura demolitoria prevista per il caso di assenza di concessione.
Nella specie, la scrupolosa indagine del CTU consente di ritenere che, per entità, estensione, tipologia, la serie di muri realizzata –a prescindere da una effettiva idoneità concreta- non può considerarsi una mera recinzione del fondo, ma si propone anche una funzione di contenimento, e come tale va assoggettata all’obbligo di preventivo rilascio del titolo edilizio, anche in considerazione della sua esecuzione in zona vincolata paesaggisticamente
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 26.10.2012 n. 4275 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOLa Cassazione ha ribadito il principio della solidarietà. Anche a svantaggio del decoro. Ascensore, sì con quorum ridotto. Basta la maggioranza semplice perché si superano le barriere.
Il necessario rispetto del principio di solidarietà condominiale rende legittima la delibera di installazione di un ascensore che tuteli l'esigenza di garantire un accesso agli appartamenti ai condomini, o loro ospiti, con ridotta capacità motoria, anche se la nuova opera comporti un'accettabile riduzione del decoro architettonico o un modesto restringimento degli spazi comuni.
In altre parole, i condomini devono sacrificarsi, in nome dei diritti umani fondamentali, per consentire ai disabili, o agli anziani con mobilità ridotta, di socializzare e di muoversi senza incontrare ostacoli.

Queste le conclusioni alle quali è pervenuta la II Sez. della Corte di Cassazione con la recente sentenza 25.10.2012 n. 18334.
Il caso di specie. La vicenda che ha portato alla decisione in questione prendeva l'avvio quando un condomino impugnava la delibera che aveva approvato l'installazione di un ascensore, ritenuta illegittima non solo perché adottata con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge, ma soprattutto perché la nuova opera aveva ristretto il passaggio sulla prima rampa di scale, impedendo anche il passaggio di eventuali mezzi di soccorso e compromesso il decoro architettonico dell'edificio in stile liberty. Il Tribunale, aderendo pienamente alla tesi del singolo condomino, condannava il condominio a rimuovere l'impianto di ascensore.
Secondo il condominio, però, che impugnava detta decisione in appello, la delibera era pienamente legittima perché non comportava alterazione del decoro architettonico dell'immobile né alcun pregiudizio alle parti comuni e, comunque, era stata adottata a tutela dei condomini anziani e disabili e nel rispetto della normativa in materia di barriere architettoniche. Queste considerazioni venivano però respinte dalla Corte d'appello, secondo cui il decoro architettonico del fabbricato risultava compromesso dall'installazione dell'ascensore che, tra l'altro, non era conforme alle disposizioni antincendio, aveva diminuito la possibilità di utilizzo della rampa della scala e aveva creato pregiudizio alla sicurezza del caseggiato e all'incolumità degli abitanti, rendendo particolarmente difficoltoso l'accesso di mezzi di soccorso.
Ma, soprattutto, secondo i giudici di secondo grado, la delibera non risultava aver avuto a oggetto alcuna opera attinente al superamento delle barriere architettoniche, perché il condominio non aveva fornito la prova che nello stabile vivessero portatori di handicap: di conseguenza la delibera non poteva essere adottata con la ridotta maggioranza prevista dalla legislazione in tema di eliminazione delle barriere architettoniche.
La decisione della Cassazione. La Suprema corte, però, non condividendo le precedenti osservazioni, ha confermato la piena legittimità della scelta fatta dai condomini. Secondo i giudici supremi, infatti, non ha alcuna rilevanza la circostanza che l'assemblea non abbia avuto a oggetto una delibera attinente all'eliminazione delle barriere architettoniche, in quanto la delibera di installazione di un ascensore si muove sostanzialmente in tale direzione. Inoltre, la normativa speciale a favore dei portatori di handicap prevede un abbassamento del quorum richiesto per l'innovazione, indipendentemente dalla presenza di disabili: lo scopo infatti è quello di consentire ai disabili, o agli anziani con mobilità ridotta, di socializzare e di muoversi senza incontrare ostacoli, anche se le persone interessate non sono proprietari di appartamenti nel caseggiato o non risiedono stabilmente nel palazzo.
In ogni caso i giudici supremi hanno ritenuto che, nel rispetto del principio di solidarietà condominiale, la delibera dell'assemblea con la quale viene decisa, a cura e spese di alcuni dei condomini, l'installazione di un ascensore nel vano scala condominiale è legittima anche se comporta un'accettabile compromissione del decoro architettonico (cioè un cambiamento estetico che non sia di grave e appariscente entità) e/o un modesto restringimento di spazi comuni (con semplice disagio subito rispetto alla sua normale utilizzazione), in quanto le difficoltà delle persone affette da invalidità devono ormai essere considerate quali problemi non solo individuali, ma tali da dover essere assunti dall'intera collettività (articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2012).

AGGIORNAMENTO AL 19.11.2012

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NOVITA' NEL SITO

● inserito il bottone del nuovo dossier PARERE DI REGOLARITA' TECNICA, CONTABILE E DI LEGITTIMITA' (sulle deliberazioni di Giunta e di Consiglio Comunale).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 19.11.2012, "D.g. Semplificazione e digitalizzazione e d.c. Affari istituzionali e legislativo - Limiti demografici minimi per la gestione associata obbligatoria tra Comuni: chiarimenti in merito al coordinamento tra la legge regionale 28.12.2011, n. 22 (Disposizioni per l’attuazione della programmazione economico-finanziaria regionale, ai sensi dell’art. 9-ter della l.r. 31.03.1978, n. 34 ‘Norme sulle procedure della programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della Regione’ - Collegato 2012) e la legge 07.08.2012 n. 135 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, recante disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini)" (circolare regionale 15.11.2012 n. 8).

APPALTI: G.U. 15.11.2012 n. 267 "Modifiche al decreto legislativo 09.10.2002, n. 231, per l’integrale recepimento della direttiva 2011/7/UE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, a norma dell’articolo 10, comma 1, della legge 11.11.2011, n. 180" (D.Lgs. 09.11.2012 n. 192).

UTILITA'

APPALTI: Ritardato pagamento nelle transazioni commerciali (Bollettino di Legislazione Tecnica n. 11/2012).

SICUREZZA LAVOROTesto Unico sulla Sicurezza (D.Lgs. 81/2008): ecco la versione con commenti e note aggiornata a novembre 2012.
In Italia la salute e la sicurezza sul lavoro sono disciplinate dal Decreto Legislativo n. 81 del 09.04.2008, anche noto come Testo Unico in materia di salute e Sicurezza sul lavoro (TUS), entrato in vigore il 15.05.2008.
Il TUS ha subito varie modifiche ed integrazioni nel corso del tempo, attraverso correttivi (v. Decreto Legislativo 03.08.2009 n. 106) e successivi ulteriori decreti.
Tra gli ultimi aggiornamenti, ricordiamo:
Legge 12.07.2012, n. 101, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 162 del 13.07.2012, di conversione del Decreto Legge 12.05.2012, n. 57;
Decreto Interministeriale del 6 agosto 2012, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 218 del 18.09.2012;
Legge 01.10.2012, n. 177, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 244 del 18/10/2012, come da errata corrige pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 245 del 19/10/2012.
In allegato a questa notizia proponiamo il testo coordinato con le ultime modifiche, con note e commenti, realizzato dal Ministero del Lavoro, aggiornato a novembre 2012 (15.11.2012 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATALa guida ai possibili interventi sulla casa per aumentare l’efficienza energetica.
Aumenta sempre più la domanda di edifici a basso consumo di energia, capaci di garantire il benessere termico sia in estate che in inverno, senza ricorrere a sistemi convenzionali quali i termosifoni o i condizionatori.
Cresce anche l’attenzione verso le fonti energetiche “pulite”, quelle che sfruttano risorse quali il sole, l’aria, l’acqua piovana e non inquinano l’ambiente.
L’ordine degli Architetti di Salerno ha pubblicato un opuscolo che guida il tecnico e il committente finale ai possibili interventi edilizi sulle coperture, sulle pareti esterne e sui serramenti, finalizzati a riqualificare la casa, ottenendo un incremento del suo valore di mercato ed una sensibile riduzione dei consumi energetici.
Il documento spiega in maniera semplice come in pochi anni, grazie al risparmio sulle bollette, è possibile recuperare le somme investite, contribuendo anche a migliorare la qualità dell’aria che respiriamo.
La pubblicazione è riferita alla casa, ma le tecniche di intervento sono le stesse anche per le scuole, per gli uffici, per le biblioteche, per i centri sociali e così via (15.11.2012 - link a www.acca.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: Guida per l'installazione degli impianti fotovoltaici (Bollettino di Legislazione Tecnica n. 11/2012).

APPALTI: M. Urbani, L’obbligo delle sedute pubbliche di gara (Bollettino di Legislazione Tecnica n. 11/2012).

EDILIZIA PRIVATA: M. Nadalini, I lavoratori autonomi in cantiere (Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 11/2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: S. Maglia e M. V. Balossi, Terre e rocce: il punto della situazione alla luce del D.M. n. 161/2012 (Ambiente & Sviluppo n. 11/2012).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il parere di regolarità tecnica negli atti della Pa (03.10.2012 - link a http://denaro.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - SEGRETARIO COMUNALE: L. Maresca, Le funzioni del segretario comunale di assistenza agli organi: Consiglio e Giunta - il segretario ed il sindaco (link a http://doc.sspal.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Pètrina, IURE CONDITO LA VERIFICA DI LEGITTIMITA’ NEGLI EE.LL. (maggio 2009 - link a www.segretariocomunale.com).

ATTI AMMINISTRATIVI: L. Oliveri, I PARERI SULLE PROPOSTE DI DELIBERAZIONE ALLA LUCE DELLA LEGGE 265/1999 (1999 - link a www.giustamm.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Facoltà assunzionale e incremento ore part-time.
La Corte dei Conti, sezione regionale Umbria, con il parere 23.10.2012 n. 186, si pronuncia su quanto in oggetto in un'ipotesi di incremento ore di un rapporto di lavoro a tempo parziale da 24 a 30 ore settimanali.
La sezione umbra si allinea agli orientamenti già espressi dalle sezioni di controllo Emilia-Romagna, Campania e Toscana, pur dando conto anche di un differente avviso esplicitato da altre sezioni di controllo.
Queste le conclusioni: "... la Sezione ritiene che l'operazione che il Comune intende realizzare sia ammissibile purché l'incremento delle ore di part-time sia tale da non determinare una trasformazione in un contratto a tempo pieno, che ai sensi della normativa richiamata (art. 3, comma 101, legge n. 244/2007) costituisce nuova assunzione, e purché siano rispettati i limiti ed i vincoli di cui alla normativa ... relativa al rispetto del limite massimo per la spesa del personale ..." (tratto da www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl parere di regolarità contabile investa anche e soprattutto la legittimità della spesa, e depone in tal senso:
- il rilievo che il comb. disp. di cui agli artt. 49, secondo comma, e 97, quarto comma, lett. b), D.Lgs. 267/2000, per il caso "in cui l'ente non abbia i responsabili dei servizi", demanda l'espressione del parere di cui all'art. 49 (e, pertanto, anche del parere di regolarità contabile) al segretario, "in relazione alle sue competenze", consistenti, a termini dell'art. 97, secondo comma, D.Lgs. 267/2000, nello svolgimento di "compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in ordine alla conformità delle leggi, allo statuto ed ai regolamenti", sicché se ne desume che il parere di regolarità contabile deve comprendere non solo l'attestazione della copertura finanziaria della spesa, ossia la sua imputazione alla pertinente partizione del bilancio ed il riscontro della capienza del relativo stanziamento, ma debba aver riguardo a tutti i profili propriamente attinenti alla legittimità della spesa;
- la considerazione che, a termini dell'art. 184, quarto comma, D.Lgs. 267/2000, il servizio finanziario -cui è preposto il ragioniere cui il precedente l'art. 49 demanda l'espressione del parere di regolarità contabile- deve effettuare "secondo i principi e le procedure della contabilità pubblica, i controlli e riscontri amministrativi, contabili e fiscali sugli atti di liquidazione", e che, come è dato evincere dall'art. 147, primo comma, lett. a), D.Lgs. cit., in tema di controlli interni, la regolarità amministrativa e contabile, oggetto dei controlli e dei riscontri demandati al servizio finanziario, si identifica con "la legittimità, regolarità e correttezza dell'azione amministrativa", sicché sarebbe evidentemente incongrua un'interpretazione per cui, in sede di espressione del parere di regolarità contabile di cui all'art. 49 D.Lgs. cit., che si colloca a monte delle fasi di gestione della spesa pubblica, il responsabile del servizio finanziario non fosse tenuto ad evidenziare l'illegittimità della spesa oggetto della proposta di deliberazione;
- il rilievo che l'art. 27 R.D. 2240/1923 (L.C.G.S.) -che, riferendosi alle Amministrazioni dello Stato, ben può essere considerato espressione di un principio generale in subiecta materia- prevede che le ragionerie centrali (oggi uffici centrali di bilancio) vigilino "perché siano osservate le leggi”) per la regolare gestione dei fondi di bilancio", per cui evidentemente il parametro di riscontro non è costituito dalla sola legge (formale) di bilancio ma dalle "leggi" e, pertanto, anche da tutte le leggi (sostanziali) che disciplinano l'effettuazione delle spese dello Stato.
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Il Segretario (comunale o provinciale), ai sensi dell'art. 17 l. n. 127 del 1997 e, successivamente, dell'art. 97 d.lgs. 18.08.2000 n. 267, mantiene la specifica funzione ausiliaria di garante della legalità e correttezza amministrativa dell'azione dell'ente locale; infatti, il t.u.e.l. ha assegnato al segretario dell'ente locale, in linea generale, otre agli altri compiti indicati all'art. 97 t.u., cit., le "funzioni di collaborazione e di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti" e quelle di "sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e di coordinarne l'attività"; pertanto non può dubitarsi del fatto che il Segretario comunale abbia il preciso obbligo giuridico di segnalare agli amministratori le illegittimità contenute negli emanandi provvedimenti, al fine di impedire atti e comportamenti illegittimi forieri di danno erariale; altrimenti opinando, potrebbe l'amministratore pubblico contare sull'inerzia o sul silenzio di chi è preposto per legge al controllo della legalità dell'azione amministrativa; e in mancanza, deve essere ritenuto responsabile a titolo di concorso omissivo colposo nella causazione del fatto dannoso contestato.
Inoltre, qualora il segretario rivesta anche il ruolo di Direttore generale ciò incrementa i suoi poteri di indagine e vigilanza e, correlativamente, le sue responsabilità; e non vale obiettare che i pareri da rendere, secondo la normativa vigente sono facoltativi, quasi a sminuirne l’importanza, di fronte ai cd. “organi politici”, i quali, se non correttamente illuminati possono fruire dell’esimente della buona fede nelle proprie decisioni.
Infatti, si è giustamente rilevato che i pareri ex art. 53 l. 08.06.1990 n. 142 (oggi art. 49 t.u.e.l.) resi dal responsabile del servizio, dal responsabile del settore ragioneria e dal segretario comunale sui progetti di deliberazioni spettanti ai corpi rappresentativi del comune, non pongono alcun limite alla potestà deliberante di questi ultimi -i quali ben possono liberamente disporre del contenuto delle deliberazioni una volta resi detti pareri- perché, diversamente argomentando, si finirebbe con l'attribuire agli organi consultivi l'effettivo potere d'amministrazione attiva, lasciando ai corpi rappresentativi la funzione di mera ratifica di determinazioni altrui, ma questi sono unicamente preordinati all'individuazione sul piano formale, nei funzionari che li formulano, della responsabilità eventualmente in solido con i componenti degli organi politici in via amministrativa e contabile.
La giurisprudenza della Corte dei conti ha più volte chiarito che l'intervenuta soppressione, ai sensi dell'art. 17, co. 85° della legge citata, del parere di legittimità del segretario (comunale o provinciale) su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla giunta o al consiglio, già previsto dall'art. 53 della L. n. 142/1990, non esclude che permangano in capo al Segretario tutta una serie di compiti ed adempimenti che, lungi dal determinare un'area di deresponsabilizzazione del medesimo, lo impegnano, invece, ad un corretto svolgimento degli stessi, pena la sua soggezione, in ragione del rapporto di servizio instaurato con l'ente locale, all'azione di responsabilità amministrativa, ove di questa ricorrano gli specifici presupposti.
Ciò in quanto il suddetto, ai sensi dell'art. 17 della L. 127/1997 e, successivamente, dell'art. 97 D.Lgvo 18.08.2000, n. 267 mantiene la specifica funzione ausiliaria di garante della legalità e correttezza amministrativa dell'azione dell'ente locale. Infatti il T.U. n. 267/2000 ha assegnato al Segretario dell'ente locale, in linea generale, oltre agli altri compiti indicati all'art. 97 del T.U. citato, le "funzioni di collaborazione e di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti" e quelle di "sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e di coordinarne l'attività".
Nondimeno la suddetta modifica normativa non esclude che il Segretario comunale, proprio in virtù di tali specifici compiti di consulenza giuridico-amministrativa, possa -ed ove richiestone, debba- comunque rendere il proprio parere in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, agli statuti ed ai regolamenti e che del parere reso debba rispondere in via amministrativa, in adesione ad un principio generale, operante a prescindere dalla natura obbligatoria o facoltativa del parere espresso.
In altri termini l'affidamento, alla stregua della previsione normativa di cui all'art. 97 T.U. 18.08.2000, n. 267, al Segretario comunale di funzioni di assistenza e di collaborazione giuridica ed amministrativa di tutti gli organi dell'ente locale assorbe, in qualche guisa, lo specifico compito, dianzi espressamente previsto dall'art. 53 L. 08.06.1990 n. 142, di esprimere un previo parere di legittimità sulle deliberazioni di giunta; di tal che l'evoluzione normativa in materia ben lungi dall'evidenziare una sottrazione del già citato Segretario alla responsabilità amministrativa ne ha invece sottolineato le maggiori responsabilità in ragione della rilevata estensione delle funzioni.
Se può certamente convenirsi sul rilievo che il legislatore non attribuisce alcun potere discrezionale e di merito al responsabile del servizio finanziario in sede di espressione del parere di regolarità contabile, non può di converso consentirsi sull'assunto difensivo per cui ne esulerebbe qualunque accertamento sulla legittimità della spesa.
Contrariamente all'assunto difensivo, il parere di regolarità contabile investa anche e soprattutto la legittimità della spesa.
Depone, in tal senso:
- il rilievo che il comb. disp. di cui agli artt. 49, secondo comma, e 97, quarto comma, lett. b), D.Lgs. 267/2000, per il caso "in cui l'ente non abbia i responsabili dei servizi", demanda l'espressione del parere di cui all'art. 49 (e, pertanto, anche del parere di regolarità contabile) al segretario, "in relazione alle sue competenze", consistenti, a termini dell'art. 97, secondo comma, D.Lgs. 267/2000, nello svolgimento di "compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in ordine alla conformità delle leggi, allo statuto ed ai regolamenti", sicché se ne desume che il parere di regolarità contabile deve comprendere non solo l'attestazione della copertura finanziaria della spesa, ossia la sua imputazione alla pertinente partizione del bilancio ed il riscontro della capienza del relativo stanziamento, ma debba aver riguardo a tutti i profili propriamente attinenti alla legittimità della spesa;
- la considerazione che, a termini dell'art. 184, quarto comma, D.Lgs. 267/2000, il servizio finanziario -cui è preposto il ragioniere cui il precedente l'art. 49 demanda l'espressione del parere di regolarità contabile- deve effettuare "secondo i principi e le procedure della contabilità pubblica, i controlli e riscontri amministrativi, contabili e fiscali sugli atti di liquidazione", e che, come è dato evincere dall'art. 147, primo comma, lett. a), D.Lgs. cit., in tema di controlli interni, la regolarità amministrativa e contabile, oggetto dei controlli e dei riscontri demandati al servizio finanziario, si identifica con "la legittimità, regolarità e correttezza dell'azione amministrativa", sicché sarebbe evidentemente incongrua un'interpretazione per cui, in sede di espressione del parere di regolarità contabile di cui all'art. 49 D.Lgs. cit., che si colloca a monte delle fasi di gestione della spesa pubblica, il responsabile del servizio finanziario non fosse tenuto ad evidenziare l'illegittimità della spesa oggetto della proposta di deliberazione;
- il rilievo che l'art. 27 R.D. 2240/1923 (L.C.G.S.) -che, riferendosi alle Amministrazioni dello Stato, ben può essere considerato espressione di un principio generale in subiecta materia- prevede che le ragionerie centrali (oggi uffici centrali di bilancio) vigilino "perché siano osservate le leggi”) per la regolare gestione dei fondi di bilancio", per cui evidentemente il parametro di riscontro non è costituito dalla sola legge (formale) di bilancio ma dalle "leggi" e, pertanto, anche da tutte le leggi (sostanziali) che disciplinano l'effettuazione delle spese dello Stato.
Né, in contrario, può argomentarsi dalla circostanza che, ove il parere di regolarità contabile investisse anche la legittimità della spesa, potrebbe verificarsi (in specie nelle ipotesi in cui il responsabile del servizio, competente ad esprimere il "parere di regolarità tecnica", fosse investito di competenze più propriamente amministrative che tecniche) una possibile "sovrapposizione di competenza", con le conseguenze -paventate dalla difesa del C.- di una "confusione di ruoli e, soprattutto, di responsabilità".
Non v'è chi non veda, infatti, che la circostanza che, con riferimento alle proposte di deliberazioni comportanti impegni di spesa o diminuzioni di entrata e, pertanto, aventi effetti finanziari, i pareri di regolarità tecnica del responsabile del servizio ed il parere di regolarità contabile del responsabile di ragioneria possano investire entrambi, se del caso in termini discordanti, la legittimità della deliberazione proposta, lungi dal costituire fonte di alcun preteso inconveniente, consente all'organo collegiale di adottare le proprie deliberazioni, aventi implicazioni finanziarie, con una maggiore "cognizione di causa", in punto di legittimità degli adottandi provvedimenti.
D'altro canto, l'interpretazione nel senso che il parere di regolarità contabile, previsto per le delibere comportanti effetti finanziari, non debba investire anche la legittimità della proposta deliberazione, è in palese contrasto con l'esigenza che, con riferimento alle suddette delibere, siano opportunamente -e sistematicamente- evidenziati all'organo collegiale, a garanzia della legalità dell'azione amministrativa (cfr. art. 1, primo comma, L. 241/1990), eventuali profili di illegittimità.
Alla luce delle suesposte considerazioni, deve ritenersi che il parere di regolarità contabile investa necessariamente anche la legittimità delle deliberazioni proposte (si veda C. Conti reg. Puglia, sez. giurisd., 01.03.2006, n. 207).
A fortiori, quanto detto acquista valore in relazione alla responsabilità del segretario generale, dott.ssa R.A..
Il Segretario (comunale o provinciale), ai sensi dell'art. 17 l. n. 127 del 1997 e, successivamente, dell'art. 97 d.lgs. 18.08.2000 n. 267, mantiene la specifica funzione ausiliaria di garante della legalità e correttezza amministrativa dell'azione dell'ente locale; infatti, il t.u.e.l. ha assegnato al segretario dell'ente locale, in linea generale, otre agli altri compiti indicati all'art. 97 t.u., cit., le "funzioni di collaborazione e di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti" e quelle di "sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e di coordinarne l'attività"; pertanto non può dubitarsi del fatto che il Segretario comunale abbia il preciso obbligo giuridico di segnalare agli amministratori le illegittimità contenute negli emanandi provvedimenti, al fine di impedire atti e comportamenti illegittimi forieri di danno erariale; altrimenti opinando, potrebbe l'amministratore pubblico contare sull'inerzia o sul silenzio di chi è preposto per legge al controllo della legalità dell'azione amministrativa; e in mancanza, deve essere ritenuto responsabile a titolo di concorso omissivo colposo nella causazione del fatto dannoso contestato (Corte Conti sez. II, 02.07.2009).
Inoltre non può sottacersi che la dr.ssa A. rivestiva anche il ruolo di Direttore generale, ciò che incrementava i suoi poteri di indagine e vigilanza e, correlativamente, le sue responsabilità; non vale obiettare che i pareri da rendere, secondo la normativa vigente sono facoltativi, quasi a sminuirne l’importanza, di fronte ai cd. “organi politici”, i quali, se non correttamente illuminati possono fruire dell’esimente della buona fede nelle proprie decisioni.
Infatti, si è giustamente rilevato che i pareri ex art. 53 l. 08.06.1990 n. 142 (oggi art. 49 t.u.e.l.) resi dal responsabile del servizio, dal responsabile del settore ragioneria e dal segretario comunale sui progetti di deliberazioni spettanti ai corpi rappresentativi del comune, non pongono alcun limite alla potestà deliberante di questi ultimi -i quali ben possono liberamente disporre del contenuto delle deliberazioni una volta resi detti pareri- perché, diversamente argomentando, si finirebbe con l'attribuire agli organi consultivi l'effettivo potere d'amministrazione attiva, lasciando ai corpi rappresentativi la funzione di mera ratifica di determinazioni altrui, ma questi sono unicamente preordinati all'individuazione sul piano formale, nei funzionari che li formulano, della responsabilità eventualmente in solido con i componenti degli organi politici in via amministrativa e contabile (Consiglio di Stato Sezione V 25.05.1998 n. 680; TAR Campania Napoli, sez. III, 19.09.2007, n. 7878; TAR Campania Napoli, sez. I, 09.03.2009, n. 1320).
Al riguardo questo Giudice deve precisare che la giurisprudenza della Corte dei conti ha più volte chiarito che l'intervenuta soppressione, ai sensi dell'art. 17, co. 85° della legge citata, del parere di legittimità del segretario (comunale o provinciale) su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla giunta o al consiglio, già previsto dall'art. 53 della L. n. 142/1990, non esclude che permangano in capo al Segretario tutta una serie di compiti ed adempimenti che, lungi dal determinare un'area di deresponsabilizzazione del medesimo, lo impegnano, invece, ad un corretto svolgimento degli stessi, pena la sua soggezione, in ragione del rapporto di servizio instaurato con l'ente locale, all'azione di responsabilità amministrativa, ove di questa ricorrano gli specifici presupposti.
Ciò in quanto il suddetto, ai sensi dell'art. 17 della L. 127/1997 e, successivamente, dell'art. 97 D.Lgvo 18.08.2000, n. 267 mantiene la specifica funzione ausiliaria di garante della legalità e correttezza amministrativa dell'azione dell'ente locale. Infatti il T.U. n. 267/2000 ha assegnato al Segretario dell'ente locale, in linea generale, oltre agli altri compiti indicati all'art. 97 del T.U. citato, le "funzioni di collaborazione e di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti" e quelle di "sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e di coordinarne l'attività".
Nondimeno la suddetta modifica normativa non esclude che il Segretario comunale, proprio in virtù di tali specifici compiti di consulenza giuridico-amministrativa, possa -ed ove richiestone, debba- comunque rendere il proprio parere in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, agli statuti ed ai regolamenti e che del parere reso debba rispondere in via amministrativa, in adesione ad un principio generale, operante a prescindere dalla natura obbligatoria o facoltativa del parere espresso (Sez. II Centr. 17.03.2004, n. 88/A; 23.06.2004, n. 197/A; Sez. Giur.le Puglia, 08.07.2003, n. 594).
In altri termini l'affidamento, alla stregua della previsione normativa di cui all'art. 97 T.U. 18.08.2000, n. 267, al Segretario comunale di funzioni di assistenza e di collaborazione giuridica ed amministrativa di tutti gli organi dell'ente locale assorbe, in qualche guisa, lo specifico compito, dianzi espressamente previsto dall'art. 53 L. 08.06.1990 n. 142, di esprimere un previo parere di legittimità sulle deliberazioni di giunta; di tal che l'evoluzione normativa in materia ben lungi dall'evidenziare una sottrazione del già citato Segretario alla responsabilità amministrativa ne ha invece sottolineato le maggiori responsabilità in ragione della rilevata estensione delle funzioni (Corte Conti, sez. I centrale d'appello, 07.04.2008, n. 154)
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Toscana, sentenza 25.03.2010 n. 114 - link a www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALILa c.d. "scriminante politica" non è applicabile nelle materie riservate agli organi di governo, nelle quali gli uffici amministrativi e tecnici della struttura abbiano espletato funzioni istruttorie o consultive e comunque di mero supporto strumentale; oppure, è esclusa quando l'evidenza dell'erroneità dell'atto sia stata tale da escludere qualsiasi buona fede.
Anche nel caso di specie, la competenza a deliberare in materia di debiti fuori bilancio era atto rientrante nelle attribuzioni degli organi di governo deliberanti e, in quanto tale, non è ad esso applicabile la scriminante politica.
Nel caso in giudizio, la competenza a deliberare o era atto rientrante nelle attribuzioni degli organi di governo deliberanti e, in quanto tale, non è ad esso applicabile la scriminante politica (Corte Conti, sez. I, 07.04.2008, n. 154) o, senza esclusione di responsabilità, si deve ravvedere un’intromissione nelle competenze dirigenziali con assunzione delle responsabilità e delle competenze professionali ad essi inerenti.
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Il Sindaco, e l’assessore da lui delegato (cfr. C. Conti, sez. Liguria 18.06.2002 n. 414: I poteri di sovrintendenza al funzionamento dei servizi e degli uffici ed all'esecuzione degli atti, spettano, invece, agli assessori che hanno ricevuto la delega dal Sindaco per determinati settori. Gli stessi, limitatamente al settore cui sono preposti, vengono infatti a trovarsi, sotto tale profilo, nella medesima posizione del sindaco ed hanno pertanto il dovere giuridico di assumere le iniziative necessarie a stimolare gli organi dotati di poteri di impulso -nella specie il Sindaco il solo depositario del potere di iniziativa- e di formulare le proposte afferenti la propria branca amministrativa") in quanto sovrintende, a norma dell'art. 50 t.u. n. 267/2000, al funzionamento degli uffici e dei servizi comunali, ha il dovere d'intervenire in caso di manchevolezze, attivando le opportune misure correttive Autorità.
Va ricordato, che, a norma dell’art. 50 del TUEL, il Sindaco è responsabile dell’amministrazione del comune. Nell’ambito di questa responsabilità vi è quella politica, esterna (di rappresentanza), ma anche quella interna per cui detto Organo sovrintende al funzionamento degli uffici ed all’esecuzione degli atti. E’ termine che nel TUEL compare anche in relazione al Segretario generale ed al Direttore generale, con riferimento all’operato dei dirigenti ed alla gestione dell’ente.
L’espressione ha una semantica “lato sensu” direzionale, di sorveglianza e di alta vigilanza. A ciò si ricollega la norma, contenuta nell'art. 50 comma 8, d.lgs. 08.08.2000 n. 267, che non si limita a fissare, nella materia, le attribuzioni del sindaco e del presidente della provincia, ma definisce anche la regola, di portata generale (e prevalente sulle norme statutarie anteriori dei diversi enti, aziende e istituzioni, che eventualmente stabilissero in senso difforme), secondo cui le nomine e le designazioni di rappresentanti delle amministrazioni locali presso altri enti, rispettivamente, di competenza del sindaco e del presidente della provincia, devono considerarsi di carattere fiduciario, nel senso che riflettono il giudizio di affidabilità espresso attraverso la nomina, ovvero la fiducia sulla capacità del nominato di rappresentare gli indirizzi di chi l'ha designato, orientando l'azione dell'organismo nel quale si trova ad operare in senso quanto più possibile conforme agli interessi di chi gli ha conferito l'incarico; ne consegue, che pur comportando una scelta nell'ambito dei soggetti ritenuti idonei tra quelli che hanno proposto la loro candidatura, il provvedimento in questione si caratterizza, non già come mero giudizio conseguente all'individuazione del candidato tecnicamente più qualificato, bensì come giudizio sulle qualità del nominato ed espressione della volontà di presceglierlo per la ritenuta maggiore affidabilità che lo stesso garantisce rispetto all'indirizzo politico gestionale dell'amministrazione procedente. Altro ìndice di un continuo dovere di conoscere e di saper ben valutare, eventualmente, se non si hanno le piene cognizioni tecniche, da figure di ausilio. Quanto detto vale, ovviamente, anche per l’Assessore delegato.
Nel caso di specie, il Sindaco, in quanto, si ripete, che sovrintende, a norma dell'art. 50 t.u. n. 267/2000, al funzionamento degli uffici e dei servizi comunali, ed ha il dovere d'intervenire in caso di manchevolezze, attivando le opportune misure correttive poiché in caso contrario può essere chiamato a rispondere, per fatto proprio, del danno subito dall’ente, doveva accorgersi della vistosa anomalia di una richiesta di pagamento lavori formulata dopo anni, documentalmente non provata e da parte di chi non aveva avuto rappresentanza contrattuale, nei rapporti intrattenuti in passato, con l’ente.
È un elementare dovere del sindaco -nella sua qualità di "organo responsabile dell'amministrazione del Comune" prendere visione piena e consapevole dell'oggetto delle proprie deliberazioni; ed allora, anche in presenza di un elaborato tecnico, la c.d. "esimente politica" -prevista per gli amministratori politico/elettivi i quali si limitino ad "approvare" "atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi" (art. 1, comma 1-ter, l. n. 20/1994)- vale nei limiti in cui l'organo politico abbia approvato tali atti "in buona fede" ovvero senza alcun sospetto di irregolarità di essi ma -se si omette di far presente aspetti problematici di ciò che si va a deliberare- l'approvazione non può essere qualificata come attività svolta in buona fede, perché si corre il rischio che l'oggetto dell'approvazione attenga a qualcosa di non autorizzato dalla legge, o dagli atti di indirizzo degli stessi organi politici comunali, o contenga (come nella presente fattispecie) elementi che, in qualche modo, possano realizzare risultati contrari all'interesse pubblico.
Non può essere raccolta, in aggiunta alle altre eccezioni già confutate, quella frapposta da P. sindaco di Pomarance all’epoca dei fatti, e G., assessore ai lavori pubblici, i quali invocano la cd. esimente delle “buona fede” di cui all’art. 1 della L. 10 del 1994 che non rende punibili gli organi politici che, in buona fede, abbiano approvato o dato l’assenso all’operato degli uffici tecnici.
Giurisprudenza pacifica afferma che la c.d. "scriminante politica" non è applicabile nelle materie riservate agli organi di governo, nelle quali gli uffici amministrativi e tecnici della struttura abbiano espletato funzioni istruttorie o consultive e comunque di mero supporto strumentale; oppure, è esclusa quando l'evidenza dell'erroneità dell'atto sia stata tale da escludere qualsiasi buona fede (Sez. II centr., n. 29/A del 03.02.1999; n. 303/A del 03.11.2003; Sez. Lazio, n. 2087 del 12.10.2005; Sez. Lombardia, n. 323 del 06.03.2003).
Anche nel caso di specie, la competenza a deliberare in materia di debiti fuori bilancio era atto rientrante nelle attribuzioni degli organi di governo deliberanti e, in quanto tale, non è ad esso applicabile la scriminante politica (Corte Conti, sez. I, 07.04.2008, n. 154). Nel caso in giudizio, la competenza a deliberare o era atto rientrante nelle attribuzioni degli organi di governo deliberanti e, in quanto tale, non è ad esso applicabile la scriminante politica (Corte Conti, sez. I, 07.04.2008, n. 154) o, senza esclusione di responsabilità, si deve ravvedere un’intromissione nelle competenze dirigenziali con assunzione delle responsabilità e delle competenze professionali ad essi inerenti.
Ciò, peraltro, anche sottolineando la macroscopicità dell’errore, coinvolge la responsabilità degli altri membri della Giunta.
Va aggiunto che il Sindaco, e l’assessore da lui delegato (cfr. C. Conti, sez. Liguria 18.06.2002 n. 414: I poteri di sovrintendenza al funzionamento dei servizi e degli uffici ed all'esecuzione degli atti, spettano, invece, agli assessori che hanno ricevuto la delega dal Sindaco per determinati settori. Gli stessi, limitatamente al settore cui sono preposti, vengono infatti a trovarsi, sotto tale profilo, nella medesima posizione del sindaco ed hanno pertanto il dovere giuridico di assumere le iniziative necessarie a stimolare gli organi dotati di poteri di impulso -nella specie il Sindaco il solo depositario del potere di iniziativa- e di formulare le proposte afferenti la propria branca amministrativa") in quanto sovrintende, a norma dell'art. 50 t.u. n. 267/2000, al funzionamento degli uffici e dei servizi comunali, ha il dovere d'intervenire in caso di manchevolezze, attivando le opportune misure correttive Autorità (C. Conti reg. Trentino Alto Adige sez. giurisd. 16.03.2009 n. 18).
Va ricordato, che, a norma dell’art. 50 del TUEL, il Sindaco è responsabile dell’amministrazione del comune. Nell’ambito di questa responsabilità vi è quella politica, esterna (di rappresentanza), ma anche quella interna per cui detto Organo sovrintende al funzionamento degli uffici ed all’esecuzione degli atti. E’ termine che nel TUEL compare anche in relazione al Segretario generale ed al Direttore generale, con riferimento all’operato dei dirigenti ed alla gestione dell’ente.
L’espressione ha una semantica “lato sensu” direzionale, di sorveglianza e di alta vigilanza. A ciò si ricollega la norma, contenuta nell'art. 50 comma 8, d.lgs. 08.08.2000 n. 267, che non si limita a fissare, nella materia, le attribuzioni del sindaco e del presidente della provincia, ma definisce anche la regola, di portata generale (e prevalente sulle norme statutarie anteriori dei diversi enti, aziende e istituzioni, che eventualmente stabilissero in senso difforme), secondo cui le nomine e le designazioni di rappresentanti delle amministrazioni locali presso altri enti, rispettivamente, di competenza del sindaco e del presidente della provincia, devono considerarsi di carattere fiduciario, nel senso che riflettono il giudizio di affidabilità espresso attraverso la nomina, ovvero la fiducia sulla capacità del nominato di rappresentare gli indirizzi di chi l'ha designato, orientando l'azione dell'organismo nel quale si trova ad operare in senso quanto più possibile conforme agli interessi di chi gli ha conferito l'incarico; ne consegue, che pur comportando una scelta nell'ambito dei soggetti ritenuti idonei tra quelli che hanno proposto la loro candidatura, il provvedimento in questione si caratterizza, non già come mero giudizio conseguente all'individuazione del candidato tecnicamente più qualificato, bensì come giudizio sulle qualità del nominato ed espressione della volontà di presceglierlo per la ritenuta maggiore affidabilità che lo stesso garantisce rispetto all'indirizzo politico gestionale dell'amministrazione procedente (TAR Puglia Bari, sez. II, 15.05.2006, n. 1759). Altro ìndice di un continuo dovere di conoscere e di saper ben valutare, eventualmente, se non si hanno le piene cognizioni tecniche, da figure di ausilio. Quanto detto vale, ovviamente, anche per l’Assessore delegato.
Nel caso di specie, il Sindaco, in quanto, si ripete, che sovrintende, a norma dell'art. 50 t.u. n. 267/2000, al funzionamento degli uffici e dei servizi comunali, ed ha il dovere d'intervenire in caso di manchevolezze, attivando le opportune misure correttive poiché in caso contrario può essere chiamato a rispondere, per fatto proprio, del danno subito dall’ente, doveva accorgersi della vistosa anomalia di una richiesta di pagamento lavori formulata dopo anni, documentalmente non provata e da parte di chi non aveva avuto rappresentanza contrattuale, nei rapporti intrattenuti in passato, con l’ente.
È un elementare dovere del sindaco -nella sua qualità di "organo responsabile dell'amministrazione del Comune" prendere visione piena e consapevole dell'oggetto delle proprie deliberazioni; ed allora, anche in presenza di un elaborato tecnico, la c.d. "esimente politica" -prevista per gli amministratori politico/elettivi i quali si limitino ad "approvare" "atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi" (art. 1, comma 1-ter, l. n. 20/1994)- vale nei limiti in cui l'organo politico abbia approvato tali atti "in buona fede" ovvero senza alcun sospetto di irregolarità di essi ma -se si omette di far presente aspetti problematici di ciò che si va a deliberare- l'approvazione non può essere qualificata come attività svolta in buona fede, perché si corre il rischio che l'oggetto dell'approvazione attenga a qualcosa di non autorizzato dalla legge, o dagli atti di indirizzo degli stessi organi politici comunali, o contenga (come nella presente fattispecie) elementi che, in qualche modo, possano realizzare risultati contrari all'interesse pubblico
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Toscana, sentenza 25.03.2010 n. 114 - link a www.corteconti.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'intervenuta soppressione, ai sensi dell'art. 17, co. 85° della legge 127/1997, del parere di legittimità del segretario (comunale o provinciale) su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla giunta o al consiglio, già previsto dall'art. 53 della L. n. 142/1990, non esclude che permangano in capo al Segretario tutta una serie di compiti ed adempimenti che, lungi dal determinare un'area di deresponsabilizzazione del medesimo, lo impegnano, invece, ad un corretto svolgimento degli stessi, pena la sua soggezione, in ragione del rapporto di servizio instaurato con l'ente locale, all'azione di responsabilità amministrativa, ove di questa ricorrano gli specifici presupposti.
Ciò in quanto il suddetto, ai sensi dell'art. 17 della L. 127/1997 e, successivamente, dell'art. 97 D.Lgvo 18.08.2000, n. 267 mantiene la specifica funzione ausiliaria di garante della legalità e correttezza amministrativa dell'azione dell'ente locale. Infatti il T.U. n. 267/2000 ha assegnato al Segretario dell'ente locale, in linea generale, oltre agli altri compiti indicati all'art. 97 del T.U. citato, le “funzioni di collaborazione e di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti” e quelle di “sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e di coordinarne l'attività”.
Nondimeno la suddetta modifica normativa non esclude che il Segretario comunale, proprio in virtù di tali specifici compiti di consulenza giuridico-amministrativa, possa -ed ove richiestone, debba- comunque rendere il proprio parere in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, agli statuti ed ai regolamenti e che del parere reso debba rispondere in via amministrativa, in adesione ad un principio generale, operante a prescindere dalla natura obbligatoria o facoltativa del parere espresso.
In altri termini l'affidamento, alla stregua della previsione normativa di cui all'art. 97 T.U. 18.08.2000, n. 267, al Segretario comunale di funzioni di assistenza e di collaborazione giuridica ed amministrativa di tutti gli organi dell'ente locale assorbe, in qualche guisa, lo specifico compito, dianzi espressamente previsto dall'art. 53 L. 08.06.1990 n. 142, di esprimere un previo parere di legittimità sulle deliberazioni di giunta; di tal che l'evoluzione normativa in materia ben lungi dall'evidenziare una sottrazione del già citato Segretario alla responsabilità amministrativa ne ha invece sottolineato le maggiori responsabilità in ragione della rilevata estensione delle funzioni.
Il Segretario comunale, signor R.F., ha prospettato l'intervenuta abrogazione, con l'entrata in vigore del comma 85 dell'art. 17 della legge n. 127/1997, dell'art. 53 della Legge n. 142/1990 che poneva in capo al Segretario dell'ente locale l'obbligo di esprimere il parere di legittimità sulle deliberazioni dell'Ente; per cui attualmente residuerebbe a suo carico solo l'attività di verifica che la “cosa pubblica” sia gestita in conformità ai criteri espressi nella stessa legge n. 127/1997, non più in un'ottica di controllo dei singoli atti, bensì di collaborazione con gli organi dell'Ente nel rispetto delle norme, sia statali che locali, poste dall'ordinamento giuridico.
Al riguardo questo Giudice deve precisare che la giurisprudenza della Corte dei conti ha più volte chiarito che l'intervenuta soppressione, ai sensi dell'art. 17, co. 85° della legge citata, del parere di legittimità del segretario (comunale o provinciale) su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla giunta o al consiglio, già previsto dall'art. 53 della L. n. 142/1990, non esclude che permangano in capo al Segretario tutta una serie di compiti ed adempimenti che, lungi dal determinare un'area di deresponsabilizzazione del medesimo, lo impegnano, invece, ad un corretto svolgimento degli stessi, pena la sua soggezione, in ragione del rapporto di servizio instaurato con l'ente locale, all'azione di responsabilità amministrativa, ove di questa ricorrano gli specifici presupposti.
Ciò in quanto il suddetto, ai sensi dell'art. 17 della L. 127/97 e, successivamente, dell'art. 97 D.Lgvo 18.08.2000, n. 267 mantiene la specifica funzione ausiliaria di garante della legalità e correttezza amministrativa dell'azione dell'ente locale. Infatti il T.U. n. 267/2000 ha assegnato al Segretario dell'ente locale, in linea generale, oltre agli altri compiti indicati all'art. 97 del T.U. citato, le “funzioni di collaborazione e di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti” e quelle di “sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e di coordinarne l'attività”.
Nondimeno la suddetta modifica normativa non esclude che il Segretario comunale, proprio in virtù di tali specifici compiti di consulenza giuridico-amministrativa, possa -ed ove richiestone, debba- comunque rendere il proprio parere in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, agli statuti ed ai regolamenti e che del parere reso debba rispondere in via amministrativa, in adesione ad un principio generale, operante a prescindere dalla natura obbligatoria o facoltativa del parere espresso (Sez. II Centr. 17.03.2004, n. 88/A; 23.06.2004, n. 197/A; Sez. Giur.le Puglia, 08.07.2003, n. 594).
In altri termini l'affidamento, alla stregua della previsione normativa di cui all'art. 97 T.U. 18.08.2000, n. 267, al Segretario comunale di funzioni di assistenza e di collaborazione giuridica ed amministrativa di tutti gli organi dell'ente locale assorbe, in qualche guisa, lo specifico compito, dianzi espressamente previsto dall'art. 53 L. 08.06.1990 n. 142, di esprimere un previo parere di legittimità sulle deliberazioni di giunta; di tal che l'evoluzione normativa in materia ben lungi dall'evidenziare una sottrazione del già citato Segretario alla responsabilità amministrativa ne ha invece sottolineato le maggiori responsabilità in ragione della rilevata estensione delle funzioni.
Nel caso di specie, peraltro, il signor F. era ugualmente tenuto ad esprimere il parere di legittimità ai sensi delle disposizioni contenute negli Statuti del Comune di Segrate che, negli anni interessati, regolamentavano la vita del Comune e la funzione degli organi. In particolare l'art. 87 dello statuto approvato con deliberazione del C.C. n. 20 del 1994 prevedeva, fra le funzioni del Segretario, quella di “esprimere il preventivo parere di legittimità su ogni proposta di deliberazione sottoposta a Giunta Comunale e Consiglio Comunale”; di adottare i provvedimenti necessari per il conseguimento dei risultati dell'azione amministrativa secondo principi di economicità, efficienza ed efficacia; di assumere i provvedimenti organizzativi per garantire il diritto di accesso dei consiglieri e dei cittadini agli atti e alle informazioni.
Gli articoli 17, comma 6 e 77, comma 5 dello Statuto approvato con deliberazioni del C.C. n. 97 dell'11.12.1998 e n. 16 dell'11.02.1999 prevedevano altresì che ogni proposta di deliberazione sottoposta al Consiglio dovesse essere corredata dal “parere del Segretario Comunale sotto il profilo della legittimità” e che il medesimo collaborasse, anche con l'espressione di pareri li legittimità, con gli organi del Comune.
Pertanto il signor F. era tenuto all'osservanza degli obblighi che derivavano, oltre che dalla legge, anche dalle disposizioni statutarie, e quindi a lui comunque competeva rendere il prescritto parere di legittimità in ordine alle deliberazioni degli organi dell'Ente locale.
Correttamente, pertanto, i primi giudici hanno censurato il comportamento illecito del Segretario comunale il quale, presente ad entrambe le delibere con cui si è disposto il raddoppio dell'indennità, ed esplicitamente interpellato da alcuni Consiglieri, come emerge dal verbale della seduta del dicembre 1997, ha deliberatamente omesso di segnalare la illegittimità, nella specie, della concessione del suddetto beneficio.
Da ultimo rileva il Collegio che il comportamento del signor F. appare ancor più biasimevole alla luce delle dichiarazioni fatte dal medesimo nelle deduzioni all'invito e in occasione dell'audizione personale, dalle quali emerge con evidenza la natura determinante del suo intervento nella seduta del Consiglio comunale deputato all'approvazione del citato beneficio.
Egli ha infatti dichiarato al Procuratore regionale, con raccomandata in data 05.04.2004: “Prima del Consiglio Comunale il sindaco dr. B.C. mi chiese di esprimere per iscritto il mio parere in proposito; detto parere da me reso puntuale ed approfondito era negativo ed esprimeva quanto da diverse parti è emerso, e cioè che il dr. C., nella sua posizione di pensionato, e con i piccoli incarichi di componente di alcuni Consigli di Amministrazione non aveva diritto al raddoppio dell'indennità. Non nascondo che la cosa non fu certamente ben accolta dal Sindaco e ciò non produsse certo buoni rapporti”.
Siffatte ammissioni, confermate nel verbale di audizione personale del 20 aprile 2004, dimostrano quindi che il F. era perfettamente consapevole della assoluta carenza dei presupposti normativi per concedere il raddoppio dell'indennità e della natura non veritiera delle dichiarazioni contenute negli atti notori rilasciati dal Sindaco COLLE; malgrado ciò egli intervenne nelle sedute del Consiglio in maniera determinante, fugando i dubbi dei Consiglieri con considerazioni assolutamente tranquillizzanti.
Per tali motivi ritiene questo giudice di dover pienamente confermare, nei confronti del signor F., il verdetto di responsabilità pronunciato dai primi giudici (Corte dei Conti, Sez. I centrale d' appello, sentenza 07.04.2008 n. 154 - link a www.corteconti.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl parere di regolarità contabile investe anche e soprattutto la legittimità della spesa e depone in tal senso:
- il rilievo che il comb. disp. di cui agli artt. 49, secondo comma, e 97, quarto comma, lett. b), D.Lgs. 267/2000, per il caso “in cui l'ente non abbia i responsabili dei servizi”, demanda l'espressione del parere di cui all'art. 49 (e, pertanto, anche del parere di regolarità contabile) al segretario, “in relazione alle sue competenze”, consistenti, a termini dell'art. 97, secondo comma, D.Lgs. 267/2000, nello svolgimento di “compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in ordine alla conformità delle leggi, allo statuto ed ai regolamenti“, sicché se ne desume che il parere di regolarità contabile deve comprendere non solo l'attestazione della copertura finanziaria della spesa, ossia la sua imputazione alla pertinente partizione del bilancio ed il riscontro della capienza del relativo stanziamento, ma debba aver riguardo a tutti i profili propriamente attinenti alla legittimità della spesa;
- la considerazione che, a termini dell'art. 184, quarto comma, D.Lgs. 267/2000, il servizio finanziario -cui è preposto il ragioniere cui il precedente l'art. 49 demanda l'espressione del parere di regolarità contabile- deve effettuare “secondo i principi e le procedure della contabilità pubblica, i controlli e riscontri amministrativi, contabili e fiscali sugli atti di liquidazione”, e che, come è dato evincere dall'art. 147, primo comma, lett. a), D.Lgs. cit., in tema di controlli interni, la regolarità amministrativa e contabile, oggetto dei controlli e dei riscontri demandati al servizio finanziario, si identifica con “la legittimità, regolarità e correttezza dell'azione amministrativa”, sicché sarebbe evidentemente incongrua un'interpretazione per cui, in sede di espressione del parere di regolarità contabile di cui all'art. 49 D.Lgs. cit., che si colloca a monte delle fasi di gestione della spesa pubblica, il responsabile del servizio finanziario non fosse tenuto ad evidenziare l'illegittimità della spesa oggetto della proposta di deliberazione;
- il rilievo che l'art. 27 R.D. 2240/1923 (L.C.G.S.) -che, riferendosi alle Amministrazioni dello Stato, ben può essere considerato espressione di un principio generale in subiecta materia- prevede che le ragionerie centrali (oggi uffici centrali di bilancio) vigilino “perché siano osservate le leggi….c) per la regolare gestione dei fondi di bilancio”, per cui evidentemente il parametro di riscontro non è costituito dalla sola legge (formale) di bilancio ma dalle “leggi” e, pertanto, anche da tutte le leggi (sostanziali) che disciplinano l'effettuazione delle spese dello Stato.

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L'interpretazione che il parere di regolarità contabile, previsto per le delibere comportanti effetti finanziari, non debba investire anche la legittimità della proposta deliberazione, è in palese contrasto con l'esigenza che, con riferimento alle suddette delibere, siano opportunamente -e sistematicamente- evidenziati all'organo collegiale, a garanzia della legalità dell'azione amministrativa (cfr. art. 1, primo comma, L. 241/1990), eventuali profili di illegittimità.
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Reputa la Sezione che quando vertesi in ipotesi di determinazione del responsabile del servizio di impegno di spesa meramente esecutiva e consequenziale rispetto a delibera di giunta o di consiglio, il visto di regolarità contabile, non potendo investire la presupposta delibera dell'organo collegiale (in relazione alla quale avrebbe dovuto essere acquisito il parere di regolarità contabile ex art. 49, primo comma, D.Lgs. 267/2000) si risolva e si esaurisca nella sola attestazione della copertura finanziaria.

Reputa, infatti, la Sezione che, contrariamente all'assunto difensivo, il parere di regolarità contabile investa anche e soprattutto la legittimità della spesa.
Depone, in tal senso:
- il rilievo che il comb. disp. di cui agli artt. 49, secondo comma, e 97, quarto comma, lett. b), D.Lgs. 267/2000, per il caso “in cui l'ente non abbia i responsabili dei servizi”, demanda l'espressione del parere di cui all'art. 49 (e, pertanto, anche del parere di regolarità contabile) al segretario, “in relazione alle sue competenze”, consistenti, a termini dell'art. 97, secondo comma, D.Lgs. 267/2000, nello svolgimento di “compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in ordine alla conformità delle leggi, allo statuto ed ai regolamenti“, sicché se ne desume che il parere di regolarità contabile deve comprendere non solo l'attestazione della copertura finanziaria della spesa, ossia la sua imputazione alla pertinente partizione del bilancio ed il riscontro della capienza del relativo stanziamento, ma debba aver riguardo a tutti i profili propriamente attinenti alla legittimità della spesa;
- la considerazione che, a termini dell'art. 184, quarto comma, D.Lgs. 267/2000, il servizio finanziario -cui è preposto il ragioniere cui il precedente l'art. 49 demanda l'espressione del parere di regolarità contabile- deve effettuare “secondo i principi e le procedure della contabilità pubblica, i controlli e riscontri amministrativi, contabili e fiscali sugli atti di liquidazione”, e che, come è dato evincere dall'art. 147, primo comma, lett. a), D.Lgs. cit., in tema di controlli interni, la regolarità amministrativa e contabile, oggetto dei controlli e dei riscontri demandati al servizio finanziario, si identifica con “la legittimità, regolarità e correttezza dell'azione amministrativa”, sicché sarebbe evidentemente incongrua un'interpretazione per cui, in sede di espressione del parere di regolarità contabile di cui all'art. 49 D.Lgs. cit., che si colloca a monte delle fasi di gestione della spesa pubblica, il responsabile del servizio finanziario non fosse tenuto ad evidenziare l'illegittimità della spesa oggetto della proposta di deliberazione;
- il rilievo che l'art. 27 R.D. 2240/1923 (L.C.G.S.) -che, riferendosi alle Amministrazioni dello Stato, ben può essere considerato espressione di un principio generale in subiecta materia- prevede che le ragionerie centrali (oggi uffici centrali di bilancio) vigilino “perché siano osservate le leggi….c) per la regolare gestione dei fondi di bilancio”, per cui evidentemente il parametro di riscontro non è costituito dalla sola legge (formale) di bilancio ma dalle “leggi” e, pertanto, anche da tutte le leggi (sostanziali) che disciplinano l'effettuazione delle spese dello Stato.
Né, in contrario, può argomentarsi dalla circostanza che, ove il parere di regolarità contabile investisse anche la legittimità della spesa, potrebbe verificarsi (in specie nelle ipotesi in cui il responsabile del servizio, competente ad esprimere il “parere di regolarità tecnica”, fosse investito di competenze più propriamente amministrative che tecniche) una possibile “sovrapposizione di competenza”, con le conseguenze -paventate dalla difesa del C.- di una “confusione di ruoli e, soprattutto, di responsabilità”.
Non v'è chi non veda, infatti, che la circostanza che, con riferimento alle proposte di deliberazioni comportanti impegni di spesa o diminuzioni di entrata e, pertanto, aventi effetti finanziari, i pareri di regolarità tecnica del responsabile del servizio ed il parere di regolarità contabile del responsabile di ragioneria possano investire entrambi, se del caso in termini discordanti, la legittimità della deliberazione proposta, lungi dal costituire fonte di alcun preteso inconveniente, consente all'organo collegiale di adottare le proprie deliberazioni, aventi implicazioni finanziarie, con una maggiore “cognizione di causa”, in punto di legittimità degli adottandi provvedimenti.
D'altro canto, l'interpretazione nel senso che il parere di regolarità contabile, previsto per le delibere comportanti effetti finanziari, non debba investire anche la legittimità della proposta deliberazione, è in palese contrasto con l'esigenza che, con riferimento alle suddette delibere, siano opportunamente -e sistematicamente- evidenziati all'organo collegiale, a garanzia della legalità dell'azione amministrativa (cfr. art. 1, primo comma, L. 241/1990), eventuali profili di illegittimità.
Alla luce delle suesposte considerazioni, deve ritenersi che il parere di regolarità contabile investa necessariamente anche la legittimità delle deliberazioni proposte.
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In disparte la questione se le considerazioni innanzi esposte, nel senso dell'estensione del parere di regolarità contabile di cui all'art. 49 D.Lgs. 207/2000 ad ogni profilo attinente alla legittimità della spesa, siano, in termini generali, parimenti valide anche con riferimento al visto di regolarità contabile di cui al successivo art. 151, quarto comma, dello stesso testo unico, ovvero debba ritenersi che quest'ultimo abbia un oggetto più ristretto, concernendo il più limitato aspetto dell'esistenza, nella partizione di bilancio indicato nel provvedimento, di sufficienti disponibilità, tenuto conto degli impegni precedentemente assunti (cfr. TAR Toscana, Sez. I, 25.02.2000 n. 369), reputa la Sezione che, quando, come nella specie, vertesi in ipotesi di determinazione del responsabile del servizio di impegno di spesa meramente esecutiva e consequenziale rispetto a delibera di giunta o di consiglio, il visto di regolarità contabile, non potendo investire la presupposta delibera dell'organo collegiale (in relazione alla quale avrebbe dovuto essere acquisito il parere di regolarità contabile ex art. 49, primo comma, D.Lgs. 267/2000) si risolva e si esaurisca nella sola attestazione della copertura finanziaria (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Puglia, sentenza 01.03.2006 n. 207 - link a www.corteconti.it).

QUESITI & PARERI

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso a documenti amministrativi da parte di un'organizzazione sindacale.
Il Comune è chiamato a valutare se, nella richiesta di accesso agli atti, formulata dal soggetto sindacale, emerga o meno un interesse specifico e diretto. Qualora, dal contenuto dell'istanza, affiori, quale ratio, l'intenzione di svolgere un completo controllo, sull'operato della pubblica amministrazione e sulla spesa da essa sostenuta al più vario titolo (spese per personale, per acquisto di beni e servizi, spese di rappresentanza e per la gestione degli organi di governo dell'ente), vieppiù in un arco temporale piuttosto esteso, la domanda di accesso andrà disattesa.
L'ente è, quindi, tenuto a vagliare se i documenti menzionati nella richiesta di accesso appaiono collegati direttamente ad una situazione giuridicamente tutelata propria del sindacato o ad una situazione propria degli iscritti al sindacato stesso. In caso contrario, la richiesta assumerà i contorni di un tentativo di controllo universale sull'operato dell'amministrazione, come tale precluso espressamente dall'art. 24, c. 3, della l. 241/1990.

L'ente precisa di aver ricevuto -da parte di un'organizzazione sindacale- istanza, finalizzata all'estrazione di copia di una serie di documenti, riferiti agli anni dal 2004 al 2011, concernenti spese per il personale, per l'acquisto di beni e servizi, per l'utilizzo di beni di terzi, per gli organi di governo, nonché spese di rappresentanza, ecc.
A giustificazione della summenzionata richiesta, l'organizzazione sindacale dichiara 'di avere e rappresentare un interesse diretto, concreto e attuale per la tutela della seguente situazione giuridicamente rilevante: analisi della spesa pubblica in funzione delle norme attuate e in via di attuazione e/o di previsione secondo la spending review della P.C.M'.
Il Comune chiede se, nel caso di specie, possa essere riconosciuto al soggetto istante il diritto di ottenere copia della documentazione richiesta.
Si effettuano, al riguardo, le seguenti osservazioni.
Si premette, anzitutto, che, indipendentemente dalla natura del diritto di accesso, esso è pur sempre strumentale rispetto alla protezione di un'ulteriore o sottesa situazione soggettiva che non necessariamente è di interesse legittimo o di diritto soggettivo, ma che può avere la consistenza di un interesse collettivo o diffuso o di un interesse semplice o di fatto [1].
Tale posizione giuridica attiva, in qualsiasi modo la si voglia qualificare, deve, tuttavia, sempre sussistere affinché la pretesa di accedere agli atti possa trovare protezione.
La predetta asserzione è valevole non solo nell'ipotesi in cui l'instante agisca in proprio, ma anche qualora la richiesta sia articolata da associazioni esponenziali, quali sono pure le organizzazioni sindacali.
Ciò posto, si rammenta, in secondo luogo, che, secondo la giurisprudenza, l'esercizio del diritto di accesso da parte delle organizzazioni sindacali non può costituire una forma di preventivo e generalizzato controllo sull'intera attività della pubblica amministrazione [2], così come previsto esplicitamente dall'articolo 24, comma 3, della legge 241/1990 [3], in base al quale non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo diffuso sull'operato dei soggetti pubblici.
Ed, invero, il Consiglio di Stato ha escluso che il legislatore riconosca alle summenzionate organizzazioni la legittimazione ed il potere di esercitare una generica verifica sull'attività amministrativa sol per essere soggetti rappresentativi di interessi, sovraindividuali, di natura sindacale. Se così fosse, la portata applicativa dell'articolo 22 della legge 241/1900 sarebbe oltremodo dilatata fino a configurare il diritto di accesso come una sorta di azione popolare, diretta a controllare in via generale e puntale l'operato degli enti pubblici [4].
L'orientamento della giustizia amministrativa è, pertanto, nel senso che il diritto di accesso non si configura mai come un'azione popolare. Al contrario, esso postula sempre un accertamento concreto dell'esistenza di un interesse differenziato della parte che richiede i documenti.
Si rammenta, inoltre, che il principio della trasparenza amministrativa, accolto dal nostro ordinamento, non è assoluto e incondizionato, ma subisce alcuni temperamenti, basati, fra l'altro, sulla limitazione dei soggetti attivi del diritto di accesso.
La posizione legittimante l'accesso è costituita da una situazione giuridicamente rilevante (comprensiva anche degli interessi diffusi) e dal collegamento qualificato tra questa posizione sostanziale e la documentazione di cui si pretende la conoscenza [5].
Con particolare riferimento alla legittimazione attiva delle organizzazioni sindacali, è stato rilevato che queste possono essere titolari di un interesse giuridicamente rilevante all'accesso di atti e documenti amministrativi, sia in relazione alla posizione di singoli iscritti, sia in relazione ad un interesse proprio, il quale sia rapportabile -secondo la terminologia giuslavoristica- ad una posizione di parte del conflitto collettivo che intercorre istituzionalmente tra sindacato e datore di lavoro e quindi, nel settore pubblico, tra sindacato e amministrazione che agisce nella veste di datore di lavoro [6].
In ogni caso, si ribadisce che la titolarità (o la rappresentatività) degli interessi diffusi non giustifica un generalizzato e pluricomprensivo diritto alla conoscenza di tutti i documenti riferiti all'attività della pubblica amministrazione [7], ma solo il più limitato diritto alla conoscenza di atti, che incidono in via diretta e immediata, e non in via meramente ipotetica e riflessa, sugli interessi del sindacato o dei propri rappresentati [8].
La sfera di legittimazione delle organizzazioni sindacali non può pertanto tradursi in iniziative di precauzionale e universale controllo dell'intera attività dell'amministrazione datrice di lavoro. Se così fosse, si darebbe luogo ad una sovrapposizione e duplicazione dei compiti e delle funzioni che sono demandati ad altri soggetti, istituzionalmente ed ordinariamente preposti a vigilare sull'operato degli enti pubblici (Corte dei Conti ma anche Procure presso i Tribunali per le ipotesi penalmente rilevanti). Tale preclusione -come già sottolineato- è espressamente codificata all'articolo 24, comma 3, della legge 241/1990.
La domanda di accesso, ancorché esplicata in esercizio delle prerogative dell'organizzazione sindacale, soggiace, quindi, al filtro dell'esistenza di un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata, che trovi collegamento nel documento che si vuole conoscere [9].
Alla stregua dei principi sopra esposti, il Comune è, pertanto, chiamato a valutare se, nella richiesta di accesso formulata dal soggetto sindacale, emerga o meno un interesse specifico e diretto.
Qualora, dal contenuto dell'istanza, affiori, quale ratio, l'intenzione di svolgere un completo controllo, sull'operato della pubblica amministrazione e sulla spesa da essa sostenuta al più vario titolo (spese per personale, per acquisto di beni e servizi, spese di rappresentanza e per la gestione degli organi di governo dell'ente), in un arco temporale piuttosto esteso (2004-2011), la domanda di accesso andrà disattesa.
L'ente è, quindi, tenuto a vagliare se i documenti menzionati nella richiesta di accesso appaiano collegati direttamente ad una situazione giuridicamente tutelata propria del sindacato o ad una situazione propria degli iscritti al sindacato stesso. In caso contrario, la richiesta assumerà i contorni di un tentativo di controllo universale sull'operato dell'amministrazione, e l'interesse -che ben potrebbe definirsi di tipo "parainvestigativo" [10]- non potrà essere identificato né con quello dell'associazione sindacale, né con quello dei singoli aderenti.
Si rammenta che, per il Consiglio di Stato, l'accesso non può essere un mezzo per compiere una indagine o un controllo ispettivo, 'cui sono ordinariamente preposti organi pubblici, perché in tal caso nella domanda di accesso è assente un diretto collegamento con specifiche situazioni giuridicamente rilevanti' [11]. Rientrerebbe, pertanto, nelle prerogative dell'organo giurisdizionale competente, in sede di giudizio contabile, vagliare la necessità di acquisire, a quei fini, la documentazione in premessa indicata.
Come già rimarcato, al fine dell'esercizio del diritto di accesso, il sindacato deve vantare un interesse, oltre che qualificato, attuale e concreto, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata che trovi collegamento nei documenti che si vuole conoscere. Tali caratteri, che condizionano l'esercizio del diritto di accesso dell'organizzazione sindacale, possono essere riconosciuti esistenti in quei casi in cui si intenda intraprendere le possibili iniziative a tutela degli interessi collettivi che si fa valere. Per ciò stesso, qualora il sindacato eserciti il diritto di accesso, motivandolo con l'esigenza di difendere gli interessi collettivi di cui è autonomo portatore, esso non potrebbe essergli negato. Non pare, tuttavia, che, per le materie in questione, si versi in una ipotesi di tutela dell'interesse della categoria, il quale, nell'ambito di una situazione rilevante e tutelabile secondo l'ordinamento giuridico, legittimerebbe l'accesso alla documentazione amministrativa.
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[1] Così, Consiglio di Stato, sez. V, 10.08.2007, n. 4411.
[2] Consiglio di Stato, sez. VI, 11.01.2010, n. 24.
[3] Nel testo novellato dall'articolo 16 della legge 15/2005.
[4] Si evidenzia, al riguardo, che la Commissione Nigro, nello schema di legge originario della 241, riconosceva il diritto di accesso a tutti i cittadini, con ciò intendendo istituire una vera e propria azione popolare, successivamente stralciata nel testo definitivamente approvato.
[5] Consiglio di Stato, 22.05.2006, n. 2959 e n. 24/2010, cit.
[6] Così, Consiglio di Stato, sez. IV, 30.12.2003, n. 9158.
[7] Così, Consiglio di Stato, sentenza n. 24/2010, cit.
[8] Alla regola espressa nel corpo del parere fa eccezione il peculiare settore dell'accesso ambientale. Del resto, anche in questa materia, nella quale maggiormente si è assistito ad una dilatazione, anzitutto legislativa, del concetto di interesse sotteso all'accesso, si è avuto modo di sottolineare in senso definitorio che 'la domanda di accesso alle informazioni ambientali può consistere anche in una generica richiesta di informazioni sulle condizioni di un determinato contesto ambientale, a condizione che questo sia specificato e che la richiesta non sia mirata ad un mero sindacato ispettivo sull'attività del Comune' (in tal senso, Consiglio di Stato, sez. VI, 16.02.2007, n. 668 e 10.02.2006, n. 555).
[9] Così, Consiglio di Stato, sez. VI, 06.03.2009, n. 1351.
[10] L'espressione si trova in Consiglio di Stato, sentenza n. 24/2010.
[11] Consiglio di Stato, sentenza n. 555/2006, richiamata da Consiglio di Stato, sentenza n. 24/2010, cit.
(08.11.2012 - link a www.regione.fvg.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI: Limiti al diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici.
Documenti di gara sono da considerarsi accessibili, salvo che si tratti di documentazione suscettibile di rivelare il know-how industriale e commerciale contenuto nelle offerte delle imprese partecipanti (art. 13, co. 5, lett. a), D.Lgs. 163/2006). Resta, peraltro, consentito l'accesso in vista della difesa in giudizio degli interessi del richiedente, previsione questa che riafferma la tendenziale prevalenza del cosiddetto accesso difensivo, sancita in via generale dall'articolo 24, comma 7, della legge 241/1990.
Il Comune chiede di conoscere un parere in materia di diritto di accesso agli atti relativamente a delle istanze avanzate da alcune società che hanno partecipato ad una gara indetta dall'Ente, già conclusa, aventi ad oggetto la richiesta di accesso al verbale di gara ed agli elaborati relativi alle offerte tecniche prodotte dalle altre società partecipanti alla procedura. In particolare, l'Ente desidera sapere in che modo garantire il diritto di accesso agli atti evitando di ledere i diritti di riservatezza e di tutela delle opere dell'ingegno delle imprese partecipanti alla gara. [1]
In materia di diritto di accesso agli atti la legge generale di riferimento è la 07.08.1990, n. 241, la quale disciplina detto istituto agli articoli 22 e seguenti.
Tale normativa, deve, ai fini della disamina della questione posta dall'Ente che ha formulato il quesito, essere coordinata con il decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, e, in particolare, con l'articolo 13 rubricato 'Accesso agli atti e divieti di divulgazione'. Tale norma, al comma 1, stabilisce che: 'Salvo quanto espressamente previsto nel presente codice, il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, ivi comprese le candidature e le offerte, è disciplinato dalla legge 07.08.1990, n. 241 e successive modificazioni'.
Segue che, la disciplina generale in tema di diritto di accesso, anche qualora si tratti di istanze afferenti procedure di gara, deve rinvenirsi nella legge 241/1990 la quale riconosce tale diritto a chiunque sia portatore di un 'interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso' (articolo 22, comma 1, lett. b) della legge 07.08.1990, n. 241).
La regola, tuttavia, sancita dall'articolo 25, comma 2, della legge 241/1990, in forza della quale, la richiesta di accesso deve essere, altresì, motivata, subisce una sorta di eccezione con riferimento alle istanze di accesso eventualmente inoltrate dai partecipanti ad una gara e afferenti alla relativa documentazione. La giurisprudenza amministrativa, infatti, ha affermato che tale diritto 'sussiste per il solo fatto di aver partecipato alla gara' [2]. In altri termini, l'impresa che ha partecipato ad un appalto, nel richiedere l'accesso alla documentazione di gara dopo il suo espletamento, non deve indicare nell'istanza di accesso le ragioni giuridiche puntualmente sottese alla sua richiesta, dal momento che l'accesso si giustifica ex se, con il diritto di chi ha partecipato alla gara di conoscere le modalità di svolgimento della procedura e le determinazioni adottare in proposito dalla Pubblica Amministrazione. [3]
È principio consolidato in giurisprudenza quello secondo cui: 'L'impresa partecipante ad una procedura concorsuale per l'aggiudicazione di un appalto pubblico può accedere nella forma più ampia agli atti del procedimento di gara (ancorché ufficiosa), ivi compresa l'offerta presentata dalla impresa risultata aggiudicataria, senza che possano essere opposti motivi di riservatezza, sia perché una volta conclusasi la procedura concorsuale i documenti prodotti dalle ditte partecipanti assumono rilevanza esterna, sia in quanto la documentazione prodotta ai fini della partecipazione ad una gara di appalto indetta dalla Pubblica Amministrazione esce dalla sfera esclusiva delle imprese per formare oggetto di valutazione comparativa essendo versata in un procedimento caratterizzato dai principi di concorsualità e trasparenza.' [4].
Segue che i documenti di gara sono da considerarsi accessibili, salve, tuttavia, le specifiche ipotesi di esclusione con riferimento alle quali soccorre il disposto di cui all'articolo 13, comma 5, del D.Lgs. 163/2006 (in luogo dell'articolo 24 della legge 241/1990) il quale individua le ipotesi in cui sono esclusi il diritto di accesso e ogni forma di divulgazione di una serie di atti. In particolare, con riferimento alla problematica in esame, rileva quanto contenuto nella lett. a) dell'articolo 13, comma 5, citato, relativo all'esclusione del diritto di accesso in relazione 'alle informazioni fornite dagli offerenti nell'ambito delle offerte ovvero a giustificazione delle medesime, che costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione dell'offerente, segreti tecnici o commerciali'. Tale previsione va, tuttavia, coordinata con quanto stabilito al successivo comma 6 il quale prevede che 'è comunque consentito l'accesso al concorrente che lo chieda in vista della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto nell'ambito della quale viene formulata la richiesta di accesso'.
In altri termini, il legislatore ha negato l'esercizio del diritto di accesso nei confronti della documentazione suscettibile di rivelare il know-how industriale e commerciale contenuto nelle offerte delle imprese partecipanti, sì da evitare che operatori economici in diretta concorrenza tra loro possano utilizzare l'accesso per giovarsi delle specifiche conoscenze possedute da altri, al fine di conseguire un indebito vantaggio commerciale all'interno del mercato. [5]
Resta, peraltro, consentito l'accesso in vista della difesa in giudizio degli interessi del richiedente, ai sensi del citato comma 6, previsione questa che riafferma la tendenziale prevalenza del cosiddetto accesso difensivo, già sancita in via generale dall'articolo 24, comma 7, della legge 241/1990. [6]
Da quanto sopra, segue che il diritto di accesso deve essere consentito qualora non venga addotta dall'offerente motivata e comprovata dichiarazione in ordine al fatto che le informazioni di cui altro soggetto chiede l'accesso costituiscano segreti tecnici o commerciali; [7] in subordine deve essere sempre consentito tale accesso se richiesto in chiave difensiva. Con riferimento a tale ultimo aspetto si osserva come la giurisprudenza abbia affermato che: 'Sul piano oggettivo, l'accesso eccezionalmente consentito è strettamente collegato alla sola esigenza di una difesa in giudizio; in questa prospettiva, quindi, la previsione è molto più restrittiva di quella contenuta nell'art. 24, l. n. 241 cit., la quale contempla un ventaglio più ampio di possibilità consentendo l'accesso ove necessario per la tutela della posizione giuridica del richiedente, senza alcuna restrizione alla sola dimensione processuale.
Per altro, nel contesto dell'art. 13 cit., poiché si utilizza la locuzione <>, non è necessario che, al momento della richiesta di accesso, il giudizio sia già instaurato, ma è sufficiente che la lite sia anche solo potenziale.
Per non dilatare in modo irragionevole la portata della norma, si deve ritenere che essa imponga di effettuare un accurato controllo in ordine alla effettiva utilità della documentazione richiesta, alla stregua di una sorta di prova di resistenza; tale giudizio prognostico, [...], non può prescindere dalle eventuali preclusioni processuali in cui sia incorso il richiedente [...].
In definitiva, dal combinato disposto dei commi 5 e 6, dell'art. 13, d.lgs. n. 163 del 2006, discende che non è consentito esercitare l'accesso alla documentazione posta a corredo dell'offerta selezionata, ove l'impresa aggiudicataria abbia dichiarato che sussistano esigenze di tutela del segreto tecnico o commerciale, ed il richiedente non abbia dimostrato la concreta necessità di utilizzare tale documentazione in uno specifico giudizio
'. [8]
Con riferimento alle modalità di esercizio del diritto di accesso, e, in particolare, alla possibilità di limitare l'ostensibilità dei documenti alla sola visione, con esclusione dell'estrazione di copie, la giurisprudenza ha espresso orientamento negativo affermando che: '[...] in materia di accesso agli atti amministrativi, ai sensi della l. 11.02.2005 n. 15, deve ricomprendersi nel relativo diritto sia la visione che il rilascio di copia del documento, attesa l'abrogazione della disposizione dettata dall'art. 24, comma 2, lettera d), nella formulazione originaria della l. n. 241/1990 che fa ritenere superata ogni possibilità di distinguere tra le due indicate modalità di accesso". [9]
Per completezza espositiva si segnala, tuttavia, una ordinanza del Consiglio di Stato, sez. VI, del 01.02.2010, n. 524 relativa ad una fattispecie analoga a quella in esame, nella quale si afferma che '[...] in ogni caso, la stazione appaltante può adottare accorgimenti utili ad evitare la divulgazione di eventuali segreti tecnici o commerciali, inibendo la estrazione di copia di quelle parti dei documenti da cui potrebbero trarsi informazioni sui dati da mantenere segreti, se e nella misura in cui la loro acquisizione non risulti in ogni caso utile al ricorrente per la difesa dei propri interessi'.
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[1] Gli elaborati relativi alle offerte tecniche contengono, infatti, un insieme di informazioni e notizie afferenti l'organizzazione industriale, commerciale e finanziaria delle società che li hanno prodotti nonché informazioni di carattere riservato di altri clienti.
[2] Così, TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste, sez. I, sentenza del 03.05.2010, n. 301.
[3] In questi termini, si veda parere ANCI del 04.06.2009.
[4] Tra le altre, TAR Puglia, Lecce, sez. II, sentenza del 09.07.2008, n. 2087.
[5] Così, TAR Puglia, Bari, sez. I, sentenza del 25.02.2010, n. 678.
[6] Così, Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 19.10.2009, n. 6393. Di recente, TAR Puglia, Lecce, sez. II, sentenza del 05.10.2012, n. 1639.
[7] Si veda, al riguardo, TAR Puglia, Bari, sez. I, sentenza del 27.05.2010, n. 2066 nella quale si afferma che: 'La deroga all'accesso costituisce eccezione che va debitamente comprovata dall'interessato e indubbiamente non è idonea motivazione la circostanza che trattasi di elaborati costituenti opera dell'ingegno e contenenti informazioni e dati frutto del patrimonio di conoscenze ed esperienze aziendali. Questi caratteri, infatti, sono propri dell'offerta tecnica di qualunque impresa e non giustificano di per sé il divieto di divulgazione'. Si veda, anche, Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 30.12.2011, n. 6996.
[8] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 09.12.2008, n. 6121. Tale sentenza è stata richiamata, condividendone gli assunti, da Consiglio di Stato, n. 6996/2011, sopra citata.
[9] TAR Campania, Napoli, sez. VI, sentenza del 02.12.2010, n. 26573 la quale richiama Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 19.10.2009, n. 6393. Nello stesso senso, TAR Puglia, Bari, sez. I, sentenza del 25.02.2010, n. 678 nella quale si afferma che: 'È, perciò, illegittima, secondo l'orientamento ripetutamente espresso da questa Sezione, la limitazione alla sola visione degli atti nei confronti del soggetto che abbia interesse a conoscere la documentazione amministrativa per tutelare in sede giurisdizionale i propri interessi'
(26.10.2012 - link a www.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Liquidazione ferie.
Il Dipartimento della funzione pubblica (cfr. pareri del 06.08. e dell'08.10.2012) ha fornito alcuni chiarimenti in merito all'applicazione dell'art. 5, comma 8, del d.l. n. 95/2012 (divieto di monetizzare le ferie non godute).
Il Comune ha formulato una richiesta di parere in ordine alla disciplina applicabile alle eventuali ferie residue, in determinati casi di cessazione del rapporto di lavoro, verificatisi in periodo successivo all'entrata in vigore delle modifiche apportate recentemente in materia dall'art. 5, comma 8, d.l. n. 95/2012.
La citata norma prevede che le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'ISTAT (fra tali amministrazioni figurano anche i Comuni), sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. Si precisa altresì che detta disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età. Eventuali disposizioni normative e contrattuali più favorevoli cessano di avere applicazione a decorrere dalla data di entrata in vigore del medesimo d.l. n. 95/2012.
A livello interpretativo è intervenuto il Dipartimento della funzione pubblica, che ha fornito utili chiarimenti in merito [1].
Per quanto riguarda l'ambito temporale di applicazione della nuova normativa, in un primo parere il citato Dipartimento ha evidenziato che la norma in argomento non prevede una disciplina transitoria e, pertanto, ha ritenuto che la soluzione delle problematiche di carattere intertemporale debba seguire i principi generali, 'tenuto conto che l'entrata in vigore della nuova disciplina impatta anche su cessazioni di rapporti di lavoro verificatesi prima della predetta entrata in vigore e su situazioni consolidatesi e relative a rapporti ancora in corso'.
Il Dipartimento della funzione pubblica ha rimarcato, pertanto, come debbano rimanere salvaguardate tutte quelle situazioni che si sono definite prima dell'entrata in vigore della normativa di cui si discute.
Quindi, la preclusione alla monetizzazione non riguarda i rapporti di lavoro già cessati prima dell'entrata in vigore dell'art. 5 in esame, le situazioni in cui le giornate di ferie siano state maturate prima dell'entrata in vigore della predetta disposizione e ne risulti incompatibile la fruizione a causa della ridotta durata del rapporto o a causa di una situazione di sospensione cui segua la cessazione (ad es. i casi di aspettativa per periodo di prova presso altra amministrazione a seguito concorso).
Resta salvo -continua la Funzione pubblica- 'che la monetizzazione in questi residui casi potrà avvenire solo in presenza delle limitate ipotesi normativamente e contrattualmente previste [........]. Le situazioni devono essere esaminate e valutate considerando anche la motivazione del rinvio che ha portato all'accumulo, rammentandosi che le esigenze di servizio che, in base al CCNL, possono giustificare il rinvio temporaneo debbono risultare da atto formale con data certa e che, sempre in base al CCNL, la monetizzazione è consentita solo in caso di cessazione del rapporto ove il rinvio della fruizione sia avvenuto legittimamente per esigenze di servizio' [2].
In un secondo e più recente parere il predetto Dipartimento ha affrontato, nello specifico, la problematica inerente alla possibilità di ritenere escluse dall'ambito di applicazione del divieto di corresponsione di trattamenti economici sostitutivi delle ferie le ipotesi in cui la mancata fruizione sia determinata in occasione di cessazioni dal servizio conseguenti a periodi di malattia ovvero a dispensa dal servizio per inidoneità assoluta e permanente o a decesso del dipendente.
A tal proposito -osserva il Dipartimento della funzione pubblica- le predette cessazioni del rapporto di lavoro configurano vicende estintive 'dovute ad eventi indipendenti dalla volontà del lavoratore e dalla capacità organizzativa del datore di lavoro. In base al sopra descritto ragionamento non sembrerebbe, pertanto, rispondente alla ratio del divieto previsto dall'articolo 5, comma 8, del D.L. n. 95 del 2012 includervi tali casi di cessazione, poiché ciò comporterebbe una preclusione ingiustificata e irragionevole per il lavoratore il cui diritto alle ferie maturate e non godute per ragioni di salute, ancorché già in precedenza rinviate per ragioni di servizio, resta integro'.
Il citato Dipartimento richiama, in merito, anche giurisprudenza comunitaria che ha ribadito che le disposizioni nazionali non possono prevedere che, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, non sia dovuta alcuna indennità finanziaria sostitutiva delle ferie annuali retribuite non godute dal lavoratore che sia stato in congedo per malattia [3]. Anche la giurisprudenza italiana ha espresso un orientamento favorevole alla monetizzazione delle ferie in caso di malattia [4].
Pertanto, ad avviso del citato Dipartimento, nel divieto posto dal comma 8 dell'art. 5 in esame non rientrano i casi di cessazione dal servizio in cui l'impossibilità di fruire le ferie non è imputabile o riconducibile al dipendente, come le ipotesi di decesso, malattia e infortunio, risoluzione del rapporto di lavoro per inidoneità fisica permanente ed assoluta, congedo obbligatorio per maternità.
Lo stesso Dipartimento precisa comunque che, considerata la rilevanza finanziaria della questione prospettata, è necessario acquisire in proposito anche l'avviso del Ministero dell'economia e delle finanze.
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[1] Cfr. pareri del 06.08. e dell'08.10.2012.
[2] L'orientamento espresso dal D.F.P. è stato condiviso anche dal Ministero dell'economia e delle finanze - Dipartimento RGS.
[3] Cfr. Corte di giustizia, Grande sez., sent. 20.01.2009, n. 350/2006, sent. 20.01.2009, n. 520/2006.
[4] Cfr. Cass., 09.07.2012, n. 11462
(23.10.2012 - link a www.regione.fvg.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Domanda: Il parere in linea tecnica e di regolarità contabile -da esprimere nelle deliberazioni rispettivamente a cura dal responsabile del servizio interessato e di ragioneria- può estendersi fino ad attestare la legittimità del provvedimento?
Risposta: L’art. 49 del decreto legislativo 267 del 2000 prescrive che su ogni proposta di deliberazione sottoposta al Consiglio ed alla Giunta, che non sia mero indirizzo, deve essere richiesto il parere in ordine alla sola regolarità tecnica del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti impegno di spesa o diminuzione di entrata, del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile. I predetti pareri debbono essere inseriti nella deliberazione.
La disposizione in esame rappresenta la modifica della versione originaria della norma che, all’art. 53 della legge 142/1990 prevedeva, oltre ai pareri in esame, il parere di legittimità da parte del segretario comunale, che è stato soppresso con il comma 85 dell’art. 17 della legge 127/1997.
Dal tenore della norma, si ricava che i pareri in linea tecnica e contabile non costituiscono un requisito di legittimità delle deliberazioni cui si riferiscono, in quanto la funzione dei detti pareri è quella di individuare, sul piano formale, i funzionari responsabili, in via amministrativa e contabile ed eventualmente in solido con i componenti degli organi deliberanti, delle deliberazioni da questi assunte (fra le altre TAR Lecce, 07.04.2001, n. 1616).
Ne deriva che il parere tecnico non comporta una valutazione di legittimità dell’atto in riferimento all’oggetto della delibera, essendo un parere tecnico e non di legittimità, diversamente da quello che in precedenza veniva dato dal segretario comunale, e si limita ad attestare che l’atto corrisponde all’attività istruttoria compiuta, ai fatti acquisiti nell’attività istruttoria, che l’atto nella sua composizione formale è conforme a quanto disposto dalla normativa sulla formazione della delibera nel suo aspetto estrinseco e non attesta nulla in ordine alla legittimità delle ragioni di merito che sottostanno al tipo di delibera adottata.
La giurisprudenza, peraltro, è concorde nel ritenere che i pareri espressi dai responsabili dell’aerea tecnica e del servizio finanziario dei comuni costituiscono atti preparatori che legittimano l’adozione delle deliberazioni per le quali i pareri sono richiesti. Detti pareri, perciò, rispetto alla validità formale della medesime deliberazioni operano quale presupposto di diritto, ma non possono interferire sull’autonomo e corretto esercizio dei poteri spettanti all’organo deliberante; a questi spetta la ponderazione concreta e corretta dei pubblici interessi, al di là della mera relazione funzionale dei pareri stessi che sono resi "ex ante" sulla proposta di deliberazione e costituiscono il presupposto al corretto esercizio dei poteri amministrativi dell’organo deliberante, senza intervenire sulla volontà di questo nei casi in cui la competenza a provvedere spetta allo stesso Consiglio comunale e non già ad altri uffici tecnici o amministrativi dell’amministrazione comunale (cfr. Corte dei conti, sezione giurisdizionale d'appello per la Sicilia, 13.01.2009, n. 01/A/2009) (link a www.entilocali.provincia.le.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In caso di parere non favorevole del responsabile del servizio finanziario sulle proposte di deliberazione della Giunta e del Consiglio, deve essere indicata di ciò una idonea motivazione.
Pur essendo un atto procedimentale obbligatorio che va inserito nella deliberazione, il parere di regolarità contabile non è vincolante, per cui è possibile che la Giunta o il Consiglio deliberino in presenza di un parere sfavorevole, assumendosene tutte le responsabilità. Tuttavia, il Consiglio o la Giunta che intendono procedere all’approvazione della deliberazione, pur in presenza di un parere di regolarità contabile contrario, devono indicare nella delibera stessa le motivazioni della scelta.
Nel caso in cui la Giunta o il Consiglio deliberino in difformità del parere di regolarità contabile, il responsabile del servizio finanziario deve portare comunque a termine l’iter di erogazione della spesa emettendo, se del caso, le liquidazioni ed i mandati di pagamento conseguenti.

Oggetto: Parere negativo del responsabile del servizio finanziario di cui all’articolo 49 del decreto legislativo 18.08.2000 n. 267.
Con il quesito in oggetto si chiede:
1) se la Giunta comunale può adottare deliberazioni in presenza di un parere contrario e ben motivato del Responsabile del servizio finanziario;
2) se il Responsabile del servizio finanziario, una volta adottata la delibera di cui al punto 1), è tenuto a firmare i relativi mandati di pagamento.
L’art. 49 del Tuel prevede chiaramente l’obbligatorietà del parere di regolarità contabile sulle proposte di deliberazione della Giunta e del Consiglio che non siano meri atti di indirizzo e qualora comportino impegni di spesa.
Nelle fattispecie suindicate il parere è obbligatorio e può essere favorevole o non favorevole; in quest’ultimo caso deve essere indicata anche una idonea motivazione.
Tuttavia, pur essendo un atto procedimentale obbligatorio che va inserito nella deliberazione, il parere di regolarità contabile non è vincolante, per cui si potrebbe verificare il caso in cui la Giunta o il Consiglio deliberino in presenza di un parere sfavorevole, assumendosene tutte le responsabilità. Così si è espresso anche il Consiglio di Stato, Sezione Quinta, con sentenza n. 680 del 25.05.1998 (1).
E’ certamente auspicabile che non si pervenga alla situazione prospettata e che vengano rimosse preventivamente le motivazioni che hanno indotto il responsabile del servizio finanziario ad esprimere un parere sfavorevole; tuttavia, se ciò non avviene preventivamente, sembra necessario che la Giunta o il Consiglio provvedano nel più breve termine possibile, garantendo gli equilibri di bilancio ed in generale il rispetto di tutti i principi dell’ordinamento finanziario e contabile.
In ogni caso, il Consiglio o la Giunta che intendono procedere all’approvazione della deliberazione, pur in presenza di un parere di regolarità contabile contrario, devono indicare nella delibera stessa le motivazioni della scelta.
In merito al punto 2), constatato che nel caso specifico la Giunta o il Consiglio nel deliberare in difformità del parere di regolarità contabile assumono inevitabilmente anche responsabilità amministrative e contabili che sono proprie della figura del responsabile del servizio finanziario è palese che quest’ultimo deve portare a termine l’iter di erogazione della spesa emettendo, se del caso, le liquidazioni ed i mandati di pagamento conseguenti (Osservatorio per la finanza e la contabilità degli enti locali, parere 05-06.06.2003 - link a www.dirittoeschemi.it).

NEWS

EDILIZIA PRIVATAUn container come casa è abusivo.
Il container trasformato in monolocale fissato solidamente al suolo rappresenta una edificazione e pertanto necessità sempre di licenza edilizia per essere realizzato. E a nulla rileva che al singolare manufatto siano state applicate ruote atte a dimostrarne una possibile manovrabilità e trasportabilità.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. I, con il parere n. 3727/2012.
Sono frequenti le installazioni precarie di roulotte, rimorchi e container trasformate in dimore stabili magari con semplici accorgimenti di fortuna atti anche a simularne un uso temporaneo. Nel caso sottoposto all'esame del collegio un comune ha disposto la demolizione di un container monoblocco, munito di ruote, adibito abusivamente a civile abitazione.
Contro questa severa determinazione l'interessato ha proposto ricorso straordinario al presidente della repubblica con conseguente interessamento dei giudici di palazzo Spada per il prescritto parere. Il collegio non ha dubbi. Un container monoblocco posizionato su blocchi di lapillo in un'area interamente pavimentata di circa 200 mq rappresenta un evidente abuso edilizio. Anche se nella parte inferiore del manufatto sono state applicate delle ruote.
In particolare come risulta agli atti del comune il manufatto è abusivo perché realizzato senza alcun titolo abilitativo. Il container collegato al suolo deve infatti essere considerato al pari di una qualsiasi struttura fissa adibita ad abitazione realizzata senza i necessari titoli abilitativi (articolo ItaliaOggi del 17.11.2012).

APPALTIPagamenti sprint ai professionisti. Le p.a. dovranno saldare entro 30 giorni dalla parcella. Il dlgs 192 tutela non solo le imprese ma anche tutti gli esercenti una libera professione.
Pagamenti certi ai professionisti che lavorano con la pubblica amministrazione. Dal 01.01.2013 le parcelle dovranno essere onorate entro 30 giorni al massimo dal momento in cui la p.a. le riceve. Oltre questo termine inizieranno a decorrere gli interessi (senza necessità di un apposito atto di costituzione in mora) che passeranno dal 7 all'8%, oltre al tasso fissato dalla Bce per le operazioni di rifinanziamento. Solo in casi eccezionali i termini di pagamento potranno allungarsi a 60 giorni.
Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale di giovedì (n. 267 del 15 novembre) del dlgs n. 192/2012 che recepisce la direttiva Ue contro i ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali, anche i professionisti, e non solo le imprese, potranno contare su una corsia preferenziale per incassare i loro onorari.
Il provvedimento riformula infatti il concetto di pubblica amministrazione, estendendo le novità a tutti i soggetti che rientrano nella disciplina del codice appalti (dlgs 163/2006).
E i diretti interessati, che spesso si trovano a dover fronteggiare situazioni di carenza di liquidità a causa dei ritardati pagamenti, festeggiano per l'arrivo di un provvedimento che «colma l'ennesima lacuna normativa che fino ad oggi ha penalizzato il lavoro dei professionisti». «Il decreto», ha commentato Gaetano Stella, presidente di Confprofessioni, «va nella stessa direzione a cui Confprofessioni lavora da mesi richiedendo l'estensione ai professionisti del diritto di compensare i crediti con la p.a.». «Il ritardo nei pagamenti», ha osservato Stella, «è un grosso problema che coinvolge le pmi, ma soprattutto i professionisti che lavorano con la pubblica amministrazione e con le imprese».
Le regole
Il provvedimento, approvato dal consiglio dei ministri il 31 ottobre scorso (si veda ItaliaOggi del 02/11/2012) stabilisce regole differenti a seconda che si tratti di transazioni tra imprese o tra la p.a. e un soggetto privato (impresa o professionista).
Nel primo caso il decreto consente comunque alle parti di concordare un termine di pagamento superiore a 30 giorni. E anche superiore a 60 giorni se l'estensione temporale è stata sottoscritta in forma espressa e non è gravemente iniqua per il creditore.
Nella seconda ipotesi, il termine di pagamento dovrà essere di regola non superiore a 30 giorni. Potrà arrivare fino a un massimo di 60 giorni se il debitore è un'impresa pubblica o un ente pubblico che fornisce servizi sanitari (Asl, ospedali). In questo caso, le parti potranno concordare, in forma espressa, di andare oltre i 30 giorni per il pagamento, se la dilazione è oggettivamente giustificata dalla natura o dall'oggetto del contratto o da particolari circostanze esistenti al momento della stipula.
Ma la dead-line per onorare gli impegni non potrà mai superare i 60 giorni. Decorsa inutilmente tale scadenza scatteranno gli interessi di mora (8% più il tasso Bce) a cui dovrà essere aggiunta una somma forfettaria di 40 euro da aggiungere all'importo dovuto al creditore a titolo di rimborso per le spese di recupero.
La decorrenza
Nonostante il termine per recepire la direttiva europea 2011/7/Ue sia fissato al 16.03.2013, la nuova disciplina si applicherà alle transazioni commerciali concluse a partire dal 01.01.2013. Quindi in anticipo rispetto alla scadenza prevista, in considerazione dell'importanza della materia e della necessità di garantire in questo periodo di crisi un'iniezione di liquidità indispensabile per professionisti e imprese.
Le nuove regole non si applicheranno retroattivamente ai contratti già conclusi, ma soltanto a quelli futuri. I destinatari delle nuove norme avranno, dunque, sufficiente tempo per adeguare la modulistica contrattuale e le procedure interne di pagamento (articolo ItaliaOggi del 17.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGOPermessi. Disabili, istanze web per i privati.
Le modalità di presentazione delle domande di permessi per assistenza ai familiari portatori di handicap (ex art. 33, legge n. 104/1992), che dal 01.10.2012 (circolare n. 117/2012) devono essere presentate esclusivamente in modalità telematica, attraverso il web, i patronati o il contact center multicanale, valgono solo per i dipendenti del settore privato e non anche per i pubblici iscritti all'ex Inpdap.
Lo precisa l'Inps con il messaggio 15.11.2012 n. 18728.
A tal riguardo, sottolinea l'ente di previdenza, è stata innovata solo la modalità di presentazione della domanda e non anche l'ambito soggettivo degli utenti tenuti a presentare all'Istituto l'istanza medesima. Pertanto, l'obbligo di invio telematico riguarda esclusivamente la generalità dei lavoratori dipendenti del settore privato e non i soggetti titolari di un rapporto di lavoro alle dipendenze di amministrazioni pubbliche, con copertura assicurativa presso la gestione ex Inpdap.
Infatti, conclude la nota, competente alla concessione di tali benefici per il personale in questione è esclusivamente il datore di lavoro, cui fa carico il relativo onere economico (articolo ItaliaOggi del 17.11.2012).

APPALTICrediti e Pa. Gli effetti del decreto pubblicato l'altro ieri. Ritardi nei versamenti con super-interessi.
Dopo le prime rassicurazioni sui lavori pubblici, arriva anche la soddisfazione dei professionisti per gli effetti che le nuove regole sulle transazioni commerciali scritte nel Dlgs 192/2012, pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» di giovedì, avranno sul calendario dei pagamenti delle loro parcelle. «Finalmente non saremo più costretti ad attendere mesi e mesi per vederci onorata la nostra prestazione –spiega Gaetano Stella, presidente di Confprofessioni–. Con la pubblicazione del decreto, si colma l'ennesima lacuna normativa che fino a oggi ha penalizzato il lavoro dei professionisti».
Più incertezze si registrano invece nelle Pubbliche amministrazioni e soprattutto in quelle territoriali, dove si concentra una fetta maggioritaria dei 100 miliardi a cui secondo le ultime stime sono arrivati i mancati pagamenti alle imprese da parte degli uffici pubblici. Per loro non sarà più possibile derogare al termine dei 30-60 giorni e, soprattutto, post-datare la fattura o addirittura prevedere per contratto la rinuncia agli interessi di mora.
Ed è proprio il nodo degli interessi, inaspriti rispetto alle vecchie regole fino a farli arrivare a un tasso che a valori attuali sfiora il 10%, a rappresentare l'aspetto essenziale delle novità.
In molti casi, infatti, l'obbligo di onorare la fattura entro due mesi è destinato a rimanere lettera morta, al pari delle regole sui tempi di pagamento che l'hanno preceduto. L'ostacolo più importante continua a essere rappresentato dal Patto di stabilità, che è all'origine di molti dei ritardi accumulati da Comuni e Province e che nel 2013 è destinato a pesare sul tema per una duplice ragione. Il Patto blocca in particolare i pagamenti delle spese in conto capitale, dopo aver lasciato liberi gli impegni (quindi gli stanziamenti) e aver in questo modo esaltato i difetti di programmazione di molte amministrazioni locali.
I vincoli continueranno a esistere nel 2013, inaspriti dalla stretta ulteriore sui bilanci locali, e si riproporranno anche per il monte delle certificazioni dei crediti avviate dai decreti dell'Economia varati quest'estate e corretti ai primi di novembre: gli arretrati certificati in questi mesi, infatti, vanno pagati entro l'anno e rientrano in pieno nei plafond lasciati dal Patto di stabilità, che di conseguenza saranno "occupati" anche dall'arrivo a scadenza dell'onda delle certificazioni.
A stoppare i pagamenti non in regola con il Patto di stabilità ci sono anche le sanzioni a carico dei funzionari che firmano atti di spesa e che, di conseguenza, nella loro attività si trovano spesso a dover decidere quale legge non rispettare: quella che impone tempi certi di pagamento e quella che vieta di sforare il Patto. A far pendere la bilancia del rispetto verso la seconda norma sono proprio le sanzioni a carico dei funzionari, che possono essere chiamati a rispondere per la responsabilità disciplinare e amministrativa se danno il via libera ai pagamenti fuori plafond.
Nel nuovo quadro normativo, però, anche la formazione di interessi di mora, che sono destinati a pesare in misura rapidamente crescente sui bilanci dell'ente, potrebbero finire per rappresentare la base di un'ipotesi di danno erariale se il mancato pagamento non poggia su giustificazioni oggettive. Il disallineamento fra dinamica degli impegni e tasso di pagamenti può essere risolto solo a medio termine, se gli obblighi di programmazione introdotti dalle norme degli ultimi mesi avranno un'applicazione effettiva e generalizzata, ma nel frattempo il rebus rimane insoluto.
Rimangono, poi, i problemi cronici e crescenti delle casse, che oltre a Comuni e Province riguardano molte aziende sanitarie, in particolare nel Mezzogiorno. Un quadro, questo, in cui si innestano anche le regole sulla tesoreria unica, che sottraggono la liquidità al controllo diretto dell'ente (articolo Il Sole 24 Ore del 17.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTIPagamenti commerciali in 30 giorni.
Dall'01.01.2013 termini certi di pagamento nelle transazioni commerciali: di norma 30 giorni, che non possono comunque superare i 60, consentiti solo in casi eccezionali. E scatta una maggiorazione del tasso degli interessi legali moratori, che passa dal 7% all'8% in più rispetto al tasso fissato dalla Bce per le operazioni di rifinanziamento.
Lo prevede il decreto legislativo 09.11.2012, n. 19, recante «Modifiche al decreto legislativo 09.10.2002, n. 231, per l'integrale recepimento della direttiva 2011/7/Ue relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, a norma dell'articolo 10, comma 1, della legge 11.11.2011, n. 180», pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale - Serie Generale n. 267 di ieri.
Come spiegato in una nota della presidenza del Consiglio dei ministri dopo il varo del provvedimento, avvenuto il 31 ottobre scorso, l'approvazione del decreto legislativo che recepisce la direttiva 2011/7/Ue sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali tra imprese, e tra pubbliche amministrazioni e imprese, attua la delega conferita al Governo con l'articolo 10 della legge n. 180 del 2011 (Statuto delle imprese).
Nonostante il termine per il recepimento della direttiva sia fissato al 16.03.2013, il governo ha voluto provvedere ad una sua attuazione anticipata dal 01.01.2013 in considerazione della importanza della normativa nonché dell'opportunità peculiare di garantire, in questo momento, le imprese e più specificatamente le piccole e medie imprese.
 Per quanto riguarda i rapporti tra imprese, come detto, il decreto legislativo dispone un regime rigoroso stabilendo che il termine di pagamento legale sia di 30 giorni e che termini superiori a 60 giorni possano essere previsti solo in casi particolari e in presenza di obiettive giustificazioni.
La disciplina del decreto legislativo si applicherà ai contratti conclusi a partire dal 01.01.2013. Le pubbliche amministrazioni e le imprese avranno così il tempo per adeguarsi alle nuove norme e per adottare procedure operative e contabili più funzionali a prassi di pagamento rapido (articolo ItaliaOggi del 16.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATAColonnine di ricarica anche sulle aree pubbliche.
La ricarica dei veicoli elettrici può essere assimilata a un classico rifornimento di carburante con una tempistica più allungata. In attesa di una disciplina ad hoc per queste particolari esigenze sarà necessario individuare le aree con idonea segnaletica orizzontale bianca apponendo anche il classico simbolo del rifornimento.

Lo ha chiarito il ministero dei trasporti con il parere n. 5253/2012.
Un progettista ha richiesto chiarimenti sulla possibilità di realizzare stalli di sosta di colore giallo destinati al posteggio dei veicoli elettrici presso colonnine di ricarica. A parere del ministero questi impianti sono realizzabili essendo assimilabili alle normali aree di servizio che sono definite dal codice come pertinenze di servizio, ma non possono essere di colore giallo, stante la peculiarità degli spazi colorati disciplinati dall'art. 7 del codice. Anche se mancano i criteri di localizzazione e gli standard dimensionali richiesti specificamente per i nuovi impianti dall'art. 60 del regolamento stradale sono tante le disposizioni di dettaglio che possono assistere il progettista.
Per esempio in ambito urbano gli accessi agli impianti devono rispondere ai requisiti dei passi carrabili, secondo l'art. 61 del regolamento. In pratica la ricarica delle batterie dei veicoli elettrici può essere assimilata al rifornimento dei veicoli tradizionali. La maggior durata della sosta può complicare la questione anche in relazione alle disposizioni normative in materia di occupazione della sede stradale. In attesa di un provvedimento ad hoc la progettazione di questi manufatti può comunque seguire alcuni indirizzi applicativi.
Gli stalli di sosta riservati di colore bianco saranno evidenziati agli utenti e in ambito urbano sarà possibile anche occupare marciapiedi, a condizione di mantenere libero uno spazio minimo di sicurezza per la circolazione. Per la segnaletica verticale occorrerà utilizzare un pannello composito con divieto di sosta generale eccetto i veicoli elettrici in ricarica. In buona sostanza un pannello integrativo indicherà il periodo di validità delle prescrizioni e la rimozione coatta per i trasgressori, con eccezione dei veicoli elettrici in ricarica.
A ogni modo, conclude il parere centrale, risulterà difficile sanzionare i veicoli che stazionano nella zona riservata oltre al tempo necessario per la ricarica (articolo ItaliaOggi del 16.11.2012).

SEGRETARI COMUNALIPetizione online per chiedere maggiori tutele. Segretari comunali contro lo spoils system.
La recente riforma dei controlli sugli enti locali ha introdotto un'efficace e più penetrante forma di controllo sulla attività amministrativa dell'ente locale che però non tiene conto della delicata posizione che occupa il segretario comunale all'interno dell'ente.
Per questo la categoria ha promosso la sottoscrizione di una petizione online, che ha già riscosso grande adesione, per sottolineare lo stato di disagio nel quale si trovano.
Il governo, consapevole del grave problema dell'imparzialità dei vertici amministrativi, ha ritenuto di blindare la posizione del responsabile del servizio finanziario.
Ai sensi del dl 174/2012 approvato martedì dalla camera dei deputati, l'incarico di responsabile del servizio finanziario di cui all'articolo 153, comma 4, può essere revocato esclusivamente in caso di gravi irregolarità riscontrate nell'esercizio delle funzioni assegnate. La revoca è disposta con ordinanza del legale rappresentante dell'ente, previo parere obbligatorio del collegio dei revisori dei conti. La commissione bilancio di Montecitorio ha così modificato il testo originario del decreto legge che subordinava la revoca a un duplice parere del ministero dell'interno e del ministero dell'economia e delle finanze, Dipartimento della Ragioneria generale dello stato. Una modifica che, secondo i segretari comunali, non cambia la ratio della norma.
«È evidente che il governo», si legge nella petizione online, «per non vedere vanificata la ratio della nuova previsione, ha tutelato il responsabile del servizio finanziario da ipotesi distorsive di revoca immotivata da parte del sindaco, frequenti purtroppo nell'attuale sistema di spoils system che attribuisce poteri illimitati agli organi politici anche degli enti locali».
«Scarsa considerazione in questo senso, però, è stata prestata alla figura del segretario, a cui viene esplicitamente affidata la direzione dei controlli interni, e che, si rammenta, opera oggi in condizione di assoluta precarietà, dato che il suo incarico scade alla scadenza del mandato del sindaco».
«Incongruenza oggi ancora più evidente», proseguono, «con le nuove funzioni che il disegno di legge anticorruzione attribuisce al segretario, affidandogli nella sua qualità di dirigente generale dell'ente locale il compito e il ruolo di responsabile del piano anticorruzione nell'ente locale».
«I segretari», conclude il testo della raccolta firme, «chiedono dunque la revisione del sistema di nomina del segretario, eliminando l'attuale spoils system per salvaguardare la sua imparzialità e il corretto svolgimento del suo delicato ruolo, ritenendo indispensabile, in primo luogo, eliminare la scadenza automatica dell'incarico del segretario nell'ente locale alla scadenza del mandato del sindaco. Tale sistema oggi rimette alla mera discrezionalità politica la prosecuzione dell'operato del segretario nell'ente; i segretari, inoltre, ritengono necessario introdurre un adeguato sistema di tutela del loro ruolo per non vanificare nella sostanza il potenziamento dei controlli che oggi appare necessario».
«La petizione», viene spiegato, «è assolutamente laica, non ha alcuna connotazione sindacale e, allo stato attuale, ha già superato 1.000 sottoscrittori».
Per consultare e aderire alla petizione: http://petizionepubblica.it (articolo ItaliaOggi del 16.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa stima dei dipendenti in eccesso non può essere direttamente legata agli accorpamenti geografici. Esuberi al buio nelle province. Da gennaio rischiano dirigenti a contratto e staff delle giunte.
Impossibile allo stato una stima realistica degli esuberi nelle province. A rischiare, nell'immediato, sono solo i dirigenti a contratto e il personale di staff alle giunte. Ma i numeri circolati in questi giorni sugli esuberi potenziali non sembrano affidabili.
Esuberi potenziali. Sono circolate stime di circa 12 mila dipendenti provinciali in potenziale esubero.
Su un totale di circa 57 mila dipendenti la cifra corrisponderebbe al 21%, quasi un quarto del totale. Non sembra, oggettivamente, giustificabile una valutazione di un potenziale esubero di un quarto dei dipendenti pubblici di un intero sistema locale.
La stima appare viziata dall'impostazione su cui si fonda: considerare potenzialmente in esubero tutti i dipendenti delle province non in possesso dei requisiti per rimanere nell'ordinamento e, dunque, destinate ad accorparsi con altre.
Non sembra, tuttavia, corretto far corrispondere ad accorpamenti meramente geografici, come quelli previsti dal dl 188/2012, l'automatico stato di esubero dei dipendenti delle province obbligate all'accorpamento.
Si tratta di valutazioni influenzate dal vizio principale della riforma voluta dal governo: guarda quasi solo agli aspetti dei confini geografici e della costituzione degli organi politici, senza curarsi troppo delle funzioni che vengono gestite dalle province.
È evidente che lo stato di esubero non ha alcuna diretta e immediata conseguenza dall'accorpamento geografico. Attività che per loro natura debbono essere svolte in modo diffuso nel territorio, come i servizi per il lavoro, la manutenzione delle strade e degli edifici scolastici, la vigilanza, l'ambiente, la formazione, non sono intaccate dall'accorpamento, perché, salvo razionalizzazioni possibili, restano aggregate al territorio.
In effetti, solo una volta completato il processo di accorpamento, le province «nuove» potranno condurre una seria ricognizione dei fabbisogni, ai sensi dell'articolo 33 del dlgs 165/2001 e sulla base di questa verificare se vi siano o meno esuberi. Si tratta di un processo il cui esito non appare stimabile, e rispetto al quale 12 mila dipendenti sono oggettivamente spropositati, se si considera che nell'intera compagine statale la Funzione pubblica ha stimato meno di 5 mila esuberi.
Il nodo è, semmai, capire quali funzioni e competenze resteranno alle province, perché poi si potrebbe porre un problema di esubero indotto dalla sottrazione di tali funzioni e di trasferimento dei dipendenti verso comuni o regioni.
Personale in staff e dirigenti a contratto. Nell'immediato, invece, e cioè a partire dal 01.01.2013 un gruppo consistente di dipendenti provinciali si troverà oggettivamente in esubero.
È l'intero sistema dei componenti degli «staff» degli organi di governo. La cancellazione delle giunte determinerà certamente l'assenza immediata di attività lavorative nei riguardi di tali staff e l'attivazione delle procedure dell'articolo 33 del dlgs 165/2001.
Molto di tale personale, però, è assunto con contratti flessibili e a tempo determinato. L'articolo 90 del dlgs 267/2000 stabilisce che possono essere costituiti uffici di staff «posti alle dirette dipendenze del sindaco, del presidente della provincia, della giunta o degli assessori». È chiaro che gli uffici di diretta collaborazione della giunta e degli assessori non avranno più alcuna operatività. I dipendenti in staff a tempo determinato, dunque, perderanno a loro volta la giustificazione della loro presenza in servizio, a meno che non possano essere reimpiegati in altre attività. Occorrerà dare anche uno sguardo alla causale di assunzione, ma anch'essi si trovano in condizione di eccedenza potenziale rispetto ai fabbisogni.
L'articolo 33 del dlgs 165/2001 è tarato solo per i dipendenti di ruolo. Non si deve, tuttavia, scartare l'ipotesi del licenziamento individuale di stampo privatistico, per chiusura di un'attività specifica.
Analogo problema riguarda i dirigenti a contratto. Quelli assunti in staff (combinando l'articolo 110 e l'articolo 90 del Tuel) vanno incontro alla stessa problematica sorte del personale delle segreterie. Nelle province in cui vi siano i commissari per accompagnare l'accorpamento, vi sarà la conclusione del mandato e dunque la scadenza ex lege degli incarichi (articolo ItaliaOggi del 16.11.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALIOSSERVATORIO VIMINALE/ I poteri del primo cittadino sono limitati alle ordinanze contingibili e urgenti. Viabilità, decide il dirigente. La gestione ordinaria non spetta più al sindaco
Il comandante della polizia municipale può adottare un'ordinanza con la quale si apportano modifiche alla viabilità urbana?

Il Piano urbano del traffico (Put) –da cui dovrebbero derivare le eventuali modificazioni alla viabilità– secondo quanto previsto dall'art. 36, comma 5, del Codice della strada viene aggiornato ogni due anni. Il predetto Put, essendo uno strumento di programmazione e, dunque, a valenza generale, è demandato all'approvazione degli organi collegiali del comune.
Occorre tenere presente, tuttavia, che l'art. 107, comma 5, del dlgs n. 267/2000 prevede che «le disposizioni che conferiscono agli organi di cui al capo I, titolo III, (consiglio, giunta e sindaco) l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi, si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti, salvo quanto previsto dall'art. 50, comma 3, e dall'art. 54» dello stesso decreto legislativo.
Pertanto, le competenze assegnate, in particolare dal codice della strada, al sindaco (fuori dei casi di cui ai citati articoli 50 e 54 del dlgs n. 267/2000) si intendono oggi demandate al dirigente.
Sul punto la giurisprudenza (Tar Lombardia, sentenza n. 13/01/2003, n. 904) ha specificato che «al di fuori dei provvedimenti contingibili e urgenti, il sindaco non può adottare un'ordinanza in materia di viabilità ordinaria, esercitando altrimenti un atto di gestione che compete in via esclusiva al dirigente».
In particolare il Tar Lombardia –sezione di Brescia– con la sentenza 08.01.2011, n. 10 ha ribadito tale principio, affermando che l'art. 7 del codice della strada, che assegna al sindaco il potere di regolamentare la circolazione dei veicoli, va coordinato con la posteriore norma del già citato art. 107.
La competenza del sindaco in tema di limitazioni della circolazione deve, quindi, ritenersi attratta nella competenza propria del dirigente di settore, in quanto si tratta di funzioni di gestione ordinaria (articolo ItaliaOggi del 16.11.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ La modifica del simbolo.
In assenza di una specifica disciplina statutaria e regolamentare, un gruppo consiliare di opposizione può modificare o sostituire il simbolo col quale la lista si era presentata al corpo elettorale?

La materia concernente la costituzione dei gruppi consiliari è interamente demandata allo statuto e al regolamento del consiglio, nell'ambito della propria autonomia funzionale ed organizzativa (art. 38, comma 3, dlgs n. 267/2000).
Ne deriva che le problematiche relative alla costituzione e al funzionamento dei gruppi consiliari dovrebbero essere valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente locale si è dotato. Pertanto soltanto il consiglio comunale, nella sua sovranità e in quanto titolare della competenza a dettare le norme cui uniformarsi in tale materia, è abilitato a fornire un'interpretazione autentica delle norme statutarie e regolamentari, pronunciandosi in merito a quanto richiesto.
Nel caso di specie, se lo statuto comunale e il regolamento non dettano specifiche disposizioni in materia ma prevedono che i consiglieri si costituiscano «di regola» nei gruppi individuati nelle liste che si sono presentate alle elezioni e stabiliscono che i consiglieri possano costituire gruppi non corrispondenti alle liste elettorali nelle quali sono stati eletti, sembra di poter ritenere ammissibile la facoltà di operare variazioni all'interno degli schieramenti che possono, dunque, non corrispondere alla composizione scaturente dalle elezioni.
Il principio generale del divieto di mandato imperativo sancito dall'art. 67 della Costituzione, pacificamente applicabile ad ogni assemblea elettiva, assicura ad ogni consigliere l'esercizio del mandato ricevuto dagli elettori, pur conservando verso gli stessi la responsabilità politica, con assoluta libertà, ivi compresa quella di far venir meno l'appartenenza dell'eletto alla lista o alla coalizione di originaria appartenenza (Tar Trentino-Alto Adige, sez. di Trento sent. n. 75 del 2009)
In linea con il principio generale secondo cui, all'elemento «statico» dell'elezione in una lista si sovrappone quello «dinamico», fondato sull'autonomia politica dei consiglieri, sono da ritenere in genere ammissibili anche eventuali mutamenti, all'interno delle forze politiche, che comportano altrettanti cambiamenti nei gruppi consiliari.
Pertanto, la denominazione dei gruppi consiliari, con eventuale variazione dei simboli (contrassegni) a cui tali gruppi fanno riferimento, in assenza di una specifica disposizione statutaria o regolamentare, appare rientrare nelle scelte proprie delle formazioni politiche presenti in consiglio (articolo ItaliaOggi del 16.11.2012).

LAVORI PUBBLICIDebiti della Pa. La direttiva europea scatterà dal primo gennaio 2013. Tajani: lavori pubblici inclusi nel decreto sui pagamenti.
ARRIVA UNA CIRCOLARE/ Il chiarimento è allo studio dello Sviluppo economico Il ritardo nel saldare le fatture penalizza soprattutto le piccole aziende.

«Nessuna eccezione: il decreto che ha appena recepito la direttiva europea sui tempi di pagamento deve valere per tutti i settori, compresi i lavori pubblici e l'edilizia».
Il vicepresidente della Commissione Ue e responsabile dell'Industria, Antonio Tajani, prova a fare chiarezza una volta per tutte sulle nuove regole che scatteranno dal prossimo 1 gennaio e che in particolare vincolano la pubblica amministrazione a pagare i propri fornitori entro 30 giorni o al massimo 60 in alcuni casi specifici.
Le parole di Tajani –presente ieri a Roma all'incontro «Restart the system. Ripensiamo lo sviluppo», promosso da Methos in collaborazione con Archi's Comunicazione e Studio Valla– confermano quanto lo stesso vicepresidente Ue ha scritto in una lettera inviata mercoledì scorso al presidente dell'Ance, Paolo Buzzetti. Proprio l'Ance era primo firmatario di un «position paper» firmato anche dalle altre associazioni imprenditoriali delle costruzioni che sollecitava un chiarimento del Governo italiano e della commissione sull'inclusione dei lavori pubblici nell'ambito di applicazione del Dlgs 191/2012 (pubblicato ieri in Gazzetta) che recepisce la direttiva 2011/7.
A provare a sgomberare il campo dai dubbi è stato anche il viceministro alle Infrastrutture e ai Trasporti, Mario Ciaccia, che ieri ha voluto «tranquillizzare» il mondo delle costruzioni: «Io credo che la direttiva europea che impone alla pubblica amministrazione di pagare in tempi brevi e certi coloro che hanno fatto prestazioni di lavoro, riguarda tutti i settori». Una dichiarazione, questa, apprezzata dall'Ance: «È il segnale che volevamo sentire», ha affermato Buzzetti che ha avvertito di voler continuare a vigilare nei «prossimi giorni» affinché «non ci sia nessun dubbio sull'applicazione del decreto anche al nostro settore».
A preoccupare i costruttori è soprattutto il fatto che il testo del decreto non si riferisca esplicitamente ai lavori pubblici. Un mancato richiamo che però non significa l'esclusione dalle nuove regole: così almeno spiegano i tecnici del ministero degli Affari europei, guidato da Enzo Moavero, che ha coordinato il lavoro di messa a punto del testo. Ma, vista la delicatezza della materia, nei prossimi giorni potrebbe arrivare un chiarimento ufficiale del ministero dello Sviluppo economico attraverso una circolare.
Quella dei ritardi nei pagamenti del resto è da sempre un'emergenza, soprattutto in questa fase in cui le imprese sono a corto di liquidità. In particolare, a essere penalizzate sono le piccole aziende, costrette ad aspettare in media circa 180-190 giorni per essere pagate (anche la Grecia fa meglio: 174 giorni), con punte record al Sud dove si superano anche i 1.500 giorni.
Da qui l'attesa per i nuovi paletti europei che, come detto, fissano a 30 giorni il termine ordinario che la Pa deve rispettare per pagare. Anche se ci saranno delle deroghe: in particolare per asl, ospedali e imprese pubbliche che possono portare a 60 giorni il termine massimo. Ma anche tutte le altre Pa potranno accedere a questa proroga nel caso "eccezionale" in cui sia giustificata «dalla natura o dall'oggetto del contratto» oppure dalle «circostanze esistenti al momento della sua conclusione».
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LE NOVITÀ
Pagamenti entro 30 giorni
Dal 01.01.2013 la Pa dovrà pagare i fornitori entro 30 giorni dal ricevimento della fattura da parte dell'ente debitore o, quando non è certa la data di arrivo della fattura, dalla consegna della merce o dalla data di prestazione dei servizi
Le deroghe
Sono previste deroghe a 2 mesi per le imprese pubbliche e per gli enti (Asl e ospedali) che forniscono assistenza sanitaria. Proroga possibile anche per le altre Pa ma solo se giustificata «dalla natura o dall'oggetto del contratto» (articolo Il Sole 24 Ore del 16.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTICrediti verso le Pa, nuovi termini ad alto rischio.
Per tutte le transazioni in essere dal 01.01.2013 le pubbliche amministrazioni dovranno pagare le fatture al massimo entro 60 giorni. In caso contrario, scatteranno in automatico –e senza necessità di messa in mora– gli interessi legali (calcolati aggiungendo ad un tasso di riferimento Ue ben 8 punti percentuali).

Non sarà semplice per gli enti pubblici digerire la Direttiva 2011/7/Ce che, con le modifiche apportate al Dlgs 231/2002 dal Dlgs 192/2012 (ieri in Gazzetta Ufficiale), ha reso le disposizioni contenute in quest'ultimo provvedimento più cogenti rispetto al passato.
Per le Pa la novità maggiore consiste nell'impossibilità assoluta a derogare (su base convenzionale) all'applicazione delle more o di altre cautele stabilite dalla legge a favore del fornitore. Ciò farà si che, in nessun caso, essa potrà invocare giustificazioni a un mancato pagamento nei tempi stabiliti, con la conseguenza che il fornitore pagato in ritardo potrà intraprendere molto più facilmente un'azione legale per la corresponsione degli interessi moratori anche dopo il pagamento dell'importo dovuto.
Proprio quest'ultimo concetto, chiarito dalle nuove norme, deve comprendere tanto la somma che avrebbe dovuto essere pagata entro il termine contrattuale o legale di pagamento, quanto le imposte, i dazi, le tasse o gli oneri applicabili indicati nella fattura o nella richiesta equivalente di pagamento. Insomma, nulla rimane fuori dal computo della mora.
Infine, è stato stabilito che –nelle sole transazioni commerciali in cui il debitore è una Pa– è sempre nulla la clausola avente ad oggetto la predeterminazione o la modifica della data di ricevimento della fattura: una statuizione che sarebbe stato meglio estendere alle transazioni tra privati.
Per il passato, la misura con impatto più immediato è quella che riguarda i crediti verso le amministrazioni pubbliche già scaduti. Su questo fronte, i provvedimenti adottati con la certificazione del credito sono visti dalla generalità delle imprese come una via di sbocco alla massa creditoria vantata nei confronti della Pa. In questi primi giorni di applicazione della procedura, tuttavia, appare in molti casi imperfetta la conoscenza della novità da parte della Pa. In alcune amministrazioni, poi, i funzionari a cui sono state indirizzate le istanze con la modalità ordinaria sono apparsi impreparati rispetto alle richiesta delle imprese.
Un altro nodo da dirimere –evidenziato da quesiti dei lettori– è quello che interessa i crediti vantati dalle imprese nei confronti delle società a parziale o totale partecipazione pubblica. È risaputo, infatti, che nel corso degli ultimi anni lo strumento delle partecipate è stato adoperato dalle amministrazioni su diversi livelli. Tale circostanza ha fatto si che una consistente parte dei debiti pubblici sia stata trasferita proprio a tali soggetti. Purtroppo, allo stato, la procedura di certificazione dei crediti non si applica alle partecipate pubbliche (articolo Il Sole 24 Ore del 16.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

LAVORI PUBBLICIL'Authority sui lavori pubblici e il ministero lavorano per inserire il modello nel ddl Infrastrutture. Contratti tipo per il project finance. Dalle penali per contenziosi rischi di danno erariale per le p.a..
Dopo la creazione dei bandi tipo per le operazioni di project financing, ora dovrebbero essere messi a punto, dal ministero delle infrastrutture, contratti tipo per la pubblica amministrazione, le imprese e le stazioni appaltanti. D'intesa con l'Autorità di vigilanza sui lavori pubblici. L'obiettivo è ridurre le cause di contenzioso nella realizzazione di opere pubbliche con il concorso dei capitali privati.
Tra le criticità che frenano in Italia lo sviluppo del partenariato pubblico-privato (Ppp) il contenzioso costituisce il 24,2% delle cause di ritardo, a volte indefinito, del progetto, secondo lo studio dell'Ance, che ha messo in evidenza l'alta mortalità delle operazioni di project financing e come solo un'opera su quattro arrivi alla fase di gestione. Il conseguente pagamento delle penali contrattuali potrebbe comportare il rischio di danno erariale per gli amministratori pubblici che hanno partecipato al processo decisorio e di autorizzazione dell'intervento pubblico-pubblico. Una prospettiva messa in luce dal presidente dell'Autorità di vigilanza sulle opere pubbliche, Sergio Santoro.
Nella vicenda del ponte sullo stretto di Messina, caso di scuola di opera pubblica da realizzare con il ricorso alla finanza di progetto bloccata dal contenzioso, (cambio di decisione, in questo caso politica), la penale da pagare al general contractor Eurolink (raggruppamento di imprese guidato da Impregilo) è di 300 milioni di euro. Penale il cui pagamento è stato procrastinato dal decreto del governo che il 2 novembre ha deciso di concedere altri due anni di tempo per l'approvazione del progetto definitivo. Una decisione che permetterà forse al concedente, Stretto di Messina spa, di stringere con gli investitori cinesi che già dal 2011 si erano dichiarati interessati a costruire l'opera.
Ma, se, per decreto, è stata rinviata la spinosa questione del contenzioso sul ponte di Messina, non così per tutte le altre infrastrutture di Ppp. «Il problema delle penali», ha sottolineato il presidente dell'Authority, Santoro, «coinvolge la responsabilità degli amministratori pubblici (quelli che hanno fatto le scelte) che potrebbero essere coinvolti per danno erariale. Per loro esiste questo rischio, perché le penali sicuramente vanno pagate». Così, è la convinzione di Santoro, «è necessario apportare un ulteriore correttivo al ddl Infrastrutture, approvato dal consiglio dei ministri, e ora in discussione in parlamento, inserendo l'esame delle cause del contenzioso direttamente nel dibattito pubblico che obbligatoriamente si dovrà svolgere sull'opera in project finance secondo la novità procedurale introdotta dalla nuova normativa in discussione».
Nel dibattito pubblico, ha spiegato Santoro, «le contrarietà sull'intervento pubblico-privato dovranno essere esaminate in sede amministrativa e giurisdizionale e poi la fase si dovrà chiudere inesorabilmente seguita dall'apertura dei cantieri». Per evitare il blocco dei cantieri aperti «il ddl infrastrutture», ha proseguito il presidente dell'Authority di vigilanza, «dovrà essere arricchito con l'inserimento della parte processualistica e sposato con il codice del processo amministrativo (dlgs 104 del 2010) che prevede una normativa di favore per le opere pubbliche (art. 119 e seguenti) che fa in modo che il giudice amministrativo non possa intervenire su opere in esecuzione per una pretesa di affidamento illegittimo. In questo modo, non si potranno bloccare i cantieri e l'unica conseguenza per chi è rimasto illegittimamente escluso dall'affidamento dell'opera sarà l'indennizzo».
Che la legislazione sia ancora inadeguata ad attrarre capitali privati per le opere pubbliche è convinzione espressa anche da Domenico Crocco, capo dipartimento infrastrutture dell'omonimo ministero guidato da Corrado Passera.
«L'inadeguatezza dei contratti rientra fra le cause di mortalità delle operazioni di project financing, come ha evidenziato lo studio dell'Ance», ha dichiarato Crocco, «si dovrà discutere la necessità di inserire nel ddl Infrastrutture, in discussione, contratti tipo che possano dare riferimenti solidi e più certezze» (articolo ItaliaOggi del 15.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARICosa prevedono le nuove norme anticorruzione, approdate in Gazzetta Ufficiale. Magistrati, stop agli arbitrati. La scelta cadrà su dirigenti della p.a. (a rotazione).
Stop agli arbitrati per i magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari. Da oggi, gli arbitri chiamati a dirimere le controversie in materia di appalti in cui è presente una p.a., saranno scelti tra i dirigenti pubblici con incarichi a rotazione. Inoltre, chi è stato condannato, anche con sentenza non passata in giudicato, per i reati di peculato, corruzione e concussione, non potrà essere posto nell'organico di uffici preposti a gestire risorse finanziarie né potrà sedersi nelle commissioni di concorsi pubblici o di affidamento appalti pubblici.
Nessun licenziamento o trasferimento per il dipendente pubblico che denuncia all'Ago o alla Corte dei conti, condotte illecite di cui ne è venuto a conoscenza in ragione della sua funzione. Poi, i magistrati potranno essere collocati in fuori ruolo per un periodo che non superi, nell'arco della loro carriera, i dieci anni. Infine, mano più pesante sulle pene previste per alcuni reati, quali la concussione e l'abuso di ufficio.

