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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di OTTOBRE 2012

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aggiornamento al 31.10.2012

aggiornamento al 29.10.2012

aggiornamento al 22.10.2012

aggiornamento al 18.10.2012

aggiornamento al 15.10.2012

aggiornamento al 12.10.2012

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aggiornamento all'08.10.2012

aggiornamento al 04.10.2012

aggiornamento all'01.10.2012

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 31.10.2012

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GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 30.10.2012 n. 254 "Disposizioni urgenti in materia di trattamento di fine servizio dei dipendenti pubblici" (D.L. 29.10.2012 n. 185).
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Chi scrive comprende poco, spesso e volentieri, lo scrivere del "legislatore romano" e, allora, si riporta di seguito un breve commento esplicativo al suddetto D.L. ad opera del sindacato C.S.A. di Milano e diramato con propria newsletter del 30.10.2012:
Magia.... il Governo Monti tira fuori dal cilindro un bel coniglio bianco....
In merito alla sentenza della Corte Costituzionale n. 223/2012, che ha dichiarato incostituzionale la trattenuta a carico del dipendente del 2,5% sull'80% della retribuzione utile ai fini del TFS così come disciplinato dall'articolo 12, comma 10, del D.L. n. 78/2010, venerdì scorso il Governo, con proprio D.L. in corso di pubblicazione (1 solo articolo con 3 commi), ha abrogato, con effetto retroattivo dal 01.01.2011 il succitato articolo 12, comma 10.
A seguito di tale disposizione viene gioco forza ripristinata la previgente normativa in tema di TFS (articolo 11 Legge n. 152/1968) che "guarda caso" prevedeva, per coloro i quali si trovano in regime di TFS, una trattenuta del 2,5% sull'80% della retribuzione imponibile.
Dopo tutta questa disamina di norme, arriviamo al dunque........e il "dunque" è che NULLA cambia dal punto di vista contributivo in tema di trattenuta del 2,5% a carico del dipendente.
Ciò che invece cambia, e con effetto dall'01.01.2011, è la prestazione erogata al dipendente da parte di Inpdap (gestione ex Inadel) all'atto della cessazione, che diviene più ricca.
Per coloro i quali sono in regime di TFR nulla è innovato in quanto la norma che ne disciplina l'introduzione nel comparto del pubblico impiego non è stata oggetto di disamina da parte della Corte Costituzionale.
31.10.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

URBANISTICA: Oggetto: PROPOSTA DI PROGETTO DI LEGGE "LEGGE FINANZIARIA 2013” (della Lombardia) (deliberazione G.R. 26.10.2012 n. 4300).
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Ecco l'ultimo regalo della Giunta Formigoni in materia di P.G.T.. Di particolare interesse l'art. 8 il quale così recita:
Art. 8 - (Modifiche alla l.r. 12/2005)
1. Alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) sono apportate le seguenti modifiche:
a) dopo l’articolo 25 é aggiunto il seguente articolo:
Art. 25-bis (Disposizioni transitorie a far tempo dal 1° gennaio 2013)
1. In deroga a quanto previsto dall’articolo 25, comma 1, primo periodo, i comuni terremotati inclusi nell’elenco di cui al decreto del Ministero dell’economia e delle finanze 01.06.2012 e successive modificazioni e integrazioni, nonché quelli dichiarati in dissesto finanziario entro il 31.12.2012 continuano ad attuare le previsioni del vigente PRG fino al 31.12.2013, fermo restando quanto disposto dall’articolo 26, comma 3-quater. In caso di mancata adozione del PGT entro il 31.12.2013, si applicano le disposizioni di cui ai commi 4 e 5.
2. In deroga a quanto previsto dall’articolo 25, comma 1, primo periodo, nei comuni che entro il 31.12.2012 hanno adottato il PGT si attuano le previsioni del vigente PRG, fermo restando quanto disposto dagli articoli 13, comma 12, e 26, comma 3-quater. Dal 1° gennaio 2013 i medesimi comuni non possono in ogni caso dar corso a procedure di variante al vigente PRG comunque denominate.
3. In caso di mancata approvazione del PGT entro il 31.07.2013 da parte dei comuni di cui al comma 2, primo periodo, si applicano le disposizioni previste ai commi 4 e 5.
4. Nei comuni che entro il 31.12.2012 non hanno adottato il PGT, dal 1° gennaio 2013 e fino all’approvazione del PGT, fermo restando quanto disposto dall’articolo 13, comma 12, sono ammessi unicamente i seguenti interventi:
   a) nelle zone omogenee B, C e D individuate dal previgente PRG, interventi sugli edifici esistenti nelle sole tipologie di cui all’articolo 27, comma 1, lett. a), b) e c);
   b) nelle zone omogenee A, E e F individuate dal previgente PRG, gli interventi che erano consentiti dal PRG o da altro strumento urbanistico comunque denominato;
   c) gli interventi in esecuzione di piani attuativi approvati e convenzionati entro il 31.12.2012, con convenzione non scaduta.
5.
Ai comuni di cui al comma 4, dal 1° gennaio 2013 e fino all’approvazione del PGT, non è consentito applicare le disposizioni di cui agli articoli 3, 4, 5 e 6 della legge regionale 13.03.2012, n. 4 (Norme per la valorizzazione del patrimonio edilizio esistente e altre disposizioni in materia urbanistico-edilizia); sono fatte salve le istanze di permesso di costruire e le denunce di inizio attività presentate entro il 31.12.2012.".

DOTTRINA E CONTRIBUTI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: A. Bianco, Uffici tecnici: gli incentivi per dipendenti e dirigenti (link a www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com).

VARI: T. Iachipino, Dipendenza da Internet, la sottile linea di confine fra normalità e malattia (link a www.leggioggi.it).

PUBBLICO IMPIEGO: A. Monea, Comunicazioni telematiche: più responsabilità per i dirigenti (link a www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com).

AMBIENTE-ECOLOGIA: L. Ramacci, Responsabilità amministrativa degli enti collettivi e reati ambientali (link a www.ipsoa.it).

SINDACATI & ARAN

PUBBLICO IMPIEGO: Area II (Dirigenza Regioni ed Autonomie locali) - Raccolta sistematica.
La raccolta sistematica si propone di facilitare la lettura dei diversi contratti collettivi nazionali di lavoro vigenti, stipulati negli anni, offrendone una visione unitaria e sistematica.
Essa è stata redatta attraverso la collazione delle clausole contrattuali vigenti, raccolte all’interno di uno schema unitario, per favorire una più agevole consultazione.
A tal fine, sono state aggregate tutte le clausole afferenti a ciascun istituto contrattuale, anche quelle definite in tempi diversi nell’ambito di differenti CCNL, conservando tuttavia la numerazione vigente ed il riferimento al contratto di origine.
Si tratta, pertanto, di un testo meramente compilativo che, non avendo carattere negoziale, non può avere alcun effetto né abrogativo, né sostitutivo delle clausole vigenti, le quali prevalgono in caso di discordanza.
La riproduzione dei testi forniti nel formato elettronico è consentita purché ne venga menzionata la fonte ed il carattere gratuito. La raccolta è il frutto di una selezione redazionale. L’Aran non è responsabile di eventuali errori o imprecisioni, nonché di danni conseguenti ad azioni o determinazioni assunte in base alla consultazione della stessa.
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Nota: navigando all’interno del documento PDF, per tornare alla vista precedente utilizzare i tasti ALT + tasto direzionale sx (ARAN, settembre 2012).

CORTE DEI CONTI

CONSIGLIERI COMUNALICorte dei conti Basilicata. Responsabilità penale. Giunta, tre criteri per la copertura legale.
PRESUPPOSTI DEL RIMBORSO/ All'amministratore servono l'accordo sul legale, l'assoluzione con formula ampia e la mancanza di conflitto d'interesse.

Niente copertura "automatica" da parte dell'ente per le spese legali dei propri amministratori, anche quando il processo nasce da atti legati alla loro funzione.
Lo ha stabilito la sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Basilicata, con la sentenza 15.10.2012 n. 165.
I giudici sono arrivati a questa decisione dopo avere sottolineato la non applicabilità della disciplina in tema di mandato prevista dall'articolo 1720 del Codice civile, secondo cui il mandante deve rimborsare al mandatario i danni subiti a causa dell'incarico, e dopo avere rilevato che «non appaiono pertinenti i richiami all'analogia, che risulta correttamente evocabile quando emerga un vuoto normativo nell'ordinamento, vuoto che nella specie non è configurabile, atteso che il legislatore si è limitato a dettare una diversa disciplina per due situazioni non identiche fra loro, in quanto gli amministratori pubblici non sono dipendenti dell'ente, ma sono eletti dai cittadini».
La sentenza offre una summa di tutte le problematiche relative alla questione, in quanto non si limita ad affrontare l'aspetto del rimborso agli amministratori degli enti locali, ma si sofferma anche su tutti gli altri profili che pure ineriscono alla questione citata in senso più generale. Il tema del rimborso delle spese legali (limitatamente agli enti locali) viene per la prima volta affrontato nella sua interezza, prospettando soluzioni che si collocano nel solco della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, non senza tenere conto di quella amministrativa e contabile più avveduta.
In primis, con convincente motivazione e ampi richiami giurisprudenziali viene affermato il principio secondo cui il rimborso delle spese legali non può essere effettuato se colui che lo chiede omette di sottoporre preventivamente la scelta del difensore all'ente. Dispone, infatti, l'articolo 28 del Ccnl "Comparto Regioni ed autonomie locali" (che sostituisce l'articolo 67 del Dpr 13.05.1987, n. 268), che il legale che assumerà la difesa del dipendente sia di comune gradimento con l'ente. Tra i presupposti, poi, richiesti per la corresponsione del rimborso delle spese legali, vi sono quelli di una sentenza di assoluzione ampia e dell'assenza di conflitto d'interesse con l'ente.
I giudici lucani, dopo avere precisato che l'assoluzione con la formula «il fatto non costituisce reato» non attesta l'insussistenza di condotte censurabili ad altro titolo, affermano che, anche se i fatti che dettero luogo al procedimento penale non costituiscono illecito penale perseguibile, pur tuttavia possono essere valutati dal giudice contabile allo scopo di rilevare l'esistenza o meno di conflitto di interessi.
Infine, viene ribadito che, al fine di assicurare una buona, ragionevole e imparziale amministrazione delle risorse pubbliche, l'ente pubblico, prima di farsi carico dell'onere delle spese legali, è tenuto a procedere ad attento e rigoroso esame delle istanze di rimborso, valutando la veridicità e adeguatezza di quanto affermato dal professionista, e verificando la conformità della parcella alla tariffa professionale.
Quanto alla responsabilità degli indebiti rimborsi, i giudici hanno ritenuto che essa vada addebitata non solo a coloro che hanno deliberato il pagamento, ma anche a chi ha espresso il parere di regolarità tecnica nonché ai componenti del collegio dei revisori (articolo Il Sole 24 Ore del 29.10.2012 - tratto da www.corteconti.it)

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Come deve svolgersi la caratterizzazione ambientale dei materiali da scavo ai sensi del D.M. n. 161/2012? (29.10.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: In che modo si semplificheranno i trasporti dei rifiuti agricoli? (29.10.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Quali le modifiche previste alla disciplina della gestione delle acque sotterranee emunte? (29.10.2012 - link a www.ambientelegale.it).

EDILIZIA PRIVATA: La pubblica amministrazione potrà rimanere inerte nel caso in cui venga chiesto un permesso di costruire in presenza di un vincolo ambientale? (29.10.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Residui di lavorazione di pietre.
Domanda
Le terre e le rocce da scavo e i residui di lavorazione delle pietre possono essere esclusi dalla categoria dei rifiuti?
Risposta
La Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza del 12.12.2011, numero 45947, ha affermato che, alla luce dell'articolo 186 del decreto legislativo del 03.04.2006, numero 152, comma primo, le terre e le rocce da scavo e i residui di lavorazione delle pietre, anche se contaminati durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti, non costituiscono rifiuti e, quindi, essi devono essere esclusi dal novero della relativa disciplina. Per i Supremi giudici, per arrivare a detto risultato è necessario che siano osservate le specifiche condizioni dettate dal predetto articolo 186 del testo unico ambientale, e cioè:
- obblighi di documentazione;
- destinazione al riutilizzo senza trasformazioni preliminari;
- rispetto dei limiti di concentrazione degli inquinanti.
Inoltre, alla luce del suddetto articolo 186, come novellato dal decreto legislativo 16.01.2008, numero 4, articolo 2, comma 23, per aversi l'assimilazione delle terre e delle rocce da scavo ai rifiuti, è necessario che esse siano impiegate direttamente nell'ambito di opere o interventi preventivamente individuati e che, sin dalla fase di produzione, vi sia la certezza del riutilizzo. In tal modo viene garantita una più elevata tutela dell'ambiente.
È da dire che con la legge numero 28, del 2012, di conversione del decreto legge ambiente, entrata in vigore 25.03.2012, alle terre e rocce da scavo viene attribuita la qualifica di sottoprodotto. In tal modo il legislatore ha subordinato la possibilità di utilizzo delle stesse per i reinterri, riempimenti, rimodellazioni e rilevati, alla esistenza di diverse condizioni, quali quelle previste dall'articolo 183, comma 1, lettera p) del decreto legislativo su citato per qualificare una materia o una sostanza come sottoprodotto e quelle ulteriori poste dallo stesso novellato articolo 186, comma 1, del decreto legislativo numero 152, del 2006.
Pertanto, per la citata legge del 2012 le matrici ambientali da riporto rientrano nel concetto di suolo. E, quindi, essi sono esclusi dalla disciplina sui rifiuti, ma devono essere considerati sottoprodotti e possono essere, di conseguenza, riutilizzati.
Però il riutilizzo deve esser conforme al codice dell'ambiente, per cui deve essere originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, utilizzato direttamente, senza alcun ulteriore trattamento. Non deve, pure, dar luogo ad impatti complessivi negativi sull'ambiente o sulla salute umana (articolo ItaliaOggi Sette del 29.10.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Veicoli fuori uso.
Domanda
I veicoli fuori uso abbandonati sono rifiuti?
Risposta
Il decreto legislativo numero 209, del 2003, recependo la Direttiva 2000/53/Ce, fornisce una definizione, alquanto puntuale, di veicoli fuori uso. Ai sensi dell'articolo 3, comma 1, devono essere considerati veicoli fuori uso: «veicoli a motore appartenenti alle categorie M1 ed N1 di cui all'allegato II, parte A, della direttiva 70/156/Cee e i veicoli a motore a tre ruote come definiti dalla direttiva 2002/24/Ce, con esclusione dei tricicli a motore, a fin evita, che costituiscono un rifiuto ai sensi dell'articolo 6 del decreto legislativo 05.02.1997, numero 22, e successive modifiche.
Alla luce di detto decreto, i veicoli fuori uso vengono classificati:
a) con la consegna ad un centro di raccolta, effettuata dal detentore direttamente o tramite soggetto autorizzato al trasporto di veicoli fuori uso o tramite il concessionario o il gestore dell'automercato o della succursale della casa costruttrice che ritira un veicolo destinato alla demolizione nel rispetto delle disposizioni del presente decreto: è comunque considerato rifiuto, sottoposto al relativo regime, anche prima della consegna al centro di raccolta, il veicolo che sia stato ufficialmente privato delle targhe di immatricolazione, salvo il caso di esclusivo utilizzo in aree private di un veicolo e per il quale è stata effettuata la cancellazione dal Pra a cura del proprietario;
b) nei casi previsti dalla vigente disciplina in materia di veicoli a motore rinvenuti da organi pubblici e non reclamati;
c) a seguito di specifico provvedimento dell'autorità amministrativa o giudiziaria; d) in ogni altro caso in cui il veicolo, ancorché giacente in area privata, risulta in evidente stato di abbandono, e conclusivamente esclude esplicitamente dalla riconducibilità alla categoria dei «veicoli fuori uso-rifiuto» ai sensi del comma 1, lettera b) –e quindi dalla applicabilità della relativa disciplina, anche penale– i veicoli d'epoca
».
Per veicoli d'epoca, ai dell'articolo 3, comma 2, devono intendersi «i veicoli storici o di valore per i collezionisti o destinati ai musei, conservati in modo adeguato, pronti all'uso ovvero in pezzi smontati».
La Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza del 12.12.2011, numero 45974, ha affermato che sono rifiuti le auto fuori uso, in stato di evidente abbandono, rinvenuti in un'area di pertinenza di una società. Ha aggiunto che, in tema di rifiuti, la responsabilità per l'attività di gestione non autorizzata non attiene necessariamente al profilo della consapevolezza e volontarietà della condotta, potendo scaturire da comportamenti che violino i doveri di diligenza per la mancata adozione di tutte le misure necessarie per evitare illeciti nella predetta gestione e che legittimamente si richiedono ai soggetti preposti alla direzione dell'azienda (articolo ItaliaOggi Sette del 29.10.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Discarica abusiva.
Domanda
Nel campo vicino al mio vengono con continuità abbandonati rifiuti di ogni genere. Chiedo se nel caso possa configurasi una discarica abusiva.
Risposta
L'articolo 2, comma 1, lettera g), del decreto legislativo numero 36, del 2003, recante «attuazione della direttiva 1999/31/Ce, relativa alle discariche di rifiuti», definisce la discarica come: «Un'area adibita a smaltimento dei rifiuti mediante operazioni di deposito sul suolo o nel suolo, compresa la zona interna al luogo di produzione dei rifiuti adibita allo smaltimento dei medesimi da parte del produttore degli stessi, nonché qualsiasi area ove i rifiuti sono sottoposti a deposito temporaneo per più di un anno. Sono esclusi da tale definizione gli impianti in cui i rifiuti sono scaricati al fine di essere preparati per il successivo trasporto in un impianto di recupero, trattamento o smaltimento, e lo stoccaggio di rifiuti in attesa di recupero o trattamento per un periodo inferiore a tre anni come norma generale, o lo stoccaggio di rifiuti in attesa di smaltimento per un periodo inferiore a un anno».
La Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza del 16.01.2012, numero 1188, partendo da detta definizione giuridica di discarica, ritiene che per la configurazione della fattispecie di discarica abusiva sia necessario appurare i seguenti requisiti, al fine di intergare la condotta illecita di cui all'articolo 256, comma 3, del decreto legislativo numero 152, del 2006:
- accumulo, più o meno sistematico, ma comunque ripetuto e non occasionale, di rifiuti;
- accumulo dei predetti rifiuti in un'area determinata;
- eterogeneità dell'ammasso dei rifiuti;
- definitività dell'abbandono;
- degrado, anche solo tendenziale, dello stato dei luoghi per effetto della presenza di rifiuti.
Per la Suprema corte, per la sussistenza del reato in esame, è necessario che sussistano almeno due dei requisiti su indicati, e, cioè, l'accumulo ripetitivo nello stesso posto di sostanze, che di per sé, sono destinate all'abbandono, nonché lo stato di degrado, anche solo tendenziale, del luogo dove sono abbandonati i rifiuti per effetto della loro presenza.
La stessa Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza numero 8424, del 2004, ha affermato che «si configura il reato di realizzazione e gestione di una discarica quando materiali provenienti da demolizioni e scavi, costituenti rifiuti, vengono scaricati in un'area determinata attraverso una condotta ripetuta». Concetto questo ripetuto con la sentenza del gennaio 2012, numero 1188, su citata. Quindi la condotta nell'abbandono dei rifiuti in una determinata area deve essere abituale o, almeno, deve avere una certa stabilità (articolo ItaliaOggi Sette del 29.10.2012 - tratto da www.corteconti.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Smaltimento di rifiuti.
Domanda
Nel caso di mero abbandono o deposito incontrollato o smaltimento di rifiuti si configura la fattispecie di discarica abusiva?
Risposta
La Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza del 16.01.2012, numero 1188, distingue, in tema di abbandono di rifiuti, tra: a) mero abbandono; b) deposito incontrollato; c) smaltimento.
Per la suprema Corte di cassazione non si è in presenza di una discarica non autorizzata, che presuppone la ricorrenza di atti plurimi di abbandono, per lo più abituali, quando si è in presenza di un comportamento occasionale e discontinuo di abbandono di rifiuti. È da dire, per inciso, che la condotta di abbandono di rifiuti di cui all'articolo 255, comma 1, del decreto legislativo numero 152, del 2006, è sanzionata come illecito amministrativo, se posta in essere da un privato, e come reato se tenuta da un responsabile di enti o da un titolare di impresa.
Ora, per la Corte di cassazione si ha mero abbandono quando si è in presenza di un unico scarico di rifiuti, limitato nella quantità e avvenuto in modo del tutto occasionale.
Si ha deposito incontrollato, quando si è in presenza non di un atto unico di abbandono di rifiuti, ma di abbandono di un cumulo di rifiuti in un'area, con un quantità superiore quantitativamente e qualitativamente al semplice abbandono, che però non configura la fattispecie tipica della discarica abusiva.
La discarica abusiva va, pure, distinta, dallo smaltimento dei rifiuti, perché, secondo i Supremi giudici, nella discarica abusiva «i rifiuti sono abbandonati a tempo indeterminato, senza una precisa destinazione, mentre nello smaltimento, essi sono «utilizzati» con diverse modalità, quali, ad esempio, la cernita, la trasformazione, l'utilizzo e il riciclo previo recupero».
In ogni caso, il fine di lucro non costituisce presupposto per la configurabilità della contravvenzione di discarica non autorizzata. Infatti, come scrive la Corte di cassazione, sezione III penale, nella sentenza numero 20499, del 2004: «_né il reato prevede quale elemento costitutivo l'esistenza di un fine di lucro o comunque di un guadagno da parte di colui che realizza o gestisce la discarica abusiva» (articolo ItaliaOggi Sette del 29.10.2012).

PUBBLICO IMPIEGO: Dirigente e reintegrazione.
Domanda
Il dirigente pubblico illegittimamente licenziato ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro?
Risposta
Il dirigente pubblico illegittimamente licenziato ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro. Va confermato in materia l'orientamento dalla giurisprudenza della Corte di cassazione che ha rilevato come le conseguenze dell'illegittimità del recesso di dirigente pubblico siano di carattere reintegratorio.
E ciò in considerazione di quanto previsto dall'art. 51 del dlgs 165/2001 che, dopo avere, al comma 1 affermato che il rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche è disciplinato secondo le disposizioni degli articoli successivi che comprendono anche i dirigenti, prevede, al comma 2°, che la Statuto dei lavoratori, si applichi alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti.
Al riguardo è stato ritenuto che, poiché il rapporto fondamentale stabile dei dipendenti pubblici con attitudine dirigenziale è assimilato dal dlgs n. 165/2001, art. 21, a quello della categoria impiegatizia e poiché la legge n. 604/1966 art. 10 si riferisce ai dirigenti privati, lo Statuto dei lavoratori non si applichi con i limiti categoriali di cui alla legge 604/1966 ma che l'estensione operata dall'art. 51, comma 2 cit., si applichi anche al rapporto fondamentale di lavoro dei dirigenti pubblici (articolo ItaliaOggi Sette del 29.10.2012).

NEWS

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl dl varato dal governo elimina la norma dall'origine per evitare contenziosi. Prelievo sul tfr, tabula rasa. Estinti i processi per la restituzione del contributo.
Estinti i processi per la restituzione del contributo previdenziale obbligatorio del 2,5% sulla base contributiva dei dipendenti pubblici.
Il decreto legge approvato lo scorso venerdì dal governo per attuare la sentenza della Corte costituzionale 223/2012 non si limita ad azzerare la norma considerata incostituzionale, l'articolo 12, comma 10, del dl 78/2010, convertito in legge 122/2010, ma incide anche sulle vertenze attivate, con l'intento di eliminare il contenzioso sorto nel frattempo.
L'estinzione dei processi potrà essere anche dichiarata d'ufficio dal giudice e in ogni caso le sentenze emesse resteranno prive di effetti.
La ragione della chiusura del contenzioso è semplice: il governo, col decreto legge, non si limita ad attuare le indicazioni della Consulta, ma azzera totalmente la norma «incriminata».
La sentenza 223/2010, a ben vedere, ha considerato l'articolo 12, comma 10, del dl 78/2010 incostituzionale non in quanto tale, ma poiché mentre fino al 31.12.2010 la normativa imponeva al datore di lavoro pubblico un accantonamento complessivo del 9,60% sull'80% della retribuzione lorda, con una trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50%, calcolato sempre sull'80% della retribuzione, l'articolo 12, comma 10, aveva imposto la trasformazione del trattamento di fine servizio in vero e proprio tfr.
La Consulta ha rilevato che la normativa antecedente all'articolo 12, comma 10, imponeva «un accantonamento determinato su una base di computo inferiore e, a fronte di un miglior trattamento di fine rapporto, esigeva la rivalsa sul dipendente, cioè il prelievo del 2,5%».
Il passaggio a una contribuzione del 6,91% operante sull'intera retribuzione, mantenendo detto prelievo, aveva comportato, spiega la Consulta, «una diminuzione della retribuzione e, nel contempo, la diminuzione della quantità del tfr maturata nel tempo», vulnerando gli articoli 3 e 36 della Costituzione, perché si era dettata una disciplina peggiorativa dei lavoratori pubblici rispetto ai privati, a parità di retribuzione.
Il decreto legge, dunque, elimina l'articolo 12, comma 10, dal primo gennaio 2011 (esattamente la stessa data della sua entrata in vigore) facendo tornare le cose com'erano prima.
Mancano, tuttavia, indicazioni ancora più strettamente operative. È evidente che le amministrazioni dovranno restituire le somme indebitamente trattenute ai dipendenti.
Sarebbe fondamentale, però, che Inps-Inpdap chiariscano velocissimamente come le amministrazioni dovranno agire ai fini dei versamenti successivi.
Essendo stata eliminata la disposizione che portava l'aliquota contributiva al 6,91%, dovrebbe tornare l'applicazione del precedente regime normativo.
Il decreto legge, in conseguenza della cancellazione dell'articolo 12, comma 10, dispone anche di riliquidare i trattamenti di fine servizio ai dipendenti che, nel frattempo, erano cessati, nel rispetto alla disciplina normativa antecedente. La riliquidazione deve avvenire entro un anno e, comunque, si stabilisce di non recuperare nei confronti dei dipendenti somme eventualmente erogate in eccedenza (articolo ItaliaOggi del 30.10.2012).

COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGODelibera civit. Il sindaco nomina i valutatori.
È il sindaco l'organo comunale competente a incaricare e nominare i componenti dell'organismo indipendente di valutazione (Oiv).