Queste alcune delle interessanti disposizioni contenute nel testo della legge n. 190/2012, meglio nota come «legge anticorruzione», che, dopo un lungo iter parlamentare, è finalmente approdata sulla Gazzetta Ufficiale dello scorso 13 novembre ed entrerà in vigore il prossimo 28 novembre.
ARBITRATI ADDIO
Da tale data, sarà vietata ai magistrati ordinari, amministrativi, contabili, militari, agli avvocati e ai procuratori dello Stato, nonché ai componenti delle commissioni tributarie, la partecipazione a collegi arbitrali o l'assunzione di incarico di arbitro unico. In caso di violazione, la legge prevede l'immediata decadenza dagli incarichi e la nullità degli atti compiuti. La norma prevede una rivoluzione in tale campo.
Ad esempio, di dispone che la nomina degli arbitri per la risoluzione delle controversie nelle quali una parte sia una p.a., sia individuata esclusivamente tra i dirigenti pubblici. Sarà la stessa p.a. a mettere nero su bianco, all'atto della nomina, l'importo massimo spettante al dirigente per l'attività arbitrale. Viene espressamente posta una clausola di salvaguardia, ovvero che le novelle legislative non possono essere operative solo per gli arbitrati conferiti o autorizzati prima del 28 novembre.
CODICE DI COMPORTAMENTO
Anche ciascuna magistratura e l'Avvocatura dello Stato dovranno dotarsi di un codice etico, secondo le linee guida che l'esecutivo definirà a breve giro di posta. L'incombenza spetterà agli organi delle associazioni di categoria e dovranno aderirvi tutti gli appartenenti alla magistratura interessata. In caso di inerzia, la legge prescrive che il codice vengo adottato dall'organo di autogoverno.
VADE RETRO CONDANNATI
Operando un'aggiunta al Tu sul pubblico impiego, la legge n. 190 inserisce l'articolo 35-bis. Si dispone che chi è stato condannato, anche con sentenza non passata in giudicato, per i reati previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale (tra questi, il peculato, la corruzione e la concussione), potrà dire addio all'assegnazione in uffici che sono preposti alla gestione di risorse finanziarie, all'erogazione di beni e servizi, nonché all'erogazione di sovvenzioni e sussidi finanziari. A questi soggetti viene altresì preclusa la possibilità di fare parte, anche con la mansione di segretario, di commissioni di concorsi per l'accesso al pubblico impiego e di commissioni per l'affidamento di gare per appalti pubblici.
STATALE DELATORE TUTELATO
La legge poi prevede che il pubblico dipendente che denuncia all'Ago o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico, condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto a una misura discriminatoria per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia.
Tranne nei casi di calunnia o diffamazione, l'identità dello statale denunciante non può essere rivelata, almeno senza il suo consenso e sempre che l'autorità giudiziaria trovi ulteriori riscontri a quanto denunciato. Dovrà invece essere sollevato il velo sulla sua identità, nei casi in cui questa sia assolutamente indispensabile affinché il soggetto incolpato possa difendersi.
MAGISTRATI, FUORI RUOLO MAX 10 ANNI
Scatta il giro di vite sui collocamenti in fuori ruolo dei magistrati. Tranne che ai membri di governo, alle cariche elettive e ai componenti delle corti internazionali, dalla data di entrata in vigore della legge n.190, si precisa che ai magistrati ordinari, amministrativi, contabili, militari e gli avvocati e procuratori dello Stato, potranno essere collocati in posizione di fuori ruolo per un periodo complessivo, nell'arco della loro carriera, che non superi i dieci anni.
La norma in esame, prevede altresì che i soggetti indicati che, al 28.11.2012 hanno già maturato o che maturano successivamente a tale data, il periodo massimo di collocamento in fuori ruolo, devono intendersi confermati in tale posizione sino al termine dell'incarico, della legislatura o del mandato relativo all'ente presso cui si svolge la funzione di fuori ruolo. In particolare, se non vi è termine al mandato, il collocamento si intende confermato sino al 28.11.2013.
LE PENE
Tra le novità apportate dalla legge, l'inserimento nel codice penale del delitto di «traffico di influenze illecite» che sanziona chi sfrutta le sue relazioni con un soggetto pubblico al fine di farsi dare o promettere denaro o altro vantaggio patrimoniale come prezzo della sua mediazione illecita oppure per remunerare il funzionario, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio.
Poi, per la concussione, riferita al solo pubblico ufficiale, viene previsto un aumento del minimo della pena, da quattro a sei anni di reclusione, mentre per l'abuso d'ufficio, si prevede la pena della reclusione da uno a quattro anni, anziché da sei mesi a tre anni. Infine, è stata aumentata da quattro a dieci anni (anziché da tre a otto anni) la pena della reclusione per la corruzione in atti giudiziari (articolo ItaliaOggi del 15.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

LAVORI PUBBLICI: Direttiva pagamenti, i lavori pubblici rischiano l'esclusione. Le imprese: sarebbe una follia, il Governo chiarisca.
C'è il rischio che i lavori pubblici siano esclusi dal recepimento della direttiva Ue 2011/7 in materia di pagamenti.

L'allarme viene lanciato dall'intero arco delle associazioni imprenditoriali delle costruzioni con un «position paper» che tenta un'interpretazione favorevole del decreto legislativo approvato dal Governo e, al tempo stesso, minaccia un ricorso a Bruxelles qualora l'interpretazione del Governo, in fase applicativa, risultasse diversa. Alla fine il «position paper» ha soprattutto una finalità: stanare il Governo con un'interpretazione che chiarisca una volta per tutte come stiano le cose.
«Chiediamo al Governo di chiarire, in modo inequivocabile, che l'ambito di applicazione del provvedimento di recepimento della direttiva include il settore dei lavori pubblici», afferma il documento che porta la firma di Ance, Confartigianato, Cna, Casa, Aniem e delle tre centrali cooperative. Intanto, il decreto legislativo è stato firmato dal presidente della repubblica, Giorgio Napolitano, e dovrebbe essere pubblicato in Gazzetta ufficiale tra oggi e domani.
Ma qual è il punto che allarma i costruttori? Nella direttiva 7, nelle premesse, all'undicesimo «considerando», si afferma esplicitamente che i settori cui si applica la disciplina «dovrebbero anche includere la progettazione e l'esecuzione di opere e edifici pubblici, nonché i lavori di ingegneria civile». Questo richiamo esplicito si è perso nel testo del Dlgs di recepimento, ma le stesse associazioni riconoscono che questo inserimento non era affatto dovuto. «Consideriamo -afferma il documento- che la nuova disciplina introdotta con il decreto legislativo di integrale recepimento della direttiva trovi applicazione anche al settore dei lavori pubblici».
Da contatti informali con la commissione Ue, l'Ance ha avuto rassicurazioni che i lavori pubblici non possono essere esclusi dal recepimento della direttiva, ma a pesare è anche il fatto che nella precedente disciplina sui pagamenti (decreto legislativo 231/2002) i lavori pubblici furono esclusi. L'allarme nasce proprio dal fatto che il nuovo decreto legislativo va a modificare quel vecchio provvedimento senza innovare sul punto specifico.
Dal ministero dell'Economia e dalla Ragioneria, d'altra parte, non sono arrivate interpretazioni esaustive su una questione che comporterebbe una rivoluzione nel sistema di pagamenti dell'intera pubblica amministrazione: passare a 30 o 60 giorni dal 1° gennaio non è affatto un'impresa realistica se tutta una serie di procedure autorizzative e di vincoli (patto di stabilità) non vengono rese coerenti con l'obiettivo.
Da qui la preoccupazione. «Qualsiasi diversa interpretazione -dice ancora il documento- creerebbe una inaccettabile disparità di trattamento, nonché un disallineamento solo italiano rispetto alle prescrizioni delle istituzioni europee che, infatti, hanno esplicitamente inserito un riferimento al settore dei lavori pubblici nella direttiva stessa». Un'eventuale esclusione -e il riferimento è certamente esplicito- «rappresenterebbe un'inspiegabile anomalìa nel panorama europeo e porterebbe inevitabilmente all'apertura di una procedura di infrazione per la non corretta applicazione della direttiva» (articolo Il Sole 24 Ore del 15.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI: Come farsi pagare dalla «Pa».
Doppio binario per i crediti delle imprese verso la «Pa». Da gennaio versamenti in 30-60 giorni Sugli arretrati la carta-certificazione.

Da gennaio pagamenti in 30 giorni (60 nel caso di imprese pubbliche che svolgono attività economiche e di enti sanitari), e per i vecchi crediti il meccanismo della certificazione che rende "liquido" il credito e si deve tradurre in pagamenti effettivi entro 12 mesi.
Con la pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale» del 6 novembre dei tre decreti corretti sulla certificazione dei crediti, e con la scrittura del provvedimento che recepisce la direttiva europea dal 1° gennaio prossimo, nelle ultime settimane il Governo ha ristrutturato la dinamica dei rapporti commerciali fra i privati e la pubblica amministrazione. Ma il passaggio dalla teoria scritta sulla carta alla realtà è ricco di ostacoli, che mettono a rischio i principi enunciati poche righe sopra. Vediamo perché.
Vecchi crediti
La montagna di pagamenti arretrati verso privati che si è accumulata nelle pubbliche amministrazioni, e che viaggia dai 70 ai 100 miliardi a seconda delle stime, non è interessata dal recepimento della direttiva europea ma viene disciplinata dal sistema delle certificazioni. Nella versione pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» di novembre, si riduce da 60 a 30 giorni il termine entro il quale la pubblica amministrazione locale, dove si annida la fetta maggioritaria dei mancati pagamenti, deve certificare che il credito è «liquido, certo ed esigibile».
Per rendere più facile la procedura di certificazione, il ministero dell'Economia ha messo in campo una piattaforma elettronica (http://certificazionecrediti.mef.gov.it/CertificazioneCredito/home.xhtml) in cui far transitare le richieste di certificazione e le cessioni o le compensazioni con i debiti fiscali o previdenziali dell'impresa creditrice. Proprio qui rischia però di sorgere il primo inghippo, perché tutte le pubbliche amministrazioni si devono abilitare sulla piattaforma: per farlo c'è ancora una settimana di tempo, e alla scadenza si potrà stilare un primo bilancio sul tasso di adesione, soprattutto da parte della pubblica amministrazione locale.
Passata la scadenza, anche i privati potranno abilitarsi per chiedere la certificazione con la via telematica, ma ovviamente è essenziale che tutti gli enti si iscrivano in tempo. Non solo: dalla partita rimangono escluse le aziende sanitarie nelle Regioni impegnate in piani di rientro dall'extradeficit, cioè proprio gli enti che occupano le posizioni di prima fila nelle classifiche dei cattivi pagatori e che di conseguenza trattengono le somme più consistenti attese dal sistema delle imprese.
Che cosa cambia da gennaio
Nessuna amministrazione, almeno in teoria, è esclusa dai nuovi calendari che il recepimento della direttiva Ue (il provvedimento è stato firmato ieri dal Capo dello Stato, e sarà pubblicato in «Gazzetta Ufficiale» a brevissimo) imporrà dal 1° gennaio. Dal punto di vista dell'ambito applicativo, il nodo più consistente è il rischio-esclusione che pende sull'edilizia (si veda il servizio a pagina 12), e che finirebbe per chiudere la strada verso il pagamento proprio al settore più impegnato soprattutto con i Comuni.
Anche per gli altri operatori, comunque, le lungaggini delle procedure, la carenza di liquidità e i vincoli del Patto di stabilità rischiano di ritardare i tempi effettivi nonostante il nuovo calendario di legge (com'è accaduto con le vecchie regole). La novità più concreta, quindi, potrebbe essere legata al conteggio automatico degli interessi di mora, che non potranno essere esclusi dai contratti e potrebbero rappresentare per il creditore una forma di "investimento" con una buona remunerazione (articolo Il Sole 24 Ore del 15.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

VARICassazione. Le mail frequenti non costituiscono reato. Gli sms sono «molesti», salva la posta elettronica.
LA DECISIONE/ Secondo i magistrati a segnare la differenza sarebbe l'invasività dei «messaggini».

L'sms è molesto, la mail no. Lo conferma la Corte di Cassazione -sentenza 16.11.2012 n. 44855- confermando che i messaggi inviati per posta elettronica non costituisce molestia. Mentre sono a rischio gli sms in quanto, a differenza del messaggio di posta elettronica che per essere letto va aperto, sono «invasivi», come era già stato affermato da altre pronunce (24510/2010, 36779/2011).
Una pronuncia che, alla luce delle tecnologie odierne e, di fatto, della "portabilità" nei cellulari anche della posta elettronica, può sembrare in contraddizione con l'effettiva fruizione odierna della mail, assai vicina all'sms. In ogni caso, la V Sezione penale ha accolto parzialmente il ricorso di un ufficiale addetto alle comunicazioni radio che su una nave da crociera aveva conosciuto una ragazza con la quale aveva imbastito una relazione poi finita male.
A quel punto l'ufficiale di Marina ha iniziato a mandare messaggi su posta elettronica all'amata che lo aveva respinto, importunandola in vario modo. Da qui la condanna inflitta dalla Corte d'Appello di Milano, nel febbraio 2012, per i reati di tentata violenza privata, molestie, accesso abusivo ad un sistema informatico e intercettazione di comunicazioni telematiche. Contro la condanna, l'ufficiale ha fatto ricorso in Cassazione facendo notare, nel motivo accolto, che i messaggi inviati per posta elettronica non potevano costituire in alcun modo una forma di molestia.
I magistrati di piazza Cavour hanno accolto questa parte di ricorso evidenziando che «il reato di molestie non si può verificare qualora si tratti di messaggi di posta elettronica privi, in quanto tali, del carattere della invasività». Diverso discorso, annota ancora la Suprema Corte, va fatto nel caso degli sms inviati su utenze telefoniche mobili dove «l'invasività», invece, esiste. Ora sarà la Corte d'Appello di Milano a riconsiderare il caso, rideterminando al ribasso la pena nei confronti dell'ufficiale respinto (articolo Il Sole 24 Ore 17.11.2012).

COMPETENZE GESTIONALI - INCARICHI PROFESSIONALI: Ai fini della rappresentanza in giudizio del Ente, l’autorizzazione alla lite da parte della Giunta Comunale non costituisce più, in linea generale, un atto necessario ai fini dell’agire o del resistere in giudizio.
Infatti nel nuovo ordinamento delle autonomie locali, in un sistema in cui il Sindaco trae direttamente la propria investitura dal corpo elettorale e costituisce egli stesso la fonte di legittimazione degli Assessori che compongono la Giunta, l’autorizzazione da parte di quest’ultima non ha più ragion d’essere

Si conviene con la difesa del Comune, laddove si rammenta che ai fini della rappresentanza in giudizio del Ente, l’autorizzazione alla lite da parte della Giunta Comunale non costituisce più, in linea generale, un atto necessario ai fini dell’agire o del resistere in giudizio.
Infatti nel nuovo ordinamento delle autonomie locali, in un sistema in cui il Sindaco trae direttamente la propria investitura dal corpo elettorale e costituisce egli stesso la fonte di legittimazione degli Assessori che compongono la Giunta (più diffusamente sul punto Tar Salerno, I, 24.09.2012 n. 1674), l’autorizzazione da parte di quest’ultima non ha più ragion d’essere (TAR Calabria-Reggio Calabria, Sez. I, sentenza 16.11.2012 n. 671 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il concorrente che intenda utilizzare lo strumento dell’avvalimento deve sottostare alle regole di cui all’art. 49 del codice dei contratti pubblici, nel novero delle quali rientra la prescrizione di cui alla lettera c), che impone l’allegazione di “una dichiarazione sottoscritta da parte dell’impresa ausiliaria attestante il possesso da parte di quest’ultima dei requisiti generali di cui all’articolo 38”.
L’art. 49, comma 2, lettera c), del codice dei contratti pubblici sancisce, sul piano dell’accertamento dei requisiti di ordine generale, una totale equiparazione tra gli operatori economici offerenti e gli operatori economici in rapporto di avvalimento.
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Tutti i soggetti che a qualunque titolo concorrono all'esecuzione di pubblici appalti, vuoi in veste di affidatari, vuoi in veste di subaffidatari, vuoi in veste di prestatori di requisiti nell'ambito del cosiddetto avvalimento, devono essere in possesso dei requisiti morali di cui all'art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006.
Secondo tale consolidato e condivisibile indirizzo pretorio, il consorzio che partecipi alla procedura, quale che sia la sua natura, deve dimostrare il possesso dei requisiti di tutti i consorziati che vengono individuati come esecutori delle prestazioni scaturenti dal contratto. Detto principio risponde a elementari ragioni di trasparenza e di tutela effettiva degli interessi sottesi alle cause di esclusione di cui all’art. 38, d.lgs. n. 163/2006, in relazione all’ineludibile esigenza che tutti gli operatori chiamati, a qualunque titolo, all’esecuzione di prestazioni di lavori, servizi e forniture, siano dotati dei requisiti morali di cui all’art. 38 citato.
Se tali requisiti fossero accertati solo in capo al consorzio e non anche con riguardo ai consorziati che eseguono le prestazioni, il consorzio potrebbe, infatti, assurgere a schermo di copertura in guisa da consentire la partecipazione di consorziati sprovvisti dei necessari requisiti soggettivi (conf. Cons. Stato, Ad Plen, sentenza 04.05.2012, n. 8, secondo cui una diversa opzione ermeneutica, la quale richiedesse la sussistenza dei requisiti generali in capo al solo Consorzio, “condurrebbe a conseguenze paradossali in quanto le stringenti garanzie di moralità professionale richieste inderogabilmente ai singoli imprenditori potrebbero essere eluse da cooperative che, attraverso la costituzione di un consorzio con autonoma identità, riuscirebbero di fatto ad eseguire lavori e servizi per le pubbliche amministrazioni alle cui gare non sarebbero state singolarmente ammesse”).

Alla stregua di un pacifico e condivisibile orientamento giurisprudenziale, il concorrente che intenda utilizzare lo strumento dell’avvalimento deve sottostare alle regole di cui all’art. 49 del codice dei contratti pubblici, nel novero delle quali rientra la prescrizione di cui alla lettera c), che impone l’allegazione di “una dichiarazione sottoscritta da parte dell’impresa ausiliaria attestante il possesso da parte di quest’ultima dei requisiti generali di cui all’articolo 38”.
Il parallelismo, ricavabile dal dato letterale della legge e dalla ratio che lo ispira, tra gli obblighi dichiarativi posti dalla normativa primaria a carico del concorrente e quelli gravanti sull’impresa ausiliaria di cui quest’ultimo si avvalga, fa sì che con riferimento all’ausiliaria Elettrica Gover s.n.c. fosse necessaria la presentazione di dichiarazioni riguardanti i direttori tecnici e i soci. Merita adesione, al riguardo, l’indirizzo interpretativo, sancito da questa Sezione con la decisione 16.11.2010, n. 8059, secondo cui l’art. 49, comma 2, lettera c), del codice dei contratti pubblici sancisce, sul piano dell’accertamento dei requisiti di ordine generale, una totale equiparazione tra gli operatori economici offerenti e gli operatori economici in rapporto di avvalimento (vedi anche Consiglio di Stato, sez. V, 23.05.2011, n. 3077).
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Il Collegio condivide l’assunto interpretativo, da cui muove l’appellante incidentale, secondo cui tutti i soggetti che a qualunque titolo concorrono all'esecuzione di pubblici appalti, vuoi in veste di affidatari, vuoi in veste di subaffidatari, vuoi in veste di prestatori di requisiti nell'ambito del cosiddetto avvalimento, devono essere in possesso dei requisiti morali di cui all'art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006 .
Secondo tale consolidato e condivisibile indirizzo pretorio, il consorzio che partecipi alla procedura, quale che sia la sua natura, deve dimostrare il possesso dei requisiti di tutti i consorziati che vengono individuati come esecutori delle prestazioni scaturenti dal contratto (Cons. Stato, sez. VI, 15.06.2010, n. 3759; sez. VI, 24.11.2009 n. 7380). Detto principio risponde a elementari ragioni di trasparenza e di tutela effettiva degli interessi sottesi alle cause di esclusione di cui all’art. 38, d.lgs. n. 163/2006, in relazione all’ineludibile esigenza che tutti gli operatori chiamati, a qualunque titolo, all’esecuzione di prestazioni di lavori, servizi e forniture, siano dotati dei requisiti morali di cui all’art. 38 citato.
Se tali requisiti fossero accertati solo in capo al consorzio e non anche con riguardo ai consorziati che eseguono le prestazioni, il consorzio potrebbe, infatti, assurgere a schermo di copertura in guisa da consentire la partecipazione di consorziati sprovvisti dei necessari requisiti soggettivi (conf. Cons. Stato, Ad Plen, sentenza 04.05.2012, n. 8, secondo cui una diversa opzione ermeneutica, la quale richiedesse la sussistenza dei requisiti generali in capo al solo Consorzio, “condurrebbe a conseguenze paradossali in quanto le stringenti garanzie di moralità professionale richieste inderogabilmente ai singoli imprenditori potrebbero essere eluse da cooperative che, attraverso la costituzione di un consorzio con autonoma identità, riuscirebbero di fatto ad eseguire lavori e servizi per le pubbliche amministrazioni alle cui gare non sarebbero state singolarmente ammesse”)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.11.2012 n. 5780 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: La prescrizione (ndr: del bando di gara) di un’anzianità minima nel possesso di una certificazione di qualità non contrasta con l’enunciato dell’art. 43 del d.lgs. n. 163/2006 (relativo alle norme di garanzia della qualità), giacché tale disposizione, concorrendo a delineare con il precedente art. 42 il livello di capacità tecnico-professionale richiesto per la partecipazione alle procedure selettive pubbliche, si configura, al pari dell’art. 42 cit., come una previsione elastica, strutturata su concetti non tassativi (si fa riferimento, ad esempio, all’ammissibilità di “altre prove relative all’impiego di misure equivalenti di garanzia della qualità prodotte dagli operatori economici”), ben potendo l’amministrazione fissare in sede di bando requisiti di partecipazione ulteriori e più restrittivi di quelli legali, nei limiti della ragionevolezza e della proporzionalità della previsione rispetto all’oggetto dell’appalto, al fine di non restringere eccessivamente il numero dei potenziali concorrenti.
Né è irragionevole che il bando inerente all’affidamento di un servizio di grande delicatezza, quale è quello di raccolta dei rifiuti, richieda come requisito di ammissione alla gara il possesso della certificazione di qualità rilasciata da un certo numero di anni, potendosi in tal modo individuare i concorrenti che abbiano dato prova di aver operato come soggetti pienamente idonei e ben organizzati, e non essendo peraltro sindacabile il periodo di tempo prescelto al fine di stabilire la sussistenza del requisito in parola, che resta confinato nelle valutazioni di merito riservate alla pubblica amministrazione.
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Nel procedimento di annullamento della disposta aggiudicazione definitiva, sovviene il consolidato orientamento giurisprudenziale che non ravvisa la necessità della comunicazione di avvio del procedimento nei procedimenti nei quali i privati interessati abbiano avuto modo di interloquire adeguatamente con l’amministrazione.
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Laddove una determinazione amministrativa di segno negativo tragga forza da una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali sia di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse passi indenne alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall’annullamento.

aa) è pacifico e risulta comprovato dalle emergenze processuali che la Ego Eco ha prodotto in sede di gara una certificazione di qualità UNI EN ISO 14001:2004 rilasciata da meno di tre anni prima della pubblicazione del bando, per cui meritava di essere esclusa per la mancanza di un requisito di partecipazione contemplato espressamente dalla lex specialis.
Orbene, la prescrizione di un’anzianità minima nel possesso di una certificazione di qualità non contrasta con l’enunciato dell’art. 43 del d.lgs. n. 163/2006 (relativo alle norme di garanzia della qualità), giacché tale disposizione, concorrendo a delineare con il precedente art. 42 il livello di capacità tecnico-professionale richiesto per la partecipazione alle procedure selettive pubbliche, si configura, al pari dell’art. 42 cit., come una previsione elastica, strutturata su concetti non tassativi (si fa riferimento, ad esempio, all’ammissibilità di “altre prove relative all’impiego di misure equivalenti di garanzia della qualità prodotte dagli operatori economici”), ben potendo l’amministrazione fissare in sede di bando requisiti di partecipazione ulteriori e più restrittivi di quelli legali, nei limiti della ragionevolezza e della proporzionalità della previsione rispetto all’oggetto dell’appalto, al fine di non restringere eccessivamente il numero dei potenziali concorrenti (cfr. TAR Sardegna, Sez. I, 29.06.2007 n. 1433).
Né è irragionevole che il bando inerente all’affidamento di un servizio di grande delicatezza, quale è quello di raccolta dei rifiuti, richieda come requisito di ammissione alla gara il possesso della certificazione di qualità rilasciata da un certo numero di anni, potendosi in tal modo individuare i concorrenti che abbiano dato prova di aver operato come soggetti pienamente idonei e ben organizzati, e non essendo peraltro sindacabile il periodo di tempo prescelto al fine di stabilire la sussistenza del requisito in parola, che resta confinato nelle valutazioni di merito riservate alla pubblica amministrazione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 02.10.2008 n. 4759; nello stesso senso cfr. TAR Lombardia Brescia, Sez. II, 15.07.2011 n. 1061; TAR Veneto, Sez. I, 08.11.2006 n. 3748).
Perde consistenza, pertanto, ogni deduzione di nullità della contestata clausola per violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione;
bb) contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa della ricorrente incidentale, la nota comunale n. 2123 del 21.02.2012 assurge ad idonea comunicazione di avvio del procedimento di annullamento della disposta aggiudicazione definitiva, laddove nella parte relativa all’oggetto si dà conto dell’esercizio del potere di autotutela in relazione al preavviso di ricorso presentato dalla Igiene Urbana.
Inoltre, nel corpo della nota, oltre ad essere annunciata la trasmissione di copia del preavviso di ricorso, nel quale era evidenziata la carenza del requisito della certificazione di qualità con anzianità triennale, si precisa che l’iniziativa precontenziosa era rivolta proprio a contestare l’ammissione alla gara della Ego Eco: ne discende la sua sufficienza a far intendere l’eventuale riponderazione della decisione di ammettere quest’ultima alla gara e di attribuirle, conseguentemente, l’aggiudicazione definitiva.
Ad ogni modo, emerge dalla documentazione allegata allo stesso ricorso per motivi aggiunti incidentale, che la Ego Eco ha avuto modo di esercitare appieno le sue prerogative partecipative prima dell’emanazione del provvedimento di annullamento dell’aggiudicazione definitiva.
Si applica, nello specifico, il consolidato orientamento giurisprudenziale che non ravvisa la necessità della comunicazione di avvio del procedimento nei procedimenti nei quali i privati interessati abbiano avuto modo di interloquire adeguatamente con l’amministrazione (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. IV, 14.06.2005 n. 3124) (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 15.11.2012 n. 4602 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Laddove una determinazione amministrativa di segno negativo tragga forza da una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali sia di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse passi indenne alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall’annullamento.
cc) quanto sopra esposto riveste carattere assorbente ed esime il Collegio dall’esaminare la censura con cui si rimarca l’erroneità dei presupposti del mancato riscontro della nota n. 2123/2012 e dell’omessa impugnativa del bando di gara, dal momento che l’impianto complessivo dell’annullamento dell’aggiudicazione risulta comunque validamente sorretto dal riscontrato difetto del requisito del possesso di idonea certificazione di qualità.
Soccorre, al riguardo, il condiviso principio secondo il quale, laddove una determinazione amministrativa di segno negativo tragga forza da una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali sia di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse passi indenne alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall’annullamento (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.07.2010 n. 4243; Consiglio di Stato, Sez. V, 27.09.2004 n. 6301) (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 15.11.2012 n. 4602 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI:  L'art. 6, co. 4, della legge n. 537 del 1993, come novellato dall’art. 44 della legge n. 724 del 1994, prevede che tutti i contratti pubblici ad esecuzione periodica o continuativa devono recare una clausola di revisione periodica del prezzo pattuito.
Tale disposizione, ora recepita nell’art. 115 del codice dei contratti pubblici per quanto riguarda gli appalti di servizi o forniture, costituisce una norma imperativa, non suscettibile di essere derogata negozialmente, atteso che la sua finalità primaria è quella di salvaguardare l'interesse pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle pubbliche amministrazioni non siano esposte col tempo al rischio di una diminuzione qualitativa a causa della eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione e della conseguente incapacità del fornitore di farvi compiutamente fronte.
Ne consegue che le clausole contrattuali in contrasto con tali disposizioni vincolanti sono affette da nullità, in applicazione dell’art. 1419 c.c., e sono sostituite dalla disciplina legislativa, secondo il meccanismo di integrazione automatica del contratto, ai sensi degli artt. 1374 e 1339.

Al riguardo è da rilevare che l'art. 6, co. 4, della legge n. 537 del 1993, come novellato dall’art. 44 della legge n. 724 del 1994, prevede che tutti i contratti pubblici ad esecuzione periodica o continuativa devono recare una clausola di revisione periodica del prezzo pattuito.
Tale disposizione, ora recepita nell’art. 115 del codice dei contratti pubblici per quanto riguarda gli appalti di servizi o forniture, costituisce una norma imperativa, non suscettibile di essere derogata negozialmente, atteso che la sua finalità primaria è quella di salvaguardare l'interesse pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle pubbliche amministrazioni non siano esposte col tempo al rischio di una diminuzione qualitativa a causa della eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione e della conseguente incapacità del fornitore di farvi compiutamente fronte.
Ne consegue che le clausole contrattuali in contrasto con tali disposizioni vincolanti sono affette da nullità, in applicazione dell’art. 1419 c.c., e sono sostituite dalla disciplina legislativa, secondo il meccanismo di integrazione automatica del contratto, ai sensi degli artt. 1374 e 1339 (cfr. Cons. St., sez. V, 20/08/2008, n. 3994).
Sono pertanto fondate le domanda tendenti al riconoscimento della revisione dei prezzi ed all’accertamento della nullità delle pattuizioni contrarie (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 15.11.2012 n. 4600 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: In merito all'abbandono di rifiuti, sul piano dei soggetti responsabili non ci sono particolari problemi ermeneutici: proprietari, titolari di diritti reali limitati o diritti di obbligazione (detentori), ovvero ancora possessori. Sul piano invece dell’elemento psicologico dell’illecito ambientale, esso consiste in un atteggiamento di volontà dell’effetto oppure di negligenza, imprudenza, imperizia od inosservanza di regole eteronome (art. 43 c.p.); sicché, ad esempio, in caso di riversamento di rifiuti su un sito da parte di terzi ignoti, il proprietario o comunque il titolare di altro diritto o in uso di fatto del terreno non può essere chiamato tout court a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti sulla propria area, se non viene individuato a suo carico, almeno sul piano probatorio delle presunzioni ex art. 2727 cod. civ., l’elemento soggettivo del dolo o della colpa. Ove manchi quello, lo stesso soggetto non può essere destinatario di ordinanze sindacali di rimozione e rimessione in pristino.
In altri termini, l’ordine di smaltimento di rifiuti non può essere indiscriminatamente ed automaticamente rivolto al proprietario in quanto tale, o, comunque al soggetto che abbia la disponibilità, anche in via di fatto, dell’area interessata. Ciò in ragione della considerazione che la responsabilità del proprietario o del possessore o del detentore sorge esclusivamente in quanto gli stessi possano ritenersi obbligati in relazione ad un atteggiamento volitivo ritenuto motivatamente e verosimilmente doloso o colposo.
Siffatto obbligo non può che essere desunto da un comportamento, anche omissivo, di corresponsabilità con l’autore dell’abbandono illecito di rifiuti.
Di qui la conseguenza che il detto ordine di rimozione presuppone l’accertamento, almeno sul piano presuntivo, della responsabilità da illecito in capo al destinatario, dovendosi escludere la sussistenza dell’obbligo di smaltimento a carico del proprietario incolpevole, o, quantomeno, del quale l’amministrazione vigilante non abbia fornito prova o almeno plausibile e logica deduzione, attraverso adeguata istruttoria e motivazione, di una colpevole trascuratezza nella gestione e custodia del terreno di cui si abbia, per i titoli ricordati sopra, la giuridica o materiale disponibilità.
In conclusione, devesi, quindi, ritenere che il legislatore abbia strutturato la fattispecie in esame in termini sostanzialmente soggettivi, radicando solo sulla riscontrata presenza di colpevolezza del proprietario la sua concorrente responsabilità.

Per l’esame della doglianza occorre ricordare che l’art. 192 ora citato sancisce “il divieto di abbandono” e di deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo, nonché l’immissione di rifiuti di qualsiasi genere ed in qualsiasi stato nelle acque superficiali e sotterranee.
La violazione dei predetti divieti da parte di “chiunque” comporta l’obbligo di “procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo”.
La norma (sostanzialmente ripetitiva dell’art. 14 del c.d. Decreto Legislativo Ronchi n. 22/1997, con l’aggiunta di garanzie istruttorie e procedimentali) individua, pertanto, tre categorie di soggetti responsabili, in solido tra loro dell’illecito abbandono o deposito di rifiuti: l’autore materiale dell’illecito stesso, nonché, qualora esso non coincida con il proprietario o titolare di altri diritti reali o personali di godimento (ovvero anche possessore in via di fatto, evidentemente), anche queste due categorie, da individuare secondo i noti parametri civilistici (artt. 832, 957, 1099, 1040 e seg. Cod. civ.).
Dalla previsione legislativa scaturiscono una serie di conseguenze di ordine interpretativo ed applicativo.
Sul piano dei soggetti responsabili non ci sono particolari problemi ermeneutici: proprietari, titolari di diritti reali limitati o diritti di obbligazione (detentori), ovvero ancora possessori. Sul piano invece dell’elemento psicologico dell’illecito ambientale, esso consiste in un atteggiamento di volontà dell’effetto oppure di negligenza, imprudenza, imperizia od inosservanza di regole eteronome (art. 43 c.p.); sicché, ad esempio, in caso di riversamento di rifiuti su un sito da parte di terzi ignoti, il proprietario o comunque il titolare di altro diritto o in uso di fatto del terreno non può essere chiamato tout court a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti sulla propria area, se non viene individuato a suo carico, almeno sul piano probatorio delle presunzioni ex art. 2727 cod. civ., l’elemento soggettivo del dolo o della colpa. Ove manchi quello, lo stesso soggetto non può essere destinatario di ordinanze sindacali di rimozione e rimessione in pristino.
In altri termini, l’ordine di smaltimento di rifiuti non può essere indiscriminatamente ed automaticamente rivolto al proprietario in quanto tale, o, comunque al soggetto che abbia la disponibilità, anche in via di fatto, dell’area interessata. Ciò in ragione della considerazione che la responsabilità del proprietario o del possessore o del detentore sorge esclusivamente in quanto gli stessi possano ritenersi obbligati in relazione ad un atteggiamento volitivo ritenuto motivatamente e verosimilmente doloso o colposo.
Siffatto obbligo non può che essere desunto da un comportamento, anche omissivo, di corresponsabilità con l’autore dell’abbandono illecito di rifiuti.
Di qui la conseguenza che il detto ordine di rimozione presuppone l’accertamento, almeno sul piano presuntivo, della responsabilità da illecito in capo al destinatario, dovendosi escludere la sussistenza dell’obbligo di smaltimento a carico del proprietario incolpevole, o, quantomeno, del quale l’amministrazione vigilante non abbia fornito prova o almeno plausibile e logica deduzione, attraverso adeguata istruttoria e motivazione, di una colpevole trascuratezza nella gestione e custodia del terreno di cui si abbia, per i titoli ricordati sopra, la giuridica o materiale disponibilità.
In conclusione, devesi, quindi, ritenere che il legislatore abbia strutturato la fattispecie in esame in termini sostanzialmente soggettivi, radicando solo sulla riscontrata presenza di colpevolezza del proprietario la sua concorrente responsabilità (TAR Basilicata, Sez. I, sentenza 15.11.2012, n. 501 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il modello della d.i.a. edilizia è ‘a legittimazione differita’, sicché l’attività denunciata può essere intrapresa, con contestuale comunicazione, solo dopo il decorso del termine di 30 giorni dalla comunicazione.
Ai sensi dell’art. 23, comma 6, d.P.R. n. 380/2001 l’amministrazione competente, in caso di dichiarazione presentata in assenza delle condizioni, modalità e fatti legittimanti, può esercitare il potere inibitorio nel termine di trenta giorni dalla presentazione della dichiarazione, che, a sua volta, deve precedere di almeno trenta giorni l’inizio concreto dell’attività edificatoria.
Decorso senza esito il termine per l’esercizio del potere inibitorio, la pubblica amministrazione dispone del potere di autotutela ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241.
Restano inoltre salve, ai sensi dell’art. 21 della legge n. 241/1990, le misure sanzionatorie volte a reprimere le dichiarazioni false o mendaci, nonché le attività svolte in contrasto con la normativa vigente, così come sono impregiudicate le attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo previste dalla disciplina di settore.
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Come ha chiarito di recente l’adunanza plenaria (nel risolvere un conflitto sulla natura provvedimentale o meno della d.i.a.), con tali disposizioni in materia di autotutela il legislatore, lungi dal prendere posizione sulla natura giuridica dell'istituto a favore della tesi del silenzio-assenso, ha voluto solo chiarire che il termine per l’esercizio del potere inibitorio doveroso è perentorio e che, comunque, anche dopo il decorso di tale spazio temporale, la p.a. conserva un potere residuale di autotutela.
Tale potere, con cui l’amministrazione è chiamata a porre rimedio al mancato esercizio del doveroso potere inibitorio, condivide i principi regolatori sanciti, in materia di autotutela, dalle norme citate, con particolare riguardo alla necessità dell’avvio di un apposito procedimento in contraddittorio, al rispetto del limite del termine ragionevole, e soprattutto, alla necessità di una valutazione comparativa, di natura discrezionale, degli interessi in rilievo, idonea a giustificare la frustrazione dell’affidamento incolpevole maturato in capo al denunciante a seguito del decorso del tempo e della conseguente consumazione del potere inibitorio.
In sintesi la citata decisione della adunanza plenaria n. 15/2011, pur aderendo alla tesi della natura non provvedimentale della d.i.a., ha ritenuto che, a tutela dell’affidamento dell’autore della d.i.a., decorso il termine di 30 giorni dalla sua presentazione, l’amministrazione che intenda esercitare i poteri di inibizione e controllo non esercitati tempestivamente entro trenta giorni, può farlo a condizione del rispetto del modello paradigmatico del procedimento e dell’atto di autotutela.
Dunque non è contestabile che l’amministrazione conservi poteri di controllo, di inibizione e sanzionatori, se difettano i presupposti per la d.i.a., tuttavia tali poteri vanno esercitati nelle forme dell’autotutela.

Va ricordato che la d.i.a. è stata introdotta disciplinata, in via generale, dall’art. 19 della 07.08.1990, n. 241 e, con riferimento alla materia edilizia, dagli artt. 22 e 23 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Dispone, in particolare, l’art. 23, comma 1, d.P.R. n. 380/2001 che il proprietario dell'immobile o chi abbia titolo per presentare la denuncia di inizio attività, almeno trenta giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori, presenta allo sportello unico la denuncia, accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie.
Il comma 6 del medesimo articolo aggiunge che il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, ove entro il termine indicato al comma 1 sia riscontrata l'assenza di una o più delle condizioni stabilite, notifica all'interessato l'ordine motivato di non effettuare il previsto intervento e, in caso di falsa attestazione del professionista abilitato, informa l'autorità giudiziaria e il consiglio dell'ordine di appartenenza. E' comunque salva la facoltà di ripresentare la denuncia di inizio attività, con le modifiche o le integrazioni necessarie per renderla conforme alla normativa urbanistica ed edilizia.
Il modello della d.i.a. edilizia è ‘a legittimazione differita’, sicché l’attività denunciata può essere intrapresa, con contestuale comunicazione, solo dopo il decorso del termine di 30 giorni dalla comunicazione. Ai sensi dell’art. 23, comma 6, d.P.R. n. 380/2001 l’amministrazione competente, in caso di dichiarazione presentata in assenza delle condizioni, modalità e fatti legittimanti, può esercitare il potere inibitorio nel termine di trenta giorni dalla presentazione della dichiarazione, che, a sua volta, deve precedere di almeno trenta giorni l’inizio concreto dell’attività edificatoria.
Decorso senza esito il termine per l’esercizio del potere inibitorio, la pubblica amministrazione dispone del potere di autotutela ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241.
Restano inoltre salve, ai sensi dell’art. 21 della legge n. 241/1990, le misure sanzionatorie volte a reprimere le dichiarazioni false o mendaci, nonché le attività svolte in contrasto con la normativa vigente, così come sono impregiudicate le attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo previste dalla disciplina di settore.
Come ha chiarito di recente l’adunanza plenaria (nel risolvere un conflitto sulla natura provvedimentale o meno della d.i.a.), con tali disposizioni in materia di autotutela il legislatore, lungi dal prendere posizione sulla natura giuridica dell'istituto a favore della tesi del silenzio-assenso, ha voluto solo chiarire che il termine per l’esercizio del potere inibitorio doveroso è perentorio e che, comunque, anche dopo il decorso di tale spazio temporale, la p.a. conserva un potere residuale di autotutela.
Tale potere, con cui l’amministrazione è chiamata a porre rimedio al mancato esercizio del doveroso potere inibitorio, condivide i principi regolatori sanciti, in materia di autotutela, dalle norme citate, con particolare riguardo alla necessità dell’avvio di un apposito procedimento in contraddittorio, al rispetto del limite del termine ragionevole, e soprattutto, alla necessità di una valutazione comparativa, di natura discrezionale, degli interessi in rilievo, idonea a giustificare la frustrazione dell’affidamento incolpevole maturato in capo al denunciante a seguito del decorso del tempo e della conseguente consumazione del potere inibitorio (Cons. St., ad. plen., 29.07.2011 n. 15).
In sintesi la citata decisione della adunanza plenaria n. 15/2011, pur aderendo alla tesi della natura non provvedimentale della d.i.a., ha ritenuto che, a tutela dell’affidamento dell’autore della d.i.a., decorso il termine di 30 giorni dalla sua presentazione, l’amministrazione che intenda esercitare i poteri di inibizione e controllo non esercitati tempestivamente entro trenta giorni, può farlo a condizione del rispetto del modello paradigmatico del procedimento e dell’atto di autotutela.
Dunque non è contestabile che l’amministrazione conservi poteri di controllo, di inibizione e sanzionatori, se difettano i presupposti per la d.i.a., tuttavia tali poteri vanno esercitati nelle forme dell’autotutela (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 14.11.2012 n. 5751 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: L’inserimento dei candidati in graduatoria non determina ex se un diritto all’assunzione, dovendosi tener conto di eventuali mutamenti della situazione di fatto e diritto tra la data di espletamento del concorso e la data della successiva determinazione di avvalersi o meno dell’attività lavorativa di chi sia stato utilmente collocato in graduatoria.
Non è tuttavia dubbio che l’inserimento in graduatoria ingenera una legittima aspettativa a conseguire l’assunzione, e che l’amministrazione è tenuta ad adottare tempestivamente, in senso affermativo o negativo, i provvedimenti conseguenti all’inserimento in graduatoria.
In virtù del giudicato l’amministrazione è dunque obbligata a determinarsi tempestivamente in ordine all’assunzione (in senso positivo o negativo), e, in caso di provvedimento ostativo, a indicare le puntuali ragioni che impediscono l’assunzione a fronte di una graduatoria approvata.
In altri termini, l’amministrazione pubblica -se anche ritiene che vi sia un ostacolo di ordine giuridico per l’assunzione (o la nomina) di chi sia stato utilmente collocato in una graduatoria di un concorso– deve emanare un formale atto che contenga le proprie determinazioni, sia per esigenze di trasparenza che per consentire la tutela giurisdizionale dell’interessato (nell’eventuale giudizio di cognizione che questi intenda in ipotesi attivare).

E’ infatti principio ricorrente che l’inserimento dei candidati in graduatoria non determina ex se un diritto all’assunzione, dovendosi tener conto di eventuali mutamenti della situazione di fatto e diritto tra la data di espletamento del concorso e la data della successiva determinazione di avvalersi o meno dell’attività lavorativa di chi sia stato utilmente collocato in graduatoria.
Non è tuttavia dubbio che l’inserimento in graduatoria ingenera una legittima aspettativa a conseguire l’assunzione, e che l’amministrazione è tenuta ad adottare tempestivamente, in senso affermativo o negativo, i provvedimenti conseguenti all’inserimento in graduatoria.
In virtù del giudicato l’amministrazione è dunque obbligata a determinarsi tempestivamente in ordine all’assunzione (in senso positivo o negativo), e, in caso di provvedimento ostativo, a indicare le puntuali ragioni che impediscono l’assunzione a fronte di una graduatoria approvata.
In altri termini, l’amministrazione pubblica -se anche ritiene che vi sia un ostacolo di ordine giuridico per l’assunzione (o la nomina) di chi sia stato utilmente collocato in una graduatoria di un concorso– deve emanare un formale atto che contenga le proprie determinazioni, sia per esigenze di trasparenza che per consentire la tutela giurisdizionale dell’interessato (nell’eventuale giudizio di cognizione che questi intenda in ipotesi attivare) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 14.11.2012 n. 5750 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La denuncia di inizio attività disciplinata dal T.U. in materia edilizia 06.06.2001 n. 380 è comunque assimilabile a un'istanza autorizzatoria, che, con il decorso del termine di legge, provoca la formazione di un provvedimento tacito di accoglimento dell'istanza.
Dopo il decorso del termine di 30 giorni per la formazione del provvedimento tacito l’amministrazione non perde i suoi poteri di autotutela, i quali tuttavia devono essere esercitati nel rispetto del principio di certezza dei rapporti giuridici e di salvaguardia del legittimo affidamento del privato nei confronti dell'attività amministrativa.

È fondato e assorbente di ogni altra censura il motivo con il quale parte ricorrente deduce l’avvenuta formazione del silenzio assenso sulla d.i.a., ai sensi degli artt. 22 e 23 del D.P.R. n. 380/2001.
La denuncia di inizio attività disciplinata dal T.U. in materia edilizia 06.06.2001 n. 380 è comunque assimilabile a un'istanza autorizzatoria, che, con il decorso del termine di legge, provoca la formazione di un provvedimento tacito di accoglimento dell'istanza.
Dopo il decorso del termine di trenta giorni per la formazione del provvedimento tacito l’amministrazione non perde i suoi poteri di autotutela, i quali tuttavia devono essere esercitati nel rispetto del principio di certezza dei rapporti giuridici e di salvaguardia del legittimo affidamento del privato nei confronti dell'attività amministrativa.
Nel caso di specie, la valutazione effettuata dall'Amministrazione nel provvedimento impugnato, in ordine alla contrarietà dell'opera eseguita dal ricorrente a seguito della presentazione della d.i.a., valutazione che conduce al blocco delle opere, avrebbe dovuto essere preceduta dall'annullamento del provvedimento formatosi sulla d.i.a..
Quest'ultimo avrebbe dovuto essere preceduto dall'avviso di avvio del procedimento e dal rispetto di tutte le forme sostanziali e procedimentali previste per gli atti in autotutela, ivi compreso il rispetto del tempo ragionevole per porre in essere il provvedimento di secondo grado e la comparazione dell’interesse pubblico con l’aspettativa del privato, consolidata dal decorso del tempo –quasi un anno dalla denuncia di inizio attività edilizia- e dalla consapevolezza dell’intervenuto assenso tacito nei termini di legge.
Tale serie procedimentale non è stata seguita nel caso di specie, avendo l’Amministrazione emesso il provvedimento di blocco dei lavori senza preavviso e senza preventivo annullamento del provvedimento di tacito assenso, non svolgendo alcuna valutazione in ordine alla prevalenza dell’interesse all’autotutela sull’aspettativa consolidata del costruttore.
In difetto dei presupposti per l’esercizio dell’autotutela l’attività dichiarata può legittimamente proseguire, anche nelle opere denunciate nel 2011 in variante, le quali hanno carattere marginale e accessorio rispetto alla ristrutturazione di cui alla d.i.a. del 2010 (consistono in piccoli spostamenti di tramezzature interne, montaggio di infissi, sostituzione del pavimento, adeguamento degli impianti tecnologici e tinteggiature).
Il ricorso, pertanto deve essere accolto quanto alla richiesta di annullamento del provvedimento impugnato. Non emergono, invece, danni risarcibili, anche considerando che l’ordinanza cautelare emessa da questa Sezione (n. 3430/2011) ha tempestivamente inibito gli effetti dell’atto lesivo (TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis, sentenza 12.11.2012 n. 9257 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il principio di tassatività delle cause di esclusione ex art. 46, c. 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006, si applica anche alle procedure aventi ad oggetto l'affidamento di una concessione di servizio pubblico.
Il principio di tassatività delle cause di esclusione disposto dall'art. 46, c. 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006, c.d. Codice dei contratti pubblici (introdotto con il D.L. n. 70 del 2011 ed applicabile ratione temporis alla presente controversia) si applica anche alle procedure aventi ad oggetto l'affidamento di una concessione di servizio pubblico. La tassatività delle ipotesi di esclusione, infatti, assurge ormai a principio generale relativo ai contratti pubblici e costituisce specificazione del principio di proporzionalità, talché la sua estensione alla materia delle concessioni di pubblico servizio trova esplicito fondamento nell'art. 30, c. 3 del Codice.
Diversamente opinando, si giungerebbe ad un'ingiustificata divaricazione del regime da seguire nella gare per l'affidamento di appalti ed in quelle per l'affidamento di concessioni di servizi, non essendo peraltro sempre netto il confine tra le due categorie.
Pertanto, nel caso di specie, è illegittima, per violazione dell'art. 46, c. 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006, la clausola della lex specialis di gara che imponga, a pena di esclusione, la presentazione della certificazione di qualità, in originale o in copia autentica, trattandosi di adempimento formale non essenziale e non previsto da alcuna norma di legge o regolamento (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 09.11.2012 n. 1907 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZI: La richiesta in una gara per l'affidamento del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti dell'iscriz. all'Albo Naz. Gest. Ambientali, non più prevista dalla legge, viola i principi della par condicio e dei canoni di ragionevolezza e proporzionalità.
Secondo l'originaria formulazione dell'art. 212 del D.Lgs. n. 152/2006, le iscrizioni all'Albo Nazionale Gestori Ambientali per specifiche categorie e classi di attività erano effettuate secondo la disciplina dell'art. 8 del D.M. n. 406 del 1998.
Di recente, l'art. 25 del D.Lgs. n. 205/2010 ha modificato in molti punti l'art. 212 del D.Lgs. n. 152 del 2006 e ne ha, tra l'altro, abrogato il c. 20, che prevedeva l'iscrizione all'Albo per le imprese che effettuassero attività di raccolta e trasporto di rifiuti sottoposti a procedure autorizzatorie semplificate ed effettivamente avviati al riciclaggio ed al recupero, attività che corrispondeva alle categorie 2 e 3 dell'Albo. Ne consegue che le categorie 2 e 3 individuate dal D.M. n. 406 del 1998, non essendo più compatibili con la nuova formulazione dell'art. 212 del D.Lgs. n. 152 del 2006, devono ritenersi abrogate.
Pertanto, nel caso di specie, la lex specialis di gara non poteva legittimamente richiedere ai concorrenti la dimostrazione di un requisito non più conseguibile, a seguito della soppressione della categ. 3 e delle relative classi di attività. La richiesta di un'iscrizione all'Albo non più prevista dalla legge, e dunque preclusa agli operatori economici che ne fossero privi, configura di per sé la violazione del principio della par condicio e dei canoni di ragionevolezza e proporzionalità, in quanto determina una irrazionale restrizione della possibilità di partecipare alla gara d'appalto, favorendo quegli operatori che tale iscrizione avessero ottenuto anni addietro, prima della modifica legislativa (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 09.11.2012 n. 1903 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sulla dichiarazione attestante il possesso dei requisiti di partecipazione di cui all'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006.
Nelle procedure di evidenza pubblica la completezza delle dichiarazioni è già di per sé un valore da perseguire perché consente -secondo i principi di buon andamento dell'amministrazione e di proporzionalità- la celere decisione sull'ammissione dei soggetti giuridici alla gara.
Conseguentemente una dichiarazione inaffidabile (anche perché solo incompleta) è da considerare già di per sé stessa lesiva degli interessi considerati dalla norma a prescindere dal fatto che l'impresa meriti sostanzialmente di partecipare alla gara. In materia di appalti occorre invero poter fare affidamento su una dichiarazione idonea a far assumere tempestivamente alla stazione appaltante le necessarie determinazioni in ordine all'ammissione dell'operatore economico alla gara o alla sua esclusione.
La dichiarazione ex art. 38 del d.lgs. n. 163/2006 è quindi sempre utile perché l'Amministrazione sulla base di quella decide in merito alla legittima ammissione alla gara e conseguentemente la sua difformità dal vero o la sua incompletezza non possono essere "sanate" ricorrendo alla categoria del falso innocuo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.11.2012 n. 5693 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI SERVIZINon è di per sé illegittimo il ricorso all'istituto della ordinanza contingibile ed urgente per la proroga del contratto in essere (ndr: della nettezza urbana) in quanto, malgrado il Comune non si sia tempestivamente attivato per la indizione della gara per l'affidamento del servizio in questione, la situazione di pericolo per la salute pubblica e l'ambiente connesse alla gestione dei rifiuti, non fronteggiabile adeguatamente con le ordinarie misure, legittima comunque il Sindaco all'esercizio dei poteri extra ordinem riconosciutigli dall'ordinamento giuridico (art. 50 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267).
Del resto, le ordinanze sindacali contingibili ed urgenti prescindono dall'imputabilità all'Amministrazione o a terzi ovvero a fatti naturali, delle cause che hanno generato la situazione di pericolo: pertanto, di fronte all'urgenza di provvedere, non rileva affatto chi o cosa abbia determinato la situazione di pericolo che il provvedimento è rivolto a rimuovere.
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Tuttavia, l'ordinanza impugnata con il ricorso introduttivo del giudizio e così pure quelle avversate con motivi aggiunti devono ritenersi, invece, illegittime nella parte in cui il Sindaco ordina alla ricorrente la prosecuzione del servizio di igiene urbana, mantenendo invariato il corrispettivo economico fissato col precedente contratto (il primo risalente al 27.04.2005).
Il principio generale secondo il quale in materia di provvedimenti contingibili ed urgenti deve essere arrecato al privato destinatario dell' ordinanza il minor sacrificio possibile comporta l'obbligo di non imporre, attraverso il ricorso ai poteri extra ordinem, corrispettivi ancorati a valori risalenti nel tempo e non preceduti dalla previa verifica della loro idoneità a remunerare con carattere di effettività il servizio reso.
Secondo un condivisibile e consolidato orientamento giurisprudenziale, il provvedimento contingibile ed urgente non può giustificare anche una sorta di prezzo imposto dall'Amministrazione al privato, dovendo all'obbligo di proseguire nell'espletamento del servizio essere connessa la corresponsione di un giusto compenso per il destinatario del provvedimento. L'imposizione di una prestazione ad un prezzo non più corrispondente ai prezzi di mercato determinerebbe, infatti, un ingiustificato sacrificio dell'iniziativa economica privata a beneficio della p.a., con violazione dei principi desumibili dall'art. 41 Cost..
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Ritiene il Collegio, in considerazione della invarianza delle modalità di gestione del servizio erogato e del dato naturale per cui alcuni costi gestionali sono stati ammortizzati nel corso della precedente gestione del servizio, di dover fare applicazione del criterio risarcitorio comunemente adottato dalla giurisprudenza in casi analoghi, riconoscendo la pretesa risarcitoria nei limiti della rivalutazione dell'originario compenso, in base agli indici ISTAT, con riferimento al momento dell'adozione delle avversate ordinanze; con rivalutazione monetaria e interessi corrispettivi sulla somma così determinata, a partire dalla data di cessazione del servizio in regime di proroga e fino al soddisfo.
La domanda risarcitoria va, quindi, accolta limitatamente al danno derivante dalla maggiore onerosità della prestazione del servizio rispetto al canone riconosciuto, in una misura che, in via equitativa, va determinata in una somma pari alla rivalutazione monetaria, secondo gli indici ISTAT, del corrispettivo stabilito in base al precedente contratto di appalto stipulato tra le parti, riconoscendo altresì, sulla somma come innanzi determinata, gli interessi e la rivalutazione monetaria dalla data di cessazione dell'espletamento del servizio fino all'effettivo soddisfo.

Il Collegio condivide il tradizionale orientamento giurisprudenziale secondo cui non è di per sé illegittimo il ricorso all'istituto della ordinanza contingibile ed urgente per la proroga del contratto in essere in quanto, malgrado il Comune non si sia tempestivamente attivato per la indizione della gara per l'affidamento del servizio in questione, la situazione di pericolo per la salute pubblica e l'ambiente connesse alla gestione dei rifiuti, non fronteggiabile adeguatamente con le ordinarie misure, legittima comunque il Sindaco all'esercizio dei poteri extra ordinem riconosciutigli dall'ordinamento giuridico (art. 50 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267).
Del resto, le ordinanze sindacali contingibili ed urgenti prescindono dall'imputabilità all'Amministrazione o a terzi ovvero a fatti naturali, delle cause che hanno generato la situazione di pericolo: pertanto, di fronte all'urgenza di provvedere, non rileva affatto chi o cosa abbia determinato la situazione di pericolo che il provvedimento è rivolto a rimuovere (Consiglio di Stato, Sez. V, del 09.11.1998 n. 1585; Tar Campania Napoli, Sez. I, 27.3.2000 n. 813).
E però l'ordinanza impugnata con il ricorso introduttivo del giudizio e così pure quelle avversate con motivi aggiunti devono ritenersi, invece, illegittime nella parte in cui il Sindaco ordina alla ricorrente la prosecuzione del servizio di igiene urbana, mantenendo invariato il corrispettivo economico fissato col precedente contratto (il primo risalente al 27.04.2005) (cfr. in tal senso, da ultimo, TAR Lecce, II Sezione, 16.04.2012 n. 691).
Il principio generale secondo il quale in materia di provvedimenti contingibili ed urgenti deve essere arrecato al privato destinatario dell' ordinanza il minor sacrificio possibile comporta l'obbligo di non imporre, attraverso il ricorso ai poteri extra ordinem, corrispettivi ancorati a valori risalenti nel tempo e non preceduti dalla previa verifica della loro idoneità a remunerare con carattere di effettività il servizio reso.
Secondo un condivisibile e consolidato orientamento giurisprudenziale, il provvedimento contingibile ed urgente non può giustificare anche una sorta di prezzo imposto dall'Amministrazione al privato, dovendo all'obbligo di proseguire nell'espletamento del servizio essere connessa la corresponsione di un giusto compenso per il destinatario del provvedimento. L'imposizione di una prestazione ad un prezzo non più corrispondente ai prezzi di mercato determinerebbe, infatti, un ingiustificato sacrificio dell'iniziativa economica privata a beneficio della p.a., con violazione dei principi desumibili dall'art. 41 Cost. (Consiglio di Stato, Sez. V, 02.12.2002 n. 6624).
In ragione di quanto rilevato, le avversate ordinanze sono dunque tutte illegittime per aver ordinato alla ricorrente di continuare ad eseguire il servizio agli stessi patti e condizioni dei contratti in precedenza stipulati.
Con la pretesa (risarcitoria) azionata la ricorrente lamenta un danno economico corrispondente alla differenza tra il costo reale del servizio affidatole ed il canone fissato con l’ordinanza n. 151 del 2010, pari ad euro 52.073,00 oltre IVA, un danno economico corrispondente agli oneri sopportati per fare fronte alle esposizioni bancarie necessarie a compensare lo squilibrio economico cagionato dalla prestazione del servizio a condizioni non remunerative e l’ulteriore pregiudizio costituito dalla perdita di chance per aver perso la possibilità di stipulare contratti con altre amministrazioni.
Ritiene il Collegio, in considerazione della invarianza delle modalità di gestione del servizio erogato e del dato naturale per cui alcuni costi gestionali sono stati ammortizzati nel corso della precedente gestione del servizio, di dover fare applicazione del criterio risarcitorio comunemente adottato dalla giurisprudenza in casi analoghi, riconoscendo la pretesa risarcitoria nei limiti della rivalutazione dell'originario compenso, in base agli indici ISTAT, con riferimento al momento dell'adozione delle avversate ordinanze; con rivalutazione monetaria e interessi corrispettivi sulla somma così determinata, a partire dalla data di cessazione del servizio in regime di proroga e fino al soddisfo (Consiglio di Stato, Sez. V, 02.12.2002, n. 6624; TAR Sicilia, Catania, Sez. III 02.11.2010 n. 4316; TAR Sicilia, Palermo, Sez. I 27.03.2008 n. 383; TAR Lazio, Roma Sez. II 06.10.2001 n. 8173).
La domanda risarcitoria va, quindi, accolta limitatamente al danno derivante dalla maggiore onerosità della prestazione del servizio rispetto al canone riconosciuto, in una misura che, in via equitativa, va determinata in una somma pari alla rivalutazione monetaria, secondo gli indici ISTAT, del corrispettivo stabilito in base al precedente contratto di appalto stipulato tra le parti, riconoscendo altresì, sulla somma come innanzi determinata, gli interessi e la rivalutazione monetaria dalla data di cessazione dell'espletamento del servizio fino all'effettivo soddisfo.
Le pretese risarcitorie legate alle altre voci di danno sono invece inammissibili per genericità e poiché sprovviste del benché minimo principio di prova (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 06.11.2012 n. 9062 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASono legittimi i presupposti per l’intervento ripristinatorio di autotutela possessoria da parte dell’Amministrazione laddove vi sia l’accertata preesistenza di fatto dell’uso pubblico della strada e la turbativa e alterazione dei luoghi che impedisce l’utilizzazione da parte della collettività.
L'esercizio dei poteri di autotutela possessoria (ex art. 823 cod. civ. e art. 15 d.lgs. 01.09.1918, n. 1446) presuppone la persistenza dei requisiti “di fatto” necessari per la configurabilità di tale tipo di strade: un passaggio esercitato "iure servitutis publicae" da una collettività di persone, la concreta idoneità della strada a soddisfare il collegamento con la via pubblica, ma anche esigenze di carattere generale (accesso al parco pubblico), l'esistenza di un titolo valido a fondamento del diritto di uso pubblico.

In relazione a ciò occorre richiamare la giurisprudenza costante che ritiene legittimi i presupposti per l’intervento ripristinatorio di autotutela possessoria da parte dell’Amministrazione laddove, come nella specie, vi sia l’accertata preesistenza di fatto dell’uso pubblico della strada e la turbativa e alterazione dei luoghi che impedisce l’utilizzazione da parte della collettività (cfr. ex multis, Cons. Giust. Amm. Regione Siciliana, 18.06.2003, n. 244: Tar Lazio, Roma, sez. I, 19.04.2007, n. 3419; idem, sez. II-ter, 03.11.2009, n.10781; Tar Sardegna, sez. II, 17.03.2010, n. 312; Cons. Stato, sez. V, 25.06.2010, n. 4064; Tar Piemonte, sez. I, 08.04.2011, n. 376).
A ciò va richiamato che l'esercizio dei poteri di autotutela possessoria (ex art. 823 cod. civ. e art. 15 d.lgs. 01.09.1918, n. 1446) presuppone la persistenza dei requisiti “di fatto” necessari per la configurabilità di tale tipo di strade: un passaggio esercitato "iure servitutis publicae" da una collettività di persone, la concreta idoneità della strada a soddisfare il collegamento con la via pubblica, ma anche esigenze di carattere generale (accesso al parco pubblico), l'esistenza di un titolo valido a fondamento del diritto di uso pubblico (atto d’obbligo 28.01.1969); nella specie, si tratta di requisiti che risultano accertati con adeguata istruttoria ed esplicitati nella motivazione del provvedimento di autotutela, che pertanto come risulta dimostrato non può ritenersi –nel senso asserito dal Condominio (sesto mezzo)- mera riedizione del precedente provvedimento repressivo adottato dal Comune nei confronti dello stesso.
Né varrebbe obiettare, come sostiene parte ricorrente (quarto e quinto mezzo), che non vi sarebbero documenti atti a provare che la strada in questione sia pubblica, posto che mancherebbe anche la prova da parte del Comune dello svolgimento di attività manutentiva sulla strada medesima. Ebbene, riguardo a ciò va riservata analoga prognosi di infondatezza, in quanto appare invece dimostrato in modo evidente dalla documentazione in atti che la predetta strada è compresa nell’elenco delle strade la cui manutenzione è a carico del Municipio XIII (vedi elenco prot. n. 117531 del 30.12.2010; nota Municipio XIII, 10.12.2007, prot. n. 114721), così come indicato nell’atto impugnato.
Pertanto, l’Amministrazione comunale con il provvedimento impugnato, e in esecuzione del pregresso giudicato, ha esercitato correttamente il potere di autotutela possessoria iuris publici in relazione alla strada in questione interessata da uso pubblico, per favorire l’accesso al parco pubblico da parte della collettività (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 05.11.2012 n. 9045 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIAnche nel caso di affidamento di concessioni di beni pubblici aventi rilevanza economica deve trovare applicazione il consolidato orientamento secondo il quale per radicare una posizione di interesse legittimo che legittimi l’impugnazione della decisione dell’amministrazione di procedere ad un affidamento diretto di un servizio pubblico (o di un appalto pubblico) occorre che il ricorrente rivesta la qualità di impresa operante nel settore e sia interessato all’aggiudicazione.
Innanzi tutto risulta infondato il primo motivo, con il quale i ricorrenti deducono che i provvedimenti impugnati si pongono in contrasto con i principi del Trattato UE in materia di evidenza pubblica -che, secondo la giurisprudenza comunitaria e nazionale, devono trovare applicazione anche nel caso di affidamento di concessioni di beni pubblici aventi rilevanza economica e con il vigente Regolamento per gli impianti sportivi di proprietà comunale, che prevede lo svolgimento di una gara pubblica per l’individuazione del concessionario- perché il Comune di Roma ha proceduto all’affidamento diretto dell’area di proprietà comunale sita tra via del Tintoretto e via Baldovinetti, ove dovrebbe sorgere l’impianto sportivo.
Infatti, anche nel caso di affidamento di concessioni di beni pubblici aventi rilevanza economica deve trovare applicazione il consolidato orientamento (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 17.09.2008, n. 4389) secondo il quale per radicare una posizione di interesse legittimo che legittimi l’impugnazione della decisione dell’amministrazione di procedere ad un affidamento diretto di un servizio pubblico (o di un appalto pubblico) occorre che il ricorrente rivesta la qualità di impresa operante nel settore e sia interessato all’aggiudicazione.
Ebbene, come correttamente osservato dal Comune di Roma nelle memorie depositate in data 07.07.2009 e 30.12.2011, nessuno dei ricorrenti ha motivo di dolersi del mancato esperimento di una procedura ad evidenza pubblica per l’assegnazione dell’area in questione se si considera che nessuno di essi ha manifestato un interesse all’affidamento della concessione (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 05.11.2012 n. 9023 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo l’art. 14, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, dell’avvio del procedimento finalizzato al rilascio del permesso di costruire in deroga “viene data comunicazione agli interessati ai sensi dell’articolo 7 della legge 07.08.1990, n. 241” e che, secondo l’art. 7, comma 1, secondo periodo, della legge n. 241/1990, “qualora da un provvedimento possa derivare un pregiudizio a soggetti individuati o facilmente individuabili, diversi dai suoi diretti destinatari, l’amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse modalità, notizia dell'inizio del procedimento”.
Invero, il proprietario di immobile confinante con quello oggetto della richiesta di permesso di costruire non può essere considerato soggetto direttamente interessato al provvedimento, con la conseguenza che non sussiste alcun obbligo per l’Amministrazione di dargli comunicazione dell’avvio del procedimento preordinato al rilascio del permesso di costruire, fermo restando che ciò non comporta alcuna lesione delle sue facoltà procedimentali, comunque salvaguardate dalla possibilità di intervento volontario nel procedimento di rilascio del titolo edilizio ai sensi dell’art. 9, della legge n. 241/1990.
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La giurisprudenza amministrativa aveva inizialmente interpretato l’espressione “edifici ed impianti di interesse pubblico” di cui all’art. 14, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 (che recepisce la disposizione dell’art. 41-quater della legge n. 1150/1942) in senso restrittivo, facendovi rientrare soltanto quelli corrispondenti a compiti assunti direttamente dalla pubblica Amministrazione.
Tuttavia attualmente la prevalente giurisprudenza ritiene applicabile la predetta disposizione anche agli edifici ed impianti nei quali sia comunque offerto un servizio alla collettività.
Pertanto anche un impianto sportivo come quello di cui trattasi rientra tra le opera di interesse pubblico per cui può essere rilasciato il permesso di costruire in deroga.
Innanzitutto i ricorrenti deducono la violazione del secondo comma dell’art. 14 del d.P.R. n. 380/2001, nonché dell’art. 1 del Regolamento comunale n. 57 del 02.03.2006, lamentando che l’Amministrazione non ha comunicato l’avvio del procedimento finalizzato al rilascio del permesso di costruire in deroga, sicché i residenti del quartiere non hanno potuto esprimere nelle sedi competenti le proprie osservazioni in merito alla realizzazione dell’intervento.
A tal riguardo si deve rammentare che, secondo l’art. 14, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, dell’avvio del procedimento finalizzato al rilascio del permesso di costruire in deroga “viene data comunicazione agli interessati ai sensi dell’articolo 7 della legge 07.08.1990, n. 241” e che, secondo l’art. 7, comma 1, secondo periodo, della legge n. 241/1990, “qualora da un provvedimento possa derivare un pregiudizio a soggetti individuati o facilmente individuabili, diversi dai suoi diretti destinatari, l’amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse modalità, notizia dell'inizio del procedimento”.
Ciò posto, nessuno dei ricorrenti ha motivo di lamentarsi dell’omissione della comunicazione dell’avvio del procedimento perché nessuno di essi era destinatario diretto del provvedimento, né risultava preventivamente individuato o, quantomeno, facilmente individuabile come soggetto portatore di un interesse contrario al rilascio del permesso di costruire.
Del resto, secondo una consolidata giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 06.06.2012, n. 3343), il proprietario di immobile confinante con quello oggetto della richiesta di permesso di costruire non può essere considerato soggetto direttamente interessato al provvedimento, con la conseguenza che non sussiste alcun obbligo per l’Amministrazione di dargli comunicazione dell’avvio del procedimento preordinato al rilascio del permesso di costruire, fermo restando che ciò non comporta alcuna lesione delle sue facoltà procedimentali, comunque salvaguardate dalla possibilità di intervento volontario nel procedimento di rilascio del titolo edilizio ai sensi dell’art. 9, della legge n. 241/1990.
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Da ultimo i ricorrenti contestano che l’impianto sportivo in questione possa essere qualificato come un’opera pubblica o come un’opera di interesse pubblico e, quindi possa beneficiare delle deroghe previste dall’art. 14 del d.P.R. n. 380/2001.
A tal riguardo il Collegio osserva che, la giurisprudenza amministrativa aveva inizialmente interpretato l’espressione “edifici ed impianti di interesse pubblico” di cui all’art. 14, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 (che recepisce la disposizione dell’art. 41-quater della legge n. 1150/1942) in senso restrittivo, facendovi rientrare soltanto quelli corrispondenti a compiti assunti direttamente dalla pubblica Amministrazione.
Tuttavia attualmente la prevalente giurisprudenza (TAR Trentino Alto Adige-Trento, Sez. I, 18.06.2009, n. 194; TAR Sardegna Cagliari, Sez. II, 22.07.2009, n. 1375) ritiene applicabile la predetta disposizione anche agli edifici ed impianti nei quali sia comunque offerto un servizio alla collettività.
Pertanto anche un impianto sportivo come quello di cui trattasi rientra tra le opera di interesse pubblico per cui può essere rilasciato il permesso di costruire in deroga (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 05.11.2012 n. 9023 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sulle caratteristiche del servizio di refezione scolastica.
La refezione scolastica attualmente assume le caratteristiche di servizio essenziale pur strumentale all'attività scolastica, in quanto funzionale a garantire l'attività didattica nelle forme di impegno temporale attualmente vigenti.
Pertanto, l'attività in esame, pur in astratto ricadente tra le attività industriali, per il metodo di produzione adottato, non può ascriversi urbanisticamente e giuridicamente a tale categoria, in quanto è opera che assicura un servizio economico di interesse generale quale il servizio scolastico.
Nel caso di specie, il fatto che alcuni pasti (600 previsti in convenzione) possano non essere acquistati dal Comune per le proprie scuole, bensì da altri istituti di istruzione e assistenza all'infanzia presenti nel Comune, non modifica e le caratteristiche e la natura giuridica del centro di produzione pasti.
Pertanto, nel caso di specie, è legittima la scelta del Comune di realizzare un centro pasti anziché allestire delle cucine nelle singole scuole che nasce dalla necessità di abbattere i costi ed ampliare gli spazi dedicati all'attività didattica nelle singole strutture scolastiche (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.11.2012 n. 5589 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl diritto di accesso si connota non in termini di situazione meramente strumentale alla tutela giurisdizionale, ma avente carattere autonomo; il che implica che l’accesso è consentito indipendentemente da ogni connessione al cd. diritto di azione e che il giudice, chiamato a decidere sulla relativa domanda, deve verificare unicamente i presupposti legittimanti l’istanza di accesso proprio perché l’interesse alla conoscenza dei documenti amministrativi costituisce un bene autonomo e meritevole di tutela, a prescindere dalle posizioni sulle quali abbia poi ad incidere l’attività amministrativa.
L’articolo 22 della legge n. 241 del 1990, sostanzia il diritto di accesso in termini di facoltà per gli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi; per interessati si intendono “i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”.
Per il comma 2 poi “l’accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza”.
Per la giurisprudenza, quindi, il diritto di accesso si connota non in termini di situazione meramente strumentale alla tutela giurisdizionale, ma avente carattere autonomo; il che implica che l’accesso è consentito indipendentemente da ogni connessione al cd. diritto di azione e che il giudice, chiamato a decidere sulla relativa domanda, deve verificare unicamente i presupposti legittimanti l’istanza di accesso proprio perché l’interesse alla conoscenza dei documenti amministrativi costituisce un bene autonomo e meritevole di tutela, a prescindere dalle posizioni sulle quali abbia poi ad incidere l’attività amministrativa (TAR Lazio-Latina, sentenza 05.11.2012 n. 837 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa normativa sul condono edilizio prevede, in pendenza dei termini, la sospensione de iure di ogni attività repressiva degli abusi edilizi. In conseguenza, le ingiunzioni di demolizione adottate in violazione dell’art. 44, l. n. 47 del 1985 si rivelano illegittime.
Invero, la predetta sospensione paralizza (non solo i procedimenti in corso, bensì anche) l’avvio dei poteri repressivi comunali, stante l’ontologica e funzionale incompatibilità del loro esercizio sia con la ratio della norma primaria, siccome volta, questa, a consentire il recupero dell'attività edilizia posta in essere, che con i principi di lealtà, coerenza, efficienza ed economicità dell'azione amministrativa, i quali impongono la previa definizione del procedimento di condono prima di assumere iniziative, le cui finalità potrebbero essere vanificate dall'esito dell’iter in procinto di essere avviato sulla base della dichiarazione d'impulso ad istanza di parte (richiesta del condono edilizio).

Considerato che alla stregua di quanto su esposto deve ribadirsi, quindi, l’orientamento costante per il quale «la normativa sul condono edilizio prevede, in pendenza dei termini, la sospensione de iure di ogni attività repressiva degli abusi edilizi. In conseguenza, le ingiunzioni di demolizione adottate in violazione dell’art. 44, l. n. 47 del 1985 si rivelano illegittime. Invero, la predetta sospensione paralizza (non solo i procedimenti in corso, bensì anche) l’avvio dei poteri repressivi comunali, stante l’ontologica e funzionale incompatibilità del loro esercizio sia con la ratio della norma primaria, siccome volta, questa, a consentire il recupero dell'attività edilizia posta in essere, che con i principi di lealtà, coerenza, efficienza ed economicità dell'azione amministrativa, i quali impongono la previa definizione del procedimento di condono prima di assumere iniziative, le cui finalità potrebbero essere vanificate dall'esito dell’iter in procinto di essere avviato sulla base della dichiarazione d'impulso ad istanza di parte (richiesta del condono edilizio)» (Tar Campania Napoli, sez. VI, 19.06.2008, n. 6005) (TAR Lazio-Latina, sentenza 05.11.2012 n. 836 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADeve essere qualificata come "intervento di nuova costruzione" l'installazione di un manufatto, seppure leggero ed eventualmente anche prefabbricato, e di strutture di qualsiasi genere (quali roulottes, campers, case mobili o imbarcazioni - che siano usati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili), le quali non siano dirette a soddisfare esigenze meramente temporanee.
In particolare, deve escludersi che sia destinata a esigenze temporanee l'installazione di una voluminosa copertura in PVC, per quanto stagionale (nella specie questa veniva rimossa per un periodo di 4 mesi ogni anno), specie ove si tratti di struttura destinata all'esercizio di un'attività commerciale e di somministrazione, come tale ontologicamente "non temporanea".
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Sebbene la piscina possa essere, di norma, prevalentemente (anche se non necessariamente solo) utilizzata in periodo estivo, appare piuttosto inverosimile che la medesima del prefabbricato, durante la stagione invernale, possa essere agevolmente rimossa, presentando pertanto caratteri di stabilità e di permanenza che giustificano la necessità di idoneo titolo concessorio.

Per quanto riguarda l'installazione di una piscina prefabbricata, deduce la ricorrente violazione ed erronea applicazione degli artt. 4 e 7 L. 47/1985, ritenendo non necessaria la concessione edilizia trattandosi appunto di una struttura prefabbricata che non comporta un'alterazione profonda e permanente del territorio.
La censura non può essere accolta in sintonia con un orientamento espresso, tra le altre, da Consiglio di Stato sez. VI, 16.02.2011, n. 986 secondo cui “Deve essere qualificata come "intervento di nuova costruzione" l'installazione di un manufatto, seppure leggero ed eventualmente anche prefabbricato, e di strutture di qualsiasi genere (quali roulottes, campers, case mobili o imbarcazioni - che siano usati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili), le quali non siano dirette a soddisfare esigenze meramente temporanee. In particolare, deve escludersi che sia destinata a esigenze temporanee l'installazione di una voluminosa copertura in PVC, per quanto stagionale (nella specie questa veniva rimossa per un periodo di 4 mesi ogni anno), specie ove si tratti di struttura destinata all'esercizio di un'attività commerciale e di somministrazione, come tale ontologicamente "non temporanea"”.
Infatti, sebbene la piscina possa essere, di norma, prevalentemente (anche se non necessariamente solo) utilizzata in periodo estivo, appare piuttosto inverosimile che la medesima, durante la stagione invernale, possa essere agevolmente rimossa, presentando pertanto caratteri di stabilità e di permanenza che giustificano la necessità di idoneo titolo concessorio.
In ogni caso, successivamente alla proposizione del ricorso, la ricorrente ha depositato le istanze di sanatoria n. 7346 e 7342 del 31.03.2004 nonché n. 7590 del 02.04.2004 ai sensi della Legge 326/2003 aventi ad oggetto anche la piscina prefabbricata.
Conseguentemente il ricorso deve essere dichiarato sul punto improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse dovendo l'amministrazione pronunciarsi sulle domande di condono ed eventualmente, in caso di rigetto, riadottare il provvedimento sanzionatorio, posto che quello impugnato ha perso efficacia (TAR Lazio-Latina, sentenza 02.11.2012 n. 827 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione del manufatto abusivo è atto vincolato e quindi non richiede una specifica valutazione delle ragioni di pubblico interesse né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi dei privati coinvolti e sacrificati.
Inoltre, ai sensi dell’art. 13 legge 28.02.1985 n.47 (ora art. 36 D.P.R. 06.06.2001 n. 380) l’accertamento di conformità urbanistica delle opere realizzate in assenza di titolo non va condotto d’ufficio, ma deve essere chiesto dal responsabile dell’abuso, essendo l’Amministrazione tenuta, quando accerti la realizzazione di opere in assenza di concessione, esclusivamente ad ingiungere la demolizione indipendentemente dalla loro conformità o meno alle previsioni degli strumenti urbanistici.

Con il secondo motivo di eccesso di potere, difetto di motivazione e sviamento, il ricorrente sostiene che l’illegittimità della abusività dell’opera non sarebbe sufficiente a legittimare “ex se” l’adozione del provvedimento di demolizione, occorrendo anche che sia stato valutato che risponda all’interesse pubblico la demolizione del manufatto e che si sia proceduto alla comparazione con dell’interesse privato; l’Amministrazione dovrebbe anche dare compiutamente conto delle ragioni che l’inducono all’attività repressiva, se il manufatto realizzato sia conforme alle previsioni degli strumenti urbanistici.
Le argomentazioni del ricorrente non trovano, tuttavia, riscontro nella costante giurisprudenza secondo la quale l’ordine di demolizione del manufatto abusivo è atto vincolato e quindi non richiede una specifica valutazione delle ragioni di pubblico interesse né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi dei privati coinvolti e sacrificati (cfr. Tar Lecce, sez. III, 10.11.2011, n.1937); inoltre, ai sensi dell’art. 13 legge 28.02.1985 n.47 (ora art. 36 D.P.R. 06.06.2001 n. 380) l’accertamento di conformità urbanistica delle opere realizzate in assenza di titolo non va condotto d’ufficio, ma deve essere chiesto dal responsabile dell’abuso, essendo l’Amministrazione tenuta, quando accerti la realizzazione di opere in assenza di concessione, esclusivamente ad ingiungere la demolizione indipendentemente dalla loro conformità o meno alle previsioni degli strumenti urbanistici (così Tar Campania, Napoli sez. IV, 28.07.1999, n. 2109) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 31.10.2012 n. 4347 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I provvedimenti repressivi di abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento perché trattasi di atti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle medesime.
L'avviso di avvio del procedimento non è dovuto nel caso di procedimento volto all'irrogazione della sanzione della demolizione edilizia di costruzione eseguita senza alcun titolo, od attinente ad abusi che non necessitano di particolari valutazioni discrezionali, ma comportano un mero accertamento di natura tecnica sulla consistenza delle opere.

Con il quarto mezzo, si lamenta la mancata comunicazione ex art. 7 L. 241/1990.
La censura è infondata in fatto ed in diritto: in fatto, poiché è dal 1995 (cioè dal primo sopralluogo effettuato dal Comune, di cui si da atto nel provvedimento) che si è stabilito il rapporto amministrativo inter partes; in diritto, stante l’orientamento della giurisprudenza sul punto (I provvedimenti repressivi di abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento perché trattasi di atti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle medesime: Tar Campania–Napoli sez. VII, nr. 4259 del 01.09.2011; L'avviso di avvio del procedimento non è dovuto nel caso di procedimento volto all'irrogazione della sanzione della demolizione edilizia di costruzione eseguita senza alcun titolo, od attinente ad abusi che non necessitano di particolari valutazioni discrezionali, ma comportano un mero accertamento di natura tecnica sulla consistenza delle opere: TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 03.11.2006, n. 1271) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 31.10.2012 n. 4340 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Costituiscono vincoli preordinati all'espropriazione o di carattere sostanzialmente espropriativo solo quelli che implicano uno svuotamento incisivo della proprietà, mentre non lo sono i vincoli di destinazione imposti dal piano regolatore per attrezzature e servizi realizzabili anche ad iniziativa privata o promiscua, in regime di economia di mercato, anche se accompagnati da strumenti di convenzionamento (ad esempio parcheggi, impianti sportivi, mercati e strutture commerciali, edifici sanitari, zone artigianali, industriali o residenziali).
In questa prospettiva le destinazioni a parco urbano, a verde urbano, a verde pubblico, a verde pubblico attrezzato, a parco giochi e simili si pongono al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo e costituiscono espressione di potestà conformativa (avente validità a tempo indeterminato), quando lo strumento urbanistico consente di realizzare tali previsioni, non già ad esclusiva iniziativa pubblica, ma ad iniziativa privata o promiscua pubblico - privata, senza necessità di ablazione del bene.

Infine, quanto alla scadenza dei vincoli di destinazione imposti dal piano regolatore generale alla zona oggetto del P.I.P. osserva il Collegio che “secondo consolidato orientamento giurisprudenziale costituiscono vincoli preordinati all'espropriazione o di carattere sostanzialmente espropriativo solo quelli che implicano uno svuotamento incisivo della proprietà, mentre non lo sono i vincoli di destinazione imposti dal piano regolatore per attrezzature e servizi realizzabili anche ad iniziativa privata o promiscua, in regime di economia di mercato, anche se accompagnati da strumenti di convenzionamento (ad esempio parcheggi, impianti sportivi, mercati e strutture commerciali, edifici sanitari, zone artigianali, industriali o residenziali).
In questa prospettiva le destinazioni a parco urbano, a verde urbano, a verde pubblico, a verde pubblico attrezzato, a parco giochi e simili si pongono al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo e costituiscono espressione di potestà conformativa (avente validità a tempo indeterminato), quando lo strumento urbanistico consente di realizzare tali previsioni, non già ad esclusiva iniziativa pubblica, ma ad iniziativa privata o promiscua pubblico - privata, senza necessità di ablazione del bene (di recente Consiglio di Stato Sezione IV 22.06.2011 n. 3797; Corte Costituzionale n. 20.05.1999, n. 179; Consiglio di Stato Adunanza Plenaria, 24.05.2007, n. 7 e 16.11.2005, n. 9; Consiglio di Stato Sezione IV, 23.12.2010, n. 9372; 19.03.2008, n. 1201; 25.05.2005, n. 2718; 05.06.2004, n. 4010; 08.06.2000, n. 3214; Cassazione 19.05.2006, n. 11848)
” (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 30.10.2012 n. 4331 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sebbene in linea generale e di principio l’ingiunzione a demolire costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, non è precluso all’amministrazione disporre, a seguito di una valutazione tecnica e non genericamente fondata su profili di opportunità, l’irrogazione della sanzione pecuniaria; in tal caso, quindi, il giudizio sintetico- valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria, quando ciò sia di pregiudizio per la parte dell’opera eseguita in conformità, viene svolto a monte.
Nell’uno e nell’altro caso, tuttavia, deve emergere la sussistenza dei presupposti fondamentali per procedere all’irrogazione della sanzione, che è, comunque, connotata dal carattere afflittivo proprio delle sanzioni amministrative. Come evidenziato, infatti, dalla consolidata giurisprudenza condivisa dal Collegio, l’irrogazione della sanzione pecuniaria non equivale ad una sanatoria, giacché non integra una regolarizzazione dell’illecito.

Prioritario ed assorbente si palesa l’esame del secondo motivo di ricorso nella parte in cui viene contestata la carenza di motivazione del provvedimento gravato che non esplicita adeguatamente le ragioni per le quali l’amministrazione ha ritenuto di procedere all’irrogazione del provvedimento sanzionatorio.
Si osserva, infatti, che l’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001 disciplina l’ipotesi eccezionale dell’impossibilità tecnica e fattuale di procedere alla demolizione delle opere abusive senza pregiudicare le parti dell’edificio regolarmente autorizzate.
La sanzione pecuniaria è, dunque, alternativa rispetto a quella demolitoria della quale devono, quindi, sussistere i presupposti, che l’amministrazione è tenuta a sufficientemente esplicitare nel relativo provvedimento.
Si evidenzia, inoltre, che sebbene in linea generale e di principio l’ingiunzione a demolire costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, non è precluso all’amministrazione disporre, a seguito di una valutazione tecnica e non genericamente fondata su profili di opportunità, l’irrogazione della sanzione pecuniaria; in tal caso, quindi, il giudizio sintetico- valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria, quando ciò sia di pregiudizio per la parte dell’opera eseguita in conformità, viene svolto a monte. Nell’uno e nell’altro caso, tuttavia, deve emergere la sussistenza dei presupposti fondamentali per procedere all’irrogazione della sanzione, che è, comunque, connotata dal carattere afflittivo proprio delle sanzioni amministrative. Come evidenziato, infatti, dalla consolidata giurisprudenza condivisa dal Collegio, l’irrogazione della sanzione pecuniaria non equivale ad una sanatoria, giacché non integra una regolarizzazione dell’illecito (Cass. Pen., sez. III, 23.03.2004, n. 13978 del 2004) (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 26.10.2012 n. 4299 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto stradale prescritte dal D.M. n. 1404 del 1968 si traduce in un divieto assoluto di edificazione che rende le aree legalmente inedificabili, indipendentemente dalle caratteristiche dell'opera realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei connessi rischi per la circolazione stradale, con la conseguenza che tale limitazione deve ritenersi operativa anche con riferimento a costruzioni realizzate ad un diverso livello da quello della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti.
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L’art. 33 della L. 28.02.1985 n. 47 non consente alcuna possibilità di deroga da parte dell'autorità preposta –a differenza del caso in cui l’edificazione sia avvenuta all'interno del centro abitato– in relazione alle opere costruite successivamente all’imposizione del vincolo, sicché doverosamente e legittimamente l’amministrazione provinciale ha escluso la sanabilità dell’opera abusiva de qua.

Si sottolinea, infatti, che, come chiarito dalla consolidata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, il vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto stradale prescritte dal D.M. n. 1404 del 1968 si traduce in un divieto assoluto di edificazione che rende le aree legalmente inedificabili, indipendentemente dalle caratteristiche dell'opera realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei connessi rischi per la circolazione stradale, con la conseguenza che tale limitazione deve ritenersi operativa anche con riferimento a costruzioni realizzate ad un diverso livello da quello della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti (cfr., ex multis, Cass. Civ., sez. II, 03.11.2010, n. 22422; TAR Toscana, sez. III, 23.07.2012, n. 1349).
Nella fattispecie, dunque, trova applicazione l’art. 33 della L. 28.02.1985 n. 47, che non consente alcuna possibilità di deroga da parte dell'autorità preposta –a differenza del caso in cui l’edificazione sia avvenuta all'interno del centro abitato– in relazione alle opere costruite successivamente all’imposizione del vincolo, sicché doverosamente e legittimamente l’amministrazione provinciale ha escluso la sanabilità dell’opera abusiva de qua (cfr. ex multis, Cons. St., sez. IV, 12.02.2010, n. 772; TAR Lazio, Roma, sez. I, 12.11.2008, n. 10100; Cons. St., sez. IV, 18.10.2002 n. 5716).
Il Collegio rileva, inoltre, l’adeguatezza dell’istruttoria condotta dall’amministrazione che non ha trascurato di esaustivamente considerare le diverse opere oggetto di sanatoria; dallo stesso atto gravato emerge, infatti, che gli altri abusi hanno ricevuto una diversa valutazione in quanto realizzati prima del 13.04.1968, data di entrata in vigore del D.M. n. 1404 del 1968 (abusi indicati ai punti 1, 4 e 6) ovvero in quanto realizzati in conformità alla distanza prescritta (abuso indicato al punto 5) o, infine, in quanto sostanziatisi in una mera modifica di destinazione d’uso senza aumento di superficie e volume (abuso indicato al punto 3).
Quanto alla deduzione diretta a contestare il diverso trattamento riservato dall’amministrazione in relazione ad altre costruzioni asseritamente edificate in palese violazione dell’art. 4 del D.M. n. 104 del 1968, il Collegio, oltre a rilevare che tale argomentazione è stata prospettata, peraltro genericamente, solo nella perizia di parte depositata in data 31.08.2012, sottolinea che la disparità di trattamento non rileva quando si tratta di rivendicazione di posizioni riconosciute ad altri in modo illegittimo in quanto, altrimenti, il giudice si troverebbe a dover consentire un'applicazione incongrua ed illegittima della normativa in favore del mero principio di par condicio (cfr. ex multis, Cons. St., sez. VI, 27.08.2010, n. 5980; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 20.09.2010, n. 3763; TAR Lazio, Roma, sez. I, 07.09.2010, n. 32113) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 26.10.2012 n. 4283 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sulla distinzione tra attività economiche e non economiche: presupposti.
Il servizio di illuminazione votiva è indubbiamente un servizio a rilevanza economica.

La distinzione tra attività economiche e non economiche ha carattere dinamico ed evolutivo, cosicché non è possibile fissare a priori un elenco definitivo dei servizi di interesse generale di natura economica (secondo la costante giurisprudenza comunitaria spetta infatti al giudice nazionale valutare circostanze e condizioni in cui il servizio viene prestato, tenendo conto, in particolare, dell'assenza di uno scopo precipuamente lucrativo, della mancata assunzione dei rischi connessi a tale attività ed anche dell'eventuale finanziamento pubblico dell'attività in questione.
In sostanza, per qualificare un servizio pubblico come avente rilevanza economica o meno si deve prendere in considerazione non solo la tipologia o caratteristica merceologica del servizio (vi sono attività meramente erogative come l'assistenza agli indigenti), ma anche la soluzione organizzativa che l'ente locale, quando può scegliere, sente più appropriata per rispondere alle esigenze dei cittadini (ad esempio servizi della cultura e del tempo libero da erogare, a seconda della scelta dell'ente pubblico, con o senza copertura dei costi). Dunque, la distinzione può anzitutto derivare da due presupposti, in quanto non solo vi può essere un servizio che ha rilevanza economica o meno in astratto ma anche uno specifico servizio che, per il modo in cui è organizzato, presenta o non presenta tale rilevanza economica.
 Saranno, quindi, privi di rilevanza economica i servizi che sono resi agli utenti in chiave meramente erogativa e che, inoltre, non richiedono una organizzazione di impresa in senso obiettivo (invero, la dicotomia tra servizi a rilevanza economica e quelli privi di rilevanza economica può anche essere desunta dalle norme privatistiche, coincidendo sostanzialmente con i criteri che contraddistinguono l'attività di impresa nella previsione dell'art. 2082 Cod. civ. e, per quanto di ragione, dell'art. 2195 o, per differenza, con ciò che non vi può essere ricompreso). Per gli altri servizi, astrattamente di rilevanza economica, andrà valutato in concreto se le modalità di erogazione, ne consentano l'assimilazione a servizi pubblici privi di rilevanza economica.
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Il servizio di illuminazione votiva è indubbiamente un servizio a rilevanza economica. La qualificazione di un servizio pubblico a rilevanza economica è correlata alla astratta potenzialità di produrre un utile di gestione e, quindi, di riflettersi sull'assetto concorrenziale del mercato di settore, sicché non rileva l'irrisorietà dell'utile che in concreto un servizio per come svolto produca. Non è significativa, in conseguenza, nel caso di specie, la circostanza che l'attività come svolta dal comune sia risultata in concreto caratterizzata da un'esigua redditività.
Né risulta, peraltro, che il comune abbia offerto il servizio gratuitamente o sopportandone parte dei costi, risultando, al contrario, che ha svolto in proprio un'attività imprenditoriale vera e propria, seppure senza autonoma organizzazione (il servizio sarebbe stato gestito integrando le relative attività con quelle svolte dalle direzioni edilizie e dalla direzione risorse finanziarie).
Tale circostanza è dirimente per sussumere tale servizio tra quelli a rilevanza economica con la conseguenza che esso doveva essere esternalizzato in base all'art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 (vigente al momento dell'adozione da parte del comune del provvedimento impugnato), non potendo essere sottratto al mercato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.10.2012 n. 5409 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

SICUREZZA LAVORO: Obbligo di vigilanza del committente sulla sicurezza dei lavori appaltati.
I) In conseguenza di un infortunio occorso durante i lavori di pulitura di un capannone industriale affidati in appalto ed eseguiti in assenza dei prescritti strumenti di protezione quali cinture di sicurezza, ponteggi o impalcature, il rappresentante legale della società committente proprietaria del capannone e il titolare dell’impresa appaltatrice datore di lavoro dell’infortunato furono condannati per il reato di lesione personale colposa.
Nel confermare la condanna degli imputati, la sentenza Varvarotto sottolinea, anzitutto, che «anche a carico dell’appaltatore, quali che siano stati i rapporti interni con il beneficiario della prestazione, è il rispetto delle disposizioni prevenzionali, appartenendo le norme antinfortunistiche al diritto pubblico ed essendo le stesse inderogabili in forza di atti privati
E nega che si possa invocare «una causa di esclusione della responsabilità, fondata su una asserita estraneità alle disposizioni impartite dal committente al lavoratore, posto che l’appaltatore non ha in alcun modo cooperato nell’attuazione delle misure di sicurezza e non ha promosso alcuna attività di coordinamento ai fini della effettiva realizzazione delle misure di sicurezza, tenuto conto che il lavoratore impiegato non era nelle condizioni di autonomia tecnico professionale da poter provvedere ai rischi propri dell’attivita` che era chiamato ad eseguire (v. art. 7, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 626/1994 [e ora art. 26, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 81/2008]).» (Circa gli obblighi dell’appaltatore v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza, IV edizione, Milano, 2012, 279 ss., cui adde Cass. 10.07.2012, Sguassero e altro, in ISL, 2012, 8-9, 488).
Di grande interesse è poi l’analisi dedicata al ruolo del committente.
In proposito, la Sez. IV premette che «la responsabilità dell’appaltatore non esclude, in caso di infortunio, la configurabilità della responsabilità anche del committente (in ossequio alla disciplina di settore: prima, l’art. 7 D.Lgs. n. 626, ora trasfuso sostanzialmente nell’art. 26 D.Lgs. n. 81/2008)», e che «questi, in termini generali, è corresponsabile qualora l’evento si colleghi casualmente anche alla sua colposa omissione e ciò avviene, ad esempio, quando abbia consentito l’inizio dei lavori in presenza di situazioni di fatto pericolose
Inoltre, rileva che «il committente può essere chiamato a rispondere dell’infortunio qualora l’omessa adozione delle misure di prevenzione prescritte sia immediatamente percepibile cosicché il committente medesimo sia in grado di accorgersi dell’inadeguatezza delle stesse senza particolari indagini, mentre, in questa evenienza, ad escludere la responsabilità del committente, non sarebbe sufficiente che questi abbia impartito le direttive da seguire a tale scopo, essendo comunque necessario che ne abbia controllato, con prudente e continua diligenza, la puntuale osservanza
Chiarisce, peraltro, che «tale principio non può essere applicato automaticamente, non potendo esigersi dal committente un controllo pressante, continuo e capillare sull’organizzazione e sull’andamento dei lavori», e che, «in questa prospettiva, per fondare la responsabilità del committente, non si può prescindere da un attento esame della situazione fattuale, al fine di verificare quale sia stata, in concreto, l’effettiva incidenza della condotta del committente nell’eziologia dell’evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l’esecuzione dei lavori
Segnala che, «a tal fine, vanno considerati: la specificità dei lavori da eseguire; i criteri seguiti dal committente per la scelta dell’appaltatore o del prestatore d’opera (quale soggetto munito dei titoli di idoneità prescritti dalla legge e della capacità tecnica e professionale proporzionata al tipo di attività commissionata ed alle concrete modalità di espletamento della stessa); l’ingerenza del committente stesso nell’esecuzione dei lavori oggetto dell’appalto o del contratto di prestazione d’opera; nonché, la percepibilità agevole ed immediata da parte del committente di eventuali situazioni di pericolo
E con riguardo al caso di specie, richiama «la concreta ingerenza da parte del committente  nella esecuzione dei lavori», mette in luce che «il committente era certamente a conoscenza delle condizioni dell’immobile che aveva acquistato ad un’asta fiduciaria ed aveva visionato personalmente prima di affidare i lavori in appalto», sottolinea che il committente «aveva frequentato il cantiere, tanto da avere avanzato specifiche richieste per la rimozione e l’illegittimo ‘‘smaltimento’’ delle lastre in eternit
Quanto alla culpa in eligendo, constata «la evidente incapacità tecnica ed organizzativa della ditta appaltatrice (con riferimento in particolare all’assenza di ogni dispositivo di protezione), che non poteva sfuggire al committente
II) Dal suo canto, la sentenza Bifulco insegna che «il committente è costituito come corresponsabile con l’appaltatore per le violazioni delle misure prevenzionali e protettive sulla base degli obblighi sullo stesso incombenti art. 7 D.Lgs. n. 626/1994 [ora trasfuso nell’art. 26 D.Lgs. n. 81/2008]», e che, «in materia di infortuni sul lavoro, nel caso di appalto di lavori di ristrutturazione edilizia il committente, anche quando non si ingerisce nella loro esecuzione, rimane comunque obbligato a verificare l’idoneità tecnico-professionale dell’impresa e dei lavoratori autonomi prescelti in relazione ai lavori affidati
Insegna, altresì, che «l’esistenza di un contratto d’appalto o di un contratto d’opera, non esclude la responsabilità del committente per gli infortuni subiti dal medesimo, atteso che il committente è esonerato dagli obblighi in materia antinfortunistica esclusivamente con riguardo ai rischi specifici delle attività proprie dell’appaltatore o del prestatore d’opera
Anche se poi nel caso specifico afferma che «la motivazione addotta dalla sentenza impugnata per ritenere la responsabilità dell’imputata, quale proprietaria dell’immobile e committente dei lavori, risulta ictu oculi insufficiente e generica, dal momento che non consente di comprendere come l’omesso fissaggio del telone s’inserisca nella mancanza di coordinamento di cui all’art. 7 D.Lgs. n. 626/1994.» (Per una illustrazione degli obblighi del committente nel quadro dell’art. 26 D.Lgs. n. 81/2008 v. Guariniello, op. cit., specialmente 260 ss.: da segnalare, in ispecie, è, del medesimo estensore della sentenza Varvarotto, Cass. 30.01.2012, Marangio e altri, ibid., 263 ss.) (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 20.09.2012 n. 36284 - tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 11/2012).

SICUREZZA LAVORO: Omessa nomina del coordinatore e responsabilità del committente.
Nel corso di lavori di rifacimento del tetto di un fabbricato affidati dal proprietario a una impresa appaltatrice, un operaio dipendente di tale impresa precipita al suolo dal quarto piano a causa della mancata predisposizione di parapetti in corrispondenza del cornicione esterno.
Oltre al datore di lavoro appaltatore, fu condannato il committente, in quanto «aveva omesso di designare il coordinatore per la progettazione ed il coordinatore per l’esecuzione dei lavori, donde la mancanza di un piano per la sicurezza nonostante che nei cantiere operassero in contemporanea due distinte imprese» e «qualora fossero stati previsti nel piano di sicurezza e posti in opera parapetti dell’altezza normativamente prescritta, in ogni parte del cantiere (come imposto dalla disciplina antinfortunistica sia al committente che all’appaltatore) al fine di impedire la caduta dall’alto, l’evento non si sarebbe certamente verificato
Nel respingere il ricorso proposto dal solo committente, la Sez. IV prende atto che «nel cantiere operavano, anche se non in contemporanea, più imprese», tanto è vero che, «il giorno dell’infortunio, erano impegnate nel cantiere ben tre ditte individuali, subappaltatrici», e che «l’esecuzione dei lavori di rifacimento del tetto comportava ex se il rischio per gli operai di caduta da altezza superiore a metri due dal suolo, rischio espressamente previsto dall’Allegato II al D.Lgs. n. 494/1996 [e ora Allegato XI al D.Lgs. n. 81/2008]
Osserva eloquentemente che «dalla mancata nomina dei coordinatori per la progettazione e per l’esecuzione dei lavori (cui il committente era, nella concreta fattispecie, obbligato) è pertanto conseguita la mancata redazione del piano di sicurezza che, per quanto qui rileva, avrebbe dovuto in particolare contenere misure generali di protezione da adottare contro il rischio di caduta dall’alto, nonché la predisposizione di accessi e segnalazioni al fine di tutelare l’incolumità dei lavoratori impegnati ad accedere alla copertura del fabbricato e negli interventi veri e propri di rifacimento del tetto
Considera «indubbia la relazione causale esistente tra le omissioni ascritte al committente e il verificarsi dell’evento», in quanto «la doverosa (ma omessa) nomina del coordinatore per la progettazione e per l’esecuzione dei lavori cui era demandata ex lege l’adozione del piano per la sicurezza del cantiere avrebbe comportato la predisposizione di apposite e concrete misure antinfortunistiche con la designazione di colui che avrebbe dovuto controllarne la puntuale ottemperanza», e «a tanto avrebbe fatto seguito non solo l’istituzione del divieto di transito nei punti più pericolosi, ma anche l’adozione di parapetti dell’altezza normativamente prescritta
Conclude che, «alla stregua del giudizio c.d. ‘‘controfattuale’’, la condotta positiva omessa sarebbe stata ex se atta ad impedire l’evento, donde la comprovata sussistenza del nesso eziologico».
Aggiunge che, «in caso di inosservanza alle prescrizioni del piano, il coordinatore per l’esecuzione dei lavori aveva l’espressa facoltà di proporre la sospensione dell’esecuzione dei lavori, provvedendo poi, in caso di inerzia o di difetto di motivazione, a segnalare inadempienza alla ASL ed alla direzione provinciale del lavoro, competenti.» (Circa l’omessa nomina dei coordinatori come causa dell’infortunio occorso in un cantiere con compresenza di più imprese v. i precedenti richiamati da Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, IV edizione, Milano, 2012, 488 ss.) (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 13.08.2012 n. 32433 - tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 11/2012).

SICUREZZA LAVORO: Obblighi e responsabilità del coordinatore nei cantieri.
Ancora una illuminante sentenza della Corte Suprema a proposito degli obblighi e delle responsabilità del coordinatore per la progettazione e del coordinatore per l’esecuzione nei cantieri temporanei o mobili (quanto alla posizione di garanzia dei coordinatori v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, IV edizione, Milano, 2012, 501 s. e 508 ss., cui aggiungi Cass. 14.06.2012, Gencarelli, e Cass. 07.06.2012, Goracci, in ISL, 2012, 10, 544).
Condannato in primo grado dal Tribunale di Parma, al pari del datore di lavoro dell’impresa esecutrice dei lavori, per un infortunio sul lavoro, il coordinatore per la progettazione e per l’esecuzione dei lavori fu assolto dalla Corte d’Appello di Bologna, sul presupposto che costui «non era tenuto a sorvegliare che i lavoratori facessero un uso puntuale e corretto dei mezzi di protezione e ad impedire eventuali condotte negligenti e imprudenti degli stessi
Nell’annullare con rinvio agli effetti civili la sentenza di assoluzione, la Sez. IV prende atto che l’imputato «rivestiva pacificamente la qualifica di coordinatore per la progettazione e l’esecuzione dei lavori per conto del committente», e che «si tratta di una figura che secondo la giurisprudenza di questa Corte comporta rilevanti oneri di protezione a carico di colui che la riveste, le cui posizioni di garanzia non si sovrappongono a quelle degli altri soggetti responsabili nel campo della sicurezza sul lavoro, ma ad esse si affiancano per realizzare, attraverso la valorizzazione di una figura unitaria con compiti di coordinamento e controllo, la massima garanzia dell’incolumità dei lavoratori
Ribadisce che «il coordinatore per l’esecuzione dei lavori ha non soltanto il compito di organizzare il lavoro tra le diverse imprese operanti nello stesso cantiere, bensì anche quello di vigilare sulla corretta osservanza da parte delle stesse delle prescrizioni del piano di sicurezza e sulla scrupolosa applicazione delle procedure di lavoro a garanzia dell’incolumità dei lavoratori.»
Rileva che, «nella specie, l’imputato rivestiva entrambe le qualifiche e dunque era suo compito assolvere puntualmente gli obblighi
Rimprovera alla Corte d’Appello di Bologna di non «aver correttamente inquadrato la figura di tale soggetto ed essersi fatta carico di un effettivo controllo circa il rispetto da parte dell’imputato dei doveri che la stessa comporta». In particolare, rileva che «non risulta neppure positivamente accertato se il piano di sicurezza era stato redatto, se in esse figuravano le necessarie opere provvisionali e il coordinamento tra imprese non solo con riferimento ai ponteggi perimetrali, ma altresì in relazione ad eventuali altre opere la cui realizzazione avesse comportato l’esposizione a pericolo da parte dei lavoratori addetti, come appunto la realizzazione dell’armatura di una trave da realizzarsi a notevole altezza da terra.» (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 10.08.2012 n. 32331 - tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 11/2012).

SICUREZZA LAVOROIl datore di lavoro pubblico in materia di sicurezza del lavoro.
Ancora una sentenza della Corte Suprema sul datore di lavoro pubblico in materia di sicurezza del lavoro.
Ultimamente, la Sez. III osservò che «la definizione di datore di lavoro, contenuta nell’art. 2 D.Lgs. n. 81/2008, ha dato esclusivo rilievo, ai fini della individuazione dei soggetti titolari del debito di sicurezza, al requisito della organizzazione della attività, unito, ovviamente, all’esercizio dei poteri decisionali e di spesa inerenti la stessa», e che, «nella sua seconda parte, l’art. 2, comma 1, lettera b), del citato decreto individua la figura del datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, e, a differenza del D.Lgs. n. 626/1994, il vigente 81/2008 recepisce, esplicitandolo, lo stabile indirizzo giurisprudenziale secondo il quale è l’organo di vertice delle singole amministrazioni, ovverosia l’organo di direzione politica, a dovere individuare il dirigente, o il funzionario non dirigente, cui attribuire la qualità di datore di lavoro».
Aggiunse che «mutuate dal predetto orientamento della Corte di legittimità sono anche le conseguenze che secondo il dettato del citato decreto derivano dalla omessa individuazione dell’organo politico del dirigente designato ad assumere il debito di sicurezza», poiché «in tali casi la qualifica di datore di lavoro continuerà a coincidere con l’organo di vertice medesimo, quindi con il sindaco». (Così Cass. 20.04.2012, in Dir. prat. lav., 2012, 22, 1446. Sul tema v. anche Cass. 28.09.2011, Laganà e R.C, ibid., 2012, 4, 233; Cass. 06.06.2011, Betti, ibid., 2011, 8-9, 674; Cass. 05.05.2011, Angeloni e altri, ibid., 2011, 6, 360, alle cui note si rinvia per il richiamo di ulteriori riferimenti giurisprudenziali).
Nel caso ora esaminato dalla presente sentenza, il direttore generale di un consorzio intercomunale rifiuti, energia servizi, ente consortile con personalità giuridica ed autonomia negoziale, fu dichiarato colpevole quale datore di lavoro per più violazioni antinfortunistiche, sul presupposto che lo statuto del consorzio «attribuisce al direttore generale ampi e pregnanti poteri gestionali, decisionali e di spesa, propri del datore di lavoro».
A sua discolpa, l’imputato lamenta che, «secondo il T.U. 81/2008, che ha mutuato l’indirizzo giurisprudenziale, compete all’organo di direzione politica il dovere di individuare il dirigente cui attribuire la qualità di datore di lavoro», e che, «non risultando alcuna delega, la qualifica di datore di lavoro non poteva che competere al presidente del consorzio».
La Sez. III non è d’accordo.
Premette che, «ai fini dell’applicazione della normativa antinfortunistica, datore di lavoro sia il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’organizzazione dell’impresa, ha la responsabilità dell’impresa stessa ovvero dell’unità produttiva», e che «nelle pubbliche amministrazioni per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri gestionali, decisionali e di spesa, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli  casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale».
Nel richiamare Cass. 17.07.2009 Corea e altro (in Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, IV edizione, Milano, 2012, 22), precisa che «gli obblighi di prevenzione infortuni e sicurezza in luoghi di lavoro, che per legge fanno capo al datore di lavoro, nel settore degli enti pubblici gravano sul titolare effettivo del potere di gestione», e che «
tali obblighi possono gravare su un funzionario non avente qualifica dirigenziale qualora lo stesso, a norma dell’art. 2 del D.Lgs. n. 81 del 2008, sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall’organo di vertice dell’amministrazione tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività e sia altresì dotato di poteri decisionali e di spesa».
Rileva come «il datore di lavoro, individuato secondo i criteri sopra indicati, possa delegare gli obblighi su di lui gravanti ad altri, con conseguente sostituzione e subentro del delegato nella posizione di garanzia, ma l’atto di delega deve essere espresso, inequivoco e certo, dovendo inoltre investire persona tecnicamente capace, dotata delle necessarie cognizioni tecniche e dei relativi poteri decisionali e di intervento, che abbia accettato lo specifico incarico, fermo restando l’obbligo per il datore di lavoro di vigilare e controllare che il delegato usi, poi, concretamente la delega, secondo quanto la legge prescrive», e, quindi, come «la delega è in linea generale ed astratta consentita, ma per essere rilevante ai fini dell’esonero da responsabilità del delegante, deve avere i seguenti requisiti: essere puntuale ed espressa, senza che siano trattenuti in capo al delegante poteri residuali di tipo discrezionale; il soggetto delegato deve essere tecnicamente idoneo e professionalmente qualificato per lo svolgimento del compito affidatogli; il trasferimento delle funzioni deve essere giustificato in base alle esigenze organizzative dell’impresa; unitamente alle funzioni debbono essere trasferiti i correlativi poteri decisionali e di spesa; l’esistenza della delega deve essere giudizialmente provata in modo certo».
Afferma che, nel caso di specie, «mentre l’art. 20 dello statuto dell’ente attribuisce al presidente del consiglio di amministrazione, oltre alla rappresentanza legale del consorzio, mere funzioni generali di raccordo, di coordinamento e di vigilanza, l’art. 28 attribuisce al direttore generale ampi poteri gestionali, decisionali e di spesa, assegnandogli ‘‘la responsabilità gestionale del consorzio’’, la possibilità di operare ‘‘assicurando il raggiungimento dei risultati programmatici, sia in termini di servizio che in termini economici’’ e, in particolare, i compiti di ‘‘dirigere il personale del consorzio, organizzare funzioni ed attribuzioni di servizi, settori e coordinamenti di aree; predisporre i piani di formazione ed aggiornamento del personale; provvedere agli acquisti in economia ed alle spese indispensabili per il normale ed ordinario funzionamento del consorzio ed entro i limiti e con le modalità previste da apposito regolamento; firmare gli ordinativi di incasso ed i mandati di pagamento».
Conclude che «il direttore generale del consorzio aveva, a norma di statuto, poteri gestionali, decisionali e di spesa e, quindi, su di lui gravavano gli obblighi di prevenzione infortuni e sicurezza nei luoghi di lavoro», e che «non risulta che tali obblighi siano stati delegati ad altri» (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.07.2012 n. 28410 - tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 10/2012).

SICUREZZA LAVORO: Direttore dei lavori e coordinatori nei cantieri.
Di notevole interesse, in questa sentenza, è quel che s’insegna a proposito della posizione di garanzia vuoi del direttore dei lavori, vuoi dei coordinatori, nell’ambito dei cantieri temporanei o mobili.
Invero, la Sez. IV, dopo aver ribadito la responsabilità del datore di lavoro dell’imprese esecutrice, sottolinea che «le posizioni di garanzia del coordinatore per la progettazione e del coordinatore per l’esecuzione non si sovrappongono a quelle degli altri soggetti responsabili nel campo della sicurezza sul lavoro, ma ad esse si affiancano per realizzare, attraverso la valorizzazione di una figura unitaria con compiti di coordinamento e controllo, la massima garanzia dell’incolumità dei lavoratori».
E insegna, inoltre, che «il direttore dei lavori o responsabile dei lavori edili è titolare di una posizione di garanzia nei confronti dei lavoratori, ed ha, pertanto, l’obbligo di predisporre e fare osservare i presidi di sicurezza richiesti dalla legge per l’esecuzione dei predetti lavori, a nulla rilevando la compresenza di un ‘‘coordinatore della sicurezza in fase di progettazione’’ e di un ‘‘coadiutore della sicurezza in fase di esecuzione’’, a loro volta titolari di autonome e concorrenti posizioni di garanzia». (Quanto alla posizione di garanzia dei coordinatori v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, IV edizione, Milano, 2012, 501 ss. e 508 ss.; sulle responsabilità del direttore dei lavori cfr., in particolare, Cass. 31.05.2012, Ciulla e altro, in ISL, 2012, ..., alla cui nota si rinvia per ulteriori riferimenti giurisprudenziali) (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 14.06.2012 n. 23630 - tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 10/2012).

SICUREZZA LAVORO: PSC generico e responsabilità del coordinatore per la progettazione.
In un cantiere aperto per il rifacimento della facciata di un fabbricato, un dipendente dell’impresa esecutrice con qualifica di tinteggiatore, «mentre stava smontando il ponteggio utilizzato, impugnava un tavolone di legno, della
lunghezza di circa quattro metri, del peso di 26 chilogrammi, per caricarlo sul camion
», «inciampava su di un cordolo di cemento alto circa 35 centimetri posto a poca distanza da un lucernario, chiuso con pezzi di legno e nylon che non reggeva il peso dell’operaio», e «rovinava al suolo, da una altezza di diversi metri».
A dire dei giudici di merito, «l’apertura, presente nel piazzale antistante il fabbricato, non era stata adeguatamente coperta e costituiva perciò una palese fonte di pericolo, proprio in relazione alle possibili cadute delle persone che operavano nel cantiere»; e il «coordinatore per la progettazione e la esecuzione delle opere avrebbe dovuto evidenziare tale rischio nel piano di sicurezza e coordinamento e provvedere alla eliminazione in concreto della fonte di pericolo», là dove per contro «il piano, su tale punto, risultava di converso del tutto generico».
Nel confermare la condanna dell’imputato, la Sez. IV ritiene che il coordinatore della sicurezza, «in presenza di una copertura che appariva del tutto inadeguata, avrebbe dovuto provvedere a mettere in sicurezza il lucernario», e che, «sul punto, il piano di sicurezza e coordinamento era stato redatto dall’imputato in modo del tutto generico, in assenza di alcun coordinamento con le diverse ditte che si erano occupate della ristrutturazione dello stabile».
Osserva che «l’appaltatore è il destinatario degli obblighi prevenzionali, salvi alcuni obblighi specifici che restano a carico del committente, quali l’informazione sui rischi dell’ambiente di lavoro e la cooperazione nell’apprestamento delle misure di protezione e prevenzione», e che, «nel caso di specie, vengono in rilievo proprio i rischi connessi all’ambiente di lavoro, in relazione all’apertura presente nel piazzale antistante il fabbricato».
Né il reato di lesione personale colposa ascritto all’imputato risulta improcedibile per difetto di querela: «l’infortunio si era verificato all’interno di un cantiere, a causa della violazione delle norme di sicurezza, con riferimento al piano di sicurezza e coordinamento redatto dall’imputato. Di talché certamente sussisteva l’aggravante di cui all’art. 590, comma 3, c.p., ed il reato risultava perseguibile di ufficio». (Sulla responsabilità del coordinatore per insufficienza o incompletezza del PSC v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, IV edizione, Milano, 2012, 501 ss.) (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 07.06.2012 n. 22044 - tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 10/2012).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’art. 49 t.u. 267/2000 (ex art. 53, l. n. 142/1990) stabilisce che “su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla giunta ed al consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere in ordine alla sola regolarità tecnica del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti impegno di spesa o diminuzione di entrata, del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile. I pareri sono inseriti nella deliberazione”.
Conseguentemente, a pena di illegittimità, il parere di regolarità tecnica deve essere richiesto anche sugli emendamenti alla proposta di regolamento, se si consentisse, infatti, in presenza di una “delibera integralmente emendata” di prescindere dai pareri preventivi, la portata precettiva della citata disposizione sarebbe agevolmente aggirabile.

Giova, innanzi tutto, richiamare l’art. 53, primo comma, della legge 08.06.1990, n. 142, applicabile ratione temporis alla fattispecie dedotta, il quale stabiliva che “Su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla giunta ed al consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere in ordine alla sola regolarità tecnica del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti impegno di spesa o diminuzione di entrata, del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile. I pareri sono inseriti nella deliberazione”.
In ordine alle conseguenze invalidanti della mancanza del menzionato parere, è stato chiarito in giurisprudenza che la deliberazione comunale priva del predetto parere è illegittima (Consiglio Stato, sez. V, 15.02.2000, n. 808), mentre la mera irregolarità si configura allorché il parere sia stato reso, ma non risulti allegato e, comunque, non se contesti l’esistenza (Consiglio Stato, sez. IV, 20.09.2005 n. 4818).
Nel caso di specie, come correttamente affermato dai primi giudici, è indubbio che il parere non sia stato reso sulle prescrizioni regolamentari approvate a seguito della presentazione di emendamenti all’originaria proposta (rispetto alla quale, dunque, pongono disposizioni innovative).
Orbene, se si consentisse, in presenza di una “delibera integralmente emendata”, di prescindere da ogni giudizio di compatibilità obbligatoriamente affidato ai pareri preventivi, la portata precettiva del citato art. 53 sarebbe agevolmente aggirabile (e, dunque, vanificata), mediante il ricorso ad un diverso procedimento di formazione della decisione amministrativa.
In realtà, se è vero che la presentazione dell’emendamento strutturalmente si colloca in una fase procedimentale di norma successiva alla conclusione dell’iter svolto dagli uffici, è altrettanto vero che, come osservato dall’amministrazione regionale, la proposta di deliberazione e l’emendamento sono, da un punto di vista funzionale, atti di iniziativa procedimentale del tutto identici, differenziandosi solo quanto alla provenienza, sicché sarebbe artificioso, e irragionevolmente discriminatorio, ritenere assoggettata all’obbligo del parere preventivo solo la prima e non anche il secondo
(C.G.A.R.S., sentenza 04.02.2010 n. 105 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa pubblicazione prescritta dall'art. 124 dlgs 267/2000 riguarda non solo le deliberazioni degli organi di governo (consiglio e giunta municipali) ma anche le determinazioni dirigenziali, dal momento che la parola "deliberazione" designa, da sempre, le risoluzioni adottate sia da organi collegiali sia da organi monocratici, nell'intento di rendere pubblici tutti gli atti degli enti locali di esercizio del potere deliberativo, indipendentemente dalla natura collegiale o meno dell'organo emanante.
Quel precetto dispone che, quando non é necessaria la notificazione individuale del provvedimento ed é al contempo prescritta da una norma di legge o di regolamento la pubblicazione dell'atto in un apposito albo, il termine per proporre l'impugnazione decorre dal giorno in cui sia scaduto il periodo della pubblicazione, a conferma del consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo il quale il normale termine decadenziale per ricorrere contro gli atti amministrativi soggetti a pubblicazione necessaria decorre, per i soggetti non espressamente nominati, dalla pubblicazione medesima, non essendo indispensabile la notificazione individuale o la piena conoscenza (C.d.S., V 23.04.2001, n. 2428).
L’articolo 124 del citato decreto legislativo n. 267/2000 adempie pertanto alla funzione di rendere conoscibile, a tutti i soggetti non espressamente contemplati dall’atto; la statuizione pubblicata nell'albo pretorio del Comune, con la conseguenza che l’odierna appellante, non possedendo alcuna specifica veste rispetto agli atti in questione, va annoverata tra i soggetti rispetto ai quali la norma da ultimo citata svolge pienamente la funzione assegnatagli dall’ordinamento.
Va soggiunto che la pubblicazione prescritta dall'art. 124 riguarda non solo le deliberazioni degli organi di governo (consiglio e giunta municipali) ma anche le determinazioni dirigenziali, dal momento che la parola "deliberazione" designa, da sempre, le risoluzioni adottate sia da organi collegiali sia da organi monocratici, nell'intento di rendere pubblici tutti gli atti degli enti locali di esercizio del potere deliberativo, indipendentemente dalla natura collegiale o meno dell'organo emanante (Corte cost. nn. 38 e 39 del 01.06.1979; C.d.S., IV, 06.12.1977, n. 1129, come recepite da C.d.S., V, 03.06.2002, n. 3058 e 15.03.2006, n. 1370) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 18.12.2009 n. 8400 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di impugnazione di concessione edilizia rilasciata per la costruzione di un nuovo edificio, l'interesse a ricorrere del proprietario di un’area situata in prossimità del sito interessato dall’intervento edificatorio trova piena giustificazione quando esiste una situazione soggettiva ed oggettiva di stabile collegamento con la zona coinvolta dalla costruzione e quest’ultima sia idonea ad arrecare, se illegittimamente assentita, un pregiudizio ai valori urbanistici della zona medesima.
Pertanto, la qualifica giuridica di proprietario di un bene immobile confinante deve di per sé ritenersi idonea a creare la legittimazione e l'interesse al ricorso, non occorrendo anche la verifica della concreta lesione di un qualsiasi altro interesse di rilevanza giuridica, riferibile a norme di diritto privato o di diritto pubblico.
Con la conseguenza che, riconosciuta la legittimazione ad agire, la valutazione sull’utilità o meno dei provvedimenti impugnati al fine di chiederne o meno l’annullamento, non può che essere rimessa alle determinazioni insindacabili del titolare del diritto all’azione, non potendosi certamente ritenere insussistente l’interesse alla pronuncia caducatoria sulla base dei contrapposti apprezzamenti discrezionali delle parti resistenti.

In tema di impugnazione di concessione edilizia rilasciata per la costruzione di un nuovo edificio, l'interesse a ricorrere del proprietario di un’area situata in prossimità del sito interessato dall’intervento edificatorio trova piena giustificazione quando esiste una situazione soggettiva ed oggettiva di stabile collegamento con la zona coinvolta dalla costruzione e quest’ultima sia idonea ad arrecare, se illegittimamente assentita, un pregiudizio ai valori urbanistici della zona medesima.
Pertanto, la qualifica giuridica di proprietario di un bene immobile confinante deve di per sé ritenersi idonea a creare la legittimazione e l'interesse al ricorso, non occorrendo anche la verifica della concreta lesione di un qualsiasi altro interesse di rilevanza giuridica, riferibile a norme di diritto privato o di diritto pubblico (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 31.05.2007 n. 2849).
Con la conseguenza che, riconosciuta la legittimazione ad agire, la valutazione sull’utilità o meno dei provvedimenti impugnati al fine di chiederne o meno l’annullamento, non può che essere rimessa alle determinazioni insindacabili del titolare del diritto all’azione, non potendosi certamente ritenere insussistente l’interesse alla pronuncia caducatoria sulla base dei contrapposti apprezzamenti discrezionali delle parti resistenti
(TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 22.07.2009 n. 1375 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini univoci nel quadro normativo, soccorrendo, allo scopo, l’esistenza di criteri empirici elaborati dalla giurisprudenza amministrativa formatasi sul punto.
In particolare, si è recentemente affermato che il centro abitato va identificato nella situazione di fatto determinata dalla presenza di un aggregato di case continue e vicine, con interposte strade, piazze e simili, o comunque brevi soluzioni di continuità.

Osserva il Collegio che la definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini univoci nel quadro normativo, soccorrendo, allo scopo, l’esistenza di criteri empirici elaborati dalla giurisprudenza amministrativa formatasi sul punto.
In particolare, si è recentemente affermato che il centro abitato va identificato nella situazione di fatto determinata dalla presenza di un aggregato di case continue e vicine, con interposte strade, piazze e simili, o comunque brevi soluzioni di continuità (cfr: TAR Lombardia, Sez. II, 20.03.2009 n. 1768)
(TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 22.07.2009 n. 1375 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 14 del DPR 06.06.2001 n. 380 stabilisce testualmente che “Il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali è rilasciato esclusivamente per edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico, previa deliberazione del consiglio comunale, nel rispetto comunque delle disposizioni contenute nel decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, e delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia”.
Ai fini dell’applicazione della predetta deroga, la questione della riconducibilità delle strutture alberghiere tra gli “edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico” è stata già affrontata e risolta dalla giurisprudenza amministrativa nel senso di ritenerle comprese nell’ambito di applicazione dell’anzidetta previsione “trattandosi di un servizio offerto alla collettività e caratterizzato da una pubblica fruibilità, con la correlativa possibilità di concessioni in deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici in vigore”.
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Laddove il territorio interessato possieda una vocazione turistica prevalente, la riconduzione all'interesse pubblico dell'edificio alberghiero non richiede affatto un'interpretazione estensiva ed è anzi compatibile con una lettura restrittiva rispetto a diverse attività economiche che non presentino le medesime caratteristiche di rilevanza urbanistica e culturale, ma che solo possano accampare il loro peso economico.

Sostengono ancora i ricorrenti che nel caso di specie l’amministrazione intimata avrebbe fatto illegittimo uso dell’istituto della concessione edilizia in deroga, non sussistendo, nella specie, i presupposti di interesse pubblico che avrebbero potuto legittimare il rilascio di un titolo edilizio in contrasto con la normativa urbanistica comunale.
L’art. 14 del DPR 06.06.2001 n. 380, che i ricorrenti assumono violato, stabilisce testualmente che “Il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali è rilasciato esclusivamente per edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico, previa deliberazione del consiglio comunale, nel rispetto comunque delle disposizioni contenute nel decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, e delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia”.
Osserva il Collegio che ai fini dell’applicazione della predetta deroga, la questione della riconducibilità delle strutture alberghiere tra gli “edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico” è stata già affrontata e risolta dalla giurisprudenza amministrativa nel senso di ritenerle comprese nell’ambito di applicazione dell’anzidetta previsione “trattandosi di un servizio offerto alla collettività e caratterizzato da una pubblica fruibilità, con la correlativa possibilità di concessioni in deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici in vigore” (Cons. Stato, Sez. IV, 29.10.2002 n. 5913).
Inoltre, nel caso di specie, con la delibera n. 31 del 19.07.2004, di approvazione della concessione della deroga recante l’elevazione dell’indice di edificabilità da 0,4 mc/mq a 0,95 mc/mq, il Consiglio comunale ha espressamente evidenziato, in termini affatto irragionevoli, ulteriori profili di interesse pubblico dell’opera, rilevando che la struttura alberghiera in questione è funzionale allo sviluppo economico del Comune di Sant’Anna Arresi con particolare riferimento all’incremento del settore turistico ed alle ricadute occupazionali dell’indotto; nonché con riguardo alla sviluppo ed alla valorizzazione dell’intera area.
In proposito la giurisprudenza ha altresì precisato che “laddove il territorio interessato possieda una vocazione turistica prevalente, la riconduzione all'interesse pubblico dell'edificio alberghiero non richiede affatto un'interpretazione estensiva ed è anzi compatibile con una lettura restrittiva rispetto a diverse attività economiche che non presentino le medesime caratteristiche di rilevanza urbanistica e culturale, ma che solo possano accampare il loro peso economico” (Consiglio Stato, sez. IV, 28.10.1999, n. 1641)
(TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 22.07.2009 n. 1375 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa l’ammissibilità del rilascio di concessioni o permessi di costruire in deroga, la giurisprudenza amministrativa aveva inizialmente interpretato l’espressione “impianti di interesse pubblico”, di cui all’art. 41-quater della L. 17.08.1942, n. 1150 (trasfuso nell’attuale art. 14 del T.U. sull’edilizia, approvato con D.P.R. 06.06.2001, n. 380), ad essi riconducendo solo interventi corrispondenti a compiti assunti direttamente dalla pubblica amministrazione.
Successivamente si è, peraltro, registrata un’evoluzione, poi consolidatasi nel diritto vivente, nel senso di ritenere applicabile la stessa norma anche a strutture dove venga offerto un servizio alla collettività, caratterizzate da una pubblica fruibilità. E’ stato considerato, infatti, che l'art. 16 della legge 06.08.1967, n. 765 preveda la possibilità di esercizio di un potere di deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici per manufatti sia pubblici (cioè gestiti da enti pubblici) che di interesse pubblico (ossia gestiti da soggetti indifferentemente pubblici o privati, aventi peraltro l’identica missione di soddisfare esigenze della collettività di tipo economico, bancario-assicurativo, culturale, industriale, igienico, religioso o turistico-alberghiero).
In particolare, questa nuovo indirizzo della giurisprudenza ha riguardato le strutture alberghiere, ritenute a pieno titolo ricomprese tra gli impianti di interesse pubblico, per i quali è consentito il rilascio di concessione edilizia in deroga. Questo peculiare interesse pubblico, in particolare, ha trovato base e ragione nello sviluppo del turismo e della cultura.