Il chiarimento alla questione (per la verità piuttosto scontato) proviene dalla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche (Civit), che si è espressa con la delibera 23.10.2012 n. 21.
Il dubbio espresso da non pochi comuni deriva dalla formulazione dell'articolo 14, comma 3, del dlgs 150/2009 ai sensi del quale l'Organismo indipendente di valutazione è nominato, sentita la Commissione di cui all'articolo 13, dall'organo di indirizzo politico–amministrativo: negli enti locali operano tre organi di tale natura (consiglio, giunta e sindaco o presidente della provincia), sicché potrebbero darsi problemi per individuare quello al quale correttamente attribuire la competenza. Esclusa la giunta, la quale altro non è se non un supporto collegiale alle funzioni del sindaco e non ha veri e propri compiti di indirizzo politico, l'incertezza potrebbe riguardare l'alternativa tra consigli e organi di vertice monocratici.
La Civit giunge alla conclusione che la competenza è del sindaco sulla base di osservazioni trancianti. In primo luogo, la commissione ricorda che esiste una norma già risolutiva della questione: l'articolo 4, comma 2, lettera g), della legge 15/2009 (la legge delega da cui è scaturito il dlgs 150/2009) dispone che «i sindaci e i presidenti delle province nominano i componenti dei nuclei di valutazione», che poi il dlgs ha disciplinato come «Organismi indipendenti di valutazione». Di per sé questo semplice rilievo sarebbe sufficiente per escludere la competenza di ogni altro soggetto.
La delibera 21/2012, comunque, ricorda che le competenze del consiglio comunale e provinciale sono fissate dall'articolo 42 del dlgs 267/2000 in modo tassativo. I consigli possono legittimamente esercitare esclusivamente le attribuzioni elencate espressamente nell'articolo 42 e nelle altre disposizioni di legge, contenute anche in altri articoli del Testo unico degli enti locali. Tutte le altre competenze, non rientranti nelle funzioni gestionali o nella sfera del sindaco, cadono nelle competenze della giunta (articolo ItaliaOggi del 30.10.2012).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIIn consiglio dei ministri sbarca il ddl delega sui contratti pubblici. Rotta sulle asseverazioni. Meno autorizzazioni nell'edilizia. Verso procedure semplificate sui lavori di trasformazione urbana.
Eliminare i provvedimenti autorizzatori per gli interventi di trasformazione urbanistico-edilizia e di conservazione; consultazione pubblica limitata alle grandi opere; eliminata la corrispondenza fra quote di partecipazione al raggruppamento temporaneo e quote dei lavori da svolgere.

Sono queste alcune delle norme proposte dal Governo nel disegno di legge in materia di infrastrutture, edilizia e trasporti che viene esaminato oggi dal consiglio dei ministri.
Per quel che attiene all'attività edilizia e urbanistica emerge con una certa chiarezza la scelta di semplificare sempre più gli oneri procedurali, eliminando il ricorso a provvedimenti autorizzatori per interventi di trasformazione urbanistico-edilizia e di conservazione. Alla luce di questa impostazione sarà dato inevitabilmente sempre maggiore spazio alle asseverazioni dei professionisti chiamati ad assumersi responsabilità e compiti sempre più delicati rispetto a interventi che, per loro natura, investono una pluralità di normative spesso complesse articolate di cui tenere conto.
Nel disegno di legge non mancano però le novità rispetto al testo che circolava la settimana scorsa (vedi Italia Oggi del 23 ottobre).
In primo luogo scompare del tutto il Comitato dei ministri per le infrastrutture strategiche che avrebbe dovuto coordinare, unificare e rafforzare le linee di azione del Governo per la realizzazione delle infrastrutture. Viene espunta anche la norma che avrebbe consentito la costituzione di un Fondo mobiliare chiuso per la valorizzazione dei beni pubblici mobiliari e per favorire la dismissione delle partecipazioni societarie al quale avrebbero dovuto collaborare anche Anci e Upi. Sparisce anche la norma di delega per l'ennesima revisione del Codice della strada, mentre rimangono confermate le deleghe per il «consolidamento» della normativa sui contratti pubblici e per la revisione del codice della navigazione e per i servizi di trasporto su autobus.
Vengono anche ritoccate le disposizioni in materia di concessioni di costruzione e gestione, per le quali già il testo della settimana scorsa prevedeva la possibilità di indire una consultazione preliminare per verificare eventuali criticità del progetto posto a base di gara di una procedura ristretta, sul modello di alcune prassi internazionali. In particolare i bandi per queste concessioni, che in precedenza era previsto fossero predisposti dall'Unità tecnica per la finanza di progetto, saranno invece messi a punto sulla base di modelli forniti dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, previo parere del ministero delle infrastrutture. In queste operazioni le banche dovranno dare la loro «manifestazione di interesse» (non più la «disponibilità») a finanziare l'operazione di project finance.
Il nuovo testo all'esame oggi prevede poi l'abrogazione del comma 13 dell'articolo 37 del Codice dei contratti pubblici, con il risultato che neanche per il settore dei lavori sarà più applicabile il principio di corrispondenza fra quote di partecipazione nei raggruppamenti temporanei di imprese e quota dei lavori svolti (corrispondenza che da agosto non esisteva più per il settore dei servizi e delle forniture). La nuova bozza prevede quindi che i lavori possano essere svolti anche in percentuali diverse da quelle indicate nella partecipazione al raggruppamento.
Un'altra significativa modifica riguarda la consultazione pubblica (débat public) per la realizzazione di opere di rilevante impatto ambientale, sociale ed economico che non sarà più affidata a una «apposita Commissione» bensì sarà gestita dal Provveditore interregionale per le opere pubbliche competente per territorio, in coordinamento con il prefetto.
Il nuovo testo elimina anche la possibilità di indire commissioni per consultazioni pubbliche su opere di «interesse locale» su proposta di regioni, province o enti locali. Confermate le disposizioni in materia di svincolo cauzioni per opere in esercizio da almeno un anno ma non ancora collaudate e l'innalzamento all'80% della quota svincolabile (articolo ItaliaOggi del 30.10.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl governo ha sanato il prelievo sanzionato dalla Consulta. Trattenuta del 2,5% sulle paghe, ora è legittima.
Al personale della scuola, come a tutti i lavoratori alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il trattamento di fine servizio (buonuscita) continuerà ad essere liquidato secondo le norme previste dal decreto 1032/1973 (l'80 per cento dello stipendio in godimento comprensivo della indennità integrativa speciale e della quota di tredicesima mensilità da moltiplicare per il numero degli anni utili ai fini della buonuscita) e non secondo quanto stabiliva il comma 10 dell'articolo 12 del decreto legge 31.05.2010, n. 78, convertito con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122.

La legge citata prevedeva, con effetto sulle anzianità contributive maturate a decorrere dal 01.01.2011, che il computo dei trattamento di fine servizio fosse effettuato secondo le regole di cui all'articolo 2120 del codice civile, con l'applicazione dell'aliquota del 6,91 per cento a carico della sola amministrazione e nessun onere per il dipendente.
Il governo ha infatti abrogato, con un decreto legge approvato nella seduta dello scorso 26 ottobre, la disposizione contenuta nel comma 10. Per effetto di tale abrogazione e del conseguente ripristino delle disposizioni di cui al decreto 1032/1973 rimane in vigore e riacquista legittimità la ritenuta mensile del 2,50 per cento sull'80 per cento della retribuzione utile ai fini del calcolo della buonuscita, ritenuta che, a seconda della qualifica del personale della scuola (dirigente, docente o personale amministrativo, tecnico e ausiliario) e dell'anzianità posseduta è compresa indicativamente tra i 30 e i 50 euro al mese.
Il governo insomma ha sanato il prelievo che la consulta aveva dichiarato illegittimo. Con riferimento ai processi pendenti aventi ad oggetto la restituzione del predetto contributo previdenziale, il decreto legge precisa che si estingueranno di diritto. L'estinzione sarà dichiarata con decreto, anche d'ufficio. Le sentenze eventualmente emesse che hanno accolto le richieste di restituzione della ritenuta del 2,50 per cento, operata sugli stipendi mensili a decorrere dal 01.01.2011, resteranno quindi prive di effetti, fatta eccezione per quelle passate in giudicato.
Quanto infine ai trattamenti di fine servizio(buonuscita), liquidati prima dell'entrata in vigore del nuovo decreto legge secondo le norme del Tfr, dovranno essere riliquidati d'ufficio secondo le norme di cui al citato decreto 1032/1973. Non si provvederà, invece, al recupero a carico del dipendente di eventuali somme già erogate in eccedenza, in conseguenza dell'applicazione delle norme che regolano il trattamento di fine rapporto, trattamento che in casi particolari può essere stato più favorevole rispetto a quello del trattamento di fine servizio.
Questo in sintesi il contenuto del decreto legge che il Governo è stato costretto ad approvare in seguito alla dichiarazione di illegittimità costituzionale del citato comma 10 contenuta nella sentenza della Corte Costituzionale n. 223/2012 e anche, presumibilmente, al fine di impedire la inevitabile restituzione delle somme trattenute a decorrere dal 01.01.2011. Spetterà ora ai deputati e ai senatori trasformarlo in legge dello Stato entro sessanta giorni dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (articolo ItaliaOggi del 30.10.2012).

APPALTI: Appalti, basta l'autocertificazione. Ok alla dichiarazione sostitutiva sulla responsabilità solidale.  Lo ha chiarito l'Agenzia delle entrate nella circolare n. 40. Sanzioni fino a 200 mila euro.
Nuove responsabilità per committenti e appaltatori. Il regime di solidarietà introdotto dal dl 223/2006, modificato dall'art. 13-ter del dl 83/2012 (decreto sviluppo), ha dettato ulteriori regole in materia di responsabilità fiscale nell'ambito dei contratti di appalto e subappalto di opere e servizi.
A decorrere dai contratti stipulati il 12.08.2012, è stato introdotto il principio della responsabilità dell'appaltatore e del committente per il versamento all'erario delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente e dell'Iva dovuta dal subappaltatore e dall'appaltatore in relazione alle prestazioni effettuate nell'ambito del contratto.
La responsabilità viene meno laddove l'appaltatore/committente acquisisca la documentazione attestante che i versamenti fiscali, scaduti alla data del pagamento del corrispettivo, sono stati correttamente eseguiti dal subappaltatore/appaltatore.
In assenza della documentazione il committente (verso l'appaltatore) e l'appaltatore (verso il subappaltatore) devono sospendere il pagamento dei corrispettivi.
L'attuale normativa ammette che la documentazione possa consistere in una asseverazione rilasciata da Caf o da professionisti abilitati oppure, come recentemente affermato dalla circolare 08.10.2012 n. 40/E dell'Agenzia delle entrate, anche nell'autocertificazione dell'impresa. In caso di violazione della norma scattano le sanzioni che possono variare da un minimo di 5 mila a un massimo di 200 mila euro.
La normativa. Il comma 28 dell'art. 35 del dl 223/2006 è stato integralmente sostituito dall'art. 13-ter del dl 83/2012 convertito. Sulla materia è intervenuta la circolare 08.10.2012 n. 40/E dell'Agenzia delle entrate, che ha precisato che gli adempimenti da porre in essere per evitare la corresponsabilità negli appalti si riferiscono ai pagamenti effettuati a partire dall'11 ottobre, in relazione ai contratti di appalto o subappalto stipulati a decorrere dal 12.08.2012.
L'adempimento al quale gli appaltatori devono fare riferimento è la verifica del corretto versamento all'Erario delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente e dell'Iva dovuta dal subappaltatore in relazione alle prestazioni effettuate nell'ambito del rapporto di subappalto.
In mancanza di tale controllo, l'appaltatore diviene solidalmente responsabile con il subappaltatore, nei limiti del corrispettivo dovuto, per i versamenti omessi. Inoltre in mancanza della documentazione attestante la correttezza dei versamenti dell'Iva e delle ritenute dell'appaltatore e del subappaltatore, il committente, pur non essendo corresponsabile, viene sanzionato, in caso di omissione del versamento, con una sanzione amministrativa pecuniaria da 5 mila a 200 mila euro.
I soggetti interessati. L'ambito di applicazione della nuova disposizione è ampio e abbraccia tutti i settori. La disciplina infatti si applica alle obbligazioni nascenti dai contratti di appalto e subappalto, di opere, forniture e servizi, stipulati da soggetti nell'ambito di attività rilevanti ai fini dell'Iva e, in ogni caso, dai soggetti indicati agli artt. 73 e 74 del dpr n. 917/1986 («Testo unico delle imposte sui redditi»). Rientrano pertanto nella disciplina, ad esempio, i contratti aventi a oggetto la costruzione di immobili e di impianti particolari, ma anche quelli aventi a oggetto la pulizia periodica di uffici e fabbriche.
Sono espressamente escluse dall'applicazione della disposizione le (sole) stazioni appaltanti, di cui all'art. 3, comma 33, del dlgs n. 163/2006 («Codice degli appalti pubblici»).
Le attestazioni. Il subappaltatore e l'appaltatore possono attestare l'avvenuto adempimento degli obblighi fiscali anche attraverso l'asseverazione rilasciata dai dottori commercialisti, consulenti del lavoro, responsabili dei Caf-imprese. La circ. 40/2012 ha inoltre introdotto la possibilità di rilasciare una dichiarazione sostitutiva di atto notorio (dpr 445/2000), con cui l'appaltatore/subappaltatore attesta l'avvenuto adempimento degli obblighi richiesti dalla disposizione.
Il contenuto delle attestazioni. Per quanto riguarda la dichiarazione sostitutiva (o l'attestazione da parte del professionista o del Caf), tale documento deve contenere l'indicazione:
- del periodo nel quale l'Iva relativa alle fatture concernenti i lavori eseguiti è stata liquidata, specificando se dalla liquidazione è scaturito un versamento di imposta, ovvero se in relazione alle fatture oggetto del contratto è stato applicato il regime dell'Iva per cassa oppure la disciplina del reverse charge;
- del periodo nel quale le ritenute sui redditi di lavoro dipendente sono state versate, mediante scomputo totale o parziale; degli estremi del modello F24 con il quale i versamenti dell'Iva e delle ritenute non scomputate, totalmente o parzialmente, sono stati effettuati;
- dell'affermazione che l'Iva e le ritenute versate includono quelle riferibili al contratto di appalto/subappalto per il quale la dichiarazione viene resa.
I termini per i versamenti erariali. La circ. 40 ha precisato che nell'autocertificazione deve essere indicato «il periodo nel quale l'Iva relativa alle fatture concernenti i lavori eseguiti è stata liquidata» e «il periodo nel quale le ritenute sui redditi di lavoro dipendente sono state versate», dando per certo che i versamenti debbano già essere avvenuti alla data della liquidazione del corrispettivo.
È indubbio che in assenza di correttivi futuri, se la direttiva verrà applicata in base all'attuale versione, molte imprese non potranno mai rispettare tali adempimenti, dovendo incassare il corrispettivo per poter fare fronte agli obblighi fiscali (articolo ItaliaOggi Sette del 29.10.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATABurocrazia verde in versione light. Alleggerimenti per la gestione di rifiuti e procedure Via e Aia. Dai siti inquinanti alle terre da scavo: le misure del ddl semplificazioni in materia di ambiente.
Nuovi alleggerimenti per la gestione di materiali da scavo e rifiuti agricoli, rimodulazione del confine tra acque e rifiuti, autorizzazione alla bonifica dei siti inquinati in «silenzio-assenso», velocizzazione delle procedure «Via» e «Aia». Promette di intervenire su tutte le principali tematiche ambientali il disegno di legge in materia di semplificazione (meglio noto come «Semplificazioni-bis») licenziato lo scorso 16.10.2012 dal governo e ora all'esame del parlamento.
«Materiali di riporto». La prima delle novità in materia di gestione di terre e rocce da scavo riguarda la riformulazione della nozione di «materiali di riporto» contenuta nel dl 2/2012, ossia dei materiali paragonati dallo stesso decreto legge al suolo dal punto di vista della gestione ambientale.
Pur conservando la definizione base dell'articolo 3 del dl 2/2012 che li individua «quali materiali eterogenei (...) utilizzati per la realizzazione di riempimenti e rilevati, non assimilabili per caratteristiche geologiche (...) al terreno (...) all'interno dei quali possono trovarsi materiali estranei» il ddl in itinere interviene su diversi aspetti nodali della loro gestione modificando direttamente il citato dl 2/2012. In primo luogo il «Semplificazioni-bis» rende autonoma la definizione generale di «materiali di riporto» eliminando ogni rinvio al dm ambiente 161/2012 (il nuovo provvedimento sull'utilizzo delle terre e rocce da scavo come sottoprodotti, che appare dunque entrare in gioco solo nel caso di gestione di detti materiali in deroga al regime ordinario sui rifiuti).
Ancora, il ddl in esame specifica a monte il novero dei materiali «estranei» che identificano i «materiali di riporto» come tali, individuandoli come residui di lavorazione industriale e residui generali, e indicandoli (a titolo esemplificativo) quali materiali di demolizione, litoidi, pietrisco tolto d'opera, conglomerati bituminosi e non, scorie spente, loppe di fonderia, detriti e fanghi di lavorazione e lavaggio di inerti. Lo stesso ddl prevede l'obbligo, in caso di potenziale contaminazione del suolo contenente «materiali di riporto» di procedere alla sua caratterizzazione con le modalità previste dall'allegato V al dlgs 152/2006 e, in caso di superamento di determinate concentrazioni, di effettuare ulteriori approfondimento mediante test di cessione.
Le novità previste dal ddl governativo si innestano nel restyling normativo sulla gestione delle terre e rocce da scavo avviato dal citato dl 2/2012 (mediante la parificazione dei «materiali di riporto» al suolo) e portato avanti dal dm ambiente 161/2012 (che dallo scorso 6 ottobre costituisce la nuova disciplina di riferimento per la gestione delle stesse come sottoprodotti in sostituzione delle regole ex articolo 186 del «Codice ambientale»). In base all'attuale e vigente disciplina, è utile ricordarlo, il suolo «non scavato» (contaminato o meno, salvo gli obblighi di bonifica e anche se contenente i citati «materiali di riporto» ex dl 2/2012) non rientra nel campo di applicazione delle norme sui rifiuti, quello «scavato» è invece suscettibile di diversa valutazione.
In particolare, il suolo scavato contaminato deve essere gestito come rifiuto; quello scavato non contaminato può essere considerato non rifiuto, rifiuto o sottoprodotto. Precisamente, non è rifiuto se è riutilizzato in attività di costruzione nello stesso sito. È invece rifiuto (salvo riabilitazione all'esito del successivo recupero) se il detentore decide a monte di «disfarsene» o se, pur volendolo avviare a reimpiego in sito diverso da quello di origine, non rispetta i parametri per i sottoprodotti dettati dal dm 161/2012. È, infine, sottoprodotto se reimpiegabile (e poi realmente reimpiegato) in altro sito nell'osservanza delle condizioni dettate dal citato dm 161/2012.
Gestione «semplificata» delle terre da piccoli cantieri. Nell'ambito del descritto quadro normativo si inserisce l'altra novità prevista dal ddl «Semplificazioni-bis», ossia l'insieme delle regole che permette di gestire sempre come sottoprodotti, ma con ulteriori semplificazioni, i materiali da scavo provenienti da cantieri la cui produzione non superi in totale i 6 mila metri cubi di materiale. Per gestire tali materiali come sottoprodotti in deroga al dm 161/2012 (ma salva l'osservanza delle regole generali dettate dall'articolo 184-bis del dlgs 152/2006) i relativi produttori dovranno dimostrare (anche mediante autodichiarazione alla provincia competente): che la destinazione all'utilizzo sia certa e diretta in un determinato sito o ciclo produttivo; che i materiali derivanti dallo scavo non superano le concentrazioni soglia di contaminazione (ex colonne «A» e «B», tabella 1, allegato 5 al Titolo V, Parte IV del Codice ambientale); che l'utilizzo non comporta rischi per la salute né variazioni di emissioni rispetto al normale utilizzo di materie prime.
Il deposito dei materiali destinati al riutilizzo non dovrà però superare un anno e l'avvenuta reimmissione nel ciclo produttivo dovrà esser comunicata alla provincia. Ancora, il trasporto dovrà esser accompagnato dal relativo documento, dalla copia del contratto di trasporto o dalla scheda prevista dal dlgs 286/2005 (autotrasporto per conto terzi). Nella logica del «Semplificazioni-bis» tali regole costituiscono attuazione dell'articolo 266, comma 7 del dlgs 152/2006 che prevede la facoltà per il legislatore (individuato dall'articolo in parola nel Minambiente, ma ora sostituito dal consiglio dei ministri) di stabilire deroghe al regime dei rifiuti per i materiali dai suddetti cantieri di piccole dimensioni. A tal proposito è altresì utile ricordare che il Minambiente aveva già dato attuazione al dettato del «Codice ambientale» mediante dm 02.05.2006, decreto poi dichiararlo in autotutela privo di ogni effetto per un difetto di registrazione presso la Corte dei conti.
Gestione acque. Il confine tra regime delle acque e quello dei rifiuti viene dal «Semplificazioni-bis» rivisitato mediante un intervento sulla gestione delle acque sotterranee emunte, ossia delle acque di falda estratte nell'ambito di interventi di bonifica. Il ddl chiarisce, attraverso la riformulazione del dlgs 152/2006, che sono assimilate alle acque reflue industriali (e dunque sottoposte al relativo regime delle «acque» previsto dalla parte III del dlgs 152/2006) le acque sotterranee emunte e convogliate tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il punto di prelievo delle stesse con il punto di immissione (previa depurazione) nel corpo ricettore. Ragionando a contrario la disposizione appare dunque ricondurre al regime dei rifiuti (liquidi) le sole acque emunte non convogliate direttamente tramite tubatura dal prelievo al corpo ricettore.
Bonifica siti inquinati. In base al «Semplificazioni-bis» (che sul punto prevede la modifica diretta del dlgs 152/2006) l'operatore interessato all'intervento può iniziare la bonifica trascorsi 90 giorni dalla presentazione del progetto completo di «crono programma» all'Amministrazione competente ove nello stesso termine non sia intervenuto il rigetto dell'istanza. Ancora, ultimati gli interventi, effettuata la caratterizzazione e comunicata la stessa all'Agenzia ambientale regionale e all'Autorità competente di cui sopra, l'operatore potrà autocertificare l'avvenuta bonifica se entro 45 giorni da detta comunicazione non interviene atto amministrativo contrario.
Dandone successiva comunicazione alla stessa Amministrazione competente l'operatore acquisirà altresì la disponibilità dell'area per gli usi legittimi. Altra novità è la limitazione ai soli siti industriali dello strumento di «messa in sicurezza operativa», riservando agli altri siti (come i residenziali, commerciali e verdi) le meno grevi procedure previste dal titolo V del dlgs 152/2006 (articolo ItaliaOggi Sette del 29.10.2012).

CONDOMINIOImmobili. Difettosa realizzazione delle parti comuni. Danni da infiltrazioni, risponde il condominio.
LA DECISIONE/ Si tratta di responsabilità del custode che deve eliminare le caratteristiche lesive insite nella cosa propria.

Se i danni lamentati dal singolo condomino sui beni di proprietà esclusiva derivano da difettosa realizzazione delle parti comuni dell'edificio, nei confronti del condomino è responsabile –in via autonoma in base all'articolo 2051 del Codice civile– il condominio. Quest'ultimo, infatti, come custode, deve eliminare le caratteristiche lesive insite nella cosa propria.
Lo ha ribadito la II Sez. civile della Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 17268/2012, ha affrontato il caso di due coniugi che, per le infiltrazioni d'acqua nella loro cantina, avevano chiesto al tribunale la condanna del condominio a eseguire le opere necessarie per eliminare gli inconvenienti e a risarcire i danni.
La domanda del condomino, respinta dal tribunale, è stata invece accolta dalla Corte d'appello, che ha condannato il condominio a eseguire le opere descritte nella consulenza tecnica d'ufficio. La Corte ha infatti evidenziato che, pur avendo la Ctu appurato che a generare il danno erano stati i vizi di progettazione e di esecuzione imputabili al costruttore, doveva comunque essere ravvisata la responsabilità del condominio in base all'articolo 2051 del Codice civile: il danno era stato causato non da un comportamento del custode, ma dalla cosa in custodia; e la responsabilità era superabile solo dalla prova liberatoria del superamento della presunzione di colpa o del caso fortuito.
La Cassazione, a sua volta, nel respingere il ricorso del condominio, ha precisato che se il fenomeno dannoso lamentato dal singolo condomino sui beni di proprietà esclusiva è originato da difettosa realizzazione delle parti comuni dell'edificio (nella specie precaria situazione della muratura perimetrale adiacente il giardino condominiale e dei pozzetti), nei confronti di questi è responsabile, in via autonoma, il condominio, che è tenuto, quale custode, a eliminare le caratteristiche lesive insite nella cosa propria.
Non si tratta di una responsabilità a titolo derivativo: il condominio, pur successore a titolo particolare del costruttore-venditore, non subentra nella sua personale responsabilità, legata alla sua attività e fondata sull'articolo 1669 del Codice civile. Ma si tratta di autonoma fonte di responsabilità in base all'articolo 2051 del Codice civile, che non preclude, però, al condominio la possibilità di agire nei confronti della società costruttrice in base all'articolo 1669 del Codice civile se sussistano i presupposti (articolo Il Sole 24 Ore del 29.10.2012).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Il silenzio-rifiuto può formarsi esclusivamente in ordine ad un'attività dell'amministrazione ad emanazione vincolata ma di contenuto discrezionale, e quindi necessariamente incidente su posizioni di interesse legittimo, e non già nell'ipotesi in cui viene chiesto il soddisfacimento di posizioni aventi natura sostanziale di diritti soggettivi.
La formazione del silenzio-rifiuto e lo speciale procedimento giurisdizionale oggi disciplinato dall’art. 117 c.p.a., non risulta infatti compatibile con le pretese che solo apparentemente abbiano per oggetto una situazione di inerzia, in quanto concernono diritti soggettivi la cui eventuale lesione è direttamente accertabile dall'autorità giurisdizionale competente.
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La legge n. 47 del 1985 dispone che, qualora dall’esame della documentazione risulti un credito a favore del presentatore della domanda di concessione in sanatoria, certificato con l’attestazione rilasciata dal Sindaco, l’interessato può presentare istanza di rimborso “all’intendenza di finanza territorialmente competente”.
Alle Intendenze di Finanza, peraltro, sono dapprima subentrate, in forza della l. 29.10.1991 n. 358, le Direzione Regionali delle Entrate, alle quali, per quanto qui interessa, in forza del d.m. 07.03.1997 (recante le “Modalità di rimborso delle differenze non dovute e versate a titolo di oblazione per la sanatoria degli abusi edilizi”), è stato espressamente attribuito il compito di disporre i rimborsi a favore degli aventi diritto.
E’ noto, poi che, ai sensi del d.lgs. n. 300 del 1999, è stata creata l’Agenzia delle Entrate, cui è stata attribuita, tra le altre, la competenza “a svolgere i servizi relativi alla amministrazione, alla riscossione e al contenzioso dei tributi diretti e dell'imposta sul valore aggiunto, nonché di tutte le imposte, diritti o entrate erariali o locali, entrate anche di natura extratributaria, già di competenza del dipartimento delle entrate del ministero delle finanze o affidati alla sua gestione in base alla legge o ad apposite convenzioni stipulate con gli enti impositori o con gli enti creditori”.
Non vi è dubbio, pertanto, che l’Agenzia sia competente anche a disporre i rimborsi delle differenze non dovute e versate a titolo di oblazione per la sanatoria di abusi edilizi.