... per l'annullamento della deliberazione del Consiglio comunale di Besenello n. 39 del 29.11.2005, avente ad oggetto la “richiesta di concessione edilizia in deroga e in parziale sanatoria" ...
...
Passando alle considerazioni del Collegio, va premesso che, circa l’ammissibilità del rilascio di concessioni o permessi di costruire in deroga, la giurisprudenza amministrativa aveva inizialmente interpretato l’espressione “impianti di interesse pubblico”, di cui all’art. 41-quater della L. 17.08.1942, n. 1150 (trasfuso nell’attuale art. 14 del T.U. sull’edilizia, approvato con D.P.R. 06.06.2001, n. 380), ad essi riconducendo solo interventi corrispondenti a compiti assunti direttamente dalla pubblica amministrazione (vd., ad es.: Cons. St., V, 11.12.1992, n. 1428; IV, 25.11.1988, n. 774).
Successivamente si è, peraltro, registrata un’evoluzione, poi consolidatasi nel diritto vivente, nel senso di ritenere applicabile la stessa norma anche a strutture dove venga offerto un servizio alla collettività, caratterizzate da una pubblica fruibilità. E’ stato considerato, infatti, che l'art. 16 della legge 06.08.1967, n. 765 preveda la possibilità di esercizio di un potere di deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici per manufatti sia pubblici (cioè gestiti da enti pubblici) che di interesse pubblico (ossia gestiti da soggetti indifferentemente pubblici o privati, aventi peraltro l’identica missione di soddisfare esigenze della collettività di tipo economico, bancario-assicurativo, culturale, industriale, igienico, religioso o turistico-alberghiero).
In particolare, questa nuovo indirizzo della giurisprudenza ha riguardato le strutture alberghiere, ritenute a pieno titolo ricomprese tra gli impianti di interesse pubblico, per i quali è consentito il rilascio di concessione edilizia in deroga (vd.: Cons. St., V, 11.01.2006, n. 46; IV, 12.01.2005, n. 7031; IV, 29.10.2002, n. 5913; IV, 28.10.1999, n. 1641; V, 15.07.1998, n. 1044). Questo peculiare interesse pubblico, in particolare, ha trovato base e ragione nello sviluppo del turismo e della cultura.
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Ritiene, tuttavia, il Collegio che, nella fattispecie, l’onere della motivazione non sia stato né sufficientemente né correttamente assolto, essendo stato fatto riferimento ad esigenze di natura esclusivamente urbanistica, riferite all’asserita compromissione della pianificazione comunale di zona.
La prodotta domanda di deroga edilizia presupponeva, peraltro, che fosse prioritariamente individuato lo specifico interesse pubblico ad essa sotteso (nella specie, di tipo economico ed occupazionale), al fine di porlo a raffronto con quello perseguito dalla pianificazione urbanistica e statuendo successivamente sulla prevalenza dell’uno rispetto all’altro..
L'intervento in deroga, infatti, in tanto può ritenersi ammissibile in quanto le opere abusivamente realizzate risultino destinate a finalità di interesse pubblico: in tal caso, infatti, l'ordinamento consente di derogare alla ordinaria disciplina pianificatoria, privilegiando il concorrente interesse pubblico sotteso alla deroga (cfr., ibidem: Cons. St., V, 11.01.2006, n. 46).
La previsione di tale specifico potere esclude, tuttavia, per la contraddizione che non consente la diversa conclusione che si possa attribuire rilevanza preclusiva alla valutazione del solo contrasto con la pianificazione urbanistica comunale di zona
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento, Sez. I, sentenza 18.06.2009 n. 194 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIE' legittimo l'affidamento della gestione della pubblicità all'interno di uno stadio, unitamente alla concessione in uso dello stadio stesso, dal momento che esso non può essere qualificato come appalto di un servizio pubblico (per il quale occorre esperire la procedura dell’evidenza pubblica), nel caso in cui l'amministrazione abbia inteso frazionare l'uso pubblicitario dell'impianto sportivo, considerando la gestione della pubblicità come facoltà accessoria alla concessione di uso predetta.
Pertanto, è legittima la scelta del comune di non svolgere più la gestione dell'utilizzazione pubblicitaria di uno spazio pubblico, né tramite proprie strutture, né tramite appalto, poiché ai sensi dell'art. 5 d.lgs. 17.03.1995 n. 157, le norme del citato decreto non si applicano ai contratti aventi ad oggetto la locazione di edifici o altri immobili pubblici o i diritti ad essi inerenti.

Le considerazioni che si sono espresse sopra sono utili al fine di ritenere infondato anche il secondo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 81 del Trattato UE, dell’art. 3 del R.D. n. 2440/1924, dell’art. 41 del R.D. n. 827/1924, del d.lgs. n. 157 del 1995, dell’art. 3 della l. n. 241 del 1990, difetto assoluto di motivazione, carenza di istruttoria ed eccesso di potere, perché se è vero che prevalenti ragioni di interesse pubblico giustificano la concessione degli impianti sportivi alla maggiore squadra cittadina mediante affidamento diretto, tuttavia ciò non vale per quanto riguarda le attività commerciali e di sfruttamento economico previste nella convenzione e non attinenti allo spettacolo sportivo, rispetto alle quali non sarebbe giustificata la deroga dalla regola della procedura concorsuale.
In sostanza, il ricorrente non si duole dell’affidamento diretto dello stadio alla maggiore squadra cittadina, ma sostiene che per lo svolgimento delle attività commerciali all’interno delle stadio, nonché per la gestione della pubblicità, il comune avrebbe dovuto procedere ad una gara pubblica.
Della questione si è già occupato questo Tar nonché, in senso conforme, il Consiglio di Stato, cosicché questo collegio non vede ragione per discostarsi dalle conclusioni cui è già giunta la giurisprudenza amministrativa.
Si è affermato infatti in quella occasione che è legittimo l'affidamento della gestione della pubblicità all'interno di uno stadio, unitamente alla concessione in uso dello stadio stesso, dal momento che esso non può essere qualificato come appalto di un servizio pubblico (per il quale occorre esperire la procedura dell’evidenza pubblica), nel caso in cui l'amministrazione abbia inteso frazionare l'uso pubblicitario dell'impianto sportivo, considerando la gestione della pubblicità come facoltà accessoria alla concessione di uso predetta.
Pertanto, è legittima la scelta del comune di non svolgere più la gestione dell'utilizzazione pubblicitaria di uno spazio pubblico, né tramite proprie strutture, né tramite appalto, poiché ai sensi dell'art. 5 d.lgs. 17.03.1995 n. 157, le norme del citato decreto non si applicano ai contratti aventi ad oggetto la locazione di edifici o altri immobili pubblici o i diritti ad essi inerenti (Tar Napoli, I sez., n. 960/1998 e Consiglio Stato , sez. V, 17.10.2002 , n. 5671).
E’ opportuno ripercorrere brevemente i tratti essenziali della motivazione delle menzionate pronunce.
La citata giurisprudenza muove dall’assunto che gli impianti sportivi di proprietà comunale appartengono al patrimonio indisponibile del comune ai sensi dell'art. 826 comma ultimo c.c. essendo destinati al soddisfacimento dell'interesse proprio dell'intera collettività allo svolgimento delle attività sportive che in essi hanno luogo.
In questo quadro, la scelta del comune di Napoli di concedere unitamente allo stadio anche la gestione pubblicitaria dell'impianto sportivo, sempre se ed in quanto collegata allo specifico uso convenuto, fa sì che la fattispecie non possa essere qualificata in termini di appalto di un servizio pubblico, posto che il comune si è determinato nel senso di considerare la gestione della pubblicità come facoltà accessoria alla concessione di uso dello stadio comunale, nella specie alla SS Calcio Napoli, per le manifestazioni dalla stessa organizzate, nel quadro di una convenzione ad oggetto misto.
Pertanto, è legittima la concessione in uso dell'impianto, appartenente al patrimonio indisponibile, alla maggiore squadra cittadina, includendo in tale convenzione anche lo sfruttamento a fini pubblicitari degli spazi a tal fine disponibili, limitatamente alle manifestazioni sportive di cui la società sarà protagonista, ferma ed impregiudicata la potestà dello stesso Comune di disporre diversamente per le manifestazioni diverse da tali partite di calcio, presumibilmente affidate ad altri privati interessati.
Infatti, per espressa disposizione dell'art. 5 del d.lgs. n. 157 del 1995, le norme del detto decreto non si applicano ai contratti aventi ad oggetto la locazione di edifici o altri immobili pubblici o i diritti ad essi inerenti. Ne consegue che per l’attribuzione al concessionario dell'immobile pubblico di una facoltà ad esso inerente e compatibile con la destinazione dell'impianto, qual è lo sfruttamento a fini pubblicitari della spazio concesso, e per il tempo in cui è stato concesso, non doveva procedersi secondo le norme del d.lgs. n. 157 del 1995.
Peraltro, anche qualora si volesse ritenere, come non sembra condivisibile, che la facoltà concessa, senza l'espletamento di una procedura concorsuale, riguardasse comunque un servizio pubblico, la legittimità del provvedimento impugnato troverebbe comunque sostegno anche nella normativa che regge specificamente la materia delle concessioni di servizi. L'art. 267 del R.D. 14.09.1931 n. 1175, infatti, ammette che l'affidamento di servizi a trattativa privata quando "circostanze speciali in rapporto alla natura dei servizi lo consigliano".
Tali considerazioni, svolte in materia di gestione del servizio pubblicitario, e pienamente condivise dal collegio, possono essere sicuramente estese anche alle altre attività commerciali (servizio bouvette, ecc.).
Il motivo, per tutte queste ragioni, deve essere respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 19.09.2007 n. 7878 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVINell’attuale ordinamento degli enti locali, le questioni di copertura finanziaria non attengono più alla validità del provvedimento. Infatti, a seguito della riscrittura dell'ordinamento contabile e della nuova distribuzione di competenze tra organi politico-amministrativi e responsabili dei singoli servizi, la copertura finanziaria, che prima era un prius, successivamente è divenuta, dal punto di vista dell'attestazione formale, un posterius.
La norma dell'art. 55, comma 5, l. 08.06.1990 n. 142 (oggi art. 151 del D.lgs. n. 267/2000), è stata infatti modificata nel senso che l'attestazione di copertura ha assunto un significato accertativo della necessaria copertura di bilancio dell'atto emanato nel contesto del richiesto visto di regolarità contabile, che riguarda anche l'esatta imputazione di spesa.
In altri termini, l'attestazione di copertura finanziaria non precede più l'impegno, né soprattutto è requisito di validità, ma accede, completandolo, alla relativa deliberazione o determinazione di spesa di cui diventa condizione di esecutività, con la conseguenza che la sua mancanza non comporta la nullità dell'atto di spesa.
Quanto al parere preventivo di regolarità contabile, si è affermato che esso, certamente necessario al fine di fornire una istruttoria completa, non pone tuttavia alcun limite alla potestà deliberante della giunta e del consiglio comunale, che possono liberamente disporre del contenuto delle proposte di deliberazione, dopo che su queste ultime sia stato acquisito, quale elemento formale dell'iter procedimentale, il parere dei predetti organi tecnici. Ove si opinasse diversamente, si finirebbe inammissibilmente con il conferire ai citati organi consuntivi l'effettivo potere di amministrazione, degradando la giunta ed il consiglio ad una funzione di mera ratifica di determinazioni amministrative sostanzialmente imputabili ad altri soggetti.
Requisito di legittimità della delibera collegiale, dunque, è unicamente l’acquisizione dei prescritti pareri.
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I pareri ex art. 53 l. 08.06.1990 n. 142 (oggi art. 49 del T.U.e.l.), resi dal responsabile del servizio, dal responsabile del settore ragioneria e dal segretario comunale sui progetti di deliberazioni spettanti ai corpi rappresentativi del comune, non pongono alcun limite alla potestà deliberante di questi ultimi -i quali ben possono liberamente disporre del contenuto delle deliberazioni una volta resi detti pareri-, ché, diversamente argomentando, si finirebbe con l'attribuire agli organi consultivi l'effettivo potere d'amministrazione attiva, lasciando ai corpi rappresentativi la funzione di mera ratifica di determinazioni altrui.
Essi, pertanto, sono unicamente preordinati all'individuazione sul piano formale, nei funzionari che li formulano, della responsabilità eventualmente in solido con i componenti degli organi politici in via amministrativa e contabile.

Occorre premettere che nella disciplina attuale della contabilità degli enti locali si prevede un regime differenziato per gli atti che comportino impegni di spesa o diminuzione di entrata a seconda che si tratti delle delibere di giunta e del consiglio comunale o dei i provvedimenti dei responsabili dei servizi.
Nel primo caso, infatti, l’art. 49 del d.lgs. n. 267/2000 (ex art. 53 della l. n. 142/1990) prevede unicamente che debba essere acquisito il parere di regolarità contabile; nel secondo caso, invece, l’art. 151 del d.lgs. n. 267/2000 (ex art. 55 della l. n. 241 del 1990) prevede invece che occorre un visto di regolarità contabile, attestante la copertura finanziaria, che condiziona l’esecutività del provvedimento.
La giurisprudenza, a questo proposito, ha chiarito che nell’attuale ordinamento degli enti locali, le questioni di copertura finanziaria non attengono più alla validità del provvedimento. Infatti, a seguito della riscrittura dell'ordinamento contabile e della nuova distribuzione di competenze tra organi politico-amministrativi e responsabili dei singoli servizi, la copertura finanziaria, che prima era un prius, successivamente è divenuta, dal punto di vista dell'attestazione formale, un posterius. La norma dell'art. 55, comma 5, l. 08.06.1990 n. 142 (oggi art. 151 del D.lgs. n. 267/2000), è stata infatti modificata nel senso che l'attestazione di copertura ha assunto un significato accertativo della necessaria copertura di bilancio dell'atto emanato nel contesto del richiesto visto di regolarità contabile, che riguarda anche l'esatta imputazione di spesa.
In altri termini, l'attestazione di copertura finanziaria non precede più l'impegno, né soprattutto è requisito di validità, ma accede, completandolo, alla relativa deliberazione o determinazione di spesa di cui diventa condizione di esecutività, con la conseguenza che la sua mancanza non comporta la nullità dell'atto di spesa (Consiglio Stato, sez. IV, 25.05.2005, n. 2718).
Quanto al parere preventivo di regolarità contabile, si è affermato che esso, certamente necessario al fine di fornire una istruttoria completa, non pone tuttavia alcun limite alla potestà deliberante della giunta e del consiglio comunale, che possono liberamente disporre del contenuto delle proposte di deliberazione, dopo che su queste ultime sia stato acquisito, quale elemento formale dell'iter procedimentale, il parere dei predetti organi tecnici. Ove si opinasse diversamente, si finirebbe inammissibilmente con il conferire ai citati organi consuntivi l'effettivo potere di amministrazione, degradando la giunta ed il consiglio ad una funzione di mera ratifica di determinazioni amministrative sostanzialmente imputabili ad altri soggetti (Consiglio di stato, sez. V, 25.05.1998, n. 680).
Requisito di legittimità della delibera collegiale, dunque, è unicamente l’acquisizione dei prescritti pareri. L’eventuale carenza della determinazione delle minori entrate e della copertura finanziaria, invece, rilevante ai fini dell’eventuale responsabilità amministrativa e contabile, non è sindacabile in sede di legittimità dinanzi al giudice amministrativo, in quanto profilo estraneo alla formazione e al contenuto del provvedimento ed inerente invece la sua esecutività.
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A ciò si aggiunga che, comunque, come ha affermato in plurime occasioni in Consiglio di Stato, i pareri ex art. 53 l. 08.06.1990 n. 142 (oggi art. 49 del T.U.e.l.), resi dal responsabile del servizio, dal responsabile del settore ragioneria e dal segretario comunale sui progetti di deliberazioni spettanti ai corpi rappresentativi del comune, non pongono alcun limite alla potestà deliberante di questi ultimi -i quali ben possono liberamente disporre del contenuto delle deliberazioni una volta resi detti pareri-, ché, diversamente argomentando, si finirebbe con l'attribuire agli organi consultivi l'effettivo potere d'amministrazione attiva, lasciando ai corpi rappresentativi la funzione di mera ratifica di determinazioni altrui (Consiglio Stato, sez. V, 25.05.1998, n. 680).
Essi, pertanto, sono unicamente preordinati all'individuazione sul piano formale, nei funzionari che li formulano, della responsabilità eventualmente in solido con i componenti degli organi politici in via amministrativa e contabile (Consiglio Stato, sez. IV, 22.06.2006, n. 3888)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 19.09.2007 n. 7878 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAa) le scelte effettuate dall'amministrazione nell'adozione del piano costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità;
b) in occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, le scelte discrezionali dell’amministrazione, riguardo alla destinazione di singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali -di ordine tecnico discrezionale- seguiti nell’impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.
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Le evenienze che giustificano una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali, sono state, segnatamente, individuate dalla giurisprudenza di questo Consiglio:
a) nel superamento degli standards minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, e non anche con riguardo alla destinazione di zona di determinate aree;
b) nella lesione dell'affidamento qualificato del privato, a sua volta integrato dalla conclusione di convenzioni di lottizzazione o di accordi di diritto privato intercorsi tra il comune e i proprietari delle aree, ovvero da aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su domande di concessione;
c) nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.

L'indirizzo di politica urbanistica espresso negli strumenti generali di pianificazione implica importanti conseguenze (di seguito illustrate) in ordine ai limiti del sindacato di legittimità del giudice amministrativo ed al contenuto della motivazione in concreto indispensabile, specie in considerazione di quanto previsto dal comma 2 dell’art. 3 della legge 07.08.1990, n. 241, là dove esclude, dall’obbligo di motivazione, gli atti normativi e quelli a contenuto generale (nel cui novero rientra lo strumento urbanistico generale).
In coerenza con i caratteri, appena segnalati, delle determinazioni pianificatorie, si è, in particolare, affermato che:
a) le scelte effettuate dall'amministrazione nell'adozione del piano costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità (cfr. ex multis, Cons. St., sez. IV, 08.02.1999, n. 121);
b) in occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, le scelte discrezionali dell’amministrazione, riguardo alla destinazione di singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali -di ordine tecnico discrezionale- seguiti nell’impostazione del piano stesso (Cons. St., ad. plen., 22.12.1999, n. 24; sez. IV, 19.01.2000, n. 245; sez. IV, 24.12.1999, n. 1943; sez. IV, 02.11.1995, n. 887, sez. IV, 25.02.1988, n. 99), essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.
Le evenienze che giustificano una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali, sono state, segnatamente, individuate dalla giurisprudenza di questo Consiglio (Ad. plen. n. 24 del 1999 cit.):
a) nel superamento degli standards minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, e non anche con riguardo alla destinazione di zona di determinate aree (come infondatamente sostenuto, nella fattispecie, dalla Casal Brunori);
b) nella lesione (parimenti non ricorrente nella specie) dell'affidamento qualificato del privato, a sua volta integrato dalla conclusione di convenzioni di lottizzazione o di accordi di diritto privato intercorsi tra il comune e i proprietari delle aree, ovvero da aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su domande di concessione (Cons. St., ad. plen., n. 24 del 1999 cit.; 08.01.1986, n. 1);
c) nella modificazione (anche questa non ravvisabile nella fattispecie in esame) in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (Cons. St., sez. IV, 09.04.1999, n. 594)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.09.2005 n. 4818 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa zona agricola, o, comunque, destinata a verde pubblico, possiede anche una valenza conservativa dei valori naturalistici, venendo a costituire il polmone dell’insediamento urbano ed assumendo -per tale via- la funzione decongestionante e di contenimento dell’espansione dell’aggregato urbano.
Che la zona agricola, o, comunque, destinata a verde pubblico, possieda anche una valenza conservativa dei valori naturalistici, venendo a costituire il polmone dell’insediamento urbano ed assumendo -per tale via- la funzione decongestionante e di contenimento dell’espansione dell’aggregato urbano, risulta, inoltre, principio espresso dalla giurisprudenza di questo Consiglio ormai da alcuni lustri ( Cons. St., sez. IV, n. 245 del 2000 cit.; n. 1943 del 1999 cit.; 13.03.1998, n. 431; sez. IV, 01.10.1997, n. 1059; sez. IV, 28.09.1993, n. 968; sez. IV, 01.06.1993, n. 581; sez. V, 19.09.1991, n. 1168; sez. IV, 11.06.1990, n. 464, sez. IV, 17.01.1989, n. 5) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.09.2005 n. 4818 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'omessa allegazione dei pareri prescritti ex art. 53 l. 142/1990 alla deliberazione consiliare non integra un vizio di legittimità, ma si risolve in una mera irregolarità, nei casi in cui non si contesta l’effettiva esistenza degli atti consultivi non allegati.
In relazione al quinto motivo, con cui si denuncia l’omessa allegazione (alla delibera consiliare) dei pareri prescritti dall’art. 53 della legge n. 142 del 1990 (allora vigente), è sufficiente osservare, per rilevarne l’infondatezza, che la dedotta carenza non integra un vizio di legittimità, ma si risolve in una mera irregolarità, nei casi (quale quello di specie) in cui non si contesta l’effettiva esistenza degli atti consultivi non allegati (Cons. St., sez. IV, 16.03.2001, n. 1567) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.09.2005 n. 4818 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAI vincoli urbanistici non indennizzabili, e che sfuggono alla previsione dell'art. 2 della legge 19.11.1968, n. 1187, sono quelli che riguardano intere categorie di beni, quelli di tipo conformativo e i vincoli paesistici, mentre i vincoli urbanistici soggetti alla scadenza quinquennale, e che devono essere indennizzati, sono:
a) quelli preordinati all’espropriazione ovvero aventi carattere sostanzialmente espropriativo, in quanto implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà, se non discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore statale o regionale, attraverso l’imposizione a titolo particolare su beni determinati di condizioni di inedificabilità assoluta;
b) quelli che superano la durata non irragionevole e non arbitraria ove non si compia l’esproprio o non si avvii la procedura attuativa preordinata a tale esproprio con l’approvazione dei piani urbanistici esecutivi;
c) quelli che superano quantitativamente la normale tollerabilità, secondo una concezione della proprietà regolata dalla legge nell’ambito dell’art. 42 Cost..
Di tali principi ha fatto coerente applicazione l’orientamento di questo Consiglio di Stato, secondo il quale costituiscono vincoli soggetti a decadenza, ai sensi dell’art. 2 della legge 19.11.1968, n. 1187, quelli preordinati all’espropriazione, o che comportino l’inedificabilità, e che, dunque, svuotano il contenuto del diritto di proprietà, incidendo sul godimento del bene in modo tale da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone significativamente il suo valore di scambio.
Sulla base di tali generali premesse, la decisione ha ritenuto che, nel caso di specie, la destinazione di “area a verde pubblico – verde urbano” costituisce espressione della potestà conformativa del pianificatore, avente validità a tempo indeterminato, come correttamente affermato dal primo giudice.

Il Collegio osserva che la natura e la portata della destinazione di zona a “verde pubblico – verde urbano”, impressa all’area di proprietà degli appellanti dalla variante generale al P.R.G. del Comune di Bari approvata con D.P.G.R. n. 1475 del 08.07.1976, hanno formato oggetto di esame da parte della Sezione con recente decisione (Sez. IV, 10.08.2004, n. 5490), dalle cui conclusioni non vi è motivo per discostarsi.
In tale occasione, la Sezione ha rilevato che, alla stregua dei principi espressi dalla Corte costituzionale, con la sentenza 20.05.1999, n. 179 -dichiarativa dell’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 7, n. 2, 3 e 4 e 40 della legge 17.08.1942, n. 1150, e 2, primo comma, della legge 19.11.1968, n. 1187, nella parte in cui consente all’Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità, senza la previsione di un indennizzo- i vincoli urbanistici non indennizzabili, e che sfuggono alla previsione del predetto articolo 2 della legge 19.11.1968, n. 1187, sono quelli che riguardano intere categorie di beni, quelli di tipo conformativo e i vincoli paesistici, mentre i vincoli urbanistici soggetti alla scadenza quinquennale, e che devono essere indennizzati, sono:
a) quelli preordinati all’espropriazione ovvero aventi carattere sostanzialmente espropriativo, in quanto implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà, se non discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore statale o regionale, attraverso l’imposizione a titolo particolare su beni determinati di condizioni di inedificabilità assoluta;
b) quelli che superano la durata non irragionevole e non arbitraria ove non si compia l’esproprio o non si avvii la procedura attuativa preordinata a tale esproprio con l’approvazione dei piani urbanistici esecutivi;
c) quelli che superano quantitativamente la normale tollerabilità, secondo una concezione della proprietà regolata dalla legge nell’ambito dell’art. 42 Cost..
La Sezione ha, poi, precisato che di tali principi ha fatto coerente applicazione l’orientamento di questo Consiglio di Stato, secondo il quale costituiscono vincoli soggetti a decadenza, ai sensi dell’articolo 2 della legge 19.11.1968, n. 1187, quelli preordinati all’espropriazione, o che comportino l’inedificabilità, e che, dunque, svuotano il contenuto del diritto di proprietà, incidendo sul godimento del bene in modo tale da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone significativamente il suo valore di scambio.
Sulla base di tali generali premesse, la decisione ha ritenuto che, nel caso di specie, la destinazione di “area a verde pubblico – verde urbano” costituisce espressione della potestà conformativa del pianificatore, avente validità a tempo indeterminato, come correttamente affermato dal primo giudice
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.05.2005 n. 2718 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - LAVORI PUBBLICIL'atto di approvazione dello schema triennale di opere pubbliche comunali e del suo aggiornamento annuale rientra nelle competenze della Giunta, ai sensi dell'art. 48 T.U. 18.08.2000 n. 267, mentre l'approvazione definitiva del programma e dell'elenco annuale delle opere da realizzare spetta al Consiglio, a norma dell'art. 42 stesso T.U. n. 267, trattandosi di un atto di programmazione e di indirizzo.
L'atto di approvazione dello schema triennale di opere pubbliche comunali e del suo aggiornamento annuale rientra nelle competenze della Giunta, ai sensi dell'art. 48 T.U. 18.08.2000 n. 267, mentre l'approvazione definitiva del programma e dell'elenco annuale delle opere da realizzare spetta al Consiglio, a norma dell'art. 42 stesso T.U. n. 267, trattandosi di un atto di programmazione e di indirizzo (cfr., CdS, Sez. IV n. 6917 del 14.12.2002) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.05.2005 n. 2718 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIA seguito della riscrittura dell'ordinamento contabile e della nuova distribuzione di competenze tra organi politico-amministrativi e responsabili dei singoli servizi, la copertura finanziaria, che prima era un prius, successivamente è divenuta, dal punto di vista dell'attestazione formale, un posterius. La norma dell'art. 55, comma 5, della legge 08.06.1990, n. 142, è stata, cioè, modificata nel senso che l'attestazione di copertura ha assunto un significato accertativo della necessaria copertura di bilancio dell'atto emanato nel contesto del richiesto visto di regolarità contabile, che riguarda anche l'esatta imputazione di spesa.
In altri termini, l'attestazione di copertura finanziaria non precede più l'impegno, né, soprattutto, è più requisito di validità, ma accede, completandolo, alla relativa deliberazione o determinazione di spesa di cui diventa condizione di esecutività: la sua mancanza non comporta la nullità dell'atto di spesa.
L'attestazione, da elemento (interno) costitutivo della validità, rectius della stessa esistenza della delibera, è divenuto un atto di controllo esterno all'atto ma interno all'organizzazione.
Conseguentemente le deliberazioni di spesa prive dell'attestazione saranno valide anche se non esecutive. Ciò risulta pienamente conforme al principio di separazione delle competenze tra direzione politica e direzione amministrativa introdotto dal D.Lgs. 03.02.1993, n. 29. L'apposizione dell'attestazione di copertura finanziaria, infatti, è un'attività gestionale espletata in applicazione della normativa che la prevede. La mancata apposizione del visto da parte dell'organo burocratico non può comportare la nullità dell'atto -che impegni una spesa- adottato dall'organo politico-amministrativo, poiché la sanzione sarebbe evidentemente eccessiva e creerebbe una incongruenza nell'ordinamento, condizionando la validità di un atto alla sussistenza di un altro atto proveniente da un soggetto rispetto al quale sussiste il regime di separazione dei compiti. La mancata esecutività risulta conforme a quest'ultimo principio e consente la distinta verifica dell'operato di ciascuno ed il sanzionamento delle eventuali responsabilità con le modalità previste dall'ordinamento, in relazione alle distinte competenze.
Il decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 ha integralmente abrogato (art. 274, lettera q) la legge n. 142 del 1990 e contiene una disposizione identica alla norma in esame, come sostituita dall'art. 6, comma 11, della legge 15.05.1997 n. 127, e precisamente l'art. 151, comma quarto, che, come appare evidente dalla semplice lettura, riproduce la previsione che l'atto amministrativo emanato senza la copertura finanziaria, lungi dall'essere "nullo di diritto", come previsto dal vecchio testo dell'art. 55, comma 5, della legge n. 142/1990, è valido e diviene esecutivo solo con l'apposizione del visto di regolarità contabile attestante la copertura.

E’ poi appena il caso di aggiungere che la tesi degli appellanti appare in contrasto proprio con la disposizione invocata (art. 151, comma 4, D.Lgs. 18.08.2000, n. 267), il cui contenuto è frutto di una riscrittura dell’ordinamento contabile degli enti locali, intervenuta successivamente all’entrata in vigore dell’art. 55 della legge 08.06.1990, n. 142.
Come chiarito dalla Corte di Cassazione (SS.UU.CC. 26.07.2002, n. 11098), l'art. 55 della legge 08.06.1990 n. 142, comma 5 –che, com’è noto, prevedeva “la nullità di diritto” dell’atto di impegno di spesa, non contenente l’attestazione della relativa copertura finanziaria da parte del responsabile del servizio finanziario- è stato sostituito, in forza dell'art. 6, comma 11, della legge 15.05.1997, n. 127, recante "Misure urgenti per lo snellimento dell'attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo", con il seguente testo: “I provvedimenti dei responsabili dei servizi che comportano impegni di spesa sono trasmessi al responsabile del servizio finanziario e sono esecutivi con l'approvazione del visto di regolarità contabile attestante la copertura finanziaria".
Ad avviso della Corte, a seguito della riscrittura dell'ordinamento contabile e della nuova distribuzione di competenze tra organi politico-amministrativi e responsabili dei singoli servizi, la copertura finanziaria, che prima era un prius, successivamente è divenuta, dal punto di vista dell'attestazione formale, un posterius. La norma dell'art. 55, comma 5, della legge 08.06.1990, n. 142, è stata, cioè, modificata nel senso che l'attestazione di copertura ha assunto un significato accertativo della necessaria copertura di bilancio dell'atto emanato nel contesto del richiesto visto di regolarità contabile, che riguarda anche l'esatta imputazione di spesa.
In altri termini, l'attestazione di copertura finanziaria non precede più l'impegno, né, soprattutto, è più requisito di validità, ma accede, completandolo, alla relativa deliberazione o determinazione di spesa di cui diventa condizione di esecutività: la sua mancanza non comporta la nullità dell'atto di spesa.
L'attestazione, da elemento (interno) costitutivo della validità, rectius della stessa esistenza della delibera, è divenuto un atto di controllo esterno all'atto ma interno all'organizzazione.
Conseguentemente le deliberazioni di spesa prive dell'attestazione saranno valide anche se non esecutive. Ciò risulta pienamente conforme al principio di separazione delle competenze tra direzione politica e direzione amministrativa introdotto dal D.Lgs. 03.02.1993, n. 29. L'apposizione dell'attestazione di copertura finanziaria, infatti, è un'attività gestionale espletata in applicazione della normativa che la prevede. La mancata apposizione del visto da parte dell'organo burocratico non può comportare la nullità dell'atto -che impegni una spesa- adottato dall'organo politico-amministrativo, poiché la sanzione sarebbe evidentemente eccessiva e creerebbe una incongruenza nell'ordinamento, condizionando la validità di un atto alla sussistenza di un altro atto proveniente da un soggetto rispetto al quale sussiste il regime di separazione dei compiti. La mancata esecutività risulta conforme a quest'ultimo principio e consente la distinta verifica dell'operato di ciascuno ed il sanzionamento delle eventuali responsabilità con le modalità previste dall'ordinamento, in relazione alle distinte competenze.
Il decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, (Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), ha integralmente abrogato (art. 274, lettera q) la legge n. 142 del 1990 e contiene una disposizione identica alla norma in esame, come sostituita dall'art. 6, comma 11, della legge 15.05.1997 n. 127, e precisamente l'art. 151, comma quarto, che, come appare evidente dalla semplice lettura, riproduce la previsione che l'atto amministrativo emanato senza la copertura finanziaria, lungi dall'essere "nullo di diritto", come previsto dal vecchio testo dell'art. 55, comma 5, della legge n. 142/1990, è valido e diviene esecutivo solo con l'apposizione del visto di regolarità contabile attestante la copertura
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.05.2005 n. 2718 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gli appalti devono essere aggiudicati mediante procedure ad evidenza pubblica, principio rispetto al quale l’affidamento diretto costituisce deroga ed eccezione che, ove anche prevista, è solo consentita e non certamente imposta, con la conseguenza che ove la P.A. appaltante, pur in presenza di una possibilità di deroga, opti invece per la gara ad evidenza pubblica, la relativa scelta appare comunque ineccepibile.
Influenzata dall’erroneo convincimento di aver titolo all’affidamento dei lavori alle stesse condizioni di quelli espletati in precedenza, sempre in forza dell’assunto che non sarebbe superato il limite del sesto quinto, e cioè sulla base di un ribasso del 13%, appare altresì la doglianza con la quale si contesta la pretesa della P.A. ad un ulteriore ribasso dell’8%, per un totale del 21%.
Ineccepibilmente infatti la P.A., nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali di scelta, ha posto come condizione l’ulteriore ribasso, e non vale neppure affermare, trattandosi di una inammissibile ingerenza in questioni di merito a detta P.A. soltanto spettanti, che l’affidamento dei lavori in questione all’impresa appellante avrebbe rappresentato la scelta più conveniente, tenuto conto che la somma risparmiata con il ribasso aggiuntivo preteso sarebbe stata in gran parte assorbita dalle spese relative alle due perizie e alla nuova progettazione esecutiva ora disposta.
E ciò senza tener conto che alla conclusione negativa alla quale ora ci si oppone la P.A. era pervenuta anche in forza dell’art. 25 L. 11.02.1994 n. 109, nel testo all’epoca vigente di cui all’art. 8-ter L. 02.06.1995 n. 216, che non prevede, tra le varianti previste, la tipologia della variante in questione: a prescindere da ogni dubbio se tale disposizione potesse o meno formalmente considerarsi in vigore, ne risulta infatti evidente la ratio legis che mira ad evitare, a tutela sia del pubblico interesse che della concorrenza, ogni possibile elusione del principio generale in base al quale gli appalti devono essere aggiudicati mediante procedure ad evidenza pubblica, principio rispetto al quale l’affidamento diretto costituisce deroga ed eccezione: deroghe ed eccezioni che, ove anche previste, sono solo consentite e non certamente imposte, con la conseguenza che ove l’amministrazione appaltante, pur in presenza in ipotesi di una possibilità di deroga, opti invece per la gara ad evidenza pubblica, la relativa scelta appare comunque ineccepibile
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.06.2001 n. 3508 - link a www.dirittoeschemi.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La sottoposizione delle deliberazioni degli enti locali ai pareri di legittimità e regolarità tecnico-contabile assume rilevanza essenzialmente al fine di di individuare i responsabili in via amministrativa e contabile delle deliberazioni, ma non vale di per sé, in caso di omissione, a comportare necessariamente l’illegittimità delle deliberazioni medesime.
Ugualmente infondate o irrilevanti sono le altre censure d’ordine formale: quanto alla previsione di spesa, questa, pur se non contenuta nella delibera assembleare, si trova in quella contestualmente adottata dal C.d.A., e tanto basta; quanto alla asserita mancanza dei pareri di legittimità del segretario e tecnico contabile del direttore (art. 20, c. 2 statuto) la censura appare sostanzialmente infondata in fatto, posto che la delibera assembleare, costitutiva, come si è visto, della volontà dell’ente, è assistita dalla firma del segretario, mentre quella del C.d.A. , contenente l’impegno di spesa, risulta controfirmata dal direttore.
E ciò a prescindere, in generale, dal fatto che la sottoposizione delle deliberazioni degli enti locali ai pareri di legittimità e regolarità tecnico-contabile di cui all’art. 53 L. 08.06.1990 n. 142 assume rilevanza essenzialmente al fine di di individuare i responsabili in via amministrativa e contabile delle deliberazioni, ma non vale di per sé, in caso di omissione, a comportare necessariamente l’illegittimità delle deliberazioni medesime
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.06.2001 n. 3508 - link a www.dirittoeschemi.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il mancato inserimento dei pareri di regolarità tecnica e contabile nelle deliberazioni degli Enti Locali costituisce una semplice irregolarità, allorquando non si contesta l'effettiva esistenza dei pareri.
Priva di pregio è l'ultima doglianza contenuta nel sedicesimo motivo poiché il mancato inserimento dei pareri di regolarità tecnica e contabile nella deliberazione impugnata costituisce una semplice irregolarità a mente dell'art. 53, l. 08.06.1990, n. 142 allorquando come nel caso di specie, non si contesta l'effettiva esistenza dei pareri (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.03.2001 n. 1567 - link a www.dirittoeschemi.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa nullità degli impegni di spesa, assunti senza preventiva attestazione della copertura finanziaria, consegue alla sola carenza della previa attestazione e perciò non é esclusa dal fatto che, in concreto, tale copertura finanziaria sussista, ancorché non previamente attestata.
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Esiste certamente una differenza fra il parere di regolarità contabile previsto dal primo comma dell’art. 53 della legge 142/1990 e l’attestazione di copertura finanziaria previsto dal quinto comma dell’art. 55. Il primo verte su eventuali aspetti economico-finanziari, mentre la seconda, in presenza di spese, concerne il più limitato aspetto dell’esistenza, nel capitolo indicato dalla deliberazione, di sufficienti disponibilità, tenuto conto degli impegni precedentemente assunti.
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L’attestazione di copertura finanziaria é implicitamente contenuta nella stessa proposta di ciascuna deliberazione recante la sottoscrizione da parte del ragioniere del riquadro inerente l’imputazione di ogni singola spesa.

L’art. 55, quinto comma, della legge 08.06.1990 n. 142, nel testo precedente la modificazione introdotta dall’art. 6 della legge 15.05.1997 n. 127, stabiliva: “Gli impegni di spesa non possono essere assunti senza attestazione della relativa copertura finanziaria da parte del responsabile del servizio finanziario. Senza tale attestazione l’atto é nullo di diritto”.
La condizione di validità della deliberazione contenente impegni di spesa era, pertanto, costituita dalla previa attestazione della copertura finanziaria da parte dell’organo competente.
La giurisprudenza ha, infatti, affermato che la nullità degli impegni di spesa, assunti senza preventiva attestazione della copertura finanziaria, consegue alla sola carenza della previa attestazione e perciò non é esclusa dal fatto che, in concreto, tale copertura finanziaria sussista, ancorché non previamente attestata (Cass., Sez. I, 14.05.1997 n. 4248).
Fermo il principio richiamato, alla stregua del quale il CO.RE.CO. ha sancito la nullità delle deliberazioni di che trattasi, ancorché fornite di attestazione postuma di copertura finanziaria, si palesano irrilevanti le argomentazioni addotte dal Comune ricorrente.
Esiste certamente una differenza fra il parere di regolarità contabile previsto dal primo comma dell’art. 53 della legge, richiamato nelle citate deliberazioni, e l’attestazione di copertura finanziaria previsto dal quinto comma dell’art. 55. Il primo verte su eventuali aspetti economico-finanziari, mentre la seconda, in presenza di spese, concerne il più limitato aspetto dell’esistenza, nel capitolo indicato dalla deliberazione, di sufficienti disponibilità, tenuto conto degli impegni precedentemente assunti (circolare del Ministero dell’Interno, richiamata dal ricorrente).
Ciò trova conferma nell’art. 35, primo comma, del D.Lgs. 25.02.1995 n. 77, recante ordinamento finanziario e contabile degli enti locali, secondo cui gli enti locali possono effettuare spese solo se sussiste l’impegno contabile registrato sul competente intervento o capitolo del bilancio di previsione da comunicare ai terzi interessati e l’attestazione di copertura finanziaria di cui all’art. 55, comma 5, della legge n. 142/1990.
Da tanto non é consentito, peraltro, desumere -secondo la tesi sostenuta nel ricorso- che, comunque, l’attestazione di copertura finanziaria é implicitamente contenuta nella stessa proposta di ciascuna deliberazione recante la sottoscrizione da parte del ragioniere del riquadro inerente l’imputazione di ogni singola spesa che sarebbe stata «confermata» dal visto apposto in data 11.01.1991.
Nella fattispecie, come accertato dall’organo di controllo, le deliberazioni comportanti assunzioni di spesa, adottate tutte nel 1990, recano un’attestazione di copertura finanziaria apposta in data 11.01.1991; tanto basta, per le ragioni suesposte, a far ritenere nulle di diritto le deliberazioni di che trattasi, come legittimamente rilevato dal CO.RE.CO. con la decisione impugnata (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 25.02.2000 n. 369 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIE' illegittima la deliberazione di giunta/consiglio comunale priva del parere di regolarità tecnica e contabile.
Egualmente la sentenza di primo grado merita conferma nella parte in cui ha rilevato che la citata deliberazione di giunta n. 22/1991 è stata adottata senza la previa acquisizione del parere di "regolarità tecnica e contabile", di cui all'art. 53, comma 1, della legge n. 142/1990.
La circostanza che, in mancanza di unità operative idonee, il parere potesse essere reso dal segretario comunale (art. 53, comma 2) non toglie che la deliberazione dovesse recarne esplicita traccia. Alla tesi degli appellanti, secondo cui il parere "preventivo e favorevole di legittimità" espresso dal segretario generale sarebbe comprensivo di ogni altra valutazione, va obiettato che l'esame dell'atto sotto il profilo della legittimità non è assimilabile, per l'oggettiva diversità della funzione e dei parametri di riferimento, all'apprezzamento, anch'esso obbligatorio, dei suoi profili di ordine tecnico e contabile (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.02.2000 n. 808 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: I pareri del responsabile del servizio interessato e del responsabile di ragioneria non pongono alcun limite alla potestà deliberante della giunta e del consiglio comunale, che possono liberamente disporre del contenuto delle proposte di deliberazione, dopo l'acquisizione su queste dei pareri stessi.
Con il secondo motivo di appello si assume la violazione dell'articolo 53 della legge 08.06.1990, n. 142.
L'infondatezza della censura proposta consegue al rilievo che la norma citata, nel prevedere la necessità dei pareri del responsabile del servizio interessato, del responsabile di ragioneria, nonché del segretario comunale, ciascuno per quanto di propria competenza, non pone alcun limite alla potestà deliberante della giunta e del consiglio comunale, che possono liberamente disporre del contenuto delle proposte di deliberazione, dopo che su queste ultime sia stato acquisito, quale elemento formale dell'iter procedimentale, il parere dei predetti organi tecnici.
Ove si opinasse diversamente, si finirebbe inammissibilmente con il conferire ai citati organi consultivi l'effettivo potere di amministrazione, degradando la giunta ed il consiglio ad una funzione di mera ratifica di determinazioni amministrative sostanzialmente imputabili ad altri soggetti (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.05.1998 n. 680 - link a www.dirittoeschemi.it).

AGGIORNAMENTO AL 15.11.2012

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UTILITA'

ENTI LOCALI: Oggetto: Trasmissione Bozza di Convenzione per la gestione associata delle funzioni obbligatorie per i Piccoli Comuni (ANCI Lombardia, circolare 06.11.2012 n. 129/2012).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: R. Giovagnoli, IL RESPONSABILE DEL PROCEDIMENTO: PUNTI DI CONTATTO E DISSONANZA TRA LA DISCIPLINA CODICISTICA E QUELLA SUL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO (link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: N. Furin, La nuova disciplina in materia di terre e rocce da scavo (link a http://venetoius.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia serie ordinaria n. 46 del 15.11.2012 "Approvazione del documento “Contenuti informativi per il monitoraggio dei provvedimenti assunti dai Comuni in attuazione della l.r. 4/2012" (decreto D.U.O. 23.10.2012 n. 9453).

EDILIZIA PRIVATA: G.U.U.E. 14.11.2012 n. L/215 "DIRETTIVA 2012/27/UE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 25.10.2012 sull'efficienza energetica, che modifica le direttive 2009/125/CE e 2010/30/UE e abroga le direttive 2004/8/CE e 2006/32/CE" (link a http://eur-lex.europa.eu).

APPALTI: G.U. 13.11.2012 n. 265 "Primi chiarimenti in ordine all’applicazione delle disposizioni di cui al d.P.R. 05.10.2010, n. 207 in particolare alla luce delle recenti modifiche e integrazioni intervenute in materia di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, circolare 30.10.2012 n. 4536).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: G.U. 13.11.2012 n. 265 "Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione" (Legge 06.11.2012 n. 190).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia serie ordinaria n. 46 del 13.11.2012 "Presa d’atto della proposta di documento di pianificazione e programmazione regionale di interventi per la qualità dell’aria, della proposta di rapporto ambientale, della proposta di sintesi non tecnica e della proposta di studio di incidenza ambientale (art. 2, l.r. 24/2006 e art. 9, d.lgs. 155/2010)" (deliberazione G.R. 07.11.2012 n. 4384).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Si deve ritenere che la locuzione “atto di pianificazione” inserita nella norma (art. 92, comma 6, dlgs 163/2006) debba necessariamente riferirsi alla progettazione di opere pubbliche e non ad un mero atto di pianificazione territoriale redatto dal personale tecnico abilitato dipendente dell’amministrazione.
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I punti fermi che il regolamento interno (sulla disciplina del'incentivo) deve rispettare
paiono essere i seguenti:
erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, per un appalto di fornitura di beni o di servizi).
La norma non presuppone, tuttavia, ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di una o più attività (per esempio, la progettazione) purché, come sarà meglio specificato, il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni;
ammontare complessivo non superiore al due per cento dell’importo a base di gara. Di conseguenza la somma concretamente prevista dal regolamento interno può essere stabilita in misura percentuale inferiore;
ancoramento del fondo incentivante alla base di gara (non all’importo oggetto del contratto, né a quello risultante dallo stato finale dei lavori). Si deduce che non appare ammissibile la previsione e l’erogazione di alcun compenso nel caso in cui l’iter dell’opera o del lavoro non sia giunto, quantomeno, alla fase della pubblicazione del bando o della spedizione delle lettere d’invito (cfr., per esempio, l’art. 2, comma 3, del DM Infrastrutture n. 84 del 17/03/2008).
Quanto detto non esclude che, in sede di regolamento interno, al fine di ancorare l’erogazione dell’incentivo a più stringenti presupposti, l’amministrazione possa prevedere la corresponsione solo subordinatamente all’aggiudicazione dell’opera;
puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento, progettista, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo percentuali rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza;
devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione.
Il sindaco del comune di Agrate Brianza (MI), mediante nota n. 21541 del 09.10.2012, ha posto un quesito in merito alla disciplina dei compensi incentivanti ai sensi dell’art. 92, comma 6, del D. Lgs. 163/2006.
Il sindaco premette che l’amministrazione ha la necessità di adottare un nuovo regolamento in materia, e chiede, anche alla luce delle recenti pronunce della Corte dei conti, quali atti di pianificazione urbanistica possano essere oggetto di attribuzione dell’incentivo di cui al codice dei contratti; in particolare si richiede se possano essere compresi alcuni atti diversi da quelli correlati alla realizzazione di opere pubbliche (redazione di un PGT, variante urbanistica, piano integrativo d intervento, recupero edilizio, documento di piano, piano delle regole, piano dei servizi).
...
In relazione alla predisposizione del nuovo regolamento di organizzazione da parte dell’amministrazione comunale, la Sezione ha già maturato un consolidato orientamento in sede consultiva (cfr. per tutti Sezione contr. Lombardia, parere 08.10.2012 n. 425).
L’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici, con atto di regolazione n. 6 del 04/11/1999, aveva già avuto modo di precisare come, nel caso della progettazione interna, la prestazione dei dipendenti, in quanto riferita direttamente all’amministrazione di appartenenza, è da considerare svolta "ratione offici" e non "intuitu personae", risolvendosi "in una modalità di svolgimento del rapporto di pubblico impiego" (Cass. Civ. Sez. Un. 02.04.1998, n. 3386), nell'ambito della cui disciplina, normativa e contrattuale, vanno individuati i termini della relativa retribuzione.
Come evincibile dalla lettera del comma, la legge pone alcuni paletti per l’attribuzione del predetto incentivo, rimettendone la disciplina concreta (“criteri e modalità”) ad un regolamento interno assunto previa contrattazione decentrata.
I punti fermi che il regolamento interno deve rispettare (sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non previsti, si rimanda al parere 30.05.2012 n. 259 della Sezione) paiono essere i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, per un appalto di fornitura di beni o di servizi). La norma non presuppone, tuttavia, ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di una o più attività (per esempio, la progettazione) purché, come sarà meglio specificato, il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni;
- ammontare complessivo non superiore al due per cento dell’importo a base di gara. Di conseguenza la somma concretamente prevista dal regolamento interno può essere stabilita in misura percentuale inferiore;
- ancoramento del fondo incentivante alla base di gara (non all’importo oggetto del contratto, né a quello risultante dallo stato finale dei lavori). Si deduce che non appare ammissibile la previsione e l’erogazione di alcun compenso nel caso in cui l’iter dell’opera o del lavoro non sia giunto, quantomeno, alla fase della pubblicazione del bando o della spedizione delle lettere d’invito (cfr., per esempio, l’art. 2, comma 3, del DM Infrastrutture n. 84 del 17/03/2008). Quanto detto non esclude che, in sede di regolamento interno, al fine di ancorare l’erogazione dell’incentivo a più stringenti presupposti, l’amministrazione possa prevedere la corresponsione solo subordinatamente all’aggiudicazione dell’opera;
- puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento, progettista, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo percentuali rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza
(cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, Deliberazioni n. 315 del 13/12/2007, n. 70 del 22/06/2005, n. 97 del 19/05/2004;
- devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione (si rinvia alle Deliberazioni dell’Autorità di vigilanza n. 315 del 13/12/2007, n. 35 del 08/04/2009, n. 18 del 07/05/2008 e n. 150 del 02/05/2001).
Altri principi applicabili alla fattispecie (rilevanti ai fini del parere di cui si discute) si ricavano dalla normativa generale sul pubblico impiego e, in particolare, dall’art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001 in base al quale “le amministrazioni pubbliche non possono erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese”.
La regola è fatta espressamente propria dal legislatore anche nella materia degli incentivi di cui si discute, posto che l’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006, nella formulazione discendente dalla novella apportata dall’art. 1 del d.l. n. 162/2008, dispone che “la corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti”.
Nel caso in cui tale accertamento sia invece negativo, la norma, adotta la medesima regola della devoluzione in economia, prevista per il caso di attività eseguita da professionisti esterni (in proposito l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici ha affermato, nella Deliberazione n. 69 del 22/06/2005, emessa nel previgente similare contesto normativo, che l’incentivo assolve alla funzione di compensare i progettisti dipendenti che abbiano in concreto effettuato la redazione degli elaborati progettuali. Pertanto,
la previsione, da parte di un regolamento interno, della corresponsione anche nell’ipotesi di progettazione nella sostanza redatta da professionisti esterni, risulta in contrasto con la ratio della disposizione legislativa, concretando un’ipotesi di duplicazione di spesa).
Per quanto concerne la prospettata questione circa il corretto significato da attribuire alla locuzione “atto di pianificazione” inserita nel testo dell’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006,
la Sezione richiama il condivisibile orientamento espresso dalla Sezione regionale di controllo per il Piemonte (cfr. parere 30.08.2012 n. 290), a tenore del quale, l’atto di pianificazione, comunque denominato, debba necessariamente riferirsi alla progettazione di opere pubbliche e non ad un mero atto di pianificazione territoriale redatto dal personale tecnico abilitato dipendente dell’amministrazione.
Stante la sedes materiae della norma sugli incentivi alla progettazione (Codice degli appalti), nonché la ratio della disposizione (contenere i costi connessi alla progettazione delle opere pubbliche valorizzando le professionalità interne alla pubblica amministrazione),
si condivide l’argomentazione secondo cui “la norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente (in termini, Sezione contr. Piemonte deliberazione cit.; cfr. altresì Sezione contr. Lombardia, parere 30.05.2012 n. 259; parere 06.03.2012 n. 57; Sezione contr. Puglia, parere 16.01.2012 n. 1; Sezione contr. Toscana, parere 18.10.2011 n. 213).
Si osserva, inoltre, che l’interesse pubblico alla realizzazione dell’opera, quale presupposto per l’erogazione di compensi incentivanti al personale in servizio per la redazione di progetti, è testualmente previsto nell’art. 92, comma 7, del d.lgs. 163/2006, quale criterio da prendere in considerazione per lo stanziamento dei fondi necessari al finanziamento delle spese progettuali in sede di stesura dei bilanci dello Stato, delle amministrazioni statali, delle regioni e delle autonome locali.
In conclusione,
ciò che rileva ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante non è tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale (piano regolatore o variante generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 24.10.2012 n. 452).

SEGRETARI COMUNALICorte dei conti Campania. Quattro criteri sanciti dalla sezione giurisdizionale.
Segretari, stipendi accessori sempre da «motivare». Lo straordinario elettorale non produce compensi.

Quattro questioni di grande rilievo affrontate nella sentenza 19.10.2012 n. 1627, con la quale la sezione giuridica della Corte dei conti della Campania ha fissato principi in tema di retribuzione accessoria dei segretari comunali e provinciali.
Punto per punto
Innanzitutto, i giudici campani hanno affermato che il pagamento dello straordinario elettorale al segretario, oltre a essere contra legem, rappresenta un danno all'erario, poiché è in contrasto con il principio di onnicomprensività della retribuzione di cui all'articolo 41, comma 6, del Ccnl Segretari del 16.05.2001.
La seconda questione concerne le modalità di attribuzione della maggiorazione della retribuzione di posizione. Ai sensi dell'articolo 41, comma 4, del Ccnl citato, gli enti, nell'ambito degli equilibri di bilancio, possono riconoscere al segretario una maggiorazione dal 10% al 50% della retribuzione di posizione, allorché ricorrano le condizioni di carattere oggettivo o soggettivo indicate nell'accordo integrativo 22.12.2003.
Per la Corte la maggiorazione non può essere attribuita mediante atti aventi motivazione solo formale, che semplicemente ripetano il dettato della norma nazionale. Il riconoscimento del compenso aggiuntivo nella misura massima, in assenza di una congrua motivazione (che dia conto sia delle condizioni soggettive e oggettive legittimanti sia del processo di quantificazione monetaria tra il minimo e il massimo) è fonte di responsabilità amministrativa. In altre parole, la maggiorazione per le cosiddette funzioni aggiuntive deve poggiare su un serio percorso valutativo circa l'an e il quantum del beneficio e non può essere, com'è prassi diffusa, un'aggiunta stipendiale quasi automatica.
Il terzo profilo riguarda il riconoscimento al segretario, nel caso di conferimento di funzioni gestionali, non solo della retribuzione di risultato stabilita per i segretari, ma anche di quella prevista per i dipendenti del comparto titolari di posizione organizzativa ex articolo 10 del Ccnl 31.03.1999 (25% della retribuzione di posizione). Anche in questo caso è stata riconosciuta la sussistenza del danno erariale, poiché al segretario spetta unicamente la retribuzione di risultato prevista dai contratti nazionali di settore, senza altre forme di premialità stabilite per i dipendenti di altri comparti, anche qualora siano svolte temporaneamente funzioni gestionali.
La Corte, infine, ha trattato il tema dell'attribuzione della retribuzione di risultato propria dei segretari ex articolo 42 del Ccnl 16.05.2001. Sul punto è stata ritenuta fonte di responsabilità amministrativa l'assegnazione al segretario della premialità nella misura massima in assenza di un serio processo valutativo, che, ai sensi del Dlgs 286/1999, deve prevedere almeno una preventiva fissazione di obiettivi quali-quantitativi da raggiungere e una valutazione finale motivata sul raggiungimento degli stessi.
Ulteriore «sviluppo»
È evidente la portata della sentenza in un contesto nel quale alcune delle prassi censurate (maggiorazione della posizione e riconoscimento del risultato in assenza di congrue motivazioni e valutazioni) risultano diffuse su scala nazionale. La decisione, tuttavia, può rappresentare anche un importante riferimento per valutare la portata, in termini di responsabilità, di una fattispecie ancor più scottante: la relazione fra la maggiorazione ex articolo 41, comma 4, del Ccnl 16.05.2001 e la clausola di "galleggiamento" ex articolo 41, comma 5, nel periodo precedente all'entrata in vigore della legge 183/2011.
Secondo un inciso della motivazione, difatti, l'articolo 41 e la sua interpretazione rigorosa (ora avvalorata dall'articolo 4, comma 26, della legge 183/2011) impongono che l'allineamento stipendiale operi sulla retribuzione di posizione del segretario complessivamente intesa, inclusa la maggiorazione di cui all'articolo 41, comma 4. La Corte, pertanto, riconosce che, a differenza di quanto spesso verificatosi, il galleggiamento sulla posizione dirigenziale più retribuita può (e poteva) operare solo dopo il riconoscimento della maggiorazione della retribuzione di posizione, e non viceversa.
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La sentenza in pillole
01 | IL DANNO ERARIALE
L'attribuzione a segretari comunali o provinciali di straordinari elettorali e il riconoscimento (se sono conferite funzioni gestionali) della retribuzione prevista per i dipendenti del comparto titolari di posizione organizzativa configurano danno all'erario.
02 | LE VALUTAZIONI
La maggiorazione della retribuzione di posizione e l'attribuzione della retribuzione di risultato possono arrivare solo al termine di un serio percorso valutativo (mentre ora è prassi diffusa concederle anche in assenza di congrue motivazioni e valutazioni).
03 | L'INCISO
La Corte riconosce che, a differenza di quanto spesso verificatosi, il "galleggiamento" sulla posizione dirigenziale più retribuita può (e poteva) operare solo dopo il riconoscimento della maggiorazione della retribuzione di posizione, e non viceversa (articolo Il Sole 24 Ore del 12.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Responsabilità da «posizione».
Domanda
Il proprietario di un terreno inquinato, non per sua colpa, è obbligato alle opere di risanamento del medesimo?
Risposta
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar), Piemonte, sezione II, con la sentenza dell'11.02.2011, numero 136, ha individuato una responsabilità da «posizione», svincolata da profili soggettivi e dall'apporto causale, che impone al proprietario di un'area inquinata senza sua responsabilità di dovere intervenire per procedere alla bonifica dell'area medesima.
Anche il Tribunale regionale amministrativo (Tar), Lazio, sezione I, con la sentenza del 14.03.2011, numero 2263, ha riconosciuto, alla luce delle obbligazioni risarcitorie che gravano sul proprietario del fondo in forza dell'onere reale, l'obbligo in capo al proprietario del terreno inquinato, senza alcuna sua responsabilità, di effettuare gli interventi di bonifica in alternativa al responsabile dell'inquinamento.
Per il Tribunale regionale amministrativo (Tar), Toscana, Firenze, sezione II (sentenza del 22.06.2010, numero 2035), il proprietario del fondo inquinato, pur non avendo colpa per l'inquinamento, deve continuare la procedura della bonifica del fono da lui iniziata. Egli non può, per i giudici amministrativi toscani, sottrarsi all'obbligo di conclusione della bonifica volontariamente iniziata.
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar), Sardegna, sezione I, con la sentenza del 16.12.2011, numero 1239, ha affermato che le opere di bonifica ambientale devono essere eseguite dalla pubblica amministrazione competente quando il responsabile dell'inquinamento non li esegua o quando esso non sia individuabile da parte della pubblica amministrazione. In capo al proprietario del sito, per i giudici sardi, non sussiste alcun obbligo di eseguire interventi di bonifica e di messa in sicurezza. Nei suoi confronti, la pubblica amministrazione ha diritto di rivalersi nei limiti del valore dell'area bonificata (articolo ItaliaOggi Sette del 12.11.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sanzione amministrativa al sindaco pro tempore, azione di regresso del comune.
Qualora il sindaco pro tempore rifiuti di pagare la sanzione comminata per un illecito amministrativo del quale è stato dichiarato responsabile, il comune presso cui svolgeva il proprio mandato, obbligato in solido, può accollarsi l'onere del pagamento solamente facendo valere, contestualmente, il proprio diritto di regresso nei confronti dell'autore della violazione.
Il Comune riferisce di avere ricevuto, quale soggetto obbligato in solido, la notifica di un'ordinanza-ingiunzione dell'Amministrazione provinciale diretta al sindaco pro tempore per un'infrazione dell'art. 54, comma 2, del D.Lgs. 11.05.1999, n. 152.
Dopo avere presentato ricorso in opposizione senza ottenerne l'accoglimento, il Comune intende chiudere la vertenza con l'Amministrazione provinciale riconoscendole la somma dovuta tra i propri debiti fuori bilancio.
L'Ente chiede di sapere se esso sia tenuto o meno a richiedere al sindaco pro tempore il pagamento dell'importo prima di procedere a tale operazione e come si debba comportare, con riferimento ai termini di prescrizione del diritto di regresso, nel caso in cui lo stesso non intenda provvedervi ovvero dalla sentenza emergano responsabilità di altri soggetti.
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione centrale, si formulano le seguenti considerazioni.
L'art. 54, comma 2, del D.Lgs. 152/1999 puniva con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire 10 milioni a lire cento milioni chiunque aprisse o effettuasse scarichi di acque reflue domestiche o di reti fognarie senza l'autorizzazione di cui all'art. 45[1].
L'Amministrazione provinciale, contestando tale infrazione al Comune istante, ha ingiunto con ordinanza motivata, ai sensi degli artt. 6 e 18 della legge 24.11.1981, n. 689, il pagamento sanzionatorio al sindaco pro tempore e, in solido, all'Ente stesso.
Come è noto, le violazioni che danno origine alle sanzioni amministrative di cui alla L. 689/1981 sono riconosciute come fattispecie depenalizzate, aventi cioè una struttura simile a quella dei reati, ma che il legislatore ha deciso di punire solamente con una sanzione pecuniaria.
Analogamente ai reati, la legge prevede che la condotta di chi ha commesso la violazione debba essere realizzata con dolo (cioè con coscienza e volontà) ovvero colpa (cioè per negligenza, imprudenza o imperizia) (art. 3). Per tale ragione, in virtù del necessario requisito dell'elemento soggettivo, il soggetto destinatario di tali provvedimenti non può che essere una persona fisica, in quanto, secondo il noto brocardo, societas delinquere non potest[2].
La responsabilità della persona giuridica è, infatti, puramente sussidiaria e deve ritenersi sussistente quando sia stato commesso un illecito amministrativo da un soggetto ricollegabile all'ente, che ha agito nell'esercizio delle sue funzioni ed incombenze, a prescindere dall'identificazione dell'autore materiale dell'illecito.[3].
A favore della persona giuridica obbligata in solido, che ha pagato, la legge ha previsto il diritto di regresso per l'intero[4] nei confronti dell'autore della violazione (art. 6).
Applicando tali regole al caso in esame, spetta al sindaco pro tempore, individuato quale responsabile dell'illecito, per la sua qualità di rappresentante legale dell'ente pubblico, pagare la sanzione amministrativa comminata dalla Provincia[5]. Pertanto, il Comune dovrebbe rivolgersi allo stesso per chiedergli di provvedere a suo carico alla liquidazione della sanzione[6].
Qualora il sindaco pro tempore rifiuti di pagare quanto dovuto alla Provincia e sia invece il Comune, tenuto in via solidale, ad adempiervi, l'Ente ha il diritto-obbligo di agire in regresso per richiedere l'intera somma versata.
Secondo la giurisprudenza contabile, infatti, il comune può accollarsi l'onere del pagamento della sanzione amministrativa solamente facendo valere, contestualmente, il proprio diritto di regresso nei confronti dell'autore della violazione. In mancanza di un tanto, sarebbe configurabile nel bilancio dell'ente un depauperamento illegittimo e, conseguentemente, sorgerebbe una responsabilità amministrativa indiretta nei confronti di chi ha disposto il pagamento a carico dell'ente di una sanzione che sarebbe dovuta rimanere a carico di altri soggetti[7]. Qualora poi il responsabile dell'illecito non risarcisca per intero l'ente, si ritiene che questo sia tenuto a formulare tempestivamente una denuncia circostanziata alla Procura regionale della Corte dei conti, affinché, nell'ambito dell'azione di regresso, proceda all'accertamento dei presupposti della responsabilità per danno, ed, in particolare, del grado di colpa ascrivibile al soggetto individuato[8].
Il più recente orientamento della Corte di cassazione, infatti, ritiene esclusiva la giurisdizione della Corte dei conti, riconosciuta quale giudice naturale, per tutti i giudizi aventi ad oggetto la tutela dei crediti erariali[9].
In conclusione, l'Ente che, non avendovi il sindaco pro tempore provveduto, abbia pagato la sanzione all'Amministrazione provinciale -dopo l'eventuale tentativo di escutere, anche in via bonaria, l'ex amministratore- dovrebbe avviare l'azione di regresso, dando tempestiva comunicazione alla Procura della Corte dei conti, ai fini dell'attivazione dell'azione di responsabilità amministrativa.
Al riguardo, si precisa che il termine di prescrizione di detta azione è di cinque anni[10], prendendo come dies a quo da cui computare il decorso il giorno in cui si è verificato il fatto dannoso[11], ossia, nel caso in esame, quello dell'esborso per il pagamento della sanzione alla Provincia[12].
Infine, con particolare riferimento alla richiesta dell'Ente circa la necessità, nel caso in cui intenda procedere al pagamento, di riconoscere il debito maturato nei confronti della Provincia per fatto dell'amministratore come debito fuori bilancio, si osserva che la fattispecie non rientra tra le ipotesi tassativamente previste come tali dall'art. 194 del D.Lgs. 267/2000. Di conseguenza, il Comune dovrebbe prevedere, qualora non lo avesse già fatto, con variazione di bilancio, un apposito capitolo, provvedendo al relativo finanziamento.
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[1] Il decreto è stato abrogato dall'art. 175 del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152.
[2] V. Cassazione civile, sentenza 30.05.2001, n. 7351: 'le sanzioni amministrative rientrano tra quelle sanzioni repressive per le quali è richiesta, oltre alla capacità di intendere e di volere, la colpa o il dolo [...] conseguentemente, una persona giuridica non può considerarsi autore della violazione alla quale la legge riconnetta dette sanzioni, ma, ai sensi dell'art. 6 della legge n. 689 del 1981, è solo obbligata in solido per le violazioni commesse, nell'esercizio delle proprie funzioni ed incombenze, dal suo rappresentante o dai suoi dipendenti, con diritto di regresso nei confronti degli stessi'.
[3] Cfr. Cassazione civile,sentenza 20.11.2006, n. 24573.
[4] Nelle obbligazioni solidali disciplinate dal Codice civile, invece, il diritto di regresso di chi ha pagato riguarda solamente la parte spettante a ciascuno degli altri condebitori (art. 1299 c.c.).
[5] Corte dei conti, sez. Abruzzo, sentenza 23.05.2005, n. 472. La Cassazione civile (sentenza 03.04.1996, n. 3116) ha sostenuto che 'la responsabilità dell'illecito amministrativo compiuto da un soggetto che abbia la qualità di legale rappresentante della persona giuridica grava sull'autore medesimo e non sull'ente rappresentato, il quale è solo solidalmente obbligato al pagamento delle somme corrispondenti alle sanzioni irrogate [...]. Ne consegue che, una volta individuato nella persona del sindaco il soggetto responsabile delle infrazioni riconducibili alla sfera delle attività del comune, incombe allo stesso soggetto la dimostrazione del venir meno della propria responsabilità personale per essere affidato il compimento delle attività medesime ad altra o ad altre persone fisiche, nei confronti dei quali egli, in ragione della particolare struttura ed organizzazione dell'ente, non debba esercitare diretta vigilanza'.
[6] Cfr. Corte dei conti, I sez. centrale, 13.02.2012, n. 57, secondo la quale non risulta possibile procedere al pagamento 'con somme provenienti dal bilancio aziendale, senza in alcun modo (tentare di ) escutere gli autori delle violazioni sanzionate'.
[7] Cfr. Corte dei conti, sez. Abruzzo, cit.; Corte dei conti, sez. giurisd. Calabria, 31.10.2007, n. 970; Corte dei conti, sez. giurisd. Lombardia, 07.09.2009, n. 593; Corte dei conti, I sez. centrale, cit.
[8] A differenza di quanto previsto dall'art. 3 della L. 689/1981, secondo cui l'autore della violazione risponde per dolo o per colpa, anche lieve, ai sensi dell'art. 1 della legge 14.01.1994, n. 20, nel giudizio avanti alla Corte dei conti, la responsabilità di amministratori e dipendenti pubblici è, infatti, limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o colpa grave.
[9] V. Corte di cassazione, S.U., ordinanza 25.09.2007, n. 22059; si veda anche Corte dei conti, sez. giurisd. d'appello per la Sicilia, 18.04.2011, n. 145.
[10] Cfr. art. 1, comma 2, L. 20/1994.
[11] V. Corte dei conti, S.R., 25.10.1996, n. 62/A e Corte dei conti, sez. Friuli Venezia Giulia 21.10.2010. Quest'ultima ha sostenuto che: 'il dies a quo, per un condivisibile orientamento giurisprudenziale delle Sezioni Riunite di questa Corte, coincide con l'effettiva verificazione del fatto dannoso che consiste non solo nell'azione che si reputa illecita, ma, soprattutto, nell'effetto lesivo della stessa. Pertanto se questi due momenti non sono temporalmente coincidenti, assume rilievo il momento produttivo del danno in quanto solo da quel momento la Procura Contabile ha interesse ad agire'.
[12] V. Corte dei conti, sez. riun., 05.09.2011, n. 14; Corte dei conti, Sicilia, 04.03.2008, n. 734
(18.05.2012 - link a www.regione.fvg.it).

NEWS

APPALTIProgetti, niente gara fino a 40.000. Aggiudicazione a ribasso per gli incarichi fino a 100 mila euro. In Gazzetta una circolare interpretativa su codice dei contratti pubblici e regolamento attuativo.
Legittimo affidare incarichi di progettazione in via diretta fino a 40 mila euro; ammesso il ricorso al prezzo più basso per incarichi al di sotto dei 100 mila euro; possibile trasformare l'avvalimento in subappalto ma senza superare il limite del 30% della «categoria prevalente»; le stazioni appaltanti nelle procedure ristrette per gare di progettazione possono utilizzare anche criteri diversi da quelli del regolamento.

È quanto prevede la circolare 30.10.2012 n. 4536, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 265 del 13.11.2012, predisposta dal ministero delle infrastrutture e trasporti (a firma di Bernedette Veca, direttore per la regolazione dei contratti pubblici) che reca «primi chiarimenti» sull'applicazione di alcune norme del regolamento del Codice dei contratti pubblici alla luce delle recenti modifiche e integrazioni intervenute in materia di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture.
La necessità dell'intervento interpretativo del dicastero di Porta Pia, che con tutta probabilità non rimarrà isolato considerando le numerose modifiche apportate al Codice dei contratti in quest'ultimo anno, che comportano anche conseguenze interpretative sul regolamento attuativo e, comunque dubbi per gli operatori del settore.
Con il dettagliato provvedimento interpretativo, che origina anche da diverse segnalazioni trasmesse da operatori del settore, si affrontano alcuni profili della disciplina degli affidamenti in economia per la quale il decreto legge 70/2011 ha inciso sul comma 11 dell'art. 125 del codice, innalzando il limite dell'importo consentito per affidamento diretto in economia di servizi e forniture da 20 mila euro a 40 mila euro.
La questione che si è posta, soprattutto con riferimento all'articolo 267, comma 10 del regolamento, riguardava l'efficacia della modifica rispetto alle procedure di affidamento di servizi di ingegneria e architettura stante il mancato coordinamento fra norma del Codice (con la soglia a 40 mila euro) e norma regolamentare (con il tetto a 20 mila euro). La circolare chiarisce che anche per i servizi di ingegneria vige il limite dei 40.000 euro, sia per principio generale di gerarchia delle fonti, sia per la soppressione del riferimento al secondo periodo del comma 11 dell'art. 125 (contenuta nell'art. 267, comma 10) che quindi «ha inteso assoggettare, integralmente, anche i servizi attinenti l'architettura e l'ingegneria al regime generale di cui all'art. 125, comma 11, del codice dei contratti».
Sempre con riguardo alle gare di progettazione la circolare chiarisce anche che al di sotto della soglia dei 100 mila euro le stazioni appaltanti possono applicare il criterio del prezzo più basso, senza l'obbligo, previsto per gli affidamenti oltre i 100 mila euro, di utilizzare il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, anche perché «l'obbligo di servirsi della procedura di cui all'art. 57, comma 6, del codice contempla utilmente il ricorso ad entrambi i criteri di aggiudicazione».
Si chiarisce anche il problema interpretativo di mancato coordinamento fra l'articolo 62 del Codice e l'articolo 265 del regolamento sulle procedure ristrette per servizi di progettazione, stabilendo che, in ragione del principio della gerarchia delle fonti e della natura non delegificante del regolamento, oltre alla scelta degli offerenti effettuata per metà a sorteggio e per metà con i criteri del regolamento, le stazioni appaltanti possono «indicare nel bando di gara diversi criteri, purché oggettivi, non discriminatori e rispettosi del principio di proporzionalità». Per l'avvalimento per servizi e forniture si precisa che ove manchi il contratto di avvalimento scatta l'esclusione del concorrente dalle procedure selettive e che ciò «si concretizza sia nell'ipotesi di «mancanza materiale» del contratto, sia in presenza di un difetto costitutivo e giuridicamente rilevante dello stesso (contratto nullo, sottoposto a condizione meramente potestativa ovvero altre ipotesi di nullità del contratto)».
Per i lavori si precisa che la possibilità di mutare l'avvalimento in subappalto non potrà mai avvenire oltre il limite del 30% della categoria prevalente. La circolare chiarisce inoltre che l'impresa in pendenza del rilascio del rinnovo dell'attestazione Soa, può partecipare alle procedure selettive nel caso in cui la stessa abbia richiesto di sottoporsi alla verifica triennale (stipulando apposito contratto con la Soa) prima della scadenza del triennio (articolo ItaliaOggi del 14.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIAnticorruzione. In «Gazzetta» la legge con la tutela per i pubblici dipendenti che scoprono illeciti.
Chi denuncia resta anonimo. Identità coperta finché non scattano la calunnia o una lite civile.

Resterà anonimo il dipendente pubblico che denuncia illeciti, almeno nella maggior parte dei casi.
Lo prevede l'articolo 1, comma 51, della legge 06.11.2012 n. 190 (pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» n. 265 del 13.11.2012 e in vigore dal 28 novembre), limitando l'accesso al testo della denunzia.
Ma il contenuto, e soprattutto la firma, diventeranno noti se il denunciato inizia un giudizio per calunnia o diffamazione, oppure se chiede il risarcimento dei danni da reato. Nel pubblico impiego sono frequenti le segnalazioni interne, ma se anonime, ne è difficile l'utilizzo (articolo 333 del Codice di procedura penale). Per le denunce firmate, fino ad oggi si doveva correre il rischio di una reazione da parte del denunciato, mentre con l'articolo 1 della legge 190 il meccanismo diventa più agevole, perché il denunciante può contare sull'anonimato. Può contarci almeno fin quando il suo avversario non passa al contrattacco e propone una denuncia (penale) per calunnia (se si incolpa un innocente di un reato) o diffamazione (se si offende reputazione o l'onore), oppure fin quando non inizia una lite civile in cui si chieda il risarcimento danni per calunnia o diffamazione.
La norma del 2012 solleva in parte le ansie di chi (dirigenti, amministratori e dipendenti) è tenuto a denunciare fatti che possano dar luogo a responsabilità, trovandosi tra due fuochi perché da un lato vi è l'obbligo di denuncia (se i fatti sono conosciuti per ragioni d'ufficio), e dall'altro vi è l'assunzione di responsabilità per omissione. Oggi è almeno garantito l'anonimato, e chi denuncia non può subire sanzioni né essere discriminato, licenziato, o trasferito d'ufficio. Soprattutto, non rischia neppure di essere scoperto da colui che è stato denunciato, perché l'identità di chi firma una segnalazione non può essere svelata. A tal fine è modificata la legge sull'accesso agli atti amministrativi (241/1990) escludendo che la denuncia possa essere oggetto di generica richiesta di copia da parte di chi vi abbia interesse.
Il segreto sull'identità del denunciante viene meno quando emerge una contrapposizione tra il diritto del denunciante a segnalare errori senza essere messo alla berlina e diritto del denunciato a difendersi: la legge 190 garantisce infatti al denunciato la possibilità di smentire fatti e circostanze, anche con un confronto diretto, e cioè anche conoscendo chi lo accusa.
Il secondo periodo del comma 51 dell'articolo 1 legge 190 sottolinea, infatti, che l'identità del denunciante può essere rivelata se la conoscenza di tale identità sia «assolutamente indispensabile» per la difesa dell'incolpato. Ad esempio, per smentire circostanze di fatti che non hanno altri testimoni, può chiedersi un confronto diretto con l'accusatore (articolo Il Sole 24 Ore del 14.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI: Imprese e pagamenti rischiano di andare in tilt per effetto della responsabilità solidale estesa. Certificare di essere ok col fisco pesa su appalti e subappalti.
Gli operatori economici sono in affanno, schiacciati da un'ulteriore incombenza. C'è un tam-tam, infatti, che si sta diffondendo da impresa a impresa: chi, per ottenere l'incasso di una fattura, si vede richiedere dal proprio cliente-committente la compilazione di un'autocertificazione a dimostrazione dell'avvenuto adempimento dei connessi obblighi fiscali, a sua volta la richiede ai propri fornitori-appaltatori.
Così sono sempre più numerosi gli imprenditori alle prese con un nuovo pesante adempimento: la dimostrazione al proprio committente del corretto adempimento degli obblighi di versamento dell'Iva e delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente relativi alle prestazioni d'appalto eseguite (si veda ItaliaOggi Sette del 5 novembre e del 29 ottobre, ndr).
Le nuove disposizioni introdotte dall'art. 13-ter del dl 83/2012, il cosiddetto decreto crescita (convertito nella l. 12.08.2012, n. 134) sulla responsabilità solidale negli appalti, divenute pienamente operative dall'11.10.2012 per i pagamenti relativi ai contratti stipulati dal 12.08.2012, stanno creando serie difficoltà alle imprese. Con la circolare 40 dell'08/10/2012 l'Agenzia delle entrate ha previsto la possibilità per le imprese appaltatrici e subappaltatrici di autocertificare il rispetto degli obblighi tributari relativi al versamento dell'Iva e delle ritenute fiscali, in modo da poter evitare l'attestazione di un professionista abilitato per ottenere il pagamento delle proprie prestazioni.
Ma anche tale possibilità non sembra semplificare di molto la procedura che si va a innescare per ottenere il pagamento di una prestazione di appalto o subappalto, dato che comunque nella maggior parte dei casi anche l'autocertificazione, seppur firmata dall'impresa, richiederà l'ausilio di un professionista.
Se ogni committente, per evitare il rischio di una sanzione da 5 mila a 200 mila euro, prima di pagare l'appaltatore gli chiede, con la fattura per le prestazioni effettuate, anche un'autocertificazione del rispetto degli obblighi tributari a esse connessi e lo stesso fa ogni appaltatore ai propri subappaltatori per evitare il rischio della responsabilità solidale in caso di mancato adempimento di tali obblighi, c'è il rischio che in molti casi costi e tempi dell'attività amministrativa necessaria agli adempimenti documentali relativi alle prestazioni d'appalto e subappalto finiscano per superare costi e tempi delle prestazioni stesse. Senza poi considerare i rischi di violazioni penali che incombono sulle autocertificazioni non correttamente compilate.
In assenza di precise delimitazioni dell'ambito di applicazione, la norma, infatti, opera indipendentemente dal valore del contratto e dalla tipologia dell'attività svolta e quindi le sanzioni potrebbero trovare applicazione anche per casistiche marginali. Per esempio in occasione del pagamento della manutenzione periodica di una caldaia di un negozio o di un ufficio richiesta da un'impresa, o in occasione della riparazione di un'auto aziendale (i committenti privati restano esclusi), o ancora per la rettifica di un pistone, la levigatura di una sedia, la zincatura di un portone e così via.
La sanzione minima di 5 mila euro che rischia il committente che non abbia verificato, prima di procedere al pagamento dell'appaltatore, il corretto adempimento da parte di quest'ultimo e dei suoi eventuali subappaltatori, degli obblighi tributari relativi al contratto stesso, sarà in molti casi sproporzionata, perché non limitata al corrispettivo del contratto (come previsto invece per la responsabilità solidale tra appaltatore e subappaltatore) e finirà per penalizzare soprattutto le imprese di più piccole dimensioni.
In altri casi accadrà che l'appaltatore e il subappaltatore, che non hanno ancora ricevuto il pagamento dal proprio committente di fatture già emesse per lo stesso contratto, non riusciranno più a riceverlo, se proprio a causa di quel mancato pagamento non sono stati in grado di versare la relativa Iva. Insomma, un cane che si morde la coda.
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Il committente vigila sui fornitori.
Scatta la vigilanza del committente nei confronti dell'appaltatore per i debiti fiscali. In pratica, i soggetti appaltanti, per evitare la responsabilità solidale, dovranno accertare il corretto pagamento dei debiti erariali da parte dei loro fornitori (appaltatori). In caso contrario il committente potrà esimersi dal regolare finanziariamente le prestazioni ottenute anche in presenza dio un regolare contratto.
È quanto prevede il decreto crescita (dl 83/2012, convertito nella l. 12.08.2012, n. 134). Ma quali sono i contratti che rientrano in tale disciplina? Ecco una panoramica.
La responsabilità solidale. Si applica ai soli contratti «di appalto» (ivi inclusi i contratti di «subappalto») ex art. 1655 e segg. c.c. (secondo cui «L'appalto è il contratto con il quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o un servizio verso un corrispettivo in denaro»).
Rimangono escluse dall'ambito della responsabilità solidale fattispecie quali:
- il contratto d'opera (anche detto «di prestazione d'opera»), manuale o intellettuale;
- il contratto di vendita (cd. «di fornitura»).
Il contratto d'opera manuale si verifica quando «una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente» (art. 2222 c.c.). L'elemento peculiare risulta essere l'organizzazione di impresa:
- nell'appalto è necessaria un'organizzazione complessa per realizzare l'opera o prestare il servizio;
- nella prestazione d'opera prevale il lavoro dell'imprenditore e dei propri familiari.
Le imprese artigianali. La prestazione d'opera è il caso, in generale, delle prestazioni offerte dagli artigiani, per i quali la prevalenza del proprio apporto costituisce una condizione per essere iscritti al relativo Albo.
Va considerato l'apporto dell'imprenditore in termini complessivi (si pensi alla possibilità di avere imprese artigiane piuttosto strutturate, con un numero significativo di dipendenti, ex L. 443/1985, dove il prodotto viene totalmente lavorato dai dipendenti), essendo possibile che esso sia limitato anche alla sola supervisione o al controllo dell'attività dell'azienda. In entrambi i casi si tratta di una obbligazione «di risultato» (senza la quale non spetta alcun corrispettivo) e il contenuto della prestazione viene sostanzialmente personalizzato sulle richieste del cliente.
Distinzione tra appalto di fornitura. In generale la giurisprudenza procede alla seguente distinzione:
1) analisi oggettiva (Cass. sent. 3517 del 28/10/1958). Ossia, va anzitutto verificato se la materia costituisca solo un «mezzo» per produrre l'opera (vero oggetto del contratto) o meno. Quindi, se si verifica:
a) la prevalenza del «dare» sul «fare», si è in presenza:
- di un contratto di fornitura (in particolare, di «vendita di bene futuro», ex art. 1472 e segg. cc);
- eventualmente periodica (cioè un contratto di somministrazione di beni ex art. 1559 e segg. cc)
b) la prevalenza del «fare» sul «dare», si è in presenza di un contratto:
- di appalto (con fornitura di materiali, ex art. 1658 cc: se è necessaria una organizzazione di impresa» complessa si applica la responsabilità solidale;
- di «prestazione d'opera»: se è prevalente l'apporto personale del prestatore non si applica la responsabilità solidale.
2) appuramento della prevalenza. In tal caso, in ordine di importanza va valutato quanto segue:
a) Cass. sent. 1114 del 17/04/1970 (analisi «soggettiva»): a.1) deve desumersi dalle clausole contrattuali se la volontà delle parti ha voluto dare maggior rilievo al trasferimento del bene o al processo produttivo»; a.2) e ciò indipendentemente dalla denominazione utilizzata nel contratto (cd. «nomen juris»), in applicazione del principio della prevalenza della sostanza sulla forma.
Per esempio, un idraulico, nel predisporre il contratto: a) lo intitola quale «appalto», o ne cita gli articoli di legge (artt. 1655 e segg.): difficilmente potrà sostenere che si tratti di cessione; lo intitola quale «fornitura» (e magari cita gli artt. 1470 e segg. cc): non si potrà porre in dubbio che si tratti di «vendita» di beni. Tratto discriminante risulta essere in generale la responsabilità per vizi dell'opera (palesi o occulti) cui si intende assoggettare il prestatore nell'appalto (più onerosa) rispetto alle clausole riferite alla vendita.
b) Cass. sent. 507 del 17/02/1958:
b.1) se il prestatore si obbliga a personalizzare il prodotto sulle specifiche del committente (e cioè laddove il committente si rivolga a una specifica controparte in considerazione della sua abilità nella produzione di beni specifici); b.2) si è in presenza di una obbligazione «di fare» (e non «di dare»), es.: costruttore richiede ad un produttore di infissi, per esigenze di progetto, la fornitura di particolari finestre dalla forma triangolare: appalto (prodotto «personalizzato») (articolo ItaliaOggi Sette del 12.11.2012).

APPALTI: LEGGE DI STABILITÀ/ L'obiettivo è far cassa aumentando il costo del contributo unificato. Gare, il contenzioso è un salasso. Ricorrere al giudice amministrativo diventa antieconomico.
Nuovo salasso per le cause sugli appalti. La giustizia tartassa il contenzioso amministrativo in generale, ma la mano pesante si fa sentire soprattutto nel contenzioso sulle procedure di gara pubblica.
Il disegno di legge stabilità per il 2013, attualmente all'esame della camera, fa leva sul contributo unificato per fare cassa e attacca i processi che si svolgono davanti ai tribunali amministrativi regionali e al consiglio di stato. L'effetto immediato sarà di rendere antieconomico il ricorso al giudice amministrativo con possibile incremento del flusso di denunce alla magistratura penale (per la denuncia non si deve versare il balzello in questione).
Le disposizioni in discussione contengono anche una possibile beffa quando l'impresa ha ragione, propone ricorso e la stazione appaltante ritira l'atto: l'impresa sarà multata con una sanzione pari al contributo unificato. Come dire «hai sostanzialmente vinto, ma devi pagare lo stesso il disturbo arrecato alla giustizia».
Ecco tutte le novità in itinere.
Contributo salato. Viene innalzato il contributo unificato e i relativi incassi saranno destinati al miglioramento dei servizi inerenti alla giustizia.
In particolare viene elevato l'importo del contributo unificato per le controversie di competenza del giudice amministrativo.
Così si eleva da 1.500 a 1.800 euro il contributo unificato dovuto per le controversie cui si applica il rito abbreviato disciplinato dal Codice del processo amministrativo (articolo 119). Si sostituisce ai 4 mila euro, attualmente previsti per tutte le controversie in tema di affidamento di pubblici lavori e di provvedimenti adottati dalle autorità amministrative indipendenti, una disciplina del contributo unificato diversificata in ragione del valore della controversia (portando il contributo dal valore minimo di 2 mila euro a quello massimo di 6 mila euro).
Si eleva da 600 a 650 euro il contributo unificato dovuto per i restanti tipi di ricorsi amministrativi e anche per il ricorso straordinario al presidente della repubblica.
Appello. Il contributo unificato nel processo amministrativo (disciplinato dall'articolo 13, comma 6-bis, del T.u. delle spese di giustizia) è aumentato sempre della metà per i giudizi di impugnazione.
Gli effetti. Un processo sugli appalti, considerato anche il fatto che le imprese pur di aggiudicarsi la commessa praticano forti ribassi, rischia di diventare antieconomico, soprattutto per la fascia media delle gare di importo da 200 mila euro a un milione.
La percentuale di utile di impresa rischia, infatti, di essere completamente decurtata dalle spese vive di giustizia e in particolare dal contributo unificato.
Basti pensare all'ipotesi in cui occorra proporre il ricorso in primo e in secondo grado per arrivare a cifre notevoli. Nella fascia fino a un milione di euro, primo e secondo grado fruttano allo stato 10 mila euro e nella fascia superiore si arriva a 15 mila euro. Senza contare la parcella dell'avvocato.
Se poi occorresse presentare motivi aggiunti di ricorso (una sorta di ricorso bis su atti non conosciuti prima) si è assoggettati a un prelievo raddoppiato e le cifre già alte diventano astronomiche.
Da qui la possibilità che l'impresa, tagliata fuori da una gara di appalto oppure non risultata vincitrice e che intenda far valere i propri diritti, se non vuole sobbarcarsi le spese di giustizia, avrà come unica alternativa quella della giustizia penale, che rischia di espandersi, magari non sempre a proposito: l'illegittimità di un atto non significa che necessariamente sia stato commesso un reato.
Un altro ripiego, nell'ottica di risparmiare sull'esercizio del diritto di difesa, ma non veloce come un ricorso al Tar con la corsia preferenziale, sarebbe il ricorso al capo dello stato (costa appena 650 euro).
E gli effetti collaterali riguardano anche l'attività dell'avvocato. Il legale deve fare presente tutti i possibili costi del contenzioso e deve mettere in evidenza gli oneri lievitati del contributo unificato. Altro riflesso concerne la necessità di mettere in capo gli istituti previsti dall'ordinamento che possano avere l'effetto di risolvere la controversia senza ricorrere alla magistratura. In materia di appalti questa strada può essere battuta, ad esempio, con l'informativa preventiva sull'intenzione di proporre un ricorso giurisdizionale (articolo 243-bis del codice dei contratti pubblici): si espongono direttamente alla stazione appaltante i motivi di ricorso e la p.a. ha l'obbligo di rispondere.
Peraltro anche in sede di esecuzione la legge prevede forme di conciliazione e accordo bonario che, bilanciando maggiori costi e benefici, potranno risultare maggiormente appetibili (articolo ItaliaOggi Sette del 12.11.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Decreto enti locali. Alla Camera cade la nomina da parte del prefetto per i controllori dei conti nelle città.
Più tutele ai ragionieri-capo. Per la revoca ci vorrà il parere dei revisori e non quello dei ministeri.

Obbligo di acquisire il parere dei revisori dei conti –in luogo di quelli del ministero dell'Interno e della Ragioneria generale dello Stato previsti dal testo iniziale– prima di revocare i responsabili del settore finanziario. Innalzamento a 15mila –al posto di 10mila– della soglia minima di abitanti a partire dalla quale i Comuni devono attivare i controlli strategico, di qualità e sulle società e sottoporsi alla verifica della Corte dei conti. Modifica dei compiti di controllo attribuiti alla magistratura contabile rispetto alle Regioni e agli enti locali. E poi introduzione della relazione di inizio mandato per gli enti locali e soppressione della nomina da parte del prefetto del presidente del collegio dei revisori nei grandi enti locali.
Sono queste le principali novità in materia di controlli interni approvate dalla Camera durante l'esame del decreto 174/2012 sugli enti locali per la conversione in legge: dopo la fiducia votata l'8 novembre e il via libera atteso per domani, il testo deve passare al Senato.
Inoltre, i deputati hanno deciso di limitare ai Comuni con popolazione superiore a 15mila abitanti (anziché 10mila) l'obbligo di dare pubblicità alla condizione patrimoniale degli eletti, di modificare l'intervento dello Stato in aiuto dei Comuni in difficoltà e di abrogare la proroga del termine per il versamento da parte dei Comuni al Viminale di una quota dei diritti di segreteria. Ma vediamo le novità nel dettaglio.
Intanto, entro tre mesi dall'insediamento i sindaci devono redigere una relazione di inizio mandato, predisposta dal segretario o dal dirigente del settore finanziario, in cui accertare la condizione patrimoniale ed economica e l'indebitamento.
La revoca dei dirigenti del servizio finanziario può essere disposta dai sindaci per gravi irregolarità ed è necessario il parere dei revisori dei conti. Questo parere prende il posto di quello previsto dal testo iniziale del decreto, a carico del ministero dell'Economia e della Ragioneria generale dello Stato. Si vuole così rafforzare l'indipendenza dei "ragionieri capo", tanto più marcata perché i revisori saranno scelti per sorteggio, ed evitare gli assai discutibili interventi di soggetti esterni all'ente. Non dovranno, inoltre, tenere conto degli indirizzi della Ragioneria dello Stato: il possibile filo diretto è così spezzato sul nascere.
Inoltre, l'obbligo di attivare il controllo strategico e quelli sulle società controllate e sulla qualità dei servizi è dettato per i Comuni con popolazione superiore a 15mila abitanti e non più, come nella previsione iniziale, per i municipi con oltre 10mila abitanti. Si prevede inoltre che il controllo strategico, come quello di regolarità amministrativa e contabile, sia svolto da un ufficio alle dipendenze del segretario. Dai controlli sulle società vengono escluse quelle quotate in borsa.
Poi, il controllo semestrale della Corte dei conti viene limitato ai Comuni con più di 15mila abitanti. Esso viene esteso all'equilibrio di bilancio. Viene eliminata la possibilità per la magistratura contabile di avvalersi della Guardia di finanza, mentre la Ragioneria generale dello Stato, anche su input della Corte dei conti, può disporre controlli sugli enti locali che ricorrono alle anticipazioni di cassa, che hanno uno squilibrio di bilancio, che presentano anomalie nella gestione dei servizi in conto terzi o hanno aumentato la spesa per gli organi istituzionali.
La Corte dei conti deve anche verificare i bilanci per il rispetto del patto di stabilità, dell'indebitamento e della gestione finanziaria, comprese le partecipazioni superiori al 90 per cento.
Si prevede poi che le unioni dei Comuni debbano avere tre revisori, che svolgono tale attività anche per i Comuni aderenti, con automatica decadenza di quelli in carica. Viene soppressa la previsione per cui il presidente del collegio dei revisori dei conti nei grandi Comuni, nelle Province e nelle Città metropolitane avrebbe dovuto essere designato dal prefetto.
Infine, le sezioni decentrate di controllo della magistratura contabile devono esaminare i bilanci preventivi e consuntivi delle Regioni, degli enti del servizio sanitario e delle società controllate che gestiscono servizi pubblici e a trasmettere con cadenza semestrale un referto ai consigli regionali, con l'obbligo della Regione di adottare i provvedimenti richiesti. Il presidente della Regione trasmette alla Corte dei conti e al consiglio regionale una relazione annuale sulla gestione. Vengono rafforzati i vincoli connessi alla relazione di fine legislatura delle Regioni e degli enti locali.
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Nuova soglia 15mila
La popolazione
● Durante l'esame alla Camera del decreto legge 174/2012 sugli enti locali è stata innalzata a 15mila abitanti –rispetto ai 10mila del testo originario– la soglia per l'applicazione ai Comuni dell'obbligo di attivare il controllo strategico sullo stato di attuazione dei programmi rispetto alle direttive impartite dal Consiglio, sulle società controllate e sulla qualità dei servizi erogati
● Limitato ai Comuni con più di 15mila abitanti (anziché 10mila) anche il controllo semestrale della Corte dei conti
● Circoscritto ai Comuni con più di 15mila abitanti anche l'obbligo di dare pubblicità alla condizione patrimoniale degli eletti (articolo Il Sole 24 Ore del 12.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: Contabilità. Pesa l'obbligo di unificare le attività. Incognita funzioni sui bilanci degli enti fino a 5mila abitanti.
Sono diverse le incognite che i piccoli Comuni sotto i 5mila abitanti dovranno a breve affrontare nel predisporre i progetti di bilancio per il 2013 .
Accanto alla problematica Tares (comune anche agli enti più grandi), amministratori e funzionari dovranno vedersela con il patto di stabilità (Comuni sopra i 1.000 abitanti) ma soprattutto con le interrelazioni di carattere contabile conseguenti alle gestioni associate.
In particolare, il bilancio 2013 dovrà tener conto degli oneri stabiliti dalle varie convenzioni o dall'adesione alle unioni cui ciascun ente locale dovrà partecipare per adempiere agli obblighi di gestione associata.
La costruzione del bilancio sarà particolarmente difficoltosa atteso che l'attuale schema per titoli, funzioni e servizi non coincide con le nove funzioni fondamentali previste in materia di gestione associata dalla legge 135/2012. Gli uffici saranno chiamati ad operazioni di riclassificazione fondate non su criteri certi ma, spesso, su criteri soggettivi o di analogia. È stato anche proposto di utilizzare come punto di riferimento l'articolazione del bilancio armonizzato come previsto dal Dpcm 28.12.2011 che struttura il bilancio in missioni e programmi, ma questo criterio potrà avere carattere sussidiario in quanto anche le missioni non coincidono esattamente con le funzioni.
Appare comunque chiaro che se per talune funzioni (polizia locale, protezione civile, catasto, edilizia scolastica, servizi scolastici e sociali) non esistono particolari problemi per individuare le spese relative a ciascuna funzione associata o da associare dato che di fatto le funzioni da associare coincidono o con quelle attuali di bilancio o con i servizi indicati nel bilancio, alcune problematiche si avranno per altre funzioni associate quali:
8 organizzazione dell'amministrazione, gestione finanziaria, contabile e controllo;
8 organizzazione dei servizi pubblici, compreso il trasporto;
8 servizi di raccolta, avvio, smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la riscossione dei relativi tributi.
Queste funzioni associate comprendono servizi oggi allocati anche su funzioni di bilancio diverse. Tra l'altro si tratta talvolta di compiti, come l'organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale il cui ambito non è al momento chiaro, discutendosi del fatto se comprenda o meno tutti i servizi pubblici indipendentemente dalla rilevanza economica.
In conclusione e in attesa di criteri normativi specifici, gli uffici comunali, e in particolare quelli finanziari, dovranno operare secondo criteri di analogia, riferita sia alla struttura di bilancio prevista dal Dpr 194/1996 che del modello armonizzato (Dpcm 28.12.2011) per affrontare la problematica della riconduzione, della allocazione e della ripartizione delle spese inerenti i servizi comunali in essere, ai fini della gestione contabile della gestione associata, alle nove funzioni fondamentali oggetto di gestione associata.
Appare molto opportuno in sede di convenzionamento (o di trasferimento di funzioni alle unioni), specificare quali servizi comunali devono, anche ai fini contabili, collegarsi alla specifica funzione oggetto di trasferimento e di gestione associata per consentire agli uffici di ripartire in modo ottimale le partite contabili soprattutto in relazione a quei servizi che possono allocarsi in funzioni diverse (articolo Il Sole 24 Ore del 12.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI: Mina fiscale sulle unioni: le entrate non sono esenti. «Dimenticata» l'agevolazione per le gestioni associate.
La gestione di servizi attraverso l'unione di Comuni o le convenzioni, obbligatoria dal prossimo primo gennaio per gli enti con meno di 5mila abitanti, ha delle importanti conseguenze sul piano fiscale.
In particolare, in relazione alle entrate a carattere commerciale, rilevanti ai fini Iva, quali, ad esempio, la gestione di acquedotti, fiere, mostre, comunità per anziani, asili nido, assistenza domiciliare, corsi sportivi, affitto impianti, refezione scolastica, trasporto alunni. Queste entrate, infatti, attualmente non sono soggette alle imposte sui redditi in virtù dell'esclusione soggettiva prevista dall'articolo 74 del Dpr 917/1986 (il testo unico delle imposte sui redditi) per i Comuni, i consorzi tra enti locali, le comunità montane, le Province e le Regioni.
L'articolo 74 non prevede però la fattispecie delle unioni tra Comuni.
Né è possibile applicare per analogia questa esclusione, in quanto il legislatore, «quando ha inteso estendere un'agevolazione fiscale a tutti gli enti territoriali lo ha espressamente affermato» (risoluzione Entrate 149/2005).
Anche la Corte di Cassazione si è pronunciata a riguardo. Ad esempio nella sentenza n. 9760/1997 si legge :«Le ipotesi di esenzione tributaria previste dalla legge rivestono carattere eccezionale... e quindi non consentono applicazione a fattispecie diverse da quelle che debbano ritenersi in esse considerate alla stregua di una rigorosa interpretazione».
Nella risoluzione n. 386/2007, poi, la stessa amministrazione finanziaria ha trattato un caso in cui una Provincia chiedeva la riconducibilità alle fattispecie previste dall'articolo 74 del Tuir di nuovi enti chiamati "Comunità" e definiti dalla stessa legge provinciale quali enti pubblici costituiti «dai Comuni appartenenti al medesimo territorio per l'esercizio di funzioni, compiti, attività e servizi nonché, in forma associata obbligatoria, delle funzioni amministrative trasferite ai Comuni».
Nella risposta le Entrate hanno ribadito che la formulazione del Testo unico sulle imposte elencando tassativamente gli enti non soggetti all'imposizione sui redditi, impedisce ogni interpretazione estensiva di tale disposizione, escludendo la riconducibilità nell'ambito applicativo della stessa di enti diversi da quelli citati in modo esplicito.
In questo modo, però, l'unione di Comuni subirebbe una sottrazione di risorse a causa delle imposte sui redditi dovute, con un conseguente aumento delle tariffe, e un incremento di costi dal punto di vista organizzativo a causa della gestione dei nuovi adempimenti fiscali, fattori che potrebbero vanificare i risparmi conseguenti alla gestione associata.
Appare allora necessaria una precisa riflessione a riguardo, che potrebbe condurre a valutare l'eventuale intervento del legislatore per integrazioni o innovazioni delle figure soggettive esistenti riconducibili all'articolo 74 del Tuir.
Questa esigenza peraltro era già emersa nel parere reso dalla Sezione Terza del Consiglio di Stato n. 224/1989, in relazione ad un quesito formulato proprio dall'amministrazione finanziaria sui soggetti destinatari della stessa norma del Tuir (articolo Il Sole 24 Ore del 12.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPubblica amministrazione. Lo stop della nuova selezione non fa scattare lo scorrimento della vecchia graduatoria.
Bando annullato, parola al Tar. Nessun diritto all'assunzione con giurisdizione del tribunale ordinario.

L'annullamento del nuovo bando di concorso non fa scattare lo "scorrimento" della vecchia graduatoria e, con questa, il diritto dei "meglio classificati" all'assunzione nella Pubblica amministrazione. Su queste controversie, pertanto, la competenza è del giudice amministrativo e non del tribunale ordinario perché non esiste un diritto all'assunzione "a prescindere" quando un bando viene annullato.
Le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione (sentenza 12.11.2012 n. 19595) tornano –a distanza di quattro anni dall'ultima decisione sul tema– a fissare le regole per le assunzioni di personale attraverso concorsi "reatroattivi".
Il caso scaturiva da un dipendente dell'agenzia delle Entrate che, nel 2008 e dopo l'annullamento di un nuovo bando di concorso, aveva chiesto al tribunale di Torino la declaratoria del proprio diritto allo scorrimento di una graduatoria formata con un decreto direttoriale di sette anni prima. Accanto alla "sanatoria", il dipendente chiedeva pure le differenze retributive rispetto alla posizione così raggiunta e il risarcimento del danno per la mancata crescita professionale.
Le Sezioni unite, però, hanno ribadito la decisione dei due gradi di merito, che avevano prima dichiarato la nullità del ricorso e, in appello, il difetto della giurisdizione ordinaria a favore di quella del Tar. Il problema, secondo la Corte, è che il diritto all'assunzione nel pubblico impiego «sorge soltanto in seguito al perfezionamento di una fattispecie complessa costituita dalla perdurante efficacia di una graduatoria e dalla decisione di avvalersene manifestata dalla Pa per la copertura dei posti vacanti».
Quindi, anche a fronte dell'annullamento tamquam non esset del nuovo bando, perché si crei un diritto all'assunzione dei meglio classificati è necessario che l'amministrazione abbia dichiarato in qualche momento di volersi avvalere della graduatoria già formata, sempre che una tale previsione non fosse già contenuta in origine e per il riempimento di tutte le posizioni messe a concorso. Inoltre, sottolinea la Cassazione, i posti non devono essere solo vacanti, ma anche disponibili, qualità che viene concessa solo sulla base di «un'apposita determinazione». Tutte queste condizioni sono equiparabili «all'espletamento di tutte le fasi di una procedura concorsuale, con l'identificazione degli ulteriori vincitori».
Lo spartiacque della giurisidizione (ordinaria/Tar) sta quindi sul crinale dell'iter amministrativo: se questo è stato completato, scatta un vero e proprio diritto allo scorrimento della graduatoria (e cioè all'assunzione), mentre non è sufficiente in sé l'annullamento del nuovo bando a determinare la competenza del tribunale ordinario, perché in quel caso si è ancora in un ambito di interessi legittimi, e non di diritti soggettivi.
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Le indicazioni
01 | IL CASO
Un dipendente delle Entrate di Torino, dopo l'annullamento di un nuovo bando, chiedeva di utilizzare la graduatoria dell'ultimo concorso dirigenziale
02 | ITER COMPLESSO
Per le Sezioni unite però si può procedere allo "scorrimento" solo se la Pa aveva deciso di avvalersene già all'origine (articolo Il Sole 24 Ore del 13.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 33, comma 1, l. n. 47/1985 esclude la condonabilità degli interventi edificatori realizzati in aree nelle quali siano consentite solo opere di risanamento conservativo.
Ritenuto che le sentenze appellate sfuggono alle censure articolate in sede d’appello alla stregua delle seguenti considerazioni:
- il diniego di sanatoria costituisce la doverosa applicazione della disciplina dettata dall’art. 14 delle norme tecniche d’attuazione del P.R.G. che, per le aree comprese nel centro storico (zona A), consente solo interventi di restauro scientifico o risanamento conservativo finalizzati alla conservazione e alla salvaguardia di quegli elementi che concorrono a qualificare il contesto ambientale, vietando ogni costruzione, anche di carattere provvisorio;
- viene quindi in rilievo un vincolo urbanistico di assoluta inedificabilità che, ai sensi dell’art. 33, comma 1, lett. a), della legge 28.02.1985, n. 47, impedisce la sanatoria dell’opera abusiva in esame, concretatasi nella sostanziale sopraelevazione dell’edificio e nella costruzione di un nuovo vano;
- risulta pertinente al caso di specie il condivisibile insegnamento giurisprudenziale (Cons. Stato sez. V, 25.09.1995, n. 1346) secondo cui l’art. 33, comma 1, l. n. 47/1985 citato, richiamato dal provvedimento impugnato e applicabile anche ai vincoli imposti in sede di pianificazione urbanistica, esclude la condonabilità degli interventi edificatori realizzati in aree nelle quali siano consentite solo opere di risanamento conservativo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.11.2012 n. 5707 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’opera contestata integra un intervento di nuova costruzione, realizzato in assenza di permesso di costruire, per cui l’ingiunzione di demolizione censurata è non solo legittima, ma anche dovuta, esplicazione di attività vincolata.
A fronte del carattere vincolato dell’attività sottesa all’adozione del provvedimento gravato, la dedotta omessa comunicazione di avvio del procedimento non ne determina l’annullamento, secondo quanto previsto dall’art. 21-octies della legge n. 241/1990 e s.m.i..

... per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, del provvedimento n. 132, emesso dal Comune di Valmontone (RM) - Ufficio Tecnico Comunale in data 12.07.2012, recante ingiunzione di demolizione di opere abusive, con comminatoria acquisizione al patrimonio del Comune;
...
- Rilevato che con il presente gravame si impugna l’ordinanza, emessa ai sensi dell’art. 15 della legge regionale n. 15/2008, recante ingiunzione di demolizione di una struttura in legno e ferro avente la superficie di 37,7 mq, realizzata su piattaforma di cemento ed adibita a legnaia, e di un portico di 25,74 mq;
- Considerato:
--- che l’opera contestata integra un intervento di nuova costruzione, realizzato in assenza di permesso di costruire, per cui l’ingiunzione di demolizione censurata è non solo legittima, ma anche dovuta, esplicazione di attività vincolata;
--- che è evidente l’estraneità di detta struttura rispetto ad ambedue le domande di condono edilizio invocate dalla parte ricorrente, atteso che l’istanza presentata ai sensi della legge n. 47/1985 concerne un manufatto avente la superficie utile abitabile di 30 mq, mentre quello ai sensi della legge n. 724/1994 riguarda un manufatto adibito ad abitazione di 98,87 mq;
--- che, a fronte del carattere vincolato dell’attività sottesa all’adozione del provvedimento gravato, la dedotta omessa comunicazione di avvio del procedimento non ne determina l’annullamento, secondo quanto previsto dall’art. 21-octies della legge n. 241/1990 e s.m.i. (TAR Lazio, Roma, Sez. I-quater, sentenza 09.11.2012 n. 9224 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In assenza dei presupposti per l'applicazione di una misura di salvaguardia, un provvedimento di sospensione della valutazione dell'istanza del privato costituisce atto atipico e, pertanto, illegittimo.
Peraltro la sospensione della procedura stabilita con la nota gravata, in attesa di un futuro piano di localizzazione degli impianti di telefonia mobile, finisce per risolversi in un illegittimo arresto sine die del procedimento, in contrasto con le esigenze di speditezza proprie di tale settore che trovano testuale riscontro nell'art. 87 del D.lgs. n. 259/2003.
Né sussiste un potere dell'Amministrazione comunale di adottare una misura del tipo di quella contenuta nel provvedimento impugnato, suscettibile di sospendere la proposta attività per una durata temporale assolutamente indefinita: in proposito, deve osservarsi che nessuna norma di legge attribuisce all'ente comunale il potere di emettere una pronunzia soprassessoria sine die, peraltro contraria ad ogni canone di certezza giuridica e alle esigenze di celerità riferibili alle infrastrutture di telefonia mobile.
Né, infine, l'assenza di una regolamentazione ad hoc a livello comunale della materia specifica potrebbe frapporsi al rilascio dell'autorizzazione. Invero, come affermato dalla costante giurisprudenza condivisa dal Collegio, “l’assenza di una disciplina specifica, volta a individuare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti di cui trattasi ed a minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici ..." non preclude di per sé l’assentibilità dell’istanza.

... per l'annullamento del provvedimento prot. n. 0011866 U/2012 del 23.07.2012, notificato il 27.07.2012, con cui l’istanza presentata dalla società ricorrente per l’installazione di un impianto di telefonia mobile è stata sospesa in attesa dell’approvazione del regolamento comunale regolante la specifica materia e, per l’effetto, è stata inibita l’esecuzione dei lavori.
...
Oggetto del presente giudizio è l'atto con il quale l’Amministrazione comunale ha dichiarato improcedibile la D.I.A., presentata ai sensi dell’art. 87 del D.lgs. n. 259/2003, in attesa dell’adozione del Regolamento comunale disciplinante la specifica materia.
Premesso che la previsione della futura adozione di un Regolamento disciplinante la specifica materia da parte del Regolamento edilizio comunale, non rende quest’ultimo atto presupposto del provvedimento impugnato, trattandosi di disposizione a carattere generale, priva di una propria forza vincolante sulla declaratoria di improcedibilità della D.I.A., il Collegio ritiene fondato il motivo con il quale la società ricorrente denuncia l'illegittimità della sospensione sine die dell'esame dell’istanza presentata.
E, infatti, in assenza dei presupposti per l'applicazione di una misura di salvaguardia, un provvedimento di sospensione della valutazione dell'istanza del privato costituisce atto atipico e, pertanto, illegittimo (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 14.04.2011, n. 520). Peraltro la sospensione della procedura stabilita con la nota gravata, in attesa di un futuro piano di localizzazione degli impianti di telefonia mobile, finisce per risolversi in un illegittimo arresto sine die del procedimento, in contrasto con le esigenze di speditezza proprie di tale settore che trovano testuale riscontro nell'art. 87 del D.lgs. n. 259/2003 (cfr. in termini TAR Campania, Napoli VII, 29.05.2006, n. 6199; TAR Abruzzo,15.06.2006, n. 420; TAR Puglia, Lecce, 03.11.2006, n. 5142).
Né sussiste un potere dell'Amministrazione comunale di adottare una misura del tipo di quella contenuta nel provvedimento impugnato, suscettibile di sospendere la proposta attività per una durata temporale assolutamente indefinita: in proposito, deve osservarsi che nessuna norma di legge attribuisce all'ente comunale il potere di emettere una pronunzia soprassessoria sine die, peraltro contraria ad ogni canone di certezza giuridica e alle esigenze di celerità riferibili alle infrastrutture di telefonia mobile.
Né, infine, l'assenza di una regolamentazione ad hoc a livello comunale della materia specifica potrebbe frapporsi al rilascio dell'autorizzazione. Invero, come affermato dalla costante giurisprudenza condivisa dal Collegio, “l’assenza di una disciplina specifica, volta a individuare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti di cui trattasi ed a minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici ..." non preclude di per sé l’assentibilità dell’istanza (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 21.04.2008, n. 1767) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 09.11.2012 n. 4561 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa comunicazione ex art. 7 l. n. 241/1990 deve ritenersi non dovuta nei procedimenti che iniziano ad istanza di parte, poiché l'interessato è già a conoscenza dell'avvio del procedimento, avendolo egli stesso provocato.
Per un costante orientamento giurisprudenziale, già esistente all’atto di proposizione del ricorso, la comunicazione ex art. 7 l. n. 241/1990 deve ritenersi non dovuta nei procedimenti che iniziano ad istanza di parte, poiché l'interessato è già a conoscenza dell'avvio del procedimento, avendolo egli stesso provocato (per tutti si veda TAR Friuli-Venezia Giulia, 03.02.1996, n. 64)
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 08.11.2012 n. 1363 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANell'ipotesi in cui nella motivazione del diniego di concessione in sanatoria manchi il riferimento alla norma specifica ed allo strumento urbanistico di imposizione del vincolo, detta motivazione è legittima, ed assolve senz'altro la propria funzione, quando riporti concretamente le ragioni del diniego e richiami il parere contrario della Usl interessata.
In realtà l’esame del provvedimento impugnato dimostra come l’Amministrazione abbia espressamente evidenziato le ragioni alla base del diniego, rilevando come l’art. 16 della variante n. 33 sancisca espressamente il divieto di realizzazione nuove destinazioni d’uso –non abitative- che non siano collocate al “primo piano” degli edifici.
Un orientamento Giurisprudenziale affermatosi al tempo in cui veniva emanato il provvedimento impugnato aveva sancito inoltre che….”nell'ipotesi in cui nella motivazione del diniego di concessione in sanatoria manchi il riferimento alla norma specifica ed allo strumento urbanistico di imposizione del vincolo, detta motivazione è legittima, ed assolve senz'altro la propria funzione, quando riporti concretamente le ragioni del diniego e richiami il parere contrario della Usl interessata" (TAR Lombardia, Milano Sez. II, 06.10.1993, n. 551)
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 08.11.2012 n. 1363 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di un soppalco deve essere considerata rientrante nel novero degli interventi di ristrutturazione edilizia, dal momento che determina una modifica della superficie utile dell'appartamento, con conseguente aggravio del carico urbanistico.
Deve ritenersi assoggettata al preventivo rilascio della concessione (oggi permesso di costruire) la realizzazione di un soppalco; laddove venga accertata l'esecuzione di opere in assenza della prescritta concessione edilizia, l'adozione dell'ordine di demolizione costituisce un atto dovuto; ciò in quanto, come nel caso di specie, il soppalco comporta un innegabile incremento della superficie calpestabile.

Per quanto concerne il diverso profilo dell’eccesso di potere, e con riferimento al presunto “travisamento dei fatti” in cui sarebbe incorsa l’Amministrazione, va evidenziato come la realizzazione di un soppalco determini “effettivamente” un aumento di superficie utile, in espresso contrasto con le disposizioni di cui alla variante n. 33 del Comune di Verona.
Si consideri ancora come il mutamento di destinazione d’uso sia stato posto in essere (così come risulta dagli accertamenti) mediante la realizzazione di opere edilizie, espressamente preordinate e funzionali allo stesso.
Sul punto va ricordato come, un’altrettanto risalente giurisprudenza, reiterata peraltro con recentissime pronunce (TAR Sardegna Cagliari Sez. II, 23.09.2011, n. 952, TAR Sicilia Catania Sez. I, 07-11-2002, n. 1939), ha sancito che la realizzazione di un soppalco deve essere considerata rientrante nel novero degli interventi di ristrutturazione edilizia, dal momento che determina una modifica della superficie utile dell'appartamento, con conseguente aggravio del carico urbanistico.
Si consideri ancora, che…."deve ritenersi assoggettata al preventivo rilascio della concessione (oggi permesso di costruire) la realizzazione di un soppalco; laddove venga accertata l'esecuzione di opere in assenza della prescritta concessione edilizia, l'adozione dell'ordine di demolizione costituisce un atto dovuto; ciò in quanto, come nel caso di specie, il soppalco comporta un innegabile incremento della superficie calpestabile" (TAR Campania Napoli Sez. IV Sent., 29-07-2008, n. 9518)
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 08.11.2012 n. 1363 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: I principi di par condicio, di favor partecipationis, di segretezza dell’offerta, di tassatività delle cause di esclusione, costituiscono regole generali non derogabili da parte delle scelte discrezionali della stazione appaltante.
La previsione di specifiche formalità di chiusura del plico (ceralacca timbratura e controfirma sui lembi di chiusura), eventualmente stabilite nel bando di gara, rispondono alla evidente finalità di preservare l’integrità della busta contenente l’offerta di gara, per cui ben può ritenersi che la “difformità” dei “sigilli e delle sigle” rispetto a quanto stabilito dalla lex specialis possa essere sanzionata con l'esclusione dalla gara, costituendo un chiaro presidio a salvaguardia del principio di segretezza dell'offerta.
Per altro verso, il richiamato principio del cd. favor alla massima partecipazione degli aspiranti ad una selezione pubblica deve, ad avviso del Collegio, ritenersi pienamente operante in presenza di clausole di esclusione contenute nella lex specialis che siano di incerta od ambigua interpretazione, al fine di non pregiudicare la partecipazione concorrenziale, non potendo invece incidere nei riguardi delle cause di esclusione dipendenti dalla mancanza di elementi essenziali dell'offerta o dalla incompletezza o irregolarità dell’offerta stessa, intesa nella sua interezza.

Al fine del decidere, occorre, in primo luogo, stabilire la compatibilità fra la succitata disposizione della lex specialis –a norma della quale “Il plico contenente l’offerta economica e la documentazione dovrà a pena di esclusione dalla gara:….. lett. b) essere idoneamente sigillato con cera lacca, timbrato e controfirmato sui lembi di chiusura…..”– e il principio espresso dall’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. 163/2006 (applicabile alle gare bandite successivamente al 14.05.2011, come previsto dall'art. 4, comma 3, del medesimo d.l. 70/2011 e dunque anche alla gara in questione) a tenore del quale: “la stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione. Dette prescrizioni sono comunque nulle”.
Deve infatti rammentarsi che, in applicazione del citato comma 1-bis, la Commissione di gara ha ritenuto, nel caso in esame, comunque garantita l’integrità del plico contenente l’offerta in presenza di una sigillatura con nastro adesivo del tipo Scotch 550, in luogo della prescritta sigillatura con cera lacca, prevista a pena d’esclusione, dalla anzidetta disposizione del disciplinare di gara.
A tale riguardo, sulla base della consolidata elaborazione normativa e giurisprudenziale, i principi di par condicio, di favor partecipationis, di segretezza dell’offerta, di tassatività delle cause di esclusione, costituiscono regole generali non derogabili da parte delle scelte discrezionali della stazione appaltante.
Ciò posto, con specifico riferimento al caso in esame, la lex specialis altro non può che costituire il complesso di regole comuni disciplinanti le singole fasi del procedimento di gara, alla cui corretta ed integrale applicazione la Stazione appaltante è tenuta, in ossequio al predetto principio di par condicio dei partecipanti alla gara, ad attenersi.
Unitamente a tale profilo, decisiva valenza assumono, altresì, in materia i principi, innanzi riferiti, di segretezza delle offerte -perseguibile mediante la previsione di idonee modalità di confezionamento dei plichi e di sigillatura e di sottoscrizione dei lembi di chiusura dei plichi medesimi, contenenti le offerte di gara- e del cosiddetto favor partecipazionis.
In particolare deve osservarsi che la previsione di specifiche formalità di chiusura del plico (ceralacca timbratura e controfirma sui lembi di chiusura), eventualmente stabilite nel bando di gara, rispondono alla evidente finalità di preservare l’integrità della busta contenente l’offerta di gara, per cui ben può ritenersi che la “difformità” dei “sigilli e delle sigle” rispetto a quanto stabilito dalla lex specialis possa essere sanzionata con l'esclusione dalla gara, costituendo un chiaro presidio a salvaguardia del principio di segretezza dell'offerta.
Per altro verso, il richiamato principio del cd. favor alla massima partecipazione degli aspiranti ad una selezione pubblica deve, ad avviso del Collegio, ritenersi pienamente operante in presenza di clausole di esclusione contenute nella lex specialis che siano di incerta od ambigua interpretazione, al fine di non pregiudicare la partecipazione concorrenziale, non potendo invece incidere nei riguardi delle cause di esclusione dipendenti dalla mancanza di elementi essenziali dell'offerta o dalla incompletezza o irregolarità dell’offerta stessa, intesa nella sua interezza (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 07.11.2012 n. 1354 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: L’obbligo di astensione dei consiglieri comunali per conflitto di interessi unisoggettivo (cioè facente capo al medesimo consigliere) o plurisoggettivo, trova fondamento nei principi costituzionali di legalità, imparzialità e trasparenza dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), essendo finalizzato ad assicurare e mostrare nei confronti di tutti gli amministrati la oggettività, efficacia ed efficienza delle scelte amministrative discrezionale; tale obbligo costituisce regola di carattere generale, che non ammette deroghe ed eccezioni e ricorre, quindi, ogni qualvolta sussiste una correlazione diretta ed immediata fra la posizione dell'amministratore e l'oggetto della deliberazione, pur quando la votazione non potrebbe avere altro apprezzabile esito e quand'anche la scelta fosse in concreto la più utile, la più vantaggiosa e la più opportuna per lo stesso interesse pubblico.
Il dovere di astensione degli amministratori locali vale dunque a preservare anzitutto la credibilità e la fiducia nell’amministrazione, scattando, perciò, a fronte di situazioni di mero pericolo e verificandosi in tutti i casi in cui sussistano condizioni che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione da assumere, appaiano anche potenzialmente idonee a porre in pericolo l'assoluta imparzialità e la serenità di giudizio dei titolari dell'ente stesso.

Vale ricordare, al riguardo, che l’obbligo di astensione dei consiglieri comunali per conflitto di interessi unisoggettivo (cioè facente capo al medesimo consigliere) o plurisoggettivo, trova fondamento nei principi costituzionali di legalità, imparzialità e trasparenza dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), essendo finalizzato ad assicurare e mostrare nei confronti di tutti gli amministrati la oggettività, efficacia ed efficienza delle scelte amministrative discrezionale (C.d.S., sez. IV, 23.02.2001, n. 1038; 23.09.1996, n. 1035; 20.09.1993, n. 794); tale obbligo costituisce regola di carattere generale, che non ammette deroghe ed eccezioni e ricorre, quindi, ogni qualvolta sussiste una correlazione diretta ed immediata fra la posizione dell'amministratore e l'oggetto della deliberazione, pur quando la votazione non potrebbe avere altro apprezzabile esito e quand'anche la scelta fosse in concreto la più utile, la più vantaggiosa e la più opportuna per lo stesso interesse pubblico (C.d.S., sez. V, 17.11.2009, n. 7151; sez. IV, 12.12.2000, n. 6596; 22.02.1994, n. 162).
Il dovere di astensione degli amministratori locali vale dunque a preservare anzitutto la credibilità e la fiducia nell’amministrazione, scattando, perciò, a fronte di situazioni di mero pericolo e verificandosi in tutti i casi in cui sussistano condizioni che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione da assumere, appaiano anche potenzialmente idonee a porre in pericolo l'assoluta imparzialità e la serenità di giudizio dei titolari dell'ente stesso (Consiglio Stato, sez. V, n. 7151/2009 cit.; id., 23.02.2001, n. 1038) (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 07.11.2012 n. 326 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La confisca negli appalti colpisce solo la parte dei lavori già eseguiti.
Negli appalti ottenuti in maniera illecita la confisca per equivalente non può colpire tutto il profitto ottenuto dall'impresa ma solo la quota parte riferita al netto del valore dei lavori già eseguiti.
E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 05.11.2012 n. 42530.
Il caso e la difesa dell’imprenditore
Il caso esposto in Cassazione è la conseguenza del fatto che il Tribunale di una provincia Toscana aveva rigettato l’istanza di riesame proposta da un imprenditore contro un decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente emesso dal GIP dello stesso Tribunale , nell’ambito di un procedimento che ha come oggetto episodi di corruzione, concussione e turbata libertà degli incanti, con riferimento agli appalti di aggiudicazione di gare indette da alcuni Comuni toscani e da un Consorzio di bonifica della zona.
La difesa dell’imprenditore aveva chiesto l’annullamento dell’ordinanza del Riesame, per violazione dell’art. 322-ter c.p., avendo il giudice di merito fornito una criticabile interpretazione della nozione di profitto rilevante ai fini dell’applicazione della disciplina in materia di sequestro preventivo per equivalente. Infatti l’impugnato provvedimento aveva ritenuto congruo il valore delle somme sottoposte a vincolo (circa 62mila euro) sulla base di una valutazione “meramente apparente”, in quanto fondata non già sull’accertamento in concreto del profitto lucrato, ma su un profitto presunto in via implicita, mediante il generico richiamo alle gare vinte dalla società del ricorrente e alle somme relative agli importi di aggiudicazione ad esse corrispondenti.
L’analisi dei giudici della Cassazione
Per la Corte di Cassazione il ricorso dell’imprenditore è fondato e va accolto.
I giudici di legittimità evidenziano che la Cassazione ha da tempo stabilito il principio secondo cui, ai fini del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di cui all’articolo 322-ter cod. pen., in presenza di un contratto di appalto ottenuto con la corruzione di pubblici funzionari, la nozione del profitto confiscabile al corruttore non va identificata con l’intero valore del rapporto sinallagmatico instaurato con la P.A. , dovendosi in proposito distinguere il profitto direttamente derivato dall’illecito penale dal corrispettivo conseguito per l’effettiva e corretta erogazione delle prestazioni svolte in favore della stessa amministrazione, le quali non possono considerarsi automaticamente illecite in ragione dell’illiceità della causa remota.
La Corte di Cassazione, tuttavia, con la sentenza in commento si spinge oltre; i giudici di legittimità ritengono, infatti, che il profitto che la parte privata ha conseguito dall’appalto illecitamente ottenuto, non può globalmente omologarsi all’intero valore del rapporto contrattuale fra aziende ed ente.
L’instaurarsi di un rapporto a prestazioni corrispettive, infatti, impone di dividere il profitto confiscabile, quale direttamente derivato dall’illecito penale, dal profitto determinato dal corrispettivo di una effettiva e corretta erogazione di prestazioni comunque svolte in favore della stessa pubblica amministrazione, prestazioni che non possono considerarsi, di per sé stesse e per immediato automatismo traslativo, “colorate di illiceità per derivazione dalla causa remota, non potendosi includere, nella nozione di profitto, qualunque ricavo conseguito per effetto della stipula di un contratto di appalto illecitamente ottenuto nell’ambito di una relazione corruttiva”.
Nel caso in esame non è stata operata correttamente la confisca in quanto sono state sequestrate somme di denaro nella disponibilità dell’indagato il cui valore è stato ritenuto congruo sulla base di un apprezzamento di tipo presuntivo riferito in maniera generica alla somma dei diversi importi di aggiudicazione.
La Cassazione, in sostanza, annulla la sentenza con rinvio del provvedimento, affinché il nuovo giudice valuti la giusta somma da assoggettare a confisca (commento tratto da www.ipsoa.it).

PUBBLICO IMPIEGOIl Tar Lazio respinge le lamentele dei candidati esclusi: la busta trasparente non è motivo sufficiente. Anonimato violato? Da provare. Il semplice sospetto non basta per annullare la selezione.
È garantito l'anonimato nel concorso a dirigente scolastico se non c'è prova di una violazione effettiva dei documenti.

Sulla base di questo assunto (e di altri motivi peculiari) il TAR del Lazio ha respinto il ricorso di concorrenti di varie regioni contro il ministero ed i rispettivi uffici scolastici di Piemonte, Sicilia, Marche e Basilicata: la sentenza 05.11.2012 n. 9018 è stata emessa dalla Sez. III-bis..
I giudici del Tar di Roma si sono così espressi in sentenza: perché si rendano attendibili e determinanti, ai fini della invalidazione di prove a carattere concorsuale, per la esistenza di irregolarità, denunciate come suscettibili di violare l'anonimato, «devono rendersi emergenti elementi che rilevino la effettiva compromissione della garanzia dell'anonimato» che esige che la correzione avvenga su testo proveniente da candidato, ma anonimo alla commissione.
In altre parole, una situazione, che eluda l'anonimia e renda intellegibile il candidato, deve essere emergente ed effettiva; pertanto, la contestazione sulla validità del concorso non può venire espressa in termini di possibilità o «posta con espressioni probabilistiche», rilevandosi esse ininfluenti al fine di inficiare l'operato della commissione.
La questione assume particolare rilievo essendo pendente una controversia maggiormente intricata sul concorso a preside che ha avuto luogo nella regione Lombardia proprio in tema di regola dell'anonimato (per le buste contenenti le generalità dei partecipanti) e che vede fronteggiarsi, oltre alla p.a., un centinaio di ricorrenti in primo grado, da un lato, e circa 400 concorrenti che, superando tutte le prove, sono inseriti nella graduatoria definitiva, dall'altro.
A qualche giorno dall'attesa udienza di trattazione del 20 novembre, presso il Consiglio di stato, dell'appello del ministero avverso la sentenza del Tar di Milano sul caso appena descritto, questa decisone del Tar del Lazio offre una variazione di visuale e un diverso spirito di interpretazione della situazione. I giudici lombardi di primo grado hanno, infatti, ritenuto che la garanzia dell'anonimato decada con la sola possibilità astratta di attribuire la paternità agli elaborati; in tal senso era stato sufficiente assumere che la busta era «al limite della trasparenza» e che la leggibilità era rilevata «se posta in controluce».
La decisione laziale, invece, si attiene al principio di una prova rigorosa quale elemento necessario per dimostrare che la pubblica amministrazione non abbia agito con regolarità; implicando, peraltro, il venir meno del substrato di fiducia che va rassegnata ad un organo precipuamente designato per l'effettuazione di un concorso tra i più ambìti nel pubblico impiego.
Supporre che una possibilità astratta possa invalidare l'esito di una procedura affidata ad una commissione conduce ad avanzare dubbi sulla probità della stessa al punto da giungere a conclusioni aberranti: se si da' credito al sospetto anche la più impenetrabile delle buste con il nome del candidato può essere aperta prima della correzione dell'elaborato (articolo ItaliaOggi del 13.11.2012).

EDILIZIA PRIVATA - VARISentenza Cds sulla regolarità urbanistica. Locali irregolari? Attività abusiva.
È abusivo l'esercizio dell'attività agrituristica in locali che presentano irregolarità sotto il profilo edilizio-urbanistico ed è legittimo l'ordine di cessazione dell'attività pronunciato dal comune. Il legittimo esercizio di un'attività commerciale, soprattutto se essa comporti, come nel caso di specie, la somministrazione di alimenti e bevande, deve essere ancorato, sia in sede di rilascio del relativo titolo autorizzatorio sia per l'intera durata del suo svolgimento, alla disponibilità giuridica e alla regolarità urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene posta in essere. Nel rilascio dell'autorizzazione commerciale occorre tenere presenti i presupposti aspetti di conformità urbanistico-edilizia dei locali in cui l'attività commerciale si va a svolgere, con la naturale conseguenza che il diniego di esercizio di attività di commercio deve ritenersi legittimo ove fondato su rappresentate e accertate ragioni di abusività e/o non regolarità delle opere edilizie in questione con le prescrizioni urbanistiche. Nel caso di specie, è incontroversa la mancanza di conformità urbanistica-edilizia del compendio aziendale, pertanto appare ineccepibile il consequenziale provvedimento inibitorio adottato dal comune, rispetto alla richiesta di rilascio della relativa autorizzazione commerciale. In materia di agriturismo vi è una disciplina legislativa statale e regionale particolarmente rigorosa, perché finalizzata a preservare la specificità del settore a e la genuinità dei prodotti fruibili all'interno dell'azienda.

Questo è il contenuto della
sentenza 05.11.2012 n. 5590 del Consiglio di Stato (Sez. V).
I giudici di Palazzo Spada ritengono corretto il comportamento del comune che ha ordinato la cessazione dell'attività abusiva di agriturismo, sul rilievo della non assentibilità dei manufatti realizzati nel compendio aziendale e della improcedibilità dell'istanza di rilascio dell'autorizzazione sanitaria in relazione a locali (articolo ItaliaOggi del 13.11.2012).

APPALTI SERVIZI: Rilievo economico escluso nei servizi senza impresa.
Un servizio pubblico locale, se impostato in chiave solo erogativa, è privo di rilevanza economica.

Così si è espresso il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 23.10.2012 n. 5409, che ha introdotto importanti elementi di analisi per la qualificazione dei servizi pubblici, partendo dal presupposto che la distinzione tra attività economiche e non economiche è dinamica. Di conseguenza, è impossibile fissare a priori un elenco definitivo dei servizi di interesse generale di natura economica.
Per la qualificazione di un servizio pubblico si deve considerare non solo il tipo o le caratteristiche merceologiche del servizio, ma anche la soluzione organizzativa che l'ente, quando può scegliere, sente più appropriata.
Come, infatti, vi sono attività soltanto erogative, molte altre possono essere svolte, a scelta, con o senza copertura dei costi, dal che discende una diversa qualificazione sotto il profilo della rilevanza economica.
La mancanza di rilevanza economica è rilevabile, infatti, nelle situazioni in cui l'ente locale offra il servizio gratuitamente o sopportandone parte dei costi. La distinzione può derivare, quindi, non solo dalla configurazione astratta, ma anche dalle specifiche modalità organizzative del l'attività.
Il Consiglio di Stato evidenzia come siano privi di rilevanza economica i servizi pubblici locali resi agli utenti senza copertura dei costi, e che, inoltre, non richiedono una organizzazione di impresa in senso obiettivo (anche facendo riferimento ai parametri determinati dall'articolo 2082 del Codice civile).
I servizi con un modello organizzativo semplice (non a caratterizzazione imprenditoriale) e con copertura dei costi a carico dell'amministrazione (in tutto o in parte significativa) sono quindi qualificabili come privi di rilevanza economica. Rientrano in questa prospettiva molti servizi di tipo assistenziale, con modalità di erogazione gratuita, ma anche quei servizi a domanda individuale (per esempio l'utilizzo degli impianti sportivi) con tariffe coperte dagli utenti solo in misura minima, largamente insufficiente a coprire i costi di base.
Per le attività dotate di una maggiore complessità organizzativa (astrattamente di rilevanza economica), la qualificazione deve derivare da un'analisi caso per caso, focalizzando l'attenzione sulle modalità di erogazione, nonché sulla potenzialità di produrre o meno un utile di gestione (anche se molto limitato) e, quindi, di riflettersi sul l'assetto concorrenziale del mercato di settore o di non risultare significativo per lo stesso.
Secondo il Consiglio di Stato, inoltre, se l'amministrazione si organizza per svolgere –anche in proprio (in economia)– una vera attività imprenditoriale, seppure senza autonoma organizzazione (è il caso di una gestione intersettoriale, comunque ben strutturata), la circostanza è dirimente per inserire il servizio tra quelli a rilevanza economica (articolo Il Sole 24 Ore del 12.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI: Tassatività delle cause di esclusione dalla gara e principio di ragionevolezza.
Con sentenza 19.10.2012 n. 5389, la Sez. VI del Consiglio di Stato ha chiarito come anche prima della positivizzazione (ad opera del decreto-legge n. 70 del 2011) del principio di tassatività delle clausole di esclusione (art. 46-comma 1-bis del d.lgs. 163/2006) nell’ambito delle pubbliche gare, la giurisprudenza aveva fissato il principio secondo cui le clausole della lex specialis, ancorché contenenti comminatorie di esclusione, non possono essere applicate meccanicisticamente, ma secondo il principio di ragionevolezza, e devono essere valutate alla stregua dell’interesse che la norma violata è destinata a presidiare per cui, ove non sia ravvisabile la lesione di un interesse pubblico effettivo e rilevante, deve essere accordata la preferenza al favor partecipationis.
In particolare il ricorso era stato introdotto da una società che nell’ambito di un appalto per l’affidamento del servizio di validazione di progetti era stata esclusa poiché aveva violato il punto 10 del disciplinare di gara il quale chiedeva, a pena di esclusione, l’indicazione dei costi di sicurezza connessi alla realizzazione dell’appalto.
Il Consiglio di Stato nel riconoscere la fondatezza del ricorso, ha sottolineato come “[…]deve prestarsi puntuale adesione all’orientamento secondo cui l’esclusione da una gara pubblica può legittimamente essere disposta ove il concorrente abbia violato previsioni poste a tutela degli interessi sostanziali dell'Amministrazione o a protezione della par condicio tra i concorrenti e la carenza essenziale del contenuto o delle modalità di presentazione, che giustifica detta esclusione, deve in primo luogo riferirsi all'offerta, incidendo oggettivamente sulle componenti del suo contenuto ovvero sulle produzioni documentali a suo corredo dirette a definire il contenuto delle garanzie e l'impegno dell'aggiudicatario, in rispondenza ad un interesse sostanziale della stazione appaltante, costituendo il canone dell'utilità delle clausole e della necessità di evitare inutili appesantimenti, nonché di garantire in massimo grado la partecipazione dei concorrenti, nel rispetto della par condicio, metodo operativo ed interpretativo irrinunciabile (Cons. Stato, V, 28.02.2011, n. 1245)”.
In applicazione di questo orientamento il Consiglio di Stato ha ritenuto del tutto irragionevole e priva di alcuna utilità la sanzione espulsiva prevista dalla legge di gara, a fronte di un onere meramente formale e, per di più, sostanzialmente inutile poiché nell’ambito di un appalto per l’affidamento del servizio di validazione di progetti erano sicuramente assenti profili di interesse in tema di salute e sicurezza sul lavoro e quindi l’importo dichiarato dalla società non sarebbe potuto essere che pari a zero.
In conclusione, anche a prescindere della previsione di cui al comma 1-bis dell’articolo 46 del d.lgs. 163/2006 sono illegittime le clausole escludenti che non siano finalizzate a presidiare un interesse pubblico effettivo e rilevante, dovendosi in tale ipotesi accordare preferenza al favor partecipationis (tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Denunce di abuso edilizio: la PA deve sempre pronunciarsi.
L'amministrazione ha l'obbligo di pronunciarsi sulle denunce di abuso edilizio commesso dal titolare di una DIA o SCIA, indipendentemente dalle misure repressive che potrà successivamente assumere circa l'esigenza di reprimere o meno l'abuso segnalato dal privato.

Lo ha stabilito la IV Sez. del Consiglio di Stato, con la sentenza 17.10.2012 n. 5347.
Nel caso di specie un proprietario di una terreno ha impugnato il silenzio serbato dall’amministrazione in ordine ad una denuncia presentata per segnalare un abuso edilizio perpetrato dal vicino.
Al Comune, in particolare, era stato chiesto di accertare l’irregolarità dei lavori realizzati in violazione di una precedente DIA del controinteressato posto che lo stesso, attraverso l’apposizione di una recinzione e di un cancello, avrebbe inglobato nella sua proprietà anche una porzione di strada ad uso pubblico che veniva utilizzata dal denunciante (e non solo), al punto da rendere difficoltoso il passaggio e quindi l’utilizzo della stessa via.
Per questo motivo, era stata avanzata anche la richiesta di intervento attraverso l’esercizio dei poteri inibitori e repressivi.
L’adito tribunale amministrativo, però, ha ritenuto il silenzio dell’amministrazione del tutto legittimo, per l’effetto negando tanto la necessità di reprimere il paventato abuso edilizio quanto la richiesta di risarcimento del danno avanzata dal ricorrente. Secondo il giudice amministrativo, infatti, non vi sarebbe una effettiva lesione delle prerogative dominicali del ricorrente da cui far discendere l’obbligo per l’amministrazione di esercitare i poteri repressivi lei riconosciuti dalla legge.
La decisione è stata motivata sulla base di un duplice ordine di motivi: anzitutto non era stata provata l’effettiva esistenza della strada della quale si sarebbe ostruito il passaggio (al più riconducibile, sempre secondo il TAR ad “strada-vicinale”), e ciò delle risultanze dell’infruttuoso esperimento della tutela possessoria, in sede civilistica, da parte di un terzo proprietario che, similmente al ricorrente, aveva rivendicato il proprio diritto di passaggio; in secondo luogo, non era apparsa evidente nemmeno l’effettiva destinazione pubblica della strada medesima. Dati i richiamati argomenti, che propendevano per una qualificazione della controversia in termini privatistici, il giudice amministrativo ha ritenuto l’insussistenza dei presupposti per sollecitare l’amministrazione, data l’esigenza di difendere un diritto privato del ricorrente.
La sentenza è stata appellata al Consiglio di Stato il quale, facendo ordine sulla vicenda, ha totalmente ribaltato il dictum del tribunale di primo grado, accertando al contrario la sussistenza, nel caso di specie, dell’obbligo dell’amministrazione di pronunciarsi sulla vicenda e l’illegittimità, di riflesso, del silenzio mantenuto.
Segnatamente, i giudici di Palazzo Spada hanno anzitutto riportato l’attenzione sulla originaria domanda del ricorrente, ossia quella volta ad ottenere che l’amministrazione, a prescindere dalla sussistenza o meno dell’abuso edilizio, si pronunciasse sulla vicenda, l’esercizio o meno dei poteri inibitori essendo una scelta, indiscutibilmente rimessa all’amministrazione, ma attinente ad una fase successiva. Analizzando la lite sotto questo profilo, hanno osservato i giudici romani, poteva certamente rinvenirsi un obbligo di provvedere dell’amministrazione rimasto inadempiuto.
E’ stato osservato, infatti, come l'obbligo giuridico di provvedere di cui all'articolo 2 della legge n. 241/1990 ricorra in tutti i casi in cui, per ragioni di giustizia e di equità, risulti necessaria l'adozione di un provvedimento e quindi, tutte quelle volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sussista una legittima aspettativa del privato a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni dell'Amministrazione, anche nel caso in cui queste non dovessero essere quelle auspicate (ad esempio la negazione dell’esercizio delle potere inibitorio).
Secondo il Consiglio di Stato, quindi, il TAR avrebbe posto in essere una commistione di due questioni giuridiche tra loro distinte. In altri termini: un conto è l’obbligo di pronunciarsi dell’amministrazione, altro conto è l’obbligo di intervenire con l’esercizio dei poteri inibitori; la mancata ricorrenza dei presupposti del secondo, si precisa nella sentenza in epigrafe, non esclude che vi siano quelli del primo.
Da ultimo, il Consiglio di Stato, ha cura di precisare un altro aspetto importante della vicenda, quello relativo alla possibilità che gli sviluppi della tutela possessoria, parallelamente azionata (da un terzo o) dallo stesso ricorrente, incidano sulla scelta dell’amministrazione, facendola venire meno in caso di esito negativo.
Sul punto si è detto che la tutela in sede civile deve considerarsi irrilevante ai fini del giudizio sulla sussistenza dell’obbligo dell’amministrazione di pronunciarsi sull’istanza del privato, ben potendo la tutela amministrativa (con la rimozione del presunto abuso, magari non conseguita in sede civile) realizzarsi mediante il richiesto esercizio dei poteri pubblicistici in materia edilizia.
L’intento sotteso a quest’ultima precisazione, ancora una volta, è quello di fare ordine sul reale contenuto dei singoli interessi del titolare e sul perimetro delle rispettive tutele (commento tratto da www.ispoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Intestazione fiduciaria nelle gare di appalto, gare senza trust.
In materia di intestazioni fiduciarie negli appalti pubblici la stazione appaltante deve avere conoscenza della reale identità di tutti i partecipanti al fine di valutarne l'affidabilità, e evitare infiltrazioni di organizzazioni criminali
; il chiarimento fornito dal Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 15.10.2012 n. 5279 che si è pronunciata in merito alle intestazioni fiduciarie di un ATI, partecipante ad una gara per l'affidamento del servizio di vigilanza armata di un edificio.
Il TAR respingeva un ricorso proposta da una SRL, seconda classificata, avverso gli atti di gara, inerenti alla gara per l’affidamento (di durata triennale) del servizio di vigilanza armata e di portierato presso le strutture dell’Agenzia regionale per il diritto allo studio universitario (A.DI.S.U.) col sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Il ricorso era affidato a tre motivi, tra cui, per quanto qui interessa, quello riguardante la censura dell’illegittima mancata esclusione dell’A.T.I. prima classificata per violazione del divieto di intestazione fiduciaria e dei correlativi obblighi informativi di cui al combinato disposto degli artt. 38, comma 1, lett. d), D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, e 17, comma 3, legge 19.03.1990, n. 55, in quanto l’associata “Vigilanza (…..)” s.r.l. annoverava tra i propri soci una SPA autorizzata quale società fiduciaria ai sensi della legge n. 1966/1939 (il cui art. 1, comma 1, enuncia la seguente definizione normativa: “Sono società fiduciarie e di revisione e sono soggette alla presente legge quelle che, comunque denominate, si propongono, sotto forma di impresa, di assumere l’amministrazione dei beni per conto di terzi, l’organizzazione e la revisione contabile di aziende e la rappresentanza dei portatori di azioni e di obbligazioni, omettendo di segnalarne la presenza e così impedendo alla stazione appaltante di ottenere ogni informazione utile riguardo all’identità dei fiducianti”.
Il Tribunale amministrativo respingeva il ricorso della SRL ricorrente; avverso tale sentenza la SRL seconda classificata in graduatoria proponeva ricorso al Consiglio di Stato .
Per il Consiglio di Stato meritano accoglimento le motivazioni della società ricorrente.
Per i giudici di Palazzo Spada da una lettura sia testuale che sistematica del ricorso di primo grado emerge in modo chiaro ed univoco che la censura di inosservanza degli obblighi di informativa con riguardo alla presenza di una società fiduciaria e all’identità dei fiducianti è stata dedotta sia sotto il profilo della violazione dei menzionati obblighi al momento della presentazione della domanda, sia sotto il profilo della persistenza della correlativa condotta di ‘occultamento’ anche dopo l’aggiudicazione e, persino, dopo la stipula del contratto, onde dedurne l’illegittimità dell’aggiudicazione e l’invalidità del contratto.
L’art. 38, comma 1, lett. d), D.Lgs. n. 163 del 2006, tramite il rinvio all’art. 17 l. n. 55 del 1990 nel testo modificato dalla legge n. 415 del 1998, configura non solo l’interposizione fiduciaria di società non autorizzata, ma anche il mancato assolvimento all’obbligo informativo in caso di società autorizzata, come causa di esclusione dalla gara, sancendo i conseguenti divieti di aggiudicazione e di stipula del contratto (la novella apportata al comma 1, lett. d), dell’art. 38 dal d.l. 13.05.2011, n. 70, convertito dalla l. 12.07.2011, n. 106, si limita a circoscrivere temporalmente la durata e la decorrenza della causa di esclusione, a un anno a partire dall’accertamento definitivo della violazione, senza modificare gli elementi costitutivi della fattispecie escludente).
Le due ipotesi si diversificano esclusivamente per la diversa modulazione temporale, preventiva nella prima, e rispettivamente successiva all’aggiudicazione nella seconda, della verifica dei requisiti generali di partecipazione, ma concettualmente rientrano entrambe nel novero delle cause di esclusione per carenza dei requisiti di partecipazione, e dunque ineriscono alla fase di evidenza pubblica e non già a quella dell’esecuzione del contratto, con conseguente infondatezza dell’eccezione di carenza di giurisdizione sollevata dall’Amministrazione appellata.
I giudici di Palazzo Spada evidenziano che se, poi, si pone mente alla ratio sottesa alla disciplina in esame, volta a consentire alle amministrazioni appaltanti di aver sempre certezza della reale identità dei propri contraenti, prevenendo così il rischio di infiltrazioni occulte delle organizzazioni criminali nell’esecuzione dei pubblici appalti, la correlativa verifica, anche se da compiere, nella seconda delle menzionate ipotesi, dopo l’aggiudicazione (ma pur sempre prima della stipula del contratto), è espressione di un potere autoritativo (e, allo stesso tempo, di uno specifico dovere) di valutazione dei requisiti soggettivi dei contraenti, idoneo ad incidere, nel caso di esito negativo, in senso caducante sull’aggiudicazione e sul contratto, con conseguente attrazione della relativa controversia, nell’orbita di giurisdizione del giudice amministrativo.
L’accoglimento dell’appello comporta l’analisi corretta dell’esame della domanda di risarcimento dei danni, proposta sin dall’atto introduttivo di primo grado ed espressamente riproposta nel ricorso in appello.
Per i giudici di Palazzo Spada l’appello va accolto e, in riforma della impugnata sentenza, va dichiarata l’illegittimità dell’aggiudicazione (nonché, l’invalidità del contratto, con la conseguente caducazione dei suoi effetti), e va accolta la domanda risarcitoria proposta dalla società ricorrente.
Per il Consiglio di Stato, in sostanza, alla ditta ricorrente spetta la somma di euro 67.500,00, cui vanno aggiunti, trattandosi di debito di valore e non di valuta, gli interessi legali e la rivalutazione monetaria (da calcolare separatamente sugli importi nominali del credito) (commento tratto da www.ispoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Per identificare giuridicamente un servizio pubblico, non è indispensabile, a livello soggettivo, la natura pubblica del gestore, mentre è necessaria la vigenza di una norma legislativa che, alternativamente, ne preveda l’obbligatoria istituzione e la relativa disciplina oppure che ne rimetta l’istituzione e l’organizzazione all’Amministrazione. Oltre alla natura pubblica delle regole che presiedono allo svolgimento delle attività di servizio pubblico e alla doverosità del loro svolgimento, è ancora necessario, nella prospettiva di un’accezione oggettiva della nozione, che le suddette attività presentino un carattere economico e produttivo (e solo eventualmente costituiscano anche esercizio di funzioni amministrative), e che le utilità da esse derivanti siano dirette a vantaggio di una collettività, più o meno ampia, di utenti (in caso di servizi divisibili) o comunque di terzi beneficiari (in caso di servizi indivisibili).
Nemmeno la circostanza, che per le attività in esame non sia prevista l’erogazione di un corrispettivo da parte dei beneficiari (come è invece proprio di un’usuale attività di depurazione), è idonea a inficiare i riferiti connotati dell’attività quale attività di servizio pubblico, in quanto, per un verso, la previsione di un corrispettivo (così come di un profitto del gestore del servizio) non è essenziale sul piano della qualificazione giuridica delle attività di servizio pubblico e, per altro verso, da un punto di vista strettamente economico, l’utilità dei soggetti tenuti alla messa in sicurezza e alla bonifica di siti inquinati è, in una visione complessiva, all’evidenza rappresentata dal vantaggio che i medesimi (o i loro danti causa) abbiano conseguito precedentemente attraverso l’esternalizzazione dei costi (le diseconomie da inquinamento trasferite all’esterno dell’impresa e accollate al pubblico) relativi a oneri del processo produttivo (ossia quelli connessi al corretto smaltimento degli agenti inquinanti) che -come rimanda il principio generale “chi inquina paga”- sarebbero dovuti restare ab origine a carico delle stesse imprese inquinatrici: sicché alcuni di detti costi attraverso le procedure di bonifica e messa in sicurezza vengono nuovamente internalizzati (peraltro, verosimilmente in misura inferiore al vantaggio ottenuto dalle imprese obbligate, non essendo integralmente risarciti i danni, individuali e collettivi, alla salute medio tempore verificatisi).

Da quanto sopra esposto in punto di fatto e di svolgimento del processo, risulta che le determinazioni delle conferenze di servizi impugnate in primo grado attengono allo specifico svolgimento delle attività di messa in sicurezza e di bonifica di un sito inquinato di interesse nazionale (attraverso l’emunzione delle acque di falda sottostanti l’area industriale in questione), in passato disciplinate dall’art. 17 d.lgs. 05.02.1997, n. 22, e attualmente dall’art. 252 d.lgs. 03.04.2006, n. 152.
Si verte dunque (come recentemente rilevato da questo Consiglio di Stato, in analoga fattispecie, con la recente sentenza di questa Sezione VI, 05.04.2012, n. 2021), in materia di attività obbligatoria ex lege (al ricorrere di determinati presupposti di fatto) disciplinata da fonti di rango primario, che è svolta (anche) a favore di una collettività indeterminata di beneficiari (gli abitanti della zona inquinata), mira al perseguimento di un interesse pubblico (alla salubrità ambientale e al ripristino del bene-interesse leso dagli inquinamenti) e, infine, consiste in attività produttiva e di rilievo economico, con conseguente indubbia qualificabilità come servizio pubblico (v., nello stesso senso, Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, 06.10.2010, n. 1266).
Infatti, per identificare giuridicamente un servizio pubblico, non è indispensabile, a livello soggettivo, la natura pubblica del gestore, mentre è necessaria la vigenza di una norma legislativa che, alternativamente, ne preveda l’obbligatoria istituzione e la relativa disciplina oppure che ne rimetta l’istituzione e l’organizzazione all’Amministrazione. Oltre alla natura pubblica delle regole che presiedono allo svolgimento delle attività di servizio pubblico e alla doverosità del loro svolgimento, è ancora necessario, nella prospettiva di un’accezione oggettiva della nozione, che le suddette attività presentino un carattere economico e produttivo (e solo eventualmente costituiscano anche esercizio di funzioni amministrative), e che le utilità da esse derivanti siano dirette a vantaggio di una collettività, più o meno ampia, di utenti (in caso di servizi divisibili) o comunque di terzi beneficiari (in caso di servizi indivisibili).
Come già in occasione di quel recente precedente, vale ribadire che nemmeno la circostanza, che per le attività in esame non sia prevista l’erogazione di un corrispettivo da parte dei beneficiari (come è invece proprio di un’usuale attività di depurazione), è idonea a inficiare i riferiti connotati dell’attività quale attività di servizio pubblico, in quanto, per un verso, la previsione di un corrispettivo (così come di un profitto del gestore del servizio) non è essenziale sul piano della qualificazione giuridica delle attività di servizio pubblico e, per altro verso, da un punto di vista strettamente economico, l’utilità dei soggetti tenuti alla messa in sicurezza e alla bonifica di siti inquinati è, in una visione complessiva, all’evidenza rappresentata dal vantaggio che i medesimi (o i loro danti causa) abbiano conseguito precedentemente attraverso l’esternalizzazione dei costi (le diseconomie da inquinamento trasferite all’esterno dell’impresa e accollate al pubblico) relativi a oneri del processo produttivo (ossia quelli connessi al corretto smaltimento degli agenti inquinanti) che -come rimanda il principio generale “chi inquina paga”- sarebbero dovuti restare ab origine a carico delle stesse imprese inquinatrici: sicché alcuni di detti costi attraverso le procedure di bonifica e messa in sicurezza vengono nuovamente internalizzati (peraltro, verosimilmente in misura inferiore al vantaggio ottenuto dalle imprese obbligate, non essendo integralmente risarciti i danni, individuali e collettivi, alla salute medio tempore verificatisi).
Orbene, con ciò ricondotto l’oggetto del contendere nell’alveo dei servizi pubblici, deve ritenersi che all’impugnazione dei provvedimenti relativi all’esecuzione dei servizi si applichino le regole speciali, segnatamente sui termini processuali, dettate dall’art. 23-bis l. 06.12.1971, n. 1034, posto che la lett. c) della disposizione –nella formulazione rilevante ratione temporis– si riferisce genericamente all’esecuzione di servizi pubblici e non solo ai servizi pubblici oggetto di appalti affidati con procedure di gara (in questi termini cfr. la già richiamata sentenza Sezione VI, 05.04.2012, n. 2021.
Si aggiunga che la controversia, sotto altro angolo visuale, è, altresì, sussumibile nel novero delle controversie aventi ad oggetto l’esecuzione di opere di pubblica utilità, di cui alla lettera b) del comma 1 del citato art. 23-bis –nella formulazione previgente alle modifiche apportate dall’art. 15 d.lgs. 20.03.2010, n. 53, rilevante ratione temporis–, comportando l’autorizzazione all’esecuzione degli interventi di messa in sicurezza e di bonifica dichiarazione di pubblica utilità (ai sensi dell’art. 17, comma 7, d.lgs. 05.02.1997, n. 22; oggi, ai sensi dell’art. 252, comma 6, d.lgs. 03.04.2006, n. 152) (
Cons. Stato, Sez. VI, sentenza 12.10.2012 n. 5268 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La circostanza che la domanda di sanatoria edilizia sia inoltrata ad un ufficio (incompetente per materia) piuttosto che ad un altro (della stessa amministrazione) non può comportare la dichiarazione di improcedibilità della domanda stessa ma semplicemente l’istanza deve essere trasmessa all’ufficio competente della stessa amministrazione.
... per l'annullamento, previa adozione di misura cutelare del provvedimento del 22.05.2012, PG/2012/421615, del Comune di Napoli, che ha dichiarato improcedibile la richiesta di rilascio del permesso di costruire, relativo all'installazione di opere di arredo urbano.
...
La nota impugnata dichiara l’improcedibilità di una istanza di sanatoria per delle opere insistenti su un’area oggetto di concessione di suolo pubblico, motivandola con l’intervenuta presentazione dell’istanza a un ufficio incompetente dello stesso Comune e rilevando una serie di motivi ostativi alla sua concessione.
Ai sensi di quanto indicato nella delibera n. 582/2009 e nell’allegato A “Indirizzi per le occupazioni di suolo pubblico annesse a pubblici esercizi”, l’ufficio competente risultava essere il servizio abilitato al rilascio di concessione di occupazionale di suolo pubblico ovverosia il Servizio Polizia Amministrativa.
La circostanza che la domanda di sanatoria sia stata inoltrata dal ricorrente al Servizio Edilizia Privata non comportava, però, la dichiarazione di improcedibilità della domanda ma semplicemente l’istanza sarebbe dovuta essere trasmessa all’ufficio competente della stessa amministrazione.
Ciò in base ai criteri di correttezza e leale collaborazione tra gli uffici di una stessa amministrazione e il principio generale (previsto in tema di ricorsi gerarchici, ma valevole anche per ogni ipotesi di istanza presentata alla P.A.) sancito dall'art. 2, comma 3, D.P.R. n. 1199 del 1971, in base al quale "i ricorsi rivolti nel termine prescritto ad organi diversi da quello competente, ma appartenenti alla stessa amministrazione, non sono soggetti a dichiarazione di irricevibilità e i ricorsi stessi sono trasmessi d'ufficio all'organo competente" (TAR Catania Sicilia sez. I, 22.09.2009, n. 1554).
Illegittimo, pertanto, appare il provvedimento finale di improcedibilità adottato dal Servizio Edilizia Privata (TAR Campania–Napoli, Sez. IV, sentenza 01.08.2012 n. 3716 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 12.11.2012

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IN EVIDENZA

OKKIO AL PORTAFOGLIO ... è finita col "parafulmine politico" del tipo: "me l'ha detto il sindaco/la giunta ..." !!
Niente attenuanti per i dirigenti. Aver attuato le direttive dei politici non riduce la responsabilità.
La responsabilità amministrativa ed erariale dei dirigenti non viene né eliminata, né ridotta dalla circostanza che il loro agire considerato antigiuridico dalla Corte dei conti discenda da direttive espresse dall'organo di governo.

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Il procedimento complesso in cui si articola la gestione della spesa nelle amministrazioni locali è caratterizzato dalle fasi dell’impegno, della liquidazione, dell'ordinazione e del pagamento e che ognuna di esse risponde a finalità precise.
L’impegno costituisce il vincolo sulle previsioni di bilancio; la liquidazione cristallizza il momento in cui si determina la somma certa e liquida da pagare nei limiti dell'ammontare dell'impegno definitivo assunto; l’ordinazione è la disposizione impartita, mediante il mandato di pagamento, al tesoriere dell'ente locale di provvedere al pagamento che rappresenta l’ultima fase della gestione.
Pertanto, in caso di danno per erogazione di somme di denaro, il dies a quo della prescrizione comincia a decorrere dall'effettivo pagamento.
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L’art. 45, comma 4, del D.lgs. 165 del 30.03.2001, espressamente dispone che i dirigenti sono responsabili dell'attribuzione dei trattamenti economici accessori.
Il rigore di tale disposizione, unitamente all’intero complesso normativo che disciplina i compiti e le responsabilità degli organi dirigenziali, non consente di giustificare il comportamento gravemente negligente del convenuto la cui riconosciuta autonomia decisionale avrebbe dovuto indurlo o a disattendere una direttiva, là dove palesemente illegittima, o, nel dubbio, interpretarla, anche con riferimento agli atti normativi interni, in modo conforme alla legge.

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La gravità della colpa dell'odierno convenuto si individua in tutta la sua evidenza nell’avere lo stesso autorizzato l'Ufficio personale dell'Ente Locale a liquidare a sé medesimo dei compensi, sottraendoli, così, indebitamente al fondo dell’amministrazione e non consentendo, in tal modo, quella preliminare definizione di incidenza di tale erogazione aggiuntiva sull’ammontare della retribuzione di risultato.
Ratio, infatti, della confluenza nel fondo delle erogazioni aggiuntive di cui trattasi e dell’accertamento di incidenza delle stesse sulla retribuzione di risultato, è proprio quella di consentire all’amministrazione, nel rispetto delle relazioni sindacali che il contratto collettivo richiede, di avvalersi anche della facoltà di eventualmente ridurre la percentuale di retribuzione di risultato spettante al dirigente interessato alla suddetta erogazione aggiuntiva, in considerazione del grado di incidenza sulla stessa di detti compensi.
Verifica che, nel caso di specie, ancorché contrattualmente imposta, non è stata espletata.
Relativamente, poi, all'eccezione per cui il Comune è, comunque, allo stato sprovvisto di un regolamento che disciplini la ripartizione, a vario titolo ed importo, delle risorse confluite nel Fondo Unico della Dirigenza, la stessa non è persuasiva.
Non può, infatti, invocarsi una disfunzione organizzativa interna per giustificare condotte poste in violazione delle regole che disciplinano il rapporto di pubblico impiego.

E’ noto che il procedimento complesso in cui si articola la gestione della spesa nelle amministrazioni locali è caratterizzato dalle fasi dell’impegno, della liquidazione, dell'ordinazione e del pagamento e che ognuna di esse risponde a finalità precise.
L’impegno costituisce il vincolo sulle previsioni di bilancio; la liquidazione cristallizza il momento in cui si determina la somma certa e liquida da pagare nei limiti dell'ammontare dell'impegno definitivo assunto; l’ordinazione è la disposizione impartita, mediante il mandato di pagamento, al tesoriere dell'ente locale di provvedere al pagamento che rappresenta l’ultima fase della gestione.
Orbene, questo Collegio, in coerenza anche con l’opinione maggioritaria, tra l'altro confermata dalle stesse Sezioni Riunite (Corte conti, SS.RR. 15.01.2003, n. 3/QM e in termini Corte conti, sez. II, 28.04.2003, n. 161) ritiene che in caso di danno per erogazione di somme di denaro, il dies a quo della prescrizione comincia a decorrere dall'effettivo pagamento.
Tale è, infatti, il momento in cui si verifica l'effettivo depauperamento delle casse dell'Ente, diversamente dalle altre fasi la cui finalità è consentire una corretta articolazione del procedimento di spesa nel rispetto delle regole che governano la più ampia gestione del bilancio dell’ente.
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Con specifico riferimento alla antidoverosità della condotta, la difesa sostiene l’assenza di una colpa grave del convenuto, avendo lo stesso agito in buona fede ed in esecuzione di un mandato ricevuto dal competente organo comunale e, comunque, nel rispetto di una fonte regolamentare interna.
Anche tale eccezione risulta priva di pregio.
L’art. 45, comma 4, del Decreto legislativo 165 del 30.03.2001, espressamente dispone che i dirigenti sono responsabili dell'attribuzione dei trattamenti economici accessori.
Il rigore di tale disposizione, unitamente all’intero complesso normativo che disciplina i compiti e le responsabilità degli organi dirigenziali, non consente di giustificare il comportamento gravemente negligente del convenuto la cui riconosciuta autonomia decisionale avrebbe dovuto indurlo o a disattendere una direttiva, là dove palesemente illegittima, o, nel dubbio, interpretarla, anche con riferimento agli atti normativi interni, in modo conforme alla legge.
Venendo, poi, in particolare, alla responsabilità del convenuto per avere autorizzato l'Ufficio personale dell'Ente Locale a liquidare anche a sé medesimo compensi in violazione del principio della omnicomprensività del trattamento economico spettante alla dirigenza di cui all'art. 24, comma tre, del D.lgs. 165/2001, anche per tale ipotesi valgono le considerazioni sinora espresse, ma con ulteriori precisazioni con riferimento alla dirigenza delle amministrazioni locali.
La cornice normativa riferibile al rapporto di pubblico impiego anche della dirigenza operante presso le autonomie locali è, infatti, costituita sia dalle disposizioni del capo I, Titolo II, Libro V del codice civile e dalle leggi sul rapporto di lavoro subordinato nell’impresa, sia dalle norme, definite espressamente dal legislatore di carattere imperativo, contenute nel Decreto legislativo 165 del 30.03.2001, che il legislatore dichiara inequivocabilmente applicabili a tutte le amministrazioni pubbliche e , dunque, anche alle amministrazioni locali (articoli 1, comma 2 e 2, comma 2, D.lgs. 165/2001).
Tra le norme del Testo Unico Pubblico Impiego, in particolare, per quanto in questa sede interessa, è da richiamare la regola per cui l’attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi (art. 2, comma 3, TUPI) che sono, tra l’altro, anche l’unica fonte legittimata a definire il trattamento economico fondamentale ed accessorio del personale dipendente (art. 24 TUPI, così come di recente riformato dal d.lgs. 150 del 27.10.2009, c.d. Riforma Brunetta).
Trattamento accessorio che, per completezza, si ricorda, potrà essere erogato solo ove correlato alle funzioni attribuite, alle connesse responsabilità, ai risultati conseguiti (art. 24 TUPI) e secondo le modalità indicate dalla stessa norma (art. 24, commi 3, 7 e 8 del citato TUPI).
Nel solco così tracciato dal legislatore ed in conformità al processo di delegificazione in materia introdotto ex lege con riferimento all’attribuzione dei trattamenti economici della dirigenza locale, unica fonte legittimata a disciplinare la materia è, pertanto, anche per tale fattispecie, il contratto collettivo che impone, per quel che in questa sede rileva, che al finanziamento della retribuzione di posizione e di risultato dei dirigenti si provvede mediante l’utilizzo, tra l’altro, anche delle risorse che specifiche disposizioni di legge finalizzano all’incentivazione di prestazioni o risultati raggiunti…(art. 37 del CCNL del 10.04.1996) e che a tal fine sono utilizzate le risorse che specifiche disposizioni di legge finalizzano all’incentivazione della dirigenza (art. 26 del CCNL del 23.12.1999).
Ciò detto, la gravità della colpa dell'odierno convenuto si individua, dunque, in tutta la sua evidenza nell’avere lo stesso autorizzato l'Ufficio personale dell'Ente Locale a liquidare a sé medesimo dei compensi, sottraendoli, così, indebitamente al fondo dell’amministrazione e non consentendo, in tal modo, quella preliminare definizione di incidenza di tale erogazione aggiuntiva sull’ammontare della retribuzione di risultato.
Ratio, infatti, della confluenza nel fondo delle erogazioni aggiuntive di cui trattasi e dell’accertamento di incidenza delle stesse sulla retribuzione di risultato, è proprio quella di consentire all’amministrazione, nel rispetto delle relazioni sindacali che il contratto collettivo richiede, di avvalersi anche della facoltà di eventualmente ridurre la percentuale di retribuzione di risultato spettante al dirigente interessato alla suddetta erogazione aggiuntiva, in considerazione del grado di incidenza sulla stessa di detti compensi.
Verifica che, nel caso di specie, ancorché contrattualmente imposta, non è stata espletata.
Relativamente, poi, all'eccezione per cui il Comune di Lecce è, comunque, allo stato sprovvisto di un regolamento che disciplini la ripartizione, a vario titolo ed importo, delle risorse confluite nel Fondo Unico della Dirigenza, la stessa non è persuasiva.
Non può, infatti, invocarsi una disfunzione organizzativa interna per giustificare condotte poste in violazione delle regole che disciplinano il rapporto di pubblico impiego (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Puglia, sentenza 24.09.2012 n. 1216, link a www.corteconti.it).

Niente attenuanti per i dirigenti. Aver attuato le direttive dei politici non riduce la responsabilità. Sentenza della Corte conti Puglia sulle relazioni tra organi di governo e manager locali.
La responsabilità amministrativa ed erariale dei dirigenti non viene né eliminata, né ridotta dalla circostanza che il loro agire considerato antigiuridico dalla Corte dei conti discenda da direttive espresse dall'organo di governo.
La sentenza 24.09.2012 n. 1216 della Corte dei conti, Sez. giurisdizionale per la Puglia, costituisce una pietra miliare per chiarire definitivamente le relazioni tra organi di governo e dirigenti, sfatando la convinzione, molto radicata, che lo strumento della direttiva possa da un lato orientare la gestione verso risultati antigiuridici facendo da scudo alla responsabilità, dall'altro costituisca limite insormontabile all'autonomia decisionale dei dirigenti.
La sentenza della magistratura contabile ha accertato la responsabilità erariale di un dirigente che, in violazione aperta del principio di onnicomprensività, ha liquidato a se stesso e a propri dipendenti compensi per la realizzazione di progetti, qualificati «extra orario», finanziati dall'Unione europea.
Tra gli elementi presentati a difesa del proprio operato, il dirigente ha puntato sull'assenza di colpa grave, scaturente dall'aver agito in buona fede, per aver eseguito un mandato stabilito dalla giunta comunale e, inoltre, nel rispetto di una fonte regolamentare interna.
La sentenza evidenzia come simile eccezione risulti priva di pregio, riferendosi alla normativa che sancisce il principio di separazione delle competenze e delle responsabilità degli organi di governo, rispetto alla dirigenza.
Nell'ordinamento locale, tale principio è fissato dall'articolo 107, comma 1, del dlgs 267/2000, secondo il quale «i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo».
La sentenza, per evidenziare la responsabilità del dirigente, richiama una norma che costituisce diretta conseguenza del principio di separazione, l'articolo 45, comma 4, del dlgs 165/2001, ai sensi del quale i dirigenti sono in via esclusiva responsabili dell'attribuzione dei trattamenti economici accessori.
L'esclusività delle funzioni e competenze dirigenziali non può essere ridotta o lesa dalla relazione funzionale con gli organi di governo.
Le direttive del sindaco o della giunta non hanno, né potrebbero avere, alcuna forza cogente nei riguardi dell'azione gestionale, perché se così non fosse, il principio di separazione sarebbe ovviamente sempre violato.
I dirigenti non possono trincerarsi dietro le direttive degli organi di governo, per rinunciare alla doverosità del proprio agire legittimo. Del resto, la giurisprudenza consolidata della magistratura contabile ha messo in evidenza che gli atti dei dirigenti, anche se a monte esistano direttive, non possono considerarsi come «dovuti», in particolare, come nel caso di specie, se le direttive si rivelino illegittime. E, comunque, adottare atti gestionali conformi a direttive illegittime implica la responsabilità del dirigente, visto che è questo, esprimendo la volontà nella fase finale dell'iter, che determina l'insorgere dell'azione lesiva dell'erario.
La sentenza della sezione Puglia sottolinea perfino che non solo una direttiva illegittima non giustifica un comportamento gravemente negligente, come quello adottato liquidando somme in difformità dalle regole imposte dalla legge e dalla contrattazione, ma addirittura impone al dirigente di esprimere la propria autonomia decisionale. Giungendo a disattenderla, ovviamente motivando, o, nel dubbio, interpretarla in modo da renderla conforme e rispettosa della legge
(articolo ItaliaOggi del 09.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

12.11.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: R. Pagliaro, Ancora sul parere di regolarità tecnica e contabile (06.11.2012).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Normativa Europea - Approvata dal Parlamento Europeo una nuova direttiva sull’Efficienza Energetica (ANCE di Bergamo, circolare 09.11.2012 n. 265).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: A. Ferretti, Disciplina dell’utilizzazione delle terre e rocce da scavo: il nuovo regolamento 161/2012 (Bollettino di Legislazione Tecnica n. 10/2012).

EDILIZIA PRIVATA: A. Mancini, Istanze di prevenzione incendi: le nuove modalità per la presentazione individuate dal D.M. 07/08/2012 (Bollettino di Legislazione Tecnica n. 10/2012).

ATTI AMMINISTRATIVI: C. Volpe, Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

APPALTILegge “Anticorruzione”: in arrivo le nuove regole per gli appalti pubblici.
Approvato dalla Camera dei Deputati il “Decreto Anticorruzione” recante misure finalizzate alla prevenzione e alla repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione e nelle gare d’appalto pubbliche.
Di seguito le novità introdotte per il settore edile e degli appalti:
● istituzione presso le Prefetture di una “White list”, ovvero un elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori che non presentano alcun rischio d’infiltrazione mafiosa;
● individuazione delle attività che vengono considerate maggiormente a rischio di infiltrazione della criminalità organizzata, ad esempio attività operanti nel settore degli inerti e delle cave;
● limitazione del ricorso agli arbitrati nelle controversie;
● integrazione delle cause di risoluzione di contratto con l’appaltatore se si verifica: associazione mafiosa, traffico di droga o contrabbando, traffico di rifiuti e delitti terroristici ed altri;
● maggiore trasparenza delle pubbliche Amministrazioni nelle gare d’appalto sui propri siti web;
● annullamento dell’incarico delle commissioni aggiudicatrici se condannati in precedenza per reati nei confronti della Pubblica Amministrazione. 
In allegato all’articolo, oltre al testo del Disegno di Legge approvato, il documento di sintesi di BibLus-net con le principali disposizioni contenute nel provvedimento (08.11.2012 - link a www.acca.it).

SICUREZZA LAVORODisturbi alla vista sui luoghi di lavoro: ecco il vademecum per i datori di lavoro, lavoratori e consulenti della sicurezza.
Il videoterminale è uno strumento indispensabile nella maggior parte delle attività lavorative (uffici pubblici, uffici privati, studi professionali, etc.). Un utilizzo non corretto può comportare disturbi visivi, muscolo-scheletrici e stress.
Causa di questi disturbi spesso è una inadeguata progettazione delle postazioni e delle modalità di lavoro, fattori questi su cui è possibile intervenire attraverso l’applicazione di principi ergonomici e l’adozione di comportamenti corretti da parte degli utilizzatori.
La Camera di Commercio di Roma fornisce il suo contributo informativo con la pubblicazione del vademecum “Linee guida per le aziende su prevenzione della disabilità e degli infortuni alla vista, al fine di prevenire e ridurre al minimo i rischi durante l’utilizzo di videoterminali.
Le Linee guida, utili a tutti i datori di lavoro, ai lavoratori stessi e ai consulenti, oltre a fornire una breve descrizione dei disturbi, propongono una rassegna di semplici e concrete norme pratiche, anche attraverso illustrazioni grafiche, da adottare nei posti di lavoro.
Le indicazioni riguardano:
un corretto uso dei videoterminali (scelta, posizionamento, impostazioni di luminosità e contrasto, ecc.)
le condizioni ambientali (microclima e illuminazione)
le postazioni di lavoro
l’organizzazione del lavoro
i disturbi più frequenti alla vista
la prevenzione e le raccomandazioni (08.11.2012 - link a www.acca.it).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

PUBBLICO IMPIEGONota della Funzione pubblica. Permessi disabili a maglie larghe.
Sì al permesso dal lavoro per assistenza a disabile anche quando il disabile non viene materialmente assistito.

A precisarlo è la Funzione pubblica nella nota 05.11.2012 n. 44274 di prot., in relazione ai permessi ex articolo 33 della legge n. 104/1992. In particolare, il dipartimento della presidenza del consiglio dei ministri ammette che, nei casi in cui risultino entrambi lavoratori, sia l'assistito e sia il soggetto che presta assistenza, quest'ultimo possa fruire dei permessi giornalieri anche in giornate in cui la persona disabile (che dovrebbe essere assistita) si rechi regolarmente al lavoro.
Permessi 104. I chiarimenti riguardano i permessi dal lavoro ex legge n. 104/1992, retribuiti e coperti da contributi figurativi, dei quali possono fruire i lavoratori dipendenti qualora si trovino in una delle seguenti situazioni:
a) siano portatori di handicap in situazione di disabilità grave (permessi per se stessi); in tal caso si ha diritto a due ore al giorno di permesso ovvero a tre giorni di permesso mensili frazionabili in ore;
b) siano genitori di figli in situazione di disabilità grave con età inferiore a tre anni; in tal caso, si ha diritto al prolungamento dell'astensione facoltativa o a due ore di permesso al giorno fino al compimento dei tre anni di vita del bimbo o a tre giorni di permesso mensili anche frazionabili in ore;
c) siano coniuge, parenti o affini entro il 1° grado di persone in disabilità grave; in tal caso si ha diritto a tre giorni al mese, anche frazionabili in ore, e il diritto può essere esteso a parenti e affini di secondo grado nel caso in cui i genitori o il coniuge della persona con handicap grave abbiano più di 65 anni o siano deceduti o invalidi.
I chiarimenti. Le precisazioni della Funzione pubblica sono state sollecitate da una pubblica amministrazione che ha chiesto parere sul diritto alla fruizione dei permessi da parte di un lavoratore dipendente, al fine di assistere un congiunto anch'egli lavoratore il quale si trova in situazione di handicap grave e che, peraltro, fruisce per se stesso dei medesimi benefici dei permessi dal lavoro ex legge n. 104/1992. In particolare, la pa ha chiesto di sapere se i giorni di permesso dei due soggetti interessati debbano essere fruiti nelle stesse giornate.
La risposta è negativa. La normativa di riferimento (legge n. 104/1992), spiega la nota, accordando la possibilità al lavoratore dipendente che assiste il congiunto disabile che versa in situazione di grave handicap di beneficiare dei permessi finalizzati alla predetta assistenza, non preclude espressamente la fruizione del beneficio ove il disabile prenda i permessi per se stesso, né tantomeno indica le modalità di fruizione per il caso prospettato.
 La situazione ordinaria, precisa la Funzione pubblica, è che le giornate fruite come permesso coincidano; tuttavia, non è da escludere che qualora il lavoratore che assiste il disabile abbia la necessità di assentarsi per svolgere attività per conto del disabile, nelle quali non è necessaria la sua presenza, egli possa fruire dei permessi anche in giornate nelle quali la persona disabile che è assistita si rechi regolarmente al lavoro.
In conclusione, precisa la nota, considerando anche la varietà delle situazioni che di fatto si possono presentare, la Funzione pubblica è dell'avviso che una limitazione dell'agevolazione alla fruizione dei permessi da questo punto di vista difficilmente potrebbe giustificarsi in base alla legge (articolo ItaliaOggi del 09.11.2012).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

LAVORI PUBBLICI - VARI: G.U. 10.11.2012 n. 263, suppl. ord. n. 201/L, "Testo del decreto-legge 13.09.2012, n. 158, coordinato con la legge di conversione 08.11.2012, n. 189, recante: «Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute»".

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI: G.U. 09.11.2012 n. 262 "Esercizio di attività commerciali e artigianali su aree pubbliche in forma ambulante o su posteggio, nonché di qualsiasi altra attività non compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio culturale" (direttiva 10.10.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 09.11.2012, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dell’elenco dei “Tecnici competenti” in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 31.10.2012, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 07.11.2012 n. 113).

ENTI LOCALI: G.U. 06.11.2012 n. 259 "Disposizioni urgenti in materia di Province e Città metropolitane" (D.L. 05.11.2012 n. 188).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Capacità assunzionale ed incremento orario del part-time.
La Corte dei Conti, sezione regionale Lombardia, con il parere 30.10.2012 n. 462, torna su questo argomento su richiesta del Comune di Tremenico che intende aumentare le ore lavorative di un dipendente assunto a tempo indeterminato con contratto a tempo parziale da 24 ore a 30 ore settimanali.
La Sezione, preliminarmente:
- dà atto dei precedenti e non uniformi pareri espressi in merito da diverse sezioni regionali;
- premette l'irrilevanza dell'operazione prospettata ai fini dell'applicazione dell'art. 9, comma 1, del d.l. 78/2010, convertito in legge n. 122/2010;
- rammenta che l'aumento di spesa derivante va conteggiato nelle spese di personale ai fini del rispetto dei vincoli imposti dall'art. 1, comma 562 (o 557), della legge n. 296/2006;
- richiama il disposto dell'art. 3, comma 101, della legge n. 244/2008 (Finanziaria 2008), relativo alla trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno;
- riprende i contenuti della circolare del Dipartimento per la Funzione Pubblica (d'intesa con la Ragioneria Generale dello Stato) n. 46078/2010 del 18.10.2010 che sembra equiparare l'incremento orario alla trasformazione a tempo pieno e, quindi, a nuova assunzione;
quindi, formula il proprio avviso come segue: "... in attesa di un auspicabile chiarimento a livello normativo, prendendo atto delle interpretazioni sopra riportate, appare plausibile la limitazione del disposto di cui all'art. 1, comma 101, della LF n. 244/2007 al solo caso, specificamente previsto dalla norma, della trasformazione del rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno, non invece al mero incremento di ore (salvo i casi di fattispecie potenzialmente elusive della lettera e dello spirito della norma)" (tratto da www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Corte di conti. Progressioni orizzontali pagate dal 2014. Blocco dei contratti, non della carriera.
Porte aperte per le progressioni orizzontali a valenza giuridica, ma non economica.

Il via definitivo giunge dalla Corte dei Conti, Sezioni riunite che, con la deliberazione 24.10.2012 n. 27, ha confermato l'orientamento prevalente sulla possibilità di prevedere, nonostante i blocchi, delle progressioni economiche che verranno pagate dal 2014.
Tutto nasce dall'articolo 9, comma 21, Dl 78/2010, che prevede che le progressioni di carriera, comunque denominate, e i passaggi tra le aree eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, solo ai fini giuridici.
La differenza tra progressione verticale e orizzontale (si veda la scheda) è fondamentale, ma ai fini dell'applicazione della sospensione temporale voluta dal Dl 78/2010, sembra non esserci differenza. Infatti, la Corte dei conti, confermando un orientamento prevalente, ha sancito che anche le progressioni orizzontali possono essere effettuate nel triennio 2011-2013 a rilevanza solo giuridica, ma non economica. E questo ha effetti critici sulla contrattazione dei singoli enti.
Da una parte si dà la possibilità al personale di procedere all'interno della categoria, ancorché senza alcuna retribuzione fino al 2014. Dall'altra, tali somme "teoriche" non si possono destinare ad altri istituti. Quindi, in sintesi, se si fanno le progressioni orizzontali avremo due effetti: i "beneficiari" delle progressioni non vedranno un euro sino al 2014; gli altri dipendenti si vedranno decurtate, da subito, le risorse disponibili per il finanziamento degli altri istituti (indennità e performance).
A questo punto conviene procedere con la massima cautela e prudenza, perché va posta un'altra questione: il fondo dell'anno 2014 sarà in grado di sostenere il pagamento di tutte le progressioni stabilite senza effetti economici? E non si tratta solamente di una questione di equilibrio tra risorse stabili e finanziamento dell'istituto, ma il tutto si sposta sulla possibilità o meno di garantire i servizi che hanno remunerazioni già fissate dai contratti nazionali quali, ad esempio, il turno o la reperibilità.
Insomma, un uso massiccio delle progressioni orizzontali giuridiche, ma non economiche, del proprio personale dipendente rischia di mettere in ginocchio il fondo; l'organo di revisione è chiamato a vigilare sulla legittimità sulla compatibilità economica della contrattazione integrativa decentrata. Massima allerta quindi sugli eventuali comportamenti elusivi degli enti locali (articolo Il Sole 24 OPre del 06.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

LAVORI PUBBLICIContratti di disponibilità, spese fuori dal Patto. Corte conti Lombardia sui vincoli di bilancio dei comuni.
Non rientra nel Patto di stabilità la spesa dell'ente locale sostenuta come corrispettivo di un contratto di disponibilità relativo ad un'opera privata destinata ad un pubblico servizio, a condizione che il privato assuma il rischio di costruzione e quello di disponibilità o di domanda; se nel contratto si prevede un prezzo per il trasferimento della proprietà dell'immobile, la spesa deve essere invece essere classificata come spesa per investimento e determina un indebitamento per l'ente locale.
E' quanto afferma la Corte dei conti, sezione regionale della Lombardia con l'articolato parere 23.10.2012 n. 439 che prende in esame alcuni profili inerenti l'impatto sulla disciplina contabile degli enti locali derivante dalla stipula di un contratto di disponibilità con il quale (articolo 160-ter del Codice dei contratti pubblici) si affida, a rischio e a spesa dell'affidatario, la costruzione e la messa a disposizione a favore dell'amministrazione aggiudicatrice di un'opera di proprietà privata destinata all'esercizio di un pubblico servizio, a fronte di un corrispettivo.
La norma del Codice prevede che al privato sono corrisposti: un canone di disponibilità e, eventualmente, un contributo in corso d'opera, e/o un prezzo di trasferimento della proprietà del bene immobile. Rispetto a questi elementi una amministrazione provinciale ha posto alla magistratura contabile due quesiti: se la stipula del contratto di disponibilità incida sulla capacità dell'ente locale di indebitarsi ai sensi dell'articolo 204 del testo unico sugli enti locali e se i canoni di disponibilità ai fini del calcolo per il rispetto degli obiettivi del Patto di stabilità interno devono essere imputati alla spesa corrente o alla spesa per investimenti.
Per decidere se la spesa inerente l'infrastruttura realizzata in esecuzione del contratti di disponibilità possa essere considerata fuori dal bilancio dell'ente (off balance) la Corte richiama le decisioni Eurostat (in particolare quella dell'11.02.2004 e gli aggiornamenti del 2010) e precisa che i beni oggetto di operazioni di Partenariato pubblico privato (Ppp), quale è quella inerente la stipula di un contratto di disponibilità, non devono essere registrati nei conti delle p.a., ai fini del calcolo dell'indebitamento netto e del debito, solo se c'è un sostanziale trasferimento di rischio dalla parte pubblica alla parte privata (e ciò avviene nel caso in cui il soggetto privato assume il rischio di costruzione e almeno uno dei due rischi: di disponibilità o di domanda (connesso alla variabilità della domanda indipendentemente dalla qualità del servizio prestato).
La Corte dei conti sottolinea in particolare che, nel silenzio dell'art. 160-ter del Codice (che non indica i parametri alla stregua dei quali dovrebbe essere quantificato il canone di disponibilità), occorre «accertare che in concreto l'entità del canone non sia tale da coprire anche i costi del finanziamento». Anche in sede di contabilizzazione (e, quindi, nel rispondere al secondo quesito posto) la Corte dei conti richiama l'esigenza di verificare se dalla stipula del contratto derivi per il privato l'assunzione di almeno due dei tre rischi citati nella decisione Eurostat.
Pertanto esclusivamente nell'ipotesi in cui, applicando rigorosamente il criterio del riparto dei rischi tra soggetto pubblico e privato come evidenziato da Eurostat, il contratto di disponibilità non costituirà in concreto una forma di indebitamento e sarà possibile non iscrivere in bilancio il canone di disponibilità quale spesa di investimento. Diversamente, laddove in capo all'amministrazione sia prevista la facoltà di riscatto occorrerà calcolarlo come spesa per investimento in quanto forma di indebitamento (articolo ItaliaOggi dell'08.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGOIl medico curante rischia il danno erariale. Malattia, meglio visitare i pazienti.
Rischia il danno erariale il medico curante che sottoscrive certificati di malattia senza accertare la patologia dei propri assistiti. Infatti, nella sua attività, egli deve porre la massima attenzione nel compilare i certificati dei propri pazienti, con particolare riguardo ai lavoratori dipendenti pubblici. In particolar modo quando le patologie sono ricorrenti, il medico non può fondare la propria certificazione sulle semplici dichiarazioni dei propri pazienti, ma deve abbinarla ad esami strumentali che avvalorino i sintomi dichiarati. In caso contrario, non può che rimarcarsi una grave negligenza nello svolgimento dell'attività medica.
È quanto ha sancito la sezione giurisdizionale della Corte dei conti Toscana, nel testo della recente sentenza 11.10.2012 n. 479 che ha condannato un medico di base «colpevole» di aver stilato numerose certificazioni mediche nei confronti di un proprio paziente, dipendente pubblico, il quale li ha successivamente utilizzate per evitare di andare al lavoro e dedicarsi alla piena attività di «bomber» in una squadra di calcio militante in Lega Dilettanti.
Posto che il comportamento doloso del dipendente è stato accertato come foriero di danno erariale, pari alle retribuzioni percepite durante il «falso» periodo di malattia, oltre alla rifusione del danno all'immagine per l'eco che la vicenda ha avuto sui mezzi d'informazione, il collegio toscano ha altresì stigmatizzato la condotta del medico curante che, di fatto, ha agevolato la commissione dell'illecito. Condotta che ha portato alla conclusione di dover rifondere l'erario, ancorché in via sussidiaria, per oltre 10 mila euro di danno.
Nel caso in esame, ha sottolineato il collegio, si è in presenza di 39 certificazioni di malattia che il medico ha stilato a favore del soggetto convenuto. Certificazioni che, essendo fondate spesso sulle semplici dichiarazioni dello stesso, evidenziano «una grave negligenza nello svolgimento dell'attività medica». La negligenza del medico, quindi, ha portato il dipendente/calciatore a potersi assentare (formalmente in maniera ineccepibile) dal servizio con grave danno per l'Erario.
Infatti, una condotta più attenta avrebbe portato il medico ad abbinare le certificazioni delle patologie ad esami strumentali che avrebbero potuto avvalorare o meno, sul piano oggettivo, i sintomi dichiarati dal proprio paziente e non, invece, a fondarle su semplici dati soggettivi (articolo ItaliaOggi dell'08.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

NEWS

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Il ricongiungimento diventa una stangata.
Nessuna soluzione in vista: almeno per ora. Chi si trova a dover pagare un'enormità per ricongiungere due periodi di contribuzione presso istituti previdenziali diversi (per lo più chi deve ricongiungere i versamenti nell'Inps) no troverà risposte nella legge di Stabilità.

I relatori sono pessimisti per via di mancanza di risorse ... (articolo L'Unità dell'11.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALINiente tavolini sulle piazze. Nelle aree artistiche stop a ombrelloni e seggiole. Direttiva del ministro ai Beni culturali sulle attività commerciali in zona pubblica.
Stop a sedie, tavolini e ombrelloni indecorosi. Ciò in quanto l'esercizio diffuso e talora incontrollato di attività commerciali, nell'ambito di aree pubbliche di particolare valore storico, artistico e paesaggistico, può determinare la compromissione delle esigenze di tutela del patrimonio culturale con effetti pregiudizievoli anche sullo sviluppo e la promozione del turismo culturale.
Insomma, per il ministro Ornaghi, è giunto il momento di far rispettare il codice Urbani e fornire, quindi, alle soprintendenze, nonché indirettamente ai comuni, le indicazioni tecnico-operative per valorizzare il patrimonio di cui l'Italia è ricca.
Le istruzioni sono contenute nella «Direttiva 10.10.2012 del ministro per i Beni e le attività culturali concernente l'esercizio di attività commerciali e artigianali su aree pubbliche in forma ambulante o su posteggio, nonché di qualsiasi altra attività non compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio culturale», e inviata alla Corte dei conti per la prescritta registrazione.
La ricognizione. Innanzitutto, secondo il ministro è necessario effettuare una prima ricognizione dei complessi monumentali e degli immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici rilevanti, nelle cui adiacenze si svolgono attività commerciali su area pubblica.
E ciò, al fine di valutare se sono state rispettate le prescrizioni poste e se le amministrazioni locali, nell'autorizzare il commercio su area pubblica, si sono attenute a quanto prescritto dall'art. 52 del codice (dlgs 42/2004). Perché compete ai comuni, formalmente, individuare le aree nelle quali vietare, o sottoporre a particolari condizioni, l'esercizio dell'attività, come pure reprimere il commercio non autorizzato.
Piazza con vista. A prescindere, comunque, dal rapporto di collaborazione con gli enti locali, per il ministro, vanno utilizzati gli strumenti ammessi dal codice per inibire usi non consentiti. A tale proposito, al punto 3.2.1. della direttiva, è richiamato il fatto che le piazze, vie, strade e altri spazi aperti, se di proprietà pubblica, sono da considerarsi automaticamente vincolati qualora realizzati da oltre 70 anni con il divieto, quindi, del loro utilizzo per fini non compatibili tra i quali vanno fatti rientrare il commercio ambulante ma anche la concessione di suolo pubblico per installare tavolini e sedie.
E ciò fino alla verifica, «con esito negativo» dell'eventuale interesse culturale. Peraltro, precisa anche il ministro, per le aree non soggette a specifico vincolo ma, costituenti la cornice ambientale di beni culturali direttamente tutelati, si dovrà impedire che – specie mediante l'installazione di banchetti o strutture che dir si voglia, sia pregiudicata la visuale dei beni direttamente vincolati.
Interessi collettivi. Se dovranno essere i comuni, tuttavia, per primi, a condividere i contenuti della «direttiva decoro», ciò nonostante, precisa il ministro Ornaghi, non va trascurato il fatto che destinataria del provvedimento è anche la «generalità dei consociati», in quanto titolare di un diritto di uso pubblico delle aree stesse, da esercitarsi nel rispetto delle prescrizioni e dei divieti impartiti a difesa del superiore interesse inerente la tutela dei beni».
Insomma, non è un caso se la direttiva richiama anche due pronunciamenti, rispettivamente della Corte costituzionale (247/2010) e del Consiglio di stato (482/2011) con i quali viene posto in rilevo come le vie e le piazze appartengono, di fatto, al patrimonio storico-culturale e, in quanto tale ne devono trarre vantaggio i cittadini tutti (articolo ItaliaOggi del 10.11.2012).

PUBBLICO IMPIEGODall'Inps le istruzioni operative. Regole «ante 2010» per il Tfs degli statali.
TRANSIZIONE/ In attesa dell'adeguamento delle procedure informatiche si terrà conto solo delle anzianità maturate fino al 2010.
Il trattamento di fine servizio (Tfs) dei dipendenti pubblici continuerà a essere calcolato secondo le regole vigenti al 31.12.2010.

Infatti, a seguito della sentenza della Corte costituzionale 223/2012 che ha dichiarato la incostituzionalità dell'articolo 12, comma 10, del Dl 78/2010, l'Inps ha emanato le prime istruzioni operative (messaggio 09.11.2012 n. 18296) a seguito del Dl 185/2012 che ha abrogato retroattivamente la norma oggetto di censura.
Fino al 2010, i trattamenti di fine servizio (buonuscita per gli statali ex Enpas e indennità premio servizio per gli enti locali/sanità ex Inadel) erano calcolati prendendo a riferimento la retribuzione annua dell'ultimo giorno di servizio per gli statali, mentre per gli altri valeva la retribuzione dell'ultimo anno.
Tale importo, rapportato all'80%, costituiva la base di calcolo da moltiplicare per gli anni utili per i quali vi era stato versamento della contribuzione. Era considerato anno intero la frazione non inferiore a sei mesi e un giorno, tralasciando quelle inferiori. L'importo veniva a sua volta diviso per 12 o per 15 a seconda se la prestazione era a carico dell'ex Enpas oppure ex Inadel.
Con la manovra estiva del 2010, al fine di contenere ulteriormente i costi del pubblico impiego, si stabilì che con effetto dal 01.01.2011 per i lavoratori della pubblica amministrazione, ai quali il computo dei trattamenti di fine servizio comunque denominati non era già regolato in base a quanto previsto per il personale in regime di Tfr (articolo 2120 del codice civile), il calcolo dovesse avvenire in base alle regole civilistiche, con applicazione dell'aliquota del 6,91 per cento.
Il decreto stabilisce, altresì, che i trattamenti saranno riliquidati d'ufficio entro un anno dall'entrata in vigore e –in ogni caso– non si provvederà al recupero a carico del dipendente delle eventuali somme già erogate in eccedenza. In attesa dell'adeguamento delle procedure informatiche, i Tfs saranno erogati in via provvisoria tenendo conto delle sole anzianità maturate fino al 31.12.2010 (articolo Il Sole 24 Ore del 10.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Se i consiglieri cambiano casacca è necessario rivederne la composizione. Commissioni col bilancino. Va rispettato il criterio proporzionale del Tuel.
È necessario provvedere a un riequilibrio generale delle commissioni consiliari permanenti originariamente costituite se, a fronte dei molteplici mutamenti politici intervenuti nel tempo, si è modificata la compagine dei consiglieri e, quindi, la composizione dei gruppi? Il consigliere che ha cambiato gruppo, se riveste le funzioni di presidente di una commissione consiliare, deve continuare a svolgere tali funzioni fino al termine del mandato oppure si deve procedere alla sua sostituzione?

Le commissioni consiliari previste dall'articolo 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dall'apposito regolamento comunale con l'unico limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione.
Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio devono essere il più possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse ne sia riprodotto il peso numerico e di voto.
Il caso prospettato si inquadra nell'ambito dei possibili mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti.
Il principio generale del divieto di mandato imperativo, sancito dall'articolo 67 della Costituzione, assicura ad ogni consigliere l'esercizio del mandato ricevuto dagli elettori –pur conservando verso gli stessi la responsabilità politica– con assoluta libertà, ivi compresa quella di far venir meno l'appartenenza dell'eletto alla lista o alla coalizione di originaria appartenenza (cfr Tar, Trentino-Alto Adige, Trento n. 75 del 2009).
Va da sé che i mutamenti in parola modificano i rapporti tra le forze politiche presenti in consiglio, incidendo sul numero dei gruppi ovvero sulla consistenza numerica degli stessi, e ciò non può non influire sulla composizione delle commissioni consiliari che deve, pertanto, adeguarsi ai nuovi assetti.
La fattispecie prospettata va, pertanto, inquadrata nell'ambito di un riequilibrio generale degli assetti presenti nelle commissioni.
Quanto al rispetto del criterio proporzionale previsto dal citato articolo 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000, il legislatore non precisa come lo stesso debba essere declinato in concreto. Spetta al regolamento, cui sono demandate la determinazione dei poteri delle commissioni nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, stabilire i meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
Secondo quanto osservato dal Tar Lombardia, nella sentenza n. 567/1996, il criterio proporzionale è posto dal legislatore come direttiva suscettibile di svariate opzioni applicative, egualmente legittime purché coerenti con la ratio che quel principio sottende, e che consiste nell'assicurare in seno alle commissioni la maggiore rappresentatività possibile. Al raggiungimento di questo risultato concorrono, come esperienza e prassi dimostrano, non soltanto la rappresentanza individuale proporzionata alla consistenza delle forze politiche presenti nell'organo elettivo, ma anche – quando la varietà di consistenza e di numero dei gruppi non consenta di conseguire l'obiettivo con precisione aritmetica, per quozienti interi  meccanismi tecnici (quali il voto ponderato, il voto plurimo e simili) idonei ad assicurare a ciascun commissario un peso corrispondente a quello della forza politica che rappresenta.
Nel caso di specie se, in materia di commissioni consiliari, il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale prevede che la ripartizione dei membri delle commissioni da parte dei singoli gruppi deve essere effettuata con un criterio di proporzionalità –garantendo, comunque a ciascun consigliere la presenza in almeno una commissione consiliare– e che nel caso di dimissioni, decadenza od altro motivo che renda necessaria la sostituzione di un consigliere, il presidente del gruppo consiliare di appartenenza designi un altro rappresentante, è necessario provvedere, anche al fine di adeguare la composizione delle commissioni al criterio proporzionale previsto dal citato art. 38 del dlgs 267/2000, ad una revisione complessiva delle stesse con una deliberazione del consiglio comunale che prenda atto della designazione dei consiglieri in rappresentanza dei gruppi neo costituiti e della sostituzione dei consiglieri.
Il disposto recato dal regolamento comunale in combinato disposto con il citato art. 38 Tuel è applicabile anche alla ipotesi prospettata del consigliere eletto presidente di una commissione in rappresentanza di un gruppo dal quale successivamente si sia dissociato (articolo ItaliaOggi del 09.11.2012).

PUBBLICO IMPIEGOLEGGE ANTICORRUZIONE/ Per gli enti locali occorreranno specifiche intese in Unificata. Piani di legalità nei pubblici uffici. Codici di condotta, turnover dei dirigenti, incarichi ai raggi X.
Definizione di un piano e individuazione di un responsabile (di norma il segretario) per le attività di contrasto della corruzione. Adozione di un codice di comportamento dei dipendenti. Turnover dei dirigenti, specialmente nei settori più a rischio, e rafforzamento del contrasto ai casi di conflitto di interessi. Trasparenza e pubblicità sui conferimenti di incarichi discrezionali e sui tempi di conclusione dei procedimenti amministrativi.

Sono questi alcuni dei principali obblighi imposti dalla legge recante «disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione», approvata in via definitiva dal Parlamento e già firmata dal capo dello stato (il testo è atteso in Gazzetta Ufficiale).
Va chiarito fin da subito che tale provvedimento si applica a tutte le p.a. di cui all'art. 1, comma, 2, del dlgs 165/2011, ivi compresi, quindi, regioni, enti locali, nonché enti pubblici e soggetti di diritto privato sottoposti al loro controllo.
Per gli enti territoriali, però, occorreranno specifiche intese, da raggiungere in Conferenza unificata entro 120 giorni dall'entrata in vigore della legge, per definirne operativamente le modalità applicative.
In primo luogo, andranno specificati tempi e modalità di definizione del piano triennale di prevenzione della corruzione, a partire da quello relativo agli anni 2013-2015. In base alla disciplina generale, il piano deve adottato dall'organo di indirizzo politico di ciascuna pa entro il 31 gennaio e deve contenere la valutazione del diverso livello di esposizione degli uffici al rischio di corruzione e l'indicazione degli interventi organizzativi volti a prevenire il medesimo rischio. Esso dovrà essere coerente con le linee guida contenute nel piano nazionale anticorruzione approvato dalla commissione nazionale per la valutazione, l'integrità e la trasparenza della pubblica amministrazione (Civit), che è stata individuata come l'autorità nazionale in materia.
Il piano, che andrà trasmesso alla regione interessata e al dipartimento della funzione pubblica, dovrà essere predisposto dal responsabile anticorruzione, che negli enti locali coinciderà, di norma e salva diversa e motivata determinazione degli organi di indirizzo politico, con il segretario.
Quest'ultimo vede così ulteriormente rafforzate le proprie prerogative in materia di controllo, già fortemente ampliate (sul versante della regolarità amministrative e contabile) dal recente dl 174/2012.
Nella sua nuova veste di responsabile anticorruzione, il segretario, oltre a predisporre il piano triennale, dovrà verificarne la concreta attuazione, curando anche la selezione e la formazione del personale destinato a operare in settori particolarmente esposti alla corruzione, assicurandone altresì l'effettiva rotazione.
Per compensare tali maggiori responsabilità (e i connessi risvolti di natura disciplinare ed erariale per i casi di omissione di controllo), la nuova legge prevede che la revoca del segretario da parte del sindaco per gravi violazioni d'ufficio debba essere inviata dal prefetto alla Civit, che deve pronunciarsi entro 30 giorni. Decorso tale termine la revoca diventa efficace, salvo che l'autorità rilevi il suo collegamento con le attività di prevenzione anticorruzione.
Gli enti locali dovranno anche adottare norme regolamentari relative all'individuazione degli incarichi vietati ai dipendenti pubblici e dotarsi di un codice di comportamento che integri e specifichi quello generale che dovrà essere definito a livello nazionale. Il codice integrativo dovrà essere adottato, previo parere dell'organismo interno di valutazione (Oiv), sulla base dei criteri, delle linee guida e dei modelli predisposti dalla Civit ed una copia dovrà essere consegnata ai dipendenti all'atto della assunzione, con obbligo di sottoscrizione.
Rafforzati, infine, gli obblighi di pubblicità e trasparenza, con riguardo, innanzitutto, agli esiti delle verifiche periodiche sul rispetto dei tempi di conclusione dei procedimenti amministrativi. Le pa dovranno anche trasmettere alla funzione pubblica, tramite gli Oiv, tutti i dati utili (compresi titoli e curricula) a rilevare le posizioni dirigenziali attribuite a persone, anche esterne alle pubbliche amministrazioni, individuate discrezionalmente dall'organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione.
La legge ha comunque delegato il governo ad adottare un decreto legislativo «per la disciplina organica degli illeciti, e relative sanzioni disciplinari, correlati al superamento dei termini di definizione dei procedimenti» e uno per normare in modo organico gli adempimenti pubblicitari a carico della p.a. L'esecutivo è stato anche delegato a emanare un provvedimento per il riordino della disciplina delle cause di incandidabilità, che dovrebbe vedere la luce in tempi brevi.
Infine, vanno segnalate le modifiche apportate al Tuel per adeguare le relative disposizioni alle nuove fattispecie di reato introdotte.
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La velocità di conclusione dei procedimenti entra nel piano anticorruzione. Non c'è trasparenza senza controllo dei tempi. Il controllo dei tempi di conclusione dei procedimenti amministrativi entrano a far parte del piano anticorruzione.
Lo stabilisce la legge anticorruzione, che interviene in diversi punti allo scopo di riformare la legge sul procedimento amministrativo, la 241/1990, per garantire la maggiore trasparenza possibile nell'esercizio dell'azione amministrativa.
Si tratta di disposizioni che si aggiungono a quanto già prevede l'articolo 2, commi 9 e seguenti, della legge 241/1990, i quali prevedono responsabilità disciplinari e contabili nei confronti dei dirigenti che non rispettino i termini dei procedimenti, oltre a sistemi sostitutivi nel caso di inerzia.
Dietro il mancato rispetto dei termini dei procedimenti amministrativi possono, in effetti, annidarsi situazioni di corruttela o, comunque, azioni volte a favorire la conclusione di procedimenti con strade privilegiate rispetto ad altri.
Col rischio che i procedimenti conclusi prima per favorire qualcuno, possano comportare ritardi ingiusti nei confronti degli altri.
Nell'articolo 11 del codice di comportamento allegato ai contratti collettivi di lavoro, è specificato che «nella trattazione delle pratiche egli rispetta l'ordine cronologico e non rifiuta prestazioni a cui sia tenuto motivando genericamente con la quantità di lavoro da svolgere o la mancanza di tempo a disposizione».
Gli uffici e i dipendenti, dunque, debbono rispettare la tempistica, secondo l'ordine di ricezione delle istanze o di attivazione delle pratiche, evitando di anticipare i tempi o ritardarli ad arte, allo scopo di suscitare elementi di possibile corruttela.
Il disegno di legge anticorruzione non solo indica il monitoraggio dei tempi come uno degli elementi costitutivi del piano triennale di prevenzione della corruzione, ma in ogni caso impone alle amministrazioni il controllo periodico del rispetto dei tempi procedimentali, allo scopo di eliminare tempestivamente le anomalie e di esporre i risultati del monitoraggio sul sito web.
I cittadini, in questo modo, potranno contare sulla possibilità di capire il grado generale di puntualità e rispetto dei termini procedimentali.
Le amministrazioni, comunque, dovranno fare ancora di più. Il disegno di legge le obbliga ad attivare definitivamente sistemi telematici di relazione con i cittadini. Tramite strumenti di identificazione informatica da mettere in azione nel rispetto del codice dell'amministrazione digitale, ciascun cittadino dovrà poter accedere a tutte le informazioni concernenti i procedimenti e i provvedimenti che lo riguardano. In particolare, il singolo soggetto interessato, potrà verificare lo stato della procedura e i relativi tempi.
In questo modo, oltre al controllo interno sul rispetto dei tempi, si crea anche un sistema di controllo esterno, generalizzato sul monitoraggio e specifico, invece, per i singoli procedimenti.
Il disegno di legge anticorruzione, in sostanza, chiude il cerchio del sistema di garanzia delle tempistiche procedimentali, innescando una piena trasparenza che dovrebbe costituire un deterrente per la corruzione (articolo ItaliaOggi del 09.11.2012).

CONSIGLIERI COMUNALINuovi obblighi per i vertici politici dal dl salva-enti che ieri ha incassato la fiducia. Una relazione all'inizio e una alla fine del mandato.
Regioni, province e comuni chiamati alla trasmissione della relazione di fine legislatura alla Corte dei conti e alla pubblicazione della stessa sui propri siti internet istituzionali. In caso di inadempimento, scatteranno, per gli organi di vertice e i dirigenti responsabili sanzioni pecuniarie che prevedono il dimezzamento delle indennità di mandato e degli emolumenti. Presidenti di provincia e neosindaci redigeranno, entro tre mesi dal loro insediamento, una relazione di inizio mandato che dia conto della situazione finanziaria e patrimoniale dell'ente, nonché del suo livello di indebitamento.
Queste alcune delle novità apportate dal lavoro congiunto delle Commissioni permanenti affari costituzionali e bilancio, tesoro e programmazione della camera, al testo del decreto legge salva enti (il n. 174/2012) che proprio ieri ha incassato il voto di fiducia dall'aula di Montecitorio.
Relazione di fine legislatura. Con un restyling alle disposizioni recate dal dlgs n. 149/2011 (uno dei decreti delegati attuativi del federalismo fiscale), il decreto n. 174 rifà i contorni alla relazione di fine legislatura cui sono tenute le regioni, le province e le amministrazioni comunali. Innanzitutto sui tempi.
Per le regioni, viene precisato che entro dieci giorni dalla sottoscrizione della relazione da parte del presidente la stessa deve essere inoltrata alla competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti. Questa, entro un mese dalla ricezione, ne esprime valutazioni per iscritto che dovranno immediatamente essere rese pubbliche attraverso l'immissione sul sito internet istituzionale della regione. Se la regione non redige o pubblica online la relazione di fine legislatura, subentra un particolare regime sanzionatorio.
In pratica, al presidente e, in caso di mancata predisposizione, al responsabile delle servizio finanziario della regione viene ridotta della metà, con riferimento alle tre mensilità successive, la misura dell'indennità di mandato spettante e quella degli emolumenti. Il presidente dovrà altresì mettere sulla home page del sito il motivo della mancata pubblicazione della relazione. Per le province e i comuni, invece, la relazione di fine mandato deve essere redatta dal responsabile del servizio finanziario o dal segretario generale. Anche in questo caso, entro dieci giorni dalla sottoscrizione da parte del presidente della provincia o del sindaco dovrà essere trasmessa alla Corte dei conti. Previste sanzioni in caso di mancata redazione o di pubblicazione sul sito internet dell'ente.
Presidenti e sindaci, nonché i dirigenti responsabili, subiranno la riduzione alla metà, con riferimento alle tre successive mensilità, dell'indennità di mandato e degli emolumenti. I primi cittadini, inoltre, dovranno mettere in chiaro le motivazioni dell'omessa pubblicazione.
Relazione di inizio mandato. Entro tre mesi dall'insediamento, i presidenti delle province e i sindaci dovranno redigere una relazione di inizio mandato, ovvero una cartina al tornasole dei conti dell'ente. Infatti, lo scopo di tale relazione è quella di verificare la situazione finanziaria dell'ente, la consistenza del proprio patrimonio e la misura dell'indebitamento. A predisporla dovranno essere i responsabili dei servizi finanziari o i segretari generali. Se le risultanze della relazione dovessero far temere per la tenuta dei conti dell'ente, i presidenti e i sindaci sono autorizzati a ricorrere alle procedure per ristabilire il riequilibrio finanziario.
Nel silenzio della norma, il legislatore dovrebbe chiarire, magari anche prima del definitivo passaggio in aula previsto per martedì prossimo, l'organo cui dovrà essere inviata la relazione. Se alla Corte dei conti, nell'ambito dei controlli demandatale dall'art. 1, commi 166 e seguenti, della legge finanziaria 2006 o alla ragioneria generale dello stato. Infine, sull'onda mediatica delle vicende che hanno coinvolto esponenti politici in seno al Consiglio regionale del Lazio, il decreto modifica una disposizione contenuta all'articolo 5 del citato dlgs n. 149/2011.
In pratica, si permette alla Ragioneria generale dello stato di avviare proprie verifiche qualora si accerti un aumento non giustificato delle spese a favore dei gruppi consiliari e degli organi istituzionali dell'ente. La stessa ragioneria, inoltre, se dovesse verificare, attraverso le proprie banche dati, uno squilibrio finanziario dell'ente, dovrà darne immediata comunicazione alla competente sezione regionale della Corte dei conti (articolo ItaliaOggi del 09.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPRIVACY/ Provvedimento del Garante. Che dà anche una stretta al marketing selvaggio. Valutazione dipendenti al coperto.
Busta chiusa e web criptato per garantire la riservatezza. Valutazione ai dipendenti consegnate solo in busta chiusa o per via telematica.

Il Garante della privacy con il provvedimento 04.10.2012 n. 276 ha prescritto a un'azienda ospedaliera di adottare le misure idonee a garantire la riservatezza dei dati personali contenuti nei documenti di valutazione dei dipendenti.
Nel caso specifico un dirigente si è lamentato per aver ricevuto la propria scheda, in busta aperta, da personale amministrativo addetto a un'altra struttura dell'azienda. Il Garante ha accolto il ricorso e ha imposto al complesso sanitario di garantire maggiori tutele affinché il contenuto delle schede individuali di valutazione non possa essere letto neppure dal personale incaricato della consegna o da altre persone non autorizzate.
Possono ad esempio essere adottate modalità telematiche che consentano l'accesso al documento solo al dipendente interessato (certificandone anche l'avvenuta ricezione), oppure provvedendo a consegnare la valutazione opportunamente spillata o in busta chiusa.
CASELLARIO GIUDIZIALE APERTO ALLE P.A.
Con altro provvedimento il garante si è occupato di casellario giudiziale, rilasciando parere favorevole allo schema di decreto dirigenziale del ministero della giustizia che disciplina le modalità operative di consultazione diretta in via telematica del casellario giudiziale da parte delle pubbliche amministrazioni e dei gestori di pubblici servizi.
Le p.a. e gli enti che hanno in gestione servizi pubblici (ad esempio Poste spa, Enel spa, Italgas, Trenitalia) potranno consultare direttamente il casellario giudiziale, per acquisire informazioni sui precedenti penali e sui carichi pendenti, al fine di effettuare i controlli d'ufficio previsti dalla legge o di verificare le dichiarazioni sostitutive presentate da imprenditori e cittadini interessati, ad esempio, a partecipare a gare d'appalto e forniture o ad altri provvedimenti (ad esempio il rilascio della patente di guida).
Saranno consentiti, però, accessi selettivi ai soli dati giudiziari indispensabili agli accertamenti di competenza. Anzi viene creato ad hoc proprio il «certificato selettivo», ad uso degli enti pubblici
Sono state previste convenzioni tra il ministero della giustizia e i soggetti interessati che stabiliranno le condizioni e le regole tecniche per il rilascio dei «certificati selettivi».
Il garante ha chiesto inoltre di introdurre adeguate misure di sicurezza, soprattutto sul controllo degli accessi. La consultazione diretta del Sic (Sistema informativo del casellario) avverrà infatti mediante il Cerpa (Centro europeo ricerca e promozione dell'accessibilità), il sistema per la certificazione massiva gestito dall'ufficio centrale del casellario. Il Sic potrà essere consultato tramite tecnologia web service o tramite Pec, il servizio di posta elettronica certificata. L'Ufficio del casellario centrale garantirà la piena tracciabilità dei collegamenti telematici tra il Cerpa e i vari sistemi coinvolti. Verrà istituito il «Registro degli accessi al Sic», che consentirà all'amministrazione interessata di eseguire controlli informatizzati trimestrali, anche a campione, sulla rispondenza delle richieste dei certificati ai rispettivi procedimenti amministrativi. Le registrazioni e i log del sistema dovranno essere conservati per dieci anni.
LISTE INVALIDI PER LA PROTEZIONE CIVILE
Sempre dal Garante arrivano precisazioni per il piano di protezione civile relativa agli invalidi: i comuni devono chiedere l'elenco dei nominativi alle Asl e non all'Inps. L'Inps, infatti, non può inviare ai Comuni l'elenco degli invalidi perché nessuna norma lo autorizza a comunicare all'ente locale dati sulla salute delle persone che fruiscono delle prestazioni d'invalidità.
MARKETING SELVAGGIO
In materia di marketing, infine, Il Garante della privacy ha vietato il trattamento illecito dei dati di circa un milione di persone contenuti nel data base di una società che opera nel settore delle vendite per corrispondenza e del marketing diretto. La decisione (provvedimento 286/2012) è stata adottata in seguito agli esiti dell'attività ispettiva avviata su segnalazione di numerose persone che lamentavano di essere state disturbate con offerte commerciali indesiderate (articolo ItaliaOggi del 09.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATARiscaldamento, impianti finanziati. Aiuti fino al 40% dei costi per cittadini e aziende che cambiano. Il governo vara il nuovo Conto termico. I contributi fino a esaurimento fondi. A disposizione 900 mln..
Ai cittadini e alle piccole imprese che investono cento in energia termica, lo stato finanzierà 40. Impianti di riscaldamento inclusi.
Dare una sferzata alla produzione di energia termica da fonti rinnovabili e accelerare i progetti di riqualificazione energetica degli edifici pubblici sono, infatti, i due obiettivi dichiarati di un decreto ministeriale, varato ieri dal ministro allo sviluppo economico, Corrado Passera, di concerto con i ministri dell'ambiente e delle politiche agricole, Corrado Clini e Mario Catania.
Il dm, conosciuto anche come «conto termico», costruisce un nuovo sistema di incentivi per interventi di piccola caratura; in sostanza per piccole imprese e usi domestici. Nell'alveo delle agevolazioni rientrano anche le serre, finora scarsamente incentivate. Cittadini e imprese potranno, così, investire alcune migliaia di euro in nuovi impianti a energia rinnovabile, supportati da un'agevolazione che andrà a copertura del 40% dell'investimento e che sarà incassata entro un biennio. O in cinque anni per gli investimenti più costosi.
Le tecnologie termiche da fonti rinnovabili incentivate sono riscaldamento a biomassa, pompe di calore, solare termico e solar cooling. Sul versante pubblica amministrazione, invece, gli incentivi serviranno, a detta del ministero dello sviluppo economico, a «superare le restrizioni fiscali e di bilancio, che non hanno finora consentito alle amministrazioni di sfruttare le potenzialità» del risparmio energetico. Il conto termico servirà, quindi, a riqualificare gli edifici di proprietà pubblica dal punto di vista energetico. Vediamo come.
I fondi. Intanto va detto che i finanziamenti, che il decreto sul Conto termico mette a disposizione delle pubbliche amministrazioni, ammontano a 200 mln di euro per le pubbliche amministrazioni e a 700 mln di euro per i privati cittadini e le piccole imprese. Infatti, per le amministrazioni pubbliche il blocco alle erogazioni scatterà trascorsi due mesi dal raggiungimento dell'impegno di spesa annua cumulata in agevolazioni di 200 mln di euro. Mentre, per i privati, i condomini e le aziende, lo stop scatterà trascorsi 60 giorni dal raggiungimento dell'impegno di spesa cumulato annuo di 700 mln. Raggiunte tali soglie, bisognerà attendere un nuovo decreto interministeriale, che aggiorni il parco agevolazioni
Gli interventi. Per privati e aziende, il Conto termico finanzia: la sostituzione di impianti di climatizzazione invernale esistenti, con altri a pompe di calore elettriche o a gas, anche geotermiche; la sostituzione di impianti esistenti di climatizzazione invernale e riscaldamento delle serre con impianti di climatizzazione invernale alimentati da generatori a biomassa; l'installazione di collettori solari termici, anche abbinati a sistemi di solar cooling; la sostituzione di scaldacqua elettrici con scaldacqua a pompa di calore.
Per gli edifici delle p.a., oltre agli interventi di cui sopra, il Conto termico finanzia anche investimenti in isolamento termico, chiusure trasparenti e infissi, nuovi impianti con generatori di calore a condensazione e sistemi di schermatura e ombreggiamento di chiusure, fissi e mobili (articolo ItaliaOggi del 09.11.2012).

ENTI LOCALIUna controriforma sui controlli. Fa discutere la presenza dei ministeriali nei collegi dei revisori. La norma inserita nel dl 174 è di dubbia utilità. E se ne è accorto anche il Parlamento.
Le risposte legislative date sull'onda di uno sdegno generalizzato quasi sempre hanno prodotto effetti disastrosi che si sono trascinati negli anni. Il «rafforzamento» dei controlli negli enti locali disposto dal dl 174, presenta aspetti di controriforma del sistema delle autonomie e porta a duplicazione di controlli ed a soluzioni che destano sul piano operativo forti dubbi di fattibilità. Non si comprende la ratio della disposizione introdotta con il comma 1, lettera m dell'art. 3 del dl 174/2012.
Come sostenuto dall'Upi la nomina, da parte del prefetto, di un presidente del collegio dei revisori, di concerto con i ministeri dell'interno e dell'economia, nei comuni con popolazione superiore a 60 mila abitanti e quelli capoluogo di provincia, non appare assolutamente in linea con le prerogative di autonomia degli enti locali. E di questo sembrano essersene accorti i deputati di Montecitorio che in commissione hanno soppresso la norma.
Quanti dipendenti dei due ministeri avranno la professionalità ora richiesta per essere estratti a sorte come revisori in tali enti? Per essere estratti a sorte per tali enti, occorre essere iscritti ad albo professionale da almeno dieci anni, aver svolto almeno due incarichi di revisione negli enti locali per la durata di tre anni ciascuno ed infine dimostrare di aver acquisito i crediti formativi specifici. La nuova disposizione non migliora l'indipendenza e la professionalità del revisore ed aumenta in modo considerevole il costo.
Quanto costa e quanto tempo richiede una trasferta da Roma ad un comune non servito dall'alta velocità per esaminare un atto quale una variazione di bilancio che storna fondi o la sottoscrizione di un modello quale tipo quello delle spese di rappresentanza?
L'esito dei controlli con revisori ministeriali nelle Asl non è certo stato esaltante. Abbiamo appreso di recente che in quelle della Calabria non c'era neppure la contabilità.
Il sistema di elezione dei revisori viene modificato prima dell'entrata in funzione attribuendo circa 250 incarichi a dipendenti ministeriali (la cui indipendenza e professionalità non è definita) con la speranza di rafforzare il monitoraggio degli obiettivi di finanza pubblica.
La scarsa conoscenza da parte di chi scrive le norme degli adempimenti a cui sono tenuti i revisori, combinata con l'accavallarsi frenetico della normativa porta a soluzioni che appaiono assurde.
L'auspicio è che la disposizione sia abrogata in via definitiva seguendo l'indicazione delle Commissioni affari costituzionali e bilancio della Camera dei deputati.
Tanti aspetti del nuovo sistema dei controlli delineato dall'art. 3 del decreto 174, destano perplessità e la fretta della conversione in legge non aiuta quegli approfondimenti che sarebbero necessari. Si è aperta una caccia ad acquisire maggiori poteri di controllo da parte di troppi interlocutori. La norma d'altra parte non è per nulla organica ed amplia compiti ai segretari, ai responsabili dei servizi finanziari, ai servizi ispettivi del Mef, alla Guardia di finanza, alla Corte dei conti e anche ai revisori.
Il controllo di regolarità amministrativa e contabile deve ora essere effettuato da struttura interna sia in via preventiva che successiva (con la tecnica del campionamento) sotto la direzione del segretario e le risultanze sono trasmesse periodicamente all'organo di revisione. A cosa serve un controllo a posteriori effettuato dalle stesse persone che l'hanno esercitato ex ante? Tale nuova disposizione come si raccorda con l'affidamento all'organo di revisione dello stesso controllo con uguale criterio (principi di revisione aziendale) e sulle stesse materie come indicato dall'art. 239 del Tuel? Ed ancora, a dimostrazione che la fretta porta a confusione; il citato art. 3 al comma 1, lettera o), amplia i pareri obbligatori dei revisori su proposte di atti fondamentali della gestione e tra questi i regolamenti di contabilità, economato-provveditorato, patrimonio e di applicazione dei tributi locali. La norma richiede un «motivato giudizio di congruità, coerenza e di attendibilità contabile delle previsioni di bilancio» anche per il parere sui regolamenti. Come esprimere il motivato giudizio nell'articolazione richiesta sui regolamenti richiede un'enorme fantasia.
È giusto ampliare la funzione di collaborazione del revisore perché i pareri obbligatori preventivi hanno evitato in tanti casi gravi irregolarità e contribuito a mantenere gli equilibri finanziari, ma non è possibile, in un Paese normale, aumentare continuamente i compiti, responsabilità e sanzioni senza preoccuparsi dell'iniquità dei compensi. Forse, la mancata congruità dei compensi non rende possibile l'adeguato svolgimento di funzioni solo per alcuni.
Un auspicio: fermiamoci un attimo! La confusione per gli enti locali è già troppa, il termine del 31 ottobre era stabilito per approvare il bilancio del nuovo anno e non di quello in corso, per gli organismi partecipati è arduo comprendere quali siano le norme sono vigenti e la loro portata ed inoltre per l'Imu, stante l'incertezza del gettito, è autorizzato l'«accertamento virtuale».
Apriamo un confronto fra gli attori del controllo per elaborare una normativa di rafforzamento dei controlli sostanziali, non invasiva e razionale. Una normativa che eviti costose duplicazioni e preveda una stretta relazione fra controlli interni, organo di revisione e Sezione regionale della Corte dei conti a cui affidare la «regia» e il controllo sui controlli (articolo ItaliaOggi del 09.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

VARI: Circolare dei trasporti. Patente smarrita, ecco il nuovo modello per licenza europea.
Chi deve richiedere una nuova patente di guida per smarrimento distruzione o furto deve presentarsi a un ufficio di polizia con un documento di riconoscimento e due fotografie formato tessera facendo attenzione ad apporre correttamente anche la firma autografa sul nuovo modello di domanda.

Lo ha chiarito il Ministero dei Trasporti con la nota 31.10.2012 n. 29619 di prot..
Il rinnovo della patente di guida per smarrimento, sottrazione o distruzione è disciplinato dal dpr 104/2000. Con circolare 18/6/2001 il ministero dei trasporti ha illustrato concretamente le modalità operative per il corretto svolgimento di questa formalità. In pratica l'interessato può presentarsi a un qualsiasi ufficio di polizia, entro 48 ore, con un documento di riconoscimento e due fotografie formato tessera.
Espletate tutte le formalità l'utente stradale uscirà dal comando con il permesso provvisorio di circolazione già compilato, valido per 90 giorni. Sempre che la patente sia duplicabile e non risulti scaduta. In questo caso infatti a parere dell'organo tecnico centrale solo gli uffici della motorizzazione potranno dare adeguata assistenza agli utenti interessati rilasciando anche un permesso provvisorio di circolazione. Con l'entrata in vigore del dlgs 59/2011, dal 19/01/2013, cambieranno le categorie delle patenti di guida e arriverà anche un nuovo modello di patente, la licenza europea.
Queste importanti novità in arrivo condizioneranno anche la procedura per il rilascio del duplicato della licenza di guida. Oltre alle fotografie l'interessato d'ora in poi dovrà apporre sulla domanda di duplicato anche la propria firma autografa. Questa annotazione dovrà infatti obbligatoriamente essere riprodotta anche sul duplicato della patente di guida (articolo ItaliaOggi del 06.11.2012).

ENTI LOCALIEnti locali. Sono i possibili addetti da trasferire per effetto di accorpamenti e riduzione di funzioni. Fino a 12mila eccedenze nelle Province.
LA CONSULTA/ Oggi udienza davanti alla Corte costituzionale sui ricorsi presentati da 8 Regioni contro la stretta del salva-Italia di dicembre.

Per una partita sulle eccedenze nella Pa che si avvia alla conclusione, come spiega l'articolo qui in alto, ce n'è un'altra che è appena al fischio di inizio e che si concluderà nel 2014. A giocarla saranno vecchie e nuove Province.
Sono 12mila infatti i dipendenti che rischiano di dover essere ricollocati per effetto del doppio intervento del taglio di 35 enti di area vasta nelle Regioni ordinarie e della riduzione a 3 (ambiente, trasporti, edilizia scolastica) delle funzioni.
La stima è frutto di un'elaborazione del Sole 24 Ore. Che parte dagli ultimi numeri sul personale resi noti dall'Upi e li incrocia con la stretta avviata dal salva-Italia, proseguita dalla spending review e completata dal decreto sul riordino varato mercoledì. Dei circa 57mila lavoratori alle dipendenze delle amministrazioni provinciali, circa 27mila appartengono a quelle interessate dagli accorpamenti o dall'evoluzione in città metropolitane. Al loro interno può essere individuato un primo gruppo di 12mila unità "a rischio-eccedenza". Si tratta dei dipendenti delle Province che confluiranno in altri "enti di mezzo" e perderanno il titolo di capoluogo. Immaginando che questo venga fissato ovunque nel Comune più popoloso –anche se la legge consente ai sindaci interessati, anche a maggioranza, di disporre diversamente– e considerando che gli organi politici andranno concentrati in un unico "palazzo" poiché non ci saranno sedi decentrate, in teoria, gli unici lavoratori sicuri del posto sarebbero quelli che già risultano oggi occupati nel capoluogo.
Per gli altri partirebbe il ricollocamento presso uno degli uffici che gestiranno le tre funzioni rimaste di competenza provinciale oppure presso i Comuni che le erediteranno. A meno che le Regioni non decidano di tenerle per sé, gestendole in proprio o magari creando una struttura ad hoc. Il procedimento per il trasferimento del personale sarà molto simile a quello descritto qui in alto. con le specificità delineate dall'articolo 6 del Dl approvato la settimana scorsa e in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
È presumibile che l'iter occupi gran parte del 2013 e si concluda solo a ridosso della partenza dei nuovi enti fissata per il 01.01.2014. I criteri e le modalità da seguire saranno concertate con i sindacati. Ma se entro 30 giorni non si raggiungerà un accordo i presidenti di Provincia potranno avviare i passaggi di ruolo. Nel rispetto di un doppio vincolo: le dotazioni organiche saranno rideterminate tenendo conto dell'effettivo fabbisogno; per le eventuali deroghe conteranno i parametri di virtuosità già richiamati dalla spending.
Ulteriori novità sul fronte Province potrebbero arrivare oggi dalla Consulta che esaminerà il ricorso presentato da 8 Regioni (Lombardia, Piemonte, Veneto, Friuli, Lazio, Campania, Molise e Sardegna) contro l'articolo 23 del Dl salva-Italia del dicembre scorso che ha disegnato i futuri consigli provinciali come organi di secondo livello, eletti dai Comuni. In caso di accoglimento verrebbe meno una delle due gambe su cui si regge l'intera risistemazione delle Province e il Governo sarebbe costretto a correre ai ripari. Anche perché l'articolo 23 è l'unica disposizione dell'intera operazione-Province per cui l'Esecutivo ha già "cifrato" i potenziali risparmi. I 65 milioni quantificati all'epoca del salva-Italia ma prudenzialmente non messi a bilancio (articolo Il Sole 24 Ore del 06.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI: Giustizia. La legge anticorruzione rinvia a un decreto per disciplinare il nuovo sistema di controllo antimafia.
Una white list per gli appalti. L'informativa della Prefettura sostituita da un elenco in continuo aggiornamento.
LA PREVENZIONE/ Chi non è soggetto al rischio di infiltrazioni non guadagna l'immunità da accertamenti Basta poco per perdere l'iscrizione.

Tempi brevi per l'entrata in vigore di elenchi di imprenditori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa (articolo 1, commi 52 e 53, legge anticorruzione): entro 60 giorni un decreto del Presidente del Consiglio chiarirà le modalità di funzionamento, ed entro i successivi 60 giorni l'informativa antimafia "atipica" o "supplementare" sarà sostituita, in taluni settori, da un elenco (white list). I settori sono quelli più soggetti a rischi di infiltrazione (trasporti, smaltimento rifiuti, inerti, come da tabella allegata).

Fino ad oggi la Camera di commercio rilasciava certificati di iscrizione con una generica stampigliatura di validità antimafia, di frequente contraddetti da informative prefettizie di contenuto diverso, motivate caso per caso attraverso richiami a rapporti redatti dagli organi di investigazione. Le "informative" prefettizie sono tuttavia destinate ad esser sostituite da "comunicazione antimafia" (articolo 84, Dlgs 159/2011): nell'attesa dell'entrata in vigore del Codice antimafia del 2011 (dopo 24 mesi da un regolamento che ancora manca), nei settori più a rischio individuati dalla legge anticorruzione le informative non saranno più singole (a richiesta degli enti interessati), bensì desumibili dalla lettura nell'elenco (white list).
Chi è presente in tale elenco potrà dichiararsi «non soggetto a rischio di infiltrazione» e concorrere quindi senza attendere la verifica della Prefettura. L'elenco delle attività più esposte a rischio di infiltrazione coincide con quello contenuto nella direttiva del ministro dell'Interno Maroni n. 4610 del 13.06.2010, ma altre tipologie possono arricchire l'elenco delle attività certificabili come indenni da rischi.
Una lista analoga era già prevista nell'articolo 4, comma 13, del decreto sviluppo (70/2011), ma riguardava solo i subfornitori e i subappalti: ora si opera anche a monte, direttamente sugli appalti; di contenuto simile è anche il Codice etico che l'articolo 3 dello Statuto delle imprese (legge 180/2011) prevede sotto forma di rifiuto di ogni rapporto con organizzazioni criminali o mafiose: chi non aderisce al codice etico non può far parte delle associazioni e perde benefici in tema di semplificazioni amministrative (Scia, Dia edilizie).
L'inserimento nell'elenco dei «non soggetti a tentativi di infiltrazione» dovrebbe essere automatico, poiché è un diritto delle imprese quello di non essere discriminate attraverso albi o elenchi. Può quindi prevedersi una corsa all'iscrizione, oppure un periodo di iniziale autocertificazione dell'esistenza dei requisiti per l'iscrizione in white list. Nel frattempo, coesisteranno i sistemi di "informativa" antimafia, cioè gli attestati rilasciati dalle Prefetture.
L'informatizzazione potrà rimediare ad alcuni degli inconvenienti fino ad oggi emersi per le informative, cioè la territorialità dei provvedimenti (emessi dalle Prefetture dove l'impresa ha sede): l'articolo 1, comma 52, prevede la competenza della Prefettura dove ha sede l'impresa, ma il Dlgs 159/2011 prevede anche una banca dati nazionale, rendendo irrilevante la sede della Prefettura.
L'iscrizione nell'elenco dei non soggetti a tentativi di infiltrazione non genera immunità da accertamenti successivi, poiché basterà un rischio (la presenza di pregiudicati in cantiere, la partecipazione a cartelli) per far perdere l'iscrizione. Sull'entrata ed uscita dalle liste di qualità vi sarà un verosimile contenzioso, affidato alla giustizia amministrativa che ha già ampia esperienza in tema di informative antimafia. La previsione di liste di qualità è il primo passo verso il rating di legalità delle imprese (articolo 5-ter, Dl 1/2012, ora legge 27/2012 sulle liberalizzazioni). Ivi si legge che il rating delle imprese va valutato in sede di concessione di finanziamenti pubblici e di accesso al credito bancario: il passaggio dalla white list (assenza di rischi) al rating (presenza di qualità) sarà quindi un incentivo per le imprese (articolo Il Sole 24 Ore del 06.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

INCARICHI PROGETTUALIProfessionisti. La Cassazione interviene su compensi e revoca dell'incarico.
Il committente che recede paga solo il lavoro fatto. Se il geometra ha esorbitato dalle funzioni l'accordo è nullo.

Incarico al professionista sotto esame in Corte di Cassazione. Con la sentenza 09.11.2012 n. 19502 è stato affrontata la questione della qualificazione della responsabilità per danni nel caso del compenso a un geometra che aveva esercitato competenze esclusive degli ingegneri. Nella pronuncia 19524, sempre depositata ieri, è stabilito che la revoca dell'incarico provoca il pagamento del lavoro sin lì svolto ma senza ulteriori indennità.
Più in dettaglio, la sentenza 19502 esamina la situazione di due committenti che si erano opposti al decreto ingiuntivo fatto emettere da un geometra che aveva svolto per loro attività per la ristrutturazione di un immobile che esorbitavano dalla sua competenza professionale. La Corte d'appello aveva accolto in parte la richiesta dei committenti sul compenso ma senza riconoscere i danni da loro subiti a causa degli errori del geometra. La Cassazione ha confermato la sentenza d'appello, riconoscendo che il compenso non era dovuto ma quanto ai danni, che il ricorrente legava indissolubilmente alla nullità del contratto, la Cassazione ha specificato che non erano compresi nella domanda in quanto la responsabilità che si va a configurare in casi del genere è quella extracontrattuale.
Nella sentenza 19524, invece, la vicenda riguarda due ingegneri cui era stato conferito da una giunta provinciale l'incarico di redigere il progetto esecutivo di completamento e del secondo stralcio funzionale di una strada. Dopo la consegna del progetto, però, la giunta aveva revocato l'incarico giudicando che si fosse verificato un inadempimento da parte dei progettisti. Questi avevano chiesto il compenso per il lavoro effettivamente prestato e un'indennità per indebito arricchimento.
Il Tribunale sposava la tesi dell'inadempimento (per il ritardo nella consegna e per la pretesa di un compenso triplo rispetto al pattuito) mentre la Corte d'appello accoglieva le richieste degli ingegneri e li liquidava con 300mila euro di «equo compenso». Contro questa sentenza, però, ricorrevano gli stessi professionisti, lamentando che l'importo non era stato deciso sulla base della tariffa professionale e non comprendeva le spese. Ricorreva anche, per altre ragioni, la Provincia.
La Cassazione ha respinto tutti i ricorsi. Intanto perché nel ricorso originario i professionisti avevano fatto riferimento all'articolo 2227 del Codice civile (che parla proprio di «equo compenso») e non 2237 che, non prevedendo comunque alcuna indennità, parla però in modo più ampio di «compenso per l'opera prestata».
La Cassazione ha poi ricordato che l'articolo 2237 prevede sì un'amplissima facoltà di recesso da parte del committente ma questi è tenuto a corrispondere il compenso al prestatore per l'opera da lui svolta «mentre nessuna indennità è prevista (a differenza di quanto prescritto dall'articolo 2227) per il mancato guadagno». Il giudice, però, non poteva far riferimento all'articolo 2237 perché extra petitum mentre ha fatto riferimento all'onorario che sarebbe spettato se i lavori fossero poi stati realizzati (articolo Il Sole 24 Ore del 10.11.2012).

URBANISTICAI piani di recupero, nella configurazione ad essi data dagli art. 28 e 30, l. 05.08.1978 n. 457, sono strumenti di pianificazione urbanistica a finalità attuative e di livello gerarchicamente subordinato ai quali si riconnettono obblighi di trasformazione edilizia e urbanistica per i proprietari e per il Comune e che non hanno, quindi, una natura meramente programmatica; di conseguenza è ad essi applicabile, per esplicita volontà di legge, la disciplina statale per i piani particolareggiati.
In particolare, in forza del richiamo contenuto all’art. 28, c. 4, l. 05.08.1978, n. 457, trova applicazione l’art. 16, l. n. 1150/1942, ai sensi del quale “il decreto di approvazione di un piano particolareggiato deve essere depositato nella segreteria comunale e notificato nelle forme delle citazioni a ciascun proprietario degli immobili vincolati dal piano stesso entro un mese dall'annuncio dell'avvenuto deposito”.
In forza di questa previsione -in questa parte vigente, essendo l’abrogazione disposta dall’art. 58, d.P.R. n. 327/2001 limitata alle norme riguardanti l'espropriazione- sussiste in capo alla p.a. un obbligo di notifica individuale, ma solo per i proprietari di immobili direttamente incisi dalla disciplina del piano di recupero.
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Decorre dalla pubblicazione nell'albo pretorio il termine per impugnare la deliberazione del Consiglio Comunale di individuazione delle zone di recupero del patrimonio esistente, ex art. 27, l. n. 457/1978.
Per gli atti aventi natura pianificatoria e riguardanti, come nel caso di specie, ampie zone e comparti territoriali, non è, difatti, richiesta la notifica individuale.

Per giurisprudenza costante, i piani di recupero, nella configurazione ad essi data dagli art. 28 e 30, l. 05.08.1978 n. 457, sono strumenti di pianificazione urbanistica a finalità attuative e di livello gerarchicamente subordinato ai quali si riconnettono obblighi di trasformazione edilizia e urbanistica per i proprietari e per il Comune e che non hanno, quindi, una natura meramente programmatica; di conseguenza è ad essi applicabile, per esplicita volontà di legge, la disciplina statale per i piani particolareggiati (cfr. Consiglio di Stato sez. IV, 29.12.2010, n. 9537).
In particolare, in forza del richiamo contenuto all’art. 28, c. 4, l. 05.08.1978, n. 457, trova applicazione l’art. 16, l. n. 1150/1942, ai sensi del quale “il decreto di approvazione di un piano particolareggiato deve essere depositato nella segreteria comunale e notificato nelle forme delle citazioni a ciascun proprietario degli immobili vincolati dal piano stesso entro un mese dall'annuncio dell'avvenuto deposito”.
In forza di questa previsione -in questa parte vigente, essendo l’abrogazione disposta dall’art. 58, d.P.R. n. 327/2001 limitata alle norme riguardanti l'espropriazione- sussiste in capo alla p.a. un obbligo di notifica individuale, ma solo per i proprietari di immobili direttamente incisi dalla disciplina del piano di recupero (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 29.12.2010, n. 9537).
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Decorre, parimenti, dalla pubblicazione nell'albo pretorio il termine per impugnare la deliberazione del Consiglio Comunale n. 44 del 04.07.2006, di individuazione delle zone di recupero del patrimonio esistente, ex art. 27, l. n. 457/1978.
Per gli atti aventi natura pianificatoria e riguardanti, come nel caso di specie, ampie zone e comparti territoriali, non è, difatti, richiesta la notifica individuale (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 16.09.2011, n. 5158)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.11.2012 n. 2730 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In via di principio, l’atto dovuto è a contenuto vincolato per cui non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7 della l. n. 241 del 1990, poiché alcun apporto collaborativo potrebbe dare la partecipazione del ricorrente al procedimento conclusosi con il provvedimento impugnato.
Il provvedimento di pronuncia di decadenza del titolo edilizio, per la sua natura di atto urgente e dovuto, è espressione di un potere strettamente vincolato, non implicante quindi valutazioni discrezionali, ma meri accertamenti tecnici, senza necessità della comunicazione di avvio del procedimento .
Esso provvedimento, essendo fondato su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo dell'interessato, non richiede apporti partecipativi del soggetto destinatario, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con l'Amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive.

Il giudizio in esame verte sulla richiesta, formulata dal Comune di Cariati, di annullamento della sentenza del TAR in epigrafe specificata, con la quale è stato accolto il ricorso proposto per l’annullamento del provvedimento del funzionario responsabile dell’Ufficio urbanistica del Comune, del 09.06.2000, prot. 1/B, di annullamento della concessione edilizia n. 25 rilasciata il 18.06.1999 alla sig.ra Giuseppina Liguori per la costruzione di una cappella gentilizia nel locale cimitero.
Con il primo motivo di appello è stato dedotto che erroneamente il TAR avrebbe ritenuto che il provvedimento impugnato fosse viziato dalla mancata partecipazione della deducente al procedimento conclusosi con l’atto di annullamento impugnato, perché questo costituiva un atto necessitato volto alla celere e doverosa attività di autotutela dell’Ente, conseguente all’avvenuto esame, da parte della Commissione edilizia, nella seduta del 14.03.2000, di una richiesta di variante alla concessione edilizia n. 25/1999 rilasciata alla sig.ra Giuseppina Liguori, dal quale era risultato che il progetto allegato alla originaria richiesta di concessione edilizia era difforme dalla planimetria redatta dall’ufficio Tecnico comunale (cui, secondo la deliberazione di rilascio della concessione, avrebbe dovuto conformarsi per il corretto sviluppo dell’area cimiteriale), prevedendo l’ingombro anche del viale cimiteriale.
Non sarebbe quindi sussistita alcuna violazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990, perché la particolarità della situazione imponeva la Comune di attivarsi con la massima celerità, con conseguente impossibilità di avviare la procedura di partecipazione della parte al procedimento, che avrebbe consentito la ultimazione dell’opera prevista in detta concessione.
Comunque la sig.ra Liguori sarebbe stata messa in condizione di partecipare al procedimento, essendo stata ripetutamente invitata dall’Ufficio Tecnico comunale a partecipare a sedute di revisione della sua pratica.
La suddetta non avrebbe potuto ignorare le reali intenzioni dell'Amministrazione, essendo a conoscenza che la deliberazione del Comune n. 46 del 1997, in base alla quale le era stata rilasciata la concessione edilizia, imponeva di allegare il progetto di realizzazione dell'opera in termini conformi a quanto stabilito nella planimetria redatta dall’U.T.C..
Con il secondo motivo di gravame è stato dedotto che il TAR non avrebbe considerato che la astratta previsione della partecipazione del privato al procedimento amministrativo prevista dall’art. 7 della l. n. 241/1990 non può essere applicata meccanicamente e formalisticamente, se l’atto, come nel caso di specie, ha raggiunto lo scopo, né avrebbe tenuto conto della circostanza che detta partecipazione ha senso solo quando il provvedimento da adottare implichi valutazioni discrezionali o di circostanze di fatto suscettibili di vario apprezzamento, ma non quando, come nel caso di specie, la difformità totale dell’opera dal piano comunale implicava l’annullamento della concessione quale atto dovuto.
Considera la Sezione che, in via di principio, l’atto dovuto è a contenuto vincolato per cui non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7 della l. n. 241 del 1990, poiché alcun apporto collaborativo potrebbe dare la partecipazione del ricorrente al procedimento conclusosi con il provvedimento impugnato.
Il provvedimento di pronuncia di decadenza del titolo edilizio, per la sua natura di atto urgente e dovuto, è espressione di un potere strettamente vincolato, non implicante quindi valutazioni discrezionali, ma meri accertamenti tecnici, senza necessità della comunicazione di avvio del procedimento .
Esso provvedimento, essendo fondato su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo dell'interessato, non richiede apporti partecipativi del soggetto destinatario, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con l'Amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive.
Il Collegio ritiene, sulla base di tali principi, di non poter condividere le conclusioni cui è pervenuto il Giudice di prime cure, che (dopo aver affermato preliminarmente la doverosità del coinvolgimento partecipativo del privato all’attività istruttoria dell’Amministrazione procedente, quando l’Amministrazione debba valutare la sussistenza dei presupposti per l’annullamento o la revoca di un previo atto adottato, e dopo aver evidenziato che con l’atto impugnato, almeno in parte, l’Amministrazione aveva manifestato la volontà di annullamento, in sede di autotutela, della concessione edilizia n. 25 rilasciata alla ricorrente in data 18.06.1999) ha asserito che il provvedimento di annullamento adottato dal Comune era viziato dalla violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990, poiché la ricorrente (del tutto ignara delle reali intenzioni dell’Amministrazione, dal momento che aveva richiesto, con istanza, l’approvazione di una variante al primo progetto realizzativo già assentito con la concessione n. 25 del 1999) aveva poi ottenuto una diversa risposta dall’Amministrazione, cioè l’annullamento, senza essere posta in grado di partecipare al relativo procedimento.
Non solo, infatti, la natura di atto vincolato di detto atto di ritiro esclude la necessità della previa comunicazione dell'avvio del procedimento, ma risulta invero da documentazione versata in atti che la sig.ra Liguori è stata più volte invitata a presenziare all’esame della pratica edilizia n. 65/1999 dalla Commissione Edilizia Comunale (in particolare con nota prot. n. 407-3143 del 03.03.2000 le è stata comunicata l’acquisizione di copia della planimetria originale del terreno su cui era prevista la costruzione della cappella de qua), sicché, se avesse partecipato alle sedute in questione, avrebbe potuto rendersi conto che, in sede di esame della richiesta di variante (n. 65/1999) alla concessione edilizia n. 25/1999, erano emersi elementi tecnici relativi alla difformità del progetto allegato alla originaria richiesta di concessione edilizia dalla planimetria redatta dall’ufficio Tecnico comunale; il che non poteva avere altra conseguenza che l’annullamento della originaria concessione.
Le esaminate censure contenute nell’atto di appello sono quindi fondate e vanno accolte
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.11.2012 n. 5691 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In sede di adozione di un atto in autotutela, la comparazione tra interesse pubblico e quello privato è necessaria nel caso in cui l'esercizio dell'autotutela discenda da errori di valutazione dovuti all'Amministrazione, non già quando lo stesso è dovuto a comportamenti del soggetto privato che hanno indotto in errore l'Autorità amministrativa.
La falsa rappresentazione dello stato di fatto all’atto della richiesta della edilizia rende, invero, l'affidamento del privato circa il mantenimento del manufatto non meritevole di tutela e sicuramente recessivo di fronte all'interesse pubblico al ripristino della situazione edilizia regolarmente assentita.
Peraltro l'annullamento d'ufficio di una concessione edilizia non necessita di un'espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica.
Peraltro la difformità tra lo stato di fatto e quanto rappresentato sugli elaborati di cui trattasi non poteva che comportare l’annullamento della concessione e non sanzioni alternative, considerato che, in presenza di una concessione edilizia, ritenuta illegittima per vizio sostanziale, l'Amministrazione non può ricorrere all'art. 38 del d.P.R. 380/2001, norma che consente di rimediare ai soli vizi formali o procedurali.

Va al riguardo innanzitutto evidenziato da parte del Collegio che, in sede di adozione di un atto in autotutela, la comparazione tra interesse pubblico e quello privato è necessaria nel caso in cui l'esercizio dell'autotutela discenda da errori di valutazione dovuti all'Amministrazione, non già quando lo stesso è dovuto a comportamenti del soggetto privato che hanno indotto in errore l'Autorità amministrativa.
La falsa rappresentazione dello stato di fatto all’atto della richiesta della edilizia rende, invero, l'affidamento del privato circa il mantenimento del manufatto non meritevole di tutela e sicuramente recessivo di fronte all'interesse pubblico al ripristino della situazione edilizia regolarmente assentita.
Peraltro l'annullamento d'ufficio di una concessione edilizia non necessita di un'espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica.
Peraltro la difformità tra lo stato di fatto e quanto rappresentato sugli elaborati di cui trattasi non poteva che comportare l’annullamento della concessione e non sanzioni alternative, considerato che, in presenza di una concessione edilizia, ritenuta illegittima per vizio sostanziale, l'Amministrazione non può ricorrere all'art. 38 del d.P.R. 380/2001, norma che consente di rimediare ai soli vizi formali o procedurali
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.11.2012 n. 5691 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANel ricorso proposto avverso il permesso di costruire rilasciato al vicino, la vicinitas è condizione necessaria ma non sufficiente a radicare, ferma la legittimazione, l'interesse al ricorso, il quale richiede anche la dimostrazione del pregiudizio concreto alle facoltà dominicali del ricorrente.
Costituisce, oramai, orientamento costante in materia quello per cui: “nel ricorso proposto avverso il permesso di costruire rilasciato al vicino, la vicinitas è condizione necessaria ma non sufficiente a radicare, ferma la legittimazione, l'interesse al ricorso, il quale richiede anche la dimostrazione del pregiudizio concreto alle facoltà dominicali del ricorrente” (cfr., ex multis, Consiglio Stato, sez. IV, 24.01.2011, n. 485) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.11.2012 n. 2687 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo il combinato disposto degli articoli 11 e 12 della legge 28.10.1977, n. 10, gli oneri di urbanizzazione devono essere corrisposti al Comune “all’atto del rilascio della concessione” e sono destinati, tra l’altro, “alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria”.
Sul punto, la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di chiarire che gli oneri di urbanizzazione hanno natura di corrispettivo di diritto pubblico in funzione della partecipazione dei privati ai costi delle opere di urbanizzazione e sono dovuti anche al di là di un nesso di stretta inerenza delle opere di urbanizzazione rispetto alle singole aree.
Il pagamento di tali contributi non comporta la nascita, in capo al titolare del concessione edilizia, di un diritto, azionabile nei confronti della pubblica amministrazione, alla realizzazione e completamento delle opere di urbanizzazione che maggiormente interessano la sua costruzione, posto che il Comune può discrezionalmente utilizzare i predetti introiti per il completamento o la manutenzione delle opere di urbanizzazione di qualsiasi parte del territorio.
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La pretesa della ricorrente di ottenere l’ultimazione dei lavori sulla strada che conduce alla sua proprietà, nella specie consistenti nella bitumatura e nella realizzazione del marciapiede, non corrisponde ad un interesse legittimo differenziato e qualificato ad un bene della vita, con la conseguente carenza di legittimazione attiva a proporre il ricorso in epigrafe.
Tale soluzione è pacifica nella giurisprudenza amministrativa in tema di manutenzione e completamento delle strade. In proposito, il Consiglio di Stato ha avuto modo di chiarire che “l’interesse di ogni cittadino a che l'amministrazione comunale provveda alla diligente manutenzione e custodia di tutti i beni pubblici (e, tra essi, le strade), non è tutelabile in via amministrativa né giurisdizionale (fatti salvi i casi di azioni popolari), fronteggiando esso un mero dovere imposto in capo alla p.a. per il vantaggio della collettività non soggettivizzata, sicché non si è in presenza di un interesse legittimo differenziabile, ma al cospetto di interesse semplice e di fatto, rientrante come tale nell'area del giuridicamente irrilevante”.
Con specifico riguardo al completamento delle opere di urbanizzazione, di recente, il TAR Lazio ha affermato che a fronte della domanda del privato volta ad ottenere il completamento delle opere di urbanizzazione, non corrisponde un obbligo per l’amministrazione di adottare, ai sensi dell’art. 2 della legge 07.08.1990 n. 241, un provvedimento espresso in relazione a tale pretesa, non essendo il richiedente titolare di alcun interesse legittimo pretensivo differenziato e qualificato, non differenziandosi la sua posizione da quella di tutti gli altri cittadini e soggetti dell’ordinamento alla corretta e tempestiva esecuzione delle opere di urbanizzazione.

Il ricorso è palesemente inammissibile.
Ad avviso della ricorrente, l’illegittimità della condotta del Comune deriverebbe dal notevole ritardo nell’esecuzione dei lavori di completamento della strada su cui si affaccia la propria casa di abitazione, in violazione dei principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa nonché delle disposizioni della L. 10/1977.
In particolare, secondo la tesi della ricorrente, le norme dettate dalla l. 10/1977 non consentirebbero “l’arbitrario rinvio della realizzazione delle opere da parte del Comune” e, posto che l’articolo 12 stabilisce che i proventi delle concessioni sono destinati alle opere di urbanizzazione, quest’ultimo sarebbe obbligato “non solo a realizzare dette opere ma anche a procedervi in un lasso di tempo ragionevole”.
Ad avviso del Collegio, gli assunti non sono condivisibili.
In via preliminare, occorre osservare che il lotto di proprietà della ricorrente ricade, sin dal tempo del rilascio della concessione edilizia, nella zona B di completamento residenziale. Per l’effetto, è da ritenere che l’area in questione fosse, fin dagli inizi della vicenda, servita dalle opere di urbanizzazione primaria, ivi comprese adeguate ed efficienti strade residenziali.
Ove le opere di urbanizzazione non fossero state completate, secondo l’assunto della ricorrente, sarebbe stato illegittimo l’inserimento in zona B del lotto della medesima, con conseguente illegittimità della concessione edilizia alla stessa rilasciata per la costruzione della propria casa di abitazione.
Nella specie le opere di urbanizzazione, e segnatamente la strada pubblica, erano state realizzate ed erano funzionali (come risulta dalla documentazione fotografica depositata dalla stessa ricorrente) ancorché non fossero stati eseguiti i lavori di sistemazione definitiva che pretende la ricorrente: bitumatura della strada e realizzazione dei marciapiedi.
La decisione sulla realizzazione di queste opere di completamento e finitura di una strada pienamente agibile e funzionale, al pari della realizzazione degli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria di qualsiasi immobile o bene pubblico, rientra nella discrezionalità del competente organo comunale che la esercita, alla luce delle disponibilità di bilancio ed alla luce della scala di priorità degli interventi, con valutazioni non sindacabili in sede di legittimità.
Secondo il combinato disposto degli articoli 11 e 12 della legge 28.10.1977, n. 10, gli oneri di urbanizzazione devono essere corrisposti al Comune “all’atto del rilascio della concessione” e sono destinati, tra l’altro, “alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria”.
Sul punto, la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di chiarire che gli oneri di urbanizzazione hanno natura di corrispettivo di diritto pubblico in funzione della partecipazione dei privati ai costi delle opere di urbanizzazione e sono dovuti anche al di là di un nesso di stretta inerenza delle opere di urbanizzazione rispetto alle singole aree ( v. Cons. Stato, sez. V, del 20.04.2009, n. 2359).
Il pagamento di tali contributi non comporta la nascita, in capo al titolare del concessione edilizia, di un diritto, azionabile nei confronti della pubblica amministrazione, alla realizzazione e completamento delle opere di urbanizzazione che maggiormente interessano la sua costruzione, posto che il Comune può discrezionalmente utilizzare i predetti introiti per il completamento o la manutenzione delle opere di urbanizzazione di qualsiasi parte del territorio.
Pertanto è priva di rilievo l’affermazione della ricorrente in ordine all’improcrastinabilità della realizzazione delle finiture della strada che serve il suo lotto.
Come innanzi rilevato la pretesa della ricorrente di ottenere l’ultimazione dei lavori sulla strada che conduce alla sua proprietà, nella specie consistenti nella bitumatura e nella realizzazione del marciapiede, non corrisponde ad un interesse legittimo differenziato e qualificato ad un bene della vita, con la conseguente carenza di legittimazione attiva a proporre il ricorso in epigrafe.
Tale soluzione è pacifica nella giurisprudenza amministrativa in tema di manutenzione e completamento delle strade. In proposito, il Consiglio di Stato, sezione V, con la sentenza del 29.11.2004, n. 7773, ha avuto modo di chiarire che “l’interesse di ogni cittadino a che l'amministrazione comunale provveda alla diligente manutenzione e custodia di tutti i beni pubblici (e, tra essi, le strade), non è tutelabile in via amministrativa né giurisdizionale (fatti salvi i casi di azioni popolari), fronteggiando esso un mero dovere imposto in capo alla p.a. per il vantaggio della collettività non soggettivizzata, sicché non si è in presenza di un interesse legittimo differenziabile, ma al cospetto di interesse semplice e di fatto, rientrante come tale nell'area del giuridicamente irrilevante”.
Con specifico riguardo al completamento delle opere di urbanizzazione, di recente, il TAR Lazio, sez. II, con la sentenza del 04.05.2011, n. 3838, ha affermato che a fronte della domanda del privato volta ad ottenere il completamento delle opere di urbanizzazione, non corrisponde un obbligo per l’amministrazione di adottare, ai sensi dell’art. 2 della legge 07.08.1990 n. 241, un provvedimento espresso in relazione a tale pretesa, non essendo il richiedente titolare di alcun interesse legittimo pretensivo differenziato e qualificato, non differenziandosi la sua posizione da quella di tutti gli altri cittadini e soggetti dell’ordinamento alla corretta e tempestiva esecuzione delle opere di urbanizzazione (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 08.11.2012 n. 925 -
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ATTI AMMINISTRATIVI: Nell'ambito di un ricorso giurisdizionale, la parte può rinunciare al ricorso in qualunque stato e grado della controversia, mediante dichiarazione sottoscritta da essa stessa o dall'avvocato munito di mandato speciale e depositata nella segreteria, o mediante dichiarazione resa in udienza e documentata nel relativo verbale.
Il rinunziante deve pagare le spese degli atti di procedura compiuti, salvo che il collegio, avuto riguardo ad ogni circostanza, ritenga di compensarle.
La rinunzia deve essere notificata alle altre parti almeno dieci giorni prima dell’udienza. Se le parti che hanno interesse non si oppongono, il processo si estingue.
L’abbandono del ricorso è quindi rimesso integralmente a colui che agisce, ed è sottoposto alle sole condizioni della provenienza dalla parte, o dal suo procuratore all’uopo espressamente autorizzato, e dell’intervenuta conoscenza della controparte dell’atto di rinuncia, conoscenza da conseguirsi in modo formale (e quindi con notifica o dichiarazione agli atti, come indica la norma, ma anche mediante altre forme equipollenti, quali il deposito in udienza dell'atto di rinuncia sottoscritto dalla parte personalmente; o anche con dichiarazione sottoscritta dalla ricorrente e, per adesione, anche dalle difese della altre parti costituite).
Intervenute le dette formalità, spetta infine al giudice pronunciare, espressamente ed a seguito di un accertamento che coinvolga la presenza dei detti requisiti, l'estinzione del giudizio, permanendo, fino a quel momento, il potere del rinunciante di revocare il proprio atto.
Effetto della rinuncia è pertanto, dal lato sostanziale, quello di determinare la cristallizzazione della situazione dedotta al momento anteriore della proposizione del ricorso, dall’altro lato, di carattere schiettamente processuale, quello di comportare l’obbligo di provvedere al rimborso delle spese sostenute dalla controparte (che tuttavia costituisce una posizione disponibile delle parti costituite, potendovi queste rinunciare).