La controversia in esame -ancorché veicolata attraverso l’impugnativa del silenzio–rifiuto opposto dall'amministrazione- è diretta alla declaratoria del diritto alla restituzione di somme che si sostengono versate in eccedenza a titolo di oblazione per sanatoria edilizia.
Essa concerne quindi, diritti soggettivi di credito in materia in cui sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 35, comma 16, l. 28.02.1985, n. 47, richiamato, per quanto qui interessa, dall’art. 39 della l. 724 del 1994, applicata nella fattispecie; cfr., da ultimo, TAR Lazio, sez. II, sentenza n. 945 del 02.02.2011).
Per quanto occorrer possa, è bene precisare che parte ricorrente ha comunque espressamente spiegato anche un’azione di accertamento e di condanna alla restituzione delle somme versate in eccedenza.
Al riguardo, il Collegio ricorda che il silenzio-rifiuto può formarsi esclusivamente in ordine ad un'attività dell'amministrazione ad emanazione vincolata ma di contenuto discrezionale, e quindi necessariamente incidente su posizioni di interesse legittimo, e non già nell'ipotesi in cui viene chiesto il soddisfacimento di posizioni aventi natura sostanziale di diritti soggettivi.
La formazione del silenzio-rifiuto e lo speciale procedimento giurisdizionale oggi disciplinato dall’art. 117 c.p.a., non risulta infatti compatibile con le pretese che solo apparentemente abbiano per oggetto una situazione di inerzia, in quanto concernono diritti soggettivi la cui eventuale lesione è direttamente accertabile dall'autorità giurisdizionale competente (TAR Lazio, sez. II, 07.11.2011, n. 8531).
Ciò premesso -quanto alla sussistenza, in materia, della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo- deve essere respinta l’unica eccezione svolta dall’intimata Agenzia delle Entrate, la quale ha invocato il proprio difetto di legittimazione passiva.
Ricorda infatti il Collegio che la legge n. 47 del 1985, sopra richiamata, dispone che, qualora dall’esame della documentazione risulti un credito a favore del presentatore della domanda di concessione in sanatoria, certificato con l’attestazione rilasciata dal Sindaco, l’interessato può presentare istanza di rimborso “all’intendenza di finanza territorialmente competente”.
Alle Intendenze di Finanza, peraltro, sono dapprima subentrate, in forza della l. 29.10.1991 n. 358, le Direzione Regionali delle Entrate, alle quali, per quanto qui interessa, in forza del d.m. 07.03.1997 (recante le “Modalità di rimborso delle differenze non dovute e versate a titolo di oblazione per la sanatoria degli abusi edilizi”), è stato espressamente attribuito il compito di disporre i rimborsi a favore degli aventi diritto.
E’ noto, poi che, ai sensi del d.lgs. n. 300 del 1999, è stata creata l’Agenzia delle Entrate, cui è stata attribuita, tra le altre, la competenza “a svolgere i servizi relativi alla amministrazione, alla riscossione e al contenzioso dei tributi diretti e dell'imposta sul valore aggiunto, nonché di tutte le imposte, diritti o entrate erariali o locali, entrate anche di natura extratributaria, già di competenza del dipartimento delle entrate del ministero delle finanze o affidati alla sua gestione in base alla legge o ad apposite convenzioni stipulate con gli enti impositori o con gli enti creditori”.
Non vi è dubbio, pertanto, che l’Agenzia sia competente anche a disporre i rimborsi delle differenze non dovute e versate a titolo di oblazione per la sanatoria di abusi edilizi.
L’eccezione, peraltro, è stata genericamente svolta dalla difesa erariale, la quale si è limitata a sostenere, per converso, la legittimazione passiva del Comune di Campagnano Romano.
Al riguardo, si osserva peraltro che l’istanza di condono è stata definita dal Comune ai sensi della l. n. 724 del 1994, non trovando pertanto applicazione l’art. 32, comma 41, del d.l. n. 269/2003, conv. in l. 326/2003, il quale prevede che, al fine di incentivare la definizione da parte dei comuni delle domande di sanatoria per gli abusi edilizi, il 50 per cento delle somme riscosse a titolo di conguaglio dell'oblazione, in origine versato interamente all’Erario, venga devoluto ai Comuni medesimi (secondo le modalità stabilite con decreto del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti in data 28.2.2005)
Nel merito, il ricorso è fondato.
Il Collegio rileva che vi è, in atti, il provvedimento con cui l’amministrazione comunale ha determinato, in via definitiva, l’importo dell’oblazione, e ha, contestualmente, certificato che il sig. Messina deve avere, “a conguaglio, la somma di euro 3.160,942”, da richiedersi alla “sezione staccata della direzione regionale delle Entrate, secondo le modalità indicate nel d.m. 07.03.1997 (G.U. 22.04.1997, n. 93)”.
Nel costituirsi in giudizio, come già accennato, l’Agenzia delle Entrate non ha contestato tali presupposti di fatto.
Va infine soggiunto che la somma dovuta inerisce ad un indebito oggettivo (cfr. l’art. 2033 c.c.) e dovrà perciò essere maggiorata dei soli interessi legali decorrenti dalla data della domanda (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 24.10.2012 n. 8767 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl Cds estende l'applicazione dell'istituto. Gare, avvalimento anche sulla qualità.
In una gara di appalto pubblico l'istituto dell'avvalimento può essere utilizzato anche con riguardo alla certificazione di qualità aziendale; in quanto requisito di capacità tecnico-organizzativa che, quindi, può essere «prestato» ad altro soggetto che ne sia sprovvisto.

È quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 23.10.2012 n. 5408 che affronta il tema dell'utilizzabilità dell'istituto dell'avvalimento (il c.d. «prestito» dei requisiti previsto dall'articolo 49 del Codice dei contratti pubblici) rispetto alla certificazione di qualità aziendale.
Il tema, da ultimo, è stato trattato anche dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (determinazione n. 2 del 01.08.2012) che si è espressa «nel senso dell'inammissibilità del ricorso all'avvalimento per la certificazione di qualità» riconoscendo ad essa la natura di requisito soggettivo e non tecnico-organizzativo.
Il Consiglio di stato, invece, sposa la tesi opposta, partendo dall'analisi della portata generale dell' art. 49 del Codice dei contratti pubblici che «è molto ampia e non prevede alcun divieto, sicché ben può l'avvalimento riferirsi anche alla certificazione di qualità di altro operatore economico». In altre parole per i giudici di Palazzo Spada la certificazione di qualità ha la sua ragione d'essere nella valorizzazione degli elementi di eccellenza dell'organizzazione complessiva, e quindi deve essere considerata «anch'essa requisito di idoneità tecnico organizzativa dell'impresa, da inserirsi tra gli elementi idonei a dimostrare la capacità tecnico professionale di un'impresa».
Attraverso la certificazione di qualità aziendale la stazione appaltante vede così assicurata l'esigenza che l'impresa cui sarà affidato il servizio o la fornitura sarà in grado di effettuare la prestazione nel rispetto di un livello minimo di qualità accertato da un organismo a ciò predisposto. Si tratta di considerazioni di carattere generale che hanno rilievo soprattutto nell'ambito del settore dei servizi e delle forniture, in ragione della qualificazione del requisito della certificazione di qualità come elemento tecnico-organizzativo e non soggettivo.
Nel caso di specie, infatti, viene ammesso l'avvalimento della certificazione di qualità in quanto elemento sulla base del quale viene emesso l'attestato Soa a sua volta «ceduto» all'impresa partecipante alla gara (articolo ItaliaOggi del 30.10.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAL'obbligo giuridico di provvedere -ai sensi dell'art. 2 della legge 07.08.1990, n. 241, come modificato dall’art. 7 della legge 18.06.2009, n. 69- sussiste in tutte quelle fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongano l'adozione di un provvedimento e quindi, tutte quelle volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell'Amministrazione.
In particolare, poi, il proprietario confinante con l’immobile, nel quale si assuma essere stato realizzato un abuso edilizio, ha comunque un interesse alla definizione dei procedimenti relativi all’immobile medesimo entro il termine previsto dalla legge, tenendo conto dell’interesse sostanziale che, in relazione alla vicinanza, egli può nutrire in ordine all’esercizio dei poteri repressivi e ripristinatori da parte dell’organo competente.

La controversia sottoposta alla Sezione dall’appello in esame verte sulla legittimità di un silenzio serbato da amministrazione comunale su istanza sollecitatoria dei poteri repressivi nei confronti di un intervento edilizio, realizzato da proprietario confinante, ritenuto abusivo perché lesivo delle prerogative della proprietà limitrofa. Con la decisione impugnata il TAR si è espresso negativamente sul dovere dell’amministrazione di pronunziarsi, facendo riferimento al presupposto sostanziale per ottenere la repressione dell’abuso, costituito dalla effettiva lesione delle prerogative dominicali del soggetto che sollecita l’esercizio dei poteri repressivi in questione. Il giudice di prime cure ha escluso la sussistenza di detto presupposto (sostenuto invece con riferimento agli elementi addotti dal ricorrente) sulla base di argomentazioni riassumibili come segue:
- quanto alla esistenza della strada pubblica, risulta smentita dai documenti versati in atti, sicché il passaggio potrebbe al più rappresentare una strada vicinale-privata, sulla quale può discutersi della sussistenza di un uso pubblico; peraltro risulta che “altro soggetto proprietario di terreni siti in zona abbia intentato una causa possessoria civile avverso l’odierna controinteressata, rivendicando la sussistenza di un passaggio a proprio favore sul contestato percorso, passaggio asseritamente precluso dal cancello. Dal doppio grado di giudizio della vertenza possessoria è per contro emerso che tale tipo di passaggio non è stato comprovato né in termini generali e pubblici né a favore del ricorrente in possessoria”;
- in merito alla sostenuta destinazione pubblica della strada, la sua larghezza non costituisce elemento sufficiente a dimostrarla, trattandosi di previsione caratteristica che può connotare anche le strade private.
L’appello in trattazione contrasta queste motivazioni ed in particolare il principio sotteso alla decisione, per il quale l’interesse a promuovere l’azione sollecitatoria non sussiste allorché la controversia, essendo stata proposta a tutela di un diritto privato, ha natura privatistica. Il gravame, alla luce della giurisprudenza di questo Consiglio formatasi in materia, è meritevole di accoglimento, non potendosi condividere, per le ragioni che seguono, l’interpretazione restrittiva adottata dal TAR sul dovere di pronunziarsi sull’istanza.
In effetti, ricostruiti come sopra i termini della controversia, e ribadito (come già ammesso dalla sentenza) che la stessa verte esclusivamente sulla sussistenza di un obbligo del Comune di pronunziarsi sulla domanda, e non sul merito della controversia (la regolarità o meno dell’intervento edilizio), viene qui in rilievo la giurisprudenza amministrativa per la quale, in via generale, “l'obbligo giuridico di provvedere -ai sensi dell'art. 2 della legge 07.08.1990, n. 241, come modificato dall’art. 7 della legge 18.06.2009, n. 69- sussiste in tutte quelle fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongano l'adozione di un provvedimento e quindi, tutte quelle volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell'Amministrazione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 03.06.2010, n. 3487).
In particolare, poi, il proprietario confinante con l’immobile, nel quale si assuma essere stato realizzato un abuso edilizio, ha comunque un interesse alla definizione dei procedimenti relativi all’immobile medesimo entro il termine previsto dalla legge, tenendo conto dell’interesse sostanziale che, in relazione alla vicinanza, egli può nutrire in ordine all’esercizio dei poteri repressivi e ripristinatori da parte dell’organo competente (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 20.07.2006, n. 4609; Id., IV Sez., 07.07.2008, n. 3384)” (Cons. di Stato, sez. IV, n. 2468/2012)
”.
Ciò considerato, rileva il Collegio che la decisione del TAR opera una commistione tra le due distinte questioni giuridiche (pronunzia o meno sull’istanza ed esercizio o meno dei poteri repressivi), obliterando che oggetto del ricorso era solo la prima. E con riferimento a questa sussistevano gli elementi legittimanti minimali per ottenere la pronunzia del Comune, costituiti dalla incontestata proprietà da parte istante e dallo stato dei luoghi esposto dal ricorrente.
Come già condivisibilmente affermato in analoga fattispecie (Cons. di Stato n. 2468/2012, cit.), resta poi irrilevante la prospettiva di un esperimento dell’azione possessoria in sede civile, ben potendo la tutela (rimozione del presunto abuso), non conseguita in sede civile, essere realizzarsi mediante il richiesto esercizio dei poteri pubblicistici in materia edilizia.
Diversamente da quanto ritenuto dal TAR, dunque, l’azione proposta dal sig. Rizzo contro il silenzio era meritevole di accoglimento; conseguentemente l’appello in trattazione, in riforma sul punto della sentenza impugnata, deve essere accolto, dovendosi annullare il silenzio formatosi sulla domanda e dichiarare il dovere dell’amministrazione di pronunziarsi sull’istanza del sig. Rizzo, a norma dell’art. 117, comma 2, del c.p.a..
Conseguentemente l’appello in trattazione, in riforma sul punto della sentenza impugnata, deve essere accolto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.10.2012 n. 5347 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOCassazione. Il diritto del vincitore è subordinato alla permanenza dell'assetto in forza del quale era stato emesso il bando.
Il concorso non fissa il posto. Sì all'inquadramento in un ruolo diverso rispetto a quello oggetto di selezione.
LA CONDIZIONE/ Il comportamento è lecito se, in seguito a riorganizzazione e prima della nomina formale, si sopprime la qualifica per cui il candidato ha partecipato.

Il diritto del candidato vincitore ad assumere l'inquadramento previsto dal bando di concorso, espletato dall'amministrazione per il reclutamento dei propri dipendenti, è subordinato alla permanenza, al momento del l'adozione del provvedimento di nomina, dell'assetto organizzativo degli uffici in forza del quale il bando era stato emesso.
Questo l'importante e innovativo principio sancito dalle sezioni unite civili della Corte di Cassazione che, con la sentenza 02.10.2012 n. 16728, hanno risolto una questione di particolare importanza.
Una candidata che aveva vinto il concorso da dirigente in una Pa era stata assunta come funzionaria, in quanto, al momento della nomina, l'organico degli uffici previsto dal bando era stato soppresso. L'interessata aveva presentato ricorso contro l'atto di assegnazione, ma sia il giudice del lavoro che la Corte d'appello l'avevano respinto, ragion per cui la candidata ha impugnato la pronuncia di secondo grado di fronte alla Cassazione.
I giudici di legittimità hanno preliminarmente ricordato che il bando di concorso, essendo preordinato alla stipulazione del contratto, costituisce, ove contenga gli elementi del contratto alla cui conclusione è diretto, un'offerta al pubblico, ai sensi dell'articolo 1336 del Codice civile, la quale è revocabile solo finché non sia intervenuta l'accettazione da parte degli interessati. Tale offerta si perfeziona con l'accettazione del candidato utilmente inserito nella graduatoria degli idonei.
La Pa, nell'ambito del pubblico impiego privatizzato, non esercita più poteri di supremazia speciale e opera, anzi, con la capacità del datore di lavoro privato, nell'ambito di un rapporto di lavoro paritario. In particolare, per l'assunzione di nuovo personale, il bando indica il contratto di lavoro che l'amministrazione intende concludere, nonché il tipo e le modalità della procedura concorsuale, partecipando agli interessati l'intento di giungere alle assunzioni.
Nel caso specifico, tuttavia, successivamente all'emanazione del bando e prima della conclusione delle operazioni concorsuali, è cambiato il quadro normativo e la posizione funzionale, in cui il vincitore avrebbe dovuto essere collocato, è stata soppressa.
Secondo la Corte, è legittimo il diverso inquadramento del vincitore del concorso nel caso in cui, a seguito di riorganizzazione interna, e prima del formale provvedimento di nomina, venga soppressa la qualifica funzionale per cui il candidato ha partecipato. Il diritto del vincitore all'inquadramento nel livello previsto dal bando di concorso è, infatti, subordinato al mantenimento dell'organizzazione interna, in quanto l'intervenuta soppressione dell'area di attività per cui il concorrente ha partecipato alla selezione esime l'ente dal rispetto degli obblighi che scaturivano dall'avviso.
In presenza di una circostanza di questo tipo, secondo le sezioni riunite, l'obbligo di assunzione nelle condizioni fissate dal nuovo assetto organizzativo non impone la valutazione alla luce dei principi di buona fede e di correttezza, che non operano come fonti autonome e ulteriori di diritti se non nei limiti della previsione contrattuale. Tale interpretazione è conforme all'articolo 97 della Costituzione, secondo cui la Pa, nell'organizzare i suoi uffici, è tenuta a conformare la propria azione ai principi di imparzialità, efficienza e legalità.
Sussiste, pertanto, un potere-dovere dell'ente pubblico di annullare i provvedimenti che abbiano disposto eventuali inquadramenti illegittimi. Tale obbligo, secondo la Cassazione, nel caso di ius superveniens, impone all'amministrazione –ove non abbia ritenuto di ricorrere alla revoca o all'annullamento della procedura concorsuale, intervenuta prima della nomina dei vincitori– di adottare il provvedimento di inquadramento del vincitore del concorso sulla base della norma (di natura legislativa o collettiva) vigente al momento dell'adozione dell'atto.
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La vicenda
01|IL FATTO
Una candidata che aveva vinto il concorso da dirigente in una Pa era stata assunta come funzionaria, in quanto, al momento della nomina, l'organico degli uffici previsto dal bando era stato soppresso.
02|LA PRONUNCIA
Secondo la Cassazione, la soppressione della qualifica funzionale messa a concorso, decisa in seguito a riorganizzazione interna e intervenuta prima del formale provvedimento di nomina, rende legittimo il diverso inquadramento del vincitore (articolo Il Sole 24 Ore del 29.10.2012 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIFinta infermità. Violate correttezza e buona fede. Attività limitate per chi è in malattia.
È legittimo il licenziamento del dipendente che lavora, anche per un solo giorno, durante il periodo di malattia.
Lo ha precisato la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza 26.09.2012 n. 16375.
La vicenda coinvolge un lavoratore licenziato a seguito di provvedimento disciplinare per aver ripetutamente svolto attività lavorativa come addetto alla sicurezza presso alcune discoteche locali mentre si trovava in congedo per ragioni di malattia. Se la sentenza del Tribunale è favorevole al lavoratore, la Corte d'appello ritiene legittimo il licenziamento. Così, il lavoratore ricorre in Cassazione, che respinge il ricorso richiamando un consolidato indirizzo interpretativo (Cassazione 9474/2009).
La sentenza precisa che nel nostro ordinamento non sussiste un divieto assoluto per il dipendente di lavorare, anche a favore di terzi, durante l'assenza per malattia. Tuttavia, l'eventuale licenziamento è legittimo se il comportamento del lavoratore integra una violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà. E ciò può avvenire, prosegue la pronuncia, quando lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia è di per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza dell'infermità adotta per giustificare l'assenza dal posto di lavoro; o quando l'attività svolta sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore.
La Corte precisa infine che non è rilevante la considerazione del l'assenza dal lavoro per un solo giorno perché anche il lavoro prestato durante i giorni festivi o in quelli in cui non era previsto un turno lavorativo possono incidere sulla convalescenza del lavoratore e quindi sulla sua ripresa in servizio.
La pronuncia apparentemente si pone in contrasto con quanto affermato dalla sentenza 15476 depositata dalla Cassazione lo scorso 14 settembre, relativa a un lavoratore sorpreso a lavorare nel chiosco della moglie durante l'assenza per infortunio alla caviglia. La Suprema corte ritiene illegittimo il licenziamento poiché l'aiuto che il lavoratore prestava all'interno del chiosco è di gran lunga più leggero rispetto all'attività di giuntista svolta per il datore di lavoro. Un'attività, precisa l'estensore, che costringe a continui spostamenti su scale alte anche 10 metri per operare su linee telefoniche aeree.
Inoltre, conclude la pronuncia, la prescrizione di astensione e riposo dal lavoro del medico curante non determina l'inibizione da qualsiasi attività personale e privata, soprattutto se comparata con l'attività lavorativa svolta (articolo Il Sole 24 Ore del 29.10.2012).

EDILIZIA PRIVATA: L’assenza di una definizione normativa di “pergolato” non esclude la valutazione dell’amministrazione in ordine alla riconducibilità di un manufatto a tale tipologia, né il successivo sindacato del giudice sulla legittimità della stessa, sotto il profilo del vizio di eccesso di potere per illogicità, irragionevolezza, insufficienza e/o contraddittorietà della motivazione.
Orbene, il “pergolato”, rilevante ai fini edilizi, può essere inteso come un manufatto avente natura ornamentale, realizzato in struttura leggera di legno o altro materiale di minimo peso, facilmente amovibile in quanto privo di fondamenta, che funge da sostegno per piante rampicanti, attraverso le quali realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni.
Questo Consiglio di Stato, proprio sulla base degli elementi ora riportati, ha avuto modo di escludere che una struttura costituita da pilastri e travi in legno di importanti dimensioni, tali da rendere la struttura solida e robusta e da farne presumere una permanenza prolungata nel tempo, possa essere ricondotta alla nozione di “pergolato”.
Al contrario, è stata ritenuta rientrare nella nozione di “pergolato” una struttura precaria, facilmente rimovibile, costituita da una intelaiatura in legno non infissa al pavimento né alla parete dell’immobile (cui è solo addossata), non chiusa in alcun lato, compreso quello di copertura.

L’appellante ritiene che, nel caso di specie, trattandosi di un “pergolato” -così definito dall’amministrazione con valutazione riportabile, in difetto di definizione normativa, al merito amministrativo (pag. 11 app.), ovvero alla discrezionalità tecnica, (pag. 12), e comunque non sindacabile in sede di legittimità-, lo stesso è perfettamente assentibile e realizzabile, in quanto, avendo un ingombro inferiore a 25 mq., rientra nelle “opere non rilevanti sotto il profillo edilizio”.
Alla luce di quanto esposto, la definizione della presente controversia consegue, in sostanza, alla verifica della natura (o meno) di “pergolato” del manufatto realizzato.
A tal fine, occorre innanzi tutto osservare che l’assenza di una definizione normativa di “pergolato” non esclude la valutazione dell’amministrazione in ordine alla riconducibilità di un manufatto a tale tipologia, né il successivo sindacato del giudice sulla legittimità della stessa, sotto il profilo del vizio di eccesso di potere per illogicità, irragionevolezza, insufficienza e/o contraddittorietà della motivazione.
Orbene, il “pergolato”, rilevante ai fini edilizi, può essere inteso come un manufatto avente natura ornamentale, realizzato in struttura leggera di legno o altro materiale di minimo peso, facilmente amovibile in quanto privo di fondamenta, che funge da sostegno per piante rampicanti, attraverso le quali realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni.
Questo Consiglio di Stato (sez. IV, 02.10.2008 n. 4793), proprio sulla base degli elementi ora riportati, ha avuto modo di escludere che una struttura costituita da pilastri e travi in legno di importanti dimensioni, tali da rendere la struttura solida e robusta e da farne presumere una permanenza prolungata nel tempo, possa essere ricondotta alla nozione di “pergolato”.
Al contrario, è stata ritenuta (Cons. Stato, sez. V, 07.11.2005 n. 6193) rientrare nella nozione di “pergolato” una struttura precaria, facilmente rimovibile, costituita da una intelaiatura in legno non infissa al pavimento né alla parete dell’immobile (cui è solo addossata), non chiusa in alcun lato, compreso quello di copertura (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.09.2011 n. 5409 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Utilizzazione dell'edificio prima del rilascio del certificato di collaudo - Responsabilità del direttore dei lavori - Sussistenza - Art. 75, D.P.R. n. 380/2001.
Il Direttore dei lavori, in quanto primo garante della sicurezza, è certamente tenuto all'osservanza delle prescrizioni imposte dall'art. 75 del D.P.R. n. 380/2001 attraverso lo specifico obbligo di inibire l'utilizzazione dell'edificio prima del rilascio del certificato di collaudo.
Certificato di collaudo - Utilizzo dell’edificio in assenza - Costruttore, committente, proprietario e direttore dei lavori - Responsabilità - Reato di cui all'art. 75, D.P.R. n. 380/2001 - Configurabilità.
Il reato di cui all'art. 75, D.P.R. n. 380/2001 è configurabile -tra gli altri- anche a carico del costruttore, del committente o del proprietario (Cass. Sez. 3^ 24.11.2010 n. 1802, Marrocco).
Tale tesi giustifica anche -pur in assenza di una affermazione esplicita- l'estensione della responsabilità a soggetti quali il direttore dei lavori, non espressamente indicati nel testo normativo, in correlazione con la ratio incriminatrice della norma urbanistica la quale mira a salvaguardare la sicurezza pubblica in modo assoluto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.06.2011 n. 22291 - link a www.ambientediritto.it).

 

AGGIORNAMENTO AL 29.10.2012

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     Finalmente, qualche cervellone ministeriale ce l'ha fatta a capire che lo Stato non può pretendere che il Cittadino rispetti la "Legge" quando conoscere la "Legge" costa, cioè bisogna pagare per leggere la Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana.
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29.10.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI: Oggetto: Responsabilità solidale negli appalti. Vademecum Ance (ANCE di Bergamo, circolare 26.10.2012 n. 252).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOOggetto: Sentenza Corte Costituzionale n. 223 dell'08.10.2012 - Illegittimità costituzionale degli articoli 9, comma 2, e 12, comma 10, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito in legge 30.07.2010, n. 122 (Ministero dell'Interno, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Direzione Centrale per le Risorse Umane,  nota 24.10.2012 n. 333 di prot.).

APPALTI: Oggetto: direttiva in materia di procedimenti arbitrali emanata ai sensi dell'articolo 4 del decreto legislativo 30.03.2001 n. 165 (Ministero delle Infrastrutture e Trasporti, nota 27.06.2012 n. 24189 di prot.).

SINDACATI & ARAN

PUBBLICO IMPIEGO: Illegittima la trattenuta del 2,5% sulle retribuzioni dei dipendenti pubblici per finanziare il T.F.S. (CGIL-FP di Bergamo, nota 15.10.2012).

SEGRETARI COMUNALI: Regioni ed Autonomie Locali-Raccolta sistematica.
La raccolta sistematica si propone di facilitare la lettura dei diversi contratti collettivi nazionali di lavoro vigenti, stipulati negli anni, offrendone una visione unitaria e sistematica.
Essa è stata redatta attraverso la collazione delle clausole contrattuali vigenti, raccolte all’interno di uno schema unitario, per favorire una più agevole consultazione.
A tal fine, sono state aggregate tutte le clausole afferenti a ciascun istituto contrattuale, anche quelle definite in tempi diversi nell’ambito di differenti CCNL, conservando tuttavia la numerazione vigente ed il riferimento al contratto di origine.
Si tratta, pertanto, di un testo meramente compilativo che, non avendo carattere negoziale, non può avere alcun effetto né abrogativo, né sostitutivo delle clausole vigenti, le quali prevalgono in caso di discordanza.
La riproduzione dei testi forniti nel formato elettronico è consentita purché ne venga menzionata la fonte ed il carattere gratuito. La raccolta è il frutto di una selezione redazionale. L’Aran non è responsabile di eventuali errori o imprecisioni, nonché di danni conseguenti ad azioni o determinazioni assunte in base alla consultazione della stessa.
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Nota: navigando all’interno del documento PDF, per tornare alla vista precedente utilizzare i tasti ALT + tasto direzionale sx (ARAN, settembre 2012).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 29.10.2012, "Direttive per la costituzione e il riconoscimento dei consorzi forestali, ai sensi dell’art. 56, comma 7, della l. r. 31/2008 - Contestuale revoca delle deliberazioni n. 20554/2005 e n. 3621/2006" (delibera G.R. 25.10.2012 n. 4217).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 43 del 26.10.2012, "Sostituzione della firma elettronica alla firma manuale del certificatore energetico nell’attestato di certificazione energetica, di cui alla d.g.r. 8745 del 22.12.2008" (decreto D.U.O. 23.10.2012 n. 9433).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: M. Acquasaliente, L’autorizzazione paesaggistica può essere rilasciata se l'intervento contrasta con la disciplina urbanistico-edilizia? (link a http://venetoius.myblog.it).