Come prevede espressamente l’art. 84 del codice del processo amministrativo (e già prima l’art. 46 del Regio Decreto 17.08.1907, n. 642, di approvazione del regolamento di procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato), “la parte può rinunciare al ricorso in qualunque stato e grado della controversia, mediante dichiarazione sottoscritta da essa stessa o dall'avvocato munito di mandato speciale e depositata nella segreteria, o mediante dichiarazione resa in udienza e documentata nel relativo verbale.
Il rinunziante deve pagare le spese degli atti di procedura compiuti, salvo che il collegio, avuto riguardo ad ogni circostanza, ritenga di compensarle.
La rinunzia deve essere notificata alle altre parti almeno dieci giorni prima dell’udienza. Se le parti che hanno interesse non si oppongono, il processo si estingue
”.
L’abbandono del ricorso è quindi rimesso integralmente a colui che agisce, ed è sottoposto alle sole condizioni della provenienza dalla parte, o dal suo procuratore all’uopo espressamente autorizzato, e dell’intervenuta conoscenza della controparte dell’atto di rinuncia, conoscenza da conseguirsi in modo formale (e quindi con notifica o dichiarazione agli atti, come indica la norma, ma anche mediante altre forme equipollenti, quali il deposito in udienza dell'atto di rinuncia sottoscritto dalla parte personalmente, ex multis Consiglio Stato, sez. IV, 17.01.2002, n. 244; o anche con dichiarazione sottoscritta dalla ricorrente e, per adesione, anche dalle difese della altre parti costituite).
Intervenute le dette formalità, spetta infine al giudice pronunciare, espressamente ed a seguito di un accertamento che coinvolga la presenza dei detti requisiti, l'estinzione del giudizio, permanendo, fino a quel momento, il potere del rinunciante di revocare il proprio atto.
Effetto della rinuncia è pertanto, dal lato sostanziale, quello di determinare la cristallizzazione della situazione dedotta al momento anteriore della proposizione del ricorso, dall’altro lato, di carattere schiettamente processuale, quello di comportare l’obbligo di provvedere al rimborso delle spese sostenute dalla controparte (che tuttavia costituisce una posizione disponibile delle parti costituite, potendovi queste rinunciare) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.11.2012 n. 5658 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della tempestività dell’impugnazione del titolo edilizio da parte del terzo a ciò legittimato la piena conoscenza dalla quale decorre il termine decadenziale per la proposizione dell’impugnazione medesima va riferita al momento dell’ultimazione dei lavori, ovvero al momento nel quale la costruzione realizzata riveli in modo in equivoco le caratteristiche essenziali dell’opera agli effetti della sua eventuale difformità rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente, fermo –altresì– restando che la prova della tardività dell’impugnazione deve essere fornita rigorosamente e incombe, secondo le regole generali, alla parte che la deduce.
Il Collegio, per parte propria, richiama innanzitutto la ben nota giurisprudenza secondo la quale, da un lato, ai fini della tempestività dell’impugnazione del titolo edilizio da parte del terzo a ciò legittimato la piena conoscenza dalla quale decorre il termine decadenziale per la proposizione dell’impugnazione medesima va riferita al momento dell’ultimazione dei lavori, ovvero al momento nel quale la costruzione realizzata riveli in modo in equivoco le caratteristiche essenziali dell’opera agli effetti della sua eventuale difformità rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 18.10.2011 n. 5612), fermo –altresì– restando che la prova della tardività dell’impugnazione deve essere fornita rigorosamente e incombe, secondo le regole generali, alla parte che la deduce (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 28.01.2011 n. 678) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.11.2012 n. 5657 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Il diritto del dipendente pubblico, che abbia svolto mansioni superiori, al trattamento economico relativo alla qualifica immediatamente superiore va riconosciuto solo a decorrere dalla data di entrata in vigore dell'art. 15 d.lgs. 29.10.1998 n. 387 (dal 22.11.1998).
Ritenuto che, a conferma della sentenza gravata e a confutazione dei motivi di doglianza articolati dall’appellante, si pone il principio, affermato dall’ Adunanza Plenaria di questo Consiglio con la decisione 24.03.2006, n. 3, secondo cui il diritto del dipendente pubblico, che abbia svolto mansioni superiori, al trattamento economico relativo alla qualifica immediatamente superiore va riconosciuto solo a decorrere dalla data di entrata in vigore dell'art. 15 d.lgs. 29.10.1998 n. 387 (dal 22.11.1998) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.11.2012 n. 5647 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL’impugnazione di un bando di gara è consentito, dalla giurisprudenza amministrativa, alle imprese che non abbiano presentato domanda di partecipazione alla gara medesima, soltanto quando il bando stesso preveda delle norme che non consentono la partecipazione alla gara indetta, nel senso che se le imprese suddette avessero partecipato alla gara, sarebbero state sicuramente escluse, mentre nel caso di specie ciò non è, in quanto le censure si appuntano non sulla impossibilità di partecipare alla gara, alla quale sarebbero state sicuramente ammesse, se in possesso dei requisiti richiesti, ma sulla ritenuta difficoltà di poter formulare un’offerta remunerativa a cagione della esiguità del termine concesso dal bando, il che è assolutamente diverso dalla presenza di norme che non consentono neppure la partecipazione.
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Gli orientamenti interpretativi più consolidati affermano la regola secondo cui la legittimazione al ricorso deve essere correlata ad una situazione differenziata, in modo certo, per effetto della partecipazione alla stessa procedura oggetto di contestazione.
La regola, ormai consolidata, subisce, ora, alcune notevoli deroghe, concernenti, rispettivamente:
- la legittimazione del soggetto che contrasta, in radice, la scelta della stazione appaltante di indire la procedura;
- la legittimazione dell’operatore economico “di settore”, che intende contestare un “affidamento diretto” o senza gara;
- la legittimazione dell’operatore che manifesta l’intenzione di impugnare una clausola del bando “escludente”, in relazione alla illegittima previsione di determinati requisiti di qualificazione.
Le diverse deroghe, ampiamente studiate dagli interpreti, si connettono ad esigenze e a ragioni peculiari, inidonee a determinare l’affermazione di una nuova regola generale di indifferenziata titolarità della legittimazione al ricorso, basata sulla mera qualificazione soggettiva di imprenditore potenzialmente aspirante all’indizione di una nuova gara. (…) La legittimazione del soggetto che contrasta immediatamente il bando di gara (in relazione alle sue clausole “escludenti”), senza partecipare al procedimento, ha una giustificazione logica evidente, direttamente collegata alla affermazione giurisprudenziale dell’onere di sollecita impugnazione di tale atto lesivo, senza attendere l’esito della selezione.
In tali circostanze, la certezza del pregiudizio determinato dal bando rende superflua la domanda di partecipazione e l’adozione di un atto esplicito di esclusione. D’altro canto, la legittimazione spetta, in questo caso, non già a tutti gli imprenditori del settore, genericamente intesi, ma ai soli soggetti cui è impedita la partecipazione, in virtù di una specifica clausola escludente del bando.
Al di fuori delle ipotesi tassativamente enucleate dalla giurisprudenza, pertanto, deve restare fermo il principio secondo il quale la legittimazione al ricorso, nelle controversie riguardanti l’affidamento dei contratti pubblici, spetti esclusivamente ai soggetti partecipanti alla gara, poiché solo tale qualità si connette all’attribuzione di una posizione sostanziale differenziata e meritevole di tutela.
In questa veste, il ricorrente che ha partecipato legittimamente alla gara può far valere tanto un interesse “finale” al conseguimento dell’appalto affidato al controinteressato, quanto, in via alternativa (e normalmente subordinata) l’interesse “strumentale” alla caducazione dell’intera gara e alla sua riedizione (sempre che sussistano, in concreto, ragionevoli possibilità di ottenere l’utilità richiesta). Ma l’interesse strumentale allegato, in questo modo, potrebbe assumere rilievo, eventualmente, solo dopo il positivo riscontro della legittimazione al ricorso.
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Dall’analisi della giurisprudenza citata, emerge, a parere del Collegio, un concetto di bando “escludente” che può allargarsi fino a ricomprendere al suo interno anche l’ipotesi di un importo a base d’asta del tutto irragionevole secondo una corretta logica di mercato.
Se è vero, infatti, che l’amministrazione conserva intatta la sua sfera di ampia discrezionalità (sia amministrativa che tecnica) nello stabilire regole e modalità, oltre che potenziale rimuneratività, della procedura che va ad indire, è altresì corretta l’affermazione per cui un bando di gara si presenta di per sé già manifestamente preclusivo della partecipazione qualora costringa l’impresa ad accettare una logica di assunzione dell’appalto in perdita.
Ovviamente, ciò non significa né che l’amministrazione debba contrattare l’importo a base d’asta con le eventuali potenziali partecipanti né che le imprese possano sulla base di una diversa valutazione tecnica contestare in giudizio qualsiasi bando di gara considerato non remunerativo senza adempiere all’onere formale della presentazione di un’offerta.
Occorre al contrario riscontrare, prima di esperire un’istruttoria che riesamini gli aspetti tecnici che hanno condotto l’amministrazione a scegliere un determinato importo a base d’asta, alcuni indici sintomatici di una scelta irrazionale.
Occorre insomma che l’esame dell’ammissibilità del ricorso sia preceduto da una valutazione in termini oggettivi della potenziale insostenibilità dell’importo a base d’asta e non da una prospettazione meramente soggettiva avanzata dalla parte avente interesse alla riedizione della gara; ciò, anche in considerazione del fatto che l’impugnazione del bando è necessariamente legata alla presenza in gara di almeno una concorrente, il che appare già di per sé potenzialmente sconfessare l’assunto di chi agisce.

In relazione alla posizione espressa da amministrazione e controinteressata, favorevoli a una pronuncia di inammissibilità dei ricorsi proposti direttamente contro i bandi di gara, in assenza di una clausola escludente, viene certamente in luce, tra le altre, per la sua autorevolezza e la sua compatibilità con il caso in esame, la sentenza n. 2033 dell’01.04.2011 del Consiglio di Stato, V Sezione.
In tale circostanza, il Giudice di secondo grado ha confermato la sentenza con la quale il Tribunale amministrativo aveva dichiarato inammissibile l’azione proposta direttamente contro il bando di gara da parte di alcune società che non avevano partecipato ad essa, ritenendo come non preclusivo in astratto alla loro partecipazione un termine troppo breve per potere presentare un’offerta remunerativa.
Ha sostenuto il Consiglio di Stato, a tale riguardo, che “l’impugnazione di un bando di gara è consentito, dalla giurisprudenza amministrativa, alle imprese che non abbiano presentato domanda di partecipazione alla gara medesima, soltanto quando il bando stesso preveda delle norme che non consentono la partecipazione alla gara indetta, nel senso che se le imprese suddette avessero partecipato alla gara, sarebbero state sicuramente escluse, mentre nel caso di specie ciò non è, in quanto le censure si appuntano non sulla impossibilità di partecipare alla gara, alla quale sarebbero state sicuramente ammesse, se in possesso dei requisiti richiesti, ma sulla ritenuta difficoltà di poter formulare un’offerta remunerativa a cagione della esiguità del termine concesso dal bando, il che è assolutamente diverso dalla presenza di norme che non consentono neppure la partecipazione (si vedano, sul punto, conformemente a quanto in questa sede argomentato, Cons. St., Ad. plen., n. 1 del 2003 e Sez. V, n. 4338 del 2009).”
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La posizione espressa dalle ricorrenti, che tendono a fare rientrare all’interno di clausole discriminatorie e direttamente lesive anche un importo a base di gara manifestamente incongruo, appare compiutamente affrontata dalla sentenza n. 177 del 14.01.2011 del Consiglio di Stato, VI Sezione, e dalla decisione n. 980 del 2003, cui la prima rimanda, dello stesso Consiglio di Stato.
Nella prima delle due decisioni appena citate gli appellati (ricorrenti in primo grado) non avevano impugnato direttamente un bando di concorso (per la copertura di alcuni posti di capo-squadra dei Vigili del fuoco) che, in violazione di un preciso disposto di legge, aveva omesso di indicare le materie dell’esame scritto, determinando così in capo ai candidati rilevanti difficoltà nella preparazione delle prove stesse.
Ora –ha sostenuto in suddetta occasione il Giudice di secondo grado-, è pur vero che, per consolidato orientamento, l’illegittimità delle clausole di bando può essere ordinariamente fatta valere soltanto all’esito delle prove concorsuali, salvo che si tratti di clausole a valenza c.d. ‘escludente’, cioè che per il loro contenuto ostativo impediscono ex ante la partecipazione al concorso (es., Cons. Stato, V, 15.10.2010, n. 7515; V, 10.08.2010, n. 5555; VI, 08.07.2010, n. 4437: tutte seguendo Cons. Stato, ad. plen., 27.01.2003, n. 1 in tema di pubblici appalti).
Tuttavia, analogamente a quanto è stato ritenuto in tema di gare per contratti pubblici, anche in tema di concorsi pubblici, attesa l’eadem ratio, appare ravvisabile l’onere di immediata impugnazione da parte dell’interessato delle clausole illegittime della lex specialis che comportano, a carico del partecipante medio, una oggettiva, straordinaria e rilevante difficoltà operativa, tale per sua natura da non rimanere sul piano dell’astrattezza e potenzialità lesiva, ma da realizzare già, in ragione dell’immediato vulnus alla normale capacità organizzativa del candidato e dunque al suo interesse alla partecipazione in condizioni di alea ordinarie, l’effetto negativo di un’immediata e diretta lesione della sua sostanziale partecipazione.
Infatti gli straordinari aggravi (bene dimostrati nella specie dagli accadimenti riportati) generano anch’essi -in termini di utilità pratica della partecipazione del candidato- la sostanziale impossibilità di partecipare adeguatamente e razionalmente, il che riconduce questa ipotesi a quella generale relativa alle clausole impeditive (...). Con tali considerazioni converge, ad imporre oneri di impugnativa più stringenti, un’esigenza di sollecita certezza e di contrasto del rischio di inutili dilatazioni dei tempi del procedimento, che sarebbero provocati dalla necessità di attendere, per impugnare, l’esito dell’intera procedura.
Così appare essere nella specie, dove la difformità del bando dalla previsione normativa generava già di suo, senza necessità che si procedesse ulteriormente nelle operazioni, una tale condizione di aggravio organizzativo e perciò lesiva in capo ai candidati, e dunque un interesse a reagirvi in giudizio mediante immediata impugnazione
”.
Nella decisione n. 980 del 2003 il Consiglio di Stato affrontava invece più specificamente il tema delle gare per contratti pubblici, enucleando tutta una serie di ipotesi in cui sarebbe stato necessario impugnare direttamente il bando di concorso, senza dunque attendere l’esito della procedura selettiva.
È il caso di clausole che impediscono o rendono più difficoltosa la partecipazione alla gara stessa, fissando modalità operative o particolari requisiti soggettivi dei concorrenti, e di clausole irragionevoli che non consentono una corretta partecipazione alla procedura ovvero una ponderata formulazione dell'offerta. Nonché il caso di prescrizioni del bando che impongono determinati oneri formali alle imprese partecipanti o relative ad un "modus operandi" fissato per il funzionamento della commissione aggiudicatrice. In tutte queste evenienze, pertanto, viene ad emergere un pregiudizio attuale e concreto che determina in capo a chi intenda partecipare alla gara l'onere di immediata impugnazione del bando, senza attendere l'ulteriore corso della procedura con il rischio di una inutile dilazione di tempi del procedimento”.
Occorre, ad ogni modo, e per completezza di esposizione, ricordare come l’Adunanza plenaria n. 4/2011, nel rimarcare la distinzione tra legittimazione ad agire ed interesse al ricorso, abbia limitato a poche tassative ipotesi la possibilità di impugnazione diretta del bando.
Approfondendo il tema della legittimazione al ricorso nel settore specifico delle controversie in materia di affidamento dei contratti pubblici, il Consiglio di Stato ha statuito che “in linea di principio, gli orientamenti interpretativi più consolidati affermano la regola secondo cui la legittimazione al ricorso deve essere correlata ad una situazione differenziata, in modo certo, per effetto della partecipazione alla stessa procedura oggetto di contestazione.
La regola, ormai consolidata, subisce, ora, alcune notevoli deroghe, concernenti, rispettivamente:
- la legittimazione del soggetto che contrasta, in radice, la scelta della stazione appaltante di indire la procedura;
- la legittimazione dell’operatore economico “di settore”, che intende contestare un “affidamento diretto” o senza gara;
- la legittimazione dell’operatore che manifesta l’intenzione di impugnare una clausola del bando “escludente”, in relazione alla illegittima previsione di determinati requisiti di qualificazione.
Le diverse deroghe, ampiamente studiate dagli interpreti, si connettono ad esigenze e a ragioni peculiari, inidonee a determinare l’affermazione di una nuova regola generale di indifferenziata titolarità della legittimazione al ricorso, basata sulla mera qualificazione soggettiva di imprenditore potenzialmente aspirante all’indizione di una nuova gara. (…) La legittimazione del soggetto che contrasta immediatamente il bando di gara (in relazione alle sue clausole “escludenti”), senza partecipare al procedimento, ha una giustificazione logica evidente, direttamente collegata alla affermazione giurisprudenziale dell’onere di sollecita impugnazione di tale atto lesivo, senza attendere l’esito della selezione.
In tali circostanze, la certezza del pregiudizio determinato dal bando rende superflua la domanda di partecipazione e l’adozione di un atto esplicito di esclusione. D’altro canto, la legittimazione spetta, in questo caso, non già a tutti gli imprenditori del settore, genericamente intesi, ma ai soli soggetti cui è impedita la partecipazione, in virtù di una specifica clausola escludente del bando.
Al di fuori delle ipotesi tassativamente enucleate dalla giurisprudenza, pertanto, deve restare fermo il principio secondo il quale la legittimazione al ricorso, nelle controversie riguardanti l’affidamento dei contratti pubblici, spetti esclusivamente ai soggetti partecipanti alla gara, poiché solo tale qualità si connette all’attribuzione di una posizione sostanziale differenziata e meritevole di tutela.
In questa veste, il ricorrente che ha partecipato legittimamente alla gara può far valere tanto un interesse “finale” al conseguimento dell’appalto affidato al controinteressato, quanto, in via alternativa (e normalmente subordinata) l’interesse “strumentale” alla caducazione dell’intera gara e alla sua riedizione (sempre che sussistano, in concreto, ragionevoli possibilità di ottenere l’utilità richiesta). Ma l’interesse strumentale allegato, in questo modo, potrebbe assumere rilievo, eventualmente, solo dopo il positivo riscontro della legittimazione al ricorso
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Dall’analisi della giurisprudenza citata, e dal raffronto tra le due posizioni espresse dalle parti in lite nell’odierno ricorso, emerge, a parere del Collegio, un concetto di bando “escludente” che può allargarsi fino a ricomprendere al suo interno anche l’ipotesi di un importo a base d’asta del tutto irragionevole secondo una corretta logica di mercato.
Se è vero, infatti, che l’amministrazione conserva intatta la sua sfera di ampia discrezionalità (sia amministrativa che tecnica) nello stabilire regole e modalità, oltre che potenziale rimuneratività, della procedura che va ad indire, è altresì corretta l’affermazione per cui un bando di gara si presenta di per sé già manifestamente preclusivo della partecipazione qualora costringa l’impresa ad accettare una logica di assunzione dell’appalto in perdita.
Ovviamente, ciò non significa né che l’amministrazione debba contrattare l’importo a base d’asta con le eventuali potenziali partecipanti né che le imprese possano sulla base di una diversa valutazione tecnica contestare in giudizio qualsiasi bando di gara considerato non remunerativo senza adempiere all’onere formale della presentazione di un’offerta.
Occorre al contrario riscontrare, prima di esperire un’istruttoria che riesamini gli aspetti tecnici che hanno condotto l’amministrazione a scegliere un determinato importo a base d’asta, alcuni indici sintomatici di una scelta irrazionale.
Occorre insomma che l’esame dell’ammissibilità del ricorso sia preceduto da una valutazione in termini oggettivi della potenziale insostenibilità dell’importo a base d’asta e non da una prospettazione meramente soggettiva avanzata dalla parte avente interesse alla riedizione della gara; ciò, anche in considerazione del fatto che l’impugnazione del bando è necessariamente legata alla presenza in gara di almeno una concorrente, il che appare già di per sé potenzialmente sconfessare l’assunto di chi agisce
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 07.11.2012 n. 2686 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAl fine della definizione della controversia in esame, attinente al lamentato mancato rispetto delle distanze minime intercorrenti tra l’abitazione del ricorrente e l’allevamento controinteressato, deve, in primo luogo, risolversi la querelle se si sia, nel caso di specie, in presenza di una nuova attività di allevamento, soggetta all’obbligo del rispetto delle distanze minime imposto dal regolamento di igiene, ovvero all’adeguamento, previo rilascio di una nuova autorizzazione, di un’attività già esistente, legittimata a continuare il suo esercizio anche in deroga all’obbligo delle distanze minime.
A tal fine viene in soccorso il regolamento di igiene comunale. Esso ammette gli ampliamenti di allevamenti esistenti e dismessi da meno di tre anni, purché nel rispetto delle distanze preesistenti. Se, dunque, la deroga all’obbligo delle distanze minime è ammessa nel caso di ampliamenti di stabilimenti già esistenti, purché entro il termine massimo di tre anni dalla loro chiusura e a condizione che non intervengano variazioni nelle distanze già esistenti, deve presumersi che la stessa possa, a maggior ragione, trovare applicazione anche nel caso in cui lo stabilimento non sia stato ampliato, ma solo adeguato alla sopravvenuta normativa attraverso un complesso iter che ha conosciuto una molteplice serie di solleciti e proroghe di termini e la successiva declaratoria di decadenza dall’originaria autorizzazione, cui ha fatto seguito, però, il rilascio di una nuova autorizzazione al suo esercizio.

Al fine della definizione della controversia in esame, attinente al lamentato mancato rispetto delle distanze minime intercorrenti tra l’abitazione del ricorrente e l’allevamento controinteressato, deve, in primo luogo, risolversi la querelle se si sia, nel caso di specie, in presenza di una nuova attività di allevamento, soggetta all’obbligo del rispetto delle distanze minime imposto dal regolamento di igiene, ovvero all’adeguamento, previo rilascio di una nuova autorizzazione, di un’attività già esistente, legittimata a continuare il suo esercizio anche in deroga all’obbligo delle distanze minime.
A tal fine viene in soccorso il regolamento di igiene comunale. Esso ammette gli ampliamenti di allevamenti esistenti e dismessi da meno di tre anni, purché nel rispetto delle distanze preesistenti. Se, dunque, la deroga all’obbligo delle distanze minime è ammessa nel caso di ampliamenti di stabilimenti già esistenti, purché entro il termine massimo di tre anni dalla loro chiusura e a condizione che non intervengano variazioni nelle distanze già esistenti, deve presumersi che la stessa possa, a maggior ragione, trovare applicazione anche nel caso in cui lo stabilimento non sia stato ampliato, ma solo adeguato alla sopravvenuta normativa attraverso un complesso iter che ha conosciuto una molteplice serie di solleciti e proroghe di termini e la successiva declaratoria di decadenza dall’originaria autorizzazione, cui ha fatto seguito, però, il rilascio di una nuova autorizzazione al suo esercizio.
Invero, nel caso di specie, appare ragionevole ritenere che un ampliamento vi sia in concreto stato, dal momento che sono stati realizzati ex novo quattro box esterni in sostituzione di quelli preesistenti e il cui utilizzo era stato negato dall’autorizzazione del 2001. Peraltro, a prescindere dal fatto che vi sia stato, o meno, nel caso di specie, un ampliamento (accertamento di per sé irrilevante, dal momento che la norma comunque lo ammetterebbe) ciò che appare determinante è che dal regolamento richiamato si deve desumere che, per quanto di rilievo, un’autorizzazione non può essere considerata “nuova” se non dopo almeno tre anni dalla dismissione del precedente allevamento.
In altre parole, il fatto che l’edificio fosse già adibito ad allevamento è sufficiente a rendere possibile la ripresa dell’attività, nel rispetto delle distanza preesistenti ed entro il termine massimo di tre anni dalla dismissione, a prescindere dal fatto che l’esercizio dell’attività sia stato continuativamente autorizzato o, al contrario, interrotto.
Nel caso di specie risulta rispettata la prima condizione, essendo stata rilasciata la nuova dichiarazione a pochi giorni di distanza dalla decadenza della originaria. Né può rilevare in senso contrario il cambio di denominazione subito dall’azienda agricola esercitante l’attività di allevamento in questione (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 07.11.2012 n. 1766 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini della verifica del rispetto delle distanze legali tra edifici, non sono computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano una funzione meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria di limitata entità (come le mensole, i cornicioni, le grondaie e simili); sono, invece, computabili, rientrando nel concetto civilistico di costruzione, le parti dell'edificio (quali scale, terrazze e corpi avanzati) che, benché non corrispondano a volumi abitativi coperti, siano destinati a estendere e ampliare la consistenza del fabbricato.
Ne deriva che anche il lato esterno del portico deve, pertanto, essere considerato al fine della verifica del rispetto della distanza minima.

Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia, “ai fini della verifica del rispetto delle distanze legali tra edifici, non sono computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano una funzione meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria di limitata entità (come le mensole, i cornicioni, le grondaie e simili); sono, invece, computabili, rientrando nel concetto civilistico di costruzione, le parti dell'edificio (quali scale, terrazze e corpi avanzati) che, benché non corrispondano a volumi abitativi coperti, siano destinati a estendere e ampliare la consistenza del fabbricato” (Consiglio Stato, sez. IV, 27.01.2010, n. 424; Corte appello Brescia, sez. II, 18.05.2009; Consiglio Stato, sez. IV, 30.06.2005, n. 3539). Ne deriva che anche il lato esterno del portico deve, pertanto, essere considerato al fine della verifica del rispetto della distanza minima (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 07.11.2012 n. 1766 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 338 del r.d. 1265/1934 (t.u. delle leggi sanitarie) prevede il divieto di costruire intorno ai cimiteri edifici entro il raggio di 200 mt., disponendo che il contravventore debba demolire l'edificio o la parte di nuova costruzione, salvi i provvedimenti d'ufficio in caso di inadempienza. Si tratta, infatti, di divieto assoluto, come più volte ha avuto modo di affermare la giurisprudenza amministrativa che ha evidenziato come il vincolo di inedificabilità in questione abbia finalità non solo urbanistico edilizie, ma anche di tutela dell'igiene e della sicurezza pubblica.
Il vincolo in questione non consente l'allocazione sia di edifici che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienico sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione ed alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale.
Anche la giurisprudenza della Cassazione si è espressa in termini analoghi a quelli sopra riferiti, ravvisando nel vincolo cimiteriale un caso tipico di inedificabilità legale, vale a dire inderogabile divieto di qualsivoglia interevento modificativo dello stato dei luoghi, fatta eccezione per l'esercizio dell'agricoltura e per l'eventuale ampliamento delle strutture cimiteriali preesistenti.

Come è noto l'art. 338 del r.d. 1265/1934 (t.u. delle leggi sanitarie) prevede il divieto di costruire intorno ai cimiteri edifici entro il raggio di 200 mt., disponendo che il contravventore debba demolire l'edificio o la parte di nuova costruzione, salvi i provvedimenti d'ufficio in caso di inadempienza.
La difesa della ricorrente sostiene che tale divieto riguarderebbe solo l’intero centro abitato e sarebbe derogabile per singole abitazioni.
Tale tesi appare destituita di fondamento, si tratta, infatti, di divieto assoluto, come più volte ha avuto modo di affermare la giurisprudenza amministrativa che ha evidenziato come il vincolo di inedificabilità in questione abbia finalità non solo urbanistico edilizie, ma anche di tutela dell'igiene e della sicurezza pubblica (CdS Sez. IV n. 4259/2007; n. 1185/2007).
In particolare, la giurisprudenza del C.d.S. è consolidata nell'affermare che il vincolo in questione non consenta l'allocazione sia di edifici che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienico sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione ed alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale.
Anche la giurisprudenza della Cassazione si è espressa in termini analoghi a quelli sopra riferiti, ravvisando nel vincolo cimiteriale un caso tipico di inedificabilità legale, vale a dire inderogabile divieto di qualsivoglia interevento modificativo dello stato dei luoghi, fatta eccezione per l'esercizio dell'agricoltura e per l'eventuale ampliamento delle strutture cimiteriali preesistenti (Cass. Civ. Sez. I 23.06.2004 n. 11669)
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 07.11.2012 n. 1352 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La determinazione del silenzio-assenso sul condono per decorso dei ventiquattro mesi dalla data dell’istanza non è sempre invocabile, bensì solo quando le opere risultino eseguite in aree non sottoposte ad alcun vincolo, sia di inedificabilità ex art. 33 della legge n. 47/1985, sia paesaggistico ambientale.
Tanto premesso è allora infondata la predetta censura poiché l’opera abusiva da sanare ricadeva, già all’epoca della realizzazione, e ricade tuttora, in una zona sottoposta a vincolo d’inedificabilità assoluta ex art. 338 R.D. 1265/1934.

Infine, non può essere accolta l’ultima censura basata sull’intervenuta formazione del silenzio assenso.
In particolare la ricorrente deduce la violazione degli artt. 31 e 35 della legge n. 47/1985 sostenendo che, ai sensi delle dette disposizioni, decorso il termine perentorio di ventiquattro mesi dalla presentazione della domanda, quest’ultima si intende accolta. Decorso tale termine si forma, dunque, il silenzio assenso.
Tuttavia, secondo il costante orientamento della giurisprudenza la determinazione del silenzio-assenso sul condono per decorso dei ventiquattro mesi dalla data dell’istanza, non è sempre invocabile, bensì solo quando le opere risultino eseguite in aree non sottoposte ad alcun vincolo, sia di inedificabilità ex art. 33 della legge n. 47/1985, sia paesaggistico ambientale.
Tanto premesso è allora infondata la predetta censura poiché l’opera abusiva da sanare ricadeva, già all’epoca della realizzazione, e ricade tuttora, in una zona sottoposta a vincolo d’inedificabilità assoluta ex art. 338 R.D. 1265/1934
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 07.11.2012 n. 1352 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'autorizzazione a realizzare costruzioni edilizie in zona paesaggistica, successiva all'edificazione, non è inibita e per certi versi è insita nel sistema di sanatoria delineato dalla L. 28.02.1985, n.47 e trova fondamento sistematico nelle opzioni contemplate dall'art. 15 della stessa legge 29.06.1939, n. 1497.
A complemento di ciò, poi, l'esercizio del potere sanzionatorio previsto dallo stesso art. 15 non è precluso all'Amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, atteso che, l'esclusione della compromissione sostanziale dell'integrità del paesaggio, non cancella il residuo potere-dovere di procedere all'applicazione della sanzione per la violazione dell'obbligo, discendente dall'art. 7 l. n. 1497 cit., di conseguire in via preventiva il titolo di assenso necessario per realizzare l'intervento modificativo dell'assetto territoriale.
Pertanto, è proprio il disposto dell'art. 15 della legge n. 1497 del 1939, che prevede l'applicazione di una sanzione alternativa (demolizione o pagamento di un'indennità) in caso di interventi realizzati, senza autorizzazione, in zone soggette al vincolo, a far ritenere che la demolizione non è conseguenza ineluttabile dell'assenza dell'autorizzazione, potendo questa essere rilasciata in sanatoria in base alla legge n. 47/1985, ove sussista la compatibilità della costruzione abusiva con il vincolo.
Ed infatti, ove l'Amministrazione decida di comminare la sanzione pecuniaria, con esclusione della demolizione, appare del tutto illogico che l'opera possa, poi, restare priva di titolo concessorio ex art. 13 della legge n. 47 del 1985, giacché una siffatta evenienza comporterebbe la conseguente necessità di demolizione e quest'ultima si porrebbe in irrisolta contraddizione proprio con il meccanismo sanzionatorio di cui al citato art. 15, che, come detto, prevede la sanzione pecuniaria come alternativa alla demolizione stessa.
In definitiva, l'esame sistematico della disciplina di cui agli artt. 7 e 15 della legge n. 1497 del 1939 ed all'art. 13 della legge n. 47 del 1985 consente di concludere nel senso della possibilità di formalizzare, attraverso un'autorizzazione postuma, in parte equipollente alla fattispecie di cui all'art. 7, la verifica di compatibilità ambientale implicita nel meccanismo sanzionatorio di cui all'art. 15, così conferendo alla legittimazione paesaggistica una veste formale spendibile ai fini della favorevole definizione del separato procedimento di cui all'art. 13 della legge n. 47 del 1985.

Il Consiglio di Stato ha in proposito ha precisato che “l'autorizzazione a realizzare costruzioni edilizie in zona paesaggistica, successiva all'edificazione, non è inibita e per certi versi è insita nel sistema di sanatoria delineato dalla L. 28.02.1985, n.47 e trova fondamento sistematico nelle opzioni contemplate dall'art. 15 della stessa legge 29.06.1939, n. 1497. A complemento di ciò, poi, l'esercizio del potere sanzionatorio previsto dallo stesso art. 15 non è precluso all'Amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, atteso che, l'esclusione della compromissione sostanziale dell'integrità del paesaggio, non cancella il residuo potere-dovere di procedere all'applicazione della sanzione per la violazione dell'obbligo, discendente dall'art. 7 l. n. 1497 cit., di conseguire in via preventiva il titolo di assenso necessario per realizzare l'intervento modificativo dell'assetto territoriale (VI, 09.10.2007 n. 5274, si veda anche: VI 21.02.2001, n. 912, 22.12.2004, n. 8188)”.
Pertanto, è proprio il disposto dell'art. 15 della legge n. 1497 del 1939, che prevede l'applicazione di una sanzione alternativa (demolizione o pagamento di un'indennità) in caso di interventi realizzati, senza autorizzazione, in zone soggette al vincolo, a far ritenere che la demolizione non è conseguenza ineluttabile dell'assenza dell'autorizzazione, potendo questa essere rilasciata in sanatoria in base alla legge n. 47/1985, ove sussista la compatibilità della costruzione abusiva con il vincolo.
Ed infatti, ove l'Amministrazione decida di comminare la sanzione pecuniaria, con esclusione della demolizione, appare del tutto illogico che l'opera possa, poi, restare priva di titolo concessorio ex art. 13 della legge n. 47 del 1985, giacché una siffatta evenienza comporterebbe la conseguente necessità di demolizione e quest'ultima si porrebbe in irrisolta contraddizione proprio con il meccanismo sanzionatorio di cui al citato art. 15, che, come detto, prevede la sanzione pecuniaria come alternativa alla demolizione stessa. In definitiva, l'esame sistematico della disciplina di cui agli artt. 7 e 15 della legge n. 1497 del 1939 ed all'art. 13 della legge n. 47 del 1985 consente di concludere nel senso della possibilità di formalizzare, attraverso un'autorizzazione postuma, in parte equipollente alla fattispecie di cui all'art. 7, la verifica di compatibilità ambientale implicita nel meccanismo sanzionatorio di cui all'art. 15, così conferendo alla legittimazione paesaggistica una veste formale spendibile ai fini della favorevole definizione del separato procedimento di cui all'art. 13 della legge n. 47 del 1985” (Consiglio di Stato, sez VI, 16-11-2004, n. 7475) (
TAR Veneto, Sez. II, sentenza 07.11.2012 n. 1351 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 49 del D.P.R. 753/1980 prevede che la distanza minima delle costruzioni dalle ferrovie debba essere di almeno 30 metri.
La finalità del vincolo è quella di impedire la realizzazione di costruzioni che pregiudichino la sicurezza e la regolarità dell’esercizio delle ferrovie. Solo particolari circostanze locali possono giustificare riduzioni di tale distanza.
Nel caso di specie, risulta che il fabbricato di proprietà dei ricorrenti si trova ad una distanza inferiore ai tre metri dalla sede ferroviaria.
E’ evidente, pertanto, che proprio tale estrema vicinanza del fabbricato costituisca di per sé ragione di pericolo per la sicurezza e la regolarità del traffico ferroviario e dunque valido motivo di diniego della deroga, non potendo la fascia di rispetto essere ridotta fino all’annullamento della stessa.

L’art. 49 del D.P.R. 753/1980 prevede che la distanza minima delle costruzioni dalle ferrovie debba essere di almeno 30 metri.
La finalità del vincolo è quella di impedire la realizzazione di costruzioni che pregiudichino la sicurezza e la regolarità dell’esercizio delle ferrovie. Solo particolari circostanze locali possono giustificare riduzioni di tale distanza.
Nel caso di specie, risulta che il fabbricato di proprietà dei ricorrenti si trova ad una distanza inferiore ai tre metri dalla sede ferroviaria.
E’ evidente, pertanto, che proprio tale estrema vicinanza del fabbricato costituisca di per sé ragione di pericolo per la sicurezza e la regolarità del traffico ferroviario e dunque valido motivo di diniego della deroga, non potendo la fascia di rispetto essere ridotta fino all’annullamento della stessa. Di conseguenza, la società R.F.I., a motivazione del proprio parere, non avrebbe potuto aggiungere altro rispetto all’affermazione dell’esistenza di tale potenziale pericolo.
Peraltro, il predetto ente ha anche proposto la soluzione ragionevole di accorpare il garage in questione all’abitazione, in modo da portarlo a distanza superiore ai tre metri dalla sede ferroviaria. Spetterà poi al ricorrente proporre tale soluzione al Comune in modo da evitare la demolizione, ma tale possibilità e le conseguenti scelte dell’amministrazione non costituiscono oggetto del presente giudizio (
TAR Veneto, Sez. II, sentenza 07.11.2012 n. 1348 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA PRIVATA: L’attribuzione al Presidente della Provincia (nella regione Veneto), da parte dell’art. 30, comma 2, della L.R. n. 11/2004, del potere di annullamento per motivi di legittimità dei permessi di costruire, è compatibile con i principi fondamentali dell’ordinamento ed in particolare con il modello organizzativo fondato sulla separazione di competenze fra la struttura politica e la struttura gestionale e amministrativa.
Al riguardo si osserva, in primo luogo, che l’art. 39 del D.P.R. n. 380/2001 ha attribuito genericamente alla regione il potere di annullamento dei titoli abilitativi rilasciati dal Comune. La Regione Veneto, in base all’art. 119 2° comma, con l’art. 30, comma 2, della L.R. n. 11/2004, ha poi delegato tale potere alla Provincia, individuando l’organo in concreto competente. In particolare, il legislatore regionale ha scelto di attribuire tale potere all’organo politico di vertice della Provincia.
Non si ravvedono ragioni d’incostituzionalità in tale scelta legislativa. Infatti, va considerato, in primo luogo, che il potere conferito al Presidente della Provincia è un potere straordinario di annullamento per soli motivi di legittimità. Va poi osservato che il modello di organizzazione fondato sulla separazione tra politica e amministrazione non è così rigido da non tollerare contiguità, al contrario, vi possono sempre essere dei momenti di contatto fra le due sfere.
In particolare, nella sfera delle funzioni politiche rimesse agli organi di governo, accanto alle funzioni d’indirizzo politico-amministrativo, possono coesistere, in quanto compatibili con esse e con il modello direzionale, anche dei poteri eccezionali di annullamento degli atti dirigenziali per motivi di legittimità. Si tratta, infatti, di funzioni sostitutive o di controllo poste a salvaguardia del principio di legalità, necessarie a preservare l’unità dell’ordinamento, che non comportano l’adozione diretta di scelte di amministrazione attiva. Si pensi al potere ministeriale di annullamento degli atti dei dirigenti per motivi di legittimità, previsto dall’art. 14, comma 3, del D.lgs. n. 165/2001; ovvero, proprio in materia di legislazione sugli enti locali, al potere governativo di annullamento degli atti illegittimi emessi dagli enti locali. Potere, quest’ultimo, che costituisce il corrispettivo, in ambito statale, del potere di annullamento dei permessi di costruire attribuito dall’art. 39 del D.P.R. n. 380/2001 alla Regione.
In conclusione, si deve allora ritenere che l’attribuzione al Presidente della Provincia, da parte dell’art. 30, comma 2, della L.R. n. 11/2004, del potere di annullamento per motivi di legittimità dei permessi di costruire, sia compatibile con i principi fondamentali dell’ordinamento ed in particolare con il modello organizzativo fondato sulla separazione di competenze fra la struttura politica e la struttura gestionale e amministrativa (
TAR Veneto, Sez. II, sentenza 07.11.2012 n. 1347 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Confisca per equivalente sul netto dei lavori fatti per la p.a..
La confisca per equivalente non può colpire tutto il profitto ottenuto dall'appalto illecitamente aggiudicato ma solo la parte al netto dei lavori già eseguiti per conto dell'amministrazione.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione che, con la sentenza 05.11.2012 n. 42530, ha accolto il ricorso di un imprenditore finito nel mirino degli inquirenti per l'aggiudicazione di appalti illeciti nella ex provincia di Pistoia.
In altri termini, in questi casi le autorità e poi il giudice del Riesame non possono disporre e convalidare misure senza calcolare il reale profitto del reato.
«Ai fini del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente», ricorda la sesta sezione penale, «di cui all'art. 322-ter, cod. pen., in presenza di un contratto di appalto ottenuto con la corruzione di pubblici funzionari, la nozione del profitto confiscabile al corruttore non va identificata con l'intero valore del rapporto sinallagmatico instaurato con la pubblica amministrazione, dovendosi in proposito distinguere il profitto direttamente derivato dall'illecito penale dal corrispettivo conseguito per l'effettiva e corretta erogazione delle prestazioni svolte in favore della stessa amministrazione, le quali non possono considerarsi automaticamente illecite in ragione dell'illiceità della causa remota».
Ma non è tutto. Da ciò deriva che, si legge nel passaggio successivo della breve ma interessante motivazione, il profitto che la parte privata ha conseguito dall'appalto illecitamente ottenuto non può globalmente omologarsi all'intero valore del rapporto contrattuale fra azienda ed ente.
L'instaurarsi di un rapporto a prestazioni corrispettive, infatti, impone di scindere il profitto confiscabile -quale direttamente derivato dall'illecito penale- dal profitto determinato dal corrispettivo di una effettiva e corretta erogazione di prestazioni comunque svolte in favore della stessa pubblica amministrazione, prestazioni che non possono considerarsi, di per se stesse e per immediato automatismo traslativo, colorate di illiceità per derivazione dalla causa remota, «non potendosi includere, nella nozione di profitto, qualunque ricavo conseguito per effetto della stipula di un contratto di appalto illecitamente ottenuto nell'ambito di una relazione corruttiva» (articolo ItaliaOggi del 06.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Per singoli episodi di vessazione. Non c'è mobbing ma il danno può essere risarcito.
L'INDICAZIONE/ Per la Cassazione il giudice può anche discostarsi dalla domanda presentata dal dipendente.

Non rilevano ai fini del mobbing. Ma possono comunque costare cari al datore di lavoro, che può essere chiamato a rispondere di singoli episodi di vessazione nei confronti del dipendente anche se privi dell'unicità del disegno persecutorio.

Lo chiarisce la Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, con la sentenza 05.11.2012 n. 18927.
La Corte ha così azzerato la sentenza del Corte d'appello di Napoli contraria alla richiesta di condanna avanzata da una farmacista nei confronti del proprio principale. Una brutta storia fatta da (presunti) episodi di vessazione e da un (certo) tentativo di suicidio da parte della lavoratrice. Per la Corte d'appello, però, gli episodi contestati non erano idonei ad attestare l'esistenza di una strategia persecutoria con l'obiettivo di indurre la dipendente alle dimissioni. E tanto bastava per respingere la richiesta di risarcimento per mobbing.
La Corte di cassazione però non è stata di questo avviso. E, dopo avere rapidamente ricordato che alla base della responsabilità per mobbing si pone di solito l'articolo 2087 del Codice civile, ha invece precisato che se anche l'insieme delle condotte messe in atto dal datore di lavoro non sono, prese cumulativamente, idonee a destabilizzare il lavoratore, tuttavia, prese invece singolarmente e caso per caso, possono essere ritenute in grado di comprimere in maniera grave i diritti fondamentali e tutelati sul piano costituzionale del dipendente.
Infatti, sottolinea ancora la sentenza, in ordinamenti come il nostro, che già prevedono sul piano costituzionale misure di tutela dei diritti fondamentali del lavoratore l'elenco dei fattori di discriminazione o vessazione non deve essere considerato tassativo.
A compromettere questa impostazione non può essere neppure l'iniziale prospettazione della domanda in termini di danno da mobbing. Toccherà eventualmente al giudice qualificare giuridicamente l'azione, «interpretando il titolo su cui si fonda la controversia ed anche applicando norme di legge diverse da quelle invocate dalle parti interessate (...)».
Nella vicenda approdata in Cassazione, i giudici napoletani non hanno proceduto in questa direzione: avrebbero potuto invece accertare se qualcuno degli episodi avesse comunque un carattere vessatorio che, escludendo comunque una responsabilità del datore di lavoro nel provocare lo stato di depressione della lavoratrice sino a spingerla al tentativo di suicidio, potesse configurare un danno giuridicamente rilevante. Un danno quindi meritevole anche di un risarcimento a beneficio del lavoratore (articolo Il Sole 24 Ore del 06.11.2012).

PUBBLICO IMPIEGO: Corte di cassazione. Condizioni vessatorie sono risarcibili pure se non c'è il mobbing.
Se il mobbing lamentato dal lavoratore non sussiste, non si può escludere che il datore possa comunque essere condannato a risarcire al dipendente il danno non patrimoniale rispetto a singole condotte mortificanti, accertate in giudizio, nonostante manchi l'unicità del disegno persecutorio contro il prestatore d'opera.

Lo precisa la sentenza 05.11.2012 n. 18927 della Sez. lavoro della Corte di Cassazione.
È accolto contro le conclusioni del pm il ricorso proposto dalla lavoratrice mandata anzitempo in pensione dal datore perché anziana e non più in grado di stare al passo con i tempi. La donna arriva a un drammatico tentativo di suicidio, ma la scelta va ricondotta più a una sua parossistica risposta emotiva ai problemi sul lavoro che a una reale condotta persecutoria dei responsabili e dei colleghi nella farmacia presso cui era addetta. Il punto è che con l'introduzione del sistema informatizzato e l'assunzione di nuovi collaboratori la lavoratrice non si ritrova più nelle attività da svolgere.
Ma attenzione, la motivazione della Corte d'appello che esonera il datore da ogni obbligazione risarcitoria risulta contraddittoria: il giudice del merito è infatti tenuto a esaminare tutti i singoli episodi potenzialmente vessatori denunciati dal lavoratore, anche nell'ipotesi in cui non si configura a carico del datore e dei colleghi l'unicità dell'intento persecutorio nei confronti del dipendente che reclama il danno non patrimoniale.
E in particolare bisogna accertare l'eventuale sussistenza di condotte mortificanti a carico del prestatore d'opera con responsabilità ascrivibili al datore (articolo ItaliaOggi del 06.11.2012).

EDILIZIA PRIVATAIl divieto di edificazione ex art. 96 r.d. 523/1904 ha carattere assoluto e riguarda in genere le acque pubbliche, comprese anche quelle dei laghi.
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E’ irrilevante la circostanza che solo il successivo art. 97 menzioni espressamente i laghi. La disposizione della lettera n), alla quale ci si richiama, reca infatti una previsione particolare riferita al regime delle spiagge dei laghi e nulla dice circa la disciplina delle sponde, per la quale dunque non può non valere la norma generale dell’art. 96.
Il rilievo secondo cui l’inciso della lettera f) dell’art. 96 “dal piede degli argini e loro accessori come sopra” richiamerebbe “i fiumi, torrenti e canali navigabili” previsti dalla lettera e) che precede è del pari fallace, apparendo invece chiaro che esso, rispetto agli argini, si riferisce alle loro “banche o sottobanche”.
Che questa sia la corretta interpretazione delle norme lo dimostra poi una considerazione ulteriore di carattere generale. Se la finalità delle disposizioni in oggetto è quella di consentire il libero deflusso delle acque, è evidente che la medesima esigenza si pone con riguardo alle acque dei laghi, anch’esse soggette a innalzamenti di livello.

Il divieto di edificazione in oggetto ha carattere assoluto e riguarda in genere le acque pubbliche; tale è senz’altro il lago di Garda, sul quale l’albergo è costruito.
Nessuno dei rilievi opposti per affermare l’inapplicabilità del divieto alle sponde dei laghi resiste alla critica. Ciò si deve dire, in particolare, per gli argomenti che gli appellanti vorrebbero trarre dall’analisi delle norme contenute nel regio decreto citato.
Osservano gli appellanti che dal complesso delle disposizioni recate dall’art. 96 emergerebbe l’intento del legislatore dell’epoca di limitare la disciplina ai soli corsi d’acqua. Questa sembra piuttosto una petizione di principio, per di più in contrasto con l’alinea dell’articolo, che, nel fare riferimento alle acque pubbliche in genere, non pone alcuna restrizione del genere diversamente da quanto invece dispone l’art. 98, la lettera d) del quale testualmente è circoscritta a “le nuove costruzioni nell'alveo dei fiumi, torrenti, rivi, scolatoi pubblici o canali demaniali”.
E’ poi irrilevante la circostanza che solo il successivo art. 97 menzioni espressamente i laghi. La disposizione della lettera n), alla quale ci si richiama, reca infatti una previsione particolare riferita al regime delle spiagge dei laghi e nulla dice circa la disciplina delle sponde, per la quale dunque non può non valere la norma generale dell’art. 96.
Il rilievo secondo cui l’inciso della lettera f) dell’art. 96 “dal piede degli argini e loro accessori come sopra” richiamerebbe “i fiumi, torrenti e canali navigabili” previsti dalla lettera e) che precede è del pari fallace, apparendo invece chiaro che esso, rispetto agli argini, si riferisce alle loro “banche o sottobanche”.
Che questa sia la corretta interpretazione delle norme lo dimostra poi una considerazione ulteriore di carattere generale. Se la finalità delle disposizioni in oggetto è quella di consentire il libero deflusso delle acque, è evidente che la medesima esigenza si pone con riguardo alle acque dei laghi, anch’esse soggette a innalzamenti di livello. Mentre infine non può rilevare che la violazione della regola sulla distanza non riguarderebbe il piano terra, ma un piano superiore, perché, così argomentando, si vuole introdurre una deroga, che la legge non conosce, al divieto di edificare, assoluto e inderogabile.
A una diversa conclusione, infine, non è possibile giungere prendendo in considerazione l’esistenza di altri manufatti a ridosso della riva del lago di Garda. Si tratta di circostanza che, genericamente affermata più che effettivamente dimostrata, andrebbe comunque esaminata con riguardo ai singoli casi concreti. Dato il divieto di edificabilità, peraltro, l’esistenza di eventuali abusi edilizi non potrebbe di per sé legittimare la pretesa a identico trattamento (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 14.04.2010, n. 2105; Id., Sez. IV, 24.02.2011, n. 1235).
L’accertata violazione della norma sulla distanza della costruzione dalle acque pubbliche è di per sé ragione sufficiente per giudicare illegittimo il permesso di costruire rilasciato dal Comune di Malcesine (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.11.2012 n. 5620 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d’acqua, previsto dalla lettera f) dell’art. 96  R.D. 523/1904, è informato alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici e ha carattere legale e inderogabile: ne segue che le opere costruite in violazione di tale divieto ricadono nella previsione dell’art. 33 della legge n. 47 del 1985 e non sono pertanto suscettibili di sanatoria.
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Alla luce del generale divieto di costruzione di opere in prossimità degli argini dei corsi d’acqua, il rinvio alla normativa locale assume carattere eccezionale. Tale normativa, per prevalere sulla norma generale, deve avere carattere specifico, ossia essere una normativa espressamente dedicata alla regolamentazione della tutela delle acque e alla distanza dagli argini delle costruzioni, che tenga esplicitamente conto della regola generale espressa dalla normativa statale e delle peculiari condizioni delle acque e degli argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale deroga.
Nulla vieta che la norma locale sia espressa anche mediante l'utilizzo di uno strumento urbanistico, come può essere il piano regolatore generale, ma occorre che tale strumento contenga una norma esplicitamente dedicata alla regolamentazione delle distanze delle costruzioni dagli argini anche in eventuale deroga alla disposizione della lettera f) dell’art. 96, in relazione alla specifica condizione locale delle acque di cui trattasi.

L’art. 96 del r.d. n. 523 del 1904 elenca una serie di “lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese”.
Come afferma costantemente la giurisprudenza, il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d’acqua, previsto dalla lettera f) dell’art. 96, è informato alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (cfr. Cass. civ., SS.UU., 30.07.2009, n. 17784) e ha carattere legale e inderogabile: ne segue che le opere costruite in violazione di tale divieto ricadono nella previsione dell’art. 33 della legge n. 47 del 1985 e non sono pertanto suscettibili di sanatoria (cfr. per tutte Cons. Stato, Sez. V, 26.03.2009, n. 1814; Id., Sez. IV, 12.02.2010, n. 772; Id., Sez. IV, 22.06.2011, n. 3781; Trib. Sup. acque pubbl., 15.03.2011, n. 35; ivi riferimenti ulteriori).
E’ ben vero che la lettera f) dell’art. 96, che qui viene in questione, commisura il divieto alla distanza “stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località” e in mancanza di queste lo stabilisce alla distanza “minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi”.
Sennonché –come è stato più volte affermato in giurisprudenza– alla luce del generale divieto di costruzione di opere in prossimità degli argini dei corsi d’acqua, il rinvio alla normativa locale assume carattere eccezionale. Tale normativa, per prevalere sulla norma generale, deve avere carattere specifico, ossia essere una normativa espressamente dedicata alla regolamentazione della tutela delle acque e alla distanza dagli argini delle costruzioni, che tenga esplicitamente conto della regola generale espressa dalla normativa statale e delle peculiari condizioni delle acque e degli argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale deroga. Nulla vieta che la norma locale sia espressa anche mediante l'utilizzo di uno strumento urbanistico, come può essere il piano regolatore generale, ma occorre che tale strumento contenga una norma esplicitamente dedicata alla regolamentazione delle distanze delle costruzioni dagli argini anche in eventuale deroga alla disposizione della lettera f) dell’art. 96, in relazione alla specifica condizione locale delle acque di cui trattasi (cfr. Cass. civ., SS. UU., 18.07.2008, n. 19813; Cons. Stato, Sez. IV, 29.04.2011, n. 2544) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.11.2012 n. 5619 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIE' stato icasticamente affermato che in tema di gare di appalto pubblico, anche se all'istituto dell'avvalimento deve ormai essere riconosciuta portata generale, resta salva, tuttavia, l'infungibilità dei requisiti ex artt. 38 e 39 del codice dei contratti, in quanto requisiti di tipo soggettivo, intrinsecamente legati al soggetto e alla sua idoneità a porsi come valido e affidabile contraente per l'Amministrazione.
Invero l’avvalimento, istituto di iniziale elaborazione della giurisprudenza comunitaria,  è fondato sulla necessità di potenziare la libertà di concorrenza delle imprese, essendo lo stesso funzionale a rimuovere ogni ostacolo al suo libero esercizio in ambito Comunitario e idoneo a garantire la massima partecipazione alle procedure di gara e, nel contempo, la par condicio dei concorrenti.
La disciplina dell'art. 49 del Codice Appalti, in coerenza con la giurisprudenza e la normativa comunitaria, non pone alcuna limitazione all'avvalimento, stabilendo che un operatore economico può, se del caso e per un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi, purché vi sia, in positivo, un’adeguata prova della disponibilità dei requisiti prestati, dimostrando all’Amministrazione aggiudicatrice che l’impresa concorrente disporrà dei mezzi necessari.
Fanno eccezione a questa portata generale dell’istituto i requisiti strettamente personali, come quelli di carattere generale ai sensi dell’art. 38 del Codice appalti (cd. requisiti di idoneità morale), così come quelli soggettivi di carattere personale, individuati nell’art. 39 del medesimo Codice (cd. requisiti professionali).
Tali requisiti, infatti, non sono attinenti all’impresa e ai mezzi di cui essa dispone e non sono intesi a garantire l’obiettiva qualità dell'adempimento; essi, invece, sono relativi alla mera e soggettiva idoneità (professionale) del concorrente (quindi non dell’impresa ma dell’imprenditore) a partecipare alla gara d’appalto e ad essere, quindi, contraente con la Pubblica Amministrazione.
Pertanto, è per una ragione logica, prima ancora che giuridica, che devono ritenersi insuscettibili di avvalimento i requisiti di cui agli artt. 38 e 39 del Codice degli appalti, trattandosi, si ribadisce, di requisiti di onorabilità, moralità e professionalità intrinsecamente legati al soggetto concorrente alla gara e alla sua idoneità a porsi come valido e affidabile contraente per l'Amministrazione.
Peraltro, poiché nell’avvalimento l’operazione economica complessiva si compone di un contratto tra impresa ausiliata ed impresa ausiliaria, di una dichiarazione di impegno dell’impresa ausiliaria e di un contratto di appalto, manifestandosi, dunque, quale collegamento negoziale composto da un susseguirsi di schemi contrattuali inscindibilmente connessi, è evidente che l’oggetto dell’impegno negoziale dell’impresa ausiliata con cui essa trasferisce il requisito mancante in capo all’impresa partecipante, deve essere non solo lecito e determinato (o determinabile), ma anche possibile ex art. 1346 c.c.
In presenza di requisiti strettamente personali, dunque, l’oggetto di un eventuale contratto di avvalimento non può ritenersi giuridicamente possibile, in quanto non deducibile quale prestazione ai sensi degli art. 1173 e 1321 c.c..
Il Collegio osserva, peraltro, che in astratto gli schemi contrattuali che compongono l’operazione economica delineata dal citato art. 49 possono avere ad oggetto sia requisiti materiali (mezzi, attrezzature, forza lavoro), sia requisiti immateriali (capacità economica-finanziaria, fatturato, attestazione SOA e, secondo un filone prevalente nella giurisprudenza di questo Consiglio, anche le certificazioni di qualità).
Nell’ipotesi di conferimento di requisiti materiali l’impresa avvalsa si priva (nei limiti delle prestazioni necessarie ad eseguire il contratto da affidare con gara) effettivamente dei mezzi prestati a favore dell’impresa concorrente; nell’ipotesi, invece, in cui si conferiscano (rectius: si prestino) requisiti immateriali si dovrà comunque confezionare un contratto idoneo a determinare una sorta di “traditio simbolica” di tali requisiti dall’impresa ausiliaria a quella ausiliata partecipante alla gara d’appalto (ad es., ricorrendo all’affitto di azienda o di ramo di azienda).
Il tratto comune è rappresentato, come detto, dal fatto che il prestito dei requisiti riguarda i requisiti dell’impresa e non quelli dell’imprenditore, che sono insuscettibili di trasferimento anche in forma simbolica, trattandosi di requisiti soggettivamente indefettibili di cui il possessore non può, neppure in modo circostanziato e eposodico, privarsi e, di conseguenza, non possono nemmeno essere dedotti quali oggetto di “possibile” prestazione contrattuale, come si deve ribadire.
Peraltro, si deve aggiungere ad abundantiam che anche il d.P.R. 05.10.2010, n. 207 (Regolamento di esecuzione e attuazione del Codice dei contratti pubblici) conferma tale interpretazione: l’art. 88, comma 5, dedicato al contratto di avvalimento in gara e alla qualificazione mediante avvalimento, prevede espressamente, infatti, che l’impresa ausiliata per conseguire la qualificazione di cui all’art. 50 del codice, deve possedere i requisiti di cui all’art. 78 in proprio.
I requisiti di cui all’art. 78 che l’impresa deve possedere in proprio sono i requisiti d’ordine generale che, ai sensi del comma 1 del predetto articolo, sono quelli previsti dagli articoli 38, comma 1, e 39 commi 1 e 2, del Codice appalti.

Deve preliminarmente essere evidenziato che questo Consiglio, con la sentenza della sez. III 15.11.2011, n. 6040, ha icasticamente affermato che in tema di gare di appalto pubblico, anche se all'istituto dell'avvalimento deve ormai essere riconosciuta portata generale, resta salva, tuttavia, l'infungibilità dei requisiti ex artt. 38 e 39 del codice dei contratti, in quanto requisiti di tipo soggettivo, intrinsecamente legati al soggetto e alla sua idoneità a porsi come valido e affidabile contraente per l'Amministrazione.
Si deve, infatti, rilevare che l’avvalimento, istituto di iniziale elaborazione della giurisprudenza comunitaria (sentenza Ballast Nedam Groep I, ricavata dall'interpretazione dell'art. 26, lett. e, direttiva n. 71/305/CEE, nonché C. Giust. CE, sez. V, 14.04.1994, C-389/92, C. giust. CE, sez. III, 18.12.1997, C-5/97 e C. Giust. CE, sez. V, 02.12.1999, C-176/98, Holst Italia S.p.A. c. Comune di Cagliari), è fondato sulla necessità di potenziare la libertà di concorrenza delle imprese, essendo lo stesso funzionale a rimuovere ogni ostacolo al suo libero esercizio in ambito Comunitario e idoneo a garantire la massima partecipazione alle procedure di gara e, nel contempo, la par condicio dei concorrenti.
La disciplina dell'art. 49 del Codice Appalti, in coerenza con la giurisprudenza e la normativa comunitaria, non pone alcuna limitazione all'avvalimento, stabilendo che un operatore economico può, se del caso e per un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi, purché vi sia, in positivo, un’adeguata prova della disponibilità dei requisiti prestati, dimostrando all’Amministrazione aggiudicatrice che l’impresa concorrente disporrà dei mezzi necessari.
Fanno eccezione a questa portata generale dell’istituto i requisiti strettamente personali, come quelli di carattere generale ai sensi dell’art. 38 del Codice appalti (cd. requisiti di idoneità morale), così come quelli soggettivi di carattere personale, individuati nell’art. 39 del medesimo Codice (cd. requisiti professionali).
Tali requisiti, infatti, non sono attinenti all’impresa e ai mezzi di cui essa dispone e non sono intesi a garantire l’obiettiva qualità dell'adempimento; essi, invece, sono relativi alla mera e soggettiva idoneità (professionale) del concorrente (quindi non dell’impresa ma dell’imprenditore) a partecipare alla gara d’appalto e ad essere, quindi, contraente con la Pubblica Amministrazione.
Pertanto, secondo il Collegio, è per una ragione logica, prima ancora che giuridica, che devono ritenersi insuscettibili di avvalimento i requisiti di cui agli artt. 38 e 39 del Codice degli appalti, trattandosi, si ribadisce, di requisiti di onorabilità, moralità e professionalità intrinsecamente legati al soggetto concorrente alla gara e alla sua idoneità a porsi come valido e affidabile contraente per l'Amministrazione.
Peraltro, osserva il Collegio, poiché nell’avvalimento l’operazione economica complessiva si compone di un contratto tra impresa ausiliata ed impresa ausiliaria, di una dichiarazione di impegno dell’impresa ausiliaria e di un contratto di appalto, manifestandosi, dunque, quale collegamento negoziale composto da un susseguirsi di schemi contrattuali inscindibilmente connessi, è evidente che l’oggetto dell’impegno negoziale dell’impresa ausiliata con cui essa trasferisce il requisito mancante in capo all’impresa partecipante, deve essere non solo lecito e determinato (o determinabile), ma anche possibile ex art. 1346 c.c.
In presenza di requisiti strettamente personali, dunque, l’oggetto di un eventuale contratto di avvalimento non può ritenersi giuridicamente possibile, in quanto non deducibile quale prestazione ai sensi degli art. 1173 e 1321 c.c..
Il Collegio osserva, peraltro, che in astratto gli schemi contrattuali che compongono l’operazione economica delineata dal citato art. 49 possono avere ad oggetto sia requisiti materiali (mezzi, attrezzature, forza lavoro), sia requisiti immateriali (capacità economica-finanziaria, fatturato, attestazione SOA e, secondo un filone prevalente nella giurisprudenza di questo Consiglio, anche le certificazioni di qualità).
Nell’ipotesi di conferimento di requisiti materiali l’impresa avvalsa si priva (nei limiti delle prestazioni necessarie ad eseguire il contratto da affidare con gara) effettivamente dei mezzi prestati a favore dell’impresa concorrente; nell’ipotesi, invece, in cui si conferiscano (rectius: si prestino) requisiti immateriali si dovrà comunque confezionare un contratto idoneo a determinare una sorta di “traditio simbolica” di tali requisiti dall’impresa ausiliaria a quella ausiliata partecipante alla gara d’appalto (ad es., ricorrendo all’affitto di azienda o di ramo di azienda).
Il tratto comune è rappresentato, come detto, dal fatto che il prestito dei requisiti riguarda i requisiti dell’impresa e non quelli dell’imprenditore, che sono insuscettibili di trasferimento anche in forma simbolica, trattandosi di requisiti soggettivamente indefettibili di cui il possessore non può, neppure in modo circostanziato e eposodico, privarsi e, di conseguenza, non possono nemmeno essere dedotti quali oggetto di “possibile” prestazione contrattuale, come si deve ribadire.
Peraltro, si deve aggiungere ad abundantiam che anche il d.P.R. 05.10.2010, n. 207 (Regolamento di esecuzione e attuazione del Codice dei contratti pubblici) conferma tale interpretazione: l’art. 88, comma 5, dedicato al contratto di avvalimento in gara e alla qualificazione mediante avvalimento, prevede espressamente, infatti, che l’impresa ausiliata per conseguire la qualificazione di cui all’art. 50 del codice, deve possedere i requisiti di cui all’art. 78 in proprio.
I requisiti di cui all’art. 78 che l’impresa deve possedere in proprio sono i requisiti d’ordine generale che, ai sensi del comma 1 del predetto articolo, sono quelli previsti dagli articoli 38, comma 1, e 39 commi 1 e 2, del Codice appalti (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.11.2012 n. 5595 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANel rilascio dell'autorizzazione commerciale occorre tenere presente i presupposti aspetti di conformità urbanistico-edilizia dei locali in cui l'attività commerciale si va a svolgere, con la naturale conseguenza che il diniego di esercizio di attività di commercio deve ritenersi legittimo ove fondato su rappresentate e accertate ragioni di abusività e/o non regolarità delle opere edilizie in questione con le prescrizioni urbanistiche.
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Tutti i provvedimenti legittimamente fondati su tali presupposti (abusi edilizi) non necessitino di alcuna particolare valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti, non essendo configurabile alcun tipo di affidamento meritevole di tutela alla conservazione di situazione fondate su “illeciti permanenti”, che il tempo non può sanare in via di fatto.

Sul primo aspetto il Collegio ritiene di richiamare, facendolo proprio, il consolidato orientamento di questo Consiglio di Stato secondo il quale “nel rilascio dell'autorizzazione commerciale occorre tenere presente i presupposti aspetti di conformità urbanistico-edilizia dei locali in cui l'attività commerciale si va a svolgere, con la naturale conseguenza che il diniego di esercizio di attività di commercio deve ritenersi legittimo ove fondato su rappresentate e accertate ragioni di abusività e/o non regolarità delle opere edilizie in questione con le prescrizioni urbanistiche” (Consiglio di Stato, sez. IV, 14/10/2011, n. 5537).
Sicché del tutto corretta appare la motivazione del TAR di Napoli, che muovendosi sul solco tracciato dalla citata giurisprudenza ha confermato che il legittimo esercizio di un'attività commerciale, soprattutto se essa comporti –come nel caso di specie- la somministrazione di alimenti e bevande, deve essere ancorato, sia in sede di rilascio del relativo titolo autorizzatorio, sia per l’intera durata del suo svolgimento, alla disponibilità giuridica e alla regolarità urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene posta in essere.
Nel caso di specie, per quanto allegato dallo stesso ricorrente, è incontroversa la mancanza di conformità urbanistica-edilizia del compendio aziendale, di talché ineccepibile appare il consequenziale provvedimento inibitorio adottato dal Comune di Pompei, rispetto alla richiesta di rilascio della relativa autorizzazione commerciale. E ciò, anche alla luce della disciplina regionale e statale in materia di aziende agrituristiche, puntualmente richiamata dal TAR nella decisione gravata, che il Collegio ritiene di condividere pienamente anche sotto tale specifico aspetto.
Ne consegue che la sentenza merita conferma anche nella parte in cui ha ritenuto corretto il comportamento del Comune di Pompei che ha ordinato la cessazione dell’attività abusiva di agriturismo condotta dall’appellante, sul rilievo della non assentibilità dei manufatti realizzati nel compendio aziendale e della improcedibilità dell’istanza di rilascio dell’autorizzazione sanitaria in relazione a locali ed ambienti oggetto di una pluralità di modifiche, oltre che in ragione dell’insussistenza di altri fondamentali presupposti (quali l’iscrizione all’elenco regionale degli operatori agrituristici).
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L’appellante lamenta, poi, il fatto che il TAR non avrebbe considerato la circostanza, quanto alla interruzione della propria attività, che vi fosse un affidamento formatosi “medio tempore”.
Sul punto, mutuando i principi in tema di provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, la Sezione ritiene che tutti i provvedimenti legittimamente fondati su tali presupposti (abusi edilizi) non necessitino di alcuna particolare valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti, non essendo configurabile alcun tipo di affidamento meritevole di tutela alla conservazione di situazione fondate su “illeciti permanenti”, che il tempo non può sanare in via di fatto (Cons. St., sez. IV, 16/04/2012, n. 2185).
Ciò vale tanto più nel caso di specie, atteso che -come opportunamente evidenziato dal TAR di Napoli– nella materia delle aziende agrituristiche vi è una disciplina legislativa statale e regionale particolarmente rigorosa, perché finalizzata a preservare la specificità del settore agrituristico e la genuinità dei prodotti fruibili all’interno dell’azienda agrituristica
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.11.2012 n. 5590 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nel caso di esercizio del diritto di accesso nei confronti di soggetti privati esercenti pubblici servizi o pubbliche funzioni, oggetto dell’accesso non sono tutti gli atti da questi soggetti formati o detenuti, ma solo quelli che pur non costituendo diretta esplicazione della funzione o del servizio pubblico svolti, siano agli stessi legati da un nesso di diretta strumentalità.
Sotto un primo e assorbente profilo, va evidenziato, conformemente a giurisprudenza consolidata richiamata anche nella sentenza di primo grado (cfr. per tutte, Cons. Stato, sez. IV, 25.01.2011, n. 719), che nel caso di esercizio del diritto di accesso nei confronti di soggetti privati esercenti pubblici servizi o pubbliche funzioni (qual è la MOF s.p.a.), oggetto dell’accesso non sono tutti gli atti da questi soggetti formati o detenuti, ma solo quelli che pur non costituendo diretta esplicazione della funzione o del servizio pubblico svolti, siano agli stessi legati da un nesso di diretta strumentalità (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 31.10.2012 n. 5572 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: I chiarimenti autointerpretativi della stazione appaltante non possono né modificare il bando, né integrarlo, né rappresentarne un'inammissibile interpretazione autentica.
Il bando, in quanto lex specialis predeterminata e pubblicata con le forme di legge, deve invero essere interpretato ed applicato per quello che obbiettivamente prescrive, senza che possano acquisire rilevanza preclusiva atti interpretativi postumi della stazione appaltante, la quale non potrebbe giammai disapplicare le clausole del bando né alterarne ex post la portata prescrittiva.
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Le regole contenute nella lex specialis di una gara vincolano non solo i concorrenti, ma anche la stessa Amministrazione, che non conserva alcun margine di discrezionalità nella loro concreta attuazione, non potendo disapplicarle neppure nel caso in cui talune di esse risultino inopportunamente o incongruamente formulate, salva la sola possibilità di far luogo, nell‘esercizio del potere di autotutela, all’annullamento del bando ... si devono reputare comunque preferibili, a tutela dell’affidamento dei destinatari, le espressioni letterali delle previsioni da chiarire, evitando che il procedimento ermeneutico conduca all’integrazione delle regole di gara palesando significati del bando non chiaramente desumibili dalla sua lettura testuale.
Nell‘interpretazione delle clausole del bando per l’aggiudicazione di un contratto della P.A. deve darsi, pertanto, prevalenza alle espressioni letterali in esse contenute, escludendo ogni procedimento ermeneutico in funzione integrativa diretto ad evidenziare pretesi significati e ad ingenerare incertezze nell’applicazione.
Così non v'è dubbio, che i chiarimenti della P.A. "possono considerarsi ammissibili se contribuiscono, attraverso un‘operazione di interpretazione del testo, a renderne chiaro e comprensibile il significato e/o la ratio di una disposizione del bando, ma non già quando, proprio attraverso l’attività interpretativa, si giunga ad attribuire alla disposizione un significato ed una portata diversa e maggiore di quella che risulta dal testo stesso, in tal caso violandosi il rigoroso principio formale della lex specialis, posto notoriamente a garanzia dei principi di cui all’art. 97 della Costituzione ...".

Non v'è dubbio, infatti, che i chiarimenti autointerpretativi della stazione appaltante non possono né modificare il bando, né integrarlo, né rappresentarne un'inammissibile interpretazione autentica.
Il bando, in quanto lex specialis predeterminata e pubblicata con le forme di legge, deve invero essere interpretato ed applicato per quello che obbiettivamente prescrive, senza che possano acquisire rilevanza preclusiva atti interpretativi postumi della stazione appaltante, la quale non potrebbe giammai disapplicare le clausole del bando né alterarne ex post la portata prescrittiva.
Sul punto, del resto, la giurisprudenza della Sezione ha di recente (19.09.2011, n. 5282) avuto modo di precisare "che le regole contenute nella lex specialis di una gara vincolano non solo i concorrenti, ma anche la stessa Amministrazione, che non conserva alcun margine di discrezionalità nella loro concreta attuazione, non potendo disapplicarle neppure nel caso in cui talune di esse risultino inopportunamente o incongruamente formulate, salva la sola possibilità di far luogo, nell‘esercizio del potere di autotutela, all’annullamento del bando ... si devono reputare comunque preferibili, a tutela dell’affidamento dei destinatari, le espressioni letterali delle previsioni da chiarire, evitando che il procedimento ermeneutico conduca all’integrazione delle regole di gara palesando significati del bando non chiaramente desumibili dalla sua lettura testuale (C.d.S., IV, 05.10.2005, n. 5367, V, 15.04.2004, n. 2162). Nell‘interpretazione delle clausole del bando per l’aggiudicazione di un contratto della P.A. deve darsi, pertanto, prevalenza alle espressioni letterali in esse contenute, escludendo ogni procedimento ermeneutico in funzione integrativa diretto ad evidenziare pretesi significati e ad ingenerare incertezze nell’applicazione (C.d.S., V, 30.08.2005, n. 4413)".
Così non v'è dubbio, che i chiarimenti della P.A. "possono considerarsi ammissibili se contribuiscono, attraverso un‘operazione di interpretazione del testo, a renderne chiaro e comprensibile il significato e/o la ratio di una disposizione del bando, ma non già quando, proprio attraverso l’attività interpretativa, si giunga ad attribuire alla disposizione un significato ed una portata diversa e maggiore di quella che risulta dal testo stesso, in tal caso violandosi il rigoroso principio formale della lex specialis, posto notoriamente a garanzia dei principi di cui all’art. 97 della Costituzione ..." (sez V 13.07.2010, n. 4526).
A ciò si aggiunga che, nel caso di specie, i chiarimenti invocati hanno rappresentato espressione di un'attività informale del RUP: né il Bando né il Disciplinare, infatti, contemplano la possibilità di chiarimenti auto-interpretativi resi in corso di gara da organi della stazione appaltante (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 31.10.2012 n. 5570 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Avvalimento "generico".
Un contratto di avvalimento con il quale l’impresa ausiliaria di impegna, genericamente, a mettere a disposizione le risorse necessarie per tutta la durata dell’appalto, non è sufficiente a soddisfare le prescrizioni imposte dall’art. 88 del Dpr. 207/2010 e, pertanto, è illegittima la decisione della stazione appaltante che, in siffatte ipotesi, decida di ammettere il concorrente.

Questa, in termini di massima, è la decisione assunta dai Giudici della III Sez. del Consiglio di Stato, con la sentenza 29.10.2012 n. 5512 che, conformemente ai principi espressi in passato dalla giurisprudenza, ha ribadito che l’indeterminatezza dell’oggetto costituisce in questo caso una chiara violazione del citato decreto che, come noto, impone che il contratto di avvalimento deve riportare in modo compiuto, esplicito ed esauriente l’oggetto (ossia, le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico), la durata e, comunque, ogni altro utile elemento.
La peculiare dichiarazione richiesta esprime l'impegno assunto dal concorrente nei confronti della stazione appaltante, che si caratterizza non quale generico riferimento all'utilizzo dell'istituto, ma come concreta specificazione dei suoi contenuti, riferiti ai requisiti.
Si tratta, dunque, di un contratto con il quale il concorrente si qualifica nei confronti della stazione appaltante e perciò stesso non può essere sommario (Cfr., in questi termini, TAR Campania, Salerno, sez. I, 03.05.2011, n. 820).
Ad argomentare diversamente, ricordano i Giudici, si giungerebbe a snaturare l'istituto dell'avvalimento per piegarlo ad una logica di elusione dei requisiti stabiliti nel bando di gara.
Considerato inoltre che il contratto di avvalimento prodotto dall’aggiudicataria, all’art. 2 prevedeva, quale proprio oggetto, l’impegno dell’ausiliaria "a fornire i requisiti ed a mettere a disposizione le risorse necessarie per tutta la durata dell’appalto" oggetto della gara, non sarebbe nemmeno possibile colmare altrimenti la genericità della previsione, facendo riferimento alla SOA posseduta dall’ausiliaria.
Infatti, la qualificazione di quest’ultima è solo una indicazione potenziale che, in assenza di specifica previsione contrattuale, non potrebbe ritenersi essere stata messa a disposizione dell’impresa aggiudicataria (commento tratto da /www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione di opere edilizie abusive non deve essere preceduto dall’avviso di cui all’art. 7 della legge n. 241 del 1990, trattandosi di un atto dovuto che viene emesso, quale sanzione per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata precisamente ipotizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge; esso, in quanto atto volto a reprimere un abuso edilizio, sorge in virtù di un presupposto di fatto (appunto, l'abuso) di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando esso nella sua sfera di controllo.
Osserva il collegio che:
1) per giurisprudenza costante l’ordine di demolizione di opere edilizie abusive non deve essere preceduto dall’avviso di cui all’art. 7 della legge n. 241 del 1990, trattandosi di un atto dovuto che viene emesso, quale sanzione per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata precisamente ipotizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge; esso, in quanto atto volto a reprimere un abuso edilizio, sorge in virtù di un presupposto di fatto (appunto, l'abuso) di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando esso nella sua sfera di controllo. Per tali ragioni la censura deve dunque essere respinta (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.10.2012 n. 4261 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il muretto di recinzione, per giurisprudenza costante, solo in caso di modeste strutture senza opere murarie (quali quelle con rete metallica sorretta da paletti in ferro o di legno senza muretto di sostegno, tipiche dei fondi rustici) non necessita del permesso di costruire e può essere incluso fra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo ius excludendi alios o comunque la delimitazione delle singole proprietà, ed in questi casi è anzi possibile effettuare una semplice d.i.a.; diversamente, è invece richiesto il permesso di costruire quando la recinzione determina una irreversibile trasformazione dello stato dei luoghi, come nel caso di recinzione costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo.
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La modificazione dei prospetti è espressamente soggetta a permesso di costruire ai sensi dell’art. 10, comma 1, lettera c), del DPR n. 380 del 2001.
Le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso, mutazione d’uso pacificamente avvenuta nella specie.
A ciò si aggiunga che solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico), mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, si integra in questa ipotesi una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire, indipendentemente dall'esecuzione di opere.
In conclusione, le opere connotate da ampliamento dei prospetti, da modifica di destinazione e da modifiche interne vanno annoverate nella ristrutturazione c.d. pesante e non tra le ristrutturazioni minori o cosiddette leggere, come tali rientranti nella previsione dell'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001 e dunque non sottoposte al regime ordinario della d.i.a. ma a quello del permesso di costruire.

Osserva il collegio che:
2) quanto alla violazione dell’art. 37 testo unico edilizia si rileva a sua volta che:
   a) la modificazione dei prospetti è espressamente soggetta a permesso di costruire ai sensi dell’art. 10, comma 1, lettera c), del DPR n. 380 del 2001;
   b) il muretto di recinzione, per giurisprudenza costante, solo in caso di modeste strutture senza opere murarie (quali quelle con rete metallica sorretta da paletti in ferro o di legno senza muretto di sostegno, tipiche dei fondi rustici) non necessita del permesso di costruire e può essere incluso fra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo ius excludendi alios o comunque la delimitazione delle singole proprietà, ed in questi casi è anzi possibile effettuare una semplice d.i.a.; diversamente, è invece richiesto il permesso di costruire quando la recinzione determina una irreversibile trasformazione dello stato dei luoghi, come nel caso di recinzione costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo (cfr. TAR Basilicata, sez. I, 28.02.2012, n. 93; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 03.04.2012, n. 1542; TAR Puglia Lecce, sez. I, 02.11.2011, n. 1918);
   c) in materia edilizia, le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso (TAR Sardegna, sez. II, 06.10.2008, n. 1822), mutazione d’uso pacificamente avvenuta nella specie. A ciò si aggiunga che solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico), mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, si integra in questa ipotesi una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire, indipendentemente dall'esecuzione di opere (cfr. TAR Campania Napoli, sez. IV, 28.10.2011, n. 5063; TAR Campania Napoli, sez. IV, 17.01.2011, n. 221; TAR Lazio Roma, sez. I, 16.07.2009, n. 7030).
In conclusione, le opere connotate da ampliamento dei prospetti, da modifica di destinazione e da modifiche interne vanno annoverate nella ristrutturazione c.d. pesante e non tra le ristrutturazioni minori o cosiddette leggere, come tali rientranti nella previsione dell'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001 e dunque non sottoposte al regime ordinario della d.i.a. ma a quello del permesso di costruire (TAR Toscana, sez. III, 01.09.2011, n. 1373).
Permesso di costruire nella specie non richiesto, ragione questa che induce il collegio a ritenere corretto l’operato della PA che ha dunque ritenuto, in assenza di siffatta richiesta, di ordinare la demolizione delle suddette opere abusive (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.10.2012 n. 4261 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce principio consolidato della giurisprudenza, che l’onere della prova circa la data di realizzazione dell’immobile abusivo spetti a colui che ha commesso l’abuso e solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi, che non possono limitarsi a mere allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni, trasferisce il suddetto onere in capo all’Amministrazione.
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In assenza di ogni certezza circa l’epoca di realizzazione delle opere abusive, non vi era alcun obbligo di motivazione rafforzata in capo alla P.A. in merito all’ordinata demolizione. La predetta censura non ha pregio anche perché la sanzione demolitoria deriva dall’accertamento della realizzazione di opere senza alcun titolo edilizio e appare inconfigurabile qualsivoglia affidamento in capo alla ricorrente circa la legittimità delle stesse. Infine, nel caso di specie l’interesse pubblico all’eliminazione degli abusi é, comunque, da ravvisare nella natura paesaggisticamente vincolata della zona e nella scelta operata a monte dal legislatore (in applicazione del principio costituzionale di tutela del valore-paesaggio) relativa alla demolizione dei manufatti abusivi nelle zone aventi tale caratteristica.
Né, infine, l’Amministrazione è tenuta a verificare l’eventuale sanabilità delle opere abusivamente realizzate, ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, prima di ordinarne la demolizione. E, infatti, una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza del prescritto titolo, contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente nel quinto motivo, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia, né accertare quale fosse la destinazione (conforme o meno agli strumenti urbanistici) che i responsabili dell'abuso intendevano dare agli ambienti e nemmeno l'astratta compatibilità delle opere stesse con la normativa vigente.

Premesso che nel caso di specie il vincolo paesaggistico sull’area nella quale ricadono le opere abusive è stato imposto giusto D.M. 15.02.1962, costituisce principio consolidato della giurisprudenza, che l’onere della prova circa la data di realizzazione dell’immobile abusivo spetti a colui che ha commesso l’abuso e solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi, che non possono limitarsi a mere allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni, trasferisce il suddetto onere in capo all’Amministrazione (cfr. Consiglio di Stato, IV, 13.01.2010, n. 45; Consiglio di Stato, V, 09.11.2009, n. 6984).
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Inoltre, in assenza di ogni certezza circa l’epoca di realizzazione delle opere abusive, non vi era alcun obbligo di motivazione rafforzata in capo alla P.A. in merito all’ordinata demolizione. La predetta censura non ha pregio anche perché la sanzione demolitoria deriva dall’accertamento della realizzazione di opere senza alcun titolo edilizio e appare inconfigurabile qualsivoglia affidamento in capo alla ricorrente circa la legittimità delle stesse. Infine, nel caso di specie l’interesse pubblico all’eliminazione degli abusi é, comunque, da ravvisare nella natura paesaggisticamente vincolata della zona e nella scelta operata a monte dal legislatore (in applicazione del principio costituzionale di tutela del valore-paesaggio) relativa alla demolizione dei manufatti abusivi nelle zone aventi tale caratteristica.
Né, infine, l’Amministrazione è tenuta a verificare l’eventuale sanabilità delle opere abusivamente realizzate, ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, prima di ordinarne la demolizione. E, infatti, una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza del prescritto titolo, contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente nel quinto motivo, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia, né accertare quale fosse la destinazione (conforme o meno agli strumenti urbanistici) che i responsabili dell'abuso intendevano dare agli ambienti e nemmeno l'astratta compatibilità delle opere stesse con la normativa vigente (cfr. TAR, Campania, II, 08.06.2012, n. 2744) (TAR Campania-Napoli, Sea. VII, sentenza 25.10.2012 n.
4254 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La violazione dell'art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 non produce ex se l'illegittimità del provvedimento finale, dovendo la disposizione sul preavviso di rigetto essere interpretata alla luce del successivo art. 21-octies comma 2, il quale impone al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo.
L'art. 21-octies rende, quindi, irrilevante la violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto per il fatto che il contenuto dispositivo non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Come anche di recente chiarito dal Consiglio di Stato infatti “la violazione dell'art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 non produce ex se l'illegittimità del provvedimento finale, dovendo la disposizione sul preavviso di rigetto essere interpretata alla luce del successivo art. 21-octies comma 2, il quale impone al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo. L'art. 21-octies rende, quindi, irrilevante la violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto per il fatto che il contenuto dispositivo non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato” (Consiglio di Stato, Sez. VI, sent. n. 585 del 02-02-2012, conferma della sentenza del Tar Toscana-Firenze, sez. III, n. 1616/2005) (TA
R Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.10.2012 n. 4246 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Alle situazioni di affidamento in capo ai privati derivanti dal trascorrere di un lungo lasso di tempo tra la commissione dell’abuso ed il protrarsi dell’inerzia dell’amministrazione preposta alla vigilanza edilizia (con conseguente onere di congrua motivazione dell’ordinanza di demolizione, nel senso che essa debba indicare, avuto riguardo anche all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico interesse evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato), nel caso di specie non può tuttavia ravvisarsi la sussistenza della condizione di partenza di un simile ragionamento, essendo trascorsi solo otto anni dall’edificazione delle opere abusive ed il loro accertamento avvenuto a seguito del sopralluogo degli emissari comunali.
Si tratta, a tutta evidenza, di un periodo temporale manifestamente insufficiente, tale da non integrare quel “lungo lasso di tempo” che la giurisprudenza amministrativa, anche di questa Sezione, pone come indefettibile condizione di partenza.
In proposito, la giurisprudenza considera rilevante il trascorrere di un tempo “immemorabile”, ovvero un intervallo temporale particolarmente consistente, ad esempio di più di quarant’anni o di più di trentacinque anni.

Quanto alla censura incentrata sull’asserito “affidamento” ingeneratosi nel proprietario circa il mantenimento dell’opera, a cagione sia del lasso di tempo intercorso tra la data della sua costruzione (anno 2003) e quella dell’intervento repressivo, sia della natura modesta dell’abuso, essa non può essere accolta.
Il periodo di tempo in questione non può infatti considerarsi sufficiente, nella specie, al fine di radicare una ragionevole aspettativa in ordine al mantenimento delle opere abusive, anche di modesta dimensione. Pur dovendosi conferire rilevanza, in linea generale ed astratta, alle situazioni di affidamento in capo ai privati derivanti dal trascorrere di un lungo lasso di tempo tra la commissione dell’abuso ed il protrarsi dell’inerzia dell’amministrazione preposta alla vigilanza edilizia (con conseguente onere di congrua motivazione dell’ordinanza di demolizione, nel senso che essa debba indicare, avuto riguardo anche all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico interesse evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato), nel caso di specie non può tuttavia ravvisarsi la sussistenza della condizione di partenza di un simile ragionamento, essendo trascorsi solo otto anni dall’edificazione delle opere abusive ed il loro accertamento avvenuto a seguito del sopralluogo degli emissari comunali.
Si tratta, a tutta evidenza, di un periodo temporale manifestamente insufficiente, tale da non integrare quel “lungo lasso di tempo” che la giurisprudenza amministrativa, anche di questa Sezione, pone come indefettibile condizione di partenza (cfr., per un caso analogo, TAR Piemonte, sez. II, n. 809 del 2012).
In proposito, la giurisprudenza considera rilevante il trascorrere di un tempo “immemorabile” (cfr. TAR Puglia, Lecce, sez. III, n. 242 del 2012), ovvero un intervallo temporale particolarmente consistente, ad esempio di più di quarant’anni (TAR Veneto, sez. II, n. 203 del 2012) o di più di trentacinque anni (TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, n. 1239 del 2011) (
TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 25.10.2012 n. 1138 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAppalti, senza "dichiarazione di moralità" ditta esclusa.
E' legittima l'esclusione da parte della stazione appaltante di una ditta che nella domanda di partecipazione alla gara di appalto ha reso solo parzialmente le cd. dichiarazioni "di moralità" richieste dal Codice dei contratti pubblici.

La SRL si era rivolta al C.G.A.S. per ottenere l’annullamento di tutti gli atti e i provvedimenti della gara di appalto indetta da un ente locale per l’affidamento delle “opere di urbanizzazione primaria relativa al piano insediamenti produttivi ambito (…)“ nella parte in cui un'altra SRL era stata ammessa, risultando poi aggiudicataria.
La SRL ricorrente nell’impugnare la sentenza del TAR che le aveva in sostanza dato torto, sosteneva:
a) violazione e falsa applicazione dell’art. 38, comma 1, lett. c), del D.Lgs. n. 163/2006;
b) violazione nel disciplinare di gara, dell’art. 10, comma 1-bis, della legge n. 109/1994 e dei principi generali in tema di par condicio, segretezza delle offerte e trasparenza della competizione.
Requisiti di moralità
Va ricordato che la preclusione alla partecipazione alle gare d’appalto, contemplata alla lettera c), comma 1, dell’art. 38 del Codice degli Appalti Pubblici, derivante dalla pronuncia di particolari sentenze di condanna, è stata oggetto di un intervento estensivo del legislatore analogo a quello apportato alla lett. b), comma 1, dell’art. 38 del Codice stesso. Il testo novellato prevede, infatti, che l’esclusione ed il divieto di partecipazione alle procedure concorsuali per l’aggiudicazione dei contratti pubblici operino se la sentenza o il decreto siano stati emessi:
a) nei confronti del titolare o del direttore tecnico, per le imprese individuali;
b) nei confronti dei soci o del direttore tecnico per le società in nome collettivo;
c) nei confronti dei soci accomandatari o del direttore tecnico per le società in accomandita semplice;
d) nei confronti del direttore tecnico o degli amministratori con poteri di rappresentanza o del socio unico persona fisica, ovvero del socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci, “se si tratta di altro tipo di società o consorzio”.
Le dichiarazioni di essere in regola con i requisiti richiesti dall’art. 38, comma 1, lett. b) e c), devono essere presentate da tutti i soggetti indicati dalla norma (soci/amministratori e direttore tecnico). Inoltre, la nuova formulazione dell’art. 38, comma 1, lett. c) dispone espressamente che non rilevano, ai fini dell’esclusione dalle gare, i reati per i quali sia intervenuta la riabilitazione, l’estinzione, la depenalizzazione o la revoca della condanna, integrando quanto previsto dal testo previgente.
Ne consegue che, una volta pronunciata dal giudice di sorveglianza la riabilitazione del condannato, di cui all’art. 178 c.p. (derivandone l’estinzione del reato e delle pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna) ovvero riconosciuto dal tribunale estinto il reato per il decorso del termine di cinque anni o due anni (a seconda che si tratti di delitto o contravvenzione), ai sensi dell’articolo 445, comma 2, c.p.p., ovvero pronunciata dal giudice dell’esecuzione la revoca della sentenza di condanna o del decreto penale, o intervenuto un provvedimento legislativo di depenalizzazione, il concorrente non deve più menzionare le condanne per cui si siano verificate le vicende sopra elencate nella dichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, restando così preclusa alla stazione appaltante ogni possibile valutazione negativa, ai fini dell’ammissione alla specifica gara, dei fatti di cui alla sentenza di condanna.
La sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa

Il Consiglio di Giustizia ritiene infondate e non meritano accoglimento le motivazione della società ricorrente; per i giudici amministrativi non si ravvisano motivi per discostarsi dalla sentenza impugnata poiché il TAR ha fatto corretta applicazione dei principi giurisprudenziali enunciati dallo stesso in precedenti sentenze.
Nel caso di specie del resto è evidente l'inosservanza del disciplinare da parte dell'amministratore unico della società ricorrente; a fronte di una normativa di gara che, sotto la comminazione della sanzione espulsiva, imponeva ai partecipanti di rendere una dichiarazione “specificamente ed espressamente” riferita al contenuto dell'art. 38, comma 1, lett. c), del D.Lgs. n. 163/2006, la società ricorrente si è invece “limitato a trascrivere un testo, id est quello del citato art. 38, che non solo è insuscettibile in quanto tale di essere individualizzato o comunque apprezzato come espressione di un contenuto volitivo, ma che si discosta perfino dal tenore letterale del disciplinare, posto che, per rispettare la regola violata, sarebbe stato sufficiente riportare esattamente nella dichiarazione scritta lo specifico passaggio del suddetto disciplinare”.
I giudici amministrativi evidenziano, tra l’altro, che rientrando tra le ipotesi per cui è prevista l’esclusione automatica la Stazione Appaltante non avrebbe potuto richiedere l’integrazione documentale ex art. 46 del D.Lgs. 163/2006, non potendo disporre di alcuna forma di potere discrezionale in materia, essendo le dichiarazioni in questione, dirette a scongiurare la partecipazione alle gare ad evidenza pubblica di soggetti di dubbia moralità.
E’ pertanto legittima l’esclusione della concorrente che in violazione alle prescrizioni della lex specialis ha reso solo parzialmente le dichiarazioni richieste, effettuando un generico rimando al testo dell’art. 38 del D.Lgs 163/2006 (commento tratto da www.ipsoa.it - C.G.A.R.S., sentenza 25.10.2012 n. 1014 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La proroga del termine di inizio e/o ultimazione dei lavori “può essere accordata, con provvedimento motivato, esclusivamente in considerazione della mole dell’opera da realizzare, delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari”.
La ratio complessiva della disciplina ex art. 15 dpr 380/2001 consiste evidentemente nel mantenere il controllo sull’attività di edificazione, che è ovviamente operazione materiale non istantanea, non solo al momento del rilascio del titolo abilitativo ma anche “in progress”, in maniera da garantirne, entro limiti temporali ragionevoli e finché l’opera non sia stata sostanzialmente compiuta, la persistente conformità alla disciplina urbanistico-edilizia vigente non solo al momento del rilascio del permesso di costruire ma anche al momento (che potrebbe essere temporalmente molto successivo) della realizzazione dell’opera, allo scopo, quindi, di evitare che una edificazione autorizzata nel vigore di un determinato regime urbanistico venga realizzata quando il mutato regime non lo consente più.

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Il primo presupposto fattuale dal quali muove il provvedimento di diniego è la circostanza che i lavori non erano iniziati entro l’anno dalla data di rilascio della concessione edilizia né erano in corso alla data del provvedimento.
Altra circostanza di fatto rilevante è la sopravvenienza di disposizioni urbanistiche (puntualmente richiamate nel provvedimento di diniego) che non avrebbero consentito la realizzazione del richiesto intervento.
Orbene, se si tiene conto del preciso disposto del ripetuto comma 4 dell’art. 15 (“il permesso decade con l’entrata in vigore di contrastanti previsione urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio”), è del tutto evidente la irrilevanza dei “fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare”, idonei ad evitare la decadenza nel caso del mancato rispetto dei termini di inizio e ultimazione dei lavori (di cui al comma 2 dell’art. 15) rispetto alla diversa questione della decadenza “legale” per effetto dell’entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, per la quale non è prevista alcuna ipotesi di non imputabilità ma solo la ricorrenza di precisi presupposti di fatto -l’intervenuto inizio dei lavori e il loro completamento entro il termine di tre anni dalla data di inizio- pacificamente non sussistenti nella specie.
Del resto, la circostanza che l’interessata non abbia potuto chiedere tempestivamente la proroga (prima delle scadenze temporali contenute nel titolo), stante l’intervenuto sequestro del titolo da parte dell’Autorità giudiziaria penale, non vale affatto ai fini dell’integrazione delle condizioni previste dal comma 4 per evitare la decadenza per effetto dell’entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, giacché anche un titolo in corso di validità (non decaduto, cioè, per il decorso del tempo) vi è soggetto sempre che non si inverino per l’appunto le condizioni richieste (si pensi al caso della edificazione consentita da un titolo che decada per effetto di sopravvenute contrastanti previsioni entro l’anno dal rilascio ove i lavori non siano già iniziati).

Giova anzitutto richiamare l’art. 15 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (testo unico edilizia) che disciplina l’efficacia temporale e la decadenza del permesso di costruire, puntualmente statuendo che “nel permesso di costruire sono indicati i termini di inizio e di ultimazione dei lavori”; che “il termine per l’inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo”; che “quello di ultimazione, entro il quale l’opera deve essere completata non può superare i tre anni dall’inizio dei lavori”, che “entrambi i termini possono essere prorogati, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso” e che “decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza venga richiesta una proroga”.
Tale proroga “può essere accordata, con provvedimento motivato, esclusivamente in considerazione della mole dell’opera da realizzare, delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari”.
Il successivo comma 3 stabilisce, inoltre, che “la realizzazione della parte dell’intervento non ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante denuncia di inizio attività ai sensi dell’articolo 22” e, in tale caso, “si procede altresì ove necessario al ricalcolo del contributo di costruzione”; infine (comma 4), “il permesso decade con l’entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio”.
La ratio complessiva della disciplina sopra richiamata consiste evidentemente nel mantenere il controllo sull’attività di edificazione, che è ovviamente operazione materiale non istantanea, non solo al momento del rilascio del titolo abilitativo ma anche “in progress”, in maniera da garantirne, entro limiti temporali ragionevoli e finché l’opera non sia stata sostanzialmente compiuta, la persistente conformità alla disciplina urbanistico-edilizia vigente non solo al momento del rilascio del permesso di costruire ma anche al momento (che potrebbe essere temporalmente molto successivo) della realizzazione dell’opera, allo scopo, quindi, di evitare che una edificazione autorizzata nel vigore di un determinato regime urbanistico venga realizzata quando il mutato regime non lo consente più (cfr. TAR Lazio, Roma, sez.II-ter, 06.12.2011, n. 9600 e TAR Marche, 20.04.2010, n. 193).
In tal senso, l’edificazione in corso è normativamente condizionata a precisi requisiti (di fatto e temporali) ove risulti non (più) conforme ad eventuali sopravvenienze normative.
Per converso, la medesima disciplina stabilisce normativamente il punto di equilibrio tra i diritti quesiti del concessionario (la sua aspettativa a realizzare l’opera così come autorizzata con il titolo abilitativi) e l’interesse pubblico al rispetto delle regolamentazioni sopravvenute, individuandolo nell’inizio dei lavori e nella loro conclusione in termini stabiliti (un anno dal rilascio e tre anni dalla data di inizio dei lavori).
In sostanza, la disciplina sostanziale richiede un continuo confronto (bilanciamento) tra quanto è stato autorizzato, quanto è stato realizzato (o si confida verrà realizzato nel tempo stabilito) e le sopravvenienze, che in linea di principio restano il parametro al quale conformare gli interventi edilizi in corso o futuri.
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Giova evidenziare che il primo presupposto fattuale dal quali muove il provvedimento di diniego è la circostanza, incontestata, che i lavori non erano iniziati entro l’anno dalla data di rilascio della concessione edilizia né erano in corso alla data del provvedimento.
Altra circostanza di fatto rilevante (e del pari incontestata) è la sopravvenienza di disposizioni urbanistiche (puntualmente richiamate nel provvedimento di diniego) che non avrebbero consentito la realizzazione del richiesto intervento.
Orbene, se si tiene conto del preciso disposto del ripetuto comma 4 dell’art. 15 (“il permesso decade con l’entrata in vigore di contrastanti previsione urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio”), è del tutto evidente la irrilevanza dei “fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare”, idonei ad evitare la decadenza nel caso del mancato rispetto dei termini di inizio e ultimazione dei lavori (di cui al comma 2 dell’art. 15) rispetto alla diversa questione della decadenza “legale” per effetto dell’entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, per la quale non è prevista alcuna ipotesi di non imputabilità ma solo la ricorrenza di precisi presupposti di fatto -l’intervenuto inizio dei lavori e il loro completamento entro il termine di tre anni dalla data di inizio- pacificamente non sussistenti nella specie.
Del resto, la circostanza, sulla quale il ricorso si dilunga, che l’interessata non abbia potuto chiedere tempestivamente la proroga (prima delle scadenze temporali contenute nel titolo), stante l’intervenuto sequestro del titolo da parte dell’Autorità giudiziaria penale, non vale affatto ai fini dell’integrazione delle condizioni previste dal comma 4 per evitare la decadenza per effetto dell’entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, giacché anche un titolo in corso di validità (non decaduto, cioè, per il decorso del tempo) vi è soggetto sempre che non si inverino per l’appunto le condizioni richieste (si pensi al caso della edificazione consentita da un titolo che decada per effetto di sopravvenute contrastanti previsioni entro l’anno dal rilascio ove i lavori non siano già iniziati) (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 25.10.2012 n.
694 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa la compatibilità paesaggistica -o meno- di un fabbricato con altezza di cm. 20 maggiore di quella assentita.
Le categorie edilizie, intese ad offrire una definizione dei concetti di "volume" e di "superficie", non si prestino ad essere richiamate, senza opportuni adattamenti, ai fini applicativi della disposizione succitata: ciò sulla scorta della diversità degli interessi pubblici primariamente considerati, rispettivamente, dalla normativa edilizia e da quella di tutela paesaggistica.
La ricerca ed esatta individuazione di quegli adattamenti, tuttavia, non possono essere operate che risalendo alle ragioni sottese al rinvio operato dal codice dei beni culturali e del paesaggio a quelle categorie, onde verificare se le stesse, in concreto, ricorrano nella concreta fattispecie portata alla cognizione del giudicante e giustifichino, quindi, l'estensione delle nozioni urbanistico-edilizie, nella loro intrinseca rigidità, alla materia in esame.
Tali ragioni, ad avviso del Tribunale, sono agevolmente individuabili su due fronti distinti e concorrenti:
da un primo punto di vista, il redattore del codice dei beni culturali e del paesaggio deve aver inteso precludere la valutazione di compatibilità paesaggistica a posteriori nelle ipotesi in cui la realizzazione delle opere in assenza dell'autorizzazione paesaggistica metta più seriamente a repentaglio il bene paesaggistico protetto, ipotesi coincidenti con quelle in cui il risultato dell'attività di trasformazione consista in un manufatto avente autonoma rilevanza sul piano edilizio ed i cui indici rappresentativi più evidenti si correlano alla creazione di "nuovo volume" o "nuova superficie";
da un secondo punto di vista, la previsione delle suddette ipotesi limitative dell'istituto de quo trova fondamento nell'esigenza di esercitare un effetto dissuasivo nei confronti delle attività edificatorie poste in essere sine titulo sui beni paesaggisticamente tutelati, normalmente motivate da finalità creatrici di nuove entità urbanisticamente rilevanti (quindi, sia economicamente che funzionalmente più appetibili);
● infine, da un terzo e collegato punto di vista, il legislatore ha voluto affermare la non sanabilità paesaggistica degli abusi che, generando nuovi "volumi" o nuove "superfici", lascino intravedere l'intento speculativo del loro esecutore e, pertanto, siano portatori di un disvalore che li rende immeritevoli di rientrare ex post, attraverso l'eccezionale ingresso apprestato dall'art. 167, comma 4, d.lvo n. 42/2004, nei confini della liceità paesaggistica.
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Dal primo punto di vista, deve escludersi che l'aumento di soli cm. 20, nella realizzazione del manufatto oggetto di controversia, rispetto all'altezza originariamente assentita si sia accompagnato, da un punto di vista astratto e potenziale (salve le valutazioni dell'Amministrazione intimata sulla effettiva compatibilità paesaggistica dell'intervento modificativo), all’esposizione a particolare pregiudizio del paesaggio tutelato, tale da precludere a priori l'esperimento della valutazione di compatibilità paesaggistica: basti considerare che, come emerge dalla documentazione fotografica prodotta dalla difesa erariale, l’opera in questione, ad un solo piano, si sviluppa significativamente in lunghezza, sì da far ritenere che l’impatto paesaggistico del predetto limitato aumento di altezza tenda ad essere assorbito per effetto della (dominante, sul piano visivo) estensione orizzontale del manufatto.
Quanto al secondo ed al terzo aspetto, strettamente correlati tra loro, la connotazione pubblica dell'opera de qua induce in radice ad escludere che alla sua esecuzione -anche con riguardo alle limitate modifiche apportate in fase esecutiva rispetto al progetto approvato- sia sotteso un qualsiasi disegno speculativo, specialmente se inteso in chiave patrimonialistica: ma alla stessa conclusione deve pervenirsi ove ci si collochi in un'ottica di carattere funzionale, incentrata sull'utilità, anche non patrimonialmente rilevante, ricavabile dall'esecuzione dell'opera in difformità rispetto al progetto approvato, non essendo percepibile quale rapporto di concreta strumentalità l'incremento (minimale) di altezza possa esprimere rispetto ad una maggiore fruibilità dell'opera pubblica di cui si tratta.

Mediante le censure articolate in ricorso, il Comune di Torraca deduce:
1) il provvedimento impugnato, adottato peraltro senza aver prima effettuato un sopralluogo, è carente di motivazione;
2) le opere de quibus sono state realizzate con una differenza, che non costituisce difformità, di appena cm. 20 rispetto al progetto iniziale, spazio peraltro da non destinare a volume, come emerge dalle relazioni tecniche allegate al ricorso e già trasmesse all'amministrazione intimata: in particolare, l'altezza interna del fabbricato rimarrà invariata in quanto verrà utilizzata una struttura in cartongesso pari a cm. 30, la quale coprirà le travi esistenti in c.a. creando un unico livello, pari ad una altezza finita di m. 3,70, come da progetto approvato dalla Soprintendenza; l'ulteriore spazio racchiuso nella struttura in cartongesso non verrà utilizzato in quanto costituisce "volume tecnico" nel quale saranno alloggiati i faretti per l'illuminazione dell'ingresso ai parcheggi, mentre per l'esterno è stato realizzato l'adeguamento delle quote al progetto approvato dalla Soprintendenza, con la bitumazione del piazzale circostante al fine di convogliare le acque piovane, il tutto nel rispetto del progetto approvato dalla stessa Soprintendenza;
3) il manufatto non presenta alcuna difformità percepibile e visibile né paesaggisticamente rilevante;
4) è stata violata anche la circolare del Segretario Generale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali n. 33, prot. n. 6074, del 26.06.2009, la quale chiarisce le nozioni di "lavori", "superfici utili" e "volumi" ai fini applicativi dell'art. 167 d.lvo n. 42/2004;
5) la nota del Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Ufficio Legislativo n. 0016721 del 13.9.2010, nel dettare i parametri per la determinazione delle superfici utili o volumi, evidenzia che "la non percepibilità della modificazione dell'aspetto esteriore del bene protetto elide in radice la sussistenza stessa dell'illecito contestato", sì che "ove addirittura l'incremento di volume o di superficie (che dovrà per forza di cose essere di minima entità) non risulti neppure visibile, allora dovrà evidentemente ritenersi insussistente in radice l'illecito": ebbene, i cm. 20 in questione, non modificando l'altezza nel suo insieme, rientrano negli incrementi di "minima entità" non visibili contemplati dalla nota citata come non ostativi alla sanatoria paesaggistica.
Tanto premesso, le censure attoree sollevano la necessità di delineare l'ambito applicativo del presupposto di ammissibilità del procedimento di valutazione della compatibilità paesaggistica delle opere realizzate in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, correlato dall'art. 167, comma 4, lett. a), d.lvo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) alla circostanza che le opere stesse "non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati".
Sostiene in particolare il Comune ricorrente che le opere realizzate in difformità dall'autorizzazione paesaggistica n. 4 del 03.07.2007, concernente i "lavori di completamento area urbana comunale in località Purgatorio per realizzazione parcheggio a parco giochi", consistendo nell'aumento di soli cm. 20 dell'altezza del manufatto rispetto al progetto approvato, sarebbero prive di rilevanza pregiudizievole per il bene paesaggistico tutelato: inoltre, essendo prevista la chiusura con cartongesso dello spazio ricavato dalla maggiore altezza ai fini dell'alloggiamento di faretti per l'illuminazione dell'ingresso al parcheggio, esso integrerebbe un mero "volume tecnico", insuscettibile di integrare la fattispecie ostativa all'ammissibilità dell'accertamento postumo di compatibilità paesaggistica ipotizzato con il provvedimento impugnato, come riconosciuto dallo stesso Ministero per i Beni e le Attività Culturali con propria circolare interpretativa.
Ritiene il Tribunale che la proposta domanda di annullamento sia meritevole di accoglimento.
Deve in primo luogo ritenersi che le categorie edilizie, intese ad offrire una definizione dei concetti di "volume" e di "superficie", non si prestino ad essere richiamate, senza opportuni adattamenti, ai fini applicativi della disposizione succitata: ciò sulla scorta della diversità degli interessi pubblici primariamente considerati, rispettivamente, dalla normativa edilizia e da quella di tutela paesaggistica.
La ricerca ed esatta individuazione di quegli adattamenti, tuttavia, non possono essere operate che risalendo alle ragioni sottese al rinvio operato dal codice dei beni culturali e del paesaggio a quelle categorie, onde verificare se le stesse, in concreto, ricorrano nella concreta fattispecie portata alla cognizione del giudicante e giustifichino, quindi, l'estensione delle nozioni urbanistico-edilizie, nella loro intrinseca rigidità, alla materia in esame.
Tali ragioni, ad avviso del Tribunale, sono agevolmente individuabili su due fronti distinti e concorrenti:
da un primo punto di vista, il redattore del codice dei beni culturali e del paesaggio deve aver inteso precludere la valutazione di compatibilità paesaggistica a posteriori nelle ipotesi in cui la realizzazione delle opere in assenza dell'autorizzazione paesaggistica metta più seriamente a repentaglio il bene paesaggistico protetto, ipotesi coincidenti con quelle in cui il risultato dell'attività di trasformazione consista in un manufatto avente autonoma rilevanza sul piano edilizio ed i cui indici rappresentativi più evidenti si correlano alla creazione di "nuovo volume" o "nuova superficie";
da un secondo punto di vista, la previsione delle suddette ipotesi limitative dell'istituto de quo trova fondamento nell'esigenza di esercitare un effetto dissuasivo nei confronti delle attività edificatorie poste in essere sine titulo sui beni paesaggisticamente tutelati, normalmente motivate da finalità creatrici di nuove entità urbanisticamente rilevanti (quindi, sia economicamente che funzionalmente più appetibili);
infine, da un terzo e collegato punto di vista, il legislatore ha voluto affermare la non sanabilità paesaggistica degli abusi che, generando nuovi "volumi" o nuove "superfici", lascino intravedere l'intento speculativo del loro esecutore e, pertanto, siano portatori di un disvalore che li rende immeritevoli di rientrare ex post, attraverso l'eccezionale ingresso apprestato dall'art. 167, comma 4, d.lvo n. 42/2004, nei confini della liceità paesaggistica.

Ebbene, ritiene il Tribunale che, nella fattispecie in esame, non ricorra alcuna delle ragioni astrattamente giustificatrici dell’esaminato divieto (di accertamento di compatibilità paesaggistica).
Dal primo punto di vista, infatti, deve escludersi che l'aumento di soli cm. 20, nella realizzazione del manufatto oggetto di controversia, rispetto all'altezza originariamente assentita si sia accompagnato, da un punto di vista astratto e potenziale (salve le valutazioni dell'Amministrazione intimata sulla effettiva compatibilità paesaggistica dell'intervento modificativo), all’esposizione a particolare pregiudizio del paesaggio tutelato, tale da precludere a priori l'esperimento della valutazione di compatibilità paesaggistica: basti considerare che, come emerge dalla documentazione fotografica prodotta dalla difesa erariale, l’opera in questione, ad un solo piano, si sviluppa significativamente in lunghezza, sì da far ritenere che l’impatto paesaggistico del predetto limitato aumento di altezza tenda ad essere assorbito per effetto della (dominante, sul piano visivo) estensione orizzontale del manufatto.
Quanto al secondo ed al terzo aspetto, strettamente correlati tra loro, la connotazione pubblica dell'opera de qua induce in radice ad escludere che alla sua esecuzione -anche con riguardo alle limitate modifiche apportate in fase esecutiva rispetto al progetto approvato- sia sotteso un qualsiasi disegno speculativo, specialmente se inteso in chiave patrimonialistica: ma alla stessa conclusione deve pervenirsi ove ci si collochi in un'ottica di carattere funzionale, incentrata sull'utilità, anche non patrimonialmente rilevante, ricavabile dall'esecuzione dell'opera in difformità rispetto al progetto approvato, non essendo percepibile quale rapporto di concreta strumentalità l'incremento (minimale) di altezza possa esprimere rispetto ad una maggiore fruibilità dell'opera pubblica di cui si tratta.
Consegue, dalle considerazioni svolte, che le difformità oggetto della domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica avanzata dal Comune ricorrente non integrano la fattispecie di "nuovo volume" o "nuova superficie" ostativa, ai sensi della disposizione menzionata, all'ammissibilità dell'istanza medesima.
La domanda di annullamento proposta dal Comune di Torraca deve quindi essere accolta, potendo dichiararsi l'assorbimento delle censure non esaminate (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.10.2012 n. 1942 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALegittimamente l’autorità ministeriale ha rilevato, ponendolo a base del disposto annullamento, il difetto di motivazione dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dall’autorità comunale. L’articolo 82 del DPR n. 616/1977 (di poi la normativa di cui all’art. 151 del D.Lgs. n. 490/1999 ed oggi quella contenuta nel D.Lgs. n. 42/2004) configura un sistema complesso di tutela del paesaggio, implicante l’intervento sia della Regione che dello Stato, in cui la concorrenza dei poteri è disciplinata dal principio di leale cooperazione.
Con specifico riferimento ai poteri della Regione (o dell’ente subdelegato), va rilevato che la funzione dell’autorizzazione è quella di verifica della compatibilità dell’opera edilizia che si intende realizzare con l’esigenza di conservazione dei valori paesistici protetti dal vincolo. E’ stato, infatti, evidenziato che quest’ultimo contiene un accertamento circa l’esistenza di valori paesistici oggettivamente non derogabile e che è compito dell’autorizzazione accertare in concreto la compatibilità dell’intervento con il mantenimento e l’integrità dei richiamati valori. Difatti, il paesaggio è un valore costituzionale primario e, pertanto, l’autorità amministrativa non deve svolgere una ponderazione comparativa tra un interesse primario ed un interesse secondario, ma unicamente operare un giudizio in concreto circa il rispetto da parte dell’intervento progettato delle esigenze connesse alla tutela del paesaggio stesso. La determinazione dell’ente locale deve, dunque, essere motivata anche quando abbia contenuto positivo, favorevole al richiedente.
Tale principio trova oggi espresso fondamento normativo nell’articolo 3 della legge n. 241/1990, secondo il quale ogni provvedimento amministrativo, di contenuto sia negativo che positivo, deve essere motivato, recando l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione in relazione alle risultanze dell’istruttoria.
Quanto, poi, al contenuto di tale motivazione, la giurisprudenza è ferma nel ritenere, ai fini della congruità e sufficienza della stessa, che debba esservi l’indicazione della ricostruzione dell’iter logico seguito, in ordine alle ragioni di compatibilità effettive che -in riferimento agli specifici valori paesistici dei luoghi- possano consentire tutti i progettati lavori, considerati nella loro globalità e non esclusivamente in semplici episodi di dettaglio.
Le considerazioni sopra svolte valgono anche per il procedimento di condono edilizio di opere realizzate su aree sottoposte a vincolo, per il quale l’articolo 32 della legge n. 47/1985 dispone che “il rilascio della concessione o dell’autorizzazione in sanatoria … è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso”. Invero, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che il suddetto parere ha natura e funzioni identiche alla autorizzazione paesaggistica, in quanto entrambi gli atti costituiscono il presupposto per l’assentimento del titolo che legittima la trasformazione urbanistico edilizia della zona protetta; con la conseguenza che anche in tale caso è applicabile il potere ministeriale di annullamento del provvedimento.
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Venendo, dunque, all’esame della fattispecie concreta oggetto del presente giudizio e facendo applicazione dei principi giurisprudenziali sopra richiamati, risulta che l’autorità comunale non ha rispettato l’obbligo motivazionale cui era tenuta, considerato che il provvedimento autorizzativo rilasciato si limita ad affermare la mancanza di contrasto con le esigenze di tutela paesaggistica ed ambientale, senza però spiegarne le ragioni. Esso, infatti, si limita a precisare (richiamando per relationem il parere della Commissione Edilizia Integrata n. 26 del 27.06.1996) che “l’intervento non appare tale da risultare pregiudizievole per l’ambiente circostante, tale da incidere sostanzialmente sui valori paesaggistici”.
Ciò posto, ci si deve porre il problema del contenuto dell’obbligo di motivazione facente capo all’autorità ministeriale nel pronunziare l’annullamento dell’autorizzazione paesistica, considerato che l’articolo 82 del DPR n. 616/1977 (di poi l’articolo 151 del D.Lgs. n. 490/1999 ed oggi l’art. 159 del D.Lgs. n. 42/2004) sancisce espressamente che questo possa essere disposto “con provvedimento motivato”. E’ evidente, peraltro, che la sufficienza e la congruità della motivazione va individuata in relazione al potere in concreto esercitato, che nel caso di specie si identifica “nel quadro di un più generale potere-dovere di vigilanza sull’esercizio delle funzioni delegate, in un potere di annullamento di ufficio per motivi di legittimità delle determinazioni assunte dall’autorità regionale (o subregionale)”.
Orbene, essendo quest’ultima, per le ragioni sopra esposte, obbligata ad esternare le ragioni per le quali ritiene l’opera compatibile con i valori protetti dal vincolo, risulta evidente che, nel caso di avvenuta enunciazione dei motivi, l’autorità ministeriale che pronunzi l’annullamento deve specificare diffusamente le ragioni della riscontrata illegittimità, con riferimento a quanto affermato dall’ente locale. Al contrario, quando l’autorità regionale o subregionale siano venute clamorosamente meno all’obbligo di motivazione, risulta sufficiente il rilievo da parte del Ministero della suddetta mancanza, non essendo stata in concreto esternata alcuna verifica di compatibilità dell’opera con il valore paesistico protetto, accertamento che costituisce funzione e contenuto essenziale del nulla osta.
In tale situazione il riferimento, contenuto nella determinazione statale, alla natura e consistenza dell’opera progettata ed alle caratteristiche del luogo, lungi dal configurare un riesame del merito, si afferma come evidenziazione dell’esistenza di un valore paesistico tutelato e come rilievo della necessità del giudizio di compatibilità in concreto pretermesso in relazione ad un intervento di trasformazione del territorio, capace di incidere, per natura ed entità, sul bene vincolato.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, dunque, può affermarsi che il decreto di annullamento è sufficientemente motivato in ordine al riscontrato vizio di difetto di motivazione del nulla osta paesaggistico, giacché ha rilevato la predetta mancanza ed ha evidenziato la peculiarità della concreta situazione di fatto che imponeva una adeguata esternazione delle ragioni di compatibilità dell’intervento. La legittimità del decreto ministeriale impugnato, sotto il profilo dell’avvenuto riscontro del difetto di motivazione del nulla osta paesaggistico, ne impedisce l’annullamento in virtù del principio giurisprudenziale in premessa ricordato e consente l’assorbimento dell’esame dei residui motivi di ricorso.

Invero, premessa l'assoluta mancata indicazione, nell'autorizzazione comunale (e nel parere della C.E.C.I. da essa richiamato), delle ragioni giustificative della ritenuta compatibilità paesaggistica delle opere oggetto di sanatoria, ritiene il Tribunale di richiamare quanto da esso già ampiamente osservato con la sentenza della Sezione II n. 2401 del 31.10.2007.
Con la citata sentenza, il Tribunale ha evidenziato che "legittimamente l’autorità ministeriale ha rilevato, ponendolo a base del disposto annullamento, il difetto di motivazione dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dall’autorità comunale. L’articolo 82 del DPR n. 616/1977 (di poi la normativa di cui all’art. 151 del D.Lgs. n. 490/1999 ed oggi quella contenuta nel D.Lgs. n. 42/2004) configura un sistema complesso di tutela del paesaggio, implicante l’intervento sia della Regione che dello Stato, in cui la concorrenza dei poteri è disciplinata dal principio di leale cooperazione (Corte Cost., sent. n. 359/1995, n. 151/1986, n. 302/1988).
Con specifico riferimento ai poteri della Regione (o dell’ente subdelegato), va rilevato che la funzione dell’autorizzazione è quella di verifica della compatibilità dell’opera edilizia che si intende realizzare con l’esigenza di conservazione dei valori paesistici protetti dal vincolo. E’ stato, infatti, evidenziato (cfr. Cons. Stato, VI, 14-11-1991, n. 828; VI, 25-09-1995, n. 963) che quest’ultimo contiene un accertamento circa l’esistenza di valori paesistici oggettivamente non derogabile e che è compito dell’autorizzazione accertare in concreto la compatibilità dell’intervento con il mantenimento e l’integrità dei richiamati valori. Difatti, il paesaggio è un valore costituzionale primario e, pertanto, l’autorità amministrativa non deve svolgere una ponderazione comparativa tra un interesse primario ed un interesse secondario, ma unicamente operare un giudizio in concreto circa il rispetto da parte dell’intervento progettato delle esigenze connesse alla tutela del paesaggio stesso. La determinazione dell’ente locale deve, dunque, essere motivata anche quando abbia contenuto positivo, favorevole al richiedente.
Tale principio, già consolidato in giurisprudenza in relazione alla peculiare natura dell’atto ed alla rilevanza degli interessi coinvolti (cfr. Cons. Stato, VI, 15-12-1981, n. 751; 19-05-1981, n. 221; IV, 18-11-1980, n. 1104), trova oggi espresso fondamento normativo nell’articolo 3 della legge n. 241/1990, secondo il quale ogni provvedimento amministrativo, di contenuto sia negativo che positivo, deve essere motivato, recando l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione in relazione alle risultanze dell’istruttoria.
Quanto, poi, al contenuto di tale motivazione, la giurisprudenza è ferma nel ritenere, ai fini della congruità e sufficienza della stessa, che debba esservi l’indicazione della ricostruzione dell’iter logico seguito, in ordine alle ragioni di compatibilità effettive che -in riferimento agli specifici valori paesistici dei luoghi- possano consentire tutti i progettati lavori, considerati nella loro globalità e non esclusivamente in semplici episodi di dettaglio (cfr. Cons. Stato, VI, 05-07-1990, n. 692; 14-11-1991, n. 828; 25-09-1993, n. 963; 20-06-1995, n. 952).
Le considerazioni sopra svolte valgono anche per il procedimento di condono edilizio di opere realizzate su aree sottoposte a vincolo, per il quale l’articolo 32 della legge n. 47/1985 dispone che “il rilascio della concessione o dell’autorizzazione in sanatoria … è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso”. Invero, la giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, VI, 28-01-1998, n. 114) ha avuto modo di chiarire che il suddetto parere ha natura e funzioni identiche alla autorizzazione paesaggistica, in quanto entrambi gli atti costituiscono il presupposto per l’assentimento del titolo che legittima la trasformazione urbanistico edilizia della zona protetta; con la conseguenza che anche in tale caso è applicabile il potere ministeriale di annullamento del provvedimento.
Venendo, dunque, all’esame della fattispecie concreta oggetto del presente giudizio e facendo applicazione dei principi giurisprudenziali sopra richiamati, risulta che l’autorità comunale non ha rispettato l’obbligo motivazionale cui era tenuta, considerato che il provvedimento autorizzativo rilasciato si limita ad affermare la mancanza di contrasto con le esigenze di tutela paesaggistica ed ambientale, senza però spiegarne le ragioni. Esso, infatti, si limita a precisare (richiamando per relationem il parere della Commissione Edilizia Integrata n. 26 del 27.06.1996) che “l’intervento non appare tale da risultare pregiudizievole per l’ambiente circostante, tale da incidere sostanzialmente sui valori paesaggistici”.
Ciò posto, ci si deve porre il problema del contenuto dell’obbligo di motivazione facente capo all’autorità ministeriale nel pronunziare l’annullamento dell’autorizzazione paesistica, considerato che l’articolo 82 del DPR n. 616/1977 (di poi l’articolo 151 del D.Lgs. n. 490/1999 ed oggi l’art. 159 del D.Lgs. n. 42/2004) sancisce espressamente che questo possa essere disposto “con provvedimento motivato”. E’ evidente, peraltro, che la sufficienza e la congruità della motivazione va individuata in relazione al potere in concreto esercitato (cfr. Cons. Stato, VI, 20-6-1997, n. 952 cit.), che nel caso di specie si identifica “nel quadro di un più generale potere-dovere di vigilanza sull’esercizio delle funzioni delegate, in un potere di annullamento di ufficio per motivi di legittimità delle determinazioni assunte dall’autorità regionale (o subregionale)”.
Orbene, essendo quest’ultima, per le ragioni sopra esposte, obbligata ad esternare le ragioni per le quali ritiene l’opera compatibile con i valori protetti dal vincolo, risulta evidente che, nel caso di avvenuta enunciazione dei motivi, l’autorità ministeriale che pronunzi l’annullamento deve specificare diffusamente le ragioni della riscontrata illegittimità, con riferimento a quanto affermato dall’ente locale. Al contrario, quando l’autorità regionale o subregionale siano venute clamorosamente meno all’obbligo di motivazione, risulta sufficiente il rilievo da parte del Ministero della suddetta mancanza, non essendo stata in concreto esternata alcuna verifica di compatibilità dell’opera con il valore paesistico protetto, accertamento che costituisce funzione e contenuto essenziale del nulla osta.
In tale situazione il riferimento, contenuto nella determinazione statale, alla natura e consistenza dell’opera progettata ed alle caratteristiche del luogo, lungi dal configurare un riesame del merito, si afferma come evidenziazione dell’esistenza di un valore paesistico tutelato e come rilievo della necessità del giudizio di compatibilità in concreto pretermesso in relazione ad un intervento di trasformazione del territorio, capace di incidere, per natura ed entità, sul bene vincolato.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, dunque, può affermarsi che il decreto di annullamento è sufficientemente motivato in ordine al riscontrato vizio di difetto di motivazione del nulla osta paesaggistico, giacché ha rilevato la predetta mancanza ed ha evidenziato la peculiarità della concreta situazione di fatto che imponeva una adeguata esternazione delle ragioni di compatibilità dell’intervento. La legittimità del decreto ministeriale impugnato, sotto il profilo dell’avvenuto riscontro del difetto di motivazione del nulla osta paesaggistico, ne impedisce l’annullamento in virtù del principio giurisprudenziale in premessa ricordato e consente l’assorbimento dell’esame dei residui motivi di ricorso
".

Deve solo aggiungersi che, ad escludere la rilevanza viziante della carenza motivazionale correttamente ravvisata dall'amministrazione intimata a carico dell'annullata autorizzazione paesaggistica, non varrebbe richiamare (attraverso una applicazione ante litteram dei principi fissati dall'art. 21-octies l. n. 241/1990) l'inidoneità delle opere de quibus ad arrecare pregiudizio alcuno ai valori paesaggistici oggetto di tutela, soprattutto in considerazione delle loro (affermate) modeste dimensioni: trattasi infatti di circostanza suscettibile di orientare, adeguatamente valutata ed esternata in sede motivazionale, l'esercizio del potere autorizzatorio comunale, ma inidonea ad impedire la sanzione caducatoria (applicata dall'amministrazione statale nei confronti dell'autorizzazione paesaggistica carente sul piano giustificativo) a pena di ribaltamento del corretto rapporto istituzionale che, nel settore della tutela del paesaggio, vede (rectius, vedeva) contrapposti (nel senso della alterità, non della conflittualità dei rispettivi ruoli) l'amministrazione locale preposta alla valutazione (di merito) della compatibilità paesaggistica dell'intervento e quella statale responsabile del controllo (di legittimità) della rispondenza dell'autorizzazione eventualmente rilasciata agli inderogabili parametri di legge.
La sufficienza del rilievo concernente la carenza motivazionale dell'autorizzazione annullata, al fine di integrare i presupposti legittimanti l'adozione del provvedimento di annullamento, consente di prescindere dall'esame delle ulteriori censure articolate dalla parte ricorrente, a cominciare da quella incentrata sulla contraddittorietà della determinazione di annullamento rispetto al parere favorevole (asseritamente) espresso dall'intimata amministrazione con riguardo al progetto di variante precedentemente presentato ed avente ad oggetto le stesse opere interessate dall'istanza di condono cui si riferisce il provvedimento impugnato (identità peraltro smentita dal provvedimento impugnato, laddove evidenzia che “negli elaborati grafici trasmessi sono indicate come "superfici da condonare" le parti dell'edificio eseguite in difformità rispetto a quanto rappresentato negli elaborati tecnici inerenti la citata variante in corso d'opera”) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.10.2012 n. 1941 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICASussiste la giurisdizione del g.a. sulle controversie relative all’esecuzione delle convenzioni urbanistiche, e quindi anche sull’accertamento di eventuali violazioni e sull’irrogazione delle conseguenti sanzioni previste, le convenzioni urbanistiche rientrano, infatti, nella categoria degli accordi procedimentali ex art. 11 l. n. 241 del 1990, con conseguente giurisdizione esclusiva del g.a.. La giurisdizione del g.a. sulle controversie in questione è attualmente confermata dagli artt. 7, 133, comma 1, lett. a), n. 2, e 133, comma 1, lett. d) c.p.a..
Le convenzioni urbanistiche, attuative di un p.i.p., rientrano tra gli “accordi sostitutivi” del provvedimento per i quali l’art. 11, comma 5, l. n. 241 del 1990 prevede la giurisdizione esclusiva del g. a. sulle controversie relative alla loro formazione, conclusione ed esecuzione.
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È legittima la deliberazione della giunta comunale con la quale è stato disposto di procedere, nei confronti di assegnatari di aree PEEP, al recupero di somme conseguenti ad una nuova determinazione dell’indennità di esproprio operata con sentenza dalla Corte di Appello all’esito del giudizio di opposizione alla stima in precedenza effettuata della commissione provinciale, sentenza (motivata con riguardo alla sopravvenuta normativa, di cui all’art. 2, commi 89 e 90, della l. n. 244 del 2007, i quali nel frattempo avevano modificato i criteri per il calcolo dell’indennità di esproprio) resa dopo l’avvio del procedimento per l’assegnazione dei lotti espropriati e la loro cessione in proprietà, in conseguenza della quale il Comune ha dovuto corrispondere al proprietario l’ulteriore importo oltre ad interessi legali e ha così stabilito di recuperare la maggior somma nei confronti degli assegnatari, compresi gli acquirenti finali degli alloggi, in misura proporzionale alla superficie dagli stessi acquisita, secondo quanto disposto dall’art. 35 della l. n. 865 del 1971: tale norma, infatti, dispone che i prezzi delle aree cedute per la realizzazioni dei P.E.E.P. devono, nel loro insieme, assicurare la copertura delle spese sostenute dal comune o dal consorzio per l’acquisizione delle aree, così enunciando la regola per cui i costi inerenti la procedura espropriativa devono gravare totalmente sugli assegnatari, e non sull’Amministrazione espropriante.
Allorché la giunta comunale abbia disposto di procedere, nei confronti di assegnatari di aree PEEP, al recupero di somme conseguenti ad una nuova determinazione dell’indennità di esproprio operata con sentenza dalla Corte di Appello all’esito del giudizio di opposizione alla stima in precedenza effettuata della commissione provinciale, se pure nelle convenzioni erano stati puntualmente quantificati sia il costo per l’acquisizione delle aree sia le spese per l’urbanizzazione, ciò non esclude il diritto del Comune di pretendere il rimborso anche degli ulteriori importi: infatti, tale adeguamento dei costi deve comunque ritenersi operante ex art. 35, l. n. 865 del 1971 ed art. 1339 c.c. (inserzione automatica di clausole e di prezzi imposti per legge).
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In materia di piani per le aree da destinare ad insediamenti produttivi (p.i.p.) previsti e disciplinati dall’art. 27, l. 22.10.1971 n. 865, deve ritenersi che, nonostante l’espressa quantificazione del costo delle aree e delle spese di urbanizzazione, come contenuta nella convenzione–contratto stipulata tra le parti, il comune abbia diritto a ripetere dai singoli acquirenti l’importo pro quota di quanto effettivamente speso per l’acquisizione delle aree e per le spese di urbanizzazione. Ciò anche nell’ipotesi in cui nessuna riserva in tal senso fosse contenuta nel contratto stesso, dovendosi ritenere operante il meccanismo di inserzione automatica di clausole per l’integrazione del contenuto del contratto prevista dall’art. 1339 del codice civile, in relazione alla natura inderogabile della disposizione legislativa sopra richiamata in tema di copertura delle spese sostenute dall’Ente pubblico per gli scopi in questione”.
I piani per le aree da destinare ad insediamenti produttivi sono previsti e disciplinati dalla l. 22.10.1971, n. 865 il cui art. 27 stabilisce che “I comuni dotati di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione approvati possono formare, previa autorizzazione della Regione, un piano delle aree da destinare a insediamenti produttivi”.
Le aree comprese nel piano approvato sono espropriate dai comuni o da loro consorzi ed utilizzate per la realizzazione di impianti produttivi di carattere industriale, artigianale, commerciale e turistico mediante la cessione in proprietà o la concessione del diritto di superficie sulle aree medesime.
Dispone, poi, l’ultimo comma della citata disposizione che “Contestualmente all’atto di concessione, o all’atto di cessione della proprietà dell’area, tra il comune da una parte e il concessionario o l’acquirente dall’altra, viene stipulata una convenzione per atto pubblico con la quale vengono disciplinati gli oneri posti a carico del concessionario o dell’acquirente e le sanzioni per la loro inosservanza”.
Analoghe disposizioni sono contenute nell’art. 35 per quanto riguarda i piani per l’edilizia economica e popolare nel quale, peraltro, sono dettagliatamente stabiliti i contenuti della convenzione da stipularsi con i soggetti assegnatari delle aree, nonché il principio per cui “il prezzo di cessione delle aree è determinato in misura pari al costo di acquisizione delle aree stesse (...)”.
In proposito non si è mancato di rilevare l’analoga funzione di promozione sociale svolta da entrambe le tipologie di piani che, attraverso lo strumento dell’espropriazione, si propongono l’intento di offrire ai soggetti assegnatari, ad un prezzo inferiore a quello di mercato, le aree necessarie per la realizzazione di attività imprenditoriali o di case di abitazione producendo, di fatto, un trasferimento di ricchezza dal proprietario espropriato all’assegnatario di aree a basso prezzo.
Ne consegue che la disciplina pubblicistica di cui all’art. 27 l. n. 865 cit. non si esaurisce alla fase di delimitazione, individuazione ed espropriazione delle aree ma caratterizza anche il trasferimento ai privati, da parte del Comune, delle aree suddette, riflettendosi necessariamente sugli oneri e le sanzioni previste a carico dei privati nella convenzione relativa alla cessione di cui si palesa evidente la preordinazione alla tutela dell’interesse pubblico.
Sulla scorta di tale premessa deve ritenersi che, nonostante l’espressa quantificazione del costo delle aree e delle spese di urbanizzazione, come contenuta nella convenzione–contratto stipulata tra le parti, il Comune abbia diritto a ripetere dai singoli acquirenti l’importo pro quota di quanto effettivamente speso per l’acquisizione delle aree e per le spese di urbanizzazione. Ciò anche nell’ipotesi in cui nessuna riserva in tal senso fosse contenuta nel contratto stesso, dovendosi ritenere operante il meccanismo di inserzione automatica di clausole per l’integrazione del contenuto del contratto prevista dall'art. 1339 del codice civile, in relazione alla natura inderogabile della disposizione legislativa sopra richiamata in tema di copertura delle spese sostenute dall’Ente pubblico per gli scopi questione.
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Nell’ipotesi in cui l’acquisizione delle aree da destinare alla realizzazione dei piani di edilizia economica e popolare avvenga non già mediante le procedure espropriative di legge, bensì come effetto di un fatto illecito che, da un lato, determina l’acquisto della proprietà del suolo di mano pubblica e, dall’altro, fa sorgere nei proprietari delle aree il diritto al risarcimento del danno per la perdita della proprietà ai sensi dell’art. 2043 c.c., il principio dell’integrale copertura dei costi sostenuti per l’acquisto viene meno, atteso che si è fuori dalla lettera e dalla ratio dell’art. 35, l. 22.10.1971 n. 865, non potendosi fare ricadere sui concessionari delle aree e loro aventi causa i maggiori costi determinatisi in forza di una acquisizione delle aree realizzate con un fatto civilisticamente illecito, quale l’occupazione acquisitiva; il principio dell’integrale copertura dei costi di acquisto delle aree è infatti espressione di una garanzia economica nei confronti dell’ente procedente, ma contiene in sé anche un principio di garanzia giuridica verso il beneficiario, che è obbligato nei confronti del Comune nei soli limiti impostigli dalla legge e dal corretto comportamento dell’Amministrazione, legato alla corretta acquisizione delle aree nel rispetto della procedura espropriativa prevista dalla legge.
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In sede di concessione di aree o lotti di un piano per insediamenti produttivi (P.I.P.), trova applicazione il principio generale di cui all’art. 35 della l. 22.10.1971, n. 865, in base al quale il prezzo di cessione delle aree da destinare all’edilizia residenziale pubblica è determinato in misura pari al costo di acquisizione delle aree stesse, nonché al costo delle relative opere di urbanizzazione in proporzione al volume edificabile.

Come di recente affermato in giurisprudenza: “Sussiste la giurisdizione del g.a. sulle controversie relative all’esecuzione delle convenzioni urbanistiche, e quindi anche sull’accertamento di eventuali violazioni e sull’irrogazione delle conseguenti sanzioni previste, le convenzioni urbanistiche rientrano, infatti, nella categoria degli accordi procedimentali ex art. 11 l. n. 241 del 1990, con conseguente giurisdizione esclusiva del g.a.. La giurisdizione del g.a. sulle controversie in questione è attualmente confermata dagli artt. 7, 133, comma 1, lett. a), n. 2, e 133, comma 1, lett. d) c.p.a. (nella specie veniva in rilievo una convenzione urbanistica stipulata per la realizzazione di un intervento in area PEEP)” – Consiglio di Stato – Sez. IV – 02.02.2012, n. 616 (conferma TAR Veneto, Sezione II, 05.07.2010, n. 2783).
Cfr. anche la seguente ulteriore massima: “Le convenzioni urbanistiche, attuative di un p.i.p., rientrano tra gli “accordi sostitutivi” del provvedimento per i quali l’art. 11, comma 5, l. n. 241 del 1990 prevede la giurisdizione esclusiva del g. a. sulle controversie relative alla loro formazione, conclusione ed esecuzione” – Consiglio di Stato – Sez. IV – 16.02.2011, n. 1014 (Riforma TAR Toscana, Sez. I, n. 733 del 2004).
Nel merito, la pretesa dei ricorrenti, a sottrarsi al pagamento delle maggiori somme dovute per l’esproprio delle aree comprese nel P.I.P., a seguito della sentenza della Corte d’Appello di Salerno, che in accoglimento dell’azione esercitata dai proprietari dei suoli, ha condannato il Comune di Eboli a corrispondere ai medesimi un’indennità di esproprio commisurata al valore venale dei suoli, considerati come edificatori, in base quindi ad un valore al mq. assai superiore a quello al quale le aree erano state inizialmente cedute agli assegnatari, tra cui le ricorrenti, non può essere accolta.
La giurisprudenza è unanimemente orientata, infatti, in senso contrario.
È legittima la deliberazione della giunta comunale con la quale è stato disposto di procedere, nei confronti di assegnatari di aree PEEP, al recupero di somme conseguenti ad una nuova determinazione dell’indennità di esproprio operata con sentenza dalla Corte di Appello all’esito del giudizio di opposizione alla stima in precedenza effettuata della commissione provinciale, sentenza (motivata con riguardo alla sopravvenuta normativa, di cui all’art. 2, commi 89 e 90, della l. n. 244 del 2007, i quali nel frattempo avevano modificato i criteri per il calcolo dell’indennità di esproprio) resa dopo l’avvio del procedimento per l’assegnazione dei lotti espropriati e la loro cessione in proprietà, in conseguenza della quale il Comune ha dovuto corrispondere al proprietario l’ulteriore importo oltre ad interessi legali e ha così stabilito di recuperare la maggior somma nei confronti degli assegnatari, compresi gli acquirenti finali degli alloggi, in misura proporzionale alla superficie dagli stessi acquisita, secondo quanto disposto dall’art. 35 della l. n. 865 del 1971: tale norma, infatti, dispone che i prezzi delle aree cedute per la realizzazioni dei P.E.E.P. devono, nel loro insieme, assicurare la copertura delle spese sostenute dal comune o dal consorzio per l’acquisizione delle aree, così enunciando la regola per cui i costi inerenti la procedura espropriativa devono gravare totalmente sugli assegnatari, e non sull’Amministrazione espropriante” (TAR Veneto – Sez. II – 13.10.2011, n. 1561).
Altra massima tratta dalla stessa sentenza: “Allorché la giunta comunale abbia disposto di procedere, nei confronti di assegnatari di aree PEEP, al recupero di somme conseguenti ad una nuova determinazione dell’indennità di esproprio operata con sentenza dalla Corte di Appello all’esito del giudizio di opposizione alla stima in precedenza effettuata della commissione provinciale, se pure nelle convenzioni erano stati puntualmente quantificati sia il costo per l’acquisizione delle aree sia le spese per l’urbanizzazione, ciò non esclude il diritto del Comune di pretendere il rimborso anche degli ulteriori importi: infatti, tale adeguamento dei costi deve comunque ritenersi operante ex art. 35, l. n. 865 del 1971 ed art. 1339 c.c. (inserzione automatica di clausole e di prezzi imposti per legge)”.
Lo stesso principio è stato affermato anche per le aree comprese in zona p.i.p.: “In materia di piani per le aree da destinare ad insediamenti produttivi previsti e disciplinati dall’art. 27, l. 22.10.1971 n. 865, deve ritenersi che, nonostante l’espressa quantificazione del costo delle aree e delle spese di urbanizzazione, come contenuta nella convenzione–contratto stipulata tra le parti, il comune abbia diritto a ripetere dai singoli acquirenti l’importo pro quota di quanto effettivamente speso per l’acquisizione delle aree e per le spese di urbanizzazione. Ciò anche nell’ipotesi in cui nessuna riserva in tal senso fosse contenuta nel contratto stesso, dovendosi ritenere operante il meccanismo di inserzione automatica di clausole per l’integrazione del contenuto del contratto prevista dall’art. 1339 del codice civile, in relazione alla natura inderogabile della disposizione legislativa sopra richiamata in tema di copertura delle spese sostenute dall’Ente pubblico per gli scopi in questione” (TAR Toscana – Sez. I – 28.06.2006, n. 2956).
In motivazione, la suddetta sentenza specificava che: “I piani per le aree da destinare ad insediamenti produttivi sono previsti e disciplinati dalla l. 22.10.1971, n. 865 il cui art. 27 stabilisce che “I comuni dotati di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione approvati possono formare, previa autorizzazione della Regione, un piano delle aree da destinare a insediamenti produttivi”;
Le aree comprese nel piano approvato sono espropriate dai comuni o da loro consorzi ed utilizzate per la realizzazione di impianti produttivi di carattere industriale, artigianale, commerciale e turistico mediante la cessione in proprietà o la concessione del diritto di superficie sulle aree medesime.
Dispone, poi, l’ultimo comma della citata disposizione che “Contestualmente all’atto di concessione, o all’atto di cessione della proprietà dell’area, tra il comune da una parte e il concessionario o l’acquirente dall’altra, viene stipulata una convenzione per atto pubblico con la quale vengono disciplinati gli oneri posti a carico del concessionario o dell’acquirente e le sanzioni per la loro inosservanza”.
Analoghe disposizioni sono contenute nell’art. 35 per quanto riguarda i piani per l’edilizia economica e popolare nel quale, peraltro, sono dettagliatamente stabiliti i contenuti della convenzione da stipularsi con i soggetti assegnatari delle aree, nonché il principio per cui “il prezzo di cessione delle aree è determinato in misura pari al costo di acquisizione delle aree stesse (...)”.
In proposito non si è mancato di rilevare l’analoga funzione di promozione sociale svolta da entrambe le tipologie di piani che, attraverso lo strumento dell’espropriazione, si propongono l’intento di offrire ai soggetti assegnatari, ad un prezzo inferiore a quello di mercato, le aree necessarie per la realizzazione di attività imprenditoriali o di case di abitazione producendo, di fatto, un trasferimento di ricchezza dal proprietario espropriato all’assegnatario di aree a basso prezzo (Consiglio Stato, sez. IV, 22.05.2000, n. 2939).
Ne consegue che la disciplina pubblicistica di cui all’art. 27 l. n. 865 cit. non si esaurisce alla fase di delimitazione, individuazione ed espropriazione delle aree ma caratterizza anche il trasferimento ai privati, da parte del Comune, delle aree suddette, riflettendosi necessariamente sugli oneri e le sanzioni previste a carico dei privati nella convenzione relativa alla cessione di cui si palesa evidente la preordinazione alla tutela dell’interesse pubblico (Cassazione civile, sez. I, 27.09.1997, n. 9508).
Sulla scorta di tale premessa deve ritenersi che, nonostante l’espressa quantificazione del costo delle aree e delle spese di urbanizzazione, come contenuta nella convenzione–contratto stipulata tra le parti, il Comune abbia diritto a ripetere dai singoli acquirenti l’importo pro quota di quanto effettivamente speso per l’acquisizione delle aree e per le spese di urbanizzazione. Ciò anche nell’ipotesi in cui nessuna riserva in tal senso fosse contenuta nel contratto stesso, dovendosi ritenere operante il meccanismo di inserzione automatica di clausole per l’integrazione del contenuto del contratto prevista dall'art. 1339 del codice civile, in relazione alla natura inderogabile della disposizione legislativa sopra richiamata in tema di copertura delle spese sostenute dall’Ente pubblico per gli scopi questione (Consiglio di stato, Sez. V, 01.12.2003, n. 7820; id., sez. IV, 21.02.2005, n. 577)”.
Ai principi di cui sopra si è ritenuto che sia possibile derogare esclusivamente (ma non è il caso che viene in esame nella specie) quando –anziché di una procedura espropriativa, condotta secondo la scansione procedimentale imposta dalla legge– ci si trovi in cospetto di un fatto illecito, sotto il profilo civilistico, quale l’occupazione acquisitiva, giusta la massima –espressione di un indirizzo pacifico– che segue: “Nell’ipotesi in cui l’acquisizione delle aree da destinare alla realizzazione dei piani di edilizia economica e popolare avvenga non già mediante le procedure espropriative di legge, bensì come effetto di un fatto illecito che, da un lato, determina l’acquisto della proprietà del suolo di mano pubblica e, dall’altro, fa sorgere nei proprietari delle aree il diritto al risarcimento del danno per la perdita della proprietà ai sensi dell’art. 2043 c.c., il principio dell’integrale copertura dei costi sostenuti per l’acquisto viene meno, atteso che si è fuori dalla lettera e dalla ratio dell’art. 35, l. 22.10.1971 n. 865, non potendosi fare ricadere sui concessionari delle aree e loro aventi causa i maggiori costi determinatisi in forza di una acquisizione delle aree realizzate con un fatto civilisticamente illecito, quale l’occupazione acquisitiva; il principio dell’integrale copertura dei costi di acquisto delle aree è infatti espressione di una garanzia economica nei confronti dell’ente procedente, ma contiene in sé anche un principio di garanzia giuridica verso il beneficiario, che è obbligato nei confronti del Comune nei soli limiti impostigli dalla legge e dal corretto comportamento dell’Amministrazione, legato alla corretta acquisizione delle aree nel rispetto della procedura espropriativa prevista dalla legge” (Consiglio Stato – Sez. IV – 22.07.2010, n. 4813) (Annulla Tar Puglia, Bari, sez. II, 20.02.2004, n. 169).
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La prospettiva, adottata dai ricorrenti, non può essere seguita, per la semplice ma dirimente ragione che il principio dell’integrale copertura dei costi sostenuti per l’acquisizione delle aree da assegnare in zona p.i.p. è sancito, in maniera inderogabile, dalla legge e non può essere superato, in virtù di considerazioni imperniate sull’affidamento, in tesi ingenerato nei ricorrenti (per effetto della condotta, violativa del principio di buona fede, del Comune) circa la definitività del prezzo di cessione di tali aree (cfr. l’ulteriore massima che segue: “In sede di concessione di aree o lotti di un piano per insediamenti produttivi (P.I.P.), trova applicazione il principio generale di cui all’art. 35 della l. 22.10.1971, n. 865, in base al quale il prezzo di cessione delle aree da destinare all’edilizia residenziale pubblica è determinato in misura pari al costo di acquisizione delle aree stesse, nonché al costo delle relative opere di urbanizzazione in proporzione al volume edificabile” – TAR Sardegna – Sez. I – 26.03.2010, n. 364)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.10.2012 n. 1939 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nell’arco temporale anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 157 del 2006 le domande di accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 181, comma 1-quater, del d.lgs. n. 42 del 2004 erano preordinate al solo esonero da responsabilità penale per il reato contravvenzionale ivi previsto, di modo che nessun effetto di sanatoria era suscettibile di determinarsi sotto il profilo amministrativo, a meno che –fino all’esaurirsi della fase transitoria regolata dall’art. 159– l’Amministrazione non ritenesse di poter rilasciare un’autorizzazione postuma.
Con il sopraggiungere, invece, dell’assetto normativo dovuto al d.lgs. n. 157 del 2006, si è imposto il principio della duplice rilevanza –sia in àmbito penale sia in àmbito amministrativo– dell’accertamento di compatibilità paesaggistica delle opere realizzate in assenza o difformità dal titolo abilitativo, con l’effetto di assoggettare al nuovo regime anche i procedimenti ancora pendenti al momento dell’entrata in vigore della normativa di riforma del settore, in linea del resto con l’inapplicabilità in simili casi dell’istituto del silenzio-assenso e con l’operatività, a fronte dell’eventuale inosservanza del termine perentorio ivi previsto, del diverso istituto del silenzio-rifiuto.

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Essendo nella circostanza l’abuso caratterizzato da un aumento di volumetria, legittimamente l’Amministrazione comunale ha opposto la sussistenza di una ragione ostativa all’autorizzazione postuma, in relazione al divieto insito nella fattispecie di cui all’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004 (risultante dalle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 157/2006).
Né rileva il fatto che la presentazione della domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica risalisse all’anno 2005, nella vigenza della precedente disciplina, e che sarebbe rimasto inosservato il termine perentorio per provvedere, essendo notorio che, in ragione del principio del tempus regit actum, deve essere sempre applicata la normativa vigente al momento dell’adozione del provvedimento –e quindi della conclusione del procedimento–, ancorché si tratti di normativa emanata dopo la presentazione della domanda del privato e ancorché l’Amministrazione abbia provveduto tardivamente sull’istanza, attesa oltretutto l’inapplicabilità –in questa materia– dell’istituto del silenzio-assenso.
Occorre preliminarmente definire il quadro normativo di riferimento, alla luce anche degli orientamenti interpretativi prevalsi in giurisprudenza (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, 21.05.2009 n. 3140; TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 13.04.2011 n. 669; TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 21.04.2009 n. 2088; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 14.01.2009 n. 10; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 10.09.2008 n. 4037).
La formulazione originaria dell’art. 146, comma 10, del d.lgs. n. 42 del 2004 («Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della L. 06.07.2002, n. 137») prevedeva che “l’autorizzazione paesaggistica … non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi”, ma l’operatività del divieto veniva rinviata dal successivo art. 159 ad una fase posteriore alla conclusione del periodo transitorio ivi disciplinato, sicché la preclusione legale al rilascio di un’autorizzazione paesaggistica postuma non entrava immediatamente in vigore; al contempo, l’art. 167 stabiliva che, in caso di abuso (non rimosso con un titolo abilitativo ex post), il “…trasgressore è tenuto, secondo che l’autorità amministrativa preposta alla tutela paesaggistica ritenga più opportuno nell’interesse della protezione dei beni indicati nell’articolo 134, alla rimessione in pristino a proprie spese o al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione …”.
Una sanatoria ai fini penali, in via autonoma, veniva introdotta dai commi 1-ter e 1-quater dell’art. 181 (aggiunti dall’art. 1, comma 36, della legge n. 308 del 2004) limitatamente ai c.d. “abusi minori”, quali –ad es.– i “…lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati …” [comma 1-ter, lett. a)], e ciò a mezzo di “…apposita domanda all’autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell’accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni” (comma 1-quater); con il risultato che l’accertamento della compatibilità paesaggistica ivi previsto esplicava effetti solo sull’applicazione delle misure penali e non dava luogo ad alcuna forma di regolarizzazione degli abusi sotto il profilo amministrativo, che presupponeva invece un’autorizzazione distinta (il comma 1-ter precisava: “ferma restando l’applicazione delle sanzioni amministrative ripristinatorie o pecuniarie di cui all’articolo 167”).
L’automatica estensione della regolarizzazione all’àmbito amministrativo interveniva successivamente, con la riforma operata dal d.lgs. n. 157 del 2006, atteso che, in virtù delle modifiche normative in tal modo disposte, l’art. 146, comma 12, veniva a prevedere –a regime– un temperamento al precedente assoluto divieto di autorizzazione postuma (“L’autorizzazione paesaggistica, fuori dai casi di cui all’articolo 167, commi 4 e 5, non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi”) e l’art. 167 veniva a far proprio un meccanismo di sanatoria analogo a quello già in essere ai fini penali, sia per quanto stabilito al comma 4 (“L’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; b) …; c) …”) sia per quanto stabilito al comma 5 (“Il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area interessati dagli interventi di cui al comma 4 presenta apposita domanda all’autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell’accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni. Qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione. L’importo della sanzione pecuniaria è determinato previa perizia di stima. In caso di rigetto della domanda si applica la sanzione demolitoria di cui al comma 1 …”), con conseguente modifica del regime sanzionatorio di cui al comma 1 (“…il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese, fatto salvo quanto previsto al comma 4”); il raccordo con le determinazioni da assumere ai fini penali, poi, veniva realizzato sia prescrivendo al comma 5 dell’art. 167 che la “…domanda di accertamento della compatibilità paesaggistica presentata ai sensi dell’articolo 181, comma 1-quater, si intende presentata anche ai sensi e per gli effetti di cui al presente comma”, sia prescrivendo –in via transitoria– all’art. 182, comma 3-quater, che “agli accertamenti della compatibilità paesaggistica effettuati, alla data di entrata in vigore della presente disposizione, ai sensi dell’articolo 181, comma 1-quater, si applicano le sanzioni di cui all’articolo 167, comma 5”.
In conclusione, nell’arco temporale anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 157 del 2006 le domande di accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 181, comma 1-quater, del d.lgs. n. 42 del 2004 erano preordinate al solo esonero da responsabilità penale per il reato contravvenzionale ivi previsto, di modo che nessun effetto di sanatoria era suscettibile di determinarsi sotto il profilo amministrativo, a meno che –fino all’esaurirsi della fase transitoria regolata dall’art. 159– l’Amministrazione non ritenesse di poter rilasciare un’autorizzazione postuma; con il sopraggiungere, invece, dell’assetto normativo dovuto al d.lgs. n. 157 del 2006, si è imposto il principio della duplice rilevanza –sia in àmbito penale sia in àmbito amministrativo– dell’accertamento di compatibilità paesaggistica delle opere realizzate in assenza o difformità dal titolo abilitativo, con l’effetto di assoggettare al nuovo regime anche i procedimenti ancora pendenti al momento dell’entrata in vigore della normativa di riforma del settore, in linea del resto con l’inapplicabilità in simili casi dell’istituto del silenzio-assenso e con l’operatività, a fronte dell’eventuale inosservanza del termine perentorio ivi previsto, del diverso istituto del silenzio-rifiuto.
Ciò posto, essendo nella circostanza l’abuso caratterizzato da un aumento di volumetria, legittimamente l’Amministrazione comunale ha opposto la sussistenza di una ragione ostativa all’autorizzazione postuma, in relazione al divieto insito nella fattispecie di cui all’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004 (risultante dalle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 157/2006).
Né rileva il fatto che la presentazione della domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica risalisse all’anno 2005, nella vigenza della precedente disciplina, e che sarebbe rimasto inosservato il termine perentorio per provvedere, essendo notorio che, in ragione del principio del tempus regit actum, deve essere sempre applicata la normativa vigente al momento dell’adozione del provvedimento –e quindi della conclusione del procedimento–, ancorché si tratti di normativa emanata dopo la presentazione della domanda del privato (v., ex multis, TAR Lazio, Sez. II, 06.03.2012 n. 2249) e ancorché l’Amministrazione abbia provveduto tardivamente sull’istanza (v., tra le altre, TAR Veneto, Sez. I, 07.05.2010 n. 1850), attesa oltretutto l’inapplicabilità –in questa materia– dell’istituto del silenzio-assenso (v. TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 13.04.2011 n. 669)
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 24.10.2012 n. 634 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Consiglio di stato sull'autorizzazione unica. Sul fotovoltaico termini perentori.
È perentorio il termine per la conclusione dei procedimento di autorizzazione unica ex art. 12 del dlgs 387/2003 (180 giorni, ora 90 giorni dopo le modifiche del dlgs 28/2011) per la realizzazione di un impianto fotovoltaico destinato alla produzione di energia elettrica da fonte solare rinnovabile.
La mancata adozione di un provvedimento espresso sulla richiesta autorizzazione unica è del tutto ingiustificata e configura un sostanziale inadempimento, avuto riguardo al termine perentorio di 180 giorni entro cui doveva concludersi il relativo procedimento. Vi era quindi l'obbligo della regione di condurre il procedimento nel rispetto della normativa di settore, espressione dei principi di economicità, e di efficacia dell'azione amministrativa, nonché dei principi dell'ordinamento comunitario, concludendo lo stesso nel termine tassativamente prescritto.

Questo è quanto espresso dal Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 23.10.2012 n. 5413.
I giudici di Palazzo Spada confermando un orientamento consolidato condannano la pubblica amministrazione regionale che, dopo la richiesta dell'autorizzazione unica per realizzare un impianto fotovoltaico non aveva adottato un provvedimento espresso nel termine perentorio previsto dall'articolo 12, dlgs 387/2003.
I Supremi giudici ricordano che la Corte costituzionale (sentenza 09.11.2006, n. 364; Corte cost. sentenza n. 282/2009) ha ribadito la perentorietà del termine di conclusione delle procedure autorizzative in materia di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili.
La perentorietà costituisce il principio fondamentale in materia di produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia e risulta ispirato alle regole della semplificazione amministrativa e della celerità garantendo, in modo uniforme sull'intero territorio nazionale la conclusione entro un termine definito del procedimento autorizzativo (articolo ItaliaOggi del 10.11.2012).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 27 del t.u. dell'edilizia (ex art. 7 l. n. 47 del 1985) è applicabile sia in presenza della fase iniziale delle lavorazioni che di opere già eseguite e non vede la sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta.
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Il provvedimento sanzionatorio trova giustificazione del tutto sufficiente nell’indicazione degli abusi realizzati “in difetto dei prescritti titoli abilitativi” su territorio assoggettato a vincolo paesaggistico, con la ulteriore conseguenza che non può essere predicata alcuna violazione delle garanzie partecipative.
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Ex combinato disposto fra art. 31 e 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, l'eventuale pregiudizio derivante dalla demolizione delle opere abusive rispetto al manufatto esistente viene in rilievo solo se si è in presenza “di interventi realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire”.
E' il responsabile dell'abuso a doversi primariamente preoccupare di effettuare la demolizione parziale con tutte le cautele tecniche necessarie per evitare qualsiasi pregiudizio strutturale, fermo che, da parte dell’amministrazione, l’esigibilità dell’adempimento richiesto al privato sarà (andrà) comprovata in appresso, in sede di eventuale esecuzione di ufficio della demolizione, ovvero determinerà quanti effetti risarcitori avessero a prodursi per la contraria ipotesi.
La possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi.

Migliore sorte non può essere conferita al secondo mezzo, in quanto a differenza di quanto assume, del tutto genericamente, parte ricorrente:
- come già sopra precisato, il provvedimento impugnato non ingiunge la demolizione dell’intera opera;
- alla luce della disciplina vigente e della consolidata giurisprudenza formatasi sul testo normativo antecedente, l'art. 27 del t.u. dell'edilizia (ex art. 7 l. n. 47 del 1985) è applicabile sia in presenza della fase iniziale delle lavorazioni che di opere già eseguite e non vede la sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta (cfr. Tar Campania, questa sesta sezione, ex multis, n. 2636 del 05.06.2012, n. 1302 del 16.03.2012, n. 5804 del 14.12.2011, n. 2382 del 28.04.2011; n. 1636 del 23.03.2011, n. 2814 del 06.05.2010, n. 2076 del 21.04.2010, n. 1775 del 07.04.2010, n. 1731 del 30.03.2010 e n. 10.03.2011, n. 1410; e cfr. anche, sezione terza, 11.03.2009, n. 1376 e Tribunale Roma, 28.04.2000).
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Infondati sono poi i mezzi a seguire che possono essere accomunati nell’esame. Ed invero, sempre per consolidata giurisprudenza, in essa compresa quella della Sezione fin qui riportata e cui si rinvia:
- alcun onere di verifica della compatibilità delle opere con la strumentazione urbanistica risiedeva in capo all’amministrazione, stante anche -lo si ribadisce- l’avvenuta realizzazione dell’intervento in difetto di autorizzazione paesaggistica non rilasciabile a sanatoria ex art. 146, comma 12, d.l.vo n. 42 del 2004 non rientrandosi, in pacifica evidenza, nelle eccezioni ivi previste, ossia nei casi di cui all’art. 167, comma 4 e 5, stesso decreto;
- nelle ripetute descritte condizioni, alcun rilievo può esser attribuito alla presentazione (anch’essa genericamente indicata) di un’istanza di accertamento di conformità urbanistica, a fronte della quale, in assenza di attuali contrarie indicazioni, deve ritenersi essersi formato (all’epoca) il provvedimento di diniego ex lege;
- sempre nelle descritte condizioni, il provvedimento sanzionatorio, quale adottato, trova giustificazione del tutto sufficiente nell’indicazione degli abusi realizzati “in difetto dei prescritti titoli abilitativi” su territorio assoggettato a vincolo paesaggistico, con la ulteriore conseguenza che non può essere predicata alcuna violazione delle garanzie partecipative (cfr., oltre la riportata giurisprudenza della Sezione, Cons. Stato, sezione quinta, sentenza 07.04.2011 n. 2159).
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Ancorché non vi sia in ricorso una denuncia specifica ed espressa al riguardo, stante comunque il sia pur mero accenno contenuto in seno all’esposizione “dei dati di fatto”, è il caso ancora di precisare che l’amministrazione non aveva alcun onere di valutare il possibile pregiudizio all’esistente recato dall’esecuzione dell’ordine di ripristino. Ciò perché:
- ex combinato disposto fra art. 31 e 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, l'eventuale pregiudizio derivante dalla demolizione delle opere abusive rispetto al manufatto esistente viene in rilievo solo se si è in presenza “di interventi realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire” (Tar Campania, Napoli, questa sesta sezione, n. 2811 del 06.05.2010; sezione seconda, 27.01.2009, n. 443);
- è “il responsabile dell'abuso a doversi primariamente preoccupare di effettuare la demolizione parziale con tutte le cautele tecniche necessarie per evitare qualsiasi pregiudizio strutturale” (cfr., cennata pronuncia n. 2811 del 06.05.2010 e Tar Umbria, Perugia, sezione prima, 21.01.2010, n. 24), fermo che, da parte dell’amministrazione, “l’esigibilità dell’adempimento richiesto al privato sarà (andrà) comprovata in appresso, in sede di eventuale esecuzione di ufficio della demolizione, ovvero determinerà quanti effetti risarcitori avessero a prodursi per la contraria ipotesi” (ancora la ripetuta pronuncia della sezione e, sezione settima, sentenza n. 9355 del 24.07.2008);
- in definitiva, “la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi” (cfr., ex multis, fra le ultime, Tar Campania Napoli, questa sesta sezione, n. 3538 del 24.07.2012, 18.05.2012, n. 2291 cit.; 22.02.2012, n. 913, 08.04.2011, n. 2039 e 15.07.2010, n. 16807; Salerno, sez. II, 13.04.2011, n. 702) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 23.10.2012 n.
4204 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’acquiescenza, come accettazione del provvedimento lesivo, va prestata con atti univoci, chiari e concordanti, che evidenzino in modo chiaro ed incontestabile la volontà dell’interessato di accettare il medesimo provvedimento. Tali atti debbono, perciò, essere totalmente incompatibili con la volontà dell’interessato di avvalersi dell’impugnazione.
La necessità di atti o comportamenti univoci, compiuti liberamente dal destinatario dell’atto, che dimostrino la chiara ed incondizionata (cioè non rimessa ad eventi futuri ed incerti) volontà di questi di accettarne gli effetti e l’operatività, porta ad escludere che possa affermarsi la sussistenza dell’acquiescenza per mera presunzione, non potendosi in questo caso trovare riscontro univoco della volontà dell’interessato di accettare tutte le conseguenze derivanti dall’atto amministrativo.
Si è poi chiarito che sussistono, in via di principio, gli estremi della rinuncia preventiva all’iniziativa giurisdizionale ove la condotta consapevole da parte dell’avente titolo all’impugnazione, libera e diretta in maniera inequivocabile ad accettare l’assetto di interessi definito dalla P.A. con il provvedimento lesivo, si verifichi dopo l’emissione del provvedimento stesso, ma prima della proposizione del gravame nei confronti del medesimo.

Invero, secondo l’insegnamento della migliore dottrina e della giurisprudenza, l’acquiescenza, come accettazione (nel caso in discorso, implicita) del provvedimento lesivo, va prestata con atti univoci, chiari e concordanti, che evidenzino in modo chiaro ed incontestabile la volontà dell’interessato di accettare il medesimo provvedimento (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. V, 25.08.2011, n. 4805; id., 21.09.2010, n. 7031; id., 30.03.1998, n. 398). Tali atti debbono, perciò, essere totalmente incompatibili con la volontà dell’interessato di avvalersi dell’impugnazione (cfr. C.d.S., Sez. V, 20.02.2012, n. 872; id., Sez. III, 14.12.2011, n. 6574).
La necessità di atti o comportamenti univoci, compiuti liberamente dal destinatario dell’atto, che dimostrino la chiara ed incondizionata (cioè non rimessa ad eventi futuri ed incerti) volontà di questi di accettarne gli effetti e l’operatività, porta ad escludere che possa affermarsi la sussistenza dell’acquiescenza per mera presunzione, non potendosi in questo caso trovare riscontro univoco della volontà dell’interessato di accettare tutte le conseguenze derivanti dall’atto amministrativo (C.d.S., Sez. V, n. 7031/2010, cit.).
Si è poi chiarito che sussistono, in via di principio, gli estremi della rinuncia preventiva all’iniziativa giurisdizionale ove la condotta consapevole da parte dell’avente titolo all’impugnazione, libera e diretta in maniera inequivocabile ad accettare l’assetto di interessi definito dalla P.A. con il provvedimento lesivo, si verifichi dopo l’emissione del provvedimento stesso, ma prima della proposizione del gravame nei confronti del medesimo (C.d.S., Sez. IV, 27.06.2008, n. 3255) (TAR Lazio-Latina, sentenza 22.10.2012 n. 789 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di omissione della comunicazione dell'avvio del procedimento (strumento principale di partecipazione), l'adozione di provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non deve essere preceduta dal suddetto avviso, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati emessi all'esito di un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime.
La violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento non costituisce un motivo idoneo a determinare l'annullabilità dei provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi, in quanto è palese, attesa l'assenza di qualsivoglia titolo abilitativo all'edificazione, che il contenuto dispositivo del provvedimento "non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato", sicché sussiste la condizione prevista dall'art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241 del 1990 per determinare la non annullabilità del provvedimento impugnato.
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Sul presunto difetto di motivazione si osserva che l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.

In particolare l’infondatezza del ricorso poggia sulle seguenti argomentazioni:
a) sul primo motivo di ricorso -per consolidata regola giurisprudenziale, ampiamente condivisa da questo TAR- in tema di omissione della comunicazione dell'avvio del procedimento (strumento principale di partecipazione), l'adozione di provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non deve essere preceduta dal suddetto avviso, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati emessi all'esito di un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime (Cons. Stato, sez. IV, 30.03.2000, n. 1814; TAR Campania, sez. IV, 28.03.2001, n. 1404, 14.06.2002, n. 3499, 12.02.2003, n. 797).
Più recentemente è stato precisato che la violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento non costituisce un motivo idoneo a determinare l'annullabilità dei provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi, in quanto è palese, attesa l'assenza di qualsivoglia titolo abilitativo all'edificazione, che il contenuto dispositivo del provvedimento "non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato", sicché sussiste la condizione prevista dall'art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241 del 1990 per determinare la non annullabilità del provvedimento impugnato (Consiglio di Stato, sez. IV, 15.05.2009, n. 3029).
...
d) infine, sul presunto difetto di motivazione si osserva che l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (C.d.S., sez. IV, 01.10.2007, n. 5049; 10.12.2007, n. 6344; 31.08.2010, n. 3955; sez. V, 07.09.2009, n. 5229) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 19.10.2012 n. 8661 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Modifica di destinazione d'uso e ristrutturazione urbanistica.
La modifica di destinazione d’uso che determina un impatto urbanistico rilevante, anche se incidente sul medesimo sedime, configura una ipotesi di ristrutturazione urbanistica e non di semplice ristrutturazione edilizia realizzabile mediante denuncia di inizio attività.

Il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, con sentenza 19.10.2012 n. 2563, torna sull’annosa questione relativa alla possibilità per i privati di ricomprendere le opere di demolizione e ricostruzione tra le ristrutturazioni edilizie realizzabili mediante la presentazione della sola dia.
Nel caso in esame i giudici amministrativi hanno ritenuto legittimo il provvedimento con il quale l’amministrazione comunale ordinava di non effettuare le trasformazioni previste dalla dia “in quanto esso è rivolto a sostituire l’esistente tessuto urbanistico ed edilizio con altro sostanzialmente diverso, senza peraltro rispettare la previsione del P.R.G. vigente.”.
La pronuncia in commento si fonda sulla distinzione tra la nozione di ristrutturazione edilizia, prevista dall’art. 3, comma 1, lett. d), del Dpr n. 380/2001 (Testo Unico dell’Edilizia) e quella di ristrutturazione urbanistica, dettata dalla lettera f) della stessa norma.
La sentenza in esame richiama in primo luogo la giurisprudenza maggioritaria, secondo la quale: “il concetto di ristrutturazione di un edificio preesistente presuppone che non si tratti di opere implicanti radicali interventi di adattamento delle strutture interne eseguite per creare nuovi vani o volumi, in quanto l’aumento di questi ultimi determina a sua volta un maggiore carico urbanistico di cui l’amministrazione non può non tenere conto in sede di approvazione del progetto stesso (cfr. C.d.S. sez. 5^ 10.08.2000 n. 4397).”; successivamente in relazione al caso di specie, considera che: “il progetto presentato dalla società ricorrente realizza all’evidenza –il Collegio ne ha preso visione in contraddittorio anche nel corso della discussione in udienza- un intervento di ristrutturazione urbanistica dell’area, in quanto esso interviene su alcuni capannoni di proprietà della società ricorrente attraverso un insieme di opere volte a trasformare le strutture preesistenti da immobili ad uso produttivo in immobili ad uso misto, attraverso la creazione di una serie di appartamenti residenziali e relativi giardini di pertinenza nonché di un certo numero di laboratori.
Tutto ciò anche con la prevista demolizione e ricostruzione di alcuni dei fabbricati e con lo svuotamento di porzioni di immobili, onde ricavare adeguati rapporti aeroilluminanti
.”
In conclusione, deve ritenersi che la realizzazione di interventi che comportano una diversa destinazione d’uso delle strutture edilizie, determinando conseguentemente una sostanziale modifica della morfologia del lotto di riferimento non possono essere assentiti mediante lo strumento edilizio della denuncia di inizio attività (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Salvo che una norma non disponga specificamente nel senso della perentorietà, il termine di conclusione del procedimento amministrativo ha natura meramente ordinatoria od acceleratoria, con la conseguenza che il provvedimento tardivo non è di per sé illegittimo ma, a seguito dell'introduzione, nell'ambito della L. 07.08.1990 n. 241, dell'art. 2-bis per effetto della L. 18.06.2009 n. 69, vengono, a certe condizioni, correlate all'inosservanza del termine finale conseguenze significative sul piano della responsabilità civile dell'Amministrazione (c.d. danno da ritardo), ma non anche profili afferenti alla legittimità dell'atto tardivamente adottato.
A proposito della dedotta violazione del termine sancito dall’art. 17 del PRAE occorre osservare che “Salvo che una norma non disponga specificamente nel senso della perentorietà, il termine di conclusione del procedimento amministrativo ha natura meramente ordinatoria od acceleratoria, con la conseguenza che il provvedimento tardivo non è di per sé illegittimo ma, a seguito dell'introduzione, nell'ambito della L. 07.08.1990 n. 241, dell'art. 2-bis per effetto della L. 18.06.2009 n. 69, vengono, a certe condizioni, correlate all'inosservanza del termine finale conseguenze significative sul piano della responsabilità civile dell'Amministrazione (c.d. danno da ritardo), ma non anche profili afferenti alla legittimità dell'atto tardivamente adottato” (cfr. Tar Catania, Sez. III, n. 2944 del 07.12.2011) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 19.10.2012 n. 1889 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La disposizione di cui all’art. 879 c.c., nel disporre che <alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano>, intenda significare che, in presenza di una strada pubblica, non si fa tanto questione di tutelare un diritto soggettivo privato (tutelato dalla normativa codicistica sulle distanze, rinunciabile e negoziabile), ma di perseguire il preminente interesse pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico intorno alla strade ed alle piazze, ordinato sviluppo che trova la sua disciplina esclusivamente nelle leggi e regolamenti urbanistico-edilizi, tra i quali -per l’appunto- il D.M. 1444/1968.
Tanto ciò è vero che distanze inferiori sono ammesse, in deroga, “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche” (art. 9 u.c. D.M. 1444/1968), cioè soltanto se previste –a loro volta- in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario (cioè, che contempli la contestuale edificazione degli edifici antistanti) di determinate zone del territorio.
In presenza di una strada pubblica tra due fondi, non è dunque consentito derogare alla distanza minima stabilita dall’art. 9 D.M. 02.04.1968 tra pareti finestrate di edifici antistanti, neppure con il consenso del vicino frontistante, in quanto, trattandosi di tutelare un interesse pubblico, di natura urbanistica, superiore a quello individuale dei proprietari dei fondi finitimi (interesse specificamente tutelato dalle norme del codice civile sulle distanze nelle costruzioni), non trovano applicazione -ex art. 879 comma 2 c.c.- le disposizioni civilistiche (e quelle di esse integrative) sulle distanze, in quanto recessive rispetto alla speciale normativa urbanistico-edilizia (le “leggi e i regolamenti” di cui all’art. 879, comma 2 c.c.), che si applica in luogo delle stesse.
Dunque, l'art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sui limiti di distanza tra i fabbricati ricadenti in zone territoriali diverse dalla zona A, costituisce un principio assoluto ed inderogabile … che prevale –ad un tempo- sia sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze (C. Cost., 16.06.2005, n. 232), sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni, in quanto deriva da una fonte normativa statale sovraordinata, sia, infine, sull'autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che, per loro natura, non sono nella disponibilità delle parti.
Esso, inoltre, è applicabile anche quando tra le pareti finestrate (o tra una parete finestrata e una non finestrata) si interponga una via pubblica. La fattispecie è specificamente regolata dal comma 2 del medesimo art. 9, che prescrive in questo caso distacchi addirittura maggiorati in relazione alla larghezza della strada, con la precisazione che l'esclusione della viabilità a fondo cieco prevista nella stessa norma va riferita alle maggiorazioni e non alla distanza minima assoluta di 10 metri, che rimane inderogabile.
In conclusione, in presenza di pareti finestrate poste a confine con la via pubblica, non è mai ammissibile la deroga prevista dall'art. 879, comma 2 c.c., per le distanze tra edifici.

RITENUTO, altresì, che è fondato anche il quarto motivo di ricorso, nella parte in cui si deduce, che, nel caso di specie, non potrebbe trovare applicazione, in funzione derogatoria della distanza minima di 10 metri di cui al D.M. 1444/1968, l’art. 879, comma 2, cod. civ..
Il Collegio ritiene, infatti, condivisibile, anche riguardo al caso di specie, l’orientamento giurisprudenziale secondo cui “la disposizione di cui all’art. 879 c.c., nel disporre che <alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano>, intenda significare che, in presenza di una strada pubblica, non si fa tanto questione di tutelare un diritto soggettivo privato (tutelato dalla normativa codicistica sulle distanze, rinunciabile e negoziabile), ma di perseguire il preminente interesse pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico intorno alla strade ed alle piazze, ordinato sviluppo che trova la sua disciplina esclusivamente nelle leggi e regolamenti urbanistico-edilizi, tra i quali -per l’appunto- il D.M. 1444/1968.
Tanto ciò è vero che distanze inferiori sono ammesse, in deroga, “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche” (art. 9 u.c. D.M. 1444/1968), cioè soltanto se previste –a loro volta- in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario (cioè, che contempli la contestuale edificazione degli edifici antistanti) di determinate zone del territorio (Cons. di St., IV, 12.03.2007, n. 1206).
In presenza di una strada pubblica tra due fondi, non è dunque consentito derogare alla distanza minima stabilita dall’art. 9 D.M. 02.04.1968 tra pareti finestrate di edifici antistanti, neppure con il consenso del vicino frontistante, in quanto, trattandosi di tutelare un interesse pubblico, di natura urbanistica, superiore a quello individuale dei proprietari dei fondi finitimi (interesse specificamente tutelato dalle norme del codice civile sulle distanze nelle costruzioni), non trovano applicazione -ex art. 879 comma 2 c.c.- le disposizioni civilistiche (e quelle di esse integrative) sulle distanze, in quanto recessive rispetto alla speciale normativa urbanistico-edilizia (le “leggi e i regolamenti” di cui all’art. 879, comma 2 c.c.), che si applica in luogo delle stesse.
Dunque, l'art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sui limiti di distanza tra i fabbricati ricadenti in zone territoriali diverse dalla zona A, costituisce un principio assoluto ed inderogabile … che prevale –ad un tempo- sia sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze (C. Cost., 16.06.2005, n. 232), sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni (Cons. di St., IV, 02.11.2010, n. 7731), in quanto deriva da una fonte normativa statale sovraordinata, sia, infine, sull'autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che, per loro natura, non sono nella disponibilità delle parti.
Esso, inoltre, è applicabile anche quando tra le pareti finestrate (o tra una parete finestrata e una non finestrata) si interponga una via pubblica. La fattispecie è specificamente regolata dal comma 2 del medesimo art. 9, che prescrive in questo caso distacchi addirittura maggiorati in relazione alla larghezza della strada, con la precisazione che l'esclusione della viabilità a fondo cieco prevista nella stessa norma va riferita alle maggiorazioni e non alla distanza minima assoluta di 10 metri, che rimane inderogabile.
In conclusione, in presenza di pareti finestrate poste a confine con la via pubblica, non è mai ammissibile la deroga prevista dall'art. 879, comma 2 c.c., per le distanze tra edifici (così TAR Lombardia, Brescia, I, 03.07.2008, n. 788; nello stesso senso, più recentemente, Tribunale di Teramo, 10.01.2011, n. 4)
” (TAR Liguria, Genova, I, 20.07.2011, n. 1148)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 17.10.2012 n. 2049 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il soggetto che avanza la domanda di risarcimento dei danni provocati da illegittimo esercizio del potere amministrativo deve fornire in modo rigoroso la prova dell'esistenza del danno.
RITENUTO, infine, che dev’essere, invece, rigettata la domanda di risarcimento dei danni, in quanto generica e priva di supporto probatorio.
Nel rispetto del principio generale sancito dall'art. 2697 c.c. secondo cui chi agisce in giudizio deve provare i fatti costitutivi della domanda, il soggetto che avanza la domanda di risarcimento dei danni provocati da illegittimo esercizio del potere amministrativo deve fornire in modo rigoroso la prova dell'esistenza del danno (cfr. Cons. Stato., V, 13.06.2008, n. 2967; TAR Lombardia, IV, 05.07.2006, n. 1707)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 17.10.2012 n. 2049 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa conoscenza effettiva e completa della concessione edilizia rilasciata a terzi, che deve essere provata da chi eccepisce la tardività dell’impugnazione, si verifica di regola, in mancanza di diversi mezzi di inoppugnabile prova, con l’ultimazione dei lavori di costruzione dell’immobile e non solo con il loro inizio, con la conseguente necessità che le parti evidenzino elementi di prova di una conoscenza anteriore dell’opera assentita e della sua consistenza o una ultimazione dei lavori in epoca anteriore oltre sessanta giorni rispetto alla proposizione del ricorso”.
Se è quindi vero che “la conoscenza effettiva e completa della concessione edilizia rilasciata a terzi (…) si verifica di regola, in mancanza di diversi mezzi di inoppugnabile prova, con l’ultimazione dei lavori di costruzione dell’immobile e non solo con il loro inizio”, è altrettanto vero che è fatta espressamente salva la possibilità, per i controinteressati (intestatari del titolo ad aedificandum), di addurre elementi di prova (non solo di una ultimazione dei lavori, in epoca anteriore oltre sessanta giorni rispetto alla proposizione del ricorso) ma anche –com’è fatto palese dalla disgiuntiva “o”– “di una conoscenza anteriore dell’opera assentita e della sua consistenza”.
In pratica: fermo restando che, di regola, è l’ultimazione dei lavori a costituire il discrimine temporale, dal quale far decorrere il termine per impugnare, a tale regola deve derogarsi, ove coloro che hanno sollevato l’eccezione d’intempestività del gravame abbiano dimostrato, in maniera incontrovertibile, che i ricorrenti, malgrado il mancato completamento delle opere assentite, erano comunque al corrente della consistenza delle medesime.
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Il termine per l’impugnazione della concessione edilizia da parte dei terzi, che assumano di aver subito pregiudizio dalla costruzione assentita, decorre dalla piena ed effettiva conoscenza del provvedimento, intendendosi tale conoscenza come un fatto, la cui prova rigorosa incombe alla parte che eccepisce la tardività; in mancanza di inequivoci elementi probatori, occorre far riferimento alla data di ultimazione dei lavori, salvo che non emerga la prova di una conoscenza anticipata che può essere riferita anche alla data di inizio dei lavori, allorquando già da tale momento sia possibile verificare l’entità della modifica dei luoghi.
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La decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi dell’edificazione si ha, per i soggetti diversi da quelli cui l’atto è rilasciato (ovvero che in esso sono comunque indicati) dalla data in cui si renda palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto, la qual cosa si verifica quando sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica.
In materia di impugnazione del permesso di costruire, è sufficiente la cd. “vicinitas”, quale elemento che distingue la posizione giuridica del ricorrente da quella della generalità dei consociati, di talché è corretto riconoscere a chi si trovi in tale situazione un interesse tutelato a che il provvedimento dell’Amministrazione sia procedimentalmente e sostanzialmente ossequioso delle norme vigenti in materia.

Secondo il Tribunale, onde decidere sulla suddetta eccezione, occorre partire dai più recenti approdi della giurisprudenza, secondo cui: “La conoscenza effettiva e completa della concessione edilizia rilasciata a terzi, che deve essere provata da chi eccepisce la tardività dell’impugnazione, si verifica di regola, in mancanza di diversi mezzi di inoppugnabile prova, con l’ultimazione dei lavori di costruzione dell’immobile e non solo con il loro inizio, con la conseguente necessità che le parti evidenzino elementi di prova di una conoscenza anteriore dell’opera assentita e della sua consistenza o una ultimazione dei lavori in epoca anteriore oltre sessanta giorni rispetto alla proposizione del ricorso” (Consiglio di Stato – Sez. IV – 30.07.2012, n. 4287, che in motivazione richiama TAR Liguria Genova – Sez. I – 19.12.2006 , n. 1711).
Se è quindi vero che “la conoscenza effettiva e completa della concessione edilizia rilasciata a terzi (…) si verifica di regola, in mancanza di diversi mezzi di inoppugnabile prova, con l’ultimazione dei lavori di costruzione dell’immobile e non solo con il loro inizio”, è altrettanto vero che è fatta espressamente salva la possibilità, per i controinteressati (intestatari del titolo ad aedificandum), di addurre elementi di prova (non solo di una ultimazione dei lavori, in epoca anteriore oltre sessanta giorni rispetto alla proposizione del ricorso) ma anche –com’è fatto palese dalla disgiuntiva “o”– “di una conoscenza anteriore dell’opera assentita e della sua consistenza”.
In pratica: fermo restando che, di regola, è l’ultimazione dei lavori a costituire il discrimine temporale, dal quale far decorrere il termine per impugnare, a tale regola deve derogarsi, ove coloro che hanno sollevato l’eccezione d’intempestività del gravame abbiano dimostrato, in maniera incontrovertibile, che i ricorrenti, malgrado il mancato completamento delle opere assentite, erano comunque al corrente della consistenza delle medesime.
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A conforto dell’interpretazione, adottata dal Collegio, si legga anche l’ulteriore massima che segue: “Il termine per l’impugnazione della concessione edilizia da parte dei terzi, che assumano di aver subito pregiudizio dalla costruzione assentita, decorre dalla piena ed effettiva conoscenza del provvedimento, intendendosi tale conoscenza come un fatto, la cui prova rigorosa incombe alla parte che eccepisce la tardività; in mancanza di inequivoci elementi probatori, occorre far riferimento alla data di ultimazione dei lavori, salvo che non emerga la prova di una conoscenza anticipata che può essere riferita anche alla data di inizio dei lavori, allorquando già da tale momento sia possibile verificare l’entità della modifica dei luoghi” (TAR Marche – Sez. I – 26.09.2007, n. 1574); mentre sulla rilevanza, “in subiecta materia”, delle dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà, si legga, invece, Consiglio Stato – Sez. IV – 27.05.2010, n. 3378: nella specie, le risultanze della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, rilasciata da Marciano Francesco, risultano confermate da una serie di indici documentali, tutti convergenti nel senso della conoscenza delle opere assentite, anche tenuto conto della conformazione dei luoghi (strada privata ad uso pubblico, posta a servizio esclusivo di alcune residenze), quale emerge dalla documentazione fotografica in atti, la quale rende difficile sostenere che ai ricorrenti non fosse chiara, sin dall’inizio dei lavori, “l’entità della modifica dei luoghi”.
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L’eccezione è pertanto infondata: secondo il principio, autorevolmente fissato nella seconda parte della massima che segue (rilevante anche, nella sua prima parte, per quanto concerne l’ormai accertata tardività del ricorso, proposto da Bignami Margherita ed altri): “La decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi dell’edificazione si ha, per i soggetti diversi da quelli cui l’atto è rilasciato (ovvero che in esso sono comunque indicati) dalla data in cui si renda palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto, la qual cosa si verifica quando sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica. In materia di impugnazione del permesso di costruire, è sufficiente la cd. “vicinitas”, quale elemento che distingue la posizione giuridica del ricorrente da quella della generalità dei consociati, di talché è corretto riconoscere a chi si trovi in tale situazione un interesse tutelato a che il provvedimento dell’Amministrazione sia procedimentalmente e sostanzialmente ossequioso delle norme vigenti in materia” (Consiglio di Stato – Sez. IV – 05.01.2011, n. 18)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 17.10.2012 n. 1868 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini dell’osservanza delle norme in materia di distanze legali stabilite dall’art. 873 c.c. o da norme regolamentari integrative, la nozione di costruzione comprende qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità e immobilizzazione rispetto al suolo, con la conseguenza, particolarmente aderente al caso di specie, che: “Un garage totalmente interrato può essere legittimamente realizzato senza rispettare la distanza di tre metri dal confine stabilita dall’art. 873 del codice civile, in quanto tale norma fa riferimento alle sole costruzioni che, erette sopra il suolo, ne sporgano stabilmente, con esclusione quindi dei manufatti completamente interrati”.
Ai sensi dell’art. 9 l. 24.03.1989 n. 122 (come modificato dall’art. 37 l. 07.12.1999 n. 472) la realizzazione di un parcheggio pertinenziale può essere effettuata –fatti salvi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale– anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti, comprese le distanze previste dal p.r.g. o da altre fonti normative.

Al riguardo, rileva il Tribunale che, in considerazione del carattere interrato delle erigende autorimesse, rispetto al piano di calpestio, diviene applicabile il consolidato principio, di marca giurisprudenziale, secondo cui: “Ai fini dell’osservanza delle norme in materia di distanze legali stabilite dall’art. 873 c.c. o da norme regolamentari integrative, la nozione di costruzione comprende qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità e immobilizzazione rispetto al suolo” (Cassazione civile – Sez. II – 18.02.2011, n. 4008), con la conseguenza, particolarmente aderente al caso di specie, che: “Un garage totalmente interrato può essere legittimamente realizzato senza rispettare la distanza di tre metri dal confine stabilita dall’art. 873 del codice civile, in quanto tale norma fa riferimento alle sole costruzioni che, erette sopra il suolo, ne sporgano stabilmente, con esclusione quindi dei manufatti completamente interrati” (TAR Abruzzo Pescara – Sez. I – 05.03.2009, n. 134).
Si consideri, per di più, che, sempre secondo la giurisprudenza: “Ai sensi dell’art. 9 l. 24.03.1989 n. 122 (come modificato dall’art. 37 l. 07.12.1999 n. 472) la realizzazione di un parcheggio pertinenziale può essere effettuata –fatti salvi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale– anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti, comprese le distanze previste dal p.r.g. o da altre fonti normative” (TAR Puglia Lecce – Sez. III, 21.11.2007, n. 3932) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 17.10.2012 n. 1868 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa “concessione edilizia” è priva dei caratteri tipici del provvedimento di concessione amministrativa e consistenti nella discrezionalità, revocabilità, incommerciabilità, nell’intuitus personae”.
Sicché, la concessione edilizia ha carattere reale, ed al relativo rilascio resta estraneo l’intuitus personae. Ne consegue che la successione nel diritto reale, pur non comportando l’automatico trasferimento della concessione stessa in capo al subentrante, tuttavia rende la voltura atto dovuto.

È, infatti, costante in giurisprudenza l’affermazione, secondo la quale: “La “concessione edilizia” è priva dei caratteri tipici del provvedimento di concessione amministrativa e consistenti nella discrezionalità, revocabilità, incommerciabilità, nell’intuitus personae” (Cassazione penale – Sez. Un. – 20.11.1996 – n. 673); sicché: “La concessione edilizia ha carattere reale, ed al relativo rilascio resta estraneo l’intuitus personae. Ne consegue che la successione nel diritto reale, pur non comportando l’automatico trasferimento della concessione stessa in capo al subentrante, tuttavia rende la voltura atto dovuto” (Consiglio Stato – Sez. V, 19.09.1991, n. 1168)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 17.10.2012 n. 1868 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio conosce l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale: “In materia di esecuzione di lavori edilizi nelle zone sottoposte a vincolo paesistico, la cessazione di validità del nulla–osta ambientale si verifica automaticamente per il solo fatto obiettivo del decorso del termine quinquennale previsto ex art. 16 r.d. 03.06.1940 n. 1357, senza che possano rilevare fatti impeditivi ancorché di carattere assoluto, quali il “factum principis” o la causa di forza maggiore, ivi compreso il sequestro del cantiere”.
Tuttavia il Collegio ritiene che il principio, ivi espresso, debba di necessità trovare un equo contemperamento proprio nei casi in cui, come nella specie, sia stato proprio il comportamento del Comune –vale a dire proprio dell’ente, che ha poi contestato la decadenza del nulla-osta, per decorso del termine quinquennale– a porsi come ostacolo al completamento dell’opera, nel termini di validità della stessa autorizzazione paesaggistica.
Ragionare diversamente significherebbe addossare al privato, in violazione dei principi dell’affidamento, della correttezza procedimentale e della buona fede, le conseguenze dell’agire dell’Amministrazione, concretizzatosi, nella specie, in plurime sospensioni dei lavori, disposte talora anche –e in maniera illegittima– senza la fissazione di un termine finale; e ciò, nonostante che il Tribunale avesse esplicitamente avvertito, già dopo la prima sospensione, che la stessa non poteva essere ulteriormente reiterata; nonché concretizzatosi nell’aver tenuto in piedi, oltre ogni ragionevole limite temporale, il procedimento di riesame del titolo edilizio, rilasciato nel 2008 alle ricorrenti.

In accoglimento della corrispondente ulteriore censura del settimo atto di motivi aggiunti, in particolare, il Tribunale osserva come sia stato proprio il Comune, attraverso una serie di provvedimenti di sospensione dei lavori, che si sono posti in contrasto con il piano dettato delle ordinanze cautelari, pronunziate dal Collegio, oltre attraverso il provvedimento di “sospensione d’ufficio” del permesso di costruire (ritenuto dal Tribunale illegittimo, in accoglimento dei quarti motivi aggiunti), ad ostacolare l’esecuzione dei lavori, con la conseguenza che, decorso il termine quinquennale di validità della prima autorizzazione paesaggistica (quella riferita al primo progetto), sarebbe stato in ogni caso iniquo, nonché in contrasto con i principi dell’affidamento e della lealtà nella conduzione del procedimento, farne subire le conseguenze alle ricorrenti, impossibilitate a concludere i lavori, nei termini fissati dalla suddetta (prima) autorizzazione paesaggistica, proprio a causa degli innumerevoli fermi del cantiere, disposti dal Comune ma stigmatizzati, in sede cautelare, dal Tribunale.
Il Collegio conosce, ovviamente, l’indirizzo giurisprudenziale, citato dalle controparti, e fatto proprio anche dalla Seconda Sezione di questo Tribunale, secondo il quale: “In materia di esecuzione di lavori edilizi nelle zone sottoposte a vincolo paesistico, la cessazione di validità del nulla–osta ambientale si verifica automaticamente per il solo fatto obiettivo del decorso del termine quinquennale previsto ex art. 16 r.d. 03.06.1940 n. 1357, senza che possano rilevare fatti impeditivi ancorché di carattere assoluto, quali il “factum principis” o la causa di forza maggiore, ivi compreso il sequestro del cantiere” (TAR Campania Salerno – Sez. II – 25.03.2010, n. 2351).
Tuttavia il Collegio ritiene che il principio, ivi espresso, debba di necessità trovare un equo contemperamento proprio nei casi in cui, come nella specie, sia stato proprio il comportamento del Comune –vale a dire proprio dell’ente, che ha poi contestato la decadenza del nulla-osta, per decorso del termine quinquennale– a porsi come ostacolo al completamento dell’opera, nel termini di validità della stessa autorizzazione paesaggistica; ragionare diversamente significherebbe addossare al privato, in violazione dei principi dell’affidamento, della correttezza procedimentale e della buona fede, le conseguenze dell’agire dell’Amministrazione, concretizzatosi, nella specie, in plurime sospensioni dei lavori, disposte talora anche –e in maniera illegittima– senza la fissazione di un termine finale; e ciò, nonostante che il Tribunale avesse esplicitamente avvertito, già dopo la prima sospensione, che la stessa non poteva essere ulteriormente reiterata (cfr. l’ordinanza cautelare, n. 1040 del 26.11.2009); nonché concretizzatosi nell’aver tenuto in piedi, oltre ogni ragionevole limite temporale, il procedimento di riesame del titolo edilizio, rilasciato nel 2008 alle ricorrenti (cfr. l’ordinanza cautelare n. 710 dell’08.07.2010, ove si censurava la dilatazione, “usque ad infinitum”, di un procedimento di secondo grado, avente ad oggetto un titolo edilizio già rilasciato, in contrasto con il principio di certezza delle situazioni giuridiche, oltre che con i dettami cautelari della Sezione)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 17.10.2012 n. 1868 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAi fini dell’ammissibilità della domanda di risarcimento del danno a carico della p.a., non è sufficiente il solo annullamento giurisdizionale del provvedimento lesivo, ma è anche necessario che sia configurabile la sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo ovvero della colpa, con conseguente previa verifica della circostanza se l’adozione e l’esecuzione dell’atto impugnato sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede, alle quali l’esercizio della funzione deve costantemente ispirarsi; segue da ciò che, in sede di accertamento della responsabilità della p.a. per danni a privati conseguenti ad un atto illegittimo da essa adottato, il giudice amministrativo può affermare la responsabilità solo quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tali da palesare la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato, negandola, invece, quando l’indagine conduce al riconoscimento dell’onere (rectius: errore) scusabile per la sussistenza di contrasti giurisprudenziali, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto.
Tale essendo la domanda azionata dalle ricorrenti, il Tribunale ritiene che la stessa vada esaminata alla luce dell’indirizzo giurisprudenziale, espresso nella massima che segue: “Ai fini dell’ammissibilità della domanda di risarcimento del danno a carico della p.a., non è sufficiente il solo annullamento giurisdizionale del provvedimento lesivo, ma è anche necessario che sia configurabile la sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo ovvero della colpa, con conseguente previa verifica della circostanza se l’adozione e l’esecuzione dell’atto impugnato sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede, alle quali l’esercizio della funzione deve costantemente ispirarsi; segue da ciò che, in sede di accertamento della responsabilità della p.a. per danni a privati conseguenti ad un atto illegittimo da essa adottato, il giudice amministrativo può affermare la responsabilità solo quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tali da palesare la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato, negandola, invece, quando l’indagine conduce al riconoscimento dell’onere (rectius: errore) scusabile per la sussistenza di contrasti giurisprudenziali, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto” (TAR Basilicata – Sez. I – 11.05.2011, n. 300)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 17.10.2012 n. 1868 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: PA arricchita senza giusta causa: a volte non deve neanche l'indennizzo.
L'impresa aggiudicataria di una gara pubblica, cui non abbia fatto seguito la stipulazione del contratto per iscritto, ha diritto all'indennizzo di cui all'articolo 2041 del codice civile solo e soltanto nella misura in cui abbia efficacemente documentato le spese sostenute per il servizio reso all'amministrazione o, in mancanza, provando la notevole difficoltà di tale incombente.

Lo ha stabilito la I Sez. civile del TRIBUNALE di Messina, con la sentenza 28.09.2012.
Nel caso di specie un imprenditore ha partecipato ad una gara indetta dal Comune per l'affidamento del servizio di manutenzione ordinaria e straordinaria dell'arredo urbano.
Risultato aggiudicatario, l'imprenditore, pur non in assenza di contratto, ha iniziato ad eseguire i lavori (così come previsti dal bando) su esplicita indicazione dell'amministrazione che, nel mentre, si stava attivando per la formalizzazione del contratto. Quest'ultimo, tuttavia, non è mai stato stipulato, anche se i lavori sono stati portanti a compimento. Quando l'imprenditore ha chiesto di essere ricompensato per l'opera svolta, l'amministrazione ha negato il suo diritto di credito proprio perché eseguito in assenza di accordo scritto.
Per tale ragione l'imprenditore si è visto costretto ad adire il Tribunale ordinario per vedersi indennizzato dei (“sommariamente” quantificati) costi sostenuti per l'opera svolta in favore dell'amministrazione in applicazione dell'articolo 2041 del codice civile o, in subordine, per ottenere la declaratoria di condanna al risarcimento del danno derivante da responsabilità precontrattuale dell'amministrazione o, in ulteriore subordine, per ottenere quantomeno la condanna alla stipulazione coatta del contratto e di conseguenza il versamento del corrispettivo.
Il Tribunale messinese, nonostante abbia riconosciuto i presupposti per l'esperibilità dell'azione di ingiustificato arricchimento -aderendo all'orientamento di legittimità in virtù del quale detta azione, di natura sussidiaria, deve trovare accoglimento anche alla luce della mera utilizzazione di un'opera o di una prestazione, da parte di un ente pubblico, posto il riconoscimento implicito dell'utilità della stessa ne deriva– ha ritenuto di non accordare l'indennizzo richiesto dall'imprenditore.
Il Tribunale ha osservato come in ordine all’ammontare dell'indennizzo in presenza di un contratto nullo di ente locale per difetto di forma scritta, il privato abbia diritto all'indennizzo previsto dall'articolo 2041 del codice civile quantificabile nella minor somma tra l'arricchimento dell'ente e la sua diminuzione patrimoniale.
Sul punto, sussiste tuttavia la necessità di fornire al giudicante tutti gli elementi utili ai fini della quantificazione delle spese sostenute.
E' vero, infatti, che si potrebbe procedere tramite una liquidazione in via equitativa dell’indennizzo ai sensi del disposto dell'articolo 2041 del codice. Ma è altrettanto vero, ha precisato il Tribunale richiamando un pronunciamento della Corte di legittimità (Cass., sent. n. 3102/2000), che ciò è possibile fin tanto che nel corso del giudizio, vi sia stata un’attività processuale della parte finalizzata a fornire la prova o, al contrario, la parte sia stata nell’impossibilità di fornire sicuri elementi per determinare detto ammontare.
In linea con date premesse, si è concluso negando che l'imprenditore avesse adempiuto diligentemente il proprio onere probatorio, essendosi limitato ad indicare una cifra senza una idonea documentazione a conforto della richiesta. Una mancanza ritenuta inescusabile per il Tribunale, secondo non vi sarebbero state notevoli difficoltà a documentare le somme spese per i lavoratori impiegati o per l’acquisto dei materiali utilizzati nell'esecuzione dei lavori cui necessitava l'amministrazione.
La sentenza merita attenzione per la severità del giudizio, pure obbiettivo, adottato dal Tribunale di Messina. All'esclusione dell'indennizzo, ad onta del pure avvenuto riconoscimento dei presupposti della domanda che sorreggeva il diritto a richiederlo, ha fatto seguito anche la negazione delle ulteriori domande avanzate dal ricorrente, quella tesa a far valere la responsabilità precontrattuale dell'amministrazione e quella volta ad ottenere la stipula del contratto e, di riflesso, il titolo per il riconoscimento del diritto di credito. Le ulteriori domande, infatti, sono state parimenti rigettate, la prima, alla luce del ritenuto “concorso colposo” dell'imprenditore dato dalla sua negligenza nel fornire all'amministrazione i documenti necessari per la redazione del contratto, la seconda perché la domanda doveva esperirsi in via principale, e non subordinatamente a quella, sussidiaria, di ingiustificato arricchimento (commento tratto da www.ipsoa.it).

CONDOMINIO: L'ascensore e' indispensabile per la reale abitabilità dell'appartamento.
La II Sez. civile della Corte di Cassazione, con sentenza 03.08.2012 n. 14096, ha evidenziato come l'installazione di un ascensore, al fine dell’eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino su parte di un cortile e di un muro comuni, debba considerarsi indispensabile ai fini dell’accessibilità dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell'art. 1102 c.c.
Ove siano, pertanto, rispettati i limiti di uso delle cose comuni stabiliti da tale ultima norma, non rileva, allora, la disciplina dettata dall'art. 907 c.c. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, neppure per effetto del richiamo a essa operato nell’art. 3, comma 2, legge 09.01.1989, n. 13, non trovando quest’ultima disposizione applicazione in ambito condominiale.
DISTANZE E CONDOMINIO

Già più volte, in passato, la giurisprudenza aveva affermato che le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, purché siano però compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, ovvero quando l'applicazione di quest'ultima non sia in contrasto con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina, allora, l'inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, deve ritenersi in rapporto di subordinazione rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c. (secondo cui ciascun partecipante alla comunione può servirsi della cosa comune, sempre che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso), deve ritenersi legittima l'opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell'edificio condominiale (Cass. 18.03.2010, n. 6546; Cass. 23.02. 2012, n. 2741).
Nella specie, si trattava di utilizzare un cortile per realizzare un impianto di ascensore. È altrettanto noto, in proposito, come i cortili comuni, assolvendo alla precipua finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti, sono utilmente fruibili a tale scopo dai condomini stessi, cui spetta la facoltà di farne uso ai fini di maggiore comodità, amenità o accessibilità delle porzioni solitarie, senza incontrare, quindi, le limitazioni prescritte, in materia di luci e vedute, a tutela dei proprietari degli immobili di proprietà esclusiva. In proposito, l'indagine del giudice deve essere indirizzata a verificare esclusivamente se l'uso del cortile comune sia avvenuto nel rispetto dei limiti stabiliti dal citato art. 1102, e, quindi, se non ne sia stata alterata la destinazione e sia stato consentito agli altri condomini di farne parimenti uso secondo i loro diritti: una volta accertato che l'uso del bene comune sia risultato conforme a tali parametri dovrà, perciò, comunque escludersi che si sia potuta configurare un'innovazione vietata (Cass. 09.06.2010, n. 13874).
Di per sé, l'installazione dell'ascensore, rientrando fra le opere dirette a eliminare le barriere architettoniche di cui all'art. 27, comma 1, legge n. 118/1971 e all'art. 1, comma 1, D.P.R. n. 384/1978, costituisce innovazione che, ai sensi dell'art. 2, legge n. 13/1989, è approvata dall'assemblea con la maggioranza prescritta rispettivamente dall'art. 1136, comma 2 e 3 c.c., dovendo, però, essere rispettati (in forza del comma 3 del citato art. 2) i limiti previsti dagli artt. 1120 e 1121 c.c. Non può, quindi, essere consentita quell'installazione che renda talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino (Cass. 27.12.2011, n. 28920; Cass. 25.06.1994, n. 6109).
Merito di Cass. n. 14096/2012, è, tuttavia, quella di aver qualificato l’impianto di ascensore come indispensabile ai fini di una reale abitabilità dell'appartamento, intesa questa nel senso di una condizione abitativa che rispetti l'evoluzione delle esigenze generali dei cittadini e lo sviluppo delle moderne concezioni in tema di igiene, salvo l'apprestamento di accorgimenti idonei ad evitare danni alle unità immobiliari altrui: questa indispensabilità vale, infatti, ad esonerare l’ascensore condominiale dall'osservanza delle norme del codice civile in tema di distanze (cfr. Cass. 15.07.1995, n. 7752) (tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Scorrimento graduatoria di concorso e procedura di mobilità volontaria.
Il TAR Puglia-Lecce, Sez. II, con la sentenza 31.07.2012 n. 1419, risolve una controversia avente ad oggetto una procedura concorsuale, la validità della conseguente graduatoria e la decisione dell'amministrazione di indire successivamente una procedura selettiva per mobilità volontaria.
In disparte gli aspetti peculiari del contenzioso, il Giudice, in relazione ai contenuti dell'art. 30 del d.lgs. 165/2001, argomenta:
- "Le disposizioni ... citate evidenziano il chiaro intento del legislatore di accordare all'istituto della mobilità priorità assoluta rispetto all'assunzione di nuovo personale pubblico (anche se alla nuova assunzione si proceda mediante lo scorrimento di graduatorie ancora efficaci), nell'evidente scopo di ottenere un più efficace e razionale utilizzo delle risorse umane esistenti e, quindi, il contenimento della spesa pubblica relativa al personale di tutte le pubbliche Amministrazioni (TAR Puglia-Bari, sez. II, 28.07.2008 n. 1307; sulla preferenza da accordare alla mobilità rispetto allo scorrimento di graduatorie ancora efficaci si è pronunciata anche questa Sezione, cfr. sent. n. 12 del 05.01.2008 e n. 2406 del 29.09.2008)";
- "Secondo una parte della giurisprudenza amministrativa (TAR Lombardia-Milano, n. 2250/2011, ...), la preferenza normativa accordata all'istituto della mobilità comporta l'inesistenza di un obbligo di motivazione in capo alla P.A. in merito alla scelta di immettere in ruolo dipendenti provenienti da altre Amministrazioni piuttosto che procedere al reclutamento di nuovo personale, anche mediante scorrimento di una graduatoria ancora valida, con la conseguenza che, in tal caso, sono inapplicabili i principi enunciati dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella pronuncia n. 14 del 28.07.2011" (commento tratto da www.publika.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 06.11.2012

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SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Preoccupazione per il nuovo decreto-legge di riordino delle province a statuto ordinario (CGIL-FP di Bergamo, nota 04.11.2012).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 06.11.2012, "Individuazione dei periodi di divieto di spandimento degli effluenti di allevamento e dei fertilizzanti azotati di cui al d.m. 07.04.2006 per la stagione autunno inverno 2012/2013" (decreto D.G. 31.10.2012 n. 9761).

CORTE DEI CONTI

PUBBLICO IMPIEGO: Progressioni orizzontali senza effetti economici. Lo hanno sancito le sezioni unite della Corte conti.
Per il pubblico impiego, anche le progressioni economiche orizzontali, vale a dire i passaggi economici all'interno delle categorie di appartenenza, soggiacciono alle disposizioni contenute all'articolo 9, comma 21 della manovra del 2010 (il dl n. 78/2010). Questo significa che per tali progressioni, i miglioramenti eventualmente conseguiti dai dipendenti non possono che essere riconosciuti ai soli fini giuridici, dovendosi escludere qualsiasi effetto economico.
È quanto hanno messo nero su bianco le sezioni riunite della Corte dei conti, nel testo della deliberazione 24.10.2012 n. 27 diffusa nei giorni scorsi, in merito alla portata applicativa delle disposizioni contenute al citato articolo 9 del dl n. 78/2010.
Come noto, nell'ottica di un perseguimento di obiettivi di contenimento della spesa pubblica mediante la razionalizzazione e la riduzione della spesa del personale della p.a., la norma richiamata dispone che le progressioni di carriera «comunque denominate» eventualmente disposte nel 2011, 2012 e 2013, avranno effetto ai soli fini giuridici.
Ora, la questione sottoposta al collegio della magistratura contabile è quella di considerare o meno le progressioni economiche orizzontali ex art. 23 del dlgs n. 150/2009 (la riforma cosiddetta Brunetta del pubblico impiego) nella più generale locuzione «progressioni di carriera comunque denominate» utilizzata dal legislatore.
Le sezioni riunite non hanno avuto dubbi in merito, non discostandosi da quanto affermato da altre articolazioni regionali della stessa magistratura contabile. La querelle deve essere vista sotto l'ottica della ratio delle disposizioni sopra richiamate, ovvero quella di contenere le spese di personale. Un obiettivo, si ammette, cui devono concorrere tutti, anche gli enti locali, siano essi sottoposti o meno al Patto di stabilità interno.
La norma ex art. 9, comma 21, del dl n. 78/2010 risponde alla logica di contenere la dinamica retributiva del pubblico impiego per il triennio 2011-2013, dettando una disciplina che, dice la Corte, non ammette deroghe, anche per l'eccezionalità della crisi finanziaria che avvolge l'intero ciclo economico.
In conclusione, le disposizioni richiamate si intendono valide anche per le progressioni orizzontali (o passaggi economici tra le aree), dovendosi rilevare, anche nell'ottica di una generale cristallizzazione stipendiale ai valori del 2010, che ogni variazione di inquadramento del dipendente potrà produrre effetti solo sul suo status giuridico, ma non sul suo trattamento economico (articolo ItaliaOggi del 02.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONEQuesito in ordine alla corretta applicazione dell’articolo 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, in particolare sulla possibilità di riconoscere l’incentivo ivi previsto non solo a chi ha redatto l’atto di pianificazione ma anche ai componenti dell’Ufficio di Piano con compiti di supporto ed altresì nell’ipotesi di redazione dell’atto a cura di professionisti esterni.
...
Il sindaco del comune di Seregno, con nota n. 51042 del 17.09.2012, chiedeva all’adita Sezione l’espressione di un parere in ordine alla corretta applicazione dell’articolo 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, in particolare sulla possibilità di riconoscere l’incentivo ivi previsto non solo a chi ha redatto l’atto di pianificazione ma anche ai componenti dell’Ufficio di Piano con compiti di supporto ed altresì nell’ipotesi di redazione dell’atto a cura di professionisti esterni.
Rappresentava, il Sindaco del comune, che, a seguito di un orientamento favorevole all’estensione assunto dalla Sezione Regionale Veneto (parere 26.07.2011 n. 337), la Giunta Comunale con delibera n. 213/2011 aveva modificato il Regolamento sull’ordinamento di uffici e servizi prevedendo l’estensione dei beneficiari dell’incentivo nei termini sopra esposti
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La questione in esame concerne la possibilità o meno di riconoscere il beneficio di cui all’articolo 92, comma 6, anche in caso di redazione dell’atto di pianificazione a cura di progettista esterno nonché la possibilità di riconoscere il medesimo incentivo anche al personale dell’Ufficio di Piano avente compiti di mera partecipazione a supporto.
Sulla corretta interpretazione dell’articolo 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006 la Sezione si è già espressa con numerose pronunce, le ultime delle quali (parere 06.03.2012 n. 57 e parere 30.05.2012 n. 259) sono qui da richiamare e confermare per l’esauriente impianto motivo da cui non vi è motivo alcuno per discostarsi.
In estrema sintesi, rimandando alla lettura dei pareri citati per l’analitica ricostruzione dei vari passaggi,
la norma trova la sua giustificazione in due fondamentali principi: quello dell’autosufficienza delle risorse (e dunque dell’incentivazione all’autoproduzione) e quello dell’onnicomprensività della retribuzione, determinata dalla legge e dai contratti collettivi, cui solo la stessa legge può eccepire.
Dai principi sopra richiamati deriva chiaramente che “
si deve escludere che un ente locale, con un proprio regolamento, possa fissare unilateralmente specifici compensi, al di fuori di previsione di legge che a ciò espressamente l’autorizzino, ovvero al di fuori della disciplina fissata dalla contrattazione collettiva nazionale e, nei limiti di questa, decentrata” (Lombardia, parere 30.05.2012 n. 259).
L’articolo 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006 costituisce, quindi, una delle eccezioni al principio di onnicomprensività della retribuzione introdotte dal legislatore: proprio in quanto norma eccezionale essa non solo è insuscettibile di estensione analogica ma va anche interpretata in modo rigoroso.
Tanto è vero che il rinvio ai regolamenti, contenuto nella stessa norma, è limitato all’individuazione di “criteri e modalità” di riparto e non, invece, all’an dell’attribuzione.
Le condivisibili conclusioni di questa stessa Sezione (parere n. 259 sopra citato) sono pertanto che “
l’art. 92, comma 6, non potrebbe costituire titolo per l’erogazione di speciali compensi ai dipendenti che svolgono attività sussidiarie, strumentali o di supporto alla redazione di atti di pianificazione affidata a professionisti esterni. Tale disposizione, infatti, abilita (nella misura autoritativamente fissata dalla legge) a riconoscere uno speciale compenso, al di là del trattamento economico ordinariamente spettante, solo in presenza dei due seguenti elementi di fattispecie:
a) sul piano dell’oggetto, che la prestazione consista nella diretta “redazione di un atto di pianificazione”, non in attività variamente sussidiarie che rientrano nei doveri d’ufficio dei dipendenti, nel contesto dell’attività di governo del territorio (cfr. il
parere 27.01.2009 n. 9 di questa Sezione);
b) implicitamente, che la redazione dello stesso non sia stata esternalizzata ad un professionista esterno ai sensi dell’art. 90, comma 6
”.
Con riferimento a quest’ultimo requisito, infine, va ricordato al Sindaco di Seregno ciò che è già palese dalla norma:
la disciplina incentivante (art. 92, comma 6) risulta giustificata se e nei limiti in cui l’incarico interno esoneri l’ente dal dispendio di risorse derivante dal ricorso ad appalto per il conseguimento della medesima professionalità (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 23.10.2012 n. 440).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCorte dei conti. Fondi decentrati. Doppio vincolo per le risorse ai contratti locali.
PROGRAMMAZIONE/ L'inserimento di risorse variabili è possibile se l'ente rispetta i vincoli del Patto dell'anno precedente e dell'esercizio in corso.

Per inserire qualunque tipo di risorse variabili nel fondo, i vincoli di finanza pubblica vanno rispettati non solo nell'anno precedente ma anche in quello in corso.
A questa conclusione è giunta la Sezione di controllo della Corte dei conti della Lombardia con il parere 04.10.2012 n. 422.
Un Comune, richiamando l'articolo 40, comma 3-quinquies Dlgs 165/2001, nella parte in cui dispone che «gli enti locali possono destinare risorse aggiuntive alla contrattazione integrativa nei limiti stabiliti dalla contrattazione nazionale (...) nel rispetto dei vincoli di bilancio e del Patto di stabilità», ha chiesto se i vincoli da rispettare siano quelli dell'anno precedente o sia necessario assicurarne il rispetto anche in fase di previsione e stanziamento del l'esercizio in corso.
Il Comune nell'anno precedente ha rispettato il Patto e gli altri vincoli di finanza pubblica. Nell'esercizio in corso risulta in linea con l'articolo 9, commi 1 e 2-bis, del Dl 78/2010, ma non è in grado di conseguire l'obiettivo di progressiva riduzione della spesa di personale (articolo 1, comma 557, della legge 296/2006), a causa dell'inserimento di risorse variabili nel fondo per la contrattazione integrativa.
Con una motivazione tanto sintetica quanto efficace, i giudici lombardi hanno ribadito che in fase di deliberazione ed erogazione delle risorse aggiuntive, sono tenuti a rispettare anche in sede previsionale gli obiettivi del Patto e le norme di contenimento della spesa di personale.
I vincoli, infatti, sono dettati a tutela dell'unità economica della Repubblica e per il concorso delle autonomie alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica e costituiscono principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica ex articoli 117, comma 3 e 119, comma 2 della Costituzione. La loro funzione principale è assicurare ex ante il conseguimento di obiettivi fondamentali all'unità economico-giuridica della Repubblica.
Si precisa che, in caso di superamento dei vincoli finanziari posti alla contrattazione integrativa, la legge obbliga al recupero nella sessione negoziale successiva e che, nei casi di violazione dei limiti di legge, le clausole contrattuali decentrate sono nulle, non possono essere applicate e sono sostituite ex articoli 1339 e 1419, comma 2 del Codice civile. Lo sforamento dei limiti di spesa e la violazione del Patto, in questo contesto, rappresentano un impedimento insuperabile all'inserimento nel fondo di risorse integrative, anche se tempestivamente deliberate ed impegnate.
Gli enti locali, di conseguenza, nella deliberazione ed erogazione di risorse aggiuntive debbono rispettare gli obiettivi del patto e le norme di contenimento della spesa di personale, fra cui l'articolo 1, comma 557, anche con riferimento all'esercizio finanziario venturo o in corso, attraverso lo strumento del bilancio di previsione ed i relativi assestamenti (articolo Il Sole 24 Ore del 05.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: I comuni possono riapprovare i preventivi. Se costretti dalle numerose proroghe come quest'anno.
Nessuna norma impedisce agli enti locali di poter riapprovare il proprio bilancio di previsione, alla luce delle numerose proroghe intervenute con decreti ministeriali e soprattutto se le amministrazioni locali necessitano di un «nuovo» documento programmatorio per introdurre o rimodulare tariffe e imposte di propria pertinenza. L'unico limite è quindi costituito dal termine entro cui i consigli devono dare il proprio benestare al bilancio, che deve intervenire entro la data stabilita dal decreto ministeriale di differimento.
Così la sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la regione Lombardia, nel testo del parere 03.10.2012 n. 431, con il quale ha fatto chiarezza sulla portata delle disposizioni contenute all'articolo 151 del Tuel, alla luce delle numerose proroghe che, in questi anni, hanno portato allo slittamento del termine ultimo previsto per l'adozione (quest'anno il termine scade al 31 ottobre).
Rispondendo in merito a un'istanza formulata dal comune di Rovato (Bs) per sapere se fosse possibile adottare un nuovo bilancio di previsione per introdurre l'addizionale comunale all'Irpef, la Corte ha risposto che la prassi oramai consueta di questi ultimi anni, ovvero quella di prorogare il termine ultimo di approvazione del bilancio di previsione ha raggiunto i livelli di una «consueta anomalia». Prassi che tuttavia non può costituire un elemento discriminatorio per quegli enti che, nei termini imposti dalla legge, hanno approvato tale documento programmatorio. Soprattutto, se questi ritengono di dover «mettere mano» alla rimodulazione di tariffe o imposte.
Ne consegue che anche gli enti che hanno già approvato il bilancio di previsione possono (sempre entro il 31 ottobre prossimo) provvedere all'approvazione di un nuovo documento e, a tal fine, rimodulare preliminarmente le aliquote che ritengono opportune.
Infatti, il Tuel non contiene alcuna norma che contempli espressamente la possibilità di riapprovazione. Tuttavia, in assenza di un esplicito divieto, la Corte ha ritenuto che l'ente, con l'approvazione, non esaurisca il potere di deliberare in merito, dovendo solo osservare l'unico limite costituito dal termine ultimo imposto dal decreto ministeriale di differimento e che la riadozione sia giustificata da provate ragioni di fatto o di diritto. A detta della Corte, in tali casi non è sufficiente ricorrere a una semplice variazione di bilancio (articolo ItaliaOggi del 02.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: Bonus fiscali e lavori in casa. Ultimi otto mesi per centrare lo sconto del 50%. La detrazione extra sulle ristrutturazioni vale per le spese fino al 30.06.2013 (articolo Il Sole 24 Ore del 05.11.2012).

APPALTI: Oggetto, soggetti coinvolti, limite temporale: tutto quello che c'è da sapere sulla responsabilità solidale negli appalti.
La responsabilità solidale negli appalti attribuisce al creditore la facoltà di chiedere l’adempimento della prestazione ad uno qualunque dei debitori il cui adempimento libera definitivamente gli altri, obbligati per una stessa prestazione; a sua volta il soggetto che ha pagato l’intero debito può rivalersi verso gli altri, esigendo da ciascuno solo la parte per cui è obbligato.
Negli appalti di opere e servizi, appaltatore e subappaltatore sono obbligati a corrispondere ai lavoratori le retribuzioni, i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto.
In seguito ai recenti sviluppi normativi, l’Ance ha pubblicato un vademecum sulla responsabilità solidale negli appalti, fornendo una sintesi in materia di responsabilità solidale.
Obiettivo del vademecum è spiegare il funzionamento della responsabilità solidale negli appalti e cosa è cambiato nel versamento delle ritenute fiscali e dell’Iva dopo l’entrata in vigore delle misure introdotte dal Decreto Crescita 83/2012.
Il Vademecum dell’Ance, dopo aver fornito le definizioni e le fonti normative ed amministrative necessarie, fornisce indicazioni su:
● novità normative
● soggetti coinvolti
● oggetto della responsabilità solidale
● limite temporale
● DURC
● interventi sostitutivi della stazione appaltante ai sensi degli articoli 4 e 5 del D.P.R. n. 207/2010 (02.11.2012 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATAQuando e come è possibile perdere la detrazione fiscale del 50%?
Dall'01.01.2012 la detrazione delle spese sostenute per gli interventi di ristrutturazione edilizia si è stabilizzata: per il periodo che va dal 26.06.2012 al 30.06.2013 il bonus è pari al 50% dopodiché tornerà al 36%.
La possibilità di detrarre dalla dichiarazione dei redditi le spese sostenute è concreta qualora vengono soddisfatte le procedure e gli adempimenti burocratici previsti.
Sono, viceversa, previste situazioni in cui l’agevolazione fiscale non è applicabile; non solo, ma anche casi in cui la detrazione eventualmente richiesta, potrebbe essere revocata.
La redazione di BibLus-net propone un documento in cui sono riassunte le casistiche per cui potrebbe essere perso il diritto allo sconto fiscale sull’IRPEF.
Ricordiamo ai lettori di BibLus-net la possibilità di accedere al portale web dedicato alle detrazioni fiscali, detrazione50.net, che contiene tutto quello che c’è da sapere sulle detrazioni, incluso un forum di discussione, in cui scambiarsi idee, informazioni e porre quesiti (02.11.2012 - link a www.acca.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: D.M. 161/2012 GESTIONE TERRE E ROCCE (30.10.2012 - ANCE).
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L'Ance, nella nota allegata, compie una prima disamina della problematica nell'ottica di fornire indicazioni di natura operativa, sulle modalità per il riutilizzo di tali materiali come sottoprodotti.

ENTI LOCALI: AMMINISTRAZIONE DIGITALE E GESTIONE ASSOCIATA NEI PICCOLI COMUNI - Strumento di autovalutazione.
Le norme che regolano l'obbligatorietà dell'esercizio associato per i Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti, impongono una rapida riconsiderazione degli assetti istituzionali e dei processi organizzativi.
Il D.L. 31.05.2010 n. 78, come recentemente modificato dal D.L. 06.07.2012 n. 95, richiede la gestione associata di:
• tutte le attività connesse all'utilizzo delle “tecnologie dell'informazione e della comunicazione”, quali la realizzazione e la gestione di infrastrutture tecnologiche, rete dati, fonia, apparati, di banche dati, di applicativi software, l'approvvigionamento di licenze per il software, la formazione informatica e la consulenza nel settore dell'informatica;
• almeno tre funzioni fondamentali, entro il 01.01.2013;
• tutte le funzioni fondamentali entro il 01.01.2014.
Consapevoli della complessità di tali riforme, Ancitel ha attivato un applicativo di autodiagnosi, totalmente gratuito, mediante il quale il Comune potrà verificare, con tempi e modalità estremamente semplificati, il livello di “compliance normativa” sui temi dell'amministrazione digitale e della cooperazione intercomunale.
Lo strumento prevede la compilazione elettronica di un questionario e la restituzione, in tempo reale, a conclusione della citata compilazione, di un documento che sintetizza, per ogni tematica trattata, il quadro normativo e i principali adempimenti previsti. Il Comune potrà:
• in prima analisi, comparare il suo attuale contesto (risposte del questionario) con il quadro normativo e gli adempimenti stabili dal legislatore (singole note di lettura presenti nel documento di restituzione);
• in seconda analisi, approfondire gli specifici ambiti giudicati al momento maggiormente rilevanti o critici e poter pianificare un eventuale percorso di adeguamento, sia in relazione agli assetti istituzionali che a quelli strettamente organizzativi (link a www.autovalutazioneict.ancitel.it).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATAImpianti idroelettrici: quando occorre la verifica di assoggettabilità a VIA? (05.11.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - VARIQuando entreranno in vigore le sanzioni per la vendita degli shopper-bio? (05.11.2012 - link a www.ambientelegale.it).

EDILIZIA PRIVATA: Direttiva sul decoro.
Domanda.
Ho letto che è stata firmata dal ministro dei beni culturali la cosiddetta «direttiva sul decoro». Di cosa si tratta?
Risposta.
La direttiva citata è stata firmata dal ministro per i beni e le attività culturali, Lorenzo Ornaghi, lo scorso 11 ottobre. Come ben chiarito sul sito del Mibac (www.beniculturali.it), la direttiva «finalizzata a rafforzare le misure di tutela nelle aree pubbliche di particolare valore archeologico, storico, artistico, architettonico e paesaggistico, in prossimità dei monumenti interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti_ sarà efficace su tutto il territorio nazionale».
L'obiettivo dichiarato è quello di assicurare il decoro dei complessi monumentali contrastando l'esercizio, in aree particolarmente significative, di attività commerciali e di qualsiasi altra attività non compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio culturale.
A tal fine «con il coordinamento dei direttori regionali, i sovrintendenti proporranno ai competenti Enti locali l'individuazione di aree per le quali vietare o sottoporre a condizioni l'esercizio del commercio. Inoltre, gli uffici territoriali del Mibac collaboreranno con le amministrazioni locali mediante la segnalazione delle attività commerciali o ambulanti che si svolgano illecitamente in tali aree, perché vengano adottati gli opportuni provvedimenti».
Altro aspetto degno di nota: la direttiva prevede la possibilità di adottare, per le aree costituenti l'ambiente circostante i beni vincolati, prescrizioni di tutela indiretta «allo specifico fine di impedire che, specie mediante l'installazione di posteggi, banchetti o strutture stabili o precarie di varia natura e tipologia, sia pregiudicata la visuale dei beni direttamente vincolati, ovvero ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro» (articolo ItaliaOggi Sette del 05.11.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Reato da sanzionare
Domanda.
Lavori di costruzione di una struttura per eventi in zona montana sottoposta a vincolo paesaggistico. Non essendone a conoscenza e non avendo richiesto per tempo le autorizzazioni, mi trovo ora impossibilitato a replicare alle accuse dell'amministrazione e alla conseguente condanna. Mi potreste dire se ci sono alternative, precedenti o dare riferimenti normativi che a Vostro parere chiariscano la situazione?
Risposta.
Facciamo riferimento al Codice (dlgs 42/2004 e successive modificazioni). All'articolo 181 (Opere eseguite in assenza di autorizzazione o in difformità da essa), comma 1: «Chiunque, senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa, esegue lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici è punito con le pene previste dall'articolo 44, lettera c), del decreto del presidente della repubblica 06.06.2001, n. 380».
Nel dettaglio, la fattispecie citata dal lettore rientra nel comma 1-bis: «La pena è della reclusione da uno a quattro anni qualora i lavori di cui al comma 1_ ricadano su immobili o aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori».
E purtroppo a nulla vale in questo caso quanto stabilito al comma 1-quinquies: «La rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici, da parte del trasgressore, prima che venga disposta d'ufficio dall'autorità amministrativa, e comunque prima che intervenga la condanna, estingue il reato di cui al comma 1».
Per conferma di quanto appena esposto, il lettore può consultare anche la recente sentenza (31.08.2012, n. 33542) della Corte di cassazione, nella quale viene ribadito quanto appena esposto, con i medesimi riferimenti al Codice dei beni culturali e del paesaggio (articolo ItaliaOggi Sette del 05.11.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Tutela beni parrocchiali.
Domanda.
I beni artistici contenuti nelle parrocchie sono vincolati anche se non è stato emesso apposito procedimento? E in tal caso non possono essere modificati o alterati in nessun modo senza apposito permesso della sovrintendenza?
Risposta.
La risposta deve essere positiva, e la argomentiamo facendo riferimento all'interessantissima sentenza n. 11412 della Corte di cassazione penale, sez. III, del 23.03.2012.
I supremi giudici, infatti, confermando la sentenza del 24.02.2011 Corte d'appello di Firenze e coerentemente con quanto stabilito dal codice dei beni culturali e del paesaggio, hanno ribadito che in tema di tutela, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 169, comma 1, lett. a) del codice, che stabilisce la sanzionabilità con l'arresto da sei mesi a un anno e con l'ammenda da euro 775 a euro 38.734,50 di chiunque, privo di autorizzazione, demolisca, rimuova, modifichi, restauri o esegua opere di qualunque genere sui beni culturali indicati nell'articolo 10, non è necessario alcun vincolo esplicito per i beni culturali appartenenti alle parrocchie in virtù della preesistenza della dichiarazione di interesse culturale.
In particolare, nella sentenza, viene ribadito che, «in tema di protezione delle bellezze naturali, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 169, comma primo, lett. a) del dlgs 22.01.2004, n. 42 che punisce l'abusiva demolizione, rimozione, modifica, restauro o esecuzione di opere di qualunque genere su beni culturali, non è necessaria per i beni artistici appartenenti alle parrocchie la preesistenza della dichiarazione di interesse culturale del bene, giacché si presumono per legge beni culturali, se hanno valore artistico, ecc..
Di conseguenza, l'affermazione del funzionario della soprintendenza secondo il quale i beni delle chiese aperte al pubblico sono stati sempre considerati beni culturali, se aventi valore artistico, è conforme alle disposizioni normative che si sono succedute nel tempo in materia di tutela di beni artistici e all'orientamento di questa Corte
» (articolo ItaliaOggi Sette del 05.11.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Belvedere e tutela.
Domanda
È possibile che un «belvedere» sia vincolato in funzione del paesaggio (naturalistico o culturale) che da lì si può ammirare?
Risposta
Sì. All'articolo 136, comma 1, lettera d), del Codice dei beni culturali e del paesaggio, infatti, si chiarisce che tra gli immobili e aree che possono essere individuati come tutelati come beni paesaggistici per il loro notevole interesse pubblico ci sono «le bellezze panoramiche e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze» (articolo ItaliaOggi Sette del 05.11.2012).

NEWS

PUBBLICO IMPIEGO - VARILe nuove norme allargano l'applicazione del reato. Responsabilità amministrativa della società. Stretta sulla corruzione privata, ritoccare documenti costerà caro
Corruzione privata a maglie strettissime. Inasprite le pene per chi «ritocca» bilanci e documenti ufficiali lasciandosi corrompere; allargato inoltre, l'ambito applicativo del reato. Non solo: scatterà anche la responsabilità amministrativa della società per l'illecito penale commesso dal proprio dipendente i sensi del dlgs. n. 231/2001.

La legge anticorruzione, appena approvata dal parlamento, fissa più rigidi paletti non solo nei rapporto tra privati e pubbliche amministrazioni, ma anche nelle operazioni intercorse tra impresa e impresa.
L'art. 20 della legge riformula il testo dell'art. 2635 c.c., modificandone altresì la rubrica in «Corruzione tra privati» (in luogo dell'«Infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità»). Si prevede ora che «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, che, a seguito della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, per sé o per altri, compiono od omettono atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, cagionando nocumento alla società, sono puniti con la reclusione da uno a tre anni. Si applica la pena della reclusione fino a un anno e sei mesi se il fatto è commesso da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti indicati al primo comma. Le pene sono raddoppiate se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell'Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante. Si procede a querela della persona offesa, salvo che dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi».
Risulta dunque ampliato l'elenco dei possibili autori del reato che possono essere, oltre ai soggetti individuati nel primo comma (amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori), anche coloro i quali sono sottoposti alla direzione o alla vigilanza di questi ultimi.
Tale ampliamento tiene conto del rilievo in proposito specificamente, con riferimento al reato di corruzione privata descritto nel previgente art. 2635 c.c., ritenuto non conforme agli articoli 7 e 8 della Convenzione penale di Strasburgo del 27/01/1999.
La pena è ridotta fino a un anno e sei mesi allorché il reato sia commesso da un soggetto sottoposto a quelli cui la norma si rivolge in prima battuta: si tratta del personale che è sotto la vigilanza o la direzione degli amministratori, dei direttori generali ecc. È proprio in questo l'allargamento principale della fattispecie: il coinvolgimento di soggetti che non hanno responsabilità dirette verso l'esterno, ma che agiscono in funzione di un rapporto con i rappresentanti dell'impresa.
Per il soggetto che dà o promette utilità in cambio della manipolazione dei documenti contabili è prevista la stessa pena, con ciò disincentivando ancor più le condotte criminose individuate.
Infine la pena è raddoppiata laddove siano coinvolte società quotate in mercati regolamentati. Come anticipato la nuova previsione penale trova riscontro anche nella disciplina della responsabilità amministrativa delle imprese per i reati commessi da propri apicali.
L'inserimento tra i reati societari di cui all'art. 25-ter del dlgs 231/01 viene disposto con riferimento ai «casi previsti dal terzo comma dell'art. 2635 c.c.»: la responsabilità amministrativa ex dlgs 231/2001 conseguente alla commissione del reato di corruzione tra privati, e quindi l'eventuale irrogazione della sanzione pecuniaria da duecento a quattrocento quote, sarebbe pertanto configurabile a carico della società cui appartiene il soggetto corruttore, ossia colui che «dà o promette denaro o altra utilità alle persone indicate nel primo e nel secondo comma» dell'art. 2635 c.c. (soggetti corrotti).
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Concussione, non per induzione.
Semaforo verde alla legge anticorruzione, che aggiorna anche il catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa delle imprese per i reati commessi da manager e dipendenti: scatta anche per la concussione per induzione e per la corruzione tra privati. La legge ha fatto molto discutere anche per i possibili effetti sui processi con imputati eccellenti, ma è da analizzare nel suo complesso. Si tratta di una riforma che generalmente innalza i livelli sanzionatori e precisa le fattispecie incriminatrici. Significativa è l'inversione di tendenza per la procedibilità della corruzione tra privati: da procedibile a querela a procedibile di ufficio quando dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi. Un netto distacco rispetto all'impostazione del decreto legislativo 61/2002, che ha depenalizzato il falso in bilancio e ha subordinato molti reati societari alla querela dell'interessato.
Il reato di concussione diventa riferibile al solo pubblico ufficiale (e non più anche all'incaricato di pubblico servizio) e non è più prevista la fattispecie per induzione, oggetto di un autonomo reato; la corruzione impropria del pubblico ufficiale (corruzione per un atto d'ufficio) viene riformulata in modo da rendere punibile chi tiene condotte illecite a prescindere dall'adozione o dall'omissione di atti inerenti al proprio ufficio. La legge aggiunge al codice penale il nuovo articolo 319-quater, «Induzione indebita a dare o promettere utilità» (cosiddetta concussione per induzione), che punisce sia il pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio che induce il privato a pagare (reclusione da 3 a 8 anni) sia il privato che dà o promette denaro o altra utilità (reclusione fino a 3 anni). Viene inserito nel codice il delitto di «Traffico di influenze illecite» (nuovo articolo 346-bis) che sanziona chi sfrutta le sue relazioni con un soggetto pubblico al fine di farsi dare o promettere denaro o altro vantaggio patrimoniale come prezzo della sua mediazione illecita oppure per remunerare il funzionario, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio. Vediamo ora le novità in dettaglio.
Concussione. Il reato di concussione diventa riferibile al solo pubblico ufficiale; scompare la fattispecie della concussione per induzione ed è previsto un aumento del minimo della pena, portato da quattro a sei anni di reclusione.
L'eliminazione del riferimento alla figura dell'incaricato di pubblico servizio ripristina il testo dell'articolo 317 del codice penale vigente anteriormente alla riforma effettuata con la legge n. 86 del 1990. L'impostazione originaria del codice penale infatti non contemplava gli incaricati di pubblico servizio fra i soggetti attivi del delitto di concussione, limitando l'ambito di applicazione dello stesso ai soli pubblici ufficiali.
Corruzione. La «corruzione per un atto d'ufficio» si chiama «corruzione per l'esercizio della funzione». Il reato ha una sanzione più elevata. La corruzione è incentrata sull'indebita ricezione o accettazione della promessa di denaro o altra utilità collegata all'esercizio delle funzioni o dei poteri del pubblico ufficiale, e non al compimento di un atto dell'ufficio. Viene soppressa l'ipotesi più lieve per il pubblico ufficiale che riceve la retribuzione per un atto già compiuto. La disposizione si applica anche all'incaricato di pubblico servizio.
Corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio. Il reato continua ad applicarsi anche all'incaricato di pubblico servizio e ne è aumentata la pena, da quattro a otto anni, in luogo della reclusione da due a cinque anni.
Corruzione in atti giudiziari. Viene aumentata da quattro a dieci anni (anziché da tre a otto anni) la pena della reclusione per la corruzione in atti giudiziari.
Concussione per induzione. Si chiama «induzione indebita a dare o promettere utilità» il nuovo reato previsto dall'articolo 319-quater, codice penale, di nuova introduzione. La norma punisce il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che induce il privato a pagare; il privato che dà o promette denaro o altra utilità è punito invece con la reclusione fino a tre anni.
Traffico di influenze. È nuovo il reato di «traffico di influenze illecite» che punisce con la reclusione chi, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio oppure per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio.
Abuso di ufficio. La legge punisce più severamente l'abuso d'ufficio, prevedendo l'applicazione della pena della reclusione da uno a quattro anni, anziché da sei mesi a tre anni.
Interdizione. La legge modifica l'articolo 317-bis del codice penale nel senso di far conseguire l'interdizione perpetua dai pubblici uffici anche alla condanna per corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio e in atti giudiziari.
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Trasparenza della p.a. online.
La trasparenza della p.a. passa dal sito internet. Dal sito istituzionale devono essere assicurate le informazioni relative ai procedimenti amministrativi. Il tutto in un quadro di facile accessibilità, completezza e semplicità di consultazione. Nei siti web istituzionali delle amministrazioni pubbliche si devono trovare le comunicazioni di atti istituzionali (ad esempio, bilanci e conti consuntivi), ma anche dati statistici per la valutazione della regolarità ed efficienza dell'amministrazione (ad esempio, i costi unitari di realizzazione delle opere pubbliche e di produzione dei servizi erogati ai cittadini).
Tramite la rete deve avvenire il dialogo tra ente pubblico e cittadino e impresa con riferimento all'iter di una singola pratica. Non si deve perdere tempo allo sportello pubblico e l'amministrazione deve rispondere per posta elettronica. Per arginare la corruzione la legge appena approvata dal parlamento (atto camera 4434-B) agisce non solo sul versante repressivo penale, ma anche su quello preventivo: questo significa impedire che si creino le condizioni in cui la corruzione attecchisce. Una amministrazione efficiente e rapida argina le situazioni in cui per far andare avanti la pratica bisogna pagare un prezzo illecito. Ma vediamo le novità della legge sotto il profilo della trasparenza amministrativa.
Tutto sul web. La legge fa un elenco degli atti da mettere sotto i riflettori. Si tratta di autorizzazioni e concessioni; appalti e gare pubbliche; concessione ed erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari, nonché attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati; concorsi e prove selettive per l'assunzione del personale e progressioni di carriera.
Tempi senza veli. La legge stabilisce che le amministrazioni devono provvedere al monitoraggio periodico del rispetto dei tempi procedimentali attraverso la tempestiva eliminazione delle anomalie. Inoltre i risultati del monitoraggio devono essere consultabili nel sito web istituzionale di ciascuna amministrazione.
Per il cittadino. Ogni amministrazione pubblica deve rendere noto, sul proprio sito web istituzionale, almeno un indirizzo di posta elettronica certificata cui il cittadino possa rivolgersi per trasmettere istanze e ricevere informazioni circa i provvedimenti e i procedimenti amministrativi che lo riguardano.
Appalti. Con riferimento alle gare e alle procedure per l'affidamento di contratti pubblici la legge precisa che cosa debbono pubblicare le stazioni appaltanti sul sito web. Ecco l'elenco: la struttura proponente; l'oggetto del bando; l'elenco degli operatori invitati a presentare offerte; l'aggiudicatario; l'importo di aggiudicazione; i tempi di completamento dell'opera, servizio o fornitura; l'importo delle somme liquidate.
Entro il 31 gennaio di ogni anno, inoltre, tali informazioni, relativamente all'anno precedente, sono pubblicate in tabelle riassuntive rese liberamente scaricabili in un formato digitale standard aperto che consenta di analizzare e rielaborare, anche a fini statistici, i dati informatici (articolo ItaliaOggi Sette del 05.11.2012).

APPALTIAppalti, slalom sul campo minato della responsabilità solidale. Le principali problematiche, e le relative possibili soluzioni, sul nuovo adempimento.
Caos in azienda per la nuova ipotesi di responsabilità solidale nel caso di appalto di opere e servizi. Una norma (magari anche con valide motivazioni alle spalle) sparata nel mucchio senza troppe delimitazioni sta rischiando di creare l'impasse totale.
Ecco allora una serie di questioni che a oggi, nonostante la normativa sia ormai in vigore, sono ancora sul tappeto e su cui neanche la circolare 40/E dell'Agenzia delle entrate è riuscita a fare luce. Per ognuna di esse offriremo una possibile soluzione adatta a coloro i quali, per poter continuare a operare, devono assumere una decisione.
La norma e le spiegazioni. La norma di riferimento è l'articolo 13-ter del dl n. 83 del 2012 titolato «Disposizioni in materia di responsabilità solidale dell'appaltatore». Gli unici chiarimenti fino a oggi intervenuti sono quelli contenuti nella circolare n. 40/E dell'08.10.2012 (si veda ItaliaOggi Sette del 29 ottobre) che ha compiuto degli sforzi per facilitare alcuni compiti, ma non è riuscita a superarli in toto. Anche perché non vi è certezza che sia proprio l'Agenzia delle entrate che deve superare alcuni di questi ostacoli, quali per esempio l'esatto ambito di applicazione oggettivo della disposizione (cos'è un contratto di appalto).
L'entrata in vigore. Almeno su questo punto non vi sono incertezze dopo i chiarimenti dell'Agenzia. Erano sorti dubbi, infatti, nell'individuare il momento a partire dal quale il committente/appaltatore era tenuto, in forza delle nuove disposizioni, a verificare gli adempimenti fiscali in relazione alle prestazioni effettuate nell'ambito del rapporto di appalto/subappalto.
Secondo l'Agenzia si devono considerare due fatti (concorrenti):
● le regole trovano applicazione solo per i contratti di appalto/subappalto stipulati dal 12 agosto 2012;
● in forza di quanto previsto dallo statuto del contribuente, visto che la norma introduce un adempimento di natura tributaria, gli adempimenti devono essere posti in essere a partire dal sessantesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della norma e quindi in relazione ai pagamenti effettuati a partire dall'11.10.2012, in relazione ai contratti stipulati a partire dal 12.08.2012.
Ambito oggettivo. La disposizione prevede la responsabilità dell'appaltatore e del committente per il versamento all'Erario delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente e dell'imposta sul valore aggiunto dovuta dal subappaltatore e dall'appaltatore in relazione alle prestazioni effettuate nell'ambito del contratto. Il contratto in questione deve essere di appalto di opere o servizi.
Ma come fare a identificare tale fattispecie? La qualificazione giuridica di un contratto genericamente di servizi non è facile e da anni la stessa giurisprudenza (anche di legalità) sta proponendo interpretazione di volta in volta non del tutto coincidente. L'unico riferimento certo è il codice civile (art. 1655), che definisce il contratto di appalto come quel contratto «col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di una opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro».
Inoltre: i contratti d'opera sono inclusi o esclusi? Provando a immaginare i rapporti esistenti in una azienda l'individuazione diviene un rompicapo (anche pensando che molti di questi rapporti non sono nemmeno formalizzati in forma scritta). Torna alla mente la pioggia di risoluzioni che sono intervenute quando era stato introdotto il reverse charge obbligatorio nel campo dei sub appalti edili (e i dubbi esistono ancora). Il consiglio più facile sarebbe quello nella pratica operativa di estendere al massimo l'ambito oggettivo, ma ciò non può certo dirsi una soluzione.
Il settore dell'attività. L'art. 13-ter non fa alcun riferimento a una particolare settore a cui lo stesso deve applicarsi facendo presumere la sua applicazione a qualsiasi contratto di appalto o servizi. È vero però che il titolo I della norma in cui è compreso anche l'art. 13-ter è denominato Misure per l'edilizia e da ciò vi è chi sta cercando di sostenere la limitazione dell'applicazione delle regole agli appalti di tale settore. A oggi la scelta di questa strada non appare però sufficientemente sorretta da motivazioni giuridica e potrebbe significare esporsi a rischi non di poco conto. Anche perché ripercorrendo la volontà del legislatore questa limitazione del campo di applicazione della novità non pare così evidente.
I soggetti. Appaltatore, sub appaltatore e committente sono tutti e tre in diversa misura nella morsa della nuova regola.
Anche dopo la circolare 40/E le diverse posizioni dovrebbero così riassumersi:
● tra appaltatore scatta la solidarietà in assenza delle cautele imposte dalla norma;
● per il committente non scatta invece la solidarietà ma una sanzione nella misura da 5 mila a 200 mila euro.
Il committente. Appurato che la responsabilità solidale non è un problema del committente (sarebbe bene che anche sul punto arrivasse una conferma esplicita) la circolare 40/E non risolve tutti i problemi di quest'ultimo. La stessa infatti fa intuire (ma ciò è desumibile purtroppo anche dalla norma) che il rischio sanzionatorio per il committente non riguarda unicamente gli adempimenti dell'unico soggetto con cui lui ha a che fare (l'appaltatore), ma anche i comportamenti dei sub appaltatori che potrebbe anche non conoscerlo (potrebbe non sapere nemmeno del loro intervento).
Il committente Alfa per stare al sicuro deve ottenere la documentazione sia dal suo appaltatore beta che da tutti i sub appaltatori di quest'ultimo (in molti casi ciò è materialmente impossibile). Un altro problema del committente riguarda la sanzione. La stessa è fissata in misura variabile da 5 mila a 200 mila euro senza che vi sia un proporzionalità con il pagamento effettuato.
Un esempio: il committente paga prima di aver verificato la regolarità del comportamento dell'appaltatore o dei sub appaltatori e la sanzione sembra in ogni caso scattare (minimo di 5 mila euro), anche nel caso in cui il pagamento sia di soli 100 euro. Il tutto appare un po' eccessivo (articolo ItaliaOggi Sette del 05.11.2012).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIFatture sprint. Sulla carta.
La pubblica amministrazione dovrebbe pagare in 30 giorni, ma non ci sono soldi. Oppure non si possono spendere per via del patto di Stabilità.
La pubblica amministrazione salderà i suoi debiti in 30 giorni, massimo due mesi, e non più in sei mesi, un anno, e anche oltre, come succede oggi. Lo stesso vale per i pagamenti tra imprese.

Lo prevede un decreto legge approvato dal governo nei giorni scorsi. Una norma salutata con favore dalle imprese, ovviamente. Ma che segna un bel passo in avanti nel velleitarismo giuridico. Perché se le pubbliche amministrazioni hanno finora accumulato quasi 100 miliardi di arretrati la causa non è la pigrizia o l'indolenza dei responsabili dei pagamenti. Il motivo è che non ci sono i soldi. O, se ci sono, non si possono spendere a causa delle regole imposte dal patto di Stabilità.
Il governo Monti invece di affrontare questi macigni preferisce aggirare l'ostacolo e, con una norma che comunque consente di guadagnare tanti bei titoli sui giornali, impone una regola che, si sa già, non potrà essere rispettata. Primo perché l'obbligo di pagare in 30 giorni è già contenuto nel dlgs 231 del 2002, anche se poteva essere derogato. Poi perché il patto di Stabilità interno, una delle cause principali dei ritardi di pagamento, non solo non viene allentato, ma dal 01.01.2013, guarda caso la stessa data di avvio delle nuove disposizioni, sarà esteso ai comuni sopra i mille abitanti (ora interessava gli enti con popolazione sopra i 5 mila).
D'altra parte i trasferimenti agli enti locali sono in continua diminuzione. Tanto che questi motivi hanno reso molto difficoltosa addirittura la certificazione dei crediti delle imprese nei confronti della p.a., figuriamoci il pagamento. Un sindaco o un governatore che non ha i soldi o che se li ha non li può spendere, potrà rispettare i termini di pagamento solennemente fissati dal nuovo decreto? Improbabile. Lo stesso vale per i rapporti tra imprese private, dove le norme già esistono, ma non sono riuscite a ridurre i tempi di pagamento che anzi, a causa della crisi degli ultimi anni, si sono allungati sempre più. Anche in materia di lotta alla corruzione, l'approccio del governo ricorda sempre più quello delle grida di manzoniana memoria.
La legge approvata mercoledì scorso infatti cerca di chiudere le maglie normative, estendendo la rilevanza penale e la sanzionabilità anche a quelle figure aziendali che non hanno rappresentanza esterna ma che sono sottoposte al controllo degli amministratori e quindi dei vertici aziendali. Con il rischio concreto di ingessare l'azione delle aziende che dovranno, quantomeno, ampliare i propri modelli organizzativi.
Inasprire le pene o allargare l'ambito di applicazione dei reati rischia però di danneggiare solo chi opera in buona fede. Non intimorisce certo i corrotti. Che normalmente si preoccupano di non farsi trovare con le mani nel sacco, non se e quale sanzione potrà essere loro comminata (articolo ItaliaOggi Sette del 05.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZISaldo in 30 giorni o interessi top. Cambiano le regole per la p.a.. Il dlgs che dimezza i tempi di pagamento. Ma lo stock di crediti incagliati è ormai ingestibile.
Obbligo di saldare le fatture entro uno o al massimo due mesi e interessi di mora intorno al 10% per i ritardatari.
Basteranno queste misure per riportare a un livello fisiologico i tempi di pagamento della p.a.? Lo scorso 31 ottobre il governo ha licenziato uno schema di decreto legislativo che recepisce nel nostro ordinamento la direttiva n. 2011/7/Ue relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.
Come noto, il problema dei ritardi riguarda soprattutto le fatture emesse nei confronti di soggetti pubblici, che spesso costringono i creditori ad aspettare il saldo per mesi (e nei casi peggiori anni). Tale prassi è purtroppo molto diffusa nel nostro paese. Secondo le rilevazioni dell'Ance, la p.a. paga, in media, con un ritardo di 114 giorni, ma in alcuni casi si superano i due anni. Il dato più allarmante, però, è il continuo peggioramento della situazione. Complice la crisi economica, mentre nel 2010 circa la metà delle imprese segnalava aumenti nei ritardi, il dato per il 2011 è salito al 77%. Nella quasi totalità dei casi (97%), inoltre, gli ultimi 12 mesi non hanno portato alcun miglioramento.
Tale quadro è confermato da una recente indagine di Confapi, secondo cui sei pmi su dieci hanno riscontrato, negli ultimi quattro anni, un allungamento dei tempi medi per i pagamenti, mentre una su due denuncia ritardi superiori all'anno. In pratica, quando va bene i tempi di pagamento rimangono invariati, ma sempre più spesso continuano ad allungarsi.
Non sorprende, quindi, che negli anni passati si sia accumulato uno stock di crediti incagliati di proporzioni impressionanti. La cifra complessiva non è neppure facilmente verificabile, dato che le attuali regole della contabilità pubblica non consentono agevolmente di distinguere, nel coacervo dei «residui passivi» della p.a., i debiti veri e propri. In ogni caso, si tratta di un numero che oscilla fra i 70 e i 100 miliardi di euro. Le imprese interessate rischiano di cadere in un circolo vizioso da cui è difficile uscire: i ritardati pagamenti rischiano di generare irregolarità fiscali (con tutte le conseguenze del caso) e contributive (che, fotografate nei Durc, impediscono di accedere a nuove commesse).
Ecco perché sono sempre più diffusi i casi di fallimenti di imprese «in bonis».
In questo contesto si inserisce il provvedimento varato la scorsa settimana dal Governo. Come detto, esso è stato adottato per adeguare il diritto interno alle indicazioni sempre più stringenti provenienti da Bruxelles, che ha fatto della repressione dei pagamenti-lumaca un obiettivo strategico.
Il decreto del Governo corregge il precedente dlgs 231/2002 (anch'esso a suo tempo adottato per recepire una direttiva europea, la n. 2000/35/Ce) prevedendo due principali novità, che diventeranno operative per tutte le transazioni commerciali concluse dal 01.01.2013.
In primo luogo, alle p.a. viene imposto di effettuare i pagamenti entro un termine molto breve: di norma non si potranno superare i 30 giorni e solo in casi eccezionali si potrà arrivare a 60.
In secondo luogo, chi non rispetterà questo timing dovrà corrispondere alla controparte un interesse molto elevato, pari al tasso fissato dalla Banca centrale europea maggiorato dell'8% (al momento, quindi, la soglia si aggira intorno al 10%). Tale sanzione scatterà in automatico (ovvero senza necessità di costituzione in mora) dal giorno successivo alla scadenza del termine.
Si tratta di una disciplina più restrittiva della precedente, che pure imponeva in via generale di pagare entro un mese e fissava uno spread elevato (+7%) rispetto al tasso Bce, ma che consentiva sia stabilire un termine superiore a quello legale, sia di fissare in diversa misura il tasso degli interessi dovuti nell'ipotesi di ritardato pagamento. Sebbene fosse previsto espressamente il divieto (sanzionato con la nullità parziale) di clausole gravemente inique per il creditore, spesso quest'ultimo ha stentato ad ottenere giustizia, perlopiù a causa della mancanza di forza contrattuale
D'ora in avanti, invece queste deroghe non saranno più consentite.
Ma sarà sufficiente a correggere una tendenza così radicata e che affonda le proprie radici nei mali atavici del sistema pubblico italiano?
Qualche dubbio, al riguardo, è legittimo (articolo ItaliaOggi Sette del 05.11.2012).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIDebiti commerciali. Obbligo di versamento a 30-60 giorni e tassi maggiorati per i ritardi solo sui contratti dal 2013.
Il pagamento si scontra col Patto. Via libera al Dlgs sui termini ridotti - Da gennaio vincoli estesi ai mini-enti.
LE NUOVE REGOLE/ Impossibile inserire clausole che allungano i tempi, o modificano la data di fattura Obbligo di riconoscere anche i micro-interessi.