EDILIZIA PRIVATA: S. Fifi, TASSATIVITÀ DELLE CAUSE ESTINTIVE DEI REATI VERSO I VINCOLI PAESAGGISTICI (Gazzetta Amministrativa n. 3/2012).

LAVORI PUBBLICI: G. Napolitano, IL CONTRATTO DI DISPONIBILITÀ: UN NUOVO MODELLO CONTRATTUALE PER RILANCIARE IL PARTENARIATO PUBBLICO-PRIVATO (Gazzetta Amministrativa n. 2/2012).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: T. Ajello, ABUSO DEL DIRITTO ED ECCESSO DI POTERE (Gazzetta Amministrativa n. 2/2012).

INCARICHI PROGETTUALI: M. De Cilla, INADEMPIMENTO DEL PROGETTISTA - DIRETTORE DEI LAVORI: QUALE GIURISDIZIONE? (Gazzetta Amministrativa n. 2/2012).

APPALTI: M. Dell'Unto, L’AVVALIMENTO NELLE PROCEDURE DI GARA (Gazzetta Amministrativa n. 2/2012).

APPALTI: E. Grattacaso, L'ISTITUTO DEL RECESSO NEI RAGGRUPPAMENTI TEMPORANEI DI IMPRESE (Gazzetta Amministrativa n. 2/2012).

APPALTI: M. De Cilla, IL CORRISPETTIVO DEL CONTRATTO A CORPO NELL'EVOLUZIONE NORMATIVA E GIURISPRUDENZIALE (Gazzetta Amministrativa n. 2/2012).

APPALTI: S. Napolitano, LA RIPARTIZIONE DELLA QUOTA DI PARTECIPAZIONE E DI ESECUZIONE NELL’AMBITO DELLE ATI: LA DIFFICILE CONVIVENZA TRA I PRINCIPI DELL’AUTONOMIA NEGOZIALE E GLI INTERESSI PUBBLICI COINVOLTI (Gazzetta Amministrativa n. 2/2012).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: A. C. Bartoccioni, DISCREZIONALITÀ TECNICA ED AMMINISTRATIVA IN TEMA DI VALUTAZIONI D’IMPATTO AMBIENTALE (Gazzetta Amministrativa n. 2/2012).

EDILIZIA PRIVATA: F. Pagniello, BREVI CENNI SULL’INFLUENZA DEL FATTORE TEMPO SULL’ILLECITO URBANISTICO NEL DIRITTO PENALE E AMMINISTRATIVO (Gazzetta Amministrativa n. 2/2012 - link a www.gazzettaamministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: I. Di Toro, CONFERIMENTO DEL PATROCINIO LEGALE PER LA DIFESA DEGLI ENTI LOCALI: IL CONSIGLIO DI STATO AMMETTE L’AFFIDAMENTO DIRETTO (Gazzetta Amministrativa n. 2/2012).

APPALTI: A. Cordasco e E. Gai, LA DISCIPLINA DEL DIRITTO DI ACCESSO NELL’AMBITO DELLE GARE DI APPALTI PUBBLICI (Gazzetta Amministrativa n. 2/2012).

QUESITI & PARERI

APPALTI: Obbligo di solidarietà della stazione appaltante.
Domanda
La stazione appaltante ha l'obbligo di solidarietà con l'appaltatore per quanto riguarda le inadempienze contributive?
Risposta
Il recente D.P.R. 05-10-2010, n. 207 all'art. 4 ha prescritto che, in caso di ottenimento da parte del Responsabile del procedimento del Documento Unico di Regolarità Contributiva che segnali un'inadempienza contributiva relativa ad uno o più soggetti impiegati nell'esecuzione del contratto, il medesimo trattenga dal certificato il pagamento dell'importo corrispondente all'inadempienza (24.10.2012 - tratto da www.ipsoa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASaranno previste deroghe al regime delle terre e rocce da scavo per i cantieri di piccole dimensioni? (22.10.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAChi è obbligato all’iscrizione all’Albo Gestori Ambientali? (22.10.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIACome sono classificati i rifiuti costituiti da mozziconi di sigaretta e gomme da masticare? (22.10.2012 - link a www.ambientelegale.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALILe multe non sono un bancomat. I proventi non possono essere utilizzati per spese personali. Corte conti condanna il comandante dei vigili, il sindaco e gli amministratori di un ente calabrese.
Gli amministratori che utilizzano la cassa della polizia municipale per effettuare spese di qualsiasi tipo senza alcun controllo rispondono personalmente per danno erariale assieme al comandante dei vigili urbani. E non importa se parte dei proventi è stato impiegato per reali finalità istituzionali.
Il maneggio di denaro pubblico attrae infatti irrimediabilmente tutti i soggetti coinvolti in una necessaria responsabilità contabile.

Lo ha messo nero su bianco la Corte dei Conti, Sez. I giurisdizionale centrale, con la sentenza 14.09.2012 n. 482.
Sindaci e assessori di un piccolo comune calabrese hanno trovato un rimedio molto semplificato alla cronica mancanza di fondi. Per qualche anno una consistente parte delle somme riscosse dal comando della polizia municipale (per multe stradali, Tosap e violazioni edilizie) è stato materialmente prelevato dagli amministratori senza alcuna registrazione contabile, per l'effettuazione di cene, elargizioni e non meglio precisate attività.
Il meccanismo era molto semplice. I richiedenti si presentavano alla cassa dei vigili firmando degli ingegnosi «buoni di anticipazione» e prelevando il denaro necessario ad effettuare missioni, spettacoli, viaggi e cene. Agli atti dell'indagine dei giudici contabili risultano però anche richieste di anticipazioni per acquisti di libri, materiale elettrico, riparazioni e acquisto di segnaletica stradale. Ma anche addobbi natalizi, alberi di natale e missioni speciali a Roma. Il tutto, specifica la sentenza, «è avvenuto mediante diretto e personale maneggio di denaro pubblico da parte dei veri soggetti coinvolti, così realizzandosi, ad ogni effetto giuridico, una gestione contabile del tutto estranea e parallela rispetto a quella istituzionale del bilancio comunale e del tesoriere».
In buona sostanza gli ingegnosi amministratori locali hanno utilizzato per alcuni anni la cassa comunale dei vigili urbani come un cassetto privato dove ogni soggetto poteva procedere ad effettuare prelievi con semplice annotazione. A parte il parallelo procedimento penale i giudici contabili hanno riconosciuto in primo grado la responsabilità dei soggetti coinvolti ripartendo la responsabilità amministrativa tra il comandante dei vigili (50% di responsabilità), il sindaco (25%) e gli altri amministratori. In pratica tutti i convenuti hanno proposto appello ma senza successo. Tutti i soggetti a parere del collegio sono responsabili per avere materialmente maneggiato denaro pubblico senza alcuna contabilizzazione formale dello stesso con le modalità previste dall'ordinamento.
La figura dell'agente contabile di fatto, prosegue la sentenza, comprende infatti anche persone estranee alla pubblica amministrazione ovvero può riguardare qualsiasi soggetto che in qualche modo entra in contatto con la gestione delle risorse pubbliche. È in pratica il mero maneggio di denaro pubblico che attrae qualsiasi persona nell'alveo di controllo della corte dei conti. L'agente contabile, anche se di fatto, deve conseguentemente provare l'uso legittimo dei valori ricevuti in carico, proseguono i giudici contabili.
Nel caso esaminato dal collegio gli amministratori ed i funzionari del comune calabrese si sono «reiteratamente e per lungo periodo ingeriti in personale maneggio di denaro pubblico, riscosso a vario titolo ma non versato nella tesoreria comunale né transitante in bilancio. Per cui si è di fronte a responsabilità contabile con conseguente obbligo della restituzione delle somme da ciascuno prese in carico e delle quali ha avuto materiale disponibilità».
In buona sostanza l'utilizzo disinvolto di risorse pubbliche senza alcuna rendicontazione formale è sicuramente fuorilegge. Ma non si tratta di una semplice irregolarità formale. La condotta degli appellanti, conclude la sentenza «è stata improntata alla piena consapevolezza di agire nella integrale inosservanza delle regole contabili minimali, con l'ideazione di un autonomo ed originale sistema» di rendicontazione (articolo ItaliaOggi del 26.10.2012 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: Circa la possibilità di erogare contributi in denaro alle Pro Loco ed Associazioni culturali/sportive per il sostegno alle iniziative di carattere sociale-culturale-sportivo, per l'anno 2012.
...
Con la richiamata nota il Sindaco del Comune di Campli (TE), sottopone al parere di questa Sezione un quesito circa la possibilità “di erogare contributi in denaro alle Pro Loco ed Associazioni culturali/sportive per il sostegno alle iniziative di carattere sociale-culturale-sportivo, per l’anno 2012”.
Chiede altresì di conoscere “se il patrocinio di sagre, feste patronali o iniziative organizzate in collaborazione con associazioni culturali-sportivo-ricreative del territorio, che comportino unicamente contributi indiretti, rientrino nella limitazione prevista dalle attuali normative, oppure per sponsorizzazione si deve invece intendere uno specifico contratto sottoscritto tra le parti”.
...
Nel merito occorre tener anzitutto presente che il comma 8, art. 6, del D.L. n. 78, convertito nella legge n. 122/2010, prevede che la spesa annua per mostre, pubblicità e rappresentanza non può essere superiore al 20% di quella sostenuta nell’anno 2009 per le medesime finalità.
Con il suddetto comma, il Legislatore ha previsto una generale limitazione della spesa per relazioni pubbliche, mostre, convegni, pubblicità e rappresentanza stabilendo, da un lato che gli impegni non potranno superare il 20% di quanto destinato a queste finalità nel 2009 e precisando dall’altro che la norma si applica a tutte le amministrazioni che rientrano nel conto consolidato delle amministrazioni pubbliche predisposto dall’ISTAT, ai sensi dell’art. 1, comma 3, della legge 31/12/2009 n. 196.
Il successivo comma 9 dell’art. 6 del D.L. 78, prevede che a partire dal 2011, le citate amministrazioni pubbliche, incluse le autorità indipendenti, non possono effettuare spese per sponsorizzazioni.
Da quanto sopra risulta evidente che
il legislatore, nell'ambito di un progressivo processo di contenimento della spesa pubblica, ha ritenuto che “le spese per sponsorizzazioni” dovessero essere limitate da parte di tutte le amministrazioni pubbliche, lasciando però a Regioni, Province e Comuni la facoltà di provvedere, in concreto, a disciplinare questa riduzione nel più generale ambito della loro organizzazione finanziaria.
Quale naturale svolgimento di detta situazione, considerata la progressiva diminuzione delle risorse finanziarie disponibili e la necessità del rispetto dei vincoli finanziari derivanti dal Patto di Stabilità, la linea tendenziale di diminuzione della spesa in misura significativa rispetto alle spese effettuate negli anni precedenti è oggi sfociata proprio nel divieto di effettuare spese per sponsorizzazioni.
Occorre però precisare che la disposizione citata utilizza il termine “sponsorizzazioni” in senso atecnico, risultando chiaro dal contesto normativo che
è vietata qualsiasi forma di contribuzione intesa a valorizzare il nome o caratteristica del Comune ovvero eventi di interesse per la collettività locale.
Non rientra invece nella nozione di “sponsorizzazione” la spesa sostenuta dall’ente al fine di erogare o ampliare un servizio pubblico, costituendo in tal caso il contributo erogato a terzi una modalità di svolgimento del servizio.
Occorre, a questo punto, precisare meglio l’effettiva portata del concetto di sponsorizzazione.
Come ha messo in luce la Sezione Regionale di Controllo per la Lombardia (parere n. 1075/2010),
ciò che assume rilievo per qualificare una contribuzione comunale quale spesa di sponsorizzazione, è la relativa funzione: essa presuppone la finalità di segnalare ai cittadini la presenza del Comune, così da promuoverne l’immagine.
Non si configura, invece, quale sponsorizzazione il sostegno di iniziative di un soggetto terzo, rientranti nei compiti del Comune, nell’interesse della collettività anche sulla scorta dei principi di sussidiarietà orizzontale ex art. 118 della Costituzione.

In sintesi, tra le molteplici forme di sostegno di soggetti terzi in ambito locale,
l’elemento che connota, nell’ordinamento giuscontabile, la contribuzione tuttora ammessa, (distinguendola dalle spese di sponsorizzazioni ormai vietate) è lo svolgimento, da parte del privato, di un’attività propria del Comune in forma sussidiaria.
L’attività, perciò, deve rientrare nelle competenze dell’Ente locale e viene esercitata, in via mediata, da soggetti privati destinatari di risorse pubbliche piuttosto che direttamente da parte di Comuni e Provincie, rappresentando una modalità alternativa di erogazione del servizio pubblico e non una forma di promozione dell’immagine dell’Amministrazione.
Ad esser vietate sarebbero dunque le spese, da parte delle Amministrazioni pubbliche, relative ad iniziative di soggetti terzi (esempio sponsorizzazione di una squadra di calcio) mentre resterebbero ancora consentite le spese per iniziative organizzate dalle Amministrazioni pubbliche, sia informa diretta che indiretta, purché per il tramite di soggetti istituzionalmente preposti allo svolgimento di attività di valorizzazione del territorio.
Nelle determinazioni che in tal caso gli enti dovranno assumere dovrà, perciò, risultare, nell’impianto motivazionale, il fine pubblico perseguito e la rispondenza delle modalità in concreto adottate al raggiungimento della finalità sociale (delibera n. 1075/2010 Sezione Regionale Lombardia) (Corte dei Conti, Sez. controllo Abruzzo, parere 10.09.2012 n. 346).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Riduzione spese per formazione.
La Corte dei Conti, sezione regionale Friuli-Venezia Giulia, con parere 27.07.2012 n. 106, risponde al Comune di Trieste che chiede chiarimenti sull'interpretazione dell'art. 6, comma 13, del d.l. 78/2010, convertito in legge n. 122/2010, che impone la riduzione delle spese per attività esclusivamente di formazione in misura non superiore al 50% di quella sostenuta nel 2009.
In particolare, se sia possibile ritenere escluse dal citato limite le spese per attività di formazione obbligatoria in materia di sicurezza sul lavoro (d.lgs. 81/2008), di sicurezza alimentare (d.lgs. 193/2007), di trattamento dei dati personali (d.lgs. 196/2003) (tratto da www.publika.it).

NEWS

PUBBLICO IMPIEGOCONSIGLIO DEI MINISTRI/ Un decreto legge dà attuazione alla sentenza della Consulta. Dipendenti pubblici, Tfr al 100%. Stop al prelievo forzoso del 2,50% sull'80% delle somme.
Ripristinato il trattamento di fine servizio dei dipendenti pubblici. Il Consiglio dei ministri ha approvato ieri un decreto legge che, in attuazione della recente sentenza della Corte costituzionale n. 223 del 2012, ripristina la disciplina del trattamento di fine servizio nei riguardi del personale interessato dalla pronuncia.
Per quanto riguarda le altre parti della sentenza della Consulta, il Consiglio ha stabilito che si procederà in via amministrativa attraverso un dpcm ai sensi della legislazione vigente.
La Consulta, con la pronuncia citata, ha azzerato gli effetti della legge 122/2010 intervenendo su due punti.
In primo luogo ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il prelievo del 2,5% sull'80% della retribuzione fissato dall'articolo 12, comma 10, nella parte in cui non era stata esclusa l'applicazione a carico del dipendente della rivalsa pari al 2,5% della base contributiva. Una disposizione che aveva, in sostanza, modificato i rapporti tra datore di lavoro e lavoratore, scaricando su di questo oneri tipici del primo.
Sul piano finanziario, l'annullamento della norma dichiarata costituzionalmente illegittima vale circa 3,8 miliardi di euro, che dovranno essere restituiti al personale pubblico, a carico delle casse dell'Inpdap.
Il decreto legge si è reso necessario sia per attuare le indicazioni della Consulta, sia, soprattutto per uniformare i comportamenti delle amministrazioni, che si sono trovate disorientate su come operare e sono fin qui andate in ordine sparso, anche perché i singoli dipendenti stanno richiedendo ciascuno la restituzione delle trattenute.
Il Consiglio dei ministri, col decreto legge, agisce sull'articolo 9, comma 10, della legge 122/2010, dichiarato costituzionalmente illegittimo, allo scopo di cancellarlo definitivamente.
La sentenza 223/2012 della Corte costituzionale ha inoltre dichiarato l'illegittimità costituzionale del «contributo di solidarietà» posto a carico dei dirigenti pubblici e del blocco degli incrementi stipendiali dei magistrati.
L'articolo 9, comma 2, della legge 122/2012, dichiarato incostituzionale, aveva posto a carico degli stipendi dei dirigenti pubblici un prelievo del 5% sui redditi superiori ai 90 mila euro; prelievo che andava al 10% per i redditi superiori ai 150 mila euro.
Per quanto riguarda i magistrati, a saltare è il blocco dell'avanzamento stipendiale automatico, blocco considerato incompatibile con l'indipendenza della magistratura.
Per questo secondo aspetto, non parrebbe necessario un intervento di natura normativa. In effetti, la sentenza della Corte costituzionale produce automaticamente l'effetto di ripristinare lo stato antecedente alla norma dichiarata illegittima. Infatti, le sentenze che dichiarano l'illegittimità costituzionale delle norme hanno efficacia retroattiva, in modo da eliminare dall'ordinamento giuridico sin dall'inizio una norma contrastante con l'ordinamento stesso.
Il Consiglio dei ministri come detto ha comunque deciso di dare corso all'attuazione delle ricadute della pronuncia della Consulta per via amministrativa, mediante un decreto del presidente del Consiglio dei ministri.
Anche in questo caso lo scopo è fornire alle amministrazioni un sistema univoco per fare fronte alle richieste di restituzione degli arretrati, che intanto i singoli dipendenti stanno muovendo alle amministrazioni (articolo ItaliaOggi del 27.10.2012).

PUBBLICO IMPIEGOLa Polizia anticipa i tempi, trattenuta addio.
Già nel prossimo stipendio di novembre, il personale della Polizia di stato non troverà più la trattenuta del 2,5% sull'80% della retribuzione, oggetto della dichiarata illegittimità da parte della Corte costituzionale con la recente sentenza n. 223/2012. Sul versante opposto, però, si registra il grido d'allarme lanciato dall'Associazione nazionale dei comuni italiani sugli effetti di tale pronuncia, in quanto potrebbe avere effetti devastanti sui bilanci dei comuni che rischierebbero seriamente il dissesto finanziario. Preoccupazioni che hanno portato il presidente Anci, Graziano Delrio, a inviare una lettera al ministro dell'economia, Vittorio Grilli, chiedendo un parere in merito alle determinazioni da assumere.
Gli effetti della citata decisione della Consulta (si veda ItaliaOggi del 12 e 16.10.2012), come si vede, stanno lasciando lo spazio a non pochi strascichi. Ma andiamo con ordine.
La prima amministrazione centrale che si adegua alla decisione della Consulta è senza dubbio il Dipartimento della sicurezza del ministero dell'interno che, con la circolare 24.10.2012 n. 333 di prot., ha informato il personale amministrato che sul trattamento stipendiale di novembre non sarà più operata la trattenuta dichiarata illegittima dalla Consulta, oltre a non effettuare più le decurtazioni della trattenuta nella misura del 5 o 10%, sui trattamenti economici complessivi superiori, rispettivamente, a 90 mila e 150 mila euro (anche queste oggetto della bocciatura della Consulta nella stessa sentenza).
Quindi, oltre a rendere più «pesante» la paga del personale della Polizia di stato dal prossimo mese, il Viminale rassicura anche sulla corresponsione delle illegittime trattenute sino ad oggi operate. Infatti, si legge nella circolare, non appena perverranno le assegnazioni finanziarie e le relative istruzioni da parte del Mineconomia, sarà cura del dicastero retto da Annamaria Cancellieri provvedere alla restituzione degli importi per il periodo gennaio 2011-ottobre 2012.
Ma è proprio sotto il profilo della restituzione che si registra la preoccupazione dei vertici Anci. Una lettera inviata nei giorni scorsi dal presidente dell'Associazione dei comuni, Graziano Delrio, al titolare di via XX Settembre, Vittorio Grilli, evidenzia il fatto che sia indiscutibile che «gli effetti di tale pronuncia hanno un impatto fortissimo sui bilanci dei comuni».
Delrio quantifica in 200 milioni di euro l'esborso complessivo cui saranno chiamate le amministrazioni comunali nei confronti dei propri dipendenti. Una somma considerevole, si legge, che rischia di portare al dissesto i piccoli comuni e la cui restituzione, a ben vedere, «si scontra con i limiti oggi vigenti in materia di spese di personale e con quelli relativi al Patto di stabilità». La lettera, pertanto, si conclude con l'espresso invito a «volersi esprimere in merito alle conseguenti determinazioni da assumere, data la rilevanza della situazione e i profili di responsabilità ad essa connessi» (articolo ItaliaOggi del 27.10.2012).

PUBBLICO IMPIEGOLiquidazione statali, ritorno al passato Il Governo si allinea alla Consulta e rispolvera il Tfs - Gli arretrati arriveranno con un Dpcm.
CONTRIBUTO DI SOLIDARIETÀ/ Restituzione anche per la «tassa» sulle retribuzioni superiori a 90mila euro, pure dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale.

Per le liquidazioni dei dipendenti pubblici il Governo torna all'antico e rispolvera il «trattamento di fine servizio». È quanto prevede il decreto legge approvato ieri a Palazzo Chigi per dare piena attuazione alla sentenza della Corte Costituzionale (n. 223/2012) che ha dichiarato incostituzionale sia il prelievo contributivo del 2,5% sul Tfr dei dipendenti pubblici, sia il contributo di solidarietà del 5 e del 10% sulla parte di retribuzione che eccede, rispettivamente, i 90 e i 150mila euro lordi annui.
A introdurre le misure che la Consulta ha bocciato era stato il decreto 78 del 2010 quando a Palazzo Chigi c'era Silvio Berlusconi e a via Venti settembre Giulio Tremonti. Ma il compito di correre ai ripari è toccato al Governo Monti. Per gestire gli effetti della sentenza, il Consiglio dei ministri di ieri ha deciso di imboccare due strade distinte. Per l'abolizione della trattenuta del 2,5% sulle liquidazioni è stato utilizzato il decreto legge. Per la ripresa delle trattenute e le restituzioni delle somme indebitamente prelevate ai dipendenti si procederà in via amministrativa con un decreto del presidente del Consiglio (Dpcm). E questo facendo leva sulla legislazione vigente, applicando una sorta di clausola di salvaguardia secondo cui, se in determinate circostanze dovessero venire meno le entrate della manovra (da leggere anche con possibile pronunce giurisdizionali), il Governo può procedere con un taglio lineare sulle spese delle pubbliche amministrazioni. Al Dpcm sarà demandata anche la definizione delle modalità operative di erogazione dei rimborsi dovuti.
La partita più delicata resta comunque quella relative alle liquidazioni dei dipendenti pubblici. Il decreto legge di un solo articolo, inviato al Capo dello Stato, prevede che l'articolo 12, comma 10, del Dl anticrisi del 2010 venga abrogato a decorrere dal 01.01.2011. Per salvaguardare la tenuta dei conti pubblici, lo stesso testo prevede il ritorno al trattamento di fine servizio (Tfs) che –in virtù della quota trattenuta direttamente sul dipendente– per il datore di lavoro (pubbliche amministrazioni centrali e locali) è meno oneroso rispetto al trattamento di fine rapporto.
Sempre secondo il decreto legge approvato ieri gli oneri che dovrà sostenere lo Stato per la riliquidazione dei "Tfs" ammontano a 21 milioni complessivi per il 2012 (1 milione), 2103 (7 milioni) e 2014 (13 milioni), e in 20 milioni a decorrere dal 2015.
Per le riliquidazioni dei trattamenti di fine servizio il Governo si dà ora un anno di tempo. Infatti viene previsto che i Tfs «comunque denominati», che sono stati liquidati prima dell'entrata in vigore del nuovo Dl secondo quando prevedeva il decreto 78, saranno riliquidati d'ufficio entro un anno dall'entrata in vigore del decreto legge approvato ieri. Si applicheranno cioè le regole in vigore prima della stretta sugli statali introdotta dal Governo Berlusconi. E, comunque sia, la rideterminazione delle liquidazioni spettanti non potrà dare luogo ad alcun recupero delle somme erogate in precedenza nei confronti del dipendente.
Per quanto riguarda, infine, le cause pendenti avviate dai dipendenti pubblici per ottenere la restituzione del contributo previdenziale obbligatorio del 2,5%, il provvedimento messo a punto dall'Esecutivo ne dispone l'estinzione di diritto. Un'estinzione che potrà essere dichiarata anche d'ufficio. Al tempo stesso vengono sterilizzati del tutto gli effetti di eventuali sentenze già emesse, fatta eccezione per quelle nel frattempo passate in giudicato (articolo Il Sole 24 Ore del 27.10.2012 - link a www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGOPer i dipendenti la busta paga sale di oltre 300 euro.
IL PASSO SUCCESSIVO/ Per la restituzione del maxi-arretrato del 2011 e 2012 si dovrà aspettare il Dpcm annunciato sempre ieri dal Governo.

Il decreto legge lampo varato ieri dal Governo comincia a fare ordine nel polverone degli stipendi pubblici sollevato dalla bocciatura inferta dalla Consulta ai pilastri dell'austerità in busta paga innalzati dalla manovra estiva del 2010. Il trattamento economico, in sostanza, dovrebbe tornare in formula piena a partire dal prossimo mese, senza più la trattenuta del 2,5% relativa al Tfr dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale.
Questo primo tassello risolve soprattutto i problemi ai responsabili degli uffici paghe, disorientati dopo che la sentenza costituzionale aveva tolto base normativa alla trattenuta: per disciplinare il nodo vero, cioè quello relativo alla restituzione del maxi-arretrato accumulato con le trattenute del 2011 e 2012, bisognerà aspettare il Dpcm annunciato sempre ieri dal Governo per affrontare «le altre parti della sentenza della Consulta».
L'intervento riporta dunque gli stipendi dei dipendenti pubblici ai livelli pre-trattenuta. Le somme recuperate sono a conti fatti più interessanti di un rinnovo contrattuale: per un impiegato di un ente locale si tratta di 307 euro netti all'anno, mentre per un dirigente si arriva a mille euro. Il beneficio è naturalmente proporzionale ai livelli stipendiali dell'interessato, e di conseguenza cresce nell'amministrazione centrale dove gli stipendi sono un po' più alti: un funzionario si attende il ritorno di quasi 340 euro all'anno se lavora nei ministeri e di quasi 370 se il suo ufficio è in un ente pubblico non economico (Inps, Aci e così via), per un dirigente di seconda fascia la partita vale circa 690 euro all'anno mentre chi occupa i vertici della scala gerarchica può contare su quasi 1.050 euro in più.
L'arretrato da restituire, invece, ammonta a due volte abbondanti le cifre annue appena citate; questo perché nel 2011 il Tfr era soggetto a tassazione separata, più leggera di quella ordinaria, e di conseguenza la somma relativa al 2011 di cui gli interessati attendono il ritorno è più alta del «netto in busta» del 2012. La partita degli arretrati, però, mette a dura prova i bilanci degli enti pubblici, e in particolare quelli dei piccoli Comuni dove la partita può mandare in crisi i conti. Giovedì lo stesso presidente dell'Anci Graziano Delrio ha parlato espressamente di «rischio dissesto» nei Comuni più piccoli, chiedendo al Governo di studiare modalità applicative in grado di garantire i diritti dei dipendenti interessati senza mettere a rischio gli equilibri dei conti. Un rompicapo, ma non è l'unico.
Le «altre parti della sentenza» citate dal comunicato stampa del Governo riguardano anche la restituzione del contributo di solidarietà che ha tagliato del 5% le quote di stipendio superiore a 90mila euro e del 10% quelle sopra i 150mila. La platea interessata è in questo caso molto più piccola, composta dalle 26mila persone (divise a metà fra Stato ed enti territoriali). Il problema, però, non è la copertura finanziaria (29 milioni di euro all'anno): la trattenuta riduceva il reddito degli interessati, per cui la sua restituzione impone di ricostruire il vecchio imponibile Irpef e chiedere le quote d'imposta che non sono state pagate a causa della tagliola. Una ricostruzione della storia fiscale recente da attuare caso per caso, senza dimenticare gli effetti sulle addizionali regionali e locali (articolo ItaliaOggi del 27.10.2012 - link a www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOI comuni devono convenzionarsi col Mef per pagare gli stipendi.
Anche i comuni sono soggetti all'obbligo di convenzionarsi con il Mef per la gestione degli stipendi ovvero, in alternativa, di utilizzare i parametri di qualità e di prezzo da esso stabiliti per l'acquisizione dei medesimi servizi sul mercato di riferimento.
Con la nota 12.10.2012, infatti, Via XX Settembre, rispondendo a una richiesta dell'Anci, ha confermato che l'art. 5, comma 10, del dl 95/2012 si applica anche agli enti locali. La formulazione della norma, in effetti, non è chiarissima: essa rinvia ad altre precedenti disposizioni (art. 1, comma 447, della legge 296/2006 e art. 2, comma 197, della legge 191/2009) che riguardavano le sole amministrazioni statali.
Il Mef, tuttavia, ha ritenuto che «sotto il profilo soggettivo, i comuni sono sottoposti alla disciplina in quanto inclusi tra le pubbliche amministrazioni (art. 1, comma 2, del dlgs 165/2001), diverse da quelle statali già obbligate dalla previgente normativa». La nota ha anche chiarito che lo schema di convenzione per ora reso disponibile costituisce «uno standard, da adattare e utilizzare in relazione alle specificità e caratteristiche delle singole amministrazioni».
Come evidenziato da ItaliaOggi del 7 settembre, in effetti, tale convenzione non include alcune tipologie di servizi normalmente gestiti in forma integrata con quelli prettamente riferiti agli stipendi. Si tratta, in primo luogo, delle attività svolte tipicamente dagli uffici del personale degli enti, o, presso quelli più piccoli, da esperti/service esterni come, per esempio, l'immissione di giustificativi di assenza, l'aggiornamento degli anagrafici o le comunicazioni ai centri per l'impiego. Rimangono fuori, inoltre, le attività relative ad alcune tipologie di reddito quali quelli assimilati, autonomi e diversi (dipendenti altra p.a., amministratori locali, collaboratori coordinati e continuativi, Lsu, cantieri di lavoro, borse di lavoro, borse di studio, forestali, professionisti, indennità di esproprio, contributi ad enti e associazioni ecc.).
Un problema ulteriore nasce dal fatto che, nella maggior parte dei casi, gli enti hanno acquistato sul mercato un «pacchetto» onnicomprensivo, il che rende non sempre agevole il confronto di convenienza con i servizi offerti dal Mef. Tali fattori inizialmente avevano disorientato molti enti, spingendo l'Anci a richiedere una revisione della normativa. Anche le difficoltà tecniche legate all'esigenza di far dialogare le procedure gestionali in essere con quelle in uso presso il Mef non sembrerebbero insuperabili.
Criticità maggiori sembrano porsi per i piccoli comuni, anche a causa dell'obbligo imposto dalla convezione del Mef di nominare un referente tecnico-informatico e di un referente tecnico amministrativo. Gli enti di minori dimensioni, infatti, sono sprovvisti di simili figure, in quanto si avvalgono perlopiù di consulenti esterni, né potrebbero agevolmente procurarsele, visti i limiti al turnover (articolo ItaliaOggi del 26.10.2012 - link a www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIUna valanga di controlli si abbatte sugli enti locali.
Una valanga di controlli si abbatte sugli enti locali in seguito all'entrata in vigore del decreto-legge 174 del 10 ottobre.
Con riferimento ai comuni e alle province vengono introdotte numerose e sostanziali modifiche alle disposizioni vigenti in materia contenute nel testo unico 267/2000 estendendo la gamma dei controlli interni alle seguenti forme: controllo di regolarità amministrativa e contabile, controllo degli equilibri finanziari della gestione e dell'osservanza del patto di stabilità interno, controllo di gestione, controllo strategico e, negli enti con popolazione superiore a 10 mila abitanti, controllo dello stato di attuazione di indirizzi e degli obiettivi da parte degli organismi gestionali esterni, controllo della qualità dei servizi erogati e controllo sulle società partecipate. A tali controlli occorre poi aggiungere quelli esercitati dai servizi finanziari e dagli organi di revisione degli enti locali. Non tutte le indicate forme di controllo sono nuove nell'ordinamento degli enti locali.
Il decreto-legge 174, inoltre, potenzia i controlli esterni sugli enti locali e, in primo luogo, quelli della Corte dei conti. La verifica semestrale da parte delle sezioni regionali della Corte riguarderà: la legittimità e la regolarità delle gestioni, il funzionamento dei controlli interni, il rispetto delle regole contabili e del pareggio di bilancio, il piano esecutivo di gestione, i regolamenti e gli atti di programmazione e pianificazione. Un area vasta che si estende anche a documenti privi di efficacia esterna e di grande rilevanza interna come il Peg che è un budget operativo della gestione.
Per l'esercizio di tale forma di controllo, il sindaco dei comuni con più di 10 mila abitanti è tenuto a trasmettere ogni sei mesi alla Corte un referto sulla regolarità della gestione e sull'efficacia e adeguatezza del sistema dei controlli interni adottato. Addirittura il referto non è libero, ma va compilato secondo linee-guida deliberate dalla Corte medesima. Per gli stessi fini, la Corte potrà disporre, oltre a tale informativa, di altri strumenti e in particolare degli accertamenti e delle verifiche del Corpo della Guardia di finanza che potrà agire con gli stessi poteri ad esso attribuiti ai fini degli accertamenti relativi all'Iva e alle imposte sui redditi.
Sono inoltre previste verifiche da parte dei Servizi ispettivi di finanza pubblica del Mef che si aggiungono ai controlli del ministero della funzione pubblica. La norma è accompagnata da una sanzione che va da cinque a venti volte la retribuzione mensile. È questa una novità che conferma il carattere centralista della riforma (articolo ItaliaOggi del 26.10.2012 - link a www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Commissioni come consigli. Vanno rappresentate tutte le forze politiche. Il sindaco è ricompreso nel computo per la determinazione degli organi.
È possibile ricomprendere il sindaco nella compagine delle forze politiche presenti nel consiglio comunale ai fini della composizione delle commissioni consiliari, considerato che il consiglio è composto da due soli gruppi con lo stesso numero di consiglieri?

In base a quanto disposto dall'articolo 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000, le commissioni consiliari, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dall'apposito regolamento comunale con l'inderogabile limite, posto dal legislatore, relativo al rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio devono essere il più possibile rappresentate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il peso numerico e di voto.
Il legislatore non precisa come debba essere applicato tale criterio di proporzionalità. È da ritenersi che spetti al regolamento, cui sono demandate la determinazione dei poteri delle commissioni nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, stabilire i meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
In merito, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 44/1997, ha precisato che il sindaco «viene computato ad ogni fine tra i componenti del consiglio stesso», con diritto di voto, e pertanto va ricompreso nel computo per la determinazione dei rappresentanti consiliari nelle commissioni nel rispetto, ovviamente, del criterio proporzionale recato dal citato art. 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000 (articolo ItaliaOggi del 26.10.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Composizione commissioni.
Qual è la procedura da applicare per la sostituzione, nelle commissioni consiliari, di un consigliere uscito da un gruppo e transitato ad un altro?

In base a quanto disposto dall'articolo 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000, le commissioni consiliari, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dall'apposito regolamento comunale con l'inderogabile limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio devono essere il più possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il peso numerico e di voto.
Il legislatore non precisa come debba essere applicato tale criterio di proporzionalità. È da ritenersi che spetti al regolamento, cui sono demandate la determinazione dei poteri delle commissioni nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, stabilire i meccanismi idonei a garantirne il rispetto. Secondo l'univoco e consolidato indirizzo giurisprudenziale, il criterio proporzionale può dirsi rispettato ove sia assicurata, in ogni commissione, la presenza di ciascun gruppo presente in consiglio in modo che, se una lista è rappresentata da un solo consigliere, questi deve essere presente in tutte le commissioni costituite assicurando una composizione delle commissioni proporzionata all'entità di ciascun gruppo consiliare.
Nel caso di specie, se lo statuto, nel disciplinare le commissioni, stabilisce che queste debbano essere costituite con criterio proporzionale e il regolamento comunale fissa la determinazione numerica dei commissari, demanda ai gruppi consiliari la designazione dei consiglieri incaricati di far parte delle commissioni consiliari in rappresentanza dei singoli gruppi -in modo da garantire adeguata rappresentanza a ciascuno di essi- e stabilisce il diritto di ogni consigliere a far parte di almeno una commissione, ne consegue che gli eventuali mutamenti in corso di consiliatura nel rapporto tra maggioranza e minoranza consiliare, ovvero nella consistenza numerica dei gruppi, dovrebbero implicare una revisione, a cura del consiglio comunale, degli assetti preesistenti nelle commissioni consiliari, al fine di ripristinare il rispetto dei criteri a cui le stesse devono essere conformate.
In tale prospettiva, l'ipotesi del distacco di uno o più consiglieri dal gruppo di appartenenza originaria per aderire o formare altro gruppo, va inquadrata nell'ambito di un riequilibrio generale degli assetti presenti nelle commissioni, e non già di mera sostituzione degli stessi. Resta rimessa all'autonomia organizzativa dell'ente locale l'individuazione, anche mediante opportune integrazioni del regolamento comunale, del meccanismo tecnico -quale voto plurimo, voto ponderato o altro- reputato maggiormente idoneo ad assicurare a ciascun commissario un peso corrispondente a quello del gruppo che rappresenta.
Come rilevato dal Tar Lombardia nella sentenza n. 567/1996, infatti, il criterio proporzionale «è posto dal legislatore come direttiva suscettibile di svariate opzioni applicative, egualmente legittime purché coerenti con la ratio che quel principio sottende, e che consiste nell'assicurare in seno alle commissioni la maggiore rappresentatività possibile» (articolo ItaliaOggi del 26.10.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOEnti locali. Dopo lo stop della Consulta. I sindaci: «Dal Tfr rischi di dissesto»
L'ALLARME/ Il presidente dell'Anci chiede l'intervento di Grilli per chiarire come restituire le trattenute senza far saltare i conti.

La restituzione ai dipendenti pubblici delle trattenute del 2,5% per il trattamento di fine servizio dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale rischia di far saltare i conti dei Comuni, soprattutto quelli medio-piccoli. La partita, ha scritto ieri il presidente del l'Anci Graziano Delrio al ministro dell'Economia Vittorio Grilli, vale almeno 200 milioni di euro, e per evitare ai sindaci uno "sforamento obbligato" del Patto di stabilità e dei vincoli di spesa sul personale bisogna subito mettere mano a una soluzione. Anche perché, si legge nella lettera, «la rilevanza della situazione e i profili di responsabilità a essa connessi» non consentono ritardi, tanto più che nei piccoli Comuni l'obbligo di restituzione può addirittura «portare al dissesto».
Il problema è quello sollevato dalla sentenza 223/2012, con cui la Corte costituzionale ha bocciato «per evidenti ragioni di equità» una serie sacrifici imposti solo ai dipendenti pubblici e non a quelli privati. Tra le regole cadute sotto le forbici della Consulta, il «contributo di solidarietà» (taglio del 5% della quota di stipendio superiore ai 90mila euro annui e del 10% di quella superiore a 150mila euro) interessa soprattutto i vertici di Stato e Regioni, mentre la trattenuta del 2,5% per il Tfr si fa sentire parecchio anche dalla parte dei Comuni. A un impiegato di un ente locale, la cancellazione della trattenuta offre circa 24 euro netti al mese in più, e impone la restituzione di 670 euro prelevati fra 2011 e 2012: nel caso di un dirigente, gli euro al mese in più possono salire a 78 e gli arretrati netti a 2.238 (si veda Il Sole 24 Ore del 22 ottobre).
Gli amministratori locali naturalmente non contestano il merito della sentenza, ma lanciano l'allarme sulle conseguenze contabili dell'obbligo di restituzione. Oltre al rischio-dissesto dei piccoli enti, dove i bilanci sono più tirati, l'aumento di spesa impatta ovviamente anche sui limiti alle uscite per il personale e sui vincoli del Patto di stabilità.
Intanto, nonostante le obiezioni parlamentari (si vedano gli articoli in primo piano), si stringe la maglia dei controlli aggiuntivi introdotti dal Dl 174/2012. La sezione Autonomie della Corte dei conti ieri ha fissato il calendario e i primi indirizzi attuativi delle nuove norme: in particolare, sono state definite le modalità applicative sull'esame dei bilanci preventivi delle Regioni e sul controllo preventivo di regolarità degli atti regionali, mentre per i Comuni le verifiche puntano soprattutto sugli appuntamenti semestrali di controllo delle gestioni sulla base delle relazioni inviate dai sindaci (articolo Il Sole 24 Ore del 26.10.2012 - link a www.corteconti.it).

APPALTIResponsabilità negli appalti dopo il decreto sviluppo 83/2012.
Responsabilità in solido: così la difesa L'impresa può tutelarsi dall'obbligo che coinvolge versamenti fiscali, paghe, contributi e sicurezza.

Lo scenario normativo che disciplina gli appalti è in continua evoluzione ed è costituito da un puzzle di disposizioni di difficile raccordo tra loro: un groviglio di regole tra le quali i soggetti coinvolti sono costretti a districarsi, rischiando pesanti conseguenze in tema di responsabilità solidale e sotto il profilo sanzionatorio. La mancanza di un testo unitario che faccia da contenitore delle diverse norme intervenute in questo ambito ha spesso avuto come risultato l'aumento dei vincoli solidaristici della filiera dell'appalto, senza adeguati strumenti che possano manlevare –in maniera agevole– il responsabile in solido.
La finalità di questa Guida è proprio quella di mettere ordine nella recente evoluzione legislativa e di fornire a committenti e appaltatori gli spunti operativi per evitare il coinvolgimento nel regime di solidarietà, che si estende ormai a 360 gradi ai profili retributivi, contributivi, fiscali e di sicurezza sul lavoro: un'esigenza sempre più sentita dal momento che le aziende ricorrono con frequenza all'outsourcing di processi produttivi o di servizi, attraverso contratti di appalto.
Il fronte fiscale
Sono essenzialmente due i fronti interessati dalle recenti modifiche. Il primo, sugli aspetti fiscali, è quello che riguarda l'obbligazione in solido, in caso di appalto di opere o di servizi, che lega l'appaltatore e il subappaltatore, nei limiti dell'ammontare del corrispettivo dovuto, a versare le ritenute sui redditi di lavoro dipendente e l'Iva riferite alle prestazioni effettuate nell'ambito dell'appalto: dopo il vero e proprio vuoto legislativo che si era creato con la modifica al comma 28 dell'articolo 35 del Dl 223/2006 a opera del decreto sulle semplificazioni fiscali (Dl 16/2012), è intervenuto il primo decreto sullo sviluppo (Dl 83/2012). Infatti, la versione previgente del testo consentiva –attraverso una formulazione alquanto generica– l'esonero dal regime della solidarietà solo nel caso in cui l'appaltatore avesse dimostrato «di aver messo in atto tutte le cautele possibili per evitare l'inadempimento».
Il Dl 83/2012 ha in parte corretto questa criticità con l'indicazione di alcuni strumenti di verifica (attestazione/asseverazione) propedeutici al pagamento del corrispettivo, sebbene – all'atto pratico – presentino delle difficoltà di attuazione, con il rischio di inciampi nei pagamenti.
Il fronte del lavoro
La seconda modifica alla materia della responsabilità solidale (articolo 29 della legge Biagi) è invece avvenuta con il decreto sulle semplificazioni varato a inizio anno (Dl 5/2012), poi ridisegnato dalla riforma del lavoro (comma 31, articolo 4, della legge 92/2012). In primo luogo, il legislatore ha puntato a precisare che il vincolo della solidarietà sui profili retributivi (comprese le quote di Tfr), previdenziali e assicurativi si riferisce al periodo di esecuzione dell'appalto.
Sono state introdotte poi alcune esimenti dall'alveo della responsabilità, escludendo le sanzioni civili che possono essere ascritte al solo responsabile dell'adempimento e infine attenuando con qualche garanzia il previgente regime, secondo il quale il mero affidamento di un appalto comporta la responsabilità in capo al committente, sebbene non abbia commesso alcuna irregolarità. Queste tutele consistono nell'attribuzione ai Ccnl del compito di individuare procedure ad hoc di verifica della regolarità degli appalti, e nel coinvolgimento dei soggetti chiamati a rispondere per incapienza dei beni di chi esegue l'opera, in caso di contenzioso nella materia.
Secondo questa disposizione, il debitore solidale (committente imprenditore o datore di lavoro), chiamato a rispondere in sede giudiziale del pagamento con l'appaltatore e con gli eventuali subappaltatori, può proporre un'eccezione con la quale chiede che sia preventivamente escusso il patrimonio di questi ultimi.
In queste ipotesi, anche se il giudice accerta la responsabilità solidale, l'azione esecutiva può essere promossa nei confronti del committente solo dopo che l'esecuzione verso il patrimonio del responsabile ha dato esito infruttuoso. Inoltre, la norma conferma una procedura già esperibile nei casi di responsabilità solidale, che consiste nella possibilità da parte del committente, chiamato a rispondere al posto del responsabile, di richiedere la restituzione di quanto pagato attraverso l'azione di regresso.
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I risvolti fiscali.
Pagamenti vincolati alla regolarità. Salta il corrispettivo del subappaltatore che non dimostra di aver versato le imposte.
Il regime della responsabilità solidale tra committente, appaltatore ed eventuali subappaltatori per le ritenute Irpef e Iva relative ai contratti di appalto o di subappalto di opere, forniture e servizi è stato modificato dal decreto legge 83/2012 che ha sostituito il comma 28 dell'articolo 35 del Dl 223/2006.
Con le nuove disposizioni, in vigore dal 12 agosto scorso, viene meno la responsabilità in solido del committente con l'appaltatore e gli eventuali subappaltatori, legata al versamento all'erario delle ritenute fiscali sul lavoro dipendente dovute dall'appaltatore o dal subappaltatore in relazione all'appalto.
La responsabilità solidale per gli obblighi fiscali, è bene precisarlo, si applica nei contratti di appalto e di subappalto di opere, forniture e servizi conclusi da soggetti Iva e, in ogni caso, dai contribuenti Ires indicati dagli articoli 73 e 74 del Tuir (enti non commerciali), mentre da questo fronte sono escluse le stazioni appaltanti dei contratti pubblici (Dlgs 163/2006).
Questa responsabilità, che rimane circoscritta al solo rapporto tra appaltatore e subappaltatore, è limitata all'«ammontare del corrispettivo dovuto» e non ha più il limite temporale dei «due anni dalla cessazione dell'appalto», precedentemente fissato dal Dl 16/2012.
Nello specifico, le modifiche al comma 28 stabiliscono che i soggetti responsabili in solido dei versamenti sono l'appaltatore e il subappaltatore e prevedono che la responsabilità riguardi, oltre alle ritenute sul lavoro dipendente, l'Iva dovuta dal subappaltatore per le prestazioni effettuate nel rapporto di subappalto.
Il vincolo solidale in capo all'appaltatore viene meno se questi verifica, prima del pagamento del corrispettivo, che il subappaltatore ha correttamente adempiuto gli obblighi fiscali scaduti alla data del pagamento del compenso.
Anziché controllare materialmente i versamenti, l'appaltatore può richiedere al subappaltatore un'attestazione dell'avvenuto adempimento degli obblighi, anche tramite un'asseverazione rilasciata da un professionista abilitato o da un Caf Imprese. Nel frattempo, può sospendere il pagamento del corrispettivo fino all'esibizione della documentazione da parte del subappaltatore.
Il ruolo del committente
 Il committente è invece vincolato al solo controllo degli adempimenti fiscali: pertanto, deve richiedere all'appaltatore, sempre prima del pagamento del corrispettivo, l'esibizione della documentazione citata che attesta l'assolvimento degli obblighi fiscali sia da parte di quest'ultimo sia dagli eventuali subappaltatori, scaduti alla data del pagamento del compenso. Se l'appaltatore non produce i documenti che provano gli avvenuti versamenti, il committente può sospendere il pagamento di quanto dovuto per gli avvenuti lavori. Per effetto della nuova disciplina, il committente diventa destinatario di una sanzione amministrativa che va da un minimo di 5mila euro a un massimo di 200mila euro, che scatta qualora questi abbia provveduto al pagamento del corrispettivo all'appaltatore senza aver prima eseguito i necessari controlli sulla regolarità dei versamenti fiscali, che risultino poi irregolari.
I chiarimenti delle Entrate
Con la circolare 40/2012, l'agenzia delle Entrate ha fornito i chiarimenti sugli aspetti più critici delle nuove disposizioni, come la decorrenza dei relativi effetti e la certificazione idonea ad attestare la regolarità dei versamenti delle ritenute e dell'Iva.
La circolare specifica che le disposizioni relative alla verifica da parte del committente/appaltatore sull'esecuzione dei corretti obblighi fiscali trovano applicazione solo per i contratti di appalto/subappalto stipulati dal 12 agosto 2012 e per i pagamenti effettuati a partire dall'11 ottobre 2012.
Sulla documentazione che l'appaltatore/subappaltatore deve produrre per dimostrare la regolarità dei versamenti, la circolare afferma che, in alternativa alle asseverazioni rilasciate dai professionisti e dai Caf, è valida anche una dichiarazione sostitutiva (in base al Dpr 445/2000) con cui l'appaltatore/subappaltatore attesta l'avvenuto adempimento degli obblighi richiesti (si veda la pagina a fianco) (articolo Il Sole 24 Ore del 26.10.2012).

ENTI LOCALIP.a., ecco i costi da tagliare. Fuori dal paniere le indennità e i buoni pasto. Nota Rgs spiega cosa sono i consumi su cui si abbatterà la spending review.
Dentro le spese per missioni, le manutenzioni ordinarie degli immobili istituzionali, le consulenze legali, le spese per il servizio mensa e i costi sostenuti per mantenere in piedi il parco macchine. Fuori le spese per indennità e i compensi agli organi di amministrazione e controllo, le manutenzioni ordinarie sugli immobili messi a reddito e le manutenzioni straordinarie, le spese per la tutela legale dell'ente e quelle per i buoni pasto.
A fare chiarezza sulle voci che rientreranno nella categoria dei consumi intermedi su cui si abbatterà la scure della spending review è la circolare n. 31/2012 firmata ieri dal ragioniere generale dello stato Mario Canzio.
La nota, indirizzata alle amministrazioni centrali dello stato (palazzo Chigi e ministeri) e per conoscenza alla Corte dei conti, circoscrive il parametro di spesa preso in considerazione dal dl 95. I consumi intermedi, secondo quanto già chiarito dal Mef in una circolare del 2009 (n. 5), «rappresentano il valore dei beni e servizi consumati quali input di un processo di produzione, escluso il capitale fisso, il cui consumo è registrato come ammortamento». Che per i non esperti di economia significa che saranno considerati consumi intermedi «tutti i beni e servizi consumati o ulteriormente trasformati nel processo produttivo» della p.a.
Se questa è la regola generale, le declinazioni particolari sono quelle viste sopra. Andranno quindi escluse dal paniere le spese per indennità, i compensi degli organi di amministrazione e controllo, gli oneri tributari, le manutenzioni straordinarie e pure quelle ordinarie se riguardano immobili messi a reddito da cui l'ente proprietario acquisisce una rendita. Fuori anche le spese per la tutela legale dell'amministrazione e i costi sostenuti per i buoni pasto, mentre vanno incluse le spese per il servizio mensa. Rientrano nella base di calcolo (che terrà conto dei dati 2010) anche quelle spese, per esempio per l'esercizio di autovetture, che siano già oggetto di precise riduzioni.
Infine, si precisa che gli enti costituiti dopo il 2010 dovranno prendere in considerazione i dati contabili risultanti dal primo bilancio approvato (articolo ItaliaOggi del 24.10.2012 - link a www.corteconti.it).

APPALTIVerso il Cdm. In arrivo un pacchetto di interventi destinati a rivedere le regole sui contratti.
Appalti, operazione riordino. Dalla delega per la revisione del codice alla consultazione pubblica.
IL QUADRO/ Il disegno di legge punta su semplificazione, anticipazione delle regole Ue e partenariato fra pubblico e privato.

Non c'è soltanto la delega al riordino del codice appalti nel disegno di legge del ministero delle Infrastrutture che ieri è passato in pre-Consiglio dei ministri e oggi avrà un'ulteriore messa a punto a Palazzo Chigi.
Nel testo diretto verso il Consiglio dei ministri di domani o venerdì ci sono anche altre innovazioni di cui si è parlato in questi ultimi mesi e che non avevano trovato ancora posto in alcun provvedimento. È il caso dell'introduzione in Italia del debat public, «la consultazione pubblica –si legge nella relazione illustrativa del Ddl– con gli attori locali che ha la finalità di elevare il grado di tempestività e accuratezza dell'informazione pubblica sugli interventi infrastrutturali e di promuovere un più alto livello di consenso sociale e di partecipazione delle popolazioni interessate alle scelte progettuali e insediative effettuate dall'organo politico».
Una commissione composta di tre esperti avvierà e gestirà i procedimenti e sarà «organismo di natura tecnica dotato di alto grado di indipendenza, in quanto non deve essere percepito come portatore di interesse di parte».
Il procedimento dovrà sempre prendere in considerazione anche la «opzione zero» e dovrà concludersi in 120 giorni con un documento non vincolante della commissione che darà conto con oggettività di tutte le posizioni e potrà contenere proposte di integrazione, modifica o accompagnamento dell'opera.
Nel Ddl appalti ci sarà anche la gara di appalto «modello World bank» proposta a suo tempo dal presidente dell'Ance, Paolo Buzzetti, come modello di efficienza e di oggettività nella selezione dell'appaltatore. Tra le innovazioni di cui si dibatte da mesi e anni c'è anche la consultazione preliminare delle imprese invitate a partecipare a una gara per l'affidamento in concessione di un'opera. Oppure una norma per le Ati (associazioni temporanee di imprese) che impone la corrispondenza delle quote di partecipazione e quelle di effettiva esecuzione dei lavori.
Per quel che riguarda il riordino del codice appalti, tre sono i principi contenuti nella delega al Governo: semplificazione, anticipazione degli orientamenti comunitari e creazione di «condizioni favorevoli per il partenariato pubblico-privato e la finanza di progetto, anche attraverso disposizioni volte a dare certezza al quadro regolatorio vigente alla stipula del contratto».
Il disegno di legge prevede anche tre altre deleghe per il riordino dei codici dell'edilizia, della strada e della navigazione.
In pre-Consiglio dei ministri ieri è arrivato anche il decreto correttivo del codice antimafia (150/2011) che prevede due novità: la stretta sugli obblighi di tracciabilità dei flussi finanziari e le informative atipiche. Per il resto, i suoi dieci articoli hanno il merito di mandare finalmente in vigore tutta la sezione del codice dedicata alle comunicazioni antimafia e alla banca dati ad esse dedicata.
Solo il vertice di oggi a Palazzo Chigi permetterà di capire se effettivamente questo pacchetto di provvedimenti andrà all'esame del prossimo Consiglio dei ministri (articolo Il Sole 24 Ore del 24.10.2012 - link a www.corteconti.it).

LAVORI PUBBLICI: Grandi opere con consultazione. Le popolazioni locali saranno sentite per evitare effetti Tav. In arrivo in Consiglio dei ministri un ddl che punta a ridisegnare tutti i contratti pubblici.
Al via le consultazioni pubbliche sulle opere infrastrutturali per gestire il consenso a livello locale, sulla scia del «débat public» francese con oggetto lo studio di fattibilità; deleghe per riordinare entro 180 giorni la normativa sui contratti pubblici (Codice e regolamento), sull'edilizia, sui trasporti pubblici e sulla navigazione; bandi- tipo dell'Utfp per le concessioni di lavori pubblici; consultazione sul progetto preliminare anche per le concessioni; svincolo delle cauzioni anche sulle opere in esercizio.
È quanto previsto nello schema di disegno di legge esaminato che viene esaminato oggi dal pre-Consiglio dei ministri.
Nella bozza che viene illustrata e discussa oggi è contenuta anche una corposa e impegnativa norma di delega che tocca l'intera disciplina in materia di contratti pubblici; difficile però immaginare che possa essere portata a termine prima della fine della legislatura. In particolare si prevede che entro sei mesi si porti a compimento il «consolidamento delle disposizioni nella materia dei contratti pubblici» e «l'assestamento del quadro normativo di riferimento». Ne dovrebbe uscire un nuovo Codice dei contratti diviso in due parti, una legislativa e l'altra regolamentare, evitando la dispersione in diverse fonti normative, nonché la sovrapposizione e la duplicazione tra disposizioni di rango legislativo e regolamentare.
L'operazione dovrà servire anche ad adeguare il quadro regolatorio ai principi e agli orientamenti comunitari emersi in sede di aggiornamento delle direttive in materia di appalti pubblici e concessioni, ma anche a semplificare le procedure e creare le condizioni favorevoli per il partenariato pubblico-privato e la finanza di progetto. Altre deleghe, peraltro, riguardano la materia della circolazione stradale. Analoga operazione viene prevista per la materia edilizia puntando, fra le altre cose, a toccare i diritti edificatori, la semplificazione delle procedure, la premialità fiscale e finanziaria.
Ma non basta, perché sono previste deleghe per riordinare anche le norme sulla circolazione stradale, la navigazione e il trasporto pubblico su autobus.
Nell'attesa dell'attuazione delle deleghe, intanto, si propongono ulteriori norme di modifica dell'attuale Codice dei contratti pubblici che in passato non erano poi entrate nei diversi decreti-legge proposti dal governo e convertiti dal parlamento. Fra queste spicca l'introduzione della Consultazione pubblica per gestire il consenso relativo alla realizzazione delle opere infrastrutturali di rilevante impatto ambientale, sociale ed economico indicate nel Def infrastrutture, una proposta già in passato avanzata dalle Fondazioni Astrid, Italiadecide e Respublica e tesa ad adattare l'istituto del «débat public» francese, una sorta di referendum, limitato alle grandi opere, per gestire il consenso sul territorio. La consultazione, prevista nella fase iniziale dell'iter di individuazione delle caratteristiche dell'infrastruttura con oggetto, di regola, lo studio di fattibilità dell'opera, potrà essere richiesta dal soggetto aggiudicatore, dal promotore o da un consiglio regionale, o da un numero di consigli comunali o provinciali rappresentativi di almeno 150 mila abitanti, ovvero 50 mila cittadini residenti nel comune o nei comuni interessati dalla realizzazione dell'opera.
Sarà una commissione istituita presso il Provveditorato interregionale alle opere pubbliche a gestire la consultazione che non potrà avere durata, prefissata, superiore a 120 giorni; al termine della consultazione sarà predisposto un documento che darà conto delle ipotesi alternative emerse e del grado di consenso raggiunto e potrà prevedere l'istituzione di un meccanismo permanente di comunicazione e dialogo pubblico.
Sul fronte della disciplina delle concessioni si prevede la possibilità che l'ente finanziatore, entro 180 giorni, indichi un subentrante (nuovo concessionario) al posto del concessionario affidatario a seguito della gara; si prevede anche che sia attivabile anche per le concessioni la consultazione preliminare sul progetto (prevista finora solo per gli appalti) e che i bandi e i relativi allegati (da definire sulla base di modelli che dovrà mettere a punto l'Unità tecnica per la finanza di progetto) siano predisposti in modo da prevedere il preventivo e graduale coinvolgimento del sistema bancario nell'operazione e assicurare la massima «bancabilità» del progetto. Ridotti ulteriormente i tempi per l'approvazione dei progetti da parte del Cipe, il testo promuove anche un maggiore ricorso alle centrali di committenza che potranno riguardare anche le concessioni e i contratti di Ppp (partenariato pubblico-privato).
Modificando l'articolo 92 del dpr 207/2010, si consente poi alle imprese di costruzioni che partecipano in raggruppamento temporaneo di eseguire i lavori anche in percentuali diverse da quelle previste a condizione che siano qualificate per i singoli lavori da eseguire. Riproposte le norme sullo svincolo delle cauzioni per opere in esercizio da un anno e l'innalzamento all'80% della quota svincolabile. Infine, fra le altre cose, si prevede un Fondo mobiliare chiuso, da costituirsi da Cassa depositi e prestiti, con la collaborazione dell'Anci e dell'Upi, per la valorizzazione dei beni pubblici mobiliari (articolo ItaliaOggi del 23.10.2012 - link a www.corteconti.it).

APPALTI: Il ricorso all'arbitrato va limitato. Passera avverte: amministrazioni quasi sempre soccombenti. La direttiva del ministro alle infrastrutture. Clausole compromissorie solo se funzionali all'appalto.
Limitare il ricorso agli arbitrati, che vedono quasi sempre soccombenti le amministrazioni, inserendo la clausola compromissoria soltanto se funzionale alla specificità dell'appalto e se è opportuno il ricorso alla giustizia arbitrale; i limiti devono essere tenuti presenti anche per i contratti già affidati in cui è possibile, in base alle vecchie norme, optare a controversia in corso, per l'arbitrato.
È questo l'invito contenuto nella nota 27.06.2012 n. 24189 di prot. del ministro delle infrastrutture e trasporti, Corrado Passera, registrata dalla Corte dei conti il 02.08.2012 e resa nota in questi giorni.
L'atto ministeriale, indirizzato ai dipartimenti del dicastero di Porta Pia, ai provveditorati interregionali alle opere pubbliche e alle Capitanerie di porto, assume una sua rilevanza di carattere generale per l'azione amministrativa e per la gestione degli appalti pubblici. La direttiva di Passera prende le mosse dalle considerazioni che ormai da anni formula l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici rispetto alle risultanze dell'impiego degli arbitrati nel settore degli appalti pubblici. I
n base a questi dati è stato introdotto ad opera dell'articolo 3, comma 19, della legge 244/2007 il divieto di fare ricorso alla procedura arbitrale, più volte rinviato nella sua entrata in vigore, fino a che il decreto legislativo 53/2010, eliminando la norma-divieto del 2007, ha ammesso l'arbitrabilità delle controversie, vietando, relativamente ai contratti pubblici, il compromesso (art. 807 cpc) una volta insorta la controversia.
Sono pertanto arbitrabili solo le controversie relative a contratti già contenenti la clausola compromissoria. Nella direttiva si ricorda, quindi, che nella relazione del 2009 l'Autorità oggi presieduta da Sergio Santoro, aveva stigmatizzato il fatto che i giudizi arbitrali «comportano costi elevati per le pubbliche amministrazioni, anche in ragione delle alte percentuali di soccombenza rilevate». In particolare il dato diffuso all'epoca dall'Autorità vedeva una soccombenza, con riferimento complessivo agli arbitrati liberi e amministrati, pari a circa il 94%, mentre soltanto nel 6% dei casi le domande delle imprese erano state rigettate. Anche con la relazione del 2010 l'organismo di vigilanza, come si legge nella direttiva del ministero delle infrastrutture, avevano avuto modo di evidenziare che negli arbitrati liberi le stazioni appaltanti, nella quasi totalità, sono risultate in tutto o in parte soccombenti.
A ciò si deve aggiungere il fatto, sempre riportato nella direttiva, che «solo una minoranza dei procedimenti si conclude entro il termine ordinatorio previsto per l'emissione del lodo» (240 giorni). Da qui l'invito, contenuto nella direttiva di «limitare al massimo la previsione della clausola compromissoria in considerazione della specifica natura e delle caratteristiche dell'appalto e dell'opportunità rispetto alla singola fattispecie, del ricorso alla giustizia arbitrale.
Il ministro chiede alle stazioni appaltanti di regolarsi nei termini descritti anche per le fattispecie regolate dalla normativa precedente al 2010, quando era prevista la facoltà di declinare la competenza arbitrale (articolo ItaliaOggi del 23.10.2012 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Maggiore tutela al responsabile servizi finanziari.
LA QUALIFICAZIONE/ Da valutare l'ipotesi di prevedere un albo di soggetti idonei a ricoprire questo delicato ruolo.

Già nei primi mesi del 2008, su questo giornale, erano usciti alcuni articoli che segnalavano i rischi insiti nella debolezza del responsabile dei servizi finanziari e, per questo, proponevano alcune soluzioni. Le norme introdotte nel decreto enti locali (174/2012) vanno in quella direzione e non possono che essere apprezzate.
Il ragioniere vede arricchirsi i suoi compiti, acquisendo un ruolo di fatto sempre più di tutela della Repubblica prima che di servizio al sindaco. Era già, certo, responsabile della veridicità dei conti e tutore degli equilibri; oggi diventa anche e soprattutto un importante presidio di finanza pubblica. Da qui un aumento dei poteri (e delle responsabilità). Il ragioniere dovrà apporre il suo visto su ogni atto dell'ente locale che «comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente». Praticamente su tutto.
È chiaro che, che a fronte di ciò, è necessario prevedere una maggiore tutela di questa figura, che ha spesso rischiato di diventare il vaso di coccio tra la prepotenza di politici irresponsabili e la rigidità delle norme di finanza pubblica.
Grazie al decreto, l'incarico di responsabile dei servizi finanziari può essere revocato esclusivamente in caso di gravi irregolarità nell'esercizio delle funzioni assegnate. Non solo, la revoca può essere disposta solo previo parere obbligatorio del ministero dell'Interno e della Ragioneria generale dello Stato.
Non si può che essere d'accordo con una norma coraggiosa e incisiva. Però tutto ciò non è ancora sufficiente: resta comunque possibile, per limitarne l'effettività, disporre un incarico a contratto a tempo determinato annuale (l'articolo 110 del Tuel prevede un tempo massimo pari a quello di mandato, ma non uno minimo), così da poter tenere comunque il dirigente sotto scacco.
Ancora si pensi all'assurdità (per altro non poco frequente) del fatto che il comma 4 dell'articolo 110, preveda che il contratto a tempo determinato è risolto di diritto nel caso in cui l'ente locale dichiari il dissesto o venga a trovarsi nelle situazioni strutturalmente deficitarie. In questo caso, in pratica, è il ragioniere stesso, dopo aver avuto il coraggio di denunciare la cosa a determinare il proprio "licenziamento". Un evidente paradosso, che ha come conseguenza il lasciare scoperta una posizione cruciale proprio negli enti più in difficoltà.
Sarebbe giusto, piuttosto, prevedere una sanzione che punisca tutti i dirigenti che hanno condotto l'ente in tale stato, vietando l'inserimento di risorse aggiuntive nei fondi per il trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, in modo da punire l'intero gruppo dirigente del comune in crisi (e non solo il personale a tempo determinato) e da rendere chiaro ai dipendenti per primi i costi di una politica irresponsabile. Ancora, dovrebbe essere assicurata una posizione di apicalità al responsabile dei servizi finanziari. Oggi spesso si trovano collocazioni strane e si ritrovano perfino interim a dirigenti che fanno tutt'altro.
Infine occorre affrontare il tema della qualificazione professionale dei ragionieri. A oggi, infatti, la scelta del responsabile finanziario può essere fatta a completa discrezione dell'ente, con il rischio di trovarsi in questa posizione dentisti ed architetti. È dunque necessario riflettere sulla opportunità di predisporre un registro di idonei alla funzione, da cui i sindaci debbano attingere al momento della nomina. Occorre gradualità, certo, ma il nodo va affrontato.
Lo si è fatto per i revisori dei Comuni, i quali devono avere una qualificazione professionale e frequentare dei corsi di aggiornamento. Non si comprende perché non si possa fare per i ragionieri degli enti locali (articolo Il Sole 24 Ore del 22.10.2012 - link a www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAumenti (a sorpresa) per gli stipendi della Pa.
La Consulta boccia anche la trattenuta del 2,5% sul Tfr: da 20 a 80 euro netti in più al mese, oltre agli arretrati
LA MOTIVAZIONE/ Ingiustificata la disparità di trattamento tra i lavoratori di enti e amministrazioni e quelli del settore privato.

Gli stipendi pubblici e i rinnovi contrattuali sono congelati da più di due anni, ma mentre il Governo lavora per prolungare il blocco totale (indennità di vacanza contrattuale compresa) almeno fino al 2015, arriva una stecca pesante nel coro dell'austerità: a farla è la Corte costituzionale, che nella sentenza 223/2012 non si è limitata a cancellare il "contributo di solidarietà" a carico degli statali e a tagliare le indennità speciali dei magistrati, ma ha bocciato anche la trattenuta del 2,5% sul Tfr dei dipendenti pubblici, non imposta, invece, ai lavoratori del settore privato. Con un duplice risultato: l'obbligo di restituzione degli arretrati, e un aumento in busta paga rispetto ai livelli previsti dalla manovra estiva del 2010 che aveva ingabbiato gli stipendi pubblici.
Il 2,5% caduto sotto le forbici dei giudici delle leggi si calcola infatti sulla retribuzione del dipendente, comprese le indennità di posizione, e non sul solo accantonamento per il trattamento di fine rapporto o di fine servizio, per cui la novità può valere per i 3,3 milioni di dipendenti pubblici più di molti rinnovi contrattuali anche siglati in tempi più generosi degli attuali.
Per rendersene conto basta dare un'occhiata alle tabelle pubblicate qui a fianco, che fanno i conti in tasca alle figure-tipo che lavorano negli uffici dell'amministrazione centrale o negli enti locali. Per un impiegato di un ente territoriale, per esempio, la pronuncia costituzionale vale 332 euro netti di arretrati del 2011, 307 di competenza 2012 (i due valori sono diversi perché nel 2011 il Tfr era soggetto a tassazione separata, più leggera di quella ordinaria) e un incremento netto in busta paga da quasi 24 euro al mese. Le cifre, naturalmente, salgono insieme alla posizione occupata dall'interessato nella gerarchia dell'amministrazione, e non solo per l'aumento dello stipendio di base. Se il dipendente è anche titolare di «posizione organizzativa», cioè in pratica ha la responsabilità di un ufficio, pur non essendo un dirigente, nel calcolo entrano anche i 12.911 euro dell'indennità di posizione, e il conto si gonfia: tra 2011 e 2012 l'arretrato vale mille euro, e l'aumento netto in busta si attesta poco sopra i 34 euro al mese.
Per un dirigente, la cifra in gioco raddoppia abbondantemente. Gli stessi calcoli si replicano nell'amministrazione centrale, dove a parità di qualifica gli stipendi sono più alti di quelli che si incassano nel territorio. Al vertice della piramide si incontrano i dirigenti di prima fascia, che dalla novità attendono 2.300 euro di arretrati e 80 euro al mese in più rispetto alla retribuzione ricevuta fino al mese scorso. Un'ottima notizia, che soprattutto per questa categoria si accompagna all'addio, anch'esso retroattivo, al contributo di solidarietà che chiedeva il 5% della quota di retribuzione superiore a 90mila euro e il 10% di quella che supera quota 150mila euro. Pessima, invece, è la notizia letta con gli occhi delle amministrazioni e dei conti pubblici (si veda anche l'altro articolo in pagina): negli uffici si è già avviata la macchina delle richieste di restituzione delle trattenute diventate illegittime ex post, le amministrazioni in genere prendono tempo in attesa di istruzioni ministeriali ma presto occorrerà mettere mano alla cassa.
A motivare la presa di posizione dei giudici costituzionali, che in un colpo solo hanno abbattuto tre pilastri centrali nella gabbia con cui la manovra estiva 2010 ha provato a imbrigliare i costi del pubblico impiego, ci sono ovvie ragioni di equità. La Corte ha richiamato gli articoli 3 e 53 della Costituzione, che tutelano la parità dei cittadini davanti alla legge e la proporzionalità fra le richieste fiscali e la capacità contributiva del singolo. Un euro, spiegano i giudici, Costituzione alla mano, ha lo stesso valore sia quando va in tasca a uno statale sia quando finisce a un lavoratore privato, per cui deve essere sottoposto a una tassazione identica. Un principio chiaro, che ora impone al Governo di trovare strade nuove se vuole recuperare i risparmi caduti sotto i colpi della Corte (articolo Il Sole 24 Ore del 22.10.2012 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOBusta più pesante da novembre. Occorre riconoscere anche il pregresso.
La sentenza della Corte Costituzionale 223/2012 che ha dichiarato illegittima la norma del Dl 78/2010 relativa alla trattenuta sul Tfr rischia di far saltare i conti delle amministrazioni pubbliche in materia di personale. I giudici costituzionali non hanno portato solo vantaggi nelle tasche dei dipendenti pubblici, ma hanno anche inflitto un duro colpo alle casse comunali.
La norma bocciata
Da dove nasce il pasticcio? Nasce dall'obiettivo di togliere un beneficio di cui i dipendenti pubblici godevano in materia di trattamento di fine servizio, se assunti prima del 2001, estendendo anche a questi lavoratori il regime del Tfr previsto nel Codice civile. In sostanza, fino al 2010, la normativa imponeva al datore di lavoro un accantonamento sull'80% della retribuzione lorda (che è la base su cui si calcola l'accantonamento del Tfr), con una trattenuta a carico del dipendente pari al 2,5%, calcolata sempre sul l'80% della retribuzione. La normativa pregressa prevedeva dunque un accantonamento determinato su una base di computo ridotta, e, a fronte di un miglior Tfr, esigeva la rivalsa sul dipendente.
Nell'assetto che si è determinato in seguito alla norma impugnata (Dl 78/2010, articolo 12, comma 10), la percentuale di accantonamento opera sull'intera retribuzione, con la conseguenza che il mantenimento della rivalsa sul dipendente, solo per i dipendenti pubblici, in assenza della «
fascia esente», determina in un sol colpo una riduzione della retribuzione e la riduzione della quantità di Tfr maturata nel tempo.
Il legislatore aveva dunque dimenticato che, nel privato, tutti gli oneri sono a carico del datore di lavoro, mentre nei regimi pubblicistici era prevista appunto la ritenuta a carico del dipendente (il 2,5% sull'80% della retribuzione). L'illegittimità costituzionale si fonda sul principio di parità di trattamento fra i dipendenti pubblici e quelli privati, non sottoposti a rivalsa da parte del datore di lavoro.
L'impatto della sentenza
Che cosa succede a questo punto? Le pubbliche amministrazioni non sono più legittimate a trattenere ai dipendenti la trattenuta ex Enpas, ex Inadel, e così via. Inoltre, dovranno restituire le stesse ritenute effettuate dal 01.01.2011 fino a oggi. Infatti, l'articolo 136 della Costituzione prevede che la norma dichiarata incostituzionale cessa di avere effetto dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Considerando che la sentenza è stata pubblicata il 17.10.2012 (Gazzetta ufficiale, prima serie speciale, n. 41), l'applicazione inizierà con gli stipendi del mese di novembre, poiché gli stipendi di ottobre sono già stati elaborati.
Peraltro, sembra non si possa sfuggire nemmeno al riconoscimento degli arretrati, poiché le sentenze hanno efficacia anche nei confronti dei rapporti sorti prima della dichiarazione di illegittimità, con la sola eccezione dei rapporti esauriti. Gli enti dovranno dunque fare una variazione di bilancio per far fronte a questi oneri sopravvenuti, che sono quantificabili in una quota pari al 2% delle retribuzioni annue utili ai fini Tfr (che equivale al 2,5% dell'80% della retribuzione).
Questo vuol dire che, nel 2012, dovranno essere reperite le risorse per rimborsare le trattenute effettuate nel 2011, quelle già trattenute nella prima parte del 2012 e quelle non più recuperabili nel 2012 a fronte della sentenza. In pratica si tratta di circa il 4%, da calcolare non solo sullo stipendio tabellare ma anche sulle altre voci utili (come indennità di amministrazione e retribuzione di posizione). Gli enti si troveranno in enorme difficoltà o, più probabilmente, nella impossibilità di rispettare i vincoli sul contenimento della spesa di personale (articolo Il Sole 24 Ore del 22.10.2012 - link a www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

URBANISTICALa variante di uno strumento urbanistico primario che imprime una nuova destinazione ad aree che sono state già urbanisticamente classificate per effetto della strumentazione urbanistica previgente necessita di apposita motivazione soltanto se le classificazioni preesistenti siano assistite da specifiche aspettative in capo ai rispettivi titolari che risultano fondate su atti di contenuto concreto, nel senso che deve trattarsi di scelte che incidano su particolari situazioni di affidamento, come quelle derivanti da un piano di lottizzazione approvato, da un giudicato di annullamento di un diniego di concessione edilizia o dalla reiterazione di un vincolo scaduto.
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Le osservazioni formulate dai proprietari interessati costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ragionevolmente ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano regolatore o della sua variante, e che il merito della scelta relativa alla localizzazione di un’opera pubblica è sottratto al sindacato del giudice amministrativo, salvo profili di illogicità, travisamento e contraddittorietà, con la conseguenza che la P.A. non è tenuta a fornire al riguardo le specifiche ragioni della scelta di un luogo piuttosto che di un altro, rimanendo inibita al sindacato giurisdizionale sull’eccesso di potere ogni possibilità di sovrapporre una nuova graduazione di interessi in conflitto alla valutazione che di essi sia stata già compiuta dall’organo competente, in quanto profilo attinente alla discrezionalità tecnica e, quindi, al merito dell’azione amministrativa, salvo che la scelta risulti manifestamente illogica o abnorme e tale vizio sia rilevabile prima facie.

A tale riguardo il Collegio ribadisce che la variante di uno strumento urbanistico primario che imprime una nuova destinazione ad aree che sono state già urbanisticamente classificate per effetto della strumentazione urbanistica previgente necessita di apposita motivazione soltanto se le classificazioni preesistenti siano assistite da specifiche aspettative in capo ai rispettivi titolari che risultano fondate su atti di contenuto concreto, nel senso che deve trattarsi di scelte che incidano su particolari situazioni di affidamento, come quelle derivanti da un piano di lottizzazione approvato, da un giudicato di annullamento di un diniego di concessione edilizia o dalla reiterazione di un vincolo scaduto (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 04.05.2010 n. 2545).
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A tale riguardo va innanzitutto ricordato che le osservazioni formulate dai proprietari interessati costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ragionevolmente ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano regolatore o della sua variante (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2010 n. 6911), e che il merito della scelta relativa alla localizzazione di un’opera pubblica è sottratto al sindacato del giudice amministrativo, salvo profili di illogicità, travisamento e contraddittorietà (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 03.08.2010 n. 6155), con la conseguenza che la P.A. non è tenuta a fornire al riguardo le specifiche ragioni della scelta di un luogo piuttosto che di un altro, rimanendo inibita al sindacato giurisdizionale sull’eccesso di potere ogni possibilità di sovrapporre una nuova graduazione di interessi in conflitto alla valutazione che di essi sia stata già compiuta dall’organo competente, in quanto profilo attinente alla discrezionalità tecnica e, quindi, al merito dell’azione amministrativa, salvo che la scelta risulti manifestamente illogica o abnorme e tale vizio sia rilevabile prima facie (cfr. ibidem) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.10.2012 n. 5492 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer un verso, come tale, la determinazione dell'an e del quantum del contributo concessorio non ha natura autoritativa, giacché si tratta di un mero accertamento dell'obbligazione contributiva, effettuato dalla p.a. in base a rigidi parametri prefissati dalla legge e dai regolamenti in tema di criteri impositivi, nei cui riguardi essa è sfornita di potestà autoritative; conseguentemente, la posizione del soggetto nei cui confronti è richiesto il pagamento è di diritto soggettivo, non di interesse legittimo e l'impugnazione del provvedimento del Comune è soggetta all'ordinario termine di prescrizione.
Per un altro verso, ai sensi dell'art. 28, l. 24.11.1981 n. 689, applicabile ex art. 12 della stessa legge a tutte le sanzioni amministrative di tipo affittivo, il termine di prescrizione della sanzione irrogata per ritardato pagamento del contributo dovuto per gli oneri di urbanizzazione e per il costo di costruzione è di cinque anni, e decorre dal giorno in cui è stata commessa la violazione.

Preliminarmente, a superamento delle infondate eccezioni di inammissibilità formulate dalla difesa comunale, va ribadito che le controversie in materia di oneri d'urbanizzazione, costo di costruzione e relative sanzioni per l'eventuale ritardato pagamento, comprese quelle attinenti a domanda di condono e relativa oblazione, sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e vertono sull'esistenza o sulla misura di un'obbligazione direttamente stabilita dalla legge.
In tale contesto per un verso, come tale, la determinazione dell'an e del quantum del contributo concessorio non ha natura autoritativa, giacché si tratta di un mero accertamento dell'obbligazione contributiva, effettuato dalla p.a. in base a rigidi parametri prefissati dalla legge e dai regolamenti in tema di criteri impositivi, nei cui riguardi essa è sfornita di potestà autoritative; conseguentemente, la posizione del soggetto nei cui confronti è richiesto il pagamento è di diritto soggettivo, non di interesse legittimo e l'impugnazione del provvedimento del Comune è soggetta all'ordinario termine di prescrizione.
Per un altro verso, ai sensi dell'art. 28, l. 24.11.1981 n. 689, applicabile ex art. 12 della stessa legge a tutte le sanzioni amministrative di tipo affittivo, il termine di prescrizione della sanzione irrogata per ritardato pagamento del contributo dovuto per gli oneri di urbanizzazione e per il costo di costruzione è di cinque anni, e decorre dal giorno in cui è stata commessa la violazione (cfr., tra le altre, TAR Basilicata, 39/04/2008 n. 141; TAR Campania, Salerno, Sez, II, 22.04.2005 n. 647; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 08.10.2001 n. 1514; TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 08.05.2006 n. 701 e 08.03.2012, n. 600) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 26.10.2012 n. 641 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOIn condominio ci vuole «solidarietà». Per l'ascensore il voto unanime non è necessario.
Non ci si può opporre all'installazione dell'ascensore, anche quando questo configura un'innovazione e il voto in assemblea non è stato unanime. Questo perché la legge 13/89 di sostegno alla disabilità prevede la maggioranza che rappresenti almeno un terzo dei condomini e dei millesimi e non ha rilevanza il fatto che l'eliminazione delle barriere architettoniche non sia citata nella delibera, «posto che la delibera di messa in opera di un'installazione si muove sostanzialmente all'evidenza in tale direzione».

Lo ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. II, con la sentenza 25.10.2012 n. 18334.
Un condominio aveva votato a maggioranza (nel 1994!) la messa in opera di un ascensore, la cui installazione avrebbe però provocato il restringimento della luce del passaggio sulla prima rampa e costituendo, in sostanza, un'innovazione. Un condomino aveva impugnato la delibera per nullità, ottenendo ragione dal Tribunale e dalla corte d'Appello, sostenendo che la delibera non era stata fatta esplicitamente per eliminare le barriere architettoniche e che nel condominio non vi erano disabili.
Il Condominio aveva quindi presentato ricorso in Cassazione, che però ha ribaltato il giudizio delle corti di merito, affermando che:
e È irrilevante la circostanza che l'assemblea non avesse avuto a oggetto una delibera attinente all'eliminazione delle barriere architettoniche, dato che la decisione va di fatto in quel senso;
r È irrilevante, ai fini dell'applicabilità della maggioranza semplice prevista dalla legge 13/1989, la presenza di disabili nel condominio, dato che la legge mira a consentire a tutti i disabili di accedere negli edifici, e non solo presso la propria abitazione e del resto il riferimento alla presenza di disabili nella legge solo in quanto consente ai disabili di installare servoscala o strutture mobili a loro spese in caso di rifiuto da parte del condominio;
t Anche il pregiudizio del decoro architettonico, invocato dal resistente, va valutato nel senso di accertare se determini o meno un effettivo deprezzamento dell'intero fabbricato «essendo lecito il mutamento estetico che non cagioni un pregiudizio economicamente valutabile o che, pur arrecandolo, si accompagni a un'utilità la quale compensi l'alterazione architettonica», cioè in sostanza l'ascensore stesso.
La Cassazione, però conclude con l'affermazione di un principio importante: quello della solidarietà condominiale. Le norme di vicinato, per la Cassazione, vanno invocate in quanto compatibili con la concreta struttura dell'edificio e, nel caso del condominio, va valutato quando la loro osservanza non sia «irragionevole» ai fini «dell'ordinato svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti condominiali». A maggior ragione, sottolinea la Corte, si sarebbe dovuto tener conto di questa considerazione in presenza di una decisione che «coinvolgeva i diritti fondamentali dei disabili», come la stessa legge 13/1989 suggerisce, imponendo la diversa prospettiva di considerare i problemi della disabilità non solo individuali ma come parte di un carico della collettività.
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Le indicazioni
01 | BARRIERE
È irrilevante il fatto che l'assemblea non abbia deliberato esplicitamente sull'eliminazione delle barriere architettoniche
02 | DISABILI
È irrilevante anche la presenza di disabili nel condominio, ai fini dell'applicabilità della maggioranza di un terzo dei condomini e dei millesimi prevista dalla legge 13/1989 al posto dell'unanimità, in caso di installazione di ascensore che costituisca un'innovazione
03 | IL DECORO
Il pregiudizio al decoro architettonico va valutato in relazione al danno economico effettivo (articolo Il Sole 24 Ore del 26.10.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI: Occorre convenire che è stato sancito l’obbligo della partecipazione alla conferenza delle amministrazioni convocate nonché l’impossibilità di esprimere al di fuori di tale sede il proprio consenso o dissenso, di talché l’unica maggioranza utile ai fini della validità delle decisioni che si vanno ad assumere è quella che risulta fisicamente presente alla adunanza.
Ratio dell’istituto è dunque anche quella di mediare e contemperare “de visu” le diverse posizioni e discrezionalità amministrative, così garantendo la contestuale valutazione di tutti gli interessi in gioco e del confronto reciproco. Obiettivi questi che sono utilmente perseguibili –si ribadisce–soltanto attraverso la necessaria presenza fisica di tutti i rappresentanti delle amministrazioni convocate.
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E' ammessa l’impugnativa da parte di una pubblica amministrazione, nei confronti di un atto adottato da altre PA, soltanto qualora l'organo ricorrente impugni un atto ritenuto lesivo delle proprie competenze, in quanto, ad esempio, invasivo e/o limitativo delle proprie attribuzioni.
La differenza tra la legittimazione e l’interesse del privato ricorrente e quella del soggetto pubblico titolare del potere sta nel fatto che mentre il primo, eccettuate le ipotesi tassative di azione popolare, può agire in giudizio solo a tutela di interessi privati, la p.a. agisce, anche tramite gli strumenti processuali, a tutela di interessi pubblici, che non sono però astratti interessi alla legalità, ma quegli interessi pubblici particolari e concreti che essa, di volta in volta, è chiamata a perseguire, e in vista dei quali l'ordinamento le attribuisce il potere amministrativo.
Ne discende che l’Amministrazione, quando ritiene che quegli interessi pubblici particolari siano ostacolati o compromessi, può senz'altro intraprendere le opportune iniziative giurisdizionali ritenute opportune o necessarie alla loro difesa.

Quanto al primo motivo del ricorso originariamente interposto osserva il Collegio che il comma 1 dell'art. 14-quater della legge n. 241 del 1990 prevede che “il dissenso di uno o più rappresentanti delle amministrazioni ivi comprese quelle preposte alla tutela ambientale … a pena di inammissibilità, deve essere manifestato nella conferenza di servizi”.
Tale disposizione reca il principio dell'acquisizione del “dissenso in conferenza”.
Il Collegio, pur consapevole di un diverso orientamento in materia, ritiene di aderire a quella parte della giurisprudenza (cfr. TAR Toscana, 01.03.2005, n. 978) secondo cui “occorre convenire che è stato sancito l’obbligo della partecipazione alla conferenza delle amministrazioni convocate nonché l’impossibilità di esprimere al di fuori di tale sede il proprio consenso o dissenso, di talché l’unica maggioranza utile ai fini della validità delle decisioni che si vanno ad assumere è quella che risulta fisicamente presente alla adunanza”.
Ratio dell’istituto è dunque anche quella di mediare e contemperare “de visu” le diverse posizioni e discrezionalità amministrative, così garantendo la contestuale valutazione di tutti gli interessi in gioco e del confronto reciproco. Obiettivi questi che sono utilmente perseguibili –si ribadisce–soltanto attraverso la necessaria presenza fisica di tutti i rappresentanti delle amministrazioni convocate.
A siffatta conclusione si perviene altresì mediante la lettura di altre due disposizioni contenute nell’art. 14-ter:
a) al comma 1 ove si afferma che “la conferenza di servizi … può svolgersi per via telematica”. E ciò al fine di consentire a tutte le amministrazione di partecipare in ogni caso, dunque anche ove risulti impossibile la presenza fisica dei relativi rappresentanti;
b) al comma 2 ove si afferma che “i responsabili degli sportelli unici per le attività produttive e per l'edilizia, ove costituiti, o i Comuni, o altre autorità competenti concordano con i Soprintendenti territorialmente competenti il calendario, almeno trimestrale, delle riunioni delle conferenze di servizi che coinvolgano atti di assenso o consultivi comunque denominati di competenza del Ministero per i beni e le attività culturali”. Ciò proprio al fine di garantire la presenza fisica di una amministrazione, quella dei beni culturali, che viene spesso coinvolta in siffatte conferenze e per cui il legislatore ha ritenuto di predisporre uno specifico calendario di attività.
Da quanto detto deriva che la posizione dell’autorità di bacino doveva essere “riscontrata” in conferenza, e non fuori di essa mediante fax.
Di qui la legittimità dell’operato della amministrazione comunale intimata, la quale ha correttamente ritenuto in prima istanza inammissibile il diniego opposto dall’autorità di bacino in quanto espresso in modo irrituale, ossia al di fuori del lavori della conferenza, sede naturale come già detto di mediazione e confronto.
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Per giurisprudenza costante (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 13.06.2011, n. 3567) è ammessa l’impugnativa da parte di una pubblica amministrazione, nei confronti di un atto adottato da altre PA, soltanto qualora l'organo ricorrente impugni un atto ritenuto lesivo delle proprie competenze, in quanto, ad esempio, invasivo e/o limitativo delle proprie attribuzioni.
La differenza tra la legittimazione e l’interesse del privato ricorrente e quella del soggetto pubblico titolare del potere sta nel fatto che mentre il primo, eccettuate le ipotesi tassative di azione popolare, può agire in giudizio solo a tutela di interessi privati, la p.a. agisce, anche tramite gli strumenti processuali, a tutela di interessi pubblici, che non sono però astratti interessi alla legalità, ma quegli interessi pubblici particolari e concreti che essa, di volta in volta, è chiamata a perseguire, e in vista dei quali l'ordinamento le attribuisce il potere amministrativo.
Ne discende che l’Amministrazione, quando ritiene che quegli interessi pubblici particolari siano ostacolati o compromessi, può senz'altro intraprendere le opportune iniziative giurisdizionali ritenute opportune o necessarie alla loro difesa
(TAR Campania, Napoli, Sez. VII, sentenza 25.10.2012 n. 4259 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl decreto di apposizione di un vincolo sui beni privati deve ritenersi illegittimo laddove non sia preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990. L'obbligo di comunicazione in questione costituisce espressione di un principio generale al quale è consentito fare eccezione soltanto nel caso in cui, gli atti prodromici alla concreta imposizione del vincolo stesso, siano stati resi conoscibili dagli interessati con modalità diverse.
Deve ritenersi illegittimo il decreto con cui il Direttore Generale del Ministero per i beni culturali o ambientali che appone un vincolo indiretto ex art. 21 L. 01.06.1939 n. 1089 su aree di proprietà privata, nel caso in cui l’adozione di detto decreto non sia stata preceduta dalla comunicazione agli interessati dell’avviso di avvio del procedimento.

Per un costante orientamento giurisprudenziale il decreto di apposizione di un vincolo sui beni privati deve ritenersi illegittimo laddove non sia preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990. Detta Giurisprudenza ha sancito come l’obbligo di comunicazione in questione costituisca espressione di un principio generale al quale è consentito fare eccezione soltanto nel caso in cui, gli atti prodromici alla concreta imposizione del vincolo stesso, siano stati resi conoscibili dagli interessati con modalità diverse (si veda per tutti Tar Piemonte n. 1255/2003 e Consiglio di Stato VI Sez. del 03/01/2000 n. 29).
Sempre il ricordato orientamento giurisprudenziale ha affermato come debba ritenersi illegittimo il decreto con cui il Direttore Generale del Ministero per i beni culturali o ambientali che appone un vincolo indiretto ex art. 21 L. 01.06.1939 n. 1089 su aree di proprietà privata, nel caso in cui l’adozione di detto decreto non sia stata preceduta dalla comunicazione agli interessati dell’avviso di avvio del procedimento (si veda sul punto anche Tar Lombardia Brescia n. 1360/2004).
E’ del tutto evidente che lo scopo perseguito dell’avviso ex art. 7 sopra citato, e per quanto attiene i vincoli indiretti, vada individuato in ordine, non solo alla possibilità del proprietario di partecipare al procedimento, ma contestualmente alla facoltà, dello stesso, di poter contribuire e incidere sulle determinazioni finali e relative all’estensione del vincolo, scelte nell’ambito delle quali non può non essere attribuito un ruolo determinante alla collaborazione del privato.
Sul punto va comunque dato atto di un altrettanto costante indirizzo giurisprudenziale, mutuato dalla procedura espropriativa, in base al quale l’Amministrazione ha il solo obbligo di individuare i proprietari sulla base delle risultanze catastali senza necessità di esperire ulteriori indagini sulla titolarità effettiva delle aree (Consiglio Stato sez. IV 28.02.2002).
Tale ultimo orientamento deve ritenersi comunque non applicabile alla materia ambientale e, ciò, in presenza dell’art. 46 del D.Lgs. nella parte in cui detta norma ha ritenuto di attribuire autonomo rilievo ai principi già contenuti nell’art. 7 della L. n. 241/1990, prevedendo, espressamente ed autonomamente, che l’avviso del procedimento per la tutela indiretta va comunicato al “proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile cui le prescrizioni di tutela indiretta si riferiscono” (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 25.10.2012 n. 1296 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAIl ricorso alla monetizzazione è ammesso ogni qual volta non sia possibile, proprio in considerazione del livello di urbanizzazione presente nelle aree interessate, dare luogo alla realizzazione diretta degli interventi necessari da parte del soggetto lottizzante e la cessione a favore dell’amministrazione delle aree utilizzate.
L’ipotesi della monetizzazione è quindi equiparabile all’ipotesi ordinaria, nella quale il concessionario ha titolo allo scomputo totale o parziale della quota di contributo per oneri di urbanizzazione qualora, in luogo totale o parziale della stessa, si obblighi verso il Comune alla cessione delle aree e delle opere da realizzare o già esistenti.
Atteso che sia la normativa statale che quella regionale prevede che il richiedente il titolo edilizio per la realizzazione delle opere possa scomputare dagli oneri di urbanizzazione (fermo restando quanto dovuto per il costo di costruzione) il valore delle opere di urbanizzazione realizzate in attuazione di una convenzione urbanistica, proprio al fine di non dare luogo ad una duplicazione di prestazione a fronte della medesima causa, ne deriva l’illegittimità della previsione contenuta nella convenzione proprio nella parte in cui ha escluso il futuro scomputo dei suddetti oneri all’atto del rilascio del titolo edilizio (fermo restando, così come previsto dall’ultimo comma dell’art. 6, che dovrà in ogni caso essere versta l’eventuale maggior somma che dovesse determinarsi con riguardo agli oneri di urbanizzazione primaria).

Va in primo luogo dato atto che per il maggior carico urbanistico derivante dall’intervento è stata prevista la possibilità per i ricorrenti di procedere alla monetizzazione degli standard necessari e di tale importo è espressamente riportato l’ammontare in convenzione, sia per le aree necessarie a parcheggio che per quelle destinate a verde attrezzato primario.
Il ricorso alla monetizzazione è, come noto, ammesso ogni qual volta non sia possibile, proprio in considerazione del livello di urbanizzazione presente nelle aree interessate, dare luogo alla realizzazione diretta degli interventi necessari da parte del soggetto lottizzante e la cessione a favore dell’amministrazione delle aree utilizzate.
L’ipotesi della monetizzazione è quindi equiparabile all’ipotesi ordinaria, nella quale il concessionario ha titolo allo scomputo totale o parziale della quota di contributo per oneri di urbanizzazione qualora, in luogo totale o parziale della stessa, si obblighi verso il Comune alla cessione delle aree e delle opere da realizzare o già esistenti.
Orbene, atteso che sia la normativa statale che quella regionale prevede che il richiedente il titolo edilizio per la realizzazione delle opere possa scomputare dagli oneri di urbanizzazione (fermo restando quanto dovuto per il costo di costruzione) il valore delle opere di urbanizzazione realizzate in attuazione di una convenzione urbanistica, proprio al fine di non dare luogo ad una duplicazione di prestazione a fronte della medesima causa (cfr. sul punto C.d.S., V, n. 807/1998 e TAR Veneto, II, n. 1132/2003), ne deriva l’illegittimità della previsione contenuta nella convenzione proprio nella parte in cui ha escluso il futuro scomputo dei suddetti oneri all’atto del rilascio del titolo edilizio (fermo restando, così come previsto dall’ultimo comma dell’art. 6, che dovrà in ogni caso essere versta l’eventuale maggior somma che dovesse determinarsi con riguardo agli oneri di urbanizzazione primaria) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 25.10.2012 n. 1293 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAL'art. 21-nonies della l. n. 241/1990 ha codificato le seguenti condizioni per l'esercizio del potere di annullamento di ufficio da parte della P.A.:
a) l'illegittimità dell'atto;
b) la sussistenza di ragioni di interesse pubblico;
c) l'esercizio del potere entro un termine ragionevole;
d) la valutazione degli interessi dei destinatari e dei controinteressati rispetto all'atto da rimuovere.
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I provvedimenti di autotutela sono espressione dell'esercizio di un potere tipicamente discrezionale dell'Amministrazione che non ha alcun obbligo di attivarlo. Qualora la P.A. intenda farlo deve, ai sensi dell'art. 21-nonies della L. n. 241/1990 e s.m.i., valutare puntualmente la sussistenza, o meno, di un interesse che giustifichi la rimozione dell'atto a fronte del corrispondente sacrificio del privato. Tale valutazione non può ritenersi dovuta nel caso di una situazione già definita con provvedimento inoppugnabile, per cui è sempre stato escluso l'obbligo dell'Amministrazione di provvedere in autotutela su un proprio provvedimento divenuto inoppugnabile.
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L'introduzione dell’art. 21-nonies della L. n. 241 del 1990 ha avuto l’effetto di disciplinare i presupposti e le forme dell'annullamento d'ufficio, ma non ha modificato la natura del potere, e non lo ha trasformato da discrezionale in obbligatorio, né ha previsto un interesse legittimo dei privati all'autotutela amministrativa. Il potere di autotutela resta un potere di merito, che si esercita previa valutazione delle ragioni di pubblico interesse, valutazione riservata alla p.a. e insindacabile da parte del giudice.
Ne consegue che il mancato esercizio del potere di annullamento d'ufficio, al di là dell’esame dei presupposti sopra ricordati, non può essere sindacato in sede giurisdizionale, spettando solamente all'amministrazione ogni valutazione e considerazione del proprio provvedimento, degli interessi dei privati concorrenti e del loro affidamento.

Come insegna sia la dottrina che la Giurisprudenza, l'art. 21-nonies della l. n. 241/1990 ha codificato le seguenti condizioni per l'esercizio del potere di annullamento di ufficio da parte della P.A.:
a) l'illegittimità dell'atto;
b) la sussistenza di ragioni di interesse pubblico;
c) l'esercizio del potere entro un termine ragionevole;
d) la valutazione degli interessi dei destinatari e dei controinteressati rispetto all'atto da rimuovere (Consiglio di Stato Sez. V, sent. n. 1946 del 07.04.2010).
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Va, infatti, ricordato che secondo i principi pacificamente affermati dalla Giurisprudenza (da ultimo Consiglio di Stato Sez. IV, sent. n. 984 del 23-02-2012) .. ”i provvedimenti di autotutela sono espressione dell'esercizio di un potere tipicamente discrezionale dell'Amministrazione che non ha alcun obbligo di attivarlo. Qualora la P.A. intenda farlo deve, ai sensi dell'art. 21-nonies della L. n. 241/1990 e s.m.i., valutare puntualmente la sussistenza, o meno, di un interesse che giustifichi la rimozione dell'atto a fronte del corrispondente sacrificio del privato. Tale valutazione non può ritenersi dovuta nel caso di una situazione già definita con provvedimento inoppugnabile, per cui è sempre stato escluso l'obbligo dell'Amministrazione di provvedere in autotutela su un proprio provvedimento divenuto inoppugnabile (conferma della sentenza del Tar Lazio-Latina, sez. I, n. 187/2011)”.
L'introduzione dell’art. 21-nonies della L. n. 241 del 1990 ha avuto l’effetto di disciplinare i presupposti e le forme dell'annullamento d'ufficio, ma non ha modificato la natura del potere, e non lo ha trasformato da discrezionale in obbligatorio, né ha previsto un interesse legittimo dei privati all'autotutela amministrativa. Il potere di autotutela resta un potere di merito, che si esercita previa valutazione delle ragioni di pubblico interesse, valutazione riservata alla p.a. e insindacabile da parte del giudice.
Ne consegue che il mancato esercizio del potere di annullamento d'ufficio, al di là dell’esame dei presupposti sopra ricordati, non può essere sindacato in sede giurisdizionale, spettando solamente all'amministrazione ogni valutazione e considerazione del proprio provvedimento, degli interessi dei privati concorrenti e del loro affidamento
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 25.10.2012 n. 1291 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl pergolato, rilevante ai fini edilizi, deve essere inteso come un manufatto avente natura ornamentale, realizzato in struttura leggera di legno o altro materiale di minimo peso, facilmente amovibile in quanto privo di fondamenta, che funge da sostegno per piante rampicanti, a mezzo delle quali realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni; di conseguenza non è riconducibile alla nozione di pergolato una struttura costituita da pilastri e travi in legno di importanti dimensioni, tali da rendere la struttura solida e robusta e da farne presumere una permanenza prolungata nel tempo, possa essere ricondotta alla nozione di pergolato.
Non rientra nella nozione di pergolato -e pertanto non è soggetta a d.i.a., bensì al rilascio di un permesso di costruire- un'opera costituita da pilastri e travi in legno di importanti dimensioni, atti a rendere la struttura solida e robusta. In tal caso, infatti, le rilevanti dimensioni e consistenza delle travi utilizzate, il loro stabile collegamento (nella specie a mezzo di bulloni e perni metallici) con una platea cementizia appositamente realizzata, la notevole estensione superficiaria ricoperta e la presenza di una copertura (ancorché precaria) risultano chiaro indice dell'essere preordinata, l'opera, ad un utilizzo prolungato nel tempo e non certo provvisorio.

Sul punto va ricordato l’esistenza di una pronuncia del Consiglio di Stato (sez. IV del 29.09.2011 n. 5409) che ha affermato come …”il pergolato, rilevante ai fini edilizi, deve essere inteso come un manufatto avente natura ornamentale, realizzato in struttura leggera di legno o altro materiale di minimo peso, facilmente amovibile in quanto privo di fondamenta, che funge da sostegno per piante rampicanti, a mezzo delle quali realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni; di conseguenza non è riconducibile alla nozione di pergolato una struttura costituita da pilastri e travi in legno di importanti dimensioni, tali da rendere la struttura solida e robusta e da farne presumere una permanenza prolungata nel tempo, possa essere ricondotta alla nozione di pergolato".
Si consideri ancora come la Giurisprudenza prevalente (per tutti si veda TAR Napoli Campania sez. VII 10.06.2011 n. 3099) ha sancito che ….”non rientra nella nozione di pergolato -e pertanto non è soggetta a d.i.a., bensì al rilascio di un permesso di costruire- un'opera costituita da pilastri e travi in legno di importanti dimensioni, atti a rendere la struttura solida e robusta. In tal caso, infatti, le rilevanti dimensioni e consistenza delle travi utilizzate, il loro stabile collegamento (nella specie a mezzo di bulloni e perni metallici) con una platea cementizia appositamente realizzata, la notevole estensione superficiaria ricoperta e la presenza di una copertura (ancorché precaria) risultano chiaro indice dell'essere preordinata, l'opera, ad un utilizzo prolungato nel tempo e non certo provvisorio
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 25.10.2012 n. 1290 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ingiunzione a demolire le opere edilizie abusivamente realizzate è da considerare un atto palesemente dovuto e, ciò, … ”con la conseguenza che l'omessa comunicazione dell'avvio del relativo procedimento risulta irrilevante, anche in considerazione di quanto disposto dall'art. 21-octies della L. 07.08.1990, n. 241, introdotto dall'art. 14 della l. 11.02.2005, n. 15, il quale esclude possa essere annullato il provvedimento qualora sia palese che il suo contenuto dispositivo non può essere diverso da quello in concreto adottato".
Risulta altrettanto infondato il secondo motivo alla base del ricorso in base al quale l’illegittimità del provvedimento di demolizione viene ricondotta alla mancanza dell’avviso di avvio del procedimento di cui all’art. 7 della L. n. 241/1990.
E’ necessario ricordare come, l'ingiunzione a demolire le opere edilizie abusivamente realizzate sia considerata un atto palesemente dovuto e, ciò, … ”con la conseguenza che l'omessa comunicazione dell'avvio del relativo procedimento risulta irrilevante, anche in considerazione di quanto disposto dall'art. 21-octies della L. 07.08.1990, n. 241, introdotto dall'art. 14 della l. 11.02.2005, n. 15, il quale esclude possa essere annullato il provvedimento qualora sia palese che il suo contenuto dispositivo non può essere diverso da quello in concreto adottato (Tar Toscana, sez. III, 10.10.2003, n. 5236 e Cds Sez. IV, sent. n. 5226 del 16-09-2011)
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 25.10.2012 n. 1290 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAVa ricordato il dominante indirizzo della giurisprudenza amministrativa in materia di impugnazione di piani urbanistici, anche attuativi, per il quale, ai fini del fondamento della legittimazione e dell’interesse ad agire, non é sufficiente il requisito della “vicinitas” dell’area oggetto dell’intervento urbanistico, esigendosi invece dal ricorrente la prova concreta della specifica lesione inferta dagli atti impugnati alla propria sfera giuridica.
Questo per evitare che un’eccessiva dilatazione del concetto di “interesse ad agire” (ex art. 100 del codice di procedura civile), applicato ai piani urbanistici, consenta l’impugnativa anche a soggetti titolari di un interesse di mero fatto.
La giurisprudenza della scrivente Sezione, dal canto suo, ha anch’essa richiesto, ai fini della legittimazione all’impugnazione di piani urbanistici, anche attuativi, che l’esponente fornisca la prova non solo della vicinanza del proprio fondo a quello oggetto del piano, ma anche dell’effettività del danno derivante dall’intervento urbanistico.

Ritiene il Tribunale, per doverosa completezza espositiva, di esaminare anche l’ulteriore eccezione pregiudiziale sollevata dalle parti intimante, vale a dire quella di inammissibilità dell’impugnativa per difetto di legittimazione e/o di interesse degli esponenti.
Anche tale eccezione risulta fondata, alla luce del dominante indirizzo della giurisprudenza amministrativa in materia di impugnazione di piani urbanistici, anche attuativi, per la quale, ai fini del fondamento della legittimazione e dell’interesse ad agire, non é sufficiente il requisito della “vicinitas” dell’area oggetto dell’intervento urbanistico, esigendosi invece dal ricorrente la prova concreta della specifica lesione inferta dagli atti impugnati alla propria sfera giuridica.
Questo per evitare che un’eccessiva dilatazione del concetto di “interesse ad agire” (ex art. 100 del codice di procedura civile), applicato ai piani urbanistici, consenta l’impugnativa anche a soggetti titolari di un interesse di mero fatto (cfr., fra le tante, Consiglio di Stato, sez. IV, 13.07.2010, n. 4545 e sez. IV, 30.11.2010, n. 8365, la quale ultima ha confermato la sentenza di questa Sezione II, n. 5170/2009).
La giurisprudenza della scrivente Sezione, dal canto suo, ha anch’essa richiesto, ai fini della legittimazione all’impugnazione di piani urbanistici, anche attuativi, che l’esponente fornisca la prova non solo della vicinanza del proprio fondo a quello oggetto del piano, ma anche dell’effettività del danno derivante dall’intervento urbanistico (si vedano: TAR Lombardia, Milano, sez. II, 22.11.2011, n. 2824, 08.02.2011, n. 383; 17.01.2011, n. 90; 09.05.2008, n. 1551, con la giurisprudenza ivi richiamata, fra cui di importanza rilevante è la decisione del Consiglio di Stato, sez. IV, 10.04.2008, n. 1548) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.10.2012 n. 2594 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa specifica disciplina regionale sul mutamento di destinazione d’uso deve essere letta ed interpretata alla luce dei principi fondamentali e delle disposizioni più generali risultanti dalla legislazione statale (DPR 380/2001) ed anche dalla stessa legge regionale 12/2005: si verte, infatti, nella materia del “governo del territorio”, oggetto di potestà legislativa regionale concorrente ai sensi dell’art. 117, comma 3, della Costituzione, con conseguente necessità di rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale.
La legislazione regionale, all’art. 51, comma 1, citato, se da una parte ammette in via di principio il passaggio da una destinazione all’altra, fa espressamente salve le esclusioni previste dallo strumento urbanistico generale (<<…salvo quelle eventualmente escluse dal PGT>>).
L’art. 52, comma 2°, del resto, prevede per i mutamenti d’uso senza opere edilizie un obbligo di semplice comunicazione all’Amministrazione, purché i suddetti mutamenti siano <<…conformi alle previsioni urbanistiche comunali ed alla normativa igienico-sanitaria>>.
Quanto alla normativa statale, l’art. 32, comma 1, del DPR 380/2001, qualifica come “variazione essenziale” –sanzionata ai sensi del precedente art. 31 del DPR 380/2001 con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche senza opere edilizie), che implichi una variazione degli standard previsti dal DM 02.04.1968, n. 1444.
Appare quindi evidente che il mutamento di destinazione d’uso, anche senza opere edilizie, non può costituire una operazione edilizia o urbanistica per così dire “neutra”, dovendo l’Amministrazione verificare se il cambio d’uso non abbia inciso anche sul carico urbanistico della zona.
In questo senso appare orientata anche la giurisprudenza amministrativa, per la quale il mutamento di destinazione d’uso è rilevante se avviene fra <<categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico>>, dovendosi in tal caso verificare la variazione del carico urbanistico; parimenti è stato affermato che, indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, rileva il passaggio dell’immobile ad una categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico, con conseguente aumento del carico; in altri termini si configura una “trasformazione edilizia” quando la stessa sia produttiva di vantaggi economici connessi all’utilizzazione del bene immobile, anche senza l’esecuzione di opere edilizie.

Questo TAR ha chiarito (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 27.07.2012, n. 2146), che la specifica disciplina regionale sul mutamento di destinazione d’uso deve essere letta ed interpretata alla luce dei principi fondamentali e delle disposizioni più generali risultanti dalla legislazione statale (DPR 380/2001) ed anche dalla stessa legge regionale 12/2005: si verte, infatti, nella materia del “governo del territorio”, oggetto di potestà legislativa regionale concorrente ai sensi dell’art. 117, comma 3, della Costituzione, con conseguente necessità di rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale.
La legislazione regionale, all’art. 51, comma 1, citato, se da una parte ammette in via di principio il passaggio da una destinazione all’altra, fa espressamente salve le esclusioni previste dallo strumento urbanistico generale (<<…salvo quelle eventualmente escluse dal PGT>>).
L’art. 52, comma 2°, del resto, prevede per i mutamenti d’uso senza opere edilizie un obbligo di semplice comunicazione all’Amministrazione, purché i suddetti mutamenti siano <<…conformi alle previsioni urbanistiche comunali ed alla normativa igienico-sanitaria>>.
Quanto alla normativa statale, l’art. 32, comma 1, del DPR 380/2001, qualifica come “variazione essenziale” –sanzionata ai sensi del precedente art. 31 del DPR 380/2001 con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche senza opere edilizie), che implichi una variazione degli standard previsti dal DM 02.04.1968, n. 1444.
Appare quindi evidente che il mutamento di destinazione d’uso, anche senza opere edilizie, non può costituire una operazione edilizia o urbanistica per così dire “neutra”, dovendo l’Amministrazione verificare se il cambio d’uso non abbia inciso anche sul carico urbanistico della zona.
In questo senso appare orientata anche la giurisprudenza amministrativa, per la quale il mutamento di destinazione d’uso è rilevante se avviene fra <<categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico>>, dovendosi in tal caso verificare la variazione del carico urbanistico (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 13.7.2010, n. 4546, con la giurisprudenza ivi richiamata); parimenti è stato affermato che, indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, rileva il passaggio dell’immobile ad una categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico, con conseguente aumento del carico; in altri termini si configura una “trasformazione edilizia” quando la stessa sia produttiva di vantaggi economici connessi all’utilizzazione del bene immobile, anche senza l’esecuzione di opere edilizie (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14.10.2011, n. 5539, con le pronunce in essa richiamate ed anche TAR Lombardia, Milano, sez. II, 11.02.2011, n. 468) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.10.2012 n. 2593 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICALa scelta della monetizzazione non costituisce una sorta di diritto potestativo del privato, bensì una facoltà per l’Amministrazione, che può quindi escluderla qualora appaia in ogni caso necessaria la concreta realizzazione di opere di urbanizzazione nella zona.
La disponibilità manifestata dalla ricorrente alla monetizzazione dei c.d. standard non assume anch’essa rilievo, visto che la scelta della monetizzazione non costituisce una sorta di diritto potestativo del privato, bensì una facoltà per l’Amministrazione, che può quindi escluderla qualora appaia in ogni caso necessaria la concreta realizzazione di opere di urbanizzazione nella zona (cfr. art. 46, comma 1, lett. b, della LR 12/2005 e in giurisprudenza, TAR Lombardia, Brescia, 13.07.2005, n. 749) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.10.2012 n. 2593 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Se vi è contrasto tra le indicazioni grafiche del piano regolatore generale e le prescrizioni normative, sono queste ultime a prevalere, in quanto in sede di interpretazione degli strumenti urbanistici, le risultanze grafiche possono solo chiarire e completare quanto è normativamente stabilito nel testo, ma non possono sovrapporsi o negare quanto risulta da questo.
E’ principio generale quello secondo il quale, se vi è contrasto tra le indicazioni grafiche del piano regolatore generale e le prescrizioni normative, sono queste ultime a prevalere, in quanto in sede di interpretazione degli strumenti urbanistici, le risultanze grafiche possono solo chiarire e completare quanto è normativamente stabilito nel testo, ma non possono sovrapporsi o negare quanto risulta da questo (Cons. Stato, V, 22.08.2003, n. 4734; sez. IV, 12.06.2007, n. 3081) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.10.2012 n. 5411 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di territorio coperto da bosco nella legislazione paesaggistica deve essere ricavata non solo in senso naturalistico ma anche normativo, riferendosi a provvedimenti legislativi, nazionali e regionali, ed ad atti amministrativi generali o particolari, sicché non è possibile adottare, alla luce della "ratio" della legge n. 431 del 1985, una concezione quantitativa e restrittiva di bosco, dovendosi includere anche le aree limitrofe che servono per la salvaguardia e l'ampliamento, attesa la significativa differenza tra bosco e territorio coperto da bosco, che implica un elemento tipizzante quella zona.
Peraltro, l’adozione da parte del legislatore della formula "territori coperti da foreste e boschi", in luogo di quella prevista dal d.m. 01.09.1984, che sottoponeva a generalizzato vincolo paesaggistico "i boschi e le foreste", implica il riferimento ad una nozione normativa di bosco che non è circoscritta ai soli terreni boscati, ma ad un elemento tipizzante il territorio che non può essere ricoperto da alberi e può servire per salvaguardare il bosco.
In altri termini, il concetto di bosco è da intendersi a livello eco-sistemico, non solo quale formazione vegetale ma quale insieme di elementi biotici, abiotici e paesaggistici che ne connotano il proprio essere peculiare.
Ne consegue che la presenza di essenze arboree e floreali formatesi spontaneamente dimostra la naturale vocazione del terreno a bosco, peraltro normale nei terreni limitrofi ai boschi, allorché venga dissodato il terreno e tolto il manto erboso, come è avvenuto nel caso in esame, in cui è stato effettuato lo scavo propedeutico alla edificazione del fabbricato rurale.

La nozione di territorio coperto da bosco nella legislazione paesaggistica ed in particolare nella legge n. 431 del 1985 ora inserita nel testo del d.lgs. n. 490 del 1999, deve essere ricavata non solo in senso naturalistico ma anche normativo, riferendosi a provvedimenti legislativi, nazionali e regionali, ed ad atti amministrativi generali o particolari, sicché non è possibile adottare, alla luce della "ratio" della legge n. 431 del 1985, una concezione quantitativa e restrittiva di bosco, dovendosi includere anche le aree limitrofe che servono per la salvaguardia e l'ampliamento, attesa la significativa differenza tra bosco e territorio coperto da bosco, che implica un elemento tipizzante quella zona (Cassazione penale, sez. III, 09.06.1994, n. 7556).
Peraltro, l’adozione da parte del legislatore della formula "territori coperti da foreste e boschi", in luogo di quella prevista dal d.m. 01.09.1984, che sottoponeva a generalizzato vincolo paesaggistico "i boschi e le foreste", implica il riferimento ad una nozione normativa di bosco che non è circoscritta ai soli terreni boscati, ma ad un elemento tipizzante il territorio che non può essere ricoperto da alberi e può servire per salvaguardare il bosco.
In altri termini, il concetto di bosco è da intendersi a livello eco-sistemico, non solo quale formazione vegetale ma quale insieme di elementi biotici, abiotici e paesaggistici che ne connotano il proprio essere peculiare.
Ne consegue che la presenza di essenze arboree e floreali formatesi spontaneamente dimostra la naturale vocazione del terreno a bosco, peraltro normale nei terreni limitrofi ai boschi, allorché venga dissodato il terreno e tolto il manto erboso, come è avvenuto nel caso in esame, in cui è stato effettuato lo scavo propedeutico alla edificazione del fabbricato rurale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.10.2012 n. 5410 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ onere di chi intende edificare in zona soggetta a vincolo richiedere all’amministrazione preposta alla tutela del vincolo il parere o nulla osta.
Non può, pertanto, essere imputato al Comune che ha rilasciato il titolo a costruire la responsabilità per non aver chiesto il parere o nulla osta dell’autorità preposta alla tutela del paesaggio.
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La materia della tutela delle zone boscate e dell’ecosistema forestale è disciplinato a livello statale dal RD n. 3267 del 1923 e dal d.lgs. n. 227 del 2001 ed a livello regionale dalla l.regionale n. 27 del 2004.
Le citate disposizioni normative sono preposte alla cura di un interesse pubblico del tutto differente e distinto dalla tutela e valorizzazione del paesaggio e dell’ambiente tutelato da un altro corpo normativo: art. 734 c.p.; d.lgs. n. 42 del 2004; d.lgs. n. 152 del 2006; art. 80 e segg. della l.reg. Lombardia n. 13 del 2005.
In caso di costruzione in zona sottoposta a vincolo paesistico e a vincolo forestale occorrono l’autorizzazione forestale al mutamento di destinazione d’uso da foresta a zona antropizzata da parte dell’ente preposta alla tutela boschiva e l’autorizzazione paesaggistica da parte dell’ente preposto alla tutela paesaggistica oltre naturalmente al permesso di costruire di competenza del Comune.
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La realizzazione di qualunque opera in assenza della prescritta autorizzazione forestale costituisce un illecito amministrativo sanzionato dagli artt. 4 e 23 della l.reg. n. 27 del 2004.
In particolare, l’art. 23 della l.reg. citata stabilisce che la sanzione pecuniaria sia sempre dovuta per il fatto di aver eseguito opere in assenza di autorizzazione (illecito formale) ed in caso di mancato ottenimento o mancata richiesta di autorizzazione in sanatoria, il ripristino dello stato dei luoghi.
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La sanzione ripristinatoria nella materia della tutela del bosco prescinde dal danno ambientale ed è dovuta per il solo fatto dell’eliminazione di una parte di bosco.
Essa è prevista dalla legge, oltre ed a prescindere da quella pecuniaria, sempre e comunque dovuta.

E’, infatti, onere di chi intende edificare in zona soggetta a vincolo richiedere all’amministrazione preposta alla tutela del vincolo il parere o nulla osta.
Non può, pertanto, essere imputato al Comune che ha rilasciato il titolo a costruire la responsabilità per non aver chiesto il parere o nulla osta dell’autorità preposta alla tutela del paesaggio.
Quanto al potere di verifica della compatibilità paesaggistica delle opere esso è autonomo rispetto a quello riguardante il controllo edilizio–urbanistico.
Nella Regione Lombardia, peraltro, le distinte funzioni sono attribuite ad amministrazioni diverse, precisamente la tutela paesaggistica è affidata alla Provincia, mentre quella urbanistica ed edilizia spetta al Comune, sicché la verifica della compatibilità paesaggistica non poteva essere richiesta al Comune.
In conclusione, la circostanza che i ricorrenti disponessero di permesso di costruire e che in forza di tale titolo abbiano effettuato le operazioni di taglio di arbusti, non esclude la configurabilità della violazione in materia paesaggistica.
In ordine all’asserita duplicazione delle ordinanze ingiunzioni, in quanto si fondano sulla stessa violazione accertata dal Corpo Forestale dello Stato, come rilevato dal giudice di primo grado, la duplicazione non sussiste poiché le norme violate sono tra loro in rapporto di specialità con conseguente concorso apparente di norme, poiché tutelano distinti beni giuridici non sovrapponibili tra loro.
La materia della tutela delle zone boscate e dell’ecosistema forestale è disciplinato a livello statale dal RD n. 3267 del 1923 e dal d.lgs. n. 227 del 2001 ed a livello regionale dalla l.regionale n. 27 del 2004.
Le citate disposizioni normative sono preposte alla cura di un interesse pubblico del tutto differente e distinto dalla tutela e valorizzazione del paesaggio e dell’ambiente tutelato da un altro corpo normativo: art. 734 c.p.; d.lgs. n. 42 del 2004; d.lgs. n. 152 del 2006; art. 80 e segg. della l.reg. Lombardia n. 13 del 2005.
In caso di costruzione in zona sottoposta a vincolo paesistico e a vincolo forestale occorrono l’autorizzazione forestale al mutamento di destinazione d’uso da foresta a zona antropizzata da parte dell’ente preposta alla tutela boschiva, nel caso la Provincia di Como e l’autorizzazione paesaggistica da parte dell’ente preposto alla tutela paesaggistica, nel caso ugualmente la Provincia di Como, oltre naturalmente al permesso di costruire di competenza del Comune.
Né può trarre in inganno il fatto che l’autorizzazione paesaggistica e quella forestale siano di competenza dello stesso ente, atteso che vengono rilasciate a seguito di due diversi procedimenti, essendo diverse le finalità della tutela.
La realizzazione di qualunque opera in assenza della prescritta autorizzazione forestale costituisce un illecito amministrativo sanzionato dagli artt. 4 e 23 della l.reg. n. 27 del 2004.
In particolare, l’art. 23 della l.reg. citata stabilisce che la sanzione pecuniaria sia sempre dovuta per il fatto di aver eseguito opere in assenza di autorizzazione (illecito formale) ed in caso di mancato ottenimento o mancata richiesta di autorizzazione in sanatoria, il ripristino dello stato dei luoghi.
Appare evidente a tal punto l’equivoco in cui sono incorsi gli appellanti che hanno ritenuto che l’amministrazione provinciale abbia proceduto ad emanare due sanzioni per uno stesso fatto, senza considerare che con lo stesso fatto erano stati commessi due distinti illeciti amministrativi.
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La sanzione ripristinatoria nella materia della tutela del bosco prescinde dal danno ambientale ed è dovuta per il solo fatto dell’eliminazione di una parte di bosco (cfr. Cons. Stato, sez. V, 02.06.2000, n. 3184).
Essa è prevista dalla legge, oltre ed a prescindere da quella pecuniaria, sempre e comunque dovuta.
Né vi è, quindi, alcuna contraddizione tra quanto valutato dal settore ambiente in ordine alla opportunità del ripristino dello stato dei luoghi e l’obbligo di ripristino dei luoghi in mancanza di sanatoria nella fattispecie di danno ambientale per eliminazione di essenze arboree.
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L’art. 8, comma 1, della l. n. 689 del 1981 stabilisce che “Salvo che sia diversamente stabilito dalla legge, chi con una azione od omissione viola diverse disposizioni che prevedono sanzioni amministrative e commette più violazioni della stessa disposizione, soggiace alla sanzione prevista per la violazione più grave, aumentata sino al triplo”.
La norma di portata generale non consente alcun distinguo tra illeciti formali o sostanziali.

Il divieto di cumulo di sanzioni per il caso di più illeciti commessi con un’unica azione o un unico disegno criminoso prescinde dalla valutazione del tipo di reato e delle diverse autorità cui spetta il potere sanzionatorio, essendo una disposizione a favore del reo, onde mitigare l’effetto sanzionatorio dell’azione delittuosa che contestualmente abbia causato più violazioni distintamente tutelate.
La regola dettata dall’art. 8 della l. n. 689 del 1981 è conforme a principi di civiltà giuridica, sicché la sua applicazione non può essere esclusa da difficoltà pratiche, quali la mancanza di criteri normativi per la determinazione delle sanzioni.
Ben può valutarsi in concreto quale sia la sanzione più grave applicata dall’amministrazione ed applicare successivamente il correttivo dell’aumento del triplo.
Nel caso, come correttamente rilevato dal TAR, essendo stata parametrata la sanzione in materia paesaggistica ai criteri fissati dall’art. 23 della l.reg. n. 27 del 2004 che sanzionano gli illeciti forestali, applicati anche dal Dirigente di Polizia locale, v’era equivalenza delle sanzioni e, quindi era di semplice applicazione il criterio indicato dall’art. 8, comma 1, della l. n. 689 del 1981
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.10.2012 n. 5410 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’istituto dell’avvalimento è di immediata e generale applicazione. E ciò in coerenza con un condivisibile indirizzo giurisprudenziale.
L’istituto di matrice comunitaria è finalizzato a consentire in concreto la concorrenza aprendo il mercato ad operatori economici di per sé privi di requisiti di carattere economico–finanziario, tecnico–organizzativo, consentendo di avvalersi dei requisiti di capacità di altre imprese.
Gli articoli 47 e 48 della Direttiva 2004/18/CE, rispettivamente rubricati “Capacità economica e finanziaria” e “Capacità tecniche e professionali” individuano i requisiti che debbono possedere gli operatori per contrarre con la p.a.. L’art. 48, dopo aver elencato i diversi requisiti richiesti, stabilisce che un operatore economico, per un determinato appalto, può fare affidamento sulla capacità di altri soggetti a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi.
L’art. 49 del d.lgs. n. 163 del 2006 , che ha trasfuso nell’ordinamento italiano l’art. 48 della direttiva, afferma che il concorrente “…può soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico–finanziario, tecnico–organizzativo, ovvero di attestazione della certificazione SOA, avvalendosi dei requisiti di un altro soggetto o dell’attestazione SOA di altro soggetto”.
Il successivo art. 50, rubricato “avvalimento nel caso di operatività di sistemi di attestazione o di sistemi di qualificazione”, disciplina le modalità attraverso le quali un concorrente sprovvisto di attestazione SOA può avvalersi in via generale e per un determinato periodo, dell’attestazione di altro operatore economico.
La formulazione del citato art. 49 è, dunque, molto ampia e non prevede alcun divieto, sicché ben può l’avvalimento riferirsi anche alla certificazione di qualità di altro operatore economico, attenendo essa ai requisiti di capacità tecnica, non rilevando, in contrario, che la certificazione di qualità è requisito immanente l’impresa.
Invero, la certificazione di qualità, essendo connotata dal precipuo fine di valorizzare gli elementi di eccellenza dell’organizzazione complessiva, è da considerarsi anch’essa requisito di idoneità tecnico organizzativa dell’impresa, da inserirsi tra gli elementi idonei a dimostrare la capacità tecnico professionale di un’impresa, assicurando che l’impresa cui sarà affidato il servizio o la fornitura sarà in grado di effettuare la prestazione nel rispetto di un livello minimo di qualità accertato da un organismo a ciò predisposto.
In tale ottica, afferendo la certificazione di qualità alla capacità tecnica dell’imprenditore, essa è coerente all’istituto dell’avvalimento quale disciplinato con l’art. 49 del d.lgs. n. 163 del 2006, ma lo è anche con la procedura di gara qui in questione, con le norme del disciplinare di gara e, segnatamente, con la disposizione del capo 2, lett. 2).

E’ infondato il primo articolato motivo d’appello, con il quale la ricorrente assume l’erroneità della sentenza di primo grado, nella parte in cui avrebbe ritenuto ammissibile il ricorso all’avvalimento anche con riferimento alla certificazione di qualità, malgrado la previsione della lex di gara consentisse di avvalersi dell’istituto solamente con riguardo ai requisiti di capacità tecnica.
Come ben evidenziato in sentenza, l’istituto dell’avvalimento è di immediata e generale applicazione. E ciò, rileva la Sezione, in coerenza con un condivisibile indirizzo giurisprudenziale (cfr. Cons. Stato III, 18.04.2011 e V, 23.05.2011, n. 3066).
L’istituto di matrice comunitaria è finalizzato a consentire in concreto la concorrenza aprendo il mercato ad operatori economici di per sé privi di requisiti di carattere economico–finanziario, tecnico–organizzativo, consentendo di avvalersi dei requisiti di capacità di altre imprese.
Gli articoli 47 e 48 della Direttiva 2004/18/CE, rispettivamente rubricati “Capacità economica e finanziaria” e “Capacità tecniche e professionali” individuano i requisiti che debbono possedere gli operatori per contrarre con la p.a.. L’art. 48, dopo aver elencato i diversi requisiti richiesti, stabilisce che un operatore economico, per un determinato appalto, può fare affidamento sulla capacità di altri soggetti a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi.
L’art. 49 del d.lgs. n. 163 del 2006 , che ha trasfuso nell’ordinamento italiano l’art. 48 della direttiva, afferma che il concorrente “…può soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico–finanziario, tecnico–organizzativo, ovvero di attestazione della certificazione SOA, avvalendosi dei requisiti di un altro soggetto o dell’attestazione SOA di altro soggetto”.
Il successivo art. 50, rubricato “avvalimento nel caso di operatività di sistemi di attestazione o di sistemi di qualificazione”, disciplina le modalità attraverso le quali un concorrente sprovvisto di attestazione SOA può avvalersi in via generale e per un determinato periodo, dell’attestazione di altro operatore economico.
La formulazione del citato art. 49 è, dunque, molto ampia e non prevede alcun divieto, sicché ben può l’avvalimento riferirsi anche alla certificazione di qualità di altro operatore economico, attenendo essa ai requisiti di capacità tecnica, non rilevando, in contrario, che la certificazione di qualità è requisito immanente l’impresa.
Invero, la certificazione di qualità, essendo connotata dal precipuo fine di valorizzare gli elementi di eccellenza dell’organizzazione complessiva, è da considerarsi anch’essa requisito di idoneità tecnico organizzativa dell’impresa, da inserirsi tra gli elementi idonei a dimostrare la capacità tecnico professionale di un’impresa, assicurando che l’impresa cui sarà affidato il servizio o la fornitura sarà in grado di effettuare la prestazione nel rispetto di un livello minimo di qualità accertato da un organismo a ciò predisposto (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 22.03.2004, n. 1459).
In tale ottica, afferendo la certificazione di qualità alla capacità tecnica dell’imprenditore, essa è coerente all’istituto dell’avvalimento quale disciplinato con l’art. 49 del d.lgs. n. 163 del 2006, ma lo è anche con la procedura di gara qui in questione, con le norme del disciplinare di gara e, segnatamente, con la disposizione del capo 2, lett. 2).
Non sussiste, in conseguenza, il lamentato travisamento della censura di violazione della lex specialis di gara, avendo il TAR aderito all’opzione ermeneutica, che si condivide, che annovera la certificazione di qualità tra i requisiti speciali di carattere tecnico organizzativo, suscettibile, ai sensi del citato capo 2) del disciplinare di gara, di prestito da parte dell’ausiliaria (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.10.2012 n. 5408 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’art. 46 del d.lgs. n. 163 del 2006 espressamente attribuisce all’amministrazione appaltante la facoltà di invitare le imprese a chiarire certificati, documenti, dichiarazioni presentati.
Tale facoltà, espressione di un corretto esercizio del c.d. “dovere di soccorso” è consentito ove sia esercitato secondo i principi generali della buona fede e della ragionevolezza, raccordato all’esigenza di carattere generale delle pubbliche gare di consentire la massima partecipazione, che potrebbe essere compromessa da carenze di ordine meramente formale.
Naturalmente, la richiesta di completamento della documentazione o delle dichiarazioni presentate o di trasmissione dei necessari chiarimenti è rimessa al prudente apprezzamento dell’amministrazione, senza che, in assenza di regole tassative e di preclusioni imposte, l’esercizio di tale facoltà possa configurare una violazione della par condicio dei concorrenti e non vi sia una modificazione del contenuto della documentazione prodotta.

Come rilevato in sentenza, la concreta operatività del meccanismo di avvalimento implica assunzione di responsabilità dell’impresa ausiliaria e non la creazione di una struttura associativa, sicché se il concorrente è un raggruppamento, è la mandataria che stipula il relativo contratto di avvalimento, nella qualità di rappresentante dell’a.t.i..
La ricorrente censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto che la stazione appaltante abbia illegittimamente utilizzato l’istituto ex art. 46 del d.lgs. n. 163 del 2006, al fine di richiedere ai professionisti associati di specificare il possesso, da parte di ciascuno di essi, dei rispettivi requisiti, già dichiarati cumulativamente.
Tale modus operandi della stazione appaltante, invero, non appare in violazione di norme, atteso che è volta ad un chiarimento di documentazione già tempestivamente prodotta in sede di partecipazione alla gara.
L’art. 46 del d.lgs. n. 163 del 2006 espressamente attribuisce all’amministrazione appaltante la facoltà di invitare le imprese a chiarire certificati, documenti, dichiarazioni presentati.
Tale facoltà, espressione di un corretto esercizio del c.d. “dovere di soccorso” è consentito ove sia esercitato secondo i principi generali della buona fede e della ragionevolezza, raccordato all’esigenza di carattere generale delle pubbliche gare di consentire la massima partecipazione, che potrebbe essere compromessa da carenze di ordine meramente formale.
Naturalmente, la richiesta di completamento della documentazione o delle dichiarazioni presentate o di trasmissione dei necessari chiarimenti è rimessa al prudente apprezzamento dell’amministrazione, senza che, in assenza di regole tassative e di preclusioni imposte, l’esercizio di tale facoltà possa configurare una violazione della par condicio dei concorrenti e non vi sia una modificazione del contenuto della documentazione prodotta (cfr. Cons. stato, sez. I, 18.03.2009, n. 701; sez. III, 31.12.2010, n. 39288; sez. VI, 17.12.2008, n. 6281)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.10.2012 n. 5408 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nelle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, come non vi è incompatibilità tra le funzioni di presidente della commissione di gara e quella di responsabile del procedimento, ugualmente non vi è incompatibilità nel caso in cui al responsabile del procedimento sia stato attribuito il compito di approvare gli atti di gara, atteso che detta approvazione non può essere compresa nella nozione di controllo in senso stretto, ma si risolve in una revisione interna della correttezza del procedimento spettante alla figura dirigenziale.
Infondata è anche la doglianza sull’asserita incompatibilità del RUP per la duplice qualità di controllore e controllato, in quanto designato presidente della commissione di gara.
Conformemente a giurisprudenza consolidata, va ribadito che nelle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, come non vi è incompatibilità tra le funzioni di presidente della commissione di gara e quella di responsabile del procedimento, ugualmente non vi è incompatibilità nel caso in cui al responsabile del procedimento sia stato attribuito il compito di approvare gli atti di gara, atteso che detta approvazione non può essere compresa nella nozione di controllo in senso stretto, ma si risolve in una revisione interna della correttezza del procedimento spettante alla figura dirigenziale (cfr. Cons. Stato, sez. V, 22.06.2010, n. 3890)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.10.2012 n. 5408 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In sede di gara