Interessi di mora con tasso Bce maggiorato dell'8% per i pagamenti oltre il termine e rimborso obbligatorio delle spese di recupero; sono alcune delle novità che andranno seguite per i pagamenti dei contratti stipulati dalle Pa dal 01.01.2013 (non si estendono retroattivamente ai contratti già conclusi).
Le nuove regole sono arrivate la scorsa settimana, con l'approvazione del Dlgs di recepimento della direttiva europea 2011/7/UE del 16.02.2011. L'ambito di applicazione, come per il Dlgs legislativo 231/2002 con cui il nostro Paese aveva attuato la precedente direttiva, è riferito alle transazioni commerciali, cioè ai contratti che comportano la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo.
I pagamenti nei contratti stipulati dalla Pa dovranno prevedere termini di regola non superiori a 30 giorni; che potranno essere portati al massimo a 60, se le parti concordano per iscritto e se ciò risulta oggettivamente giustificato dal contratto o da particolari circostanze.
Per disincentivare i ritardi è previsto l'obbligo di corrispondere interessi legali di mora, a un tasso minimo che non può essere inferiore al tasso Bce maggiorato dell'8%; gli interessi decorrono dal giorno successivo alla scadenza del termine, senza che sia necessaria la costituzione in mora.
Fra le conseguenze negative del ritardo è stato inserito anche il diritto del creditore al risarcimento dei costi amministrativi e interni di recupero del credito, che sono forfetizzati in 40 euro, salvo la prova di maggiori costi; anche questo rimborso, come gli interessi, va corrisposto senza che sia necessaria la costituzione in mora e indipendentemente dalla dimostrazione di aver sostenuto costi.
Sono nulle per legge, senza ammissione di prova contraria in quanto considerate gravemente inique, le clausole che escludono l'applicazione di interessi di mora e nei contratti della Pa la clausola relativa alla predeterminazione o modifica della data di ricevimento della fattura. Inoltre si presume gravemente iniqua la clausola che esclude il risarcimento dei costi di recupero del credito. Tra le novità viene meno l'esclusione delle richieste di interessi inferiori a 5 euro. Nei casi di pagamenti a rate, gli interessi e il risarcimento maturano dalle singole rate scadute.
La tutela della tempestività dei pagamenti è da tempo presente negli interventi del legislatore, ed ha già ispirato numerose misure a carico delle amministrazioni pubbliche. Va ricordato innanzi tutto l'obbligo imposto a tutte le Pa di adottare, entro il 31.12.2009 le opportune misure organizzative per garantire il tempestivo pagamento delle somme dovute per somministrazioni, forniture e appalti.
Relativamente al Patto di stabilità, con il cosiddetto visto di compatibilità monetaria, il funzionario che adotta provvedimenti con impegni di spesa deve accertare preventivamente che il programma dei conseguenti pagamenti sia compatibile con i relativi stanziamenti di bilancio e con le regole di finanza pubblica (articolo 9, comma 1, del DL 78/2009). In sostanza, l'obbligo di verificare la compatibilità della spesa con i limiti previsti dal Patto è finalizzato a prevenire l'insorgenza di spese e quindi di contratti da cui scaturiscano pagamenti non compatibili con i vincoli del Patto stesso. A ciò si aggiunge la necessità di programmazione dei pagamenti, altro strumento utile al raggiungimento degli obiettivi del Patto di stabilità da parte delle Pa.
Patto di stabilità che dal 01.01.2013 sarà esteso per la prima volta anche ai Comuni con popolazione compresa fra mille e 5mila abitanti, ai quali si raccomanda quindi di adottare da subito, qualora non lo avessero già effettuato, la programmazione degli incassi e dei pagamenti ed il visto di compatibilità monetaria, la cui mancanza è fonte di responsabilità amministrativa.
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I paletti
01 | PATTO DI STABILITÀ
A bloccare i pagamenti è spesso la decisione di impegni di spesa che poi non trovano capienza nei limiti imposti dal Patto.
Dal 1° gennaio prossimo i vincoli del Patto di stabilità saranno estesi ai Comuni fra mille e 5mila abitanti.
02 | RESPONSABILITÀ
Le norme impongono ai funzionari di non firmare atti di spesa che non trovino capienza nei limiti ai pagamenti consentiti dal Patto di stabilità.
03 | PROGRAMMAZIONE
Obbligatoria per tutti la definizione di un piano dei pagamenti che rispetti il Patto (articolo Il Sole 24 Ore del 05.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

SEGRETARI COMUNALIAnticorruzione. Modifiche al Tuel. Revoca del segretario soggetta a verifica.
Le disposizioni approvate in via definitiva dalla Camera sulla repressione della corruzione vedono il segretario comunale come soggetto chiamato ad assolvere, negli enti locali, le funzioni di responsabile della prevenzione della corruzione attribuendogli precise funzioni (tra le altre, la predisposizione del piano triennale di prevenzione della corruzione e la vigilanza sulla sua attuazione) e ampie responsabilità di natura disciplinare e erariale in caso di omissione di controllo.
Quello che emerge dalla disciplina è però il fatto che a fronte di queste ulteriori funzioni di garanzia e controllo e delle responsabilità previste, nessuna garanzia sostanziale è prevista per il segretario comunale: È semplicemente aggravata la procedura di revoca prevista dall'articolo 100 del Tuel (Dlgs 267/2000), prevedendo che il provvedimento di revoca del sindaco per gravi violazioni d'ufficio sia comunicato tramite il prefetto all'autorità nazionale anticorruzione, che entro 30 giorni vaglierà se la revoca si ricolleghi o meno alle attività anticorruzione svolte dal segretario. Trascorso il termine senza obiezioni da parte dell'autorità, la revoca del segretario diventerà efficace.
Si tratta di una garanzia blanda, più formale che sostanziale, dato che a oggi i casi di revoca dei segretari in base all'articolo 100 del Tuel sono sporadici.
Il provvedimento quindi nulla prevede su maggiori garanzie, sia nella nomina, sia nella non conferma del segretario, auspicate dall'apposita commissione ministeriale ma soprattutto da settori della categoria, in considerazione del fatto che la nomina fiduciaria e lo spoil sistem automatico, mal si conciliano con le sempre più ampie funzioni di controllo e garanzia che sono assegnate ai segretari.
Si pensi infatti alle funzioni di controllo e garanzia previste sia nel provvedimento anti corruzione, sia nel decreto legge 174/2012 in materia di controlli sugli enti locali (articolo Il Sole 24 Ore del 05.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLe scadenze. Le materie sottoposte da gennaio all'obbligo di gestione associata.
Piccoli Comuni insieme anche per l'urbanistica. La spending review ha «liberato» dalle limitazioni i segretari.

La gestione della segreteria comunale non rientra tra le funzioni fondamentali che i piccoli Comuni devono gestire necessariamente in forma associata, mentre gli strumenti urbanistici dovranno essere adottati in modo unitario.
Con i correttivi portati dal Dl 95/2012 si definisce il quadro normativo delle gestioni che i Comuni fino a 5mila abitanti devono mettere in cantiere in queste settimane perché siano operative dal 1° gennaio prossimo. Regole che si aggiungono al superamento del vincolo per i Comuni al di sotto dei mille abitanti di dare corso alla gestione associata di tutte le attività e alla spinta a fare ricorso alle convenzioni rispetto alle Unioni.
Senza dimenticare che entro la fine di marzo in questi centri le gare di lavori pubblici, di beni e di forniture dovranno essere realizzate dalle centrali uniche di committenza e non più dalle singole amministrazioni: è questo un vincolo che si applica anche alle attività che i singoli Comuni potranno continuare a svolgere da soli.
Il passaggio da un'individuazione delle attività che i piccoli Comuni devono gestire insieme basata sui capitoli di bilancio a una che assume una logica istituzionale è assai corretto in termini di impostazione e di efficienza, ma pone problemi di prima applicazione. Si passa, in primo luogo, dalle attività generali, di amministrazione e controllo per almeno il 70% della spesa corrente all'organizzazione generale dell'amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo.
La norma precedente imponeva di mettere insieme almeno il 70% della spesa del personale, della ragioneria e dei compiti generali, ambito in cui rientrava la segreteria comunale, che quindi doveva essere gestita in modo unitario salvo il caso in cui il Comune avesse deciso di considerarla compresa tra la quota di spesa esclusa. Adesso si resta nell'ambito dell'organizzazione generale di queste attività, con una specifica attenzione al settore finanziario. La limitazione alla organizzazione generale determina come conseguenza che non è indispensabile mettere insieme le segreterie nell'ambito della gestione unitaria della funzione.
Considerazioni analoghe si devono fare anche per l'organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale. La norma non obbliga i piccoli municipi a mettere insieme la gestione dei servizi idrici, di distribuzione del gas, dei trasporti pubblici locali, ma a dettare in modo unitario le regole fondamentali. Mentre devono mettere insieme, per esplicita indicazione, la gestione del servizio rifiuti, insieme alla riscossione dei relativi tributi.
È rilevante la scelta del Dl 95 di imporre la gestione associata della pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale, mentre in precedenza ci si riferiva solamente al governo del territorio e dell'ambiente. Questa scelta determina che sia gli strumenti urbanistici sia quelli edilizi saranno gestiti in forma associata; anche il rilascio dei permessi edilizi dovrebbe quindi essere gestito in forma associata. Queste scelte confermano che i compiti più importanti che i piccoli Comuni potranno continuare a gestire da soli sono i lavori pubblici, ambito che con il Dl 95 si estende anche alla viabilità (articolo Il Sole 24 Ore del 05.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Modelli organizzativi. Le resistenze. La convenzione salva il personale.
La realizzazione della gestione associata delle funzioni fondamentali da parte dei piccoli Comuni determina un primo, certo, risparmio nella diminuzione del numero dei responsabili, e quindi della relativa spesa. Il che sta già provocando ostilità dei vertici burocratici di questi enti verso la concreta applicazione della gestione associata, ostilità che si aggiunge a quella che serpeggia tra tutto il personale dei piccoli Comuni, preoccupato di dovere mutare sede e datore di lavoro.
Infatti se fino a oggi tre Comuni gestivano la polizia locale ed avevano ognuno il proprio responsabile che godeva quindi delle indennità di posizione e di risultato,
con la gestione associata il responsabile non potrà che essere uno solo e l'indennità una sola. Questo effetto sarà prodotto sia nel caso di unioni che in quello delle convenzioni.
Le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti del Piemonte (parere 30.08.2012 n. 287) e della Lombardia (parere 08.10.2012 n. 426) hanno già chiarito che
non è possibile prevedere più responsabili per la stessa funzione nel caso di gestione associata. In caso di realizzazione della gestione associata tramite l'unione i Comuni dovranno trasferire definitivamente a questo soggetto i dipendenti impegnati nello svolgimento di questa attività e cancellare i posti dalla propria dotazione organica.
Conseguenze a cui la gran parte del personale guarda con sfiducia perché si ritiene che l'unione sia un datore di lavoro meno certo. Mentre nel caso delle convenzioni è sufficiente la semplice assegnazione funzionale: si rimane dipendenti del Comune e i posti non vengono cancellati dalla dotazione organica. Il che è una delle ragioni che incentivano la gestione associata attraverso la convenzione. In molte realtà, inoltre, la sede di lavoro potrebbe essere modificata.
Se aggiungiamo che non è prevista alcuna forma di incentivazione, cui invece si può dare corso solamente nel caso di utilizzo in parte alle dipendenze del Comune ed in parte alle dipendenze della gestione associata, l'ostilità della gran parte del personale si accresce. Il che costituisce uno degli ostacoli di maggiore rilievo al successo della gestione associata (articolo Il Sole 24 Ore del 05.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTIAppalti e arbitrato, l'anticorruzione è un passo indietro.
Il Ddl anticorruzione approvato, in via definitiva, dal Senato torna a occuparsi dell'arbitrato negli appalti pubblici, regolato dall'articolo 241 del Codice degli appalti. Il disegno di legge non sembra andare però nella giusta direzione per favorire il buon successo dell'arbitrato a tutela tanto della stazione appaltante e dell'impresa aggiudicataria, troppo prigioniero di un'ottica di controllo della Pa e di contenimento di costi.

In primo luogo il Ddl propone che l'arbitrato debba essere previamente e motivatamente autorizzato dall'organo di governo dell'amministrazione a pena di nullità. Il Dlgs 53/2010 aveva già riformato l'articolo 241 introducendo un obbligo per la stazione appaltante di indicare fin dal bando di gara se il contratto conterrà la clausola compromissoria, sempre a pena di nullità dell'arbitrato. Ancora, era stato inserito il divieto di stipulare un compromesso ad hoc per la soluzione di controversie già insorte tra Pa e aggiudicatario. A soli due anni dalla riforma, oggi neppure l'indicazione obbligatoria della clausola compromissoria fin dal bando di gara e il divieto di compromesso sembrano sufficiente garanzia di trasparenza, dovendo sussistere l'ulteriore elemento della previa e motivata autorizzazione dell'organo di governo dell'amministrazione.
È un segno del permanere di una diffidenza verso l'arbitrato, che però può travolgere l'affidamento che il terzo ripone nell'esistenza di una valida clausola compromissoria, qualora risulti a posteriori che un atto interno della Pa, volto a fornire la previa e motivata autorizzazione, fosse carente o viziato. L'arbitrato dovrebbe invece essere visto come una forma di risoluzione delle controversie nell'interesse di entrambe le parti, perché operante su un piano di parità, e in cui anche la parte privata sceglie l'arbitrato come forma di garanzia ulteriore in una controversia contro una parte pubblica. Così è negli arbitrati di investimento tra Stati e investitori privati e così è, in generale, negli altri paesi europei.
Altro tema sensibile sono le nomine degli arbitri e dei compensi. Anche qui era intervenuto il Dlgs 53, rafforzando le garanzie a tutela della terzietà degli arbitri e introducendo un tetto per i compensi. L'articolo 241 prevede oggi che il presidente del collegio deve avere «precipui requisiti di indipendenza» e non avere esercitato nell'ultimo triennio funzioni di arbitro di parte o di difensore in giudizi arbitrali in materia di appalti pubblici (a eccezione dei casi in cui l'esercizio della difesa sia dovere d'ufficio del difensore dipendente pubblico), e che anche gli arbitri di parte non possano aver avuto alcun coinvolgimento nella materia del contendere. Il Dlgs 53 ha poi introdotto un compenso massimo per l'intero collegio arbitrale, incluso il segretario, di 100 mila euro.
Con il Ddl anticorruzione si ritiene che queste garanzie non siano più sufficienti, ma da un lato si dice che la nomina deve avvenire «nel rispetto dei principi di pubblicità e di rotazione», dall'altro si specifica che se la controversia è tra due Pa, gli arbitri di parte possono essere solo dirigenti pubblici, mentre se è tra una Pa e un privato, l'arbitro nominato dalla Pa deve essere scelto preferibilmente tra i dirigenti pubblici. Ci pare che il funzionario pubblico mal potrebbe sottrarsi all'indicazione "preferenziale" del legislatore, con il paradosso che l'arbitro di nomina della Pa sarebbe perlopiù un dirigente pubblico e quindi molto poco terzo, e con una prevedibile compressione anche del principio di rotazione.
Ancora, il Ddl prevede che la Pa debba stabilire, a pena di nullità della nomina, il compenso massimo per l'arbitro dirigente pubblico e che l'eventuale differenza tra l'importo spettante agli altri arbitri e quello massimo stabilito per il dirigente è acquisita al bilancio della stazione appaltante.
Il quadro è quindi quello di nomine da parte della Pa sempre di dirigenti pubblici, con compensi più bassi di quelli degli altri arbitri e con un incameramento da parte della Pa della differenza. Difficile però che possa operare in maniera equilibrata un collegio arbitrale in cui un arbitro, per definizione di nomina della Pa, abbia un compenso inferiore rispetto agli altri.
L'esigenza di controllare la procedura e di contenere i costi sembra non sposarsi con quella di migliorare l'efficacia del ricorso all'arbitrato (articolo Il Sole 24 Ore del 04.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALINuove province, rebus funzioni. I compiti trasferiti rischiano di far collassare regioni e comuni. Non sono state ancora definite le prerogative che passeranno di mano. Col rischio che nulla cambi.
Resta ancora irrisolto il nodo della titolarità delle funzioni provinciali. Da un lato il governo non è ancora riuscito a fissare quali siano quelle attribuite alle province con leggi dello stato attinenti alla potestà legislativa esclusiva statale, mancando clamorosamente il termine dello scorso 5 settembre, entro il quale un dpcm avrebbe dovuto individuarle, per assegnarle ai comuni.
Dall'altro, il decreto di riordino cerca di chiarire meglio la sorte delle funzioni provinciali, attribuite alle province da leggi regionali.
A questo scopo, si introduce nell'articolo 17 del dl 95/2012, convertito in legge 135/2012, un nuovo comma 10-bis, che colma un vuoto francamente clamoroso della disciplina di riordino provinciale.
Infatti, sebbene le regioni fossero state onerate del compito di rivedere le funzioni attribuite alle province, non era stato chiarito esattamente il percorso.
Il nuovo comma 10-bis dell'articolo 17 della spending review dispone, dunque che nelle materie di cui all'articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione (cioè nell'ambito della potestà legislativa concorrente e residuale) le regioni dovranno trasferire con propria legge ai comuni le funzioni già conferite alle province dalla normativa vigente.
Tuttavia, le regioni, dispone la norma, potranno decidere diversamente. Qualora ritengano necessario assicurare un esercizio unitario e non polverizzato tra molteplici enti, potranno acquisire esse stesse le funzioni a suo tempo attribuite alle province.
Il percorso, tuttavia, per la ridefinizione delle funzioni regionali appare piuttosto complesso ed accidentato (come del resto per le altre funzioni provinciali non qualificate come fondamentali).
Infatti, il decreto sul riordino precisa che insieme con le funzioni debbono essere trasferiti ai comuni (o riacquisiti dalle regioni) le risorse umane, finanziarie e strumentali.
Questa è una previsione corretta, che rischia, tuttavia, di bloccare sul nascere il percorso di riforma. Infatti, moltissime funzioni assegnate alle province anche dalle regioni, a suo tempo in base al dlgs 112/1998, non sono mai state finanziate dalle regioni medesime.
Nei bilanci provinciali, pertanto, non vi è alcuna traccia di un collegamento tra l'esercizio delle competenze svolte e i finanziamenti regionali. Il che significa che, in realtà, le province le hanno svolte attingendo alle entrate proprie, prevalentemente, dunque, i trasferimenti statali, le imposte sulla trascrizione delle vendite degli autoveicoli e le addizionali.
In assenza, allora, di un riordino della finanza locale e regionale, sia i comuni, sia le regioni che si vedano piovere addosso le funzioni provinciali rischiano non solo di ritrovarsi senza le necessarie dotazioni di personale, ma anche senza fonti di finanziamento.
Si pensi ai servizi sociali delle province, che in molte regioni assicurano il supporto socio-educativo ai disabili sensoriali. Pochissimi dipendenti provinciali (due, tre) lavorano su servizi estremamente costosi, che richiedono l'operato di lettori-ripetitori, che aiutano gli allievi a studiare a scuola e a casa, con un servizio dedicato. Spesso si tratta di appalti del valore di milioni, mai finanziati dalle casse regionali.
Il governo, comunque, pare essere consapevole della difficoltà estrema di modificare l'assetto delle competenze provinciali, perché il nuovo comma 10-bis afferma che nelle more del trasferimento delle risorse necessarie, le funzioni provinciali restano conferite alle province. Senza nemmeno prevedere un termine entro il quale le regioni dovrebbero completare l'opera di trasferimento delle funzioni.
Come dire, insomma, che le competenze provinciali potrebbero non cambiare mai, in barba agli intenti di riorganizzazione ed economia di scala enunciati.
D'altra parte, il decreto non può ovviamente modificare quanto prevede l'articolo 118, comma 2, della Costituzione, ai sensi del quale «i comuni, le province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze». Dunque, in ogni caso le regioni possono riattribuire alle province funzioni che il decreto vuole si assegnino ai comuni o siano da esse avocate (articolo ItaliaOggi del 03.11.2012).

PUBBLICO IMPIEGOIl caso dell'impiegato in soprannumero al Comune di Carnago. La spending review mette il geometra in disponibilità.
Avvio del procedimento di «messa in disponibilità» per un geometra, capo dell'ufficio tecnico del comune di Carnago (Varese). La misura già prevista, dal 2001, è applicata ora in considerazione del taglio alle dotazioni organiche contenuto nella spending review.
Continua a far discutere la notizia della messa in disponibilità del funzionario del comune di Carnago (Varese), con i sindacati che hanno chiesto al sindaco un immediato ripensamento. Mentre il diretto interessato ha presentato ricorso chiedendo la reintegra (e 265mila euro di risarcimento danni).
La vicenda nasce dall'applicazione dell'articolo 16 della legge di stabilità 2012 (legge n. 183 del 2011) che, novellando l'articolo 33 del Dlgs 165 del 2001, stabilisce come le amministrazioni pubbliche che hanno situazioni di soprannumero o eccedenze di personale possano collocare in disponibilità il personale che non sia impiegabile diversamente. In questi casi, dalla data di collocamento in disponibilità, prevede ancora la legge, restano sospese tutte le obbligazioni inerenti il rapporto di lavoro. E il lavoratore ha diritto a un'indennità pari all'80% dello stipendio e dell'indennità integrativa speciale per la durata massima di 24 mesi (i periodi di godimento dell'indennità sono comunque riconosciuti ai fini della determinazione dei requisiti di accesso alla pensione e della misura della stessa).
Il geometra in questione ha diretto per circa 10 anni l'ufficio tecnico del comune di Carnago, e, riferiscono fonti sondacali, è stato collocato in disponibilità dopo essere stato "messo all'angolo" sul lavoro. La procedura della messa in disponibilità è prevista dal 2001, e non si tratta di un licenziamento. Certo «è un'ipotesi rara. Ma può accadere, specie nelle piccole amministrazioni», ha sottolineato il presidente dell'Aran, Sergio Gasparrini. Questa procedura, poi, prevede anche una comunicazione alla Funzione pubblica (in modo tale che eventuali altre amministrazioni in carenza di personale prima di attivare procedure concorsuali possano richiedere il personale messo in eccedenza). Ma questa comunicazione, a quanto si apprende, non sarebbe stata effettuata.
I sindacati lamentano però anche altre violazioni nell'operato del comune di Carnago, come quella, ha sottolineato Gianna Moretto (Fp-Cgil di Varese) «che non ha agito con trasparenza. E, in più, non ha fornito elementi per giustificare l'esubero di personale». Anzi, l'amministrazione di Carnago avrebbe una situazione di carenza di almeno 13 dipendenti nella pianta organica.
Ma la messa in disponibilità del geometra in questione potrebbe essere legata ai tagli previsti dalla spending review. Su questo fronte però non sono ancora stati emanati i decreti con i tagli alle piante organiche (il termine è scaduto il 31 ottobre). A quanto si apprende dovrebbero arrivare nelle prossime settimane.
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Messa in disponibilità.
Il collocamento in disponibilità è previsto dall'articolo 16 della legge di Stabilità 2012, che ha modificato l'articolo 33 del Dlgs 165 del 2001. Con la messa in disponibilità il lavoratore pubblico vede sospese tutte le obbligazioni inerenti al rapporto di lavoro. Ma percepisce una indennità pari all'80% dello stipendio e dell'indennità integrativa speciale per la durata massima di 24 mesi. La legge prevede che i periodi di godimento dell'indennità siano riconosciuti ai fini della determinazione dei requisiti di accesso alla pensione (e dell'importo) (articolo Il Sole 24 Ore del 03.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI/PROGETTUALIIntegrativo in pensione, tutto tace. Silenzio sulla possibilità di applicare il 4% anche alla p.a.. Dal ministero del lavoro l'apertura, ma dall'economia nessun segnale dopo oltre un mese.
Un mese senza nessun segnale. Questa è la risposta attuale del ministero dell'Economia alla posizione assunta da Michel Martone circa la legittimità che i liberi professionisti applichino il «contributo integrativo» al 4% anche alle pubbliche amministrazioni. Stiamo parlando dell'opportunità concreta di aumentare le loro pensioni introdotta dalla mini-riforma Lo Presti (legge 133/2011) e dal suo indebolimento dato proprio dal ministero dell'Economia con una propria interpretazione restrittiva del testo di legge: i suoi tecnici hanno imposto che il contributo integrativo rimanga al 2% invece di salire al 4% (o al 5%) nel caso in cui la richiesta di parcella del libero professionista sia diretta a comuni, regioni, Asl e così via.
La posizione dell'Economia è frutto di soggettiva interpretazione di una clausola di salvaguardia prevista effettivamente nel testo di legge Lo Presti, che esorta a varare provvedimenti «senza maggiori oneri per la finanza pubblica», paventando una necessaria politica di controllo della spesa. Il monito contenuto nell'interpretazione del ministero non ha nulla a che vedere, però, con lo spirito del provvedimento, dato che negare di innalzare il contributo al 4%, contrariamente a quanto invece fanno già molti liberi professionisti di altri ordini professionali, significa discriminare solo alcune categorie malcapitate, tra cui biologi, psicologi, periti industriali e tanti altri. Inoltre una simile interpretazione contraddice la volontà stessa del legislatore, come risulta dagli atti preparatori al testo.
Il viceministro del Welfare, tagliando la testa al toro, aveva sottolineato come non fosse giusto impedire solo ad alcuni liberi professionisti ciò che è permesso ad altri, dato che un simile atteggiamento si macchierebbe in ogni caso di incostituzionalità. Rispondendo all'interrogazione parlamentare urgente proposta proprio da Antonino Lo Presti (Fli), Martone invitava il ministero dell'Economia ad un ripensamento della posizione assunta che non trovava fondamento: invece ad oggi nessuna risposta.
Ovviamente la questione coinvolge immediatamente non solo gli interessi delle Casse di previdenza, ma prima di tutto i diritti previdenziali dei liberi professionisti iscritti. Minore contribuzione integrativa si traduce, infatti, in minori disponibilità economiche da poter ridistribuire sulle future pensioni in un clima di sostanziale disparità e con un mercato del lavoro abbastanza statico. Invece la legge Lo Presti è chiarissima e si rivolge indistintamente alla collettività, non operando distinzione tra cliente pubblico e privato.
E in uno Stato di diritto in cui la certezza della norma è un pilastro, un ritardo, o meglio, il protrarsi della una presa di posizione da parte dell'Economia senza aperture al confronto non appare assolutamente giustificabile (articolo ItaliaOggi del 02.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIPagamenti della p.a. in 30 giorni. Termine estensibile a 60 giorni. E valido anche tra imprese. Il decreto approvato dal Consiglio dei ministri pronto per approdare in Gazzetta Ufficiale.
Conto salato per la pubblica amministrazione in ritardo con i pagamenti: gli interessi sono pari al tasso Bce aumentato di 8 punti. E di regola l'amministrazione deve pagare in trenta giorni, derogabili, ma solo fino a sessanta giorni.
Lo schema di decreto legislativo sui ritardi di pagamento, approvato il 31 ottobre dal Consiglio dei ministri, recepisce la direttiva n. 2011/7/Ue, del 16.02.2011, del Parlamento europeo e del Consiglio, e riscrive il decreto legislativo n. 231/2002, creando un doppio binario: da un lato le transazioni tra imprese e dall'altro quelle in cui il debitore è un ente pubblico o equiparato.
Vediamo le principali novità.
TASSO. Il tasso degli interessi legali moratori viene alzato di un punto. Passa da sette a otto punti percentuali lo spread da aggiungere al tasso fissato da Bce.
ESCLUSIONI. La normativa si applica anche alle richieste di interessi inferiori ai 5 euro. Non si applicherà, invece, ai debiti oggetto di procedure finalizzate alla ristrutturazione del debito.
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE. Viene definita riprendendo la nozione di amministrazione aggiudicatrice del codice degli appalti (dlgs 163/2006): vi rientrano, quindi, anche soggetti di diritto privato tenuti al rispetto della disciplina sui contratti pubblici.
TERMINI DI PAGAMENTO TRA PRIVATI. Il termine di pagamento, se non diversamente stabilito nel contratto, è di trenta giorni. Le parti possono stabilire contrattualmente un diverso termine di pagamento che non deve, di regola, superare i sessanta giorni; può essere, però, superiore, se concordato in forma espressa e non gravemente iniquo per il creditore.
TERMINI DI PAGAMENTO A CARICO DELLA P.A. Per i contratti in cui il debitore è una pubblica amministrazione, il termine di pagamento, di regola, è non superiore a trenta giorni. Si può fissare un termine legale di pagamento fino a un massimo di sessanta giorni in due casi: per le imprese pubbliche (che svolgono attività economiche di natura industriale o commerciale, offrendo merci o servizi sul mercato) e per gli enti pubblici che forniscono assistenza sanitaria. Le parti possono concordare, in forma espressa, un termine superiore a trenta giorni, se oggettivamente giustificato dalla natura o dall'oggetto del contratto o da particolari circostanze esistenti al momento della conclusione dell'accordo, ma comunque non superiore a sessanta giorni.
VERIFICA MERCI. La durata massima delle procedure di accettazione o di verifica delle merci e dei servizi non può superare, di norma, trenta giorni.
RATE. Interessi e risarcimento devono essere calcolati esclusivamente sulle singole rate scadute.
INTERESSI DI MORA TRA PRIVATI. Per i contratti tra imprese devono essere corrisposti «interessi moratori», che sono interessi legali di mora (tasso Bce più 8%) o interessi a un tasso concordato tra le imprese.
INTERESSI DI MORA A CARICO DELLA P.A. Per i rapporti tra imprese e pubblica amministrazione, è previsto l'obbligo di corrispondere interessi legali di mora, e cioè interessi ad un tasso che non può essere inferiore al tasso legale (tasso Bce maggiorato dell'8%).
RECUPERO SPESE. Sono dovuti 40 euro fissi, come rimborso dei costi amministrativi ed interni di recupero del credito: la somma si cumula agli interessi di mora, è dovuta senza che sia necessaria la costituzione in mora e indipendentemente dalla dimostrazione dei costi. In ogni caso è salva la prova di maggiori costi sostenuti.
CLAUSOLE NULLE. La nuova direttiva codifica la grave iniquità da cui deriva la nullità delle clausole contrattuali. Nel recepire la direttiva, lo schema di decreto prevede che sono nulle, se gravemente inique, le clausole relative al termine di pagamento, al saggio degli interessi moratori e al risarcimento dei costi di recupero. La legge considera automaticamente gravemente inique, senza ammettere prova contraria, le clausole che escludono il diritto al pagamento degli interessi di mora e quelle relative alla data di ricevimento della fattura.
Sono presunte gravemente inique (e quindi possibile la prova contraria) le clausole che escludono il risarcimento dei costi di recupero. In caso di nullità, si verifica la sostituzione automatica delle clausole invalide con la disciplina legislativa. Sono nulle anche le clausole relative alla data di ricevimento della fattura, al fine di escludere che attraverso simili accordi si eluda la perentorietà del termine di pagamento.
SUBFORNITURA. Viene innalzato il tasso degli interessi legali di mora: la maggiorazione del tasso di riferimento (tasso applicato dalla Bce nelle sue più recenti operazioni di rifinanziamento) passa da sette ad otto punti percentuali.
DECORRENZA. La nuova disciplina (si veda altro articolo in pagina) si applicherà alle transazioni commerciali concluse a partire dal 01.01.2013, in anticipo rispetto alla scadenza prevista dalla normativa Ue di riferimento (16.03.2013). Quindi la nuova disciplina non si applica retroattivamente ai contratti già conclusi, ma soltanto a quelli stipulati a partire dal 01.01.2013. I destinatari delle nuove norme hanno, dunque, tempo per adeguare la modulistica contrattuale e le procedure interne di pagamento.
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Tempi brevi anche per gli appalti. E interessi salati per tutti.
Il termine di pagamento a 30 giorni che dal 1° gennaio le pubbliche amministrazioni dovranno rispettare verso i fornitori di beni e servizi si applicherà anche a tutti gli appalti.
Lo rivelano a ItaliaOggi fonti del ministero degli affari europei, guidato da Enzo Moavero Milanesi. Dunque, dal 01.01.2013 i termini di pagamento previsti (30 giorni estensibili a 60 nel caso in cui il debitore sia un'impresa pubblica, un'Asl e un ospedale) e gli interessi connessi (8 punti percentuali più il tasso legale Bce) dovranno essere rispettati per ogni genere di fornitura di beni e servizi. Lavori pubblici inclusi.
È quanto prevede il decreto legislativo, che recepisce nell'ordinamento italiano la direttiva europea sui ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali (2011/7/Ue del 16.02.2011), approvato in via definitiva il 31 ottobre dal Consiglio dei ministri, in anticipo rispetto alla scadenza fissata a marzo 2013.
La delega, frutto di un'attività di coordinamento svolta dal ministero di Moavero, è immediatamente esecutiva; non prevede cioè il passaggio dalle commissioni parlamentari. Il dlgs è ora al vaglio del Quirinale e, salvo rilievi, dovrebbe andare in G.U. la prossima settimana. Secondo quanto risulta a ItaliaOggi, tra i ministeri proponenti non comparirà lo Sviluppo economico. La motivazione è formale. La delega infatti non prevedeva alcun ruolo esplicito per il dicastero guidato da Corrado Passera.
Altro nodo sostanziale è la convivenza tra il dlgs che recepisce la direttiva pagamenti e l'art. 62 del decreto liberalizzazioni (1/2012), che impone alle transazioni tra privati tempi di pagamento certi (30 giorni per le merci deperibili e 60 giorni per i prodotti non deperibili) e contratti di fornitura scritti e firmati da entrambi i contraenti, per le forniture di prodotti agroalimentari. Fonti delle politiche europee chiariscono che la direttiva Ue non entra nel merito dei rapporti tra imprese e lascia libertà ai privati di accordarsi sui tempi diversi di pagamento, salvo che termini e interessi concordati non siano iniqui per il creditore. Stessa cosa fa il dlgs attuativo. Di conseguenza, tra le due normative non c'è conflitto.
E in Italia si applica quanto deciso dal parlamento col decreto Liberalizzazioni. Infine, per quanto riguarda la possibilità di far certificare i crediti già vantati dalle imprese verso le pubbliche amministrazioni (processo in itinere) e di incassare pagamenti a mezzo di Certificati di credito del Tesoro (Cct), il dicastero delle politiche europee chiarisce che la misura riguarda soprattutto il passato, ma non esclude una sua eventuale applicazione anche in futuro. Qualora dovessero verificarsi analoghe situazioni di difficoltà nei pagamenti delle p.a..
L'obiettivo, ovviamente, è che per i contratti di fornitura di beni e servizi, stipulati dal 01.01.2013 in poi, i nuovi termini di pagamenti a 30 giorni consentano di superare tali sofferenze. Resta, in ogni caso, esclusa ogni ipotesi di retroattività della direttiva pagamenti al debito in essere (articolo ItaliaOggi del 02.11.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIRimborsi spese dei politici assoggettati all'Iperf. Question time in commissione finanze della camera.
Rimborsi spese dei titolari di cariche elettive pagano l'Irpef.
A seguito di un'interrogazione formulata da Francesco Barbato, Idv, che chiedeva chiarimenti «in merito al trattamento fiscale applicabile alle somme corrisposte a titolo diverso dai rimborsi spese dai gruppi politici, costituiti presso le assemblee elettive a livello parlamentare o locale, ai loro componenti», Vieri Ceriani, sottosegretario al ministero dell'economia in commissione finanze alla Camera, ha precisato che le somme erogate da soggetti diversi dalle assemblee elette (parlamento, assemblee regionali, consigli provinciali e comunali) devono essere assoggettati a Irpef. Anche se si tratta di rimborsi spese.
Ciò in ossequio al combinato disposto degli art. 50, comma 1, lett. g) e 52, comma 1, lett. b) del Tuir, dal quale si evince che non la «non imponibilità» Irpef dei rimborsi in questione spetta soltanto per le somme erogate direttamente ai componenti dei collegi «dagli organi competenti a determinare i trattamenti dei soggetti stessi», vale a dire dalle diverse assemblee elette, competenti a determinare i criteri di riparto e le spese rimborsabili.
Va da sé che le somme ricevute dai parlamentari (o dai consiglieri regionali, provinciali e comunali), direttamente dai gruppi politici, ancorché a titolo di rimborso spese a piè di lista, dovranno comunque essere assoggettate a Irpef in relazione allo specifico rapporto intercorrente tra il soggetto erogatore (il gruppo politico) e il percipiente (il parlamentare o il consigliere).
Immobili di interesse storico artistico con doppia riduzione Irpef. Il corrispettivo spettante per la locazione a canone convenzionato di immobili di interesse storico o artistico, gode di una doppia riduzione ai fini Irpef. Dall'anno d'imposta 2012, infatti, il canone di locazione sarà prima ridotto del 35% e sul risultato così ottenuto spetterà un'ulteriore detrazione del 30%. In altri termini il reddito del fabbricato che concorrerà alla determinazione del reddito complessivo Irpef sarà pari al 45,5% del canone di locazione pattuito.
Lo ha precisato al question time di mercoledì scorso Vieri Ceriani in risposta a un quesito volto a conoscere se il reddito imponibile, determinato ai sensi dell'art. 37, comma 4, del Tuir vada ulteriormente ridotto del 30%, ai sensi dell'articolo 8, comma 1, della legge n. 431/1998, qualora il fabbricato riconosciuto di interesse storico o artistico sia concesso in locazione a canone convenzionato.
Il Mef, dopo avere ricordato che l'ulteriore detrazione del 30% spetta qualora l'unità immobiliare sia concessa in locazione a canone convenzionale, sulla base di appositi accordi definiti in sede locale fra le organizzazioni della proprietà edilizia e le organizzazioni dei conduttori, ha significato che l'agevolazione riguarda anche i redditi derivanti dalla locazione di immobili di interesse storico o artistico che siano ubicati in comuni cosiddetti ad alta densità abitativa e siano locati con contratti stipulati o rinnovati ai sensi del comma 3 dell'art. 2 della legge n. 431/1998 .
Tares senza differimenti. L'entrata in vigore della Tares, il nuovo tributo che dal prossimo anno andrà a sostituire la Tarsu, la Tia1 e la Tia 2, non può essere differito in quanto rientra nell'ambito di una manovra di finanza pubblica più vasta e complessa. Il sottosegretario Ceriani ha ritenuto ininfluente, al fine dell'avvio del nuovo prelievo, la mancata emanazione del regolamento con il quale i competenti ministeri, entro il 31/10/2012, avrebbero dovuto stabilire i criteri per l'individuazione del costo del servizio di gestione dei rifiuti e per la determinazione della tariffa. Trattandosi di un termine ordinatorio Vieri Ceriani precisa che nelle more dell'adozione sarà comunque possibile introdurre la Tares applicando le disposizioni del dpr n. 158/1999 (recante il cosiddetto «metodo normalizzato»).
Per quanto concerne invece la riscossione la cui tariffa se avente natura corrispettiva sarà effettuata dal soggetto affidatario del servizio di gestione dei rifiuti urbani, mentre, in ogni caso, la maggiorazione (da 30 a 40 cent di euro per ogni mq) potrà essere incassata solo dal comune, il Mef, dopo aver precisato che la distinta modalità di riscossione trova il suo fondamento nella circostanza che detta tariffa ha natura corrispettiva, mentre la maggiorazione ha natura tributaria, si è comunque dichiarato disposto a valutare l'opportunità di evitare lo sdoppiamento della modalità di riscossione, prevedendo, ad esempio, che la citata maggiorazione sia riscossa dallo stesso affidatario del servizio rifiuti il quale dovrà poi contestualmente riversarla al comune (articolo ItaliaOggi del 02.11.2012).

ENTI LOCALI: Province, 56.000 posti a rischio. Gli accorpamenti non garantiscono il mantenimento del lavoro.  Il decreto legge del governo è chiaro: si terrà conto dell'effettivo fabbisogno. Esuberi in vista.
A rischio 56.000 dipendenti provinciali. Contrariamente a quanto ha sempre asserito il governo, il «riordino» delle province non garantisce affatto il mantenimento delle posizioni lavorative dei lavoratori impiegati nelle province, per i quali, al contrario, si avvia un percorso incertissimo, sia sulla destinazione lavorativa, sia sulla stessa possibilità di proseguire il rapporto di lavoro.
Tutte le province istituite ex novo, per effetto degli accorpamenti, dovranno gestire il passaggio diretto dei dipendenti.
Il decreto legge disciplina questa fase delicatissima in modo a dir poco confuso.
Infatti, prevede che il passaggio avvenga nel rispetto della disciplina prevista dall'articolo 31 del dlgs 165/2001.
Ma questa norma, non ha nulla a che vedere con la fattispecie, in quanto è finalizzata a regolamentare il passaggio dei dipendenti pubblici verso soggetti pubblici o privati, costituiti per effetto di esternalizzazioni. C'è un ente di provenienza e un ente di destinazione.
Nel caso, invece, delle nuove province, vi è un ente neocostituito, nel quale ne confluiscono due. Non è un'esternalizzazione, ma una fusione. In effetti, manca completamente una disciplina che regolamenta simile evenienza.
Il decreto prevede un esame congiunto tra le amministrazioni provinciali interessati e i sindacati, per individuare criteri e modalità condivisi. In assenza, le nuove province adotteranno comunque gli atti necessari per il passaggio di ruolo dei dipendenti.
Tuttavia, precisa il decreto, «le relative dotazioni organiche saranno rideterminate tenendo conto dell'effettivo fabbisogno». Dunque, non si dà affatto per scontato che le nuove province assorbiranno l'intera dotazione di personale di quelle che vi confluiscono.
Occorrerà ridefinire i fabbisogni e l'obiettivo, non dichiarato esplicitamente, è quello di individuare casi di personale in esubero.
Comunque, a maggior chiarimento, il decreto lascia ferma l'applicazione della disciplina contenuta nell'articolo 16, comma 8, della legge 135/2012, che rinvia a un dpcm, per la fissazione dei criteri di virtuosità in base ai quali gli enti locali saranno tenuti a dichiarare esuberi di personale.
Il decreto precisa che l'esame congiunto con i sindacati dovrà essere attivato anche ai processi di mobilità conseguenti all'applicazione dell'articolo 17, commi 8 e 10-bis (introdotto dal decreto sul riordino), della legge 135/2012, in conseguenza del passaggio delle funzioni provinciali verso i comuni, evento che interesserà non solo le province neocostituite, ma anche quelle non interessate dal riordino territoriale.
Pertanto, i margini di incertezza sono fortissimi. Per un verso, l'effetto dell'accorpamento dei territori potrebbe determinare un quantitativo di esuberi allo stato non stimabile. Per altro verso, laddove le province non risulteranno virtuose dovranno comunque porre in disponibilità i propri dipendenti e, in ogni caso, per effetto del trasferimento delle funzioni provinciali ai comuni o alle regioni, il personale dovrà cambiare casacca.
Una migrazione di proporzioni gigantesche, decine di migliaia di dipendenti, senza che vi sia la minima indicazione generale sui criteri, in particolare per guidare il processo di passaggio verso i comuni (articolo ItaliaOggi del 02.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATA: In soffitta le commissioni di vigilanza sugli spettacoli. Nota del viminale sulla spending review.
La spending review manda in pensione definitivamente le commissioni provinciali di vigilanza sui locali di pubblico spettacolo. Ma lo stesso destino potrebbe essere riservato anche alle commissioni comunali, qualora i comuni dovessero decidere di non ritenerle indispensabili e, quindi, non confermarle. E c'è già chi immagina defaticanti conferenze di servizi che potrebbero rischiare di appesantire ancor più, invece che semplificare, i procedimenti del Suap.

È questo lo scenario che si prospetta per effetto dell'art. 12, comma 20, del dl 95/2012 letta la nota 21.09.2012 n. 557 di prot. del ministero dell'interno diretta alla prefettura di Perugia e relativa a problematiche connesse allo spettacolo viaggiante.
Del resto, la burocrazia comunale, in questo momento, naviga a vista. Ciò in quanto dal 2008 a oggi sono una ventina i decreti leggi, e le relative leggi di conversione, che hanno novellato l'ordinamento giuridico, introducendo norme in materia di semplificazione: dal dl 112/1998 al disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri il 16 ottobre scorso.
Per questo motivo è passata inosservata una disposizione, di forte impatto, contenuta nella spending review. Si tratta dell'art. 12, comma 20, del dl 06.07.2012, n. 95 (convertito nella legge 135/2012) il quale dispone che «a decorrere dalla data di scadenza degli organismi collegiali operanti presso le pubbliche amministrazioni, in regime di proroga ai sensi dell'art. 68, comma 2, del decreto legge 112/2008 (convertito nella legge 133/2008), le attività svolte dagli organismi stessi sono definitivamente trasferite ai competenti uffici delle amministrazioni nell'ambito delle quali operano».
Per individuare gli organismi collegiali nel mirino del governo tecnico occorre procedere a un'analisi complessa che porta a individuare, tra le altre, anche le commissioni provinciali di vigilanza. Ma dalla lettura delle disposizioni in questione, emerge anche che (art. 29, comma 6, l. 248/2006) regioni, province autonome, enti locali, nonché gli enti del Servizio sanitario nazionale, avrebbero dovuto operare in maniera analoga tenuto conto che «l'obiettivo di risparmio della spesa costituisce disposizioni di principio».
Ed è questo, in sostanza, il nocciolo della questione; perché non pare che, allo stato attuale, alcuna regione o alcun comune si sia mosso su questo fronte con la conseguenza che l'omissione avrebbe dovuto comportare l'implicita soppressione della commissione comunale di vigilanza pubblico spettacolo (articolo ItaliaOggi del 02.11.2012).

PUBBLICO IMPIEGO: Progressioni verticali fuorilegge. Incompatibili con la Brunetta. Non così le norme sui dirigenti. L'Aran ha raccolto le principali disposizioni contrattuali per dipendenti e manager degli enti locali.
Sono da considerare abrogate perché in contrasto con il dlgs n. 150/2009, c.d. legge Brunetta, le norme dei contratti nazionali del personale che disciplinano le progressioni verticali. Mentre non vanno considerate abrogate le regole dettate dai contratti nazionali dei dirigenti sugli incarichi, nonostante la stessa disposizione esclude questa materia da quelle che possono essere oggetto di contrattazione collettiva.
E sono da considerare superate le disposizioni che indicano in modo analitico le componenti che devono dare corso alla costituzione della parte stabile del fondo per il personale, mentre per il fondo dei dirigenti le corrispondenti disposizioni sono pienamente valide.

Sono queste alcune delle principali scelte contenute nelle raccolte sistematiche realizzate nei giorni scorsi dall'Aran delle disposizioni contrattuali dettate per il personale e per i dirigenti degli enti locali. Analoga raccolta è stata messa a punto anche per le norme contrattuali dei segretari.
Questi lavori sono assai utili, perché permettono di avere sotto mano un testo di facile ed immediata consultazione. Occorre considerare che tali elaborazioni non hanno un valore impegnativo; solamente una specifica intesa contrattuale consente di arrivare a tale risultato: per i dipendenti era stato prevista dai contratti nazionali una delega alla redazione del testo unico delle norme contrattuali, ma non è stata fino ad oggi esercitata.
Si deve subito rilevare la estrema prudenza con cui l'Aran procede nella constatazione delle disposizioni che si devono ritenere superate per contrasto con la legislazione successiva. Nel caso delle progressioni verticali si deve ricordare che questa indicazione è stata già fornita dalle sezioni unite di controllo della Corte dei conti, in quanto il dlgs n. 150/2009 prevede esclusivamente concorsi pubblici con riserva non superiore al 50% per gli interni, superando la possibilità dei concorsi e/o prove selettive interamente riservati agli interni.
Le nuove disposizioni, modificando anche per questo aspetto le regole dettate dal Ccnl 31/03/1999, hanno stabilito che gli interni debbano essere in possesso degli stessi requisiti previsti per i candidati esterni, a partire dal titolo di studio. In mancanza di specifiche indicazioni in questo senso l'Aran non se la è sentita di dichiarare abrogate le disposizioni dei contratti collettivi della dirigenza che dettano regole, discipline, criteri e durata per gli incarichi dirigenziali.
Ciò nonostante in modo esplicito il citato dlgs n. 150/2009 escluda il conferimento degli incarichi dirigenziali dalle materie oggetto di contrattazione e nonostante il dlgs n. 141/2011 stabilisca che le disposizioni dettate dalla legge cd Brunetta prevalgano sulle norme contrattuali nazionali in contrasto.
Occorre segnalare la estrema prudenza con cui l'Aran affronta uno dei nodi più caldi: la revisione del sistema delle relazioni sindacali a seguito delle novità dettate dalle citate disposizioni. È evidente che una delle finalità essenziali della legge c.d. Brunetta è costituita dal ridimensionamento del ruolo e delle prerogative delle organizzazioni sindacali; ridimensionamento che si è fin qui realizzato in misura molto parziale in quanto le volontà legislative non hanno trovato concreta applicazione nella contrattazione collettiva nazionale.
Per questa ragione le raccolte sistematiche delle norme contrattuali dei dipendenti, dei dirigenti e dei segretari si limitano a segnalare la esistenza delle nuove regole legislative, ma evitano di trarre la conseguenza della constatazione della avvenuta abrogazione delle scelte contrattuali effettuate in precedenza.
Un'altra significativa differenza che emerge dalle raccolte sistematiche dei contratti dei dipendenti e dei dirigenti è quella relativa alle regole per la costituzione del fondo per la contrattazione decentrata. Per quello dei dipendenti la raccolta considera abrogate le disposizioni dettate in modo analitico, soprattutto dall'articolo 15 del Ccnl 01/04/1999, per la costituzione della parte stabile. Si considera sufficiente il lavoro che è stato compito con l'articolo 31 del Ccnl 22/1/2004, cioè la unificazione di tutte le componenti in una voce unitaria. Invece per il fondo dei dirigenti questa scelta non viene riproposta e si torna a suggerire che la individuazione delle risorse decentrate continui ad essere articolata sulla base di tutte le voci «storiche» comprese nell'articolo 26 del Ccnl 23/12/1999.
Questa diversità, che a prima vista sembra illogica, deve invece essere considerata come pienamente giustificata in quanto nel fondo dei dirigenti, a differenza di quello del personale, non è prevista la distinzione tra la parte stabile e la parte variabile, per cui la esigenza di tornare ogni anno a verificare le regole che presiedono alla sua costituzione è pienamente giustificata (articolo ItaliaOggi del 02.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGOMobilità volontaria previa ricognizione degli esuberi. Obbligatorio per le p.a. verificare le liste di disponibilità.
La mobilità volontaria tra dipendenti delle amministrazioni pubbliche deve essere preceduta dalla verifica di dipendenti inseriti nelle liste di disponibilità, prevista dall'articolo 34-bis del dlgs 165/2001.
La nuova disciplina sugli esuberi del personale pubblico, introdotta dalla spending review, il dl 95/2012, convertito in legge 135/2012, non lascia dubbi sulla necessità di superare l'avviso espresso dalla Funzione pubblica col parere 198/2005 e ritenere obbligatorio per le amministrazioni di verificare se nelle liste di disponibilità siano presenti lavoratori in esubero, prima di effettuare qualsiasi assunzione a qualsiasi titolo, compresa la mobilità.
A suo tempo, palazzo Vidoni in merito ai rapporti tra articoli 30 (sulla mobilità volontaria) e 34-bis (sulle misure di tutela nel mercato del lavoro per i dipendenti in disponibilità) aveva sostenuto che l'interpretazione più corretta fosse di «escludere l'obbligo di comunicazione preventiva rispetto l'acquisizione di personale in mobilità». Secondo il parere della funzione pubblica, risalente a sette anni fa, la circostanza che con la mobilità non comporti l'ingresso di nuove unità nella pubblica amministrazione, bensì uno spostamento tra enti di personale già dipendente non crea «pregiudizio per i dipendenti in situazione di disponibilità», dal momento che si copre un posto vacante presso un ente, ma se ne libera simmetricamente un altro, presso un diverso ente.
La motivazione non appariva persuasiva nemmeno all'epoca dell'emanazione del parere, perché influenzata esclusivamente da logiche finanziarie. È evidente che per il lavoratore pubblico in disponibilità e, dunque, alle soglie del licenziamento, è fondamentale poter contare sulla possibilità di ricollocarsi in un ente ove sia evidenziata la carenza di organico, piuttosto che in un altro. Condizioni come la distanza dalla residenza, le modalità lavorative, l'organizzazione sono, ovviamente, fondamentali per un incontro domanda offerta.
Altrettanto fondamentale, per un lavoratore alle soglie del licenziamento, è conoscere in anticipo se un ente abbia possibilità ed intenzione di assumere qualcuno, per categoria, profilo e mansione corrispondenti, in modo da potersi proporre per ottenere l'assunzione.
Lo scopo precipuo dell'articolo 34-bis del dlgs 165/2001 è consentire ai dipendenti in disponibilità di ottenere una proposta di assunzione mediante mobilità obbligatoria, da parte di un'amministrazione che intenda bandire un concorso, così da tirare fuori il dipendente in esubero dal rischio del licenziamento. È evidente che se l'articolo 34-bis si esclude dal campo di applicazione delle procedure di mobilità volontaria di cui all'articolo 30 del dlgs 165/2001, le tutele e le opportunità per il lavoratore in disponibilità si riducono drasticamente. Il che risulta contrastare con un nuovo assetto normativo, introdotto nel 2009, che rende le procedure per mobilità sostanzialmente identiche a quelle dei concorsi, essendo necessario un avviso pubblico. Non pare abbia coerenza ridurre le tutele ai lavoratori in disponibilità ai meri adempimenti obbligatori connessi ad assunzioni per concorsi (sempre più rare), senza coinvolgerli in procedure per trasferimenti, ormai per altro pubbliche.
Il tutto, comunque, non regge più alla luce dell'articolo 2, comma 13, della legge 135/2012. Tale disposizione impone al dipartimento della funzione pubblica di censire e redigere un elenco dei posti vacanti nelle pubbliche amministrazioni, da pubblicare sul relativo sito web.
I dipendenti in disponibilità avranno il diritto di presentare domanda di ricollocazione in quei posti vacanti, con simmetrico obbligo di accoglimento, da parte delle amministrazioni, che, in caso contrario «non possono procedere ad assunzioni di personale».
Non pare più possibile, allora, che un'amministrazione assuma mediante mobilità volontaria, senza curarsi di attuare le previsioni dell'articolo 34-bis. Infatti, visto il diritto soggettivo riconosciuto ad un dipendente in disponibilità di presentare domanda su un posto vacante, se si consentisse all'amministrazione di rendere indisponibile il posto si vulnererebbe il diritto del lavoratore di attivarsi autonomamente, per ricollocarsi (articolo ItaliaOggi del 02.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Salvo l'assessore assenteista. Non decade se snobba le sedute del consiglio. Il sindaco potrà revocarlo se la condotta fa venir meno il rapporto fiduciario.
È applicabile anche alla carica di assessore comunale la disciplina relativa all'istituto della decadenza per ingiustificata assenza a più sedute dell'organo collegiale?
Il legislatore statale contempla l'ipotesi della decadenza per mancata partecipazione alle sedute con esclusivo riferimento alla carica di consigliere (art. 43, ultimo comma, del Tuel n. 267/2000; tale norma va letta in combinato disposto con l'art. 273, c. 6, del medesimo Tuel n. 267 in base al quale, nelle more dell'adozione della prescritta disciplina statutaria, trova applicazione, per il profilo considerato, il disposto dell'art. 289 del Tulcp n. 148/1915).
Nulla di analogo si prevede, alla stregua del vigente ordinamento, per la carica di assessore, a differenza dal pregresso ordinamento (v. art. 289, c. 2 del citato Tulcp n. 148/1915)
Tale circostanza è da imputarsi alla configurazione della giunta quale organo fiduciario, di diretta collaborazione con il sindaco che dispone, fra l'altro, del potere di revoca dell'assessore allorché venga meno il rapporto di fiducia alla base dell'investitura a tale carica per le più svariate cause, ivi compresa la protratta e ingiustificata assenza alle sedute, quale esternazione di un atteggiamento di indisponibilità alla prosecuzione del rapporto instaurato con l'accettazione della nomina; appare evidente come, in un'ipotesi di tale tipo, debba desumersi l'inevitabilità di una nuova valutazione da parte del sindaco in ordine alla permanenza dei presupposti che avevano condotto all'individuazione di quel soggetto quale suo stretto collaboratore per l'attuazione del programma di governo.
Pertanto, la norma dello statuto comunale che disciplina l'ipotesi della decadenza dell'assessore per assenze ingiustificate alle sedute della giunta appare di dubbia applicabilità, sia perché, secondo i comuni canoni ermeneutici, le previsioni statutarie conformate a un regime giuridico successivamente riformato possono continuare a trovare applicazione solo nella misura in cui non confliggono con il nuovo sistema; sia per la difficoltà d'individuare, nell'ambito dell'organo collegiale di cui l'amministratore locale fa parte, l'organo deputato alla valutazione della posizione dell' assessore stesso.
Infatti, se per il consiglio vale il principio, proprio degli organi collegiali elettivi, per cui la valutazione circa la posizione dei singoli componenti il consesso (cioè la legittimazione a farne parte) costituisce materia di esclusiva competenza del collegio medesimo, per la giunta non sembrerebbe possibile l'applicazione di analogo principio, trattandosi di un organo collegiale che non è elettivo, bensì nominato fiduciariamente dal sindaco che appare, pertanto, come l'unico soggetto legittimato a pronunciarsi sulla legittimità della partecipazione del singolo assessore alla compagine della giunta (articolo ItaliaOggi del 02.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Gruppi consiliari.
Il capogruppo e il vicecapogruppo possono estromettere un consigliere comunale dal gruppo consiliare, a cui l'interessato aveva aderito nel corso della consiliatura, se questo ha manifestato al presidente del consiglio la volontà di continuare a militare nel partito da cui è stato espulso e a far parte del gruppo consiliare che si identifica nel medesimo partito?

L'istituto dei gruppi consiliari non è espressamente previsto dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (in particolare, art. 38, comma 3; art. 39, comma 4, e art. 125 del dlgs n. 267/2000).
Pertanto, la costituzione così come il funzionamento dei gruppi non sono disciplinati in modo uniforme dalla fonte legislativa statale, bensì da statuto e regolamento in quanto, trattandosi di aggregazioni politiche interne ai consigli, si riconducono alla materia afferente al funzionamento dei consigli demandata, ex art. 38, commi 2 e 3, del decreto dlgs n. 267/2000, alle citate fonti normative locali.
Nel caso di specie, se le norme statutarie e regolamentari non contemplano l'evenienza dell'estromissione di un consigliere comunale dal gruppo consigliare di appartenenza ad opera del capogruppo, mentre si rinvengono chiari elementi da cui si desume che la volontà di appartenenza a un gruppo, anche nell'evenienza dell'adesione a un gruppo, diverso da quello corrispondente alla lista in cui si sia stati eletti, si riconduce esclusivamente ad una scelta individuale del diretto interessato, esercitabile nel rispetto delle condizioni poste dalla norma medesima, si ritiene sia preclusa la possibilità che un consigliere possa essere estromesso, contro la sua volontà, dal gruppo in cui è transitato legittimamente (articolo ItaliaOggi del 02.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Il termine per l’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva per le imprese che hanno partecipato alla gara decorre dalla data di notifica o comunicazione individuale dell’aggiudicazione definitiva così come dispone l’art. 79, comma 5, del codice dei contratti pubblici.
In mancanza di comunicazione individuale il termine decorre dalla conoscenza dell’atto.
E’, invece, del tutto irrilevante la pubblicazione all’albo pretorio del provvedimento con cui è stata disposta l’aggiudicazione definitiva, sussistendo, come detto, un onere per le stazioni appaltanti di portare gli esiti della procedura di gara a conoscenza dei concorrenti per mezzo di apposite comunicazioni.
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La necessità per i raggruppamenti di tipo orizzontale di indicare la quota di partecipazione riviene direttamente dall’art. 37 citato, che al comma 13 stabilisce che le imprese raggruppate devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alle quote di partecipazione, così prevedendo una esatta corrispondenza tra l’impegno assunto in sede di partecipazione e la fase dell’esecuzione.
La questione, comunque, allo stato deve ritenersi definitivamente acclarata nel senso dell’obbligo di tutti i raggruppamenti sia di tipo orizzontale che verticale di indicare già in sede di partecipazione le rispettive quote di partecipazione e di esecuzione dei lavori dalle recenti decisioni dell’adunanza plenaria n. 22 del 13.06.2012 e 24 del 2012, seppure relative al settore dei servizi.
L’orientamento giurisprudenziale citato è suffragato da una serie di argomenti di natura sistematica e teleologica che tengono conto del contesto normativo, della ratio legis e delle finalità perseguite dalla norma.
Invero, l’aggregazione economica di potenzialità organizzative e produttive per la prestazione oggetto dell’appalto, connotante l’istituto delle associazioni di imprese, non dà luogo alla creazione di un soggetto autonomo e distinto dalle imprese che lo compongono, né ad un loro rigido collegamento strutturale, per cui grava su ciascuna impresa, ancorché mandante, l’onere di documentare il possesso dei requisiti di capacità tecnico-professionale ed economico-finanziaria richiesti per l’affidamento dell’appalto. Tanto al fine di evitare l’esecuzione di quote rilevanti dell’appalto da parte di soggetti sprovvisti delle qualità all’uopo occorrenti e per consentire alla stazione appaltante l’accertamento dell’impegno e dell’idoneità delle imprese, indicate quali esecutrici a svolgere effettivamente le ‹‹parti›› di lavori indicate, in particolare consentendo la verifica della coerenza dell’offerta con i requisiti di qualificazione, e dunque della serietà e dell’affidabilità dell’offerta.
Ne consegue che l’offerta contrattuale, che non contiene la specificazione delle ‹‹parti›› dei lavori che saranno eseguite dalle singole imprese associande o associate, deve ritenersi parziale e incompleta, non permettendo di ben individuare l’esecutore di una determinata prestazione nell’ambito dell’a.t.i., e rimanendo dunque indeterminato il profilo soggettivo della prestazione offerta.
Le esigenze di controllo e di trasparenza si pongono maggiormente nei raggruppamenti a struttura orizzontale, dove tutti gli operatori riuniti eseguono il medesimo tipo di prestazioni, per cui, in difetto di specificazione è preclusa una verifica in ordine alla coerenza dei requisiti di qualificazione con l’entità delle prestazioni dalle stesse assunte e ciò anche per impedire che il raggruppamento sia utilizzato non per unire le rispettive disponibilità tecniche e finanziarie, ma per aggirare le norme di ammissione stabilite dal bando e consentire così la partecipazione di imprese non qualificate, con effetti negativi sull’interesse pubblico.

Invero, come rilevato dal TAR, il termine per l’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva per le imprese che hanno partecipato alla gara decorre dalla data di notifica o comunicazione individuale dell’aggiudicazione definitiva così come dispone l’art. 79, comma 5, del codice dei contratti pubblici.
In mancanza di comunicazione individuale il termine decorre dalla conoscenza dell’atto.
E’, invece, del tutto irrilevante la pubblicazione all’albo pretorio del provvedimento con cui è stata disposta l’aggiudicazione definitiva, sussistendo, come detto, un onere per le stazioni appaltanti di portare gli esiti della procedura di gara a conoscenza dei concorrenti per mezzo di apposite comunicazioni (cfr. Cons. Stato, VI, 25.01.2008, n. 213; 02.05.2006, n. 2445).
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La necessità per i raggruppamenti di tipo orizzontale di indicare la quota di partecipazione riviene direttamente dall’art. 37 citato, che al comma 13 stabilisce che le imprese raggruppate devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alle quote di partecipazione, così prevedendo una esatta corrispondenza tra l’impegno assunto in sede di partecipazione e la fase dell’esecuzione (in tal senso era già la disposizione dell’art. 13 della legge n. 109 del 1994, Legge Quadro in materia di lavori pubblici, abrogata dall’art. 256 del d.lgs. n. 163 del 2006, e l’art. 95 d.p.r. 21.12.1999, n. 554, recante il Regolamento di attuazione della legge quadro in materia di lavori pubblici 11.02.1994, n. 109).
La questione, comunque, allo stato deve ritenersi definitivamente acclarata nel senso dell’obbligo di tutti i raggruppamenti sia di tipo orizzontale che verticale di indicare già in sede di partecipazione le rispettive quote di partecipazione e di esecuzione dei lavori dalle recenti decisioni dell’adunanza plenaria n. 22 del 13.06.2012 e 24 del 2012, seppure relative al settore dei servizi.
L’orientamento giurisprudenziale citato è suffragato da una serie di argomenti di natura sistematica e teleologica che tengono conto del contesto normativo, della ratio legis e delle finalità perseguite dalla norma.
Invero, l’aggregazione economica di potenzialità organizzative e produttive per la prestazione oggetto dell’appalto, connotante l’istituto delle associazioni di imprese, non dà luogo alla creazione di un soggetto autonomo e distinto dalle imprese che lo compongono, né ad un loro rigido collegamento strutturale, per cui grava su ciascuna impresa, ancorché mandante, l’onere di documentare il possesso dei requisiti di capacità tecnico-professionale ed economico-finanziaria richiesti per l’affidamento dell’appalto. Tanto al fine di evitare l’esecuzione di quote rilevanti dell’appalto da parte di soggetti sprovvisti delle qualità all’uopo occorrenti e per consentire alla stazione appaltante l’accertamento dell’impegno e dell’idoneità delle imprese, indicate quali esecutrici a svolgere effettivamente le ‹‹parti›› di lavori indicate, in particolare consentendo la verifica della coerenza dell’offerta con i requisiti di qualificazione, e dunque della serietà e dell’affidabilità dell’offerta.
Ne consegue che l’offerta contrattuale, che non contiene la specificazione delle ‹‹parti›› dei lavori che saranno eseguite dalle singole imprese associande o associate, deve ritenersi parziale e incompleta, non permettendo di ben individuare l’esecutore di una determinata prestazione nell’ambito dell’a.t.i., e rimanendo dunque indeterminato il profilo soggettivo della prestazione offerta.
Le esigenze di controllo e di trasparenza si pongono maggiormente nei raggruppamenti a struttura orizzontale, dove tutti gli operatori riuniti eseguono il medesimo tipo di prestazioni, per cui, in difetto di specificazione è preclusa una verifica in ordine alla coerenza dei requisiti di qualificazione con l’entità delle prestazioni dalle stesse assunte e ciò anche per impedire che il raggruppamento sia utilizzato non per unire le rispettive disponibilità tecniche e finanziarie, ma per aggirare le norme di ammissione stabilite dal bando e consentire così la partecipazione di imprese non qualificate, con effetti negativi sull’interesse pubblico
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 31.10.2012 n. 5565 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: a) allorquando viene presentata la domanda di sanatoria, diventano inefficaci i precedenti atti sanzionatori (ordini di demolizione, inibitorie, ordini di sospensione dei lavori);
b) conseguentemente, sul piano procedimentale, il comune è tenuto innanzi tutto a esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di condono, effettuando, comunque, una nuova valutazione della situazione;
c) dal punto di vista processuale, infine, la documentata presentazione di istanza di condono comporta la improcedibilità del ricorso per carenza di interesse avverso i provvedimenti repressivi sopra indicati.
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a) nel processo di impugnazione del diniego di concessione edilizia in sanatoria sono inammissibili le censure che contestino il carattere abusivo del manufatto, atteso che il procedimento per condono, ai sensi della l. n. 47 del 1985, è ad istanza di parte e richiede una dichiarazione sostitutiva d’atto notorio relativa alla descrizione e collocazione temporale dell’abuso che s’intende sanare, la quale assume carattere e natura di atto confessorio per ciò che concerne la realizzazione dell’abuso e la sua collocazione temporale;
b) il diniego di sanatoria delle opere abusive per incompatibilità ambientale è notoriamente frutto di una valutazione tecnica ampiamente discrezionale, tipica manifestazione del potere autoritativo dell’amministrazione che, come tale, si sottrae al sindacato di legittimità, tranne le ipotesi di manifesta abnormità ovvero macroscopico travisamento dei fatti;
c) sui rapporti tra provvedimento di sanatoria edilizia e parere dell’autorità preposta alla gestione del vincolo paesaggistico è stato chiarito che l’autorità preposta alla tutela del vincolo deve verificarne la sussistenza con riferimento al momento in cui valuta la domanda di sanatoria poiché oggetto del giudizio è l’attuale compatibilità dei manufatti realizzati abusivamente; tanto anche in relazione ad una domanda di concessione edilizia in sanatoria d’immobile costruito anteriormente all’imposizione del vincolo e, comunque, nell’ipotesi di intervento della determinazione vincolistica in un torno di tempo successivo all’entrata in vigore della legge sul condono;
d) il parere negativo espresso dall’autorità preposta alla tutela del vincolo ha valore dirimente impedendo il rilascio del provvedimento di condono.

La sezione non intende decampare dai consolidati principi elaborati sul punto da questo Consiglio (cfr. da ultimo sez. V, 08.06.2011, n. 3460; sez. V, 29.12.2009, n. 8935; sez. II, 11.07.2007, n. 624/2005, cui si rinvia a mente del combinato disposto degli artt. 74, co. 1, e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.), secondo cui:
a) allorquando viene presentata la domanda di sanatoria, diventano inefficaci i precedenti atti sanzionatori (ordini di demolizione, inibitorie, ordini di sospensione dei lavori);
b) conseguentemente, sul piano procedimentale, il comune è tenuto innanzi tutto a esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di condono, effettuando, comunque, una nuova valutazione della situazione;
c) dal punto di vista processuale, infine, la documentata presentazione di istanza di condono comporta la improcedibilità del ricorso per carenza di interesse avverso i provvedimenti repressivi sopra indicati.
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Queste le censure articolate nei confronti del diniego di condono (pagine 9 – 15 del ricorso nrg. 1479/1995):
a) il comune ha errato nel qualificare come abusive le infrastrutture per cui è causa, oggetto di sanatoria solo per finalità tuzioristiche, posto che, al momento della loro realizzazione (fra il 1961 e il 1965), non era necessario acquisire né la licenza edilizia né nulla osta paesaggistico;
b) il comune ha errato nell’acquisire il parere della commissione edilizia integrata per la tutela dell’ambiente, in quanto sulle aree in questione non era presente, all’epoca della costruzione, alcun vincolo e comunque non verrebbero in rilievo vincoli successivi apposti in base alla l. n. 431 del 1985 (c.d. legge Galasso);
c) lo stato di degrado dei manufatti non costituisce motivo ostativo al condono e comunque caratterizza solo alcuni degli immobili, sicché gli altri dovevano essere condonati;
d) non è stata motivata la possibilità del cambio di destinazione d’uso di alcuni manufatti per renderli compatibili con il vincolo a zona E rurale;
e) difetto di motivazione sull’incompatibilità ambientale delle opere presenti in sito da oltre trent’anni e dunque divenute parte integrante del paesaggio e dell’ambiente.
Tutte le su riportate doglianze sono inammissibili ed infondate e devono essere respinte nella loro globalità, per le seguenti autonome ragioni e per i correlati principi elaborati da questo Consiglio in materia (cfr., da ultimo, Cons. St., sez. V, 11.01.2011, n. 79; sez. IV, 14.04.2010, n. 2086; sez. V, 07.09.2009, n. 5232; ad. plen., 22.07.1999, n. 20):
a) nel processo di impugnazione del diniego di concessione edilizia in sanatoria sono inammissibili le censure che contestino il carattere abusivo del manufatto, atteso che il procedimento per condono, ai sensi della l. n. 47 del 1985, è ad istanza di parte e richiede una dichiarazione sostitutiva d’atto notorio relativa alla descrizione e collocazione temporale dell’abuso che s’intende sanare, la quale assume carattere e natura di atto confessorio per ciò che concerne la realizzazione dell’abuso e la sua collocazione temporale;
b) il diniego di sanatoria delle opere abusive per incompatibilità ambientale è notoriamente frutto di una valutazione tecnica ampiamente discrezionale, tipica manifestazione del potere autoritativo dell’amministrazione che, come tale, si sottrae al sindacato di legittimità, tranne le ipotesi di manifesta abnormità ovvero macroscopico travisamento dei fatti; nella specie, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, non emerge che sulle aree in questione, già all’epoca della realizzazione degli interventi costruttivi, non vi fossero vincoli; è risultata al contrario, la presenza ab imis di vincolo idrogeologico e ambientale sulle aree di sedime e su quelle immediatamente circostanti come accertato dal verificatore e comprovato da debita certificazione comunale –fidafecente– e dalla stessa documentazione esibita dai ricorrenti (in particolare v. nota Soprintendenza del 1989 cit. –che non appare affatto univoca dal punto di vista oggettivo e soggettivo in quanto si riferisce a generiche aree in proprietà della ditta Italsud e non del signor Santoro, ubicate nella medesima località vallone Cernicchiara-; v. autorizzazione delle opere a sanatoria n. 6022-A del 05.09.1990 rilasciata dall’autorità preposta alla gestione del vincolo idrogeologico);
c) sui rapporti tra provvedimento di sanatoria edilizia e parere dell’autorità preposta alla gestione del vincolo paesaggistico è stato chiarito che l’autorità preposta alla tutela del vincolo deve verificarne la sussistenza con riferimento al momento in cui valuta la domanda di sanatoria poiché oggetto del giudizio è l’attuale compatibilità dei manufatti realizzati abusivamente; tanto anche in relazione ad una domanda di concessione edilizia in sanatoria d’immobile costruito anteriormente all’imposizione del vincolo e, comunque, nell’ipotesi di intervento della determinazione vincolistica in un torno di tempo successivo all’entrata in vigore della legge sul condono;
d) il parere negativo espresso dall’autorità preposta alla tutela del vincolo ha valore dirimente impedendo il rilascio del provvedimento di condono
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 31.10.2012 n. 5553 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL’obbligo legale della verifica della integrità dei plichi in seduta pubblica non esaurisce la sua funzione nella constatazione che gli stessi non hanno subito manomissioni o alterazioni, ma è destinato a garantire che il materiale documentario trovi correttamente ingresso nella procedura di gara, giacché la pubblicità delle sedute risponde all’esigenza di tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che non siano successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche dell’interesse pubblico alla trasparenza ed all’imparzialità dell’azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in mancanza di un riscontro immediato.
Tale regola costituisce corretta interpretazione dei principi comunitari e di diritto interno in materia di trasparenza e di pubblicità nelle gare per i pubblici appalti e, come tale, si applica anche all’apertura della busta dell’offerta tecnica. L’operazione, infatti, come per la documentazione amministrativa e per l’offerta economica, costituisce passaggio essenziale e determinante dell’esito della procedura concorsuale e quindi richiede di essere presidiata dalle medesime garanzie, a tutela degli interessi privati e pubblici coinvolti dal procedimento.

Com’è noto, l’Adunanza plenaria 28.07.2011 n. 13 ha enunciato il principio, già invalso nella giurisprudenza maggioritaria (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 17.09.2010 n. 6939, 10.11.2010 n. 8006, 04.03.2008 n. 901, 03.12.2008 n. 5943 e 18.03.2004 n. 1427; Sez. VI, 22.04.2008 n. 1856 e 11.10.2007 n. 5354), secondo cui l’obbligo legale della verifica della integrità dei plichi in seduta pubblica non esaurisce la sua funzione nella constatazione che gli stessi non hanno subito manomissioni o alterazioni, ma è destinato a garantire che il materiale documentario trovi correttamente ingresso nella procedura di gara, giacché la pubblicità delle sedute risponde all’esigenza di tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che non siano successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche dell’interesse pubblico alla trasparenza ed all’imparzialità dell’azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in mancanza di un riscontro immediato.
Tale regola costituisce corretta interpretazione dei principi comunitari e di diritto interno in materia di trasparenza e di pubblicità nelle gare per i pubblici appalti e, come tale, si applica anche all’apertura della busta dell’offerta tecnica. L’operazione, infatti, come per la documentazione amministrativa e per l’offerta economica, costituisce passaggio essenziale e determinante dell’esito della procedura concorsuale e quindi richiede di essere presidiata dalle medesime garanzie, a tutela degli interessi privati e pubblici coinvolti dal procedimento (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 31.10.2012 n. 1976 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIn tema di sindacabilità della discrezionalità tecnica nell’ipotesi di valutazioni operate nell’ambito di procedure concorsuali alcuni recenti pronunciamenti giurispridenziali.
In linea generale, le valutazioni tecniche sono suscettibili di sindacato giurisdizionale, non potendo ritenersi che le stesse coincidano con il merito amministrativo. Si è, inoltre, definitivamente chiarito che è necessario distinguere l'opportunità che identifica il merito, con l'opinabilità, che connota l'esercizio della discrezionalità tecnica. Ne consegue che quest'ultima è sindacabile quando risulta, in ragione del procedimento e dei criteri adottati, che la scelta tecnica sia irragionevole. Non è, però, possibile, in ossequio al principio di separazione delle funzioni giurisdizionali e amministrative, che il giudice sostituisca le valutazioni tecniche opinabili, ma non irragionevoli, espresse dall'amministrazione con proprie valutazioni.
Nel controllo sull'esercizio della discrezionalità tecnica, al giudice amministrativo è consentito, dunque, censurare la sola valutazione che si ponga al di fuori dell'ambito di opinabilità, di modo che il relativo giudizio non divenga sostitutivo con l'introduzione di una valutazione parimenti opinabile. Pertanto, il giudice amministrativo –nella ricerca di un punto di equilibrio, da verificare di volta in volta in relazione alla fattispecie concreta, tra l'esigenza di garantire la pienezza e l'effettività della tutela giurisdizionale e quella di evitare che il giudice possa esercitare egli stesso il potere amministrativo che compete all'autorità– può sindacare con pienezza di cognizione i fatti oggetto dell'indagine e il processo valutativo mediante il quale l'autorità applica al caso concreto la regola individuata, ma, ove ne accerti la legittimità sulla base di una corretta applicazione delle regole tecniche sottostanti, il suo sindacato deve arrestarsi, in quanto diversamente vi sarebbe un'indebita sostituzione del giudice all'amministrazione, titolare del potere esercitato.
Il sindacato giurisdizionale sui concetti giuridici indeterminati aventi valenza tecnica, nel rispetto della disciplina che presiede alla loro possibile impugnazione e disapplicazione, è consentito, quindi, soltanto nel caso in cui le scelte effettuate si pongano in contrasto con il principio di ragionevolezza tecnica. Non è sufficiente che la determinazione assunta sia, sul piano del metodo e del procedimento seguito, meramente opinabile; il giudice amministrativo, infatti, non può in attuazione del principio costituzionale di separazione dei poteri sostituire proprie valutazioni a quelle effettuate dall'amministrazione.
Il sindacato giurisdizionale in materia di valutazioni rimesse alla discrezionalità tecnica della p.a. (nella specie, ad un organo consultivo e temporaneo quale la commissione giudicatrice ex art. 84 d.lgs. 12.04.2006, n. 163) può svolgersi anche con la verifica dell'attendibilità delle valutazioni tecniche compiute dall'amministrazione rispetto alla correttezza dei criteri utilizzati e applicati, ma resta comunque fermo il limite della relatività delle valutazioni tecnico-scientifiche, potendo il giudice amministrativo censurare la sola valutazione che si ponga al di fuori dell'ambito di opinabilità, poiché, diversamente, all'apprezzamento opinabile dell'amministrazione sostituirebbe quello proprio e altrettanto opinabile.
E’ stato, inoltre, statuito dalla giurisprudenza più tradizionale che nell'ambito del sistema di aggiudicazione secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, le valutazioni tecniche delle commissioni di gara sono espressione di ampia discrezionalità, suscettibili di sindacato solo nei limiti della manifesta illogicità. Invero, le valutazioni delle commissioni di gara relativamente agli aspetti tecnici delle offerte sono espressione di discrezionalità tecnica sindacabile dal giudice amministrativo non attraverso una sostituzione dei giudizi, ma soltanto per manifesta illogicità o per palese travisamento dei fatti alla stregua di elementi oggettivi di riscontro e che il giudizio di discrezionalità tecnica reso dalla Commissione di gara in sede di valutazione delle offerte, essendo connotato dalla complessità delle discipline specialistiche di riferimento e dall'opinabilità dell'esito della valutazione, sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo laddove non vengano in rilievo indici sintomatici del non corretto esercizio del potere sotto i profili del difetto di motivazione, dell'illogicità manifesta e dell'erroneità dei presupposti di fatto.
Sia la scelta del criterio più idoneo per l'aggiudicazione di un appalto (tra quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa e quello del prezzo più basso), sia la scelta dei criteri più adeguati (tra quelli esemplificativamente indicati dall'art. 83, d.lgs. 12.04.2006 n. 163) per l'individuazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa, costituiscono espressione tipica della discrezionalità della stazione appaltante, e impingendo nel merito dell'azione amministrativa restano sottratte al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, tranne che, in relazione alla natura, all'oggetto e alle caratteristiche del contratto, non siano manifestamente illogiche, arbitrarie ovvero macroscopicamente viziate da travisamento di fatto, con la conseguenza che il giudice amministrativo non può sostituire con proprie scelte quelle operate dall'amministrazione. La Commissione di gara, per l'individuazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa, gode, quindi, di un'ampia discrezionalità nell'attribuzione del punteggio agli elementi costituenti l'offerta tecnica, purché in linea con i criteri predefiniti nella lex specialis di gara. Tale discrezionalità, di natura tecnico amministrativa, non può essere oggetto di sindacato giurisdizionale se non in presenza di macroscopiche irrazionalità e incongruenze.
La discrezionalità tecnica espressa dalla Commissione nell'ambito di una procedura di gara per l'affidamento di un appalto si esplica nella valutazione di fatti mediante un giudizio da effettuarsi alla stregua di canoni scientifici e tecnici e detto giudizio non può essere sindacato se non in presenza di irragionevolezza o incoerenza tecnica delle valutazioni medesime.
Si è, infine, osservato che, laddove l'attribuzione dei punteggi, analiticamente ripartiti secondo i criteri e sub-criteri della lex specialis trovi puntuale riscontro nei relativi verbali, le censure dedotte in sede di impugnazione e che prospettano una diversa valutazione delle offerte rispetto a quella seguita dalla Commissione si traducono in un inammissibile sindacato sul merito delle opzioni attinte, riservato all'amministrazione quale espressione della discrezionalità tecnica che informa la procedura.

In relazione, invece, all’assunta insindacabilità del giudizio di merito valutativo della commissione di gara, devono premettersi i più recenti orientamenti cui è pervenuta la giurisprudenza amministrativa in tema di sindacabilità della discrezionalità tecnica nell’ipotesi di valutazioni operate nell’ambito di procedure concorsuali.
E’ stato, innanzitutto, statuito in linea generale che le valutazioni tecniche sono suscettibili di sindacato giurisdizionale, non potendo ritenersi che le stesse coincidano con il merito amministrativo. Si è, inoltre, definitivamente chiarito che è necessario distinguere l'opportunità che identifica il merito, con l'opinabilità, che connota l'esercizio della discrezionalità tecnica. Ne consegue che quest'ultima è sindacabile quando risulta, in ragione del procedimento e dei criteri adottati, che la scelta tecnica sia irragionevole. Non è, però, possibile, in ossequio al principio di separazione delle funzioni giurisdizionali e amministrative, che il giudice sostituisca le valutazioni tecniche opinabili, ma non irragionevoli, espresse dall'amministrazione con proprie valutazioni.
Nel controllo sull'esercizio della discrezionalità tecnica, al giudice amministrativo è consentito, dunque, censurare la sola valutazione che si ponga al di fuori dell'ambito di opinabilità, di modo che il relativo giudizio non divenga sostitutivo con l'introduzione di una valutazione parimenti opinabile. Pertanto, il giudice amministrativo –nella ricerca di un punto di equilibrio, da verificare di volta in volta in relazione alla fattispecie concreta, tra l'esigenza di garantire la pienezza e l'effettività della tutela giurisdizionale e quella di evitare che il giudice possa esercitare egli stesso il potere amministrativo che compete all'autorità– può sindacare con pienezza di cognizione i fatti oggetto dell'indagine e il processo valutativo mediante il quale l'autorità applica al caso concreto la regola individuata, ma, ove ne accerti la legittimità sulla base di una corretta applicazione delle regole tecniche sottostanti, il suo sindacato deve arrestarsi, in quanto diversamente vi sarebbe un'indebita sostituzione del giudice all'amministrazione, titolare del potere esercitato (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 13.09.2012, n. 4873).
Il sindacato giurisdizionale sui concetti giuridici indeterminati aventi valenza tecnica, nel rispetto della disciplina che presiede alla loro possibile impugnazione e disapplicazione, è consentito, quindi, soltanto nel caso in cui le scelte effettuate si pongano in contrasto con il principio di ragionevolezza tecnica. Non è sufficiente che la determinazione assunta sia, sul piano del metodo e del procedimento seguito, meramente opinabile; il giudice amministrativo, infatti, non può in attuazione del principio costituzionale di separazione dei poteri sostituire proprie valutazioni a quelle effettuate dall'amministrazione (Cons. Stato, sez. VI, 01.06.2012, n. 3283).
Il sindacato giurisdizionale in materia di valutazioni rimesse alla discrezionalità tecnica della p.a. (nella specie, ad un organo consultivo e temporaneo quale la commissione giudicatrice ex art. 84 d.lgs. 12.04.2006, n. 163) può svolgersi anche con la verifica dell'attendibilità delle valutazioni tecniche compiute dall'amministrazione rispetto alla correttezza dei criteri utilizzati e applicati, ma resta comunque fermo il limite della relatività delle valutazioni tecnico-scientifiche, potendo il giudice amministrativo censurare la sola valutazione che si ponga al di fuori dell'ambito di opinabilità, poiché, diversamente, all'apprezzamento opinabile dell'amministrazione sostituirebbe quello proprio e altrettanto opinabile (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 08.03.2012, n. 1332).
E’ stato, inoltre, statuito dalla giurisprudenza più tradizionale che nell'ambito del sistema di aggiudicazione secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, le valutazioni tecniche delle commissioni di gara sono espressione di ampia discrezionalità, suscettibili di sindacato solo nei limiti della manifesta illogicità. Invero, le valutazioni delle commissioni di gara relativamente agli aspetti tecnici delle offerte sono espressione di discrezionalità tecnica sindacabile dal giudice amministrativo non attraverso una sostituzione dei giudizi, ma soltanto per manifesta illogicità o per palese travisamento dei fatti alla stregua di elementi oggettivi di riscontro (cfr. TAR Cagliari, sez. I, 20.02.2012, n. 137) e che il giudizio di discrezionalità tecnica reso dalla Commissione di gara in sede di valutazione delle offerte, essendo connotato dalla complessità delle discipline specialistiche di riferimento e dall'opinabilità dell'esito della valutazione, sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo laddove non vengano in rilievo indici sintomatici del non corretto esercizio del potere sotto i profili del difetto di motivazione, dell'illogicità manifesta e dell'erroneità dei presupposti di fatto (cfr. TAR Campania, sez. I, 03.04.2012, n. 1557).
Sia la scelta del criterio più idoneo per l'aggiudicazione di un appalto (tra quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa e quello del prezzo più basso), sia la scelta dei criteri più adeguati (tra quelli esemplificativamente indicati dall'art. 83, d.lgs. 12.04.2006 n. 163) per l'individuazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa, costituiscono espressione tipica della discrezionalità della stazione appaltante, e impingendo nel merito dell'azione amministrativa restano sottratte al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, tranne che, in relazione alla natura, all'oggetto e alle caratteristiche del contratto, non siano manifestamente illogiche, arbitrarie ovvero macroscopicamente viziate da travisamento di fatto, con la conseguenza che il giudice amministrativo non può sostituire con proprie scelte quelle operate dall'amministrazione. La Commissione di gara, per l'individuazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa, gode, quindi, di un'ampia discrezionalità nell'attribuzione del punteggio agli elementi costituenti l'offerta tecnica, purché in linea con i criteri predefiniti nella lex specialis di gara. Tale discrezionalità, di natura tecnico amministrativa, non può essere oggetto di sindacato giurisdizionale se non in presenza di macroscopiche irrazionalità e incongruenze.
La discrezionalità tecnica espressa dalla Commissione nell'ambito di una procedura di gara per l'affidamento di un appalto si esplica nella valutazione di fatti mediante un giudizio da effettuarsi alla stregua di canoni scientifici e tecnici e detto giudizio non può essere sindacato se non in presenza di irragionevolezza o incoerenza tecnica delle valutazioni medesime (TAR Calabria, sez. I, 03.04.2012, n. 345).
Si è, infine, osservato che, laddove l'attribuzione dei punteggi, analiticamente ripartiti secondo i criteri e sub-criteri della lex specialis trovi puntuale riscontro nei relativi verbali, le censure dedotte in sede di impugnazione e che prospettano una diversa valutazione delle offerte rispetto a quella seguita dalla Commissione si traducono in un inammissibile sindacato sul merito delle opzioni attinte, riservato all'amministrazione quale espressione della discrezionalità tecnica che informa la procedura (cfr., sul punto, TAR Liguria, sez. II, 11.04.2012, n. 526).
Solo in questi limiti, dunque, l’operato valutativo posto in essere dalla commissione di gara è sindacabile ad opera del giudice amministrativo (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 30.10.2012 n. 2628 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn pendenza del procedimento di sanatoria, il ricorso giurisdizionale avverso l’ordinanza di demolizione è improcedibile, atteso che, se la domanda di sanatoria viene favorevolmente definita, l’ingiunzione di demolizione perde efficacia, mentre, se viene respinta, l’Amministrazione dovrà necessariamente procedere, con autonomo procedimento, al riesame dell’intera fattispecie ed emanare un nuovo provvedimento sanzionatorio con assegnazione in tal caso di un nuovo termine per eseguirlo, con la conseguenza, anche in quest’ultimo caso, dell’inefficacia del precedente provvedimento demolitorio.
Non appare coerente con i principi dell’ordinamento e di quelli di logicità e razionalità consentire, senza la previa valutazione della domanda di sanatoria dell’abuso, la distruzione di un bene di valenza economica che potrebbe, in caso di conformità del manufatto alle previsioni urbanistico-edilizie, essere assentito dopo la sua distruzione.

Si osserva infatti che la giurisprudenza, condivisa da questo Tribunale, ha avuto modo di affermare che, in pendenza del procedimento di sanatoria, il ricorso giurisdizionale avverso l’ordinanza di demolizione è improcedibile, atteso che, se la domanda di sanatoria viene favorevolmente definita, l’ingiunzione di demolizione perde efficacia, mentre, se viene respinta, l’Amministrazione dovrà necessariamente procedere, con autonomo procedimento, al riesame dell’intera fattispecie ed emanare un nuovo provvedimento sanzionatorio con assegnazione in tal caso di un nuovo termine per eseguirlo, con la conseguenza, anche in quest’ultimo caso, dell’inefficacia del precedente provvedimento demolitorio (Cfr. Cons. di Stato – Sez. IV – 03/12/2010 n. 8502; TAR Piemonte - TO – Sez. I – 07/04/2011 n. 358; TAR Liguria Genova - sez. I - 28.01.2011 n. 169; TAR Lazio Roma - sez. II - 22.12.2010 n. 38234; TAR Campania Napoli - sez. VI - 25.10.2010 n. 21366; TAR Lombardia Milano - sez. IV – 08.09.2010 n. 5159; TAR Campania – SA – 22/02/2011 n. 350)
E’ stato anche osservato che non appare coerente con i principi dell’ordinamento e di quelli di logicità e razionalità consentire, senza la previa valutazione della domanda di sanatoria dell’abuso, la distruzione di un bene di valenza economica che potrebbe, in caso di conformità del manufatto alle previsioni urbanistico-edilizie, essere assentito dopo la sua distruzione (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 30.10.2012 n. 1968 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'art. 2 della L. n. 241/1990 ha fissato un principio generale secondo cui ove il procedimento consegue obbligatoriamente ad un'istanza del privato ovvero debba essere iniziato d'ufficio, la P.A. ha il dovere di concluderlo mediante l'adozione di un provvedimento espresso; in particolare, giusta la previsione di cui all'art. 2, comma 3, della suddetta disposizione la P.A. è tenuta a definire i procedimenti attivati dai privati entro il termine di 90 giorni dal deposito della relativa istanza.
La giurisprudenza ha però rilevato che l'obbligo non sussiste nelle ipotesi di:
a) istanza di riesame dell'atto inoppugnabile per spirare del termine di decadenza;
b) istanza manifestamente infondata;
c) istanza di estensione ultra partes del giudicato.

Va preliminarmente ricordato che l'art. 2 della L. n. 241/1990 ha fissato un principio generale secondo cui ove il procedimento consegue obbligatoriamente ad un'istanza del privato ovvero debba essere iniziato d'ufficio, la P.A. ha il dovere di concluderlo mediante l'adozione di un provvedimento espresso; in particolare, giusta la previsione di cui all'art. 2, comma 3, della suddetta disposizione la P.A. è tenuta a definire i procedimenti attivati dai privati entro il termine di 90 giorni dal deposito della relativa istanza.
La giurisprudenza ha però rilevato che l'obbligo non sussiste nelle ipotesi di:
a) istanza di riesame dell'atto inoppugnabile per spirare del termine di decadenza (cfr. ex multis: Cons. St., Sez. IV, n. 69/1999; TAR Napoli, Sez. III, n. 5014/200);
b) istanza manifestamente infondata (cfr.: Cons. St., Sez. IV, n. 6181/2000; TAR Napoli, Sez. III, n. 1969/2002);
c) istanza di estensione ultra partes del giudicato (Cons. St., Sez. VI, n. 4592/2001) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 30.10.2012 n. 1748 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa nozione di pertinenza, in materia edilizia, è più ristretta di quella civilistica ed è riferibile solo a manufatti tali da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio, cioè di dimensioni modeste e ridotte rispetto alla cosa cui ineriscono.
La giurisprudenza richiede che dette opere, per loro natura, risultino funzionalmente ed esclusivamente inserite al servizio di un manufatto principale, siano prive di autonomo valore di mercato e non valutabili in termini di cubatura (o comunque dotate di volume minimo e trascurabile), in modo da non poter essere utilizzate autonomamente e separatamente dal manufatto cui accedono.
La Sezione ha sottolineato che la strumentalità non può mai desumersi dalla destinazione soggettivamente data dal proprietario e devono comportare una circoscritta incisione sul cd. “carico urbanistico”. Peraltro, la norma regionale -pur non fornendo una definizione del concetto di pertinenzialità, sicché deve farsi riferimento al concetto, generalmente accettato, di pertinenza in materia edilizia- ha cura di specificare che le strutture pertinenziali debbono essere “prive di funzionalità autonoma”.
Va rilevato che la proporzionalità del manufatto accessorio rispetto a quello principale non può costituire l’unico criterio di giudizio, dovendo in concomitanza operare anche il criterio oggettivo, dato che, in caso contrario, si perverrebbe a riconoscere carattere pertinenziale a qualsiasi nuova costruzione, in palese contrasto con la ratio sottesa alla norma regionale.

La norma invece esclude dal divieto suddetto le (sole) strutture pertinenziali degli edifici prive di funzionalità autonoma, sicché viene in rilievo quanto articolato dai ricorrenti con il secondo profilo di doglianza del primo motivo, vale a dire la possibilità di qualificare l’opera abusiva come pertinenza.
Si tratta dunque di determinare quali strutture risultino ascrivibili a tale definizione.
Al riguardo la Sezione ha svolto (cfr. la sentenza 01.07.2010 n. 2408) le seguenti considerazioni.
Sotto un primo profilo, va ricordato che la nozione di pertinenza, in materia edilizia, è più ristretta di quella civilistica ed è riferibile solo a manufatti tali da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio, cioè di dimensioni modeste e ridotte rispetto alla cosa cui ineriscono.
La giurisprudenza richiede (cfr. da ultimo Cons. St. Sez. IV, 17.05.2010 n. 3127 e precedenti ivi richiamati) che dette opere, per loro natura, risultino funzionalmente ed esclusivamente inserite al servizio di un manufatto principale, siano prive di autonomo valore di mercato e non valutabili in termini di cubatura (o comunque dotate di volume minimo e trascurabile), in modo da non poter essere utilizzate autonomamente e separatamente dal manufatto cui accedono.
La Sezione (cfr. TAR Brescia 11.01.2006 n. 32) ha sottolineato che la strumentalità non può mai desumersi dalla destinazione soggettivamente data dal proprietario e devono comportare una circoscritta incisione sul cd. “carico urbanistico”. Peraltro, la norma regionale -pur non fornendo una definizione del concetto di pertinenzialità, sicché deve farsi riferimento al concetto, generalmente accettato, di pertinenza in materia edilizia- ha cura di specificare che le strutture pertinenziali debbono essere “prive di funzionalità autonoma”.
Va rilevato che la proporzionalità del manufatto accessorio rispetto a quello principale non può costituire l’unico criterio di giudizio, dovendo in concomitanza operare anche il criterio oggettivo, dato che, in caso contrario, si perverrebbe a riconoscere carattere pertinenziale a qualsiasi nuova costruzione, in palese contrasto con la ratio sottesa alla norma regionale.
Venendo ora a fare applicazione dei suddetti principi alla fattispecie all’esame occorre rilevare che si è in presenza (cfr. il doc. n. 4a) di un’ abitazione avente la superficie di mq. 150,78; di una autorimessa di mq. 50,16, rispetto ai quali risulta difficile poter riconoscere carattere pertinenziale, sotto il profilo urbanistico, all’opera in questione: una tettoia di mq. 65,83 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 30.10.2012 n. 1747 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'istituto del preavviso di rigetto di cui all'art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, stante la sua portata generale, trova applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio.
Tuttavia tale omissione non sempre determina l'annullabilità del provvedimento qualora venga a trovare applicazione il disposto dell'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della legge n. 241 del 1990 ("non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato").
Invero, il provvedimento di diniego di condono edilizio costituisce espressione di potere vincolato rispetto ai presupposti normativi richiesti e dei quali deve farsi applicazione.

Con riguardo al secondo motivo, va osservato che (cfr. da ultimo TAR Bari, sez. III 05.04.2012 n. 676) l'istituto del preavviso di rigetto di cui all'art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, stante la sua portata generale, trova applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio (cfr. TAR Bari, Sez. III, 22.09.2011, n. 1383, TAR Liguria, Sez. I, 22.04.2011, n. 666).
Tuttavia tale omissione non sempre determina l'annullabilità del provvedimento qualora venga a trovare applicazione il disposto dell'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della legge n. 241 del 1990 ("non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato").
Invero, il provvedimento di diniego di condono edilizio costituisce espressione di potere vincolato rispetto ai presupposti normativi richiesti e dei quali deve farsi applicazione (cfr. TAR Liguria, Sez. I, 22.04.2011, n. 666, Cons. St., Sez. IV, 14.04.2010, n. 2105; TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 22.07.2010, n. 3253, TAR Bari, Sez. III, 08.03.2012, n. 520) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 30.10.2012 n. 1747 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl silenzio-rifiuto disciplinato dall'ordinamento è istituto riconducibile a inadempienza dell'Amministrazione, in rapporto a un sussistente obbligo di provvedere; tale obbligo può discendere dalla legge, da un regolamento o anche da un atto di autolimitazione dell'Amministrazione stessa, e in ogni caso deve corrispondere a una situazione soggettiva protetta, qualificata come tale dall'ordinamento.
Peraltro, al di là dell’obbligo normativamente imposto alla P.A. di concludere il procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso e motivato (artt. 2 e 3 L. n. 241/1990), appartiene a una giurisprudenza consolidata il principio secondo cui l’Amministrazione è parimenti tenuta a pronunciarsi laddove ragioni di giustizia ed equità impongono l’adozione di un provvedimento, nonché tutte le volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni amministrative, quali che esse siano.

Il silenzio-rifiuto disciplinato dall'ordinamento è istituto riconducibile a inadempienza dell'Amministrazione, in rapporto a un sussistente obbligo di provvedere; tale obbligo può discendere dalla legge, da un regolamento o anche da un atto di autolimitazione dell'Amministrazione stessa, e in ogni caso deve corrispondere a una situazione soggettiva protetta, qualificata come tale dall'ordinamento (Cons. St., sez. IV, 04.09.1985, n. 333 e 06.02.1995, n. 51; sez. V, 06.06.1996, n. 681 e 15.09.1997, n. 980, Consiglio Stato, sez. VI, 11.11.2008, n. 5628, Consiglio Stato, sez. IV, 22.06.2006, n. 3883).
Peraltro, al di là dell’obbligo normativamente imposto alla P.A. di concludere il procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso e motivato (artt. 2 e 3 L. n. 241/1990), appartiene a una giurisprudenza consolidata il principio secondo cui l’Amministrazione è parimenti tenuta a pronunciarsi laddove ragioni di giustizia ed equità impongono l’adozione di un provvedimento, nonché tutte le volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni amministrative, quali che esse siano (C. St. Sez. VI 14.10.1992 n. 762; TAR Campania I Sez. 28.06.2001 n. 1034; TAR Puglia–Lecce III sez. 21.12.2007 n. 4370) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 25.10.2012 n. 1807 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione dell'istanza di sanatoria -sia essa di accertamento di conformità, sia essa di condono- produce l'effetto di rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio dell'ingiunzione di demolizione e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse. Invero, il riesame dell'abusività dell'opera provocato dalla predetta istanza di sanatoria comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (esplicito o implicito, di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
Infatti, nell'ipotesi di rigetto dell'istanza, l'Amministrazione dovrà adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, con l'assegnazione di un nuovo termine per adempiere. Del pari, in caso di positiva delibazione dell'istanza non si avrebbe più interesse alla definizione del giudizio, essendo stato sanato il lamentato abuso, con effetto estintivo anche delle sanzioni acquisitive, eventualmente già adottate.

Ritiene il Collegio che il ricorso sia improcedibile, conformemente al consolidato orientamento giurisprudenziale, espresso, da ultimo, nella seguente massima: "La presentazione dell'istanza di sanatoria -sia essa di accertamento di conformità, sia essa di condono- produce l'effetto di rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio dell'ingiunzione di demolizione e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse. Invero, il riesame dell'abusività dell'opera provocato dalla predetta istanza di sanatoria comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (esplicito o implicito, di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
Infatti, nell'ipotesi di rigetto dell'istanza, l'Amministrazione dovrà adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, con l'assegnazione di un nuovo termine per adempiere. Del pari, in caso di positiva delibazione dell'istanza non si avrebbe più interesse alla definizione del giudizio, essendo stato sanato il lamentato abuso, con effetto estintivo anche delle sanzioni acquisitive, eventualmente già adottate
" (cfr. ex multis TAR Campania Napoli, sez. III, 11.09.2009, n. 4918) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 22.10.2012 n. 1920 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPur nel nuovo sistema introdotto dagli artt. 2 e 3 L. 07.08.1990 n. 241, il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica di cui all’art. 13 L. 28.02.1985 n. 47 (ora, art. 36 T.U. 06.06.2001 n. 380), ha natura di atto tacito di reiezione (e quindi di silenzio-significativo) e non di silenzio-rifiuto.
Ne consegue che tale provvedimento, in quanto tacito, è ope legis privo di motivazione ed è perciò impugnabile non per tale carenza, bensì per il suo contenuto tipico di rigetto.

In punto di rito, occorre premettere che, pur nel nuovo sistema introdotto dagli artt. 2 e 3 L. 07.08.1990 n. 241, il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica di cui all’art. 13 L. 28.02.1985 n. 47 (ora, art. 36 T.U. 06.06.2001 n. 380), ha natura di atto tacito di reiezione (e quindi di silenzio-significativo) e non di silenzio-rifiuto.
Ne consegue che tale provvedimento, in quanto tacito, è ope legis privo di motivazione ed è perciò impugnabile non per tale carenza, bensì per il suo contenuto tipico di rigetto (cfr. TAR Campania, Salerno, Sez. II, 07.03.2008 n. 257) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 22.10.2012 n. 1909 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa demolizione e successiva ricostruzione di un rudere è qualificabile come intervento di nuova costruzione, in quanto la ristrutturazione edilizia dev’essere sempre rivolta alla conservazione di un edificio ancora esistente e strutturalmente identificabile al momento dell’inizio dei lavori.
Orbene, in materia edilizia, anche alla luce delle disposizioni contenute nel T.U. 06.06.2001 n. 380, la demolizione e successiva ricostruzione di un rudere è qualificabile come intervento di nuova costruzione, in quanto la ristrutturazione edilizia dev’essere sempre rivolta alla conservazione di un edificio ancora esistente e strutturalmente identificabile al momento dell’inizio dei lavori (cfr. Cass. pen., Sez. III, 28.03.2003 n. 14455; Cons. Stato, Sez. V, 10.02.2004 n. 475).
Ne consegue che, già sulla scorta del titolo di proprietà esibito dalla parte ricorrente, ai fini richiesti dall’interessato non potevano essere autorizzati semplici lavori di ristrutturazione (TAR Umbria, sentenza 22.10.2012 n. 440 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACorrettamente, nel motivare l’atto di annullamento impugnato, la P.A. non ha compiuto un approfondito accertamento della sussistenza di una situazione di interesse pubblico attuale e concreto idoneo a giustificare il ricorso all’autotutela, in quanto il rilascio dello stesso è derivato da un’erronea rappresentazione dei fatti -non importa se dolosa o colposa- da parte del privato richiedente.
Va infine soggiunto che correttamente, nel motivare l’atto di annullamento impugnato, la P.A. non ha compiuto un approfondito accertamento della sussistenza di una situazione di interesse pubblico attuale e concreto idoneo a giustificare il ricorso all’autotutela, in quanto il rilascio dello stesso è derivato da un’erronea rappresentazione dei fatti -non importa se dolosa o colposa- da parte del privato richiedente (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 12.10.2004 n. 6554) (TAR Umbria, sentenza 22.10.2012 n. 440 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse, atteso che a seguito dell'istanza di sanatoria l'ordinanza di demolizione deve essere sostituita o dalla concessione in sanatoria o da un nuovo provvedimento sanzionatorio.
Più precisamente, la presentazione dell’istanza di sanatoria per opere edilizie già oggetto di provvedimenti sanzionatori determina l’improcedibilità del ricorso proposto nei confronti di quest'ultimi e ciò in quanto la ricorrente non può avere alcun interesse a coltivare un gravame concernente misure che —all’esito del procedimento di sanatoria— dovranno essere sostituite con un nuovo provvedimento sanzionatorio ovvero dal titolo edilizio rilasciato in sanatoria.
Invero, posto che la presentazione dell’istanza di sanatoria dell'abuso edilizio produce in capo all'Amministrazione l'obbligo di avviare e concludere il relativo procedimento con provvedimento espresso e motivato, la determinazione amministrativa, in caso di contenuto favorevole al privato, avrà come effetto l'integrale soddisfacimento delle sue pretese con conseguente cessazione della materia del contendere del ricorso giurisdizionale avverso la demolizione dell'opera, mentre, in caso di rigetto della domanda, la lesione della sfera giuridica del richiedente originerà da questo nuovo provvedimento e dalla rinnovata misura sanzionatoria che a tale atto dovrà necessariamente seguire, con conseguente improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse.

Infatti, secondo costante giurisprudenza (TAR Piemonte Torino, sez. I, 07.04.2011, n. 358), la presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse, atteso che a seguito dell'istanza di sanatoria l'ordinanza di demolizione deve essere sostituita o dalla concessione in sanatoria o da un nuovo provvedimento sanzionatorio.
Più precisamente si afferma in sede pretoria (TAR Lazio Roma, sez. II, 01.02.2011, n. 936) che la presentazione dell’istanza di sanatoria per opere edilizie già oggetto di provvedimenti sanzionatori determina l’improcedibilità del ricorso proposto nei confronti di quest'ultimi e ciò in quanto la ricorrente non può avere alcun interesse a coltivare un gravame concernente misure che —all’esito del procedimento di sanatoria— dovranno essere sostituite con un nuovo provvedimento sanzionatorio ovvero dal titolo edilizio rilasciato in sanatoria.
Invero, posto che la presentazione dell’istanza di sanatoria dell'abuso edilizio produce in capo all'Amministrazione l'obbligo di avviare e concludere il relativo procedimento con provvedimento espresso e motivato, la determinazione amministrativa, in caso di contenuto favorevole al privato, avrà come effetto l'integrale soddisfacimento delle sue pretese con conseguente cessazione della materia del contendere del ricorso giurisdizionale avverso la demolizione dell'opera, mentre, in caso di rigetto della domanda, la lesione della sfera giuridica del richiedente originerà da questo nuovo provvedimento e dalla rinnovata misura sanzionatoria che a tale atto dovrà necessariamente seguire, con conseguente improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 19.10.2012 n. 1902 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACome si evince dall’art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 -che dispone la decadenza “di diritto” dal permesso di costruire per mancato inizio dei lavori nel termine di un anno dal rilascio dello stesso- il provvedimento dichiarativo di decadenza ha natura ricognitiva e si concreta in un atto d’accertamento il cui effetto nasce ex lege, conseguendone che siffatto effetto può essere evitato, come la medesima la disposizione legislativa prevede, solo a seguito dell’accoglimento della domanda di proroga dell’efficacia del titolo di assentimento inoltrata anteriormente alla scadenza dello stesso.
Si deve, poi, osservare che, come si evince dall’art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 che dispone la decadenza “di diritto” dal permesso di costruire per mancato inizio dei lavori nel termine di un anno dal rilascio dello stesso, il provvedimento dichiarativo di decadenza ha natura ricognitiva e si concreta in un atto d’accertamento il cui effetto nasce ex lege (Cfr. Cons. di Stato – Sez. IV – 10/08/2007 n. 4423; TAR - Liguria – GE – Sez. I – 11/12/2007 n. 2050), conseguendone che siffatto effetto può essere evitato, come la medesima la disposizione legislativa prevede, solo a seguito dell’accoglimento della domanda di proroga dell’efficacia del titolo di assentimento inoltrata anteriormente alla scadenza dello stesso, circostanza questa non verificatasi nel caso in esame (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 19.10.2012 n. 1900 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAA regioni e comuni, ciascuno per la parte di sua competenza, è consentito introdurre criteri localizzativi degli impianti di stazione radio mobile ai sensi degli artt. 3, comma 1, lett. d) e 8, commi 1, lett. e), e 6 della L. 22.02.2001 n. 36, mentre non è consentito introdurre limitazioni alla localizzazione.
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Non è consentito agli enti territoriali introdurre criteri distanziali generici ed eterogenei, come la prescrizione di distanze minime dal perimetro esterno di edifici destinati ad abitazioni, a luoghi di lavoro o ad attività diverse da quelle specificamente connesse all’esercizio degli impianti stessi, di ospedali, case di cura e di riposo, edifici adibiti al culto, scuole e asili nido nonché di immobili vincolati ai sensi della legislazione sui beni storico-artistici o individuati come edifici di pregio storico-architettonico, di parchi pubblici, parchi gioco, aree verdi attrezzate ed impianti sportivi.
Eventuali disposizioni regolamentari in contrasto con la normativa imperativa nazionale devono essere direttamente disapplicate dal giudice amministrativo, configurando le richieste dei soggetti interessati all’installazione degli impianti espressione di un diritto soggettivo che non può essere limitato da discipline locali che, se in contrasto con la normativa nazionale, sono recessive.
Comunque, anche a fronte di posizioni di interesse legittimo, il giudice amministrativo ha il potere-dovere di disapplicare d’ufficio le norme regolamentari illegittime per palese contrasto con la disposizione legislativa per l’esecuzione della quale il regolamento è stato emanato
.
- Rilevato che la domanda di autorizzazione per la realizzazione di stazione radio base, avanzata dalla società ricorrente in data 29.12.2011, è stata respinta dal comune di Baiano in ragione della sua localizzazione in aree qualificate come “territoriale urbanizzata” e come “sensibile” dall’art. 3 del regolamento comunale per l’insediamento di impianti di telecomunicazione e radiotelevisivi, sulle quali “non possono essere installati impianti”;
- Ritenuto che, nell’ambito della definizione degli obiettivi di qualità, a regioni e comuni, ciascuno per la parte di sua competenza, è consentito introdurre criteri localizzativi degli impianti di stazione radio mobile ai sensi degli artt. 3, comma 1, lett. d) e 8, commi 1, lett. e), e 6 della L. 22.02.2001 n. 36, mentre non è consentito introdurre limitazioni alla localizzazione (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 09.06.2006 n. 3452);
- Ritenuto che per giurisprudenza anche di questo Tribunale:
--- non è consentito agli enti territoriali introdurre criteri distanziali generici ed eterogenei, come la prescrizione di distanze minime dal perimetro esterno di edifici destinati ad abitazioni, a luoghi di lavoro o ad attività diverse da quelle specificamente connesse all’esercizio degli impianti stessi, di ospedali, case di cura e di riposo, edifici adibiti al culto, scuole e asili nido nonché di immobili vincolati ai sensi della legislazione sui beni storico-artistici o individuati come edifici di pregio storico-architettonico, di parchi pubblici, parchi gioco, aree verdi attrezzate ed impianti sportivi (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 14.03.2007 n. 5445; Sez. I, 10.03.2005 n. 1708);
--- eventuali disposizioni regolamentari in contrasto con la normativa imperativa nazionale devono essere direttamente disapplicate dal giudice amministrativo, configurando le richieste dei soggetti interessati all’installazione degli impianti espressione di un diritto soggettivo che non può essere limitato da discipline locali che, se in contrasto con la normativa nazionale, sono recessive (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. I, 05.04.2004, n. 4044 e Sez. VII, 14.03.2007 n. 5445; TAR Abruzzo, L’Aquila, 04.07.2006, n. 500);
--- comunque, anche a fronte di posizioni di interesse legittimo, il giudice amministrativo ha il potere-dovere di disapplicare d’ufficio le norme regolamentari illegittime per palese contrasto con la disposizione legislativa per l’esecuzione della quale il regolamento è stato emanato (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 29.05.2008 n. 2535; C.G.A. 09.07.2007 n. 561) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 19.10.2012 n. 1893 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl diritto di accesso è conformato dalla legge per offrire al titolare, più che utilità finali (caratteristica, questa, ormai riconoscibile non solo ai diritti soggettivi, ma anche agli interessi legittimi), poteri autonomi di natura procedimentale, aventi finalità strumentali di tutela di posizioni sostanziali propriamente dette, sia di diritto soggettivo, sia di interesse legittimo.
Pertanto, la valutazione della p.a. sulla sussistenza di un interesse concreto, attuale e differenziato all’accesso, che si risolve nel requisito di ammissibilità della relativa azione, si sostanzia solo nell’accertamento dell’esistenza di un legittimo bisogno differenziato di conoscenza in capo a chi richiede i documenti, e sempre che la richiesta di accesso non sia preordinata ad un controllo generalizzato ed indiscriminato di chiunque sull’azione amministrativa (espressamente vietato dall’art. 24, comma 3, l. 241/1990).

E’ principio ormai pacifico quello secondo cui il diritto di accesso è conformato dalla legge per offrire al titolare, più che utilità finali (caratteristica, questa, ormai riconoscibile non solo ai diritti soggettivi, ma anche agli interessi legittimi), poteri autonomi di natura procedimentale, aventi finalità strumentali di tutela di posizioni sostanziali propriamente dette, sia di diritto soggettivo, sia di interesse legittimo (ex plurimis, Cons. Stato, III, 07.08.2012, n. 530 e Ad. Plen. n. 6/2006).
Pertanto, la valutazione della p.a. sulla sussistenza di un interesse concreto, attuale e differenziato all’accesso, che si risolve nel requisito di ammissibilità della relativa azione, si sostanzia solo nell’accertamento dell’esistenza di un legittimo bisogno differenziato di conoscenza in capo a chi richiede i documenti, e sempre che la richiesta di accesso non sia preordinata ad un controllo generalizzato ed indiscriminato di chiunque sull’azione amministrativa (espressamente vietato dall’art. 24, comma 3, l. 241/1990) (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 19.10.2012 n. 1692 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTUALIL'appalto è aperto. Ok al progettista collaboratore p.a.. Tar Lazio: niente stop se la consulenza non dà vantaggi.
Un professionista che ha collaborato con la stazione appaltante per gli studi preparatori di un appalto può partecipare alla gara con una impresa di costruzioni se la sua collaborazione non ha determinato effettivi vantaggi competitivi rispetto agli altri concorrenti.

Lo afferma il TAR Lazio-Roma, Sez. I, con la sentenza 18.10.2012 n. 8595 che affronta il tema della portata dell'art. 90, comma 8 del Codice contratti in relazione all'incompatibilità del progettista in un appalto integrato (di progettazione esecutiva e costruzione) affidato sulla base di un progetto preliminare.
L'impresa aveva indicato quale progettista qualificato un professionista che aveva avuto modo di collaborare alla redazione degli studi specialistici del progetto preliminare. Si doveva quindi verificare se si fosse determinata una asimmetria informativa con gli altri partecipanti alla gara, tale da alterare la concorrenza.
Il Tar premette che la ratio della norma del Codice è quella di evitare che colui che ha avuto una parte determinante nell'elaborazione del progetto posto a base di gara possa poi concorrere all'aggiudicazione della stessa, compromettendo o falsando la concorrenza tra i partecipanti alla gara stessa, a esclusivo favore dell'impresa posta in grado di profittare di informazioni riservate attinenti alla fase progettuale, o addirittura giovandosi di un progetto redatto in maniera da favorire nell'aggiudicazione l'impresa stessa.
La sentenza richiama quindi la giurisprudenza Ue del 2005 (sentenza del 03 marzo, sez. III) che ha avuto modo di chiarire che la normativa nazionale non può ex se precludere, la partecipazione alla gara di un soggetto che sia stato incaricato della ricerca, della sperimentazione, dello studio o dello sviluppo di attività propedeutiche a un appalto, «senza che si conceda alla medesima la possibilità di provare che, nel caso di specie, l'esperienza da essa acquisita non possa falsare la concorrenza».
Occorre, quindi, una valutazione caso per caso sulla reale configurabilità di una simmetria informativa che evidenzi la presenza di «indizi seri, precisi e concordanti sulla circostanza che il partecipante alla gara, o il soggetto a questo collegato, abbia rivestito un ruolo determinante nell'indirizzo delle scelte dell'amministrazione o ne abbia ricevuto un tale flusso di informazioni riservate da falsare la concorrenza».
Nel caso specifico, la verifica fatta dalla commissione giudicatrice aveva fatto emergere alcuni elementi ritenuti sufficienti ad escludere l'incompatibilità alla partecipazione alla gara di lavori: a) l'alterità della predisposizione del documento tecnico alla cui redazione ha collaborato il professionista e dell'apporto specifico fornito dal professionista rispetto alla formazione dell'elaborato progettuale posto a base di gara; b) la integrale rimessione della fase progettuale dell'intervento a funzionari pubblici; c) la soluzione di continuità intervenuta nell'andamento di tale fase; d) la messa a disposizione degli studi specialistici a tutti i partecipanti.
Diverso sarebbe stato, ovviamente, laddove il professionista avesse predisposto materialmente il progetto posto a base di gara (articolo ItaliaOggi del 02.11.2012 - tratto da www.corteconti.it).

INCARICHI PROGETTUALI: Progettisti nelle gare di appalto: quali incompatibilità?
Il TAR Lazio-Roma, Sez. I, con la corposa sentenza 18.10.2012 n. 8595 ha fornito un interessante orientamento giurisprudenziale in merito alle incompatibilita' per i progettisti ai sensi del comma 8, dell'articolo 90, del Codice degli Appalti Pubblici.
In merito, si deve rilevare che il citato art. 90, comma 8, del D.Lgs. n. 163/2006 testualmente dispone che: “Gli affidatari di incarichi di progettazione non possono partecipare agli appalti o alle concessioni di lavori pubblici, nonché agli eventuali subappalti o cottimi, per i quali abbiano svolto la suddetta attività di progettazione; ai medesimi appalti, concessioni di lavori pubblici, subappalti e cottimi non può partecipare un soggetto controllato, controllante o collegato all'affidatario di incarichi di progettazione. Le situazioni di controllo e di collegamento si determinano con riferimento a quanto previsto dall'articolo 2359 del codice civile. I divieti (….) sono estesi ai dipendenti dell'affidatario dell'incarico di progettazione, ai suoi collaboratori nello svolgimento dell'incarico e ai loro dipendenti, nonché agli affidatari di attività di supporto alla progettazione e ai loro dipendenti”.
L’Autorità per la Vigilanza sui Contratti, al pari della giurisprudenza, ha già avuto modo di evidenziare la ratio e la portata della disposizione applicata nel caso di specie dalla stazione appaltante, ricordando che incorre nel divieto in essa sancito il partecipante alla procedura di affidamento di lavori che abbia predisposto o abbia avuto modo di conoscere, anche indirettamente, la progettazione preliminare, in quanto è sufficiente il solo sospetto della possibile lesione della trasparenza nella circolazione delle informazioni legate all’intervento, a costituire un vulnus al principio della par condicio.
Ciò rileva soprattutto in considerazione del criterio di aggiudicazione prescelto per l’affidamento dei lavori di cui trattasi, che è quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa nell’ambito del quale sono previsti specifici punteggi per le soluzioni progettuali migliorative proposte in sede di offerta tecnica.
La vicenda Il Sindaco di un ente locale nella qualità di Commissario delegato per l’emergenza traffico indiceva in data 25.01.2010 una procedura aperta ai sensi dell’art. 53, comma 2, lett. c), del Codice degli Appalti Pubblici per l’affidamento della progettazione e realizzazione della “piattaforma logistica intermodale con annesso scalo portuale” .
Il disciplinare di gara prevedeva l’attribuzione alle offerte dei partecipanti ammessi alla gara di un punteggio complessivo massimo pari a 100, da determinarsi sulla base di elementi di valutazione in parte qualitativi, in forza di valutazioni discrezionali della competente commissione esaminatrice (75/100), in parte oggettivi (25/100).
A conclusione dei lavori, protrattisi per 17 sedute, la commissione valutatrice formalizzava in data 27/28.07.2010 la graduatoria di merito della gara, nella quale si classificava al primo posto, l’offerta di una SPA .
Una delle ditte partecipanti classificatasi al quarto posto della graduatoria richiedeva infruttuosamente alla stazione appaltante, mediante memorie e diffide, l’esclusione dalla gara dei soggetti figuranti nelle prime tre posizioni e l’aggiudicazione a se dei lavori. Intervenivano nel procedimento l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture e l’Avvocatura dello Stato.
Con decreto n. 26 del 22.08.2011 il Commissario delegato aggiudicava definitivamente la gara alla SPA classificatasi prima in graduatoria.
L’analisi del TAR La contestazione avanzata dalla società ricorrente era relativa al fatto che vi era la presenza, tra i progettisti incaricati di un ingegnere con elementi di incompatibilità in quanto già collaboratore nell’ambito della redazione della relazione generale degli studi specialistici del progetto del porto oggetto dell’affidamento ; in sostanza era contestato la contestuale partecipazione alla gara di un professionista sotto la duplice veste di progettista per la stazione appaltante e affidatario o dipendente/consulente dell’affidatario.
Al riguardo, l’Avvocatura dello Stato premette che la ratio della normativa risponde all’esigenza di assicurare par condicio, trasparenza e concorrenzialità nello svolgimento delle procedure a evidenza pubblica, ciò in particolare mirando a evitare che colui che ha avuto una parte determinante nell’elaborazione del progetto posto a base di gara possa poi concorrere all’aggiudicazione della stessa.
L’Avvocatura dello Stato osserva che la giurisprudenza comunitaria recepita da pronunciamenti del giudice nazionale, ha evidenziato come l’art. 90, comma 8, del Codice degli Appalti Pubblici sia norma di stretta interpretazione e che la normativa nazionale non può precludere, pena la violazione del principio di proporzionalità e di libertà di iniziativa economica, la presentazione di una domanda di partecipazione o di una offerta per un appalto pubblico di lavori, di forniture o di servizi da parte di una impresa (o di una persona fisica alla stessa collegata nei termini sopra considerati) che sia stata incaricata della ricerca, della sperimentazione, dello studio o dello sviluppo di tali lavori, forniture o servizi, senza che si conceda alla medesima la possibilità di provare che, nel caso di specie, l’esperienza da essa acquisita non possa falsare la concorrenza.
Il TAR osserva che le norme sulle incompatibilità ed i connessi divieti agiscono in prevenzione, ovvero sono norme che tendono a prevenire il pericolo di pregiudizio, e, verificato il caso di incompatibilità, tendono a salvaguardare la genuinità della gara attraverso la prescrizione del divieto di partecipazione; le stesse non presuppongono né intervenuta la lesione, né la sussistenza di un concreto tentativo di compromissione.
E’, dunque, sufficiente che gli indizi (ferma la loro serietà, precisione e concordanza) riguardino situazioni che, oggettivamente, pongono un determinato concorrente in una posizione di squilibrio (per sé favorevole) nei confronti degli altri concorrenti, e tale da determinare, indipendentemente dal concretizzarsi del vantaggio, una violazione della par condicio.
Il Tribunale amministrativo ritiene di dover concordare:
• sia con il professionista, quando afferma, nelle stesse controdeduzioni, che l’esperienza acquisita dalla partecipante alla gara di appalto mediante l’indicazione del progettista non era idonea a falsare la concorrenza, non rinvenendosi in capo alla stessa, per il suo tramite, alcun vantaggio ingiustificato, derivante dalla conoscenza di elementi specifici, non in possesso delle altre imprese pure partecipanti;
• sia con la commissione di gara che, nel vagliare la posizione della stessa partecipante ha escluso che lo stesso potesse essere escluso dalla partecipazione alla competizione per l’indicazione di cui trattasi.
Può ancora aggiungersi e l’elemento ancora testimonia a sfavore della tesi della ditta ricorrente che le conclusioni cui è pervenuta la commissione di gara in relazione alla posizione della partecipante e dell’ingegnere sono state comunicate dalla stazione appaltante anche all’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, nell’ambito dell’esame da quest’ultima effettuato di una più ampia serie di questioni relative alla gara per cui è causa, e sono state oggetto di un vaglio sostanzialmente favorevole da parte dell’Autorità, espressamente per quanto concerne l’andamento e la consistenza del segmento procedimentale costituito dalla predetta verifica, avendo la detta Autorità rilevato, con atto n. 51360 del 10.05.2011, che “la commissione ha seguito una procedura completa, acquisendo ulteriore documentazione e le controdeduzioni dell’impresa” , senza null’altro approfondire o richiedere sul punto (commento tratto da www.ispoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare, nell'offerta economica oneri di sicurezza da indicare sempre.
Va esclusa da una gara di appalto di servizi un'impresa che abbia omesso di indicare specificamente, nell'offerta economica, l'importo relativo agli oneri per la sicurezza, a nulla rilevando che la lex specialis non prevedeva alcunché al riguardo.

Una ditta partecipante alla gara indetta dall’Autorità garante per le comunicazioni per l’affidamento del servizio di monitoraggio dei contenuti della pubblicità televisiva trasmessa dalle emittenti nazionali, ha impugnato il provvedimento di propria esclusione dalla procedura a cagione della mancata indicazione nell’offerta economica degli oneri di sicurezza .
Al riguardo, ha evidenziato che il disciplinare di gara richiedeva, oltre al resto, la presentazione della dichiarazione riguardante la regolarità della posizione dei partecipanti relativamente agli obblighi in materia di sicurezza e condizioni di lavoro, senza tuttavia prevedere l’onere di indicare (anche) i costi di sicurezza.
Per tal ragione, l’interessata è insorta avverso il menzionato provvedimento di esonero dalla gara, contestando la violazione dell’art. 86, comma 3-bis e dell’art. 87, comma 4, D.Lgs. n, 163/2006 alla stregua della considerazione per cui la mancata previsione, nel bando come nel disciplinare di gara, dell’obbligo di specifica indicazione dei costi della sicurezza, avrebbe eliminato la ricorrenza, in capo ai partecipanti, dell’onere di rappresentazione di questi ultimi in seno all’offerta.
Il ricorso è stato respinto.
Il Collegio di Roma, in primis, non ha ritenuto meritevole di condivisione la prospettazione avanzata dalla ricorrente per cui la propria esclusione sarebbe stata illegittimamente disposta in assenza di un’espressa previsione nel disciplinare dell’obbligo di indicazione dei costi inerenti la sicurezza.
Sul proposito, ha osservato come questi ultimi costi, ai sensi dell'art. 87, comma 4, D.Lgs. n. 163/2006: "… devono essere specificamente indicati nell'offerta e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture".
Parallelamente, ha richiamato il disposto di cui al precedente art. 86, comma 3-bis, secondo cui: "… nella predisposizione delle gare d’appalto e nella valutazione dell'anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all'entità e alle caratteristiche dei lavori, dei `servizi o delle forniture".
Sicché, in virtù delle menzionate disposizioni, il giudicante non ha potuto che constatare come sulla ricorrente gravasse l’onere di segnalare tutti i costi che riteneva di sopportare al fine di adempiere esattamente agli obblighi di sicurezza sul lavoro; tanto, al duplice fine di assicurare una consapevole formulazione dell'offerta economica, nonché di consentire alla stazione appaltante la valutazione della congruità dell'importo destinato ai costi per la sicurezza.
Siffatta considerazione, del resto, non è stata neppure scalfita dalla circostanza per cui, ai sensi dell’art. 131, D.Lgs. n. 163/2006, solo nei bandi di gara relativi agli appalti di lavori devono essere evidenziati gli oneri di sicurezza non soggetti a ribasso.
Infatti, l’adito G.A. ha precisato che nelle altre procedure di gara, in assenza della preventiva fissazione del costo per la sicurezza quale specifica componente del costo del lavoro, il relativo importo dev’essere, in linea di principio, scorporato dalle offerte dei singoli concorrenti e sottoposto a verifica ai fini della congruità dello stesso rispetto alle esigenze di tutela dei lavoratori.
Pertanto, la mancanza di una specifica previsione sul tema in seno alla contestata lex specialis non escludeva che l’applicabilità della predetta norma primaria e, dunque, l’imposizione dell’obbligo di indicare separatamente i costi per la sicurezza.
Al contempo, ha considerato che, nonostante la mancanza di una comminatoria espressa nella disciplina speciale di gara, l'inosservanza della suddetta prescrizione primaria da parte della ricorrente aveva comportato la sanzione dell'esclusione a causa della presentazione di un'offerta incompleta, rispetto alla quale la stazione appaltante non aveva potuto esercitare un adeguato controllo sull'affidabilità della stessa (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 23.07.2010, n. 4849; TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, 20.04.2011, n. 583).
Una diversa opzione interpretativa -attraverso un’eventuale integrazione del dato mancante nell'ambito della procedura in contraddittorio ex art. 88, D.Lgs. n. 163/2006- avrebbe determinato, a opinione del Collegio capitolino, una sorta di interpretatio abrogans della disciplina normativa che, invero, riserva una specifica attenzione ai costi di sicurezza in ragione della particolare delicatezza dei valori in gioco.
Alla stregua di quanto evidenziato, il Tribunale amministrativo di Roma ha ritenuto legittimo l’impugnato provvedimento di esclusione dalla gara, ancorché l’obbligo di indicazione dei costi di sicurezza non era presidiato da un’omologa disposizione di lex specialis (cfr., TAR Veneto, Sez. I, 22.11.2011, n. 1720) (commento tratto da www.iposa.it - TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 17.10.2012 n. 8522 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAL’interesse pubblico all’annullamento del provvedimento autorizzatorio va rinvenuto nell’esigenza di salvaguardia dell’assetto territoriale così come disciplinato dalle norme edilizie e di piano, mentre non si configura alcuna posizione di legittimo affidamento in capo alla ricorrente, anche in considerazione del breve arco temporale intercorso tra la data del rilascio del permesso di costruire successivamente annullato (05.07.2000) e l’attivazione delle garanzie partecipative di cui al procedimento di autotutela (comunicazione di avvio del procedimento contenuta nell’ordinanza n. 44 del 21.11.2000), circostanza che impone di qualificare tale periodo come "termine ragionevole" per un valido esercizio della potestà di annullamento ai sensi dell’art. 21-nonies della legge 07.08.1990 n. 241.
Nella comparazione dell’interesse pubblico con l’interesse privato sacrificato, infatti, quest’ultimo è più debole ove l’atto di autotutela non incida su posizioni soggettive consolidatesi nel tempo.

Ed invero, nel caso in esame, l’interesse pubblico all’annullamento del provvedimento autorizzatorio va rinvenuto nell’esigenza di salvaguardia dell’assetto territoriale così come disciplinato dalle norme edilizie e di piano, mentre non si configura alcuna posizione di legittimo affidamento in capo alla ricorrente, anche in considerazione del breve arco temporale intercorso tra la data del rilascio del permesso di costruire successivamente annullato (05.07.2000) e l’attivazione delle garanzie partecipative di cui al procedimento di autotutela (comunicazione di avvio del procedimento contenuta nell’ordinanza n. 44 del 21.11.2000), circostanza che impone di qualificare tale periodo come "termine ragionevole" per un valido esercizio della potestà di annullamento ai sensi dell’art. 21-nonies della legge 07.08.1990 n. 241 (TAR Puglia Lecce, sez. II, 23.06.2012, n. 1136; TAR Campania Napoli, sez. II, 26.10.2011, n. 4923).
Nella comparazione dell’interesse pubblico con l’interesse privato sacrificato, infatti, quest’ultimo è più debole ove l’atto di autotutela non incida su posizioni soggettive consolidatesi nel tempo (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 16.10.2012 n. 1676 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL’informativa antimafia tipica cd. interdittiva non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certi sull’esistenza della contiguità dell’impresa con organizzazione malavitose e quindi del condizionamento in atto dell’attività di impresa, ma può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa verificarsi il tentativo di ingerenza nell’attività imprenditoriale della criminalità organizzata.
Anche se occorre che siano individuati (ed indicati) idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili collegamenti con le organizzazioni malavitose che sconsigliano l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con la pubblica amministrazione, non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e con l’ausilio di indagini che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo.
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La misura interdittiva prefettizia per tentativo di infiltrazione mafiosa non è sufficientemente motivata sulla mera scorta della frequentazione di soggetti malavitosi od anche del rapporto di parentela con gli stessi, in mancanza di una loro specifica significatività e pregnanza circa la finalizzazione al condizionamento mafioso dell’attività imprenditoriale, essendo necessari ulteriori elementi indiziari, quali il carattere plurimo e stabile delle frequentazioni e la loro connessione con vicende dell’impresa, che depongano nel senso di un’attività sintomaticamente connessa a logiche ed interessi malavitosi.

Premesso che:
- l’informativa antimafia tipica cd. interdittiva non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certi sull’esistenza della contiguità dell’impresa con organizzazione malavitose e quindi del condizionamento in atto dell’attività di impresa, ma può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa verificarsi il tentativo di ingerenza nell’attività imprenditoriale della criminalità organizzata;
- anche se occorre che siano individuati (ed indicati) idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili collegamenti con le organizzazioni malavitose che sconsigliano l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con la pubblica amministrazione, non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e con l’ausilio di indagini che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 19.01.2012 n. 254).
Ritenuto tuttavia che, secondo la giurisprudenza costante, la misura interdittiva prefettizia per tentativo di infiltrazione mafiosa non è sufficientemente motivata sulla mera scorta della frequentazione di soggetti malavitosi od anche del rapporto di parentela con gli stessi, in mancanza di una loro specifica significatività e pregnanza circa la finalizzazione al condizionamento mafioso dell’attività imprenditoriale, essendo necessari ulteriori elementi indiziari, quali il carattere plurimo e stabile delle frequentazioni e la loro connessione con vicende dell’impresa, che depongano nel senso di un’attività sintomaticamente connessa a logiche ed interessi malavitosi (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 23.02.2012 n. 1068; Sez. VI, 28.04.2010 n. 2441 e 19.10.2009 n. 6380; TAR Emilia-Romagna, Parma, 26.07.2011 n. 271) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 10.10.2012 n. 1820 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOSentenza della Cassazione. L'unico obbligo è riferire all'assemblea, ma non serve l'autorizzazione. Amministratore sempre in causa. Il condomino può citare in giudizio senza alcuna limitazione.
L'amministratore di condominio può essere convenuto in giudizio senza alcuna limitazione e senza bisogno dell'autorizzazione dell'assemblea per qualunque azione relativa alle parti comuni promosse contro il condominio da terzi o anche dal singolo condomino: in tal caso l'amministratore ha il solo obbligo di riferire all'assemblea, con la conseguenza che la sua presenza in giudizio esclude la necessità di citare in giudizio tutti i condomini.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nella recente sentenza 04.10.2012 n. 16901.
La vicenda che ha portato a tale decisione prendeva l'avvio allorché un condomino si rivolgeva al giudice di pace richiedendo che fosse accertata la titolarità del vano soffitta (che sosteneva di aver usucapito) e la quota di millesimi di proprietà che era certo fosse inferiore rispetto a quella utilizzata dall'amministratore per la ripartizione delle spese. In ogni caso il condomino pretendeva che il condominio fosse condannato alla restituzione delle maggiori somme pagate a partire dall'approvazione del regolamento condominiale e della relativa tabella millesimale. Si costituiva in giudizio il condominio che rilevava, tra l'altro, come l'amministratore non potesse stare in giudizio per questo tipo di vertenza e fosse necessario chiamare in causa tutti i condomini, nessuno escluso. Il giudice di pace dava ragione al condominio, ritenendo la domanda dell'attore come richiesta di modificazione della tabella millesimale.
Successivamente il Tribunale confermava la sentenza di primo grado cambiando, tuttavia, motivazione. Quest'ultimo, infatti, aveva ritenuto che il condomino non avesse domandato la modifica delle tabelle millesimali, ma avesse solo denunciato l'errore in cui era incorso l'amministratore, attribuendo al medesimo una quota di millesimi di proprietà maggiore rispetto a quella che gli sarebbe spettata in base alla tabella millesimale allegata al regolamento. Ma, sempre secondo il tribunale, il condomino aveva anche domandato un accertamento di proprietà (del sottotetto) che non andava chiesto nei confronti del condominio ma di tutti i condomini, e sotto questo profilo, aveva dichiarato la mancata legittimazione passiva dell'amministratore. In ogni caso, lo stesso tribunale aveva aggiunto come il condominio, nel chiederne l'accertamento della titolarità, non avesse allegato alcun titolo di proprietà esclusiva sul vano soffitto indicato nell'atto di citazione.
Queste considerazioni non sono state condivise dalla Cassazione, perché il giudice di appello avrebbe dovuto accertare, comunque, anche in via incidentale se il condomino fosse proprietario del vano soffitta e, in mancanza di altro titolo di acquisto, se lo stesso lo avesse acquistato per usucapione. D'altra parte, secondo i giudici supremi, il condomino non aveva richiesto il mero accertamento dell'errore materiale delle tabelle, ma anche l'accertamento del fatto che egli fosse titolare di una quota (minore) di millesimi di proprietà relativi al sottotetto, e dunque, un accertamento di proprietà. Tale accertamento, come precisato dalla Cassazione, poteva certamente essere richiesto citando il giudizio solo l'amministratore del condominio che, senza limiti, può resistere anche in ordine alle azioni di natura reale relative alle parti comuni dell'edificio promosse contro il condominio da terzi o anche dal singolo condomino. In tal caso l'amministratore ha il solo obbligo di riferire all'assemblea, con la conseguenza che la sua presenza in causa esclude la necessità di chiamare in causa tutti i condomini.
In ogni caso, merita di essere rilevato che, secondo l'attuale orientamento dei giudici di legittimità, se anche il condomino avesse richiesto la revisione delle tabelle per errore (errata misurazione della superficie o della cubatura di un'unità immobiliare, operazioni matematiche di calcolo errate, confusione della stima di un'unità con quella di un'altra ecc.), non sarebbe stato necessario chiamare in giudizio tutti i condomini, in quanto tale richiesta può essere rivolta al condominio in persona dell'amministratore. La revisione (e l'approvazione) delle tabelle, infatti, viene ritenuta come una semplice operazione tecnica e non un'attività di natura contrattuale che richieda il consenso di tutti i condomini (articolo ItaliaOggi Sette del 05.11.2012).

EDILIZIA PRIVATALa costruzione di una tettoia deve rispettare le distanze legali?
La realizzazione di una struttura metallica con tettoia sul muro di confine, anche se priva di pareti di chiusura, è da considerarsi a tutti gli effetti una costruzione ai fini della distanza dal confine.

Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, Sez. IV, con sentenza 02.10.2012 n. 16776 nel rispetto delle distanze tra edifici, ai sensi dell’art. 873 del Codice Civile, che impone la misura di almeno 3 metri come distanza legale.
Il caso riguarda la realizzazione di una tettoia da parte di un circolo di tennis e il proprietario del terreno confinante il quale, presentato ricorso in Cassazione, chiede la rimozione della stessa e il risarcimento per i danni provocati dalla costruzione sul proprio muro confinante.
La risposta della Cassazione è positiva: la tettoia in questione è da considerarsi una costruzione avendo i caratteri della stabilità, consistenza ed immobilizzazione al suolo e, in quanto tale, deve rispettare le norme del codice sulle distanze minime.
Gli ermellini, dopo il rigetto di primo e secondo grado, accolgono il ricorso del proprietario del fondo: sia per il risarcimento del danno che per la rimozione della tettoia (link a www.acca.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI SERVIZIDeve ritenersi legittimo il ricorso all’istituto della ordinanza contingibile ed urgente per la proroga del contratto in essere in quanto, malgrado il Comune non si sia tempestivamente attivato per la indizione della gara per l’affidamento del servizio in questione, la situazione di pericolo per la salute pubblica e l’ambiente connesse alla gestione dei rifiuti, non fronteggiabile adeguatamente con le ordinarie misure, legittimava comunque il Sindaco all’esercizio dei poteri extra ordinem riconosciutigli dall’ordinamento giuridico (art. 50 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267).
Del resto, secondo un orientamento giurisprudenziale pienamente condiviso dal collegio, le ordinanze sindacali contingibili ed urgenti prescindono dall'imputabilità all'Amministrazione o a terzi ovvero a fatti naturali, delle cause che hanno generato la situazione di pericolo: pertanto, di fronte all'urgenza di provvedere, non rileva affatto chi o cosa abbia determinato la situazione di pericolo che il provvedimento è rivolto a rimuovere.
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L’ordinanza contingibile ed urgente impugnata deve ritenersi illegittima nella parte in cui il Sindaco ha ordinato all’A.T.I. ricorrente la prosecuzione del servizio di gestione dei rifiuti, mantenendo invariato il corrispettivo economico fissato col precedente contratto (risalente al 04.12.2003).
Il principio generale secondo il quale in materia di provvedimenti contingibili ed urgenti deve essere arrecato al privato destinatario dell'ordinanza il minor sacrificio possibile comporta l’obbligo di non imporre, attraverso il ricorso ai poteri extra ordinem, corrispettivi ancorati a valori risalenti nel tempo e non preceduti dalla previa verifica della loro idoneità a remunerare con carattere di effettività il servizio reso.
Invero, il provvedimento contingibile ed urgente non può giustificare anche una sorta di prezzo imposto dall'Amministrazione al privato, dovendo all’obbligo di proseguire nell'espletamento del servizio essere connessa la corresponsione di un giusto compenso per il destinatario del provvedimento. L’imposizione di una prestazione ad un prezzo non più corrispondente ai prezzi di mercato determinerebbe, infatti, un ingiustificato sacrificio dell'iniziativa economica privata a beneficio della p.a., con violazione dei principi desumibili dall'art. 41 Cost..

La società SI.ECO s.p.a., in proprio e quale mandante dell’A.T.I. con Ecologica s.p.a. (mandataria) sottoscriveva con il Comune di Ginosa, in data 04.12.2003 (Rep. n. 9/2003), un contratto d’appalto per la gestione dei rifiuti urbani nel territorio comunale per la durata di n. 7 (sette) anni.
Durante la vigenza del contratto la società Avvenire s.r.l. subentrava, a seguito della cessione di ramo d’azienda, alla società Ecologica s.p.a.
La scadenza naturale del contratto del contratto (fissata per il 03.12.2010) è stata inizialmente prorogata di quattro mesi (con deliberazione di G.C. n. 379 del 02.011.2011 e determinazione n. 739 del 12.11.2001) e successivamente di ulteriori due mesi (con deliberazione di G.C. n. 77 del 31.03.2011 e determinazione n. 278 dell’08.04.2011), in base all’art. 33 del capitolato speciale d’appalto, a norma del quale l’impresa appaltatrice era tenuta ad assicurare il servizio per un arco di tempo non superiore a sei mesi alle stesse condizioni contrattuali del contratto scaduto (la proroga è stata giustificata dall’Ente con la necessità di indire una nuova gara per l’affidamento del servizio).
Successivamente, con ordinanza n. 80 del 07.06.2011, il Sindaco di Ginosa, dopo aver rappresentato che la gara indetta per l’aggiudicazione dell’appalto era andata deserta (per mancanza di offerte valide), al fine di assicurare la prosecuzione del servizio e di garantire la tutela della salute dei cittadini e dell’ambiente, ha disposto l’ulteriore prosecuzione del rapporto contrattuale “agli stessi patti e condizioni del Contratto Rep. n. 9 del 05.12.2003 fino al 30.09.2011 ed in ogni caso fino al subentro del nuovo gestore”.
Avverso la predetta ordinanza sono insorte le società ricorrenti (Avvenire s.r.l.; SI.ECO s.p.a.), contestandone la legittimità e chiedendone il conseguente annullamento.
...
Deve infatti ritenersi non illegittimo il ricorso all’istituto della ordinanza contingibile ed urgente per la proroga del contratto in essere in quanto, malgrado il Comune non si sia tempestivamente attivato per la indizione della gara per l’affidamento del servizio in questione, la situazione di pericolo per la salute pubblica e l’ambiente connesse alla gestione dei rifiuti, non fronteggiabile adeguatamente con le ordinarie misure, legittimava comunque il Sindaco all’esercizio dei poteri extra ordinem riconosciutigli dall’ordinamento giuridico (art. 50 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267).
Del resto, secondo un orientamento giurisprudenziale pienamente condiviso dal collegio, le ordinanze sindacali contingibili ed urgenti prescindono dall'imputabilità all'Amministrazione o a terzi ovvero a fatti naturali, delle cause che hanno generato la situazione di pericolo: pertanto, di fronte all'urgenza di provvedere, non rileva affatto chi o cosa abbia determinato la situazione di pericolo che il provvedimento è rivolto a rimuovere (Consiglio di Stato, Sez. V, del 09.11.1998 n. 1585; Tar Campania Napoli, Sez. I, 27.03.2000 n. 813).
L’ordinanza impugnata deve ritenersi, invece, illegittima nella parte in cui il Sindaco ha ordinato all’A.T.I. ricorrente la prosecuzione del servizio di gestione dei rifiuti, mantenendo invariato il corrispettivo economico fissato col precedente contratto (risalente al 04.12.2003).
Il principio generale secondo il quale in materia di provvedimenti contingibili ed urgenti deve essere arrecato al privato destinatario dell'ordinanza il minor sacrificio possibile comporta l’obbligo di non imporre, attraverso il ricorso ai poteri extra ordinem, corrispettivi ancorati a valori risalenti nel tempo e non preceduti dalla previa verifica della loro idoneità a remunerare con carattere di effettività il servizio reso.
Secondo un condivisibile e consolidato orientamento giurisprudenziale, il provvedimento contingibile ed urgente non può giustificare anche una sorta di prezzo imposto dall'Amministrazione al privato, dovendo all’obbligo di proseguire nell'espletamento del servizio essere connessa la corresponsione di un giusto compenso per il destinatario del provvedimento. L’imposizione di una prestazione ad un prezzo non più corrispondente ai prezzi di mercato determinerebbe, infatti, un ingiustificato sacrificio dell'iniziativa economica privata a beneficio della p.a., con violazione dei principi desumibili dall'art. 41 Cost. (Consiglio di Stato, Sez. V, 02.12.2002 n. 6624) (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 16.04.2012 n. 691 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 02.11.2012

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IN EVIDENZA

Licenziato il geometra comunale: primo licenziamento senza motivo nel pubblico impiego !!

PUBBLICO IMPIEGO: Geometra di 53 anni in mobilità per due anni, poi più niente. Sindaco bersaniano licenzia un dipendente pubblico in esubero.
C'è un sindaco che licenzia i lavoratori pubblici in esubero. È quello di Carnago nel Varesotto. Un geometra di 53 anni, in municipio da 11, è stato messo in mobilità (due anni all'80% dello stipendio) perché di troppo secondo una ricognizione della pianta organica.
È la prima volta che accade in Italia, ha assicurato la cronaca milanese del Corsera. Una rottamazione bella e buona, direbbe qualcuno. Anche perché in questo comune del Varesotto anziché sventolare il labaro leghista, ondeggia proprio la bandiera democrat. E dunque il sindaco dal taglio facile è l'ennesimo renziano? No, anzi è un bersaniano tutto d'un pezzo, uno di quegli amministratori lombardi che, pronti-via, hanno firmato il loro sostegno a Pier Luigi Bersani. E forse non ci pensava Maurizio Andreoli Andreoni, 58 anni, medico di base specializzato in ematologia, con passione per la politica, prima assessore al bilancio e dal 2009 sindaco, sconfiggendo con 1400 voti i lumbard, che questo singolare primato, del licenziamento di un pubblico dipendente cadesse proprio nel mezzo di primarie di coalizione piuttosto vivaci proprio per colpa (o per merito) degli esponenti del suo partito.
Ormai però è andata: Enrico Cirrincione, ha ricevuto la lettera con allegata delibera comunale che gli indica la porta d'uscita del palazzo municipale. Il sindaco ha allargato le braccia, ha «parlato di un esercito senza generali», e portando a esempio proprio il settore del licenziato, ha protestato che il suo comune «ha quattro geometri e solo due stradini», ha ricordato l'uscita dolce con due annualita pagate per oltre i tre quarti, ha negato insomma qualsiasi fatto personale col mobilitando Cirrincione. Il quale invece, al medesimo giornale, ricordando di non aver mai avuto un richiamo né un provvedimento disciplinare e di sentirsi mobbizzato. E rammentando, anche di uno screzio che c'era stato fra lui e il sindaco quando, anni prima, il medico faceva l'assessore.
La vicenda, par di capire, oltre a fare scuola per le nuove norme che regolano la Pubblica amministrazione si trasferirà presto davanti al magistrato del lavoro, anche perché la Cisl, ma soprattutto la Cgil, sono scatenatissime e parlano del mancato rispetto delle procedure e si sono precipitate ieri a incontrare l'amministrazione e minacciano lo sciopero. E qualche ricaduta politica potrebbe non mancare se si considera che il vicesindaco della giunta «rottamatrice» è il segretario provinciale del Pd di Varese, Fabrizio Taricco, che, come la stragrande maggioranza dei segretari provinciali piddini d'Italia, sta con Bersani. Quando anzi, il segretario nazionale decise di far partire proprio dal capoluogo le primarie, il vicesindaco lo visse come un successo personale.
Il sito Varese Report riporta ancora una dichiarazione soddisfatta: «Il fatto che Bersani inizi da qui la presentazione della Carta d'intenti rappresenta per noi anche il riconoscimento di cinque anni di grande e appassionato lavoro per la costruzione del Partito democratico sul territorio», aveva detto Taricco. Il guaio è che proprio a Varese, Renzi aveva trovato un convinto supporter nell'ex candidato sindaco Alessandro Alfieri, consigliere regionale, che aveva abbandonato la corrente di Enrico Letta per mettersi dalla sua, organizzandogli, in una domenica di ottobre, un mega raduno in un teatro cittadino.
Il licenziamento di Carnago, seppure edulcorato dalla mobilità, entrerà nel dibattito delle primarie, in cui spesso s'è cercato di accreditare Renzi del più forsennato liberismo, ricordando spesso le sue polemiche con la Cgil? Se lo chiedono anche al già citato ristorante, fra i commenti del ricco «menu di Halloween»: gnocchi di zucca con taleggio e noci, cosciotto di maiale con patate e frittelle, ancora di zucca. A 22 euro (articolo ItaliaOggi dell'01.11.2012).

     Altri articoli sull'argomento ...

La prima volta dell'amministrazione pubblica. A Carnago un funzionario licenziato per esubero. Il posto pubblico non è più sicuro. Il comune di Carnago in provincia di Varese ha licenziato per esubero un funzionario. È la prima volta che un'amministrazione pubblica adotta un provvedimento di questo genere ... (link a http://www.ilsole24ore.com).

Geometra licenziato per esubero dal Comune. I sindacati: "Non rispettate le norme"  - L'amministrazione di Carnago (VA) ha messo in mobilità il responsabile dell'ufficio tecnico. Per i sindacati "il primo caso di licenziamento per esubero senza motivazioni nel pubblico impiego'' ... (link a http://www.ilgiorno.it).

Enzo, il primo licenziato del pubblico: “Geometra, non servi più - In 34 anni di onesto lavoro il geometra Enzo Cirrincione a tutto pensava fuorché stabilire un record e diventare famoso suo malgrado: è infatti il primo dipendente pubblico in Italia a essere licenziato perché in esubero. Come un metalmeccanico, come un dipendente di una azienda privata ... (link a http://nuvola.corriere.it).

Carnago, via il geometra del Comune. “Primo licenziato senza motivo nella Pa” - L'ex responsabile dell'ufficio tecnico dell'amministrazione collocato in "disponibilità con l'80 per cento dello stipendio per due anni". I sindacati: "Eppure c'è un organico carente". Il sindaco (di centrosinistra): "Abbiamo risposto a un obbligo di legge" ... (link a http://www.ilfattoquotidiano.it).

Geometra comunale "licenziato" dalla Giunta - A Carnago, in provincia di Varese, è caduto il dogma del posto pubblico fisso per la vita. Un dipendente comunale è stato "licenziato" dalla giunta sulla scorta della legge di stabilità (la 183 del 2011) ... (link a http://www.laprovinciadicomo.it).

Il geometra del Comune: "Licenziato senza motivazioni" - Vincenzo Cirrincione contesta la decisione dell'amministrazione comunale che l'ha messo in mobilità. Davanti al municipio, alcuni colleghi preoccupati e un "contestatore" venuto ad applaudire al licenziamento ... (link a http://www3.varesenews.it).

     Non conosciamo i dettagli del caso di specie e non azzardiamo alcun commento. Tuttavia, non possiamo esimerci dall'esprimere la nostra solidarietà al Collega Enzo Cirrincione con i migliori auguri che la vicenda possa ricomporsi favorevolmente. E nel contempo, non possiamo esimerci altresì dall'esternare l'incredulità che un comune del varesotto, così come tutti i comuni del nord, possa vantare personale in esubero (quando il Governo, ad oggi e per quanto ci consta, non ha ancora emanato il criterio numerico di rapporto dipendenti/popolazione per stabilire l'eventuale esubero o meno !!) e quando tutto il nord sconta ancora oggi l'errore di politiche decennali di assunzioni ridotte all'osso poiché quel poco personale in servizio (sino a 20 anni fa circa) era abituato a sbrigare ogni tipo di mansione e rendeva (volente o nolente) per tre ...
     Certo, questo è un precedente pericolosissimo se (ed usiamo il se) il legislatore ha normato la possibilità di consentire agli amministratori locali di licenziare personale in esubero e tale lo è dopo aver esternalizzato (legittimamente o meno lo dirà -presto o tardi- il Procuratore regionale della Corte dei Conti ...) servizi sempre svolti all'interno del palazzo comunale (con la scusa dell'efficienza, efficacia ed economicità dell'azione amministrativa) sicché, guarda caso, quel dipendente  che rompe le balle di continuo (perché compie il proprio dovere !!) adesso è di troppo ...
02.11.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 44 del 31.10.2012, "Norme per l’elezione del Consiglio regionale e del Presidente della Regione" (L.R. 31.10.2012 n. 17).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 30.10.2012, "Riordino dei reticoli idrici di Regione Lombardia e revisione dei canoni di polizia idraulica" (deliberazione G.R. 25.10.2012 n. 4287).
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Riordino dei reticoli idrici e revisione dei canoni di polizia idraulica.
Il 25.10.2012 la Giunta Regionale ha approvato la dgr n. 4287 che sostituisce integralmente la precedente dgr n. 2762 del 22.12.2011.
Tale ripubblicazione era prevista dal punto 8 della dgr 2762/2011.
Le modifiche all’odierna delibera riguardano quasi tutti gli allegati che la compongono, in particolare:
Allegato A - Elenco corsi d’acqua appartenenti al reticolo principale e Allegato D – Elenco corsi d’acqua gestiti dai consorzi di bonifica.
I nuovi allegati sono stati modificati per adeguarli agli ambiti amministrativi ed ai nuovi “rapporti” con i consorzi di bonifica dopo le osservazioni pervenute a seguito della pubblicazione degli elenchi dell’allegato D negli albi pretori dei comuni.
Allegato B - Criteri per l’esercizio dell’attività di polizia idraulica di competenza comunale.
Il nuovo allegato B è stato modificato nelle modalità di presentazione dei reticoli minori in capo ai comuni, sui contenuti dell'elaborato ed è stata eliminata la tabella con le indicazioni per gli shape file da inoltrare a regione Lombardia rimandando i dettagli ad un area dedicata sul sito web della DG Territorio e Urbanistica.
Allegato C – Canoni regionali di polizia idraulica.
Nell’allegato C vengono ridotte ulteriormente le tipologie di canone e vengono apportate alcune modifiche, in dettaglio:
1. Accorpamento delle tipologie di canone A e P attraversamenti e parallelismi calcolandoli tutti a misura riducendo le voci a solo due sottocategorie;
2. Inserito un canone a costo fisso per gli scaricatori di piena pari a 450,00 € per bocca di scarico;
3. Inserito di un costo fisso di 75,00 €. per i guadi;
4. Inserita una proporzionalità per lo occupazioni di aree demaniali, in modo tale che all’aumentare delle superfici diminuisce il costo unitario a mq;
5. Viene applicato il canone al 10 % alle società del Sistema Regionale;
6. Viene introdotto il nuovo valore del canone minimo pari a 75,00 €. per tutte le tipologie sia pubbliche che private e pari a 15,00 €. in caso di suddivisione per multi titolarità;
Vengono infine inserite alcune note di dettaglio sulle modalità di applicazione dei canoni.
Allegato E – Linee guida di Polizia Idraulica.
Le linee guida sono state rivedute ed aggiornate modificando il tempo di conclusione del procedimento amministrativo a 90 gg ai sensi della nuova legge regionale 1/2012 in materia di procedimento amministrativo.
Allegato F – Modelli documenti (disciplinari, decreti e convenzioni).
Nei modelli vengono eliminati i riferimenti per i pagamenti visto che gli enti pubblici devono utilizzare il pagamento tramite tesoreria unica presso la Banca d’Italia, viene inserito nel modello di decreto una dicitura relativa all'adeguamento automatico dei canoni in seguito all'approvazione di un nuovo provvedimento ai sensi della legge regionale 10/2009 (link a http://www.territorio.regione.lombardia.it).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 30.10.2012, "Adozione delle linee guida per la determinazione delle quote di partecipazione degli enti locali nelle agenzie del trasporto pubblico locale, ai sensi dell’art. 7, comma 10, della l.r. n. 6/2012" (deliberazione G.R. 25.10.2012 n. 4261).

UTILITA'

ENTI LOCALI: SCHEMA DI ATTO CONVENZIONALE PER LA GESTIONE ASSOCIATA DELLE FUNZIONI COMUNALI (ANCI, ottobre 2012).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Trattenuta del 2,5%: dopo la sentenza della Corte Costituzionale il Governo decide di tornare al vecchio regime (CGIL-FP di Bergamo, nota 31.10.2012).

PUBBLICO IMPIEGO: TRATTENUTA DEL 2,50% SULL’INDENNITA’ DI BUONUSCITA (C.S.A. di Milano, nota 30.10.2012).

PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI: Con l'IMU spariscono gli incentivi per il personale addetto all'ufficio tributi (CGIL-FP di Bergamo, nota 29.10.2012).

PUBBLICO IMPIEGO: In merito all'impossibilità di pagare le ferie arretrate (CGIL-FP di Bergamo, nota 20.10.2012).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: A. Bianco, Uffici tecnici: gli incentivi per dipendenti e dirigenti (Guida al Pubblico Impiego n. 10/2012).

PUBBLICO IMPIEGO: S. Allegretti, L’Inps fa il punto sul congedo per assistenza ai disabili (Guida al Pubblico Impiego n. 4/2012).

CORTE DEI CONTI

PUBBLICO IMPIEGO: Rimborsi spese di missione dipendenti in convenzione.
La Corte dei Conti, sezione regionale Puglia, con il parere 07.03.2012 n. 31, conferma la propria precedente n. 5/PAR/2012, e relativamente a quanto in oggetto, ritiene:
"... il personale utilizzato in convenzione ai sensi dell'art. 14 del CCNL 22.01.2004, in analogia con quanto affermato dalle SSRR con riferimento alla fattispecie del segretario comunale titolare di sede di segreteria convenzionata, effettua spostamenti tra il Comune convenzionato e quello di cui è dipendente, che possono configurarsi quali 'spostamenti tra le varie sedi istituzionali' secondo quanto prevedono le Sezioni riunite nella deliberazione 9/CONTR/2011 citata.
Di conseguenza, in quanto estranee al campo di applicazione dell'art. 6, comma 12, del D.L. 78/2010, trovano applicazione le norme di CCNL che prevedono il rimborso delle spese di viaggio nei limiti previsti dall'art. 41, commi 2 e 4, del CCNL del 14.09.2000, richiamato dall'art. 14 del CCNL del 22.01.2004.
Tuttavia il Collegio ritiene doveroso precisare che, al fine di assicurare la compatibilità del sistema con i principi di risparmio di spesa fissati dalla manovra del DL 78/2010 è necessario prevedere misure volte a circoscrivere gli spostamenti del personale tra il comune di provenienza e la sede dell'Ufficio associato attraverso una rigorosa pianificazione delle attività ed una programmazione delle presenze che riduca al minimo indispensabile gli oneri di rimborso per gli enti
" (tratto da www.publika.it).

NEWS

APPALTI FORNITURE E SERVIZIDal 2013 pagamenti entro 30 giorni. Per la pubblica amministrazione saranno possibili deroghe fino a 60 giorni.
IL SÌ DEL GOVERNO/ Il via libera dopo una lunga discussione in Consiglio sul Ponte sullo stretto. La stretta sui tempi riguarda anche i rapporti tra imprese.

Dal 01.01.2013, la pubblica amministrazione dovrà pagare i propri fornitori entro 30 giorni. Al più si potrà arrivare a 60 sono in casi ben individuati. Lo stesso limite riguarderà anche le transazioni azienda-azienda, ma in questo caso il tetto potrà essere superato nel caso ci siano accordi tra le parti. Intese che comunque non dovranno essere inique per il creditore.
Il Governo ieri ha approvato il decreto legislativo che attua la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 16.02.2011 (2011/7/UE) «relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento delle transazioni commerciali».
Il Dlgs, arrivato già martedì sul tavolo di Palazzo Chigi, è poi slittato a ieri, con il via libera arrivato a tarda sera (già domani sarà al Quirinale per la firma) dopo una lunga discussione dovuta al nodo Ponte sullo stretto (per il quale è stata prorogata di due anni la verifica di fattibilità).
Il testo è stato elaborato in tre riunioni tecniche, con il coinvolgimento di quattro ministeri: Economia, Giustizia, Sviluppo economico e il coordinamento del ministero per gli Affari europei. I tre articoli del decreto riscrivono in maniera più restrittiva il precedente Dlgs 231 del 2002.
Il Dlgs non dovrà passare per i pareri del Parlamento: in questo modo viene rispettata la data stabilita dalla legge sullo statuto di impresa (la 180/2011) che oltre a prevedere la delega ad hoc per il Governo anticipa di quattro mesi –a metà novembre (invece che a metà marzo)– l'introduzione della direttiva Ue 2011/7. Le nuove regole scatteranno per le transazioni commerciali che si concluderanno dal 01.01.2013 in poi.
Un lasso di tempo, questo, –spiega la relazione illustrativa al decreto– necessario per dare tempo a tutti, Pubblica amministrazione in primis, di adeguarsi anche per quanto riguarda la «modulistica contrattuale» e le «procedure interne di pagamento».
Quella dei ritardi nei pagamenti è da sempre un'emergenza, soprattutto in questa fase in cui le imprese sono a corto di liquidità. In particolare, a essere penalizzate sono le piccole aziende, costrette ad aspettare in media circa 180-190 giorni per essere pagate (anche la Grecia fa meglio: 174 giorni), con punte record al Sud dove si superano anche i 1.500 giorni.
E le regole già in vigore –come quelle previste ad esempio per i lavori pubblici– finora non hanno sortito effetti. Da qui l'attesa per i nuovi paletti europei che, come detto, fissano a 30 giorni il termine ordinario che la Pa deve rispettare per pagare. Anche se ci saranno delle deroghe: in particolare per asl, ospedali e imprese pubbliche che possono portare a 60 giorni il termine massimo. Ma anche tutte le altre Pa potranno accedere a questa deroga nel caso "eccezionale" in cui l'eventuale proroga sia giustificata «dalla natura o dall'oggetto del contratto» oppure dalle «circostanze esistenti al momento della sua conclusione». In ogni caso, il nuovo limite dovrà essere pattuito «in modo espresso».
Per le amministrazioni pubbliche che non rispetteranno i tempi scatterà la "sanzione" degli interessi legali di mora. Che decorreranno automaticamente dal giorno successivo alla scadenza del termine del pagamento senza che sia necessaria la costituzione in mora (vale a dire la la richiesta scritta al debitore di adempiere all'obbligo). Gli «interessi legali di mora» si calcoleranno prevedendo una maggiorazione di 8 punti percentuali sul tasso fissato dalla Banca centrale europea: in sostanza si aggireranno intorno alla soglia del 10 per cento. Per le imprese invece ci sarà maggiore libertà contrattuale: oltre a concordare l'entità degli interessi moratori potranno decidere, pattuendolo per iscritto, anche di superare la soglia massima dei 60 giorni per pagare.
Il decreto però prevede espressamente tutta una serie di paletti per escludere automaticamente clausole vessatorie che puntino ad aggirare i tempi massimi, il pagamento degli interessi e l'eventuale risarcimento per i costi che sono necessari per recuperare i crediti (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIIl Ddl anticorruzione è legge Severino: ampia condivisione. No solo dell'Idv - Prescrizione, riparte la proposta del Pd.
IL GUARDASIGILLI/ «Non è un compromesso al ribasso. Inserire anche il falso in bilancio o il voto di scambio avrebbe bloccato il provvedimento».

L'anticorruzione è legge. Con un voto quasi unanime, fatta eccezione per l'Idv, la Camera ha approvato definitivamente le norme sulla prevenzione e la repressione della corruzione, che diventeranno operative tra 15-20 giorni.
Un successo per il governo, che dopo la fiducia del giorno prima, ha incassato 480 sì (19 i no e 25 gli astenuti) al provvedimento riscritto –rispetto al testo originario del 2010 firmato da Angelino Alfano– dai ministri Filippo Patroni Griffi e Paola Severino. Quest'ultima non nasconde la soddisfazione per «la grande condivisione del progetto» e definisce «non corretto parlare di compromesso al ribasso» come aveva detto Antonio Di Pietro.
Quanto al «si poteva fare di più» risuonato nell'aula come un mantra, il ministro ha detto che no, non si poteva fare più di così perché le norme su prescrizione, falso in bilancio, autoriciclaggio, voto di scambio, se inserite nel ddl ne «avrebbero rallentato, se non bloccato» la legge. «Sono norme su cui il Parlamento si dibatte da anni e sulle quali ora viene espressa una volontà politica che non posso non apprezzare –ha osservato il ministro–. Questo governo ha le risorse tecniche per offrire il suo contributo».
Insomma, sembra che l'approvazione della legge abbia fatto il miracolo di avvicinare posizioni da sempre inconciliabili e che nei pochi mesi che mancano alla fine della legislatura potrebbe essere approvata non solo una riforma del falso in bilancio ma persino della prescrizione, sebbene su questi temi non sia stato possibile trovare un accordo nei cinque mesi di gestazione dell'anticorruzione.
Ieri, in commissione Giustizia è stata ricalendarizzata per mercoledì prossimo la proposta di legge del Pd sulla prescrizione, «accantonata –spiega Donatella Ferranti– all'epoca in cui si parlava di prescrizione breve e processo lungo. Ci sembrava giusto riprendere in mano la questione, anche se il testo base è da migliorare, per affrontarla a tutto tondo. Abbiamo constatato la ... (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALICon il decreto del Governo le Province scendono a 51. Dal 2014 addio a 35 enti - Via le giunte già dal 2013.
CITTÀ METROPOLITANE/ Firenze apre le porte non solo a Prato ma anche a Pistoia, conferma per Milano che acquista Monza-Brianza Venezia resta da sola.

Il Governo affonda il bisturi nella carne delle Province un centimetro più in basso del previsto. E si avvia a cancellarne 35 anziché 34 come anticipato ieri su questo giornale.
Per effetto del decreto approvato durante la sessione mattutina del Consiglio dei ministri, dal 2014, gli enti di area vasta delle Regioni ordinarie passeranno da 86 a 51, incluse le 10 città metropolitane. Ma un antipasto del taglio si avrà già dal 01.01.2013 quando decadranno tutte le giunte locali. Sul risultato complessivo della riorganizzazione pesano però due interrogativi: le autonomie speciali attueranno la stretta? E il Parlamento riuscirà, in sede di conversione, a respingere le spinte campanilistiche?
Dalla risposta a questi due quesiti dipenderà l'impatto dell'intera operazione-Province. Sia economico, visto che per ora non sono cifrati i risparmi; sia in termini di equità, poiché il mancato adeguamento di alcune realtà renderebbe ancora più veementi le proteste delle altre, costrette dal Dl a stringere unioni forzate. E i segnali giunti fin qui non promettono nulla di buono. A parte la Sardegna (dove un referendum popolare ha deciso di ridurre da 8 a 4 gli "enti di mezzo") le altre "super-autonomie" non si sono ancora poste il problema di avviare l'iter che, in base alla spending, dovrà concludersi entro il 7 gennaio sulla base dei due requisiti decisi dall'Esecutivo: 350mila abitanti e 2.500 chilometri quadrati di estensione. Senza contare che, nel corso della conferenza stampa di presentazione delle misure, il ministro della Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi, si è limitato a dire: «Ci occuperemo in seguito delle speciali». Pur definendo «irreversibile» l'intero processo in atto.
Stesso discorso per le Camere che già a luglio hanno dovuto respingere richieste di eccezioni di ogni tipo. Ed è presumibile che il copione si ripeta identico nelle prossime settimane vista la levata di scudi già partita lungo la penisola. Con formule diverse –appelli al premier, minacce di ricorso alla Consulta, proposte di passare alla Regione limitrofa e, addirittura, interviste concesse sul water– ma un unico obiettivo: ottenere l'agognata deroga. Anche perché alcuni distinguo sono stati operati dallo stesso decreto: Sondrio e Belluno escluse perché montane al 100% e Arezzo "salvata" dai dati anagrafici in quanto superiori all'ultimo censimento Istat.
Rimandando alla cartina accanto per capire come cambierà dal 2014 l'intera geografia provinciale, qui appare opportuno sottolineare alcune novità rispetto alla bozza del giorno precedente. In primis in Lombardia, dove Lodi va con Cremona e Mantova, oppure in Toscana, dove nasce la maxi-Provincia di Lucca-Massa-Pisa-Livorno e Pistoia confluisce insieme a Prato nella città metropolitana di Firenze. E, restando alle città metropolitane, va segnalata un'altra novità rispetto ai desiderata dei territori: Padova non confluirà in Venezia ma si unirà alla Provincia di Treviso. E due conferme: Milano che acquista Monza-Brianza e Bari che non "vince" la Bat. Barletta-Andria-Trani finirà infatti con Foggia.
Tra gli altri cambiamenti rispetto al testo d'ingresso in Cdm va segnalata la retromarcia innestata sulla composizione dei futuri consigli provinciali. In attesa della sentenza della Consulta prevista per il 6 novembre, è stata eliminata la modifica all'articolo 23 del salva-Italia che li trasforma in organi di secondo livello eletti dai Comuni del circondario. Anziché salire fino a 16 per gli enti con più di 700mila abitanti, come immaginato in un primo momento, il numero massimo di membri eleggibili resta fermo a 10. E lo stesso limite varrà anche per le città metropolitane.
Passando alle altre disposizioni degne di nota spicca la conferma della previsione che vuole l'indizione delle nuove elezioni in una domenica compresa tra il 1° e il 30.11.2013. E ciò sia che l'amministrazione resti in vita sia che scompaia. Fermo restando che il mandato del presidente e dei consiglieri attualmente in carica scadrà il 31 dicembre, a meno che l'ente non venga sciolto. In quel caso arriverà il commissario ad acta governativo. Vita più breve avranno invece gli assessori che decadranno dalla carica all'inizio del 2013; al loro posto il numero uno dell'ente potrà delegare alcune funzioni a massimo tre consiglieri. Una stretta aggiuntiva che non è piaciuta all'Upi, già critica per le «forzature» operate su alcuni territori.
L'ultima curiosità riguarda i futuri capoluoghi. In teoria saranno tali gli enti più popolosi. A meno che un diverso accordo dei sindaci, preso anche a maggioranza, non porti a una soluzione alternativa. Con conseguenze non da poco anche sulla vita di consiglieri e dipendenti. Durante l'ultimo miglio a Palazzo Chigi il testo si è arricchito della precisazione che gli organi dell'ente saranno ubicati nel capoluogo e non ci saranno sedi decentrate (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.11.2012).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIContratti. Lo schema del decreto varato dal Governo. Per i pagamenti in ritardo la mora va in automatico.
ARTICOLO 1 - Modifiche al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231
1. Al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, recante attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) l'articolo 1 è sostituito dal seguente: «Articolo 1. – Ambito di applicazione. – 1. Le disposizioni contenute nel presente decreto si applicano a ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale.
2. Le disposizioni del presente decreto non trovano applicazione per:
a) debiti oggetto di procedure concorsuali aperte a carico del debitore, comprese le procedure finalizzate alla ristrutturazione del debito;
b) pagamenti effettuati a titolo di risarcimento del danno, compresi i pagamenti effettuati a tale titolo da un assicuratore.»;
b) l'articolo 2 è sostituito dal seguente: «Articolo 2. – Definizioni. – 1. Ai fini del presente decreto si intende per:
a) "transazioni commerciali": i contratti, comunque denominati, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo;
b) "pubblica amministrazione": le amministrazioni di cui all'articolo 3, comma 25, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 e ogni altro soggetto, allorquando svolga attività per la quale è tenuto al rispetto della disciplina di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163;
c) "imprenditore": ogni soggetto esercente un'attività economica organizzata o una libera professione;
d) "interessi moratori": interessi legali di mora ovvero interessi a un tasso concordato tra imprese;
e) "interessi legali di mora": interessi semplici di mora su base giornaliera a un tasso che è pari al tasso di riferimento maggiorato di otto punti percentuali;
f) "tasso di riferimento": il tasso di interesse applicato dalla Banca centrale europea alle sue più recenti operazioni di rifinanziamento principali;
g) "importo dovuto": la somma che avrebbe dovuto essere pagata entro il termine contrattuale o legale di pagamento, comprese le imposte, i dazi, le tasse o gli oneri applicabili indicati nella fattura o nella richiesta equivalente di pagamento.»;
c) all'articolo 3, dopo le parole: «interessi moratori» sono inserite le seguenti: «sull'importo dovuto»;
d) l'articolo 4 è sostituito dal seguente: «Articolo 4. – Decorrenza degli interessi moratori. – 1. Gli interessi moratori decorrono, senza che sia necessaria la costituzione in mora, dal giorno successivo alla scadenza del termine per il pagamento.
2. Salvo quanto previsto dai commi 3, 4 e 5, ai fini della decorrenza degli interessi moratori si applicano i seguenti termini:
a) trenta giorni dalla data di ricevimento da parte del debitore della fattura o di una richiesta di pagamento di contenuto equivalente. Non hanno effetto sulla decorrenza del termine le richieste di integrazione o modifica formali della fattura o di altra richiesta equivalente di pagamento;
b) trenta giorni dalla data di ricevimento delle merci o dalla data di prestazione dei servizi, quando non è certa la data di ricevimento della fattura o della richiesta equivalente di pagamento;
c) trenta giorni dalla data di ricevimento delle merci o dalla prestazione dei servizi, quando la data in cui il debitore riceve la fattura o la richiesta equivalente di pagamento è anteriore a quella del ricevimento delle merci o della prestazione dei servizi;
d) trenta giorni dalla data del l'accettazione o della verifica eventualmente previste dalla legge o dal contratto ai fini del l'accertamento della conformità della merce o dei servizi alle previsioni contrattuali, qualora il debitore riceva la fattura o la richiesta equivalente di pagamento in epoca non successiva a tale data.
3. Nelle transazioni commerciali tra imprese le parti possono pattuire un termine per il pagamento superiore rispetto a quello previsto dal comma 2. Termini superiori a sessanta giorni, purché non siano gravemente iniqui per il creditore ai sensi dell'articolo 7, devono essere pattuiti espressamente. La clausola relativa al termine deve essere provata per iscritto.
4. Nelle transazioni commerciali in cui il debitore è una pubblica amministrazione le parti possono pattuire, purché in modo espresso, un termine per il pagamento superiore a quello previsto dal comma 2, quando ciò sia giustificato dalla natura o dall'oggetto del contratto o dalle circostanze esistenti al momento della sua conclusione. In ogni caso i termini di cui al comma 2 non possono essere superiori a sessanta giorni. La clausola relativa al termine deve essere provata per iscritto.
5. I termini di cui al comma 2 sono raddoppiati:
a) per le imprese pubbliche che sono tenute al rispetto dei requisiti di trasparenza di cui al decreto legislativo 11 novembre 2003, n. 333;
b) per gli enti pubblici che forniscono assistenza sanitaria e che siano stati debitamente riconosciuti a tal fine.
6. Quando è prevista una procedura diretta ad accertare la conformità della merce o dei servizi al contratto essa non può avere una durata superiore a trenta giorni dalla data della consegna della merce o della prestazione del servizio, salvo che sia diversamente ed espressamente concordato dalle parti e previsto nella documentazione di gara e purché ciò non sia gravemente iniquo per il creditore ai sensi dell'articolo 7. L'accordo deve essere provato per iscritto.
7. Resta ferma la facoltà delle parti di concordare termini di pagamento a rate. In tali casi, qualora una delle rate non sia pagata alla data concordata, gli interessi e il risarcimento previsti dal presente decreto sono calcolati esclusivamente sulla base degli importi scaduti.»;
e) l'articolo 5 è sostituito dal seguente: «Articolo 5. – Saggio degli interessi. – 1. Gli interessi moratori sono determinati nella misura degli interessi legali di mora. Nelle transazioni commerciali tra imprese è consentito alle parti di concordare un tasso di interesse diverso, nei limiti previsti dall'articolo 7.
2. Il tasso di riferimento è così determinato:
a) per il primo semestre del l'anno cui si riferisce il ritardo, è quello in vigore il 1° gennaio di quell'anno;
b) per il secondo semestre del l'anno cui si riferisce il ritardo, è quello in vigore il 1° luglio di quell'anno.
3. Il ministero dell'Economia e delle finanze dà notizia del tasso di riferimento, curandone la pubblicazione nella «Gazzetta Ufficiale» della Repubblica italiana nel quinto giorno lavorativo di ciascun semestre solare.»;
f) l'articolo 6 è sostituito dal seguente: «Articolo 6. – Risarcimento delle spese di recupero. – 1. Nei casi previsti dall'articolo 3, il creditore ha diritto anche al rimborso dei costi sostenuti per il recupero delle somme non tempestivamente corrisposte.
2. Al creditore spetta, senza che sia necessaria la costituzione in mora, un importo forfettario di 40 euro a titolo di risarcimento del danno. È fatta salva la prova del maggior danno, che può comprendere i costi di assistenza per il recupero del credito.»;
g) l'articolo 7 è sostituito dal seguente: «Articolo 7. – Nullità. – 1. Le clausole relative al termine di pagamento, al saggio degli interessi moratori o al risarcimento per i costi di recupero, a qualunque titolo previste o introdotte nel contratto, sono nulle quando risultano gravemente inique in danno del creditore. Si applicano gli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del Codice civile.
2. Il giudice dichiara, anche d'ufficio, la nullità della clausola avuto riguardo a tutte le circostanze del caso, tra cui il grave scostamento dalla prassi commerciale in contrasto con il principio di buona fede e correttezza, la natura della merce o del servizio oggetto del contratto, l'esistenza di motivi oggettivi per derogare al saggio degli interessi legali di mora, ai termini di pagamento o all'importo forfettario dovuto a titolo di risarcimento per i costi di recupero.
3. Si considera gravemente iniqua la clausola che esclude l'applicazione di interessi di mora. Non è ammessa prova contraria.
4. Si presume che sia gravemente iniqua la clausola che esclude il risarcimento per i costi di recupero di cui all'articolo 6.
5. Nelle transazioni commerciali in cui il debitore è una pubblica amministrazione è nulla la clausola avente a oggetto la predeterminazione o la modifica della data di ricevimento della fattura. La nullità è dichiarata d'ufficio dal giudice.»;
h) all'articolo 8, comma 1, la lettera a) è sostituita dalla seguente:
«a) di accertare la grave iniquità, ai sensi dell'articolo 7, delle condizioni generali concernenti il termine di pagamento, il saggio degli interessi moratori o il risarcimento per i costi di recupero e di inibirne l'uso.».
ARTICOLO 2 - Modifiche alla legge 18 giugno 1998, n. 192
1. All'articolo 3, comma 3, della legge 18 giugno 1998, n. 192, le parole: «di sette punti percentuali» sono sostituite dalle seguenti: «di otto punti percentuali».
ARTICOLO 3 - Disposizioni finali
1. Le disposizioni di cui al presente decreto legislativo si applicano alle transazioni commerciali concluse a decorrere dal 1° gennaio 2013 (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.11.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARILa camera dei deputati ha approvato definitivamente il disegno di legge. Pacchetto anticorruzione. Fino a tre anni per traffico di influenze illecite.
Anticorruzione, nuove norme al via. La camera ha approvato ieri definitivamente il ddl sul quale aveva già votato il giorno prima la fiducia al governo. Il provvedimento non è stato modificato alla camera rispetto al voto del senato in terza lettura e quindi diventa legge. I voti a favore sono stati 480, 19 i contrari, 25 gli astenuti. Contrari i deputati di Idv e Luca D'Alessandro (Pdl). Tra gli astenuti 10 deputati Pdl, un leghista, 3 di Popolo e Territorio, 4 del Gruppo Misto e i Radicali. Diviso, di fatto, in due parti, il ddl contiene norme di prevenzione e norme sulla repressione. Ed è su queste che il percorso in parlamento è stato più complicato.
Tra le novità (si veda tabella in pagina) quelle che riguardano la corruzione tra privati. Si sostituisce l'articolo 2635 del codice civile: Salvo che il fatto costituisca più grave reato, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, che, a seguito della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, per sé o per altri, compiono od omettono atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, cagionando nocumento alla società, sono puniti con la reclusione da uno a tre anni.
Per quanto riguarda invece il traffico di influenze illecite si prevede che chi sfruttando relazioni con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente, fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio, è punito con la reclusione da uno a tre anni.
Molte le novità sulla p.a. Via dagli appalti coloro che sono stati condannati con sentenza passata in giudicato per reati contro la pubblica amministrazione o per reati gravi, come il 416-bis. Pubbliche e online le informazioni sulle opere e gli appalti.
Arriva il codice etico del dipendente pubblico con sanzioni che giungono fino al licenziamento per i casi più gravi. Vietato accettare compensi, regali o altre utilità, in connessione con le proprie funzioni (articolo ItaliaOggi dell'01.11.2012).

ENTI LOCALIIl governo cancella 35 province. Da 86 a 51 enti nelle regioni ordinarie. Via le giunte dal 2013. Varato il decreto legge con gli accorpamenti. Salve in extremis Arezzo, Belluno e Sondrio.
Da 86 a 51 province. La nuova geografia dell'Italia riparte da qui e lascia per strada 35 enti di secondo livello nelle regioni a statuto ordinario. Dopo il dl Salva Italia (dl 201/2011), la spending review (dl 95/2012) e mesi di discussioni e dibattiti tra chi non voleva cambiare nulla e chi addirittura le province le avrebbe eliminate tutte, il consiglio dei ministri di ieri ha approvato il decreto legge che scrive per il momento la parola fine. Almeno per quanto riguarda il lavoro del governo che chiude la porta a qualunque ipotesi di ripensamento futuro.
«È un processo irreversibile», ha dichiarato il ministro della funzione pubblica Filippo Patroni Griffi, «un restyling coerente con i modelli Ue nel solco della spending review». Ora quindi la palla passa al parlamento. E all'esecutivo non resta che augurarsi che la politica non smantelli piano piano (come sta accadendo per esempio al decreto enti locali, dl 174/2012 ndr) la trama istituzionale faticosamente costruita da Monti&Co.
Ma vediamo la mappa delle nuove province.
Come cambia la geografia italiana. Molte le novità dell'ultim'ora. Resteranno in vita Sondrio e Belluno perché bisogna «preservare la specificità delle province il cui territorio è integralmente montano». Salva anche la provincia di Arezzo che a discapito dei dati Istat dovrebbe aver raggiunto in extremis il tetto minimo di 350 mila abitanti necessario per sopravvivere. Prato riabbraccia Firenze confluendo nella città metropolitana del capoluogo assieme a Pistoia. Stessa cosa in Lombardia dove la provincia di Monza-Brianza entrerà a far parte dell'area metropolitana di Milano invece che unirsi con Varese-Como-Lecco. Una scelta, quest'ultima, presa contro il volere dei diretti interessati che ieri hanno accusato il governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, di aver fatto pressioni perché la Brianza tornasse sotto Milano piuttosto che confluire nella provincia di Varese. A dispetto delle attese, Padova non confluisce nella città metropolitana di Venezia, ma si aggrega con Treviso, mentre Verona guadagna anche l'attuale provincia di Rovigo.
In Piemonte, ferme restando Torino (città metropolitana) e Cuneo, nascono tre nuove realtà composite: Alessandria-Asti, Novara-Verbania e Vercelli-Biella. In Toscana, detto di Firenze e di Arezzo, spuntano due maxi province: Siena-Grosseto e Massa Carrara-Lucca-Pisa-Livorno. In Liguria, Imperia e Savona si fondono, mentre in Emilia-Romagna, salve Bologna (città metropolitana) e Ferrara, vanno a braccetto Piacenza e Parma e Modena e Reggio Emilia. Ravenna, Forlì Cesena e Rimini si mettono insieme per costituire un'unica provincia della Romagna. Nelle Marche Ascoli, Fermo e Macerata andranno a costituire un solo ente. In Abruzzo dalle attuali 4 province si passerà a due: Pescara-Chieti e L'Aquila-Teramo. Nel Lazio, Roma diventerà città metropolitana e le altre quattro province si dimezzeranno andando a costituire Viterbo-Rieti e Latina-Frosinone. In Campania, oltre a Napoli (città metropolitana) si salvano Salerno e Caserta, mentre Avellino si unisce a Benevento. In Puglia, Foggia ingloba l'attuale provincia di Barletta-Andria-Trani, mentre Taranto si aggrega con Brindisi. In Calabria, Catanzaro, Crotone e Vibo Valentia torneranno insieme. Molise, Basilicata e Umbria diventeranno regioni monoprovinciali.
La governance delle province. Le nuove province vedranno la luce dal 01.01.2014. Questo significa che le attuali amministrazioni resteranno in carica fino al 31.12.2013, ma già dall'inizio dell'anno prossimo le giunte scompariranno e gli unici organi provinciali a restare in carica saranno i consigli e i presidenti. Questi ultimi, in sostituzione delle giunte, potranno delegare l'esercizio delle funzioni di governo a non più di tre consiglieri. Non ci saranno i commissari a traghettare gli enti verso il riordino. I commissari si insedieranno solo negli enti che da oggi al 31.12.2013 vanno a scadenza (naturale o anticipata) per gestire la macchina amministrativa fino all'insediamento dei nuovi enti.
La elezioni per costituire i nuovi organi dovranno tenersi in una domenica compresa tra il 1° e il 30.11.2013. Sarà una legge dello stato a definire le modalità di elezione entro il 31.12.2012. Il consiglio provinciale non sarà più composto inderogabilmente da dieci componenti (come prevedeva il Salva Italia) ma il numero potrà salire a 12 negli enti con popolazione compresa tra 300 mila e 700 mila abitanti e a 16 negli enti con più di 700 mila abitanti.
La successione tra enti. Nelle province che avranno nuovi confini per effetto degli accorpamenti il comune capoluogo sarà o il capoluogo di regione (se rientra nel territorio della neonata provincia) oppure il comune più popoloso tra quelli già capoluogo di provincia. La denominazione delle nuove realtà locali potrà comunque essere modificata con dpr, previa delibera del consiglio dei ministri.
I nuovi enti subentreranno a quelli esistenti in tutti i rapporti giuridici. Il passaggio dei dipendenti di ruolo avverrà previa concertazione sindacale. Gli enti potranno fare da sé solo in caso di mancato accordo con i sindacati. Le dotazioni organiche saranno determinate tenendo conto dell'effettivo fabbisogno. Le regioni trasferiranno ai comuni le funzioni già conferite alle province a meno che non decidano di tenerle per sé al fine di assicurarne un esercizio unitario.
La governance delle città metropolitane. Le città metropolitane vedranno la luce dal 2014 ad eccezione di Reggio Calabria in cui il nuovo ente debutterà 90 giorni dopo il rinnovo degli organi del comune attualmente commissariato. Le nuove realtà saranno rette da un consiglio metropolitano composto da 18 membri negli enti con più di 3 milioni di abitanti, 14 in quelli con popolazione compresa tra 800 mila e 3 milioni di abitanti e 12 nelle altre città metropolitane. Saranno i sindaci e i consiglieri comunali dei municipi ricompresi nel territorio metropolitano ad eleggere i componenti del consiglio (articolo ItaliaOggi dell'01.11.2012).

APPALTIPer il codice degli appalti la riforma a getto continuo. Il ddl delega: regolamento entro 6 mesi, poi aggiustamenti successivi.
Modifiche infinite per la normativa in materia di appalti pubblici, con la delega a riordinare il Codice dei contratti pubblici e il regolamento attuativo entro 6 mesi, con ulteriori adeguamenti nell'anno successivo.
È quanto prefigura il disegno di legge in materia di infrastrutture e trasporti, che incide anche con nuove norme sulla bancabilità dei progetti, sulla riduzione dell'overdesign nel settore ferroviario, sulla consultazione pubblica per le grandi infrastrutture (il c.d. referendum o débat public).
Per quel che riguarda l'ennesima opera di rivisitazione del Codice che fu approvato nel 2006 a seguito dei lavori della Commissione De Lise, la delega per il «consolidamento del quadro normativo» in materia di contratti avrà ad oggetto anche il regolamento attuativo del decreto 163/2006 e dovrà essere esercitata entro sei mesi dall'approvazione del disegno di legge.
La formulazione della norma in realtà è stata semplificata nel passaggio da una versione all'altra del testo (è scomparsa, ad esempio, l'indicazione di suddividere la normativa primaria da quella regolamentare), ma rimane, di fondo, la scelta di intervenire in un'ottica di semplificazione, razionalizzazione e riordino della normativa vigente anche per evitare sovrapposizioni e duplicazioni. La delega dovrebbe anche servire ad adeguare le norme ai principi emersi in sede comunitaria, dove si stanno mettendo a punto le nuove direttive appalti pubblici, ma va detto che difficilmente entro sei mesi le direttive saranno approvate (le posizioni tra Consiglio e Parlamento sono molto distanti su molti punti e addirittura si parla di un ritiro della direttiva concessioni) e quindi vi sarà l'indubbia difficoltà di capire quali siano i principi effettivamente «emersi».
In ogni caso una delega così ampia con la finalità di stabilizzazione della normativa, ma con la contestuale previsione di adeguare ulteriormente i decreti delegati dopo un anno dalla loro approvazione, sembra prefigurare un quadro di modifiche perpetue, che molto difficilmente potrà creare quelle condizioni di stabilità normativa che da anni il settore invano attende (questo anno sono già 9 i provvedimenti che hanno cambiato il Codice dei contratti pubblici). Il tutto considerando che la stabilizzazione delle norme avviene con l'apparentemente contraddittoria introduzione di ulteriori nuove norme di modifica del Codice nello stesso disegno di legge.
Fra queste (oltre a quelle sullo svincolo delle cauzioni, sui raggruppamenti temporanei e sulle centrali di committenza, vedi ItaliaOggi del 23 ottobre) si segnalano quelle relative alle concessioni di lavori pubblici tese a favorire una migliore bancabilità dei progetti attraverso il coinvolgimento del settore bancario già nella fase di offerta con una manifestazione di interesse a finanziare l'opera e con la previsione di una clausola risolutiva in caso di mancata sottoscrizione del finanziamento entro un congruo termine, che potrebbe velocizzare l'iter.
Anche l'estensione alle concessioni di lavori pubblici della norma che consente di indire una consultazione preliminare sul progetto posto a base di gara (oggi previsto per appalti oltre i 20 milioni) dovrebbe favorire una maggiore certezza degli elementi sui quali formulare le offerte e ridurre l'aleatorietà sotto il profilo della bancabilità dell'intervento. L'obiettivo finale è quello di attrarre maggiormente la finanza privata, anche straniera, creando condizioni di maggiore certezza giuridica e procedurale rispetto a quanto avviene oggi.
Rilevante, soprattutto politicamente, è poi l'introduzione della consultazione pubblica (c.d. débat public o referendum) per la grandi infrastrutture previste nel DEF al fine della gestione del consenso sul territorio, che sarà gestita dai Provveditorati interregionali alle opere pubbliche e si terrà sullo studio di fattibilità o la massimo sul progetto preliminare. Prevista anche una norma che limita a trenta giorni il termine per presentare osservazioni al Ministero dell'ambiente sui progetti di opere soggette a Via (articolo ItaliaOggi dell'01.11.2012).

LAVORI PUBBLICIGrandi opere, parola ai territori. Prima di fare i lavori, il governo chiederà il parere dei cittadini. La novità nel disegno di legge delega sulle infrastrutture, approvato ieri dal Consiglio dei ministri.
Consultazione pubblica prima della realizzazione di opere di interesse strategico. Seguendo la strada del francese débat public, il governo chiederà il parere dei cittadini prima della realizzazione di importanti infrastrutture, permettendo una maggiore condivisione delle informazioni e delle finalità dei progetti con le comunità locali.
È una delle novità contenute nel disegno di legge delega approvato ieri dal consiglio dei ministri che prevede anche, sempre sul fronte infrastrutturale, nuove misure per agevolare l’utilizzo degli strumenti di partenariato pubblico-privato per la realizzazione delle opere pubbliche, anche attraverso una ulteriore semplificazione e accelerazione delle procedure.
Finanziabilità di progetti e bandi. Per assicurare che i progetti da realizzare con contratti di partenariato pubblico-privato siano idonei ad assicurare adeguati livelli di «bancabilità» fin dalla gara per l’affidamento, le amministrazioni aggiudicatrici potranno chiedere che l’offerta presentata sia corredata da una manifestazione di interesse da parte di una banca a finanziare l’operazione. Attraverso questa consultazione preliminare con gli operatori economici invitati a presentare le offerte, sarà dunque possibile far emergere, prima dell’affidamento, eventuali criticità del progetto sotto il profilo della finanziabilità da parte del settore bancario. Inoltre, vengono introdotti i «bandi-tipo» per l’affidamento di contratti di partenariato.
Subentro di un nuovo concessionario designato dagli enti finanziatori del progetto. Il ddl interviene sull’istituto del subentro, che consente di assicurare la continuità del rapporto concessorio in caso di risoluzione del rapporto stesso per motivi addebitabili al concessionario. Viene introdotto, in particolare, un termine minimo per legge (120 giorni, prorogabile di altri 60 su richiesta motivata), sostitutivo del termine rimesso al contratto tra le parti come è nella situazione vigente, per la designazione del nuovo concessionario da parte degli enti finanziatori, che hanno in questo modo maggiore tempo per effettuare le proprie scelte. Viene lasciata, inoltre, alla volontà negoziale delle parti la determinazione dei criteri e delle modalità di attuazione del diritto di subentro. Tramite questa garanzia, il finanziamento dell’opera risulta maggiormente attrattivo per il sistema bancario.
Centrale di committenza per l’affidamento delle concessioni. Per favorire l’impiego dello strumento della concessione anche da parte delle amministrazioni di medie e piccole dimensioni, le quali spesso non possiedono al loro interno le competenze necessarie per attivare le particolari procedure previste, si introduce la possibilità di fare ricorso alle centrali di committenza, istituto già sperimentato per gli appalti pubblici.
Consultazione pubblica. Per promuovere un più alto livello di partecipazione delle popolazioni e dei territori rispetto alla realizzazione di opere strategiche, viene introdotta la procedura di consultazione pubblica che permetterà di verificare preliminarmente la percorribilità di un progetto e consentirà alle popolazioni coinvolte di valutare e conoscere nel dettaglio le scelte riguardanti la realizzazione e localizzazione delle grandi opere infrastrutturali. Scopo della consultazione, che non sarà vincolante per il decisore pubblico, è aumentare in modo significativo il livello di coinvolgimento preventivo delle comunità locali nei processi di realizzazione delle opere strategiche per il sistema paese.
Semplificazione della procedura di approvazione unica del Cipe del progetto preliminare e della procedura di valutazione di impatto ambientale. La nuova procedura, introdotta dal decreto legge Salva Italia, di approvazione unica da parte del Cipe del progetto preliminare di un’opera viene ulteriormente perfezionata, inserendo una tempistica definita per il pronunciamento delle singole amministrazioni e la previsione di azioni conseguenti al mancato rispetto dei termini. Inoltre, nell’ambito dell’istruttoria sui progetti relativi alle opere soggette a procedura di valutazione di impatto ambientale, si fissa il termine di 30 giorni per la presentazione delle eventuali osservazioni rimesse al ministero dell’ambiente dai soggetti pubblici e dai privati interessati. In questo modo sarà più semplice fissare termini stabiliti per la conclusione della conferenza di servizi necessaria per l’approvazione del progetto preliminare.
Semplificazioni normative e riduzione dell’overdesign. Per ridurre il fenomeno dell’overdesign, e cioè la fissazione di requisiti tecnici progettuali più stringenti rispetto a quanto richiesto dalla normativa europea, in particolare per le opere infrastrutturali ferroviarie, e i relativi costi da esso generati, si prevede l’allineamento delle regole minime di sicurezza alle norme europee, anche già vigenti, limitando l’introduzione di ulteriori norme nazionali non fondate su standard comuni ed i relativi sovracosti.
Svincolo garanzie di buona esecuzione. Per garantire maggiore liquidità alle imprese che operano nel settore degli appalti pubblici, si prevede -per lo svincolo progressivo della garanzia in base all’avanzamento dell’esecuzione del contratto- la riduzione dal 25% al 20% della percentuale relativa all’ammontare residuo dell’importo garantito non svincolabile fino al collaudo. Nei settori speciali (energia, acqua, trasporti, poste), la messa in esercizio delle opere prima del loro collaudo, se protratta per oltre 12 mesi, darà luogo allo svincolo automatico delle garanzie di buona esecuzione. A tutela della pubblica amministrazione rimane comunque una quota del 20% delle garanzie, che possono essere svincolate solo all’emissione del certificato di collaudo, ovvero alla scadenza del termine contrattuale per l’emissione dello stesso certificato.
Recupero del patrimonio edilizio esistente. Per incentivare il recupero del patrimonio edilizio esistente, si prevede una politica di riduzione degli oneri di costruzione relativi a ristrutturazioni e recuperi edilizi, differenziando i contributi di costruzione rispetto alle nuove opere, così da rendere più vantaggioso il recupero e la ristrutturazione del patrimonio edilizio. In questo modo si favorisce un utilizzo virtuoso degli immobili esistenti, limitando il consumo del territorio (articolo ItaliaOggi del 31.10.2012).

LAVORI PUBBLICIGrandi opere, decolla la consultazione pubblica. Al Governo la delega per rivedere i codici degli appalti e dell'edilizia.
NORME ANTI-NIMBY/ Il débat public vuole aumentare il consenso sui progetti: ma alla regìa sarà il provveditore alle opere pubbliche, non figure terze.

Il Governo manda in Parlamento la proposta di istituzione della consultazione pubblica per le grandi opere. È il confronto istituzionalizzato sul territorio di derivazione francese, il débat public, che dovrebbe aiutare a ridurre i tempi di approvazione delle infrastrutture e contrastare l'effetto Nimby, cioè la ribellione delle popolazioni locali contro la realizzazione delle infrastrutture.
La norma è contenuta nel disegno di legge di riforma complessiva degli appalti che il Consiglio dei ministri ha approvato ieri. La disciplina della consultazione pubblica esce piuttosto stravolta dai vari confronti interni al Governo: era partita, nel testo originario, come confronto istituzionalizzato guidato da una commissione «neutra» rispetto agli interessi in campo, per dare spazio a un confronto preliminare ampio e aperto; ora a fare la regìa dell'intera consultazione viene chiamato il provveditore interregionale alle opere pubbliche. Anche la modifica dell'ultima ora riduce gli spazi del débat public all'italiana, precludendo la possibilità di presentare progetti alternativi.
Le opere su cui si potrà attivare la consultazione sono quelle indicate annualmente dal Def infrastrutture del Governo, ma la consultazione potrà essere attivata anche dal soggetto aggiudicatore, dal promotore, da un consiglio regionale, da un insieme di consigli comunali o provinciali rappresentativi di almeno 150mila abitanti o da 50mila cittadini residenti nei comuni interessati all'opera.
Quello varato ieri è un disegno di legge che ora va in Parlamento per un esame che appare piuttosto difficile da concludere nei tempi restanti della legislatura. Come per le semplificazioni, una riforma fondamentale rischia seriamente di restare in mezzo al guado alla fine della legislatura.
La norma più importante per i settori interessati è probabilmente la doppia delega per il riordino dei codici degli appalti e dell'edilizia: si tratta delle due leggi fondamentali rispettivamente sul fronte pubblico e privato e devono tener conto delle molte modifiche fatte negli ultimi mesi. Solo negli ultimi 15 mesi al codice dei contratti pubblici (o appalti) sono state introdotte 120 modifiche dai decreti legge e dalle leggi approvate in Parlamento. Un terremoto continuo che spiazza gli operatori e rende necessario un nuovo punto fermo sull'intera materia.
All'interno dei criteri di delega c'è un'altra delle novità rilevanti del disegno di legge, là dove per garantire «semplificazione delle procedure e creazioni di condizioni favorevoli per il partenariato pubblico-privato e la finanza di progetto» si esclude la possibilità di varare norme che producano una reformatio in pejus dei contratti rispetto alla disciplina vigente al momento della stipula.
Per il viceministro alle Infrastrutture, Mario Ciaccia, che della riforma è il padre, anche per le consultazioni a tutto campo avute in questi mesi con associazioni delle imprese, banche e fondazioni (tra cui Astrid, Italiadecide e Respublica hanno avuto un ruolo preminente), si tratta «del necessario completamento e consolidamento della disciplina».
Ciaccia, così come il ministro delle Infrastrutture, Corrado Passera, punta soprattutto al rafforzamento delle norme agevolative dei contratti di partenariato pubblico-privato.
Per aumentare la bancabilità dei progetti –e la finanziabilità dei progetti da parte del sistema bancario– viene introdotta la cosiddetta «consultazione preliminare» anche con le imprese prequalificate in gara, da tenersi prima del termine di presentazione delle offerte. In questo modo committenti e imprese potranno «verificare l'insussistenza di criticità del progetto posto a base di gara».
Il bando di gara potrà anche prevedere la risoluzione del rapporto in caso di mancata sottoscrizione del contratto di finanziamento, il cosiddetto closing finanziario, «o di adeguati impegni al versamento delle risorse entro un congruo termine dalla data di approvazione del progetto definitivo». Per capire quanto sia delicato questo aspetto, basti ricordare che grandi opere lombarde come Tem e Brebemi, per cui sono già stati avviati da tempo i cantieri, non hanno ancora raggiunto il closing finanziario.
Un altro aspetto della riforma è la maggiore facilità del subentro nel rapporto concessorio. Il Governo dà 120 giorni al soggetto finanziatore per individuare l'impresa subentrante nei lavori dopo la risoluzione per fatti imputabili al concessionario e si elimina il decreto ministeriale che avrebbe dovuto dettare «criteri e modalità» per individuare il subentrante (articolo Il Sole 24 Ore del 31.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZII crediti delle imprese. Slitta a oggi il via libera dell'esecutivo al decreto legislativo che recepisce la direttiva europea. Pa, dal primo gennaio pagamenti in 30-60 giorni.
L'IMPATTO IN AZIENDA/ Stessi termini anche per le imprese, ma ci sarà maggiore libertà contrattuale sull'entità degli interessi moratori e sulla soglia temporale.

Il governo prova a tener fede all'impegno di sciogliere, una volta per tutte, il nodo degli eterni tempi di pagamento dei debiti della pubblica amministrazione, oltre a quelli tra imprese.
Approda stamattina in consiglio dei ministri il decreto legislativo che recepisce la direttiva Ue sui tempi massimi per saldare le fatture. Un Dlgs, arrivato già ieri sul tavolo di Palazzo Chigi ma poi slittato alla riunione "supplementare" di oggi, sul quale il via libera sembra scontato visto che sul testo, seguito da vicino dal ministro per gli Affari europei, Enzo Moavero, c'è già il consenso dei tecnici degli altri ministeri.
I tre articoli della bozza di decreto –che riscrive il precedente Dlgs 231 del 2002– prevedono che dal 01.01.2013 la Pa dovrà pagare i suoi fornitori entro 30 giorni, con deroghe a 60 giorni in particolari casi. Un tetto a cui potranno arrivare anche i pagamenti tra imprese e che potrà essere superato per le loro transazioni commerciali nel caso ci sia accordo tra le parti. Il Dlgs, che non dovrà passare per i pareri del Parlamento, dovrebbe dunque rispettare la data stabilita dalla legge sullo statuto di impresa (la 180/2011) che oltre a prevedere la delega ad hoc per il Governo anticipa di quattro mesi –a metà novembre (invece che a metà marzo)– l'introduzione della direttiva Ue 2011/7.
Un'accelerazione, dunque, che sarà molto probabilmente rispettata anche se poi le nuove regole scatteranno per le transazioni commerciali che si concluderanno dal 01.01.2013 in poi. Un lasso di tempo, questo, –spiega la relazione illustrativa al decreto– necessario per dare tempo a tutti, Pa in primis, di adeguarsi anche per quanto riguarda la «modulistica contrattuale e le procedure interne di pagamento».
Quella dei ritardi nei pagamenti è da sempre un'emergenza, come sa bene anche l'Esecutivo, perché di fatto chiude i rubinetti togliendo liquidità alle imprese e alle Pmi costrette ad aspettare in media circa 180-190 giorni per essere pagate, con punte record al Sud dove si superano anche i 1.500 giorni. E le regole già in vigore –come quelle previste ad esempio per i lavori pubblici– finora non hanno sortito effetti. Da qui l'attesa per i nuovi paletti europei che, come detto, fissano a 30 giorni il termine ordinario che la Pa deve rispettare per pagare. Anche se ci saranno delle deroghe: in particolare per asl, ospedali e imprese pubbliche che possono portare a 60 giorni il termine massimo. Ma anche tutte le altre Pa potranno accedere a questa deroga nel caso "eccezionale" in cui l'eventuale proroga sia giustificata «dalla natura o dall'oggetto del contratto» oppure dalle «circostanze esistenti al momento della sua conclusione».
Per le amministrazioni pubbliche che non rispetteranno i tempi scatterà la "sanzione" degli interessi legali di mora. Che decorreranno automaticamente dal giorno successivo alla scadenza del termine del pagamento senza che sia necessaria la costituzione in mora. Gli «interessi legali di mora» si calcoleranno prevedendo una maggiorazione di 8 punti percentuali sul tasso fissato dalla Banca centrale europea: in sostanza si aggireranno intorno alla soglia del 10 per cento.
Per le imprese invece ci sarà maggiore libertà contrattuale: oltre a concordare l'entità degli interessi moratori potranno decidere, pattuendolo per iscritto, anche di superare la soglia massima dei 60 giorni per pagare. Il decreto però prevede espressamente tutta una serie di paletti per escludere automaticamente clausole vessatorie che puntino ad aggirare i tempi massimi, il pagamento degli interessi e l'eventuale risarcimento per i costi che sono necessari per recuperare i crediti.
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I punti chiave
I PAGAMENTI DELLA PA - Saldo entro 30 giorni
Il decreto legislativo prevede che dal 01.01.2013 la Pubblica amministrazione provveda al saldo dei pagamenti verso i suoi fornitori entro 30 giorni che scattano dal ricevimento della fattura o dal ricevimento delle merci o dalla data di prestazione dei servizi. Oppure dall'accettazione o dalla verifica (se previsto) della conformità della merce o dei servizi alla previsioni contrattuali
LE DEROGHE - Le proroghe a 60 giorni
Sono previste delle deroghe a 2 mesi per le imprese pubbliche e per gli enti pubblici che forniscono assistenza sanitaria. Anche le altre Pa potranno pagare a 60 giorni in casi eccezionali, e cioè quando l'eventuale proroga sia giustificata «dalla natura o dall'oggetto del contratto» oppure dalle «circostanze esistenti al momento della sua conclusione»
GLI INTERESSI DI MORA - Decorrenza automatica
Gli interessi moratori decorrono automaticamente dal giorno successivo alla scadenza del termine del pagamento senza che sia necessaria la costituzione in mora. Nel caso il debitore sia una Pa scattano gli «interessi legali di mora» con una maggiorazione di 8 punti percentuali al tasso fissato dalla Bce. Per i pagamenti tra imprese si potrà invece concordare un tasso
LE FATTURE TRA IMPRESE - Saldo tra 30 e 60 giorni
Anche nelle transazioni commerciali tra le imprese è prevista la regola ordinaria dei 30 giorni per il pagamento che possono allungarsi fino a 60 giorni. Un tetto, questo, che può essere a sua volta superato nel caso sia stato pattuito espressamente tra le parti un termine di pagamento superiore. La clausola relativa al nuovo termine dovrà essere però provata per iscritto e non dovrà risultare «iniqua» per il creditore
NO A CLAUSOLE INIQUE - Tutti i casi di grave iniquità
Prevista la nullità delle clausole relative al termine di pagamento, al saggio degli interessi moratori e al risarcimento dei costi di recupero. Sono considerate ex lege gravemente inique le clausole che escludono il diritto al pagamento degli interessi di mora e quelle relative alla data di ricevimento della fattura, mentre si presumono gravemente inique quelle che escludono il risarcimento dei costi di recupero
I RISARCIMENTI - Rimborsi automatici dei costi
Il creditore ha diritto anche al rimborso dei costi che ha sostenuto per il recupero delle somme che non sono state tempestivamente corrisposte. Al creditore spetta, infatti, senza che sia necessaria la costituzione in mora, un importo forfettario di almeno 40 euro (come soglia minima) a titolo di risarcimento del danno. È comunque fatta salva la prova del maggior danno, che può comprendere i costi di assistenza per il recupero del credito (articolo Il Sole 24 Ore del 31.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATASussiste difetto di giurisdizione del G.A. con riguardo all’impugnazione dei provvedimenti di rimozione di impianti pubblicitari posizionati abusivamente ai sensi dell’art. 23 del d.lgs. n. 285/1992, in quanto tale ordine deriva direttamente, quale misura consequenziale, dall’accertamento della violazione e dall’irrogazione della prescritta sanzione pecuniaria, con riferimento al codice della strada, sicché il provvedimento del Comune che dispone la rimozione dell’impianto pubblicitario abusivo ai sensi di detto articolo 23 costituisce un accessorio della sanzione amministrativa pecuniaria (e non un mezzo accordato all’Ente pubblico proprietario della strada per assicurare il rispetto delle disposizioni di cui a detto art. 23), con la conseguenza che l’atto deve essere conosciuto dal G.O., competente ai sensi del combinato disposto degli articoli 22 e 23 della legge n. 689/1981.
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Occorre per l’installazione di impianto pubblicitario, a latere strada, non solo l'autorizzazione ex art. 23 del d.lgs. n. 285/1992, ma anche un provvedimento di concessione dell'uso del suolo su cui insiste l’impianto.
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L’art. 13-bis del d.lgs. n. 285/1992 stabilisce genericamente che è l'ente proprietario della strada che diffida l'autore della violazione e il proprietario o il possessore del suolo privato, nei modi di legge, a rimuovere il mezzo pubblicitario a loro spese entro e non oltre 10 giorni dalla data di comunicazione dell'atto, sicché è irrilevante quale sia l’Organo comunale che dispone la rimozione, purché competente, non potendo di certo costituire la circostanza che la disposizione sia contenuta in un verbale della Polizia Municipale invece che in un provvedimento di altro Ufficio all’uopo preposto causa escludente della giurisdizione del G.O. in materia.

Si conviene, infatti, con il primo Giudice che non sussistono ragioni per discostarsi dalla costante giurisprudenza, secondo la quale sussiste difetto di giurisdizione del G.A. con riguardo all’impugnazione dei provvedimenti di rimozione di impianti pubblicitari posizionati abusivamente ai sensi dell’art. 23 del d.lgs. n. 285/1992, in quanto tale ordine deriva direttamente, quale misura consequenziale, dall’accertamento della violazione e dall’irrogazione della prescritta sanzione pecuniaria, con riferimento al codice della strada, sicché il provvedimento del Comune che dispone la rimozione dell’impianto pubblicitario abusivo ai sensi di detto articolo 23 costituisce un accessorio della sanzione amministrativa pecuniaria (e non un mezzo accordato all’Ente pubblico proprietario della strada per assicurare il rispetto delle disposizioni di cui a detto art. 23), con la conseguenza che l’atto deve essere conosciuto dal G.O., competente ai sensi del combinato disposto degli articoli 22 e 23 della legge n. 689/1981 (cfr.: Cass. Civ., SS. UU., 23.06.2010 n. 15170; 14.01.2009, n. 563; 18.11.2008 n. 27334; 06.06.2007 n. 13230; 17.07.2006 n. 16129; 19.11.1998 n. 11721);
La mera circostanza che coesistono, riguardo alla installazione delle insegne pubblicitarie di cui trattasi, anche poteri dei Comuni in materia urbanistica ed edilizia, occorrendo per l’installazione non solo una autorizzazione ex art. 23 del d.lgs. n. 285/1992, ma anche un provvedimento di concessione dell'uso del suolo su cui insiste l’impianto, deve ritenersi, considerato che nella fattispecie non viene posto in discussione alcuno di detti poteri, inidonea ad attrarre nella giurisdizione del G.A. il provvedimento del Comune che dispone la rimozione dell’impianto pubblicitario abusivo ex articolo 23 del codice della strada, soggetto alla giurisdizione del G.O. in quanto costituente un accessorio della sanzione amministrativa pecuniaria.
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Con riguardo agli impianti n. 4, 5, 6 e 7, prosegue l’appello, le rimozioni forzate non sono state disposte con verbali della Polizia municipale, ma del Dipartimento Regolazione e Gestione Affissioni e Pubblicità con le impugnate deliberazioni, sicché essi sarebbero veri e propri provvedimenti amministrativi in quanto manifestazione del potere di autogoverno del territorio per assicurare il rispetto dell’art. 23 del d.lgs. n. 285/1992, da impugnare innanzi al G.A.
Il motivo in esame non può essere condiviso dal Collegio, atteso che l’art. 13-bis del d.lgs. n. 285/1992 stabilisce genericamente che è l'ente proprietario della strada che diffida l'autore della violazione e il proprietario o il possessore del suolo privato, nei modi di legge, a rimuovere il mezzo pubblicitario a loro spese entro e non oltre dieci giorni dalla data di comunicazione dell'atto, sicché è irrilevante quale sia l’Organo comunale che dispone la rimozione, purché competente, non potendo di certo costituire la circostanza che la disposizione sia contenuta in un verbale della Polizia Municipale invece che in un provvedimento di altro Ufficio all’uopo preposto causa escludente della giurisdizione del G.O. in materia
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 31.10.2012 n. 5556 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’attività edilizia che il privato può legittimamente porre in essere deve essere necessariamente conforme al titolo abilitativo, di modo che eventuali limitazioni e/o prescrizioni devono risultare dal titolo emanato dal Comune.
Ogni prescrizione e/o limitazione all’edificazione deve risultare sia dal documento rappresentante il titolo edilizio conservato presso gli uffici comunali, sia dal documento rappresentativo del titolo edilizio rilasciato al privato beneficiario, con la conseguenza che non possono essere opposte a quest’ultimo eventuali prescrizioni che non risultano dal titolo edilizio allo stesso in concreto rilasciato.

Il Collegio ritiene fondato il secondo motivo di appello (sub b) dell’esposizione in fatto), nella parte in cui, con lo stesso, si evidenzia l’error in iudicando della sentenza impugnata, per non avere la medesima considerato, in particolare, la violazione del principio del legittimo affidamento, in quanto il fabbricato realizzato è stato posto in relazione “direttamente ed esclusivamente con la disposizione regolamentare che prevede la distanza di 20 metri dalla strada senza minimamente considerare che il permesso di costruire consentiva una distanza inferiore e che, quindi, vi era stato al riguardo un legittimo affidamento da parte dell’originario ricorrente, nonché soprattutto il consolidamento del diritto di quest’ultimo al mantenimento del fabbricato così come assentito e realizzato, per essere state le opere che lo riguardavano pressoché ultimate”.
Giova, innanzi tutto, osservare che la costruzione realizzata dal sig. Ciccone risulta previamente autorizzata con permesso di costruire n. 3315/2008.
Orbene, la apposizione di una “correzione in rosso” (così definita dall’appellante: pag. 4 appello), relativa ad una prescrizione di mantenere il fabbricato ad una distanza di 20 metri dalla strada comunale San Giorgio La Molara – Montefalcone, risulta presente solo sulla copia del progetto esistente agli atti del Comune, mentre, per quel che interessa nella presente sede, non risulta sulla copia in possesso dell’attuale appellante.
Su tale circostanza di fatto, mentre non vi è contestazione da parte del non costituito Comune di San Giorgio La Molara, la società controinteressata si limita ad osservare che la citata correzione, se effettivamente apposta, “è da qualificarsi alla stregua di mera specificazione ricognitiva dell’obbligo normativo previsto dall’art. 26 DPR 16.12.1992 n. 495, volta a facilitare la cognizione, da parte del sig. Ciccone, delle previsioni normative concernenti l’attività edilizia”.
Orbene il Collegio (prescindendo dalle argomentazioni ampiamente esposte dall’appellante e relative a quanto emergente dagli atti di un procedimento penale che si assume essere stato instaurato), rileva che il diniego di accertamento di conformità ex art. 36 DPR n. 380/2001 è illegittimo, nella misura in cui detto diniego si fonda su una non conformità di quanto realizzato alla normativa relativa alla “distanza dalla strada”.
Ed infatti, occorre osservare che l’attività edilizia che il privato può legittimamente porre in essere deve essere necessariamente conforme al titolo abilitativo (nel caso di specie, permesso di costruire), di modo che eventuali limitazioni e/o prescrizioni devono risultare dal titolo emanato dal Comune. E ciò a maggior ragione in un caso come quello di specie, dove la distanza dalla strada non costituisce solo una mera “prescrizione” afferente al rispetto, per ragioni di sicurezza, di una distanza minima dalla strada comunale, ma condiziona decisamente l’ubicazione della costruzione nel suo complesso e la individuazione in concreto dell’area di sedime del fabbricato.
E’ appena il caso di aggiungere che ogni prescrizione e/o limitazione all’edificazione deve risultare sia dal documento rappresentante il titolo edilizio conservato presso gli uffici comunali, sia dal documento rappresentativo del titolo edilizio rilasciato al privato beneficiario, con la conseguenza che non possono essere opposte a quest’ultimo eventuali prescrizioni che non risultano dal titolo edilizio allo stesso in concreto rilasciato.
A fronte di ciò, il Comune di San Giorgio La Molara, in sede di esame dell’istanza di accertamento di conformità, non avrebbe potuto non considerare tale discrasia esistente tra le varie copie dell’elaborato progettuale (ed in particolare l’assenza di ogni prescrizione nel titolo rilasciato all’interessato).
Il medesimo Comune, laddove avesse ritenuto la sussistenza di un limite di distanza non considerato dal rilasciato titolo autorizzatorio edilizio avrebbe dovuto, ricorrendone i presupposti di attualità dell’interesse pubblico, procedere ad annullamento di ufficio del titolo medesimo e quindi (solo a questo punto) rilevare –impregiudicata ogni ulteriore valutazione di tale “modus operandi”– la non conformità del concretamente costruito a norme di legge e regolamento e la (eventuale) non emanabilità di un permesso di costruire a sanatoria (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.10.2012 n. 5509 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La posizione giuridica del soggetto che presenta un esposto al comune chiedendo che venga dichiarato decaduto un permesso di costruire.
Il TAR Veneto, Sez. II, con l’ordinanza 25.10.2012 n. 644, chiarisce come, coloro che presentano un esposto al Comune, chiedendo l’accertamento della decadenza del permesso di costruire del vicino, per mancato inizio dei lavori entro l’anno, non sono da considerarsi ex se come controinteressati: “gli odierni ricorrenti, in qualità di presentatori dell’esposto da cui ha preso avvio l’attività di controllo da parte dell’amministrazione, non assumono la qualifica di contro interessati, per cui il Comune, all’esito dei controlli effettuati, non era tenuto ad effettuare le comunicazioni ai sensi dell’art. 10-bis della L. n. 241/1990”.
L’interesse di tali soggetti, infatti, “risulta soddisfatto dall’avvio dei controlli effettuati dall’amministrazione, essendo rimessa alla valutazione della stessa, all’esito degli accertamenti operati, l’adozione del provvedimento di decadenza del permesso di costruire”.
Il TAR conferma le considerazione già espresse in un caso analogo: “Premesso che l’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 risulta applicabile ai soli atti a istanza di parte, in materia di decadenza (nella specie: decadenza da permesso di costruire) e con riguardo al caso in cui l’azione d’ufficio sia eccitata da un terzo mediante diffida, posto che la pronuncia di decadenza si configura come atto d’ufficio la diffida ha la sola funzione di far determinare l’amministrazione all’adozione del provvedimento, ma una volta che questa abbia autonomamente deciso di avviare il procedimento di decadenza e, acquisite le deduzioni delle parti interessate, decida per l’archiviazione dello stesso, la posizione del diffidante è del tutto recessiva per non dire irrilevante di fronte all’azione pubblica; in altri termini due sono i procedimenti, quello cui mira la diffida e quello deciso dalla p.a.; la pretesa del diffidante è dunque soddisfatta con l’avvio del procedimento di decadenza, le cui vicende sono tuttavia governate esclusivamente dalla amministrazione, la quale richieste le deduzioni delle parti si determina discrezionalmente; non deve dunque essere attivato il sub procedimento dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 comportante il preavviso di diniego per consentire così agli stessi istanti di controdedurre ulteriormente (fattispecie relativa a richiesta di adozione di decadenza dal permesso di costruire , il cui procedimento, avviato a seguito di diffida, si era concluso con un’archiviazione)” (TAR Veneto, Venezia, sez. II, 14.11.2008, n. 3550) (link a http://venetoius.it).

APPALTI SERVIZI: L'illuminazione votiva e' un servizio pubblico di rilevanza economica.
L’individuazione della rilevanza economica di un servizio pubblico avviene, caso per caso, in base a questi tre elementi: scopo di lucro dell’attività svolta; assunzione dei rischi connessi all’attività; eventuale finanziamento pubblico dell’attività in questione.

Sono queste le tre condizioni richiamate dalla sentenza 23.10.2012 n. 5409 del Consiglio di Stato, Sez. V, che si è pronunciato su una questione relativa all’affidamento del servizio di illuminazione votiva da parte di un’amministrazione comunale.
La sentenza, riformando la decisione dei giudici di primo grado ribadisce i principi generali di derivazione comunitaria elaborati dalla Corte di Giustizia CE con la sentenza 22.05.2003, causa 18/2001, dotati, al pari della normativa comunitaria, di piena efficacia negli ordinamenti nazionali ma molto spesso trascurati dal legislatore e dagli amministratori pubblici nazionali.
La decisione in esame distingue tra servizi pubblici di rilevanza economica e servizi privi di tale connotazione, avendo cura inoltre di verificare quali riflessi produce tale distinzione sulle modalità di affidamento del servizio.
Essa stabilisce: “In sostanza, per qualificare un servizio pubblico come avente rilevanza economica o meno è ragionevole pensare che si debba prendere in considerazione non solo la tipologia o caratteristica merceologica del servizio (vi sono attività meramente erogative come l'assistenza agli indigenti), ma anche la soluzione organizzativa che l'ente locale, quando può scegliere, sente più appropriata per rispondere alle esigenze dei cittadini (ad esempio servizi della cultura e del tempo libero da erogare, a seconda della scelta dell'ente pubblico, con o senza copertura dei costi).
Dunque, la distinzione di cui si sta parlando può anzitutto derivare da due presupposti, in quanto non solo vi può essere un servizio che ha rilevanza economica o meno in astratto ma anche uno specifico servizio che, per il modo in cui è organizzato nel caso di specie, presenta o non presenta tale rilevanza economica.
Saranno, quindi, privi di rilevanza economica i servizi che sono resi agli utenti in chiave meramente erogativa e che, inoltre, non richiedono una organizzazione di impresa in senso obiettivo (invero, la dicotomia tra servizi a rilevanza economica e quelli privi di rilevanza economica può anche essere desunta dalle norme privatistiche, coincidendo sostanzialmente con i criteri che contraddistinguono l’attività di impresa nella previsione dell'art. 2082 Cod. civ. e, per quanto di ragione, dell’art. 2195 o, per differenza, con ciò che non vi può essere ricompreso).
Per gli altri servizi, astrattamente di rilevanza economica, andrà valutato in concreto se le modalità di erogazione, ne consentano l’assimilazione a servizi pubblici privi di rilevanza economica
.”
Nel caso in esame i giudici di Palazzo Spada hanno, pertanto, ritenuto il servizio di illuminazione votiva quale servizio a rilevanza economica, basandosi sull’orientamento giurisprudenziale prevalente (ex multis Cons. Stato, sez. V, 11.08.2010, n. 5620; 29.03.2010, n. 1790; 05.12.2008, n. 6049; 14.04.2008, n. 1600), nonché sulle considerazioni espresse dall’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici (parere 03.04.2008) (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Integra gli estremi di una vera e propria revoca di un provvedimento amministrativo l'atto che, ancorché denominato dalla Pubblica Amministrazione come annullamento, è adottato per ritirare, per ragioni di opportunità e per motivi di interesse pubblico, tutti gli atti di una gara per la fornitura dei servizi che era stata provvisoriamente aggiudicata, con sostanziale applicazione dei poteri ora disciplinati dagli artt. 21-quinquies e 21-nonies della legge n. 241 del 1990.
Una tale scelta, solo se congruamente motivata, appartiene alla sfera del merito amministrativo e non è sindacabile in sede giurisdizionale in assenza di profili di irrazionalità manifesta e sviamento apprezzabili in sede di legittimità.

Deve tuttavia qualificarsi come un vero e proprio atto di "revoca di un provvedimento" tale atto che, ancorché denominato dalla P.A. come "annullamento", è stato adottato per ritirare (per ragioni di opportunità e per motivi di interesse pubblico) tutti gli atti di una gara per la fornitura dei servizi che era stata provvisoriamente aggiudicata, con sostanziale applicazione dei poteri ora disciplinati dall'art. 21-quinquies e nonies della legge n. 241 del 07.08.1990 (che prevede che debba tenersi conto anche degli interessi dei destinatari).
Tale scelta, solo se congruamente motivata, appartiene alla sfera del merito amministrativo e non è sindacabile dal G.A. in assenza di profili di irrazionalità manifesta e sviamento apprezzabili in sede di legittimità (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.10.2012 n. 5397 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: E' illegittimo l'operato dell'Amministrazione che in seguito all'annullamento giurisdizionale della disposta aggiudicazione faccia luogo all'annullamento dell'intera procedura di gara. Nella descritta ipotesi, invero, l'Amministrazione è tenuta a riprendere il procedimento dal segmento direttamente viziato e, dunque, a riaprire il procedimento di gara, adottando tutti gli atti consequenziali finalizzati alla nuova aggiudicazione, in ossequio alla regola della conservazione degli atti giuridici.
Annullata, dunque, l'aggiudicazione della procedura di gara alla prima classificata, il legittimo e trasparente operato dell'Amministrazione deve tradursi nell'aggiudicazione della procedura alla seconda classificata, la cui offerta era stata considerata in precedenza ammissibile.
Solo dopo l'attuazione di tale fase rinnovatoria, imposta dalla esecutività della sentenza di annullamento del provvedimento di aggiudicazione, l'Amministrazione resta libera, in alternativa alla stipula del contratto per l'affidamento della concessione, di procedere in via di autotutela alla rimozione degli atti indittivi della gara ai sensi dell'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, poiché non è ad essa precluso di provvedere, dopo la riapertura del procedimento di aggiudicazione ed adozione dei provvedimenti dovuti, mediante atto adeguatamente motivato con il richiamo ad un preciso e concreto interesse pubblico, alla revoca d'ufficio ovvero all'annullamento dell'aggiudicazione.
Osserva in proposito la Sezione che nel caso di annullamento giurisdizionale degli atti di una procedura concorsuale volta all’aggiudicazione di un pubblico appalto la P.A. deve riprendere il procedimento dal segmento direttamente viziato, con conseguente obbligo per la stazione appaltante di riaprire il procedimento di gara, adottando tutti gli atti consequenziali finalizzati alla nuova aggiudicazione, in ossequio alla regola della conservazione degli atti giuridici.
A seguito dell'annullamento dell'aggiudicazione della procedura di gara alla prima classificata, la cui offerta avrebbe, invece, dovuto sin da subito essere esclusa, il legittimo e trasparente operato dell'Amministrazione si sarebbe dovuto quindi tradurre nell'aggiudicazione della procedura alla seconda classificata, la cui offerta era stata considerata in precedenza pienamente ammissibile.
In tutti i casi in cui la gara non possa essere aggiudicata al concorrente classificatosi al primo posto è, infatti, corretto che l'Amministrazione appaltante proceda ad assegnare la gara ai concorrenti che seguono nella graduatoria (Consiglio Stato sez. V, 02.02.2009, n. 557)
Solo dopo l'attuazione, ora per allora, della fase rinnovatoria imposta dalla esecutività della sentenza di annullamento del provvedimento di aggiudicazione e dalla applicazione dei cennati principi l'Amministrazione resta libera, in alternativa alla stipula del contratto per l'affidamento della concessione, di procedere in via di autotutela alla rimozione degli atti indittivi della gara ai sensi dell'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990.
Non è infatti precluso all'Amministrazione di provvedere, dopo la riapertura del procedimento di aggiudicazione ed adozione dei provvedimenti dovuti, mediante atto adeguatamente motivato con il richiamo ad un preciso e concreto interesse pubblico, alla revoca d'ufficio ovvero all'annullamento dell'aggiudicazione.
Detta potestà di ritiro si fonda sul principio costituzionale di buon andamento dell'azione amministrativa che impegna l'Amministrazione ad adottare atti il più possibile rispondenti ai fini da conseguire
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.10.2012 n. 5397 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Il proprietario, ove non sia responsabile della violazione, non ha l'obbligo di provvedere direttamente alla bonifica.
Secondo l’avviso già espresso dalla Sezione e dal quale non si ravvisano motivi per discostarsi, il decreto di recepimento delle determinazioni conclusive della conferenza di servizi decisoria relativa ad un sito di bonifica di interesse nazionale costituisce un mero atto di gestione, di competenza dirigenziale e non del Ministro, atteso che esso non concerne le scelte di fondo che la p.a. è chiamata a compiere in materia di bonifica, avendo invece ad oggetto la prescrizione di un singolo intervento di messa in sicurezza d'emergenza e, poi, di bonifica (TAR Toscana, sez. II, 25.11.2009, n. 2088).
Ed invero, l'art. 252 del d.lgs. n. 152/2006 (applicabile al procedimento in forza della disposizione transitoria di cui all’art. 265 d.lgs. n. 152 del 2006) distingue tra atti ed attività di competenza del Ministro dell'Ambiente ed atti e attività facenti capo al Ministero. Rientra ad es. tra i primi l'individuazione, ai fini della bonifica, dei siti di interesse nazionale (art. 252, comma 2, cit.), il che è del tutto logico, dovendo la suddetta individuazione reputarsi atto attinente all'indirizzo politico-amministrativo in materia di bonifica. La rilevanza politica di un tale atto risulta, del resto, confermata dalla necessità dell'intesa con le Regioni interessate: intesa prescritta, per l'appunto, dal comma 2 dell'art. 252. Si deve invece reputare che l'impugnato decreto di recepimento della Conferenza di Servizi costituisca un mero atto di gestione, di competenza dirigenziale e non del Ministro, atteso che esso certamente non concerne le scelte di fondo che la P.A. è chiamata a compiere nel settore in esame (come ad es., la mappatura dei siti di interesse nazionale), avendo invece ad oggetto la prescrizione di un singolo intervento di messa in sicurezza d'emergenza e, poi, di bonifica.
Del resto, l'art. 252, comma 4, del d.lgs. n. 152 cit. attribuisce la competenza per i procedimenti di bonifica di cui al precedente art. 242, qualora abbiano ad oggetto i siti di interesse nazionale, "alla competenza del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio": né una simile espressione può esser considerata atecnica o comunque non voluta e casuale, poiché essa si inserisce in una disposizione (l'art. 252 cit.) in cui, come accennato, quando ci si vuole riferire alle competenze del Ministro dell'Ambiente, lo si dispone espressamente, stabilendo che l'atto compete al "Ministro" e non al "Ministero" (in tal senso cfr. anche TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 09.10.2009, n. 1738).
Peraltro, la doglianza si palesa sotto altro profilo condivisibile.
Lamenta, infatti, la ricorrente che nella fattispecie si sia violato il precetto contenuto nell’art. 252, co. 4, d.lgs. n. 152/2006 secondo cui “La procedura di bonifica di cui all'articolo 242 dei siti di interesse nazionale è attribuita alla competenza del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, sentito il Ministero delle attività produttive” (ora Ministero dello sviluppo economico).
A più forte ragione si ritiene pretermesso, ove ritenuto applicabile ratione temporis, l’art. 15, co. 4, del d.m. n. 471/1999 a tenore del quale nel procedimento de quo si rende necessario il “concerto” con gli altri dicasteri interessati.
Ebbene, dall’esame degli atti risulta evidente che il Ministero dello sviluppo economico, oltre a non aver partecipato ad alcuna delle conferenze istruttorie e decisorie che hanno preceduto l’emissione dei decreti avversati, neppure consta essere stato “sentito” successivamente, prima della definitiva assunzione dei provvedimenti conclusivi.
Né può ritenersi che tale omissione rivesta carattere meramente formale essendo pacifico che ove la sequenza procedimentale necessiti per la sua formazione il parere o il concerto con altra autorità la sua omissione ne vizia gli esiti conclusivi (cfr. TAR Marche, 23.11.2011, n. 877; TAR Lazio, sez. I, 01.08.2011, n. 6858).
Fondati si manifestano, altresì il terzo e quarto motivo con cui Depositi Costieri Livorno lamenta la contraddittorietà tra gli esiti dell’istruttoria e le conclusioni raggiunte dalle Conferenze di servizi, poi fatte proprie dal Direttore generale per la qualità della vita del Ministero dell’ambiente con i decreti qui avversati, in merito alla responsabilità della medesima nell’aver causato la contaminazione rilevata con conseguente violazione degli artt. 239 e segg. del d.lgs. n. 152/2006 e dell’art. 17 d.lgs. n. 22/1997, nonché del d.m. n. 471/1999.
In proposito occorre premettere che la giurisprudenza assolutamente prevalente è nel senso che le norme appena citate non consentono all’Amministrazione procedente di imporre ai privati che non abbiano alcuna responsabilità, né diretta, né indiretta sull'origine del fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali proprietari o gestori o addirittura in ragione della mera collocazione geografica del bene, l'obbligo di bonifica di rimozione e di smaltimento dei rifiuti e, in generale, della riduzione al pristino stato dei luoghi che è posto unicamente in capo al responsabile dell'inquinamento, che le autorità amministrative hanno l'onere di ricercare ed individuare. Ai fini della responsabilità in questione è perciò necessario che sussista e sia provato, attraverso l'esperimento di adeguata istruttoria, l'esistenza di un nesso di causalità fra l'azione o l'omissione e il superamento -o pericolo concreto ed attuale di superamento- dei limiti di contaminazione, senza che possa venire in rilievo una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore dell'immobile meramente in ragione di tale qualità (cfr. Cons. Stato sez. VI 18.04.2011, n. 2376; id., Sez. V, 19.03.2009, n. 1612; TAR Campania, Napoli, sez. V, 01.03.2012, n. 1073; TAR Toscana, sez. II, 03.03.2010, n. 594; id. 01.04.2011, n. 565).
Alla luce delle superiori considerazioni, appare evidente che, nel sistema sanzionatorio ambientale, il proprietario del sito inquinato è senza dubbio soggetto diverso dal responsabile dell'inquinamento. Mentre su quest'ultimo gravano, oltre altri tipi di responsabilità da illecito, tutti gli obblighi di intervento, di bonifica e lato sensu ripristinatori, previsti dal Codice dell'ambiente (in particolare, dagli artt. 242 ss.), il proprietario dell'immobile, pur incolpevole, non è immune da ogni coinvolgimento nella procedura relativa ai siti contaminati e dalle conseguenze della constatata contaminazione dovendo egli, infatti, attuare le misure di prevenzione di cui all'art. 242, nonché potendo sempre attivare volontariamente gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale.
Più in particolare, ciò significa che il proprietario, ove non sia responsabile della violazione, non ha l'obbligo di provvedere direttamente alla bonifica, ma solo l'onere di farlo se intende evitare le conseguenze derivanti dai vincoli che gravano sull'area sub specie di onere reale e di privilegio speciale immobiliare (ex multis, Cons. Stato sez. V, 05.09.2005, n. 4525).
Orbene, nel caso all’esame, emerge dagli atti istruttori delle conferenze di servizio l’insufficienza delle indagini eseguite e poste a fondamento dell’obbligo della deducente di procedere alla messa in sicurezza d’emergenza della falda acquifera del sito in questione, nonché la contraddittorietà della condotta dell’Amministrazione procedente.
Anche a prescindere dal repentino mutamento della condotta del Ministero, inizialmente incline a procedere in maniera congiunta e coordinata, previo approfondimento delle indagini istruttorie, all'attività di messa in sicurezza di emergenza, e poi determinatosi a omettere, senza alcuna motivazione lo svolgimento dell’istruttoria commissionata a Sviluppo Italia, va posto in evidenza che nei provvedimenti non vengono individuati collegamenti fattuali tra l’attività svolta dalla ricorrente (che, si rammenta, si occupa di stoccaggio e movimentazione di metanolo) e le fonti della contaminazione rilevate.
Inoltre, e ciò consente di condividere anche le censure avanzate con il quinto e sesto motivo, in ordine alla sussistenza dei presupposti per la messa in sicurezza d’emergenza.
Si osserva in proposito che l’art. 240, co. 1, lett. i), definisce le misure di prevenzione come “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l'ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia” e ciò quando venga accertato il superamento delle “concentrazioni soglia di rischio (CSR)” che la lettera c) dello stesso comma indica come “i livelli di contaminazione delle matrici ambientali, da determinare caso per caso con l'applicazione della procedura di analisi di rischio sito specifica secondo i principi illustrati nell'Allegato 1 alla parte quarta del presente decreto e sulla base dei risultati del piano di caratterizzazione, il cui superamento richiede la messa in sicurezza e la bonifica.”.
Analoghi presupposti sono individuati nell'art. 2, d.m. 25.10.1999 n. 471 secondo cui la misura straordinaria della messa in sicurezza d’emergenza, è quella relativa ad «ogni intervento necessario ed urgente per rimuovere le fonti inquinanti, contenere la diffusione degli inquinanti e impedire il contatto con le fonti inquinanti presenti nel sito, in attesa degli interventi di bonifica e ripristino ambientale o degli interventi di messa in sicurezza permanente».
Fermo restando che non sussiste in capo al proprietario di un'area inquinata non responsabile dell'inquinamento l'obbligo di porre in essere interventi di messa in sicurezza d'emergenza, ma solo la facoltà di eseguirli per mantenere l'area interessata libera dall'onere reale che incombe sull'area de qua ai sensi dell'art. 253 del d.lgs. n. 152/2006, la Sezione ha già avuto modo di affermare in proposito che nel caso della bonifica dei siti di interesse nazionale, l'imposizione di misure di messa in sicurezza d'emergenza ulteriori rispetto a quelle già adottate, deve essere adeguatamente motivata con riferimento all'urgenza, al pericolo per la salute e all'inadeguatezza delle misure preesistenti, al fine di garantire il rispetto del principio di trasparenza e del contraddittorio con i destinatari delle prescrizioni (TAR Toscana, sez. II, 22.12.2010, n. 6798; id. 26.07.2010, n. 3140).
Non può essere sufficiente, a tale fine, il mero richiamo al riscontrato superamento di alcuni limiti tabellari di cui al DM n. 471/1999 per determinate sostanze senza un approfondimento, quantomeno sommario, ma pur sempre completo, al fine di individuare un pericolo per la salute che imponeva un intervento in termini così immediati, in considerazione anche delle caratteristiche della falda sottostante al sito ed alle sue capacità "migratorie" a valle.
D’altro canto, a chiusura del sistema così delineato, giova osservare che l’art. 240, co. 1, lett. t), del d.lgs. n. 152/2006 definisce quali condizioni di emergenza cui corrispondono obblighi di messa in sicurezza: le concentrazioni attuali o potenziali dei vapori in spazi confinati prossime ai livelli di esplosività o idonee a causare effetti nocivi acuti alla salute; la presenza di quantità significative di prodotto in fase separata sul suolo o in corsi di acqua superficiali o nella falda; la contaminazione di pozzi ad utilizzo idropotabile o per scopi agricoli; il 4) pericolo di incendi ed esplosioni.
Ebbene, nessuna di tali situazioni viene evidenziata dall’Amministrazione procedente come sussistente nel sito in questione (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 19.09.2012 n. 1551 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il possesso del titolo di legittimazione alla proposizione del ricorso per l'annullamento di una concessione edilizia, che discende dalla c.d. vicinitas , cioè da una situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato, esime da qualsiasi indagine al fine di accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall'atto impugnato comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione.
Tutte le questioni preliminari, esaminate anche alla luce delle censure svolte a mezzo del gravame, risultano correttamente decise dal Giudice di prime cure.
In particolare quanto all’idoneità e sufficienza del criterio della vicinitas a fondare, in materia edilizia, una posizione giuridica legittimante, è sufficiente richiamare la costante giurisprudenza della Sezione, secondo la quale “il possesso del titolo di legittimazione alla proposizione del ricorso per l'annullamento di una concessione edilizia, che discende dalla c.d. vicinitas , cioè da una situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato, esime da qualsiasi indagine al fine di accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall'atto impugnato comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione” (tra le tante, Sez. IV, 12.05.2009, n. 2908)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza IV, sentenza 29.08.2012 n. 4643 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'asservimento prevale sulle successive scelte urbanistiche.
a) l'asservimento della capacità edificatoria di un fondo a favore di un altro (cd. cessione di cubatura) ha natura reale ed è opponibile ai terzi a prescindere dalla trascrizione e dalla certificazione urbanistica;
b) il successivo frazionamento dell'area asservita non travolge l'asservimento;
c) l'asservimento è una condizione del fondo che permane anche se in seguito mutano le destinazioni di zona.
Secondo l'ultimo dei principi riportati, in pratica, qualsiasi asservimento di cubatura tra fondi (anche se non trascritto né indicato nel certificato di destinazione urbanistica), è idoneo di fatto a paralizzare la successiva potestà pianificatoria comunale, anche nel caso in cui questa dovesse ampliare la capacità edificatoria generale della zona ove l'area asservita è azzonata.
Venendo al merito della vicenda, possono essere agevolmente risolte mediante il mero richiamo ai precedenti di questo Consiglio le questioni della mancata menzione del vincolo nel certificato urbanistico e quella dell’incidenza del successivo frazionamento sulle sorti del vincolo.
Sul primo versante si è già chiarito che quanto attestato dal certificato di destinazione edilizia sulla base della conformazione giuridica astratta impressa in sede di pianificazione generale non vale ad obliterare l'esigenza di procedere ad una valutazione concreta delle potenzialità edificatorie ancora esprimibili dall'area in forza del computo della cubatura ceduta (Sez. V, 27.06.2011, n. 3823); sul secondo, che il frazionamento catastale dell’area asservita non incide sul pregresso asservimento (Sez. IV, 26.09.2008, n. 4647; 20.07.2011, n. 4405; 09.07.2011, n. 4134;)
Maggiore approfondimento necessita la diversa ed ulteriore questione del rapporto tra asservimento e successiva strumentazione urbanistica. Invero anche in relazione a tale aspetto si è privilegiata la natura reale e definitiva del vincolo inedificandi con conseguente cristallizzazione della situazione tracciata dalle parti nel titolo abilitativo “maggiorato” rilasciato dall’amministrazione, ed inedificabilità assoluta dell’area asservita, pur a fronte di sopravvenienze urbanistiche più favorevoli (da ultimo, in termini netti, Sez. IV 20.07.2011, n. 4405; 09.07.2011, n. 4134)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza IV, sentenza 29.08.2012 n. 4643 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Condominio, distacco dal riscaldamento centralizzato: quali conseguenze?
La questione giuridica sottesa alla sentenza n. 7182/2012 della Cassazione civile è così riassumibile: il condòmino che legittimamente opera il distacco dall’impianto centralizzato di riscaldamento condominiale è tenuto a pagare le spese straordinarie di manutenzione del medesimo oppure no?
La risposta negativa fornita dalla Cassazione è strettamente connessa alla fattispecie esaminata, ma sembra non risolvere la questione in radice, perché fornisce un principio di diritto applicabile non già a tutti i casi di c.d. “distacco legittimo dell’impianto di riscaldamento afferente la singola unità abitativa”, ma solo ai casi in cui la situazione prodotta dal distacco sia irreversibile.
Vediamo nel dettaglio.
Il condomino ricorrente impugna in primo grado due delibere assembleari che gli attribuivano una quota di partecipazione sia alle spese d’esercizio inerenti l’uso del riscaldamento sia alle spese di straordinaria manutenzione dell’impianto centralizzato da cui si era legittimamente distaccato anni prima (ricorda la Corte che la legittimità di detto distacco deve essere valutata in ragione del mancato aggravio di spese di riscaldamento in capo agli altri condomini e della totale assenza di doglianze dei medesimi in ordine ad eventuali squilibri termici e/o irregolarità del servizio).
Il Giudice di prime cure, attestata la legittimità del distacco operato, annullava la sola delibera ponente a carico del condomino la partecipazione alle spese ordinarie, ma non l’altra.
Promossa impugnazione, la Corte d’appello ribaltava quanto statuito in prime cure argomentando in ordine al fatto che l’impianto centralizzato in questione, dopo il distacco dell’appellante, era stato SOSTITUITO e RIDIMENSIONATO in ragione delle effettive esigenze di riscaldamento dei condomini rimanenti e che, pertanto, l’appellante non avrebbe più potuto riattaccarsi: di qui che non vi fosse ragione alcuna della sua partecipazione alle spese straordinarie di manutenzione del nuovo impianto sul quale perdeva ogni diritto di comproprietà.
Interessata della questione a seguito di impugnazione promossa dal condominio, la Cassazione aderisce alla tesi espressa in secondo grado che esclude la partecipazione del condomino distaccato sia dalle spese ordinarie, sia da quelle straordinarie “in quanto il ridimensionamento della nuova caldaia per le sole esigenze dei rimanenti condomini escludeva alcuna possibilità di fruizione di tale impianto, con conseguente impossibilità di eventuali riallacci”.
La posizione della Suprema Corte suscita grande interesse e alcuni interrogativi:
• cosa accade nel caso in cui, a seguito del distacco di uno dei condomini, l’impianto NON venga sostituito e ridimensionato: in questo caso, cioè, il condomino distaccato che potenzialmente potrebbe riallacciarsi, dovrà pagare le spese straordinarie di manutenzione dell’impianto oppure no?
• come si coniuga questa tesi interpretativa con l’art. 1118 comma 2 c.c. che sancisce l’obbligo di ciascun condominio di partecipare alle spese di conservazione delle parti comuni anche nel caso di rinuncia al diritto su detti beni?
Peraltro, ammettere che la delibera condominiale di sostituzione e ridimensionamento dell’impianto centralizzato determini l’estromissione del condomino distaccato dalla comunione sul bene, significa ammettere che l’assemblea condominiale ha potere di incidere sulla quota di proprietà individuale afferente a ciascun condòmino.
Se l’obbligo di partecipazione alle spese di conservazione della cosa comune è conseguenza diretta del diritto di proprietà e non dell’uso effettivo o potenziale della cosa medesima, e se la delibera assembleare non è prevista nel nostro ordinamento quale atto idoneo costituire o estinguere il diritto di proprietà, ebbene, se tutto questo è vero, la tesi del Supremo Collegio oggetto della sentenza in commento sembra, a sommesso avviso di chi scrive, stridere con i principi tradizionali del diritto civile (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 10.05.2012 n. 7182
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EDILIZIA PRIVATA: Vizi dell'opera appaltata: sui gravi difetti di costruzione e la garanzia ex 1669 cc.
Un immobile di nuova costruzione (una villa posta su più piani) presenta diffuse crepe a ragnatela in quasi tutte le stanze che lo compongono, dovute –come sarà accertato in corso di CTU– al cedimento del massetto e ad altri gravi difetti del sottofondo.
La questione, che giuridicamente potrebbe sembrare banale (si tratta di vizio rilevante ex art. 1667 o 1669 cod. civ.?), ha ricevuto soluzioni diverse nei gradi di giudizio che si sono svolti.
La Corte d’Appello di Milano, infatti, con sentenza 08.05.2008, n. 1268, aveva qualificato quei difetti come rilevanti soltanto ex art. 1667 cod. civ., e, confermando la precedente decisione del Tribunale di Como, sezione distaccata di Cantù, aveva rigettato le domande del committente, che per quei difetti chiedeva di essere risarcito, per intervenuta prescrizione.
Viceversa, con la sentenza 06.06.2012, n. 9119 la Corte di Cassazione ha ribadito il proprio orientamento in tema di qualificazione del vizio ex art. 1669 cod. civ. dell’opera appaltata, ed ha cassato con rinvio la decisione della corte territoriale.
E’ in effetti ben noto che i gravi difetti di costruzione, i quali danno luogo alla garanzia prevista dall'art. 1669 cod. civ., non si identificano semplicemente con i fenomeni che influiscono sulla staticità, durata e conservazione dell'edificio, espressamente previsti dalla citata norma, ma possono consistere in tutte le alterazioni che, pur riguardando direttamente una parte dell'opera (e dunque non necessariamente la sua interezza), incidano sulla struttura e sulla funzionalità globale, menomando apprezzabilmente il godimento dell'opera medesima da parte di chi ha diritto di usarne. Pertanto, il vizio rileva anche se relativo ad elementi non strutturali della costruzione, come rivestimenti o pavimentazione.
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità è del tutto uniforme in questo senso, e dunque la Cassazione ha fatto corretta applicazione di consolidati principi di diritto.
Cfr., tra le molte:
• Cass. civ. sez. II, 04.10.2011, n. 20307: “Il "difetto di costruzione" che, a norma dell'art. 1669 cod. civ., legittima il committente all'azione di responsabilità extracontrattuale nei confronti dell'appaltatore, come del progettista, può consistere in una qualsiasi alterazione, conseguente ad un'insoddisfacente realizzazione dell'opera, che, pur non riguardando parti essenziali della stessa (e perciò non determinandone la "rovina" o il "pericolo di rovina"), bensì quegli elementi accessori o secondari che ne consentono l'impiego duraturo cui è destinata, incida negativamente e in modo considerevole sul godimento dell'immobile medesimo” (conformi: Cass. civ. sez. II, 29.04.2008, n. 10857; Cass. civ. sez. II, 04.11.2005, n. 21351);
• Cass. civ. sez. II, 06.02.2009, n. 3040: “Il difetto di costruzione che, ai sensi dell'art. 1669 c.c., legittima il committente alla relativa azione può consistere in una qualsiasi alterazione, conseguente ad un'insoddisfacente realizzazione dell'opera, che, pur non riguardando parti essenziali della stessa (e perciò non determinandone la "rovina" od il "pericolo di rovina"), bensì quegli elementi accessori o secondari che ne consentono l'impiego duraturo cui è destinata (quali, ad esempio, le condutture di adduzione idrica, i rivestimenti, l'impianto di riscaldamento, la canna fumaria), incida negativamente ed in modo considerevole sul godimento dell'immobile medesimo (Cass. n. 11740/2003, n. 117/2000 ed altre, precedenti e successive, conformi)”;
• Cass. civ. sez. II, 28.04.2004, n. 8140: “Configurano gravi difetti dell'edificio a norma dell'art. 1669 c.c. anche le carenze costruttive dell'opera -da intendere anche come singola unità abitativa- che pregiudicano o menomano in modo grave il normale godimento e/o la funzionalità e/o l'abitabilità della medesima, come allorché la realizzazione è avvenuta con materiali inidonei e/o non a regola d'arte ed anche se incidenti su elementi secondari ed accessori dell'opera (quali impermeabilizzazione, rivestimenti, infissi, pavimentazione, impianti, ecc.), purché tali da compromettere la sua funzionalità e l'abitabilità ed eliminabili solo con lavori di manutenzione, ancorché ordinaria, e cioè mediante opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici o che mediante opere che integrano o mantengono in efficienza gli impianti tecnologici installati”.
Ora, se la questione, dal punto di vista giuridico, non sembra porre grandi interrogativi, qualche perplessità sorge invece, dal punto di vista della politica del diritto, avuto riguardo agli interventi legislativi, passati e annunciati, in tema di disincentivo alle impugnazioni delle sentenze.
Tra quesiti di diritto (prima introdotti e poi cancellati), aumenti esponenziali del contributo unificato, filtri di ammissibilità e limitazioni ai motivi di ricorso per Cassazione (cfr. le modifiche introdotte al codice di procedura civile dal D.L. 83/2012, convertito con modificazioni dalla L. 134/2012), il legislatore sembra porre una grande fiducia sul principio che decide bene chi decide per primo, e sembra invitare il cittadino che incorre in una sentenza ingiusta a non insistere, a lasciare perdere, ché tanto il sistema giudiziario ha altro di cui occuparsi che non accertare i torti e le ragioni.
A noi sembra invece (e la fattispecie in esame lo dimostra) che il sistema giudiziario esista apposta per ciò da cui lo si vuole, in modo non dichiarato ma sempre più evidente, sottrarre, e nell’assistere impotenti al continuo assottigliarsi delle possibilità di far valere i propri diritti (guai a protestare: “la casta degli avvocati difende i propri privilegi!”, la risposta pronta, mai nel merito, sarebbe sempre la stessa) ricordiamo le parole di Alberto Sordi, nel film “Tutti dentro” (1984), il cui protagonista, magistrato incorrotto che si ritrova sotto inchiesta, dichiara, ci auguriamo non profeticamente: “Io mi chiedo se è ancora utile investire tante energie per l’applicazione delle leggi, o se invece, rinunciando a vacue speranze e ad aspettative mai ripagate, non ci convenisse accettare l’ingiustizia come regola e non come eccezione. Questo nella speranza, ovviamente, che almeno l’ingiustizia sia uguale per tutti” (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 12.04.2012 n. 9119 - link a www.altalex.com).

CONSIGLIERI COMUNALI: Sì alla decadenza del consigliere comunale assente per tre sedute consecutive.
E’ legittima la delibera con cui viene dichiarata la decadenza dalla carica di consigliere comunale che senza un giustificato motivo, si assenti per tre sedute consecutive, nella ipotesi in cui lo statuto comunale prevede che i consiglieri abbiano l’onere di giustificare per iscritto l’assenza entro il termine di 10 giorni dalla seduta stessa.

Così il Consiglio di Stato, nella Sez. V, ha deciso con la sentenza 24.03.2011 n. 1789, decidendo sulla legittimità o meno della delibera di decadenza del consigliere che aveva presentato le proprie giustificazioni e controdeduzioni solamente riscontrando la comunicazione di avvio del procedimento di decadenza.
Nella sentenza de qua si afferma testualmente che …….”Correttamente, in definitiva, i primi giudici hanno ritenuto la legittimità del provvedimento impugnato, sia sotto il profilo della mancanza tempestiva giustificazione delle assenze contestate, sia sotto il profilo della tardività delle giustificazioni stesse, prodotte solo con l’atto di controdeduzioni alla comunicazione di avvio del procedimento di decadenza, sia sotto il profilo probatorio, essendo stati prodotti fotocopie di certificati medici, senza neppure giustificare la causa dell’eventuale impossibilità di produrre i relativi originali”.
Precedenti giurisprudenziali.

È illegittima la deliberazione del consiglio comunale che dichiara la decadenza dalla carica di un consigliere comunale per assenza ingiustificata a tre sedute consecutive del Consiglio (facendo applicazione dello statuto comunale laddove prevede che un consigliere comunale che non partecipi, senza giustificato motivo, a tre sedute consecutive del Consiglio venga dichiarato decaduto), dovendosi considerare giustificata l’assenza del consigliere ad una seduta, in quanto impegnato nella propria attività lavorativa. Al riguardo va considerato che la possibilità di ottenere permessi retribuiti dal proprio datore di lavoro, in concomitanza agli impegni connessi ad un mandato di consigliere comunale, non significa l’obbligo di richiederli, ben potendo un cittadino responsabile valutare, di volta in volta, l’opportunità di essere presente al proprio posto di lavoro ovvero alla seduta del Consiglio Comunale di cui fa parte (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I , 16.04.2010, n. 5377).
La dichiarazione di decadenza del consigliere comunale che non partecipa alle sedute del consiglio presuppone sempre una valutazione approfondita delle giustificazioni delle assenze addotte dall'interessato (TAR Puglia Bari, 07.11.2006, n. 3903).
Le prerogative del consigliere comunale non si esauriscono nella partecipazione alle sedute dell'organo cui appartiene, ma contemplano lo svolgimento di tutta una serie di attività individuali di carattere propulsivo, conoscitivo e di controllo.
L'astensionismo ingiustificato di un consigliere comunale dalle sedute dell'organo cui appartiene è una legittima causa di decadenza qualora l’amministratore mostra disinteresse e negligenza nell'adempiere il proprio mandato, con ciò generando non solo difficoltà di funzionamento dell'organo collegiale cui appartiene, ma violando l'impegno assunto con il corpo elettorale che lo ha eletto e che ripone in lui la dovuta fiducia politico-amministrativa.
Diversamente, l'astensionismo deliberato e preannunciato, ancorché superiore al periodo previsto ai fini della decadenza, è da considerarsi uno strumento di lotta politico-amministrativa a disposizione delle forze di opposizione per far valere il proprio dissenso a fronte di atteggiamenti ritenuti non partecipativi, dialettici e democratici delle forze di maggioranza a cui non può conseguire la sanzione della decadenza dalla carica di consigliere (TAR Lombardia, Sez. Brescia, 10.04.2006 n. 383) (link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATA: Il piano paesistico può impedire la costruzione della piscina.
L’art. 1-quinquies della L. 08.08.1985, n. 431 (Conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 27.06.1985, n. 312, recante disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale) instaura un rigoroso regime di regolamentazione degli interventi modificativi del territorio e delle opere edilizie da compiersi in aree, che, per importanza paesistica ed ambientale, sono da ritenersi di notevole interesse pubblico (ai sensi del D.M. del 21.09.1984 sono da ricomprendersi in questa categoria i territori costieri, i territori contermini ai laghi, i fiumi, i torrenti, i corsi d’acqua, le montagne, i ghiacciai, i circhi glaciali, i parchi, le riserve, i boschi, le foreste, le aree assegnate alle Università agrarie e le zone gravate da usi civici).
La predetta legge, vieta, sino all’adozione, da parte delle regioni, di piani attuativi conservativi dei valori paesistici ed ambientali, ogni modificazione dell’assetto del territorio nonché ogni opera edilizia, con esclusione degli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici.
Il piano territoriale paesistico ed i vincoli da esso derivanti.
Questo particolare piano attuativo pone dei vincoli, in funzione della tutela del valore paesistico ed ambientale di alcune zone, che si traducono in incisive limitazioni delle facoltà del titolare del diritto dominicale riguardo, segnatamente, all’esercizio dello ius aedificandi.
Nel caso di specie, i Giudici di Palazzo Spada evidenziano che la costruzione di una piscina, in relazione alla sua consistenza modificativa e trasformativa dell’assetto del territorio, non si configura come riconducibile fra gli interventi consentiti dal piano territoriale paesistico.
Difatti, qualora il piano volto a disciplinare la tutela della zona spieghi effetti inibitori che prescindano dall’elevazione o meno sul piano delle opere e dalla loro consistenza volumetrica, anche la costruzione di una piscina può incorrere nel divieto.
Nella pronuncia viene rilevato che nel caso posto al vaglio del Consiglio di Stato la costruzione di una piscina nella zona di protezione integrale altera, per effetto dello scavo, l’andamento naturale del terreno e non può assumere valenza di riqualificazione estetica delle aree pertinenziali ai sensi del piano territoriale paesistico.
D’altronde, come evidenziato nella decisione, il piano paesistico, “a differenza di uno strumento urbanistico, non è volto al dimensionamento dei nuovi interventi, quanto alla valutazione ex ante della loro tipologia ed incidenza qualitativa” sul territorio (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 02.03.2011 n. 1300 -
link a www.altalex.com).

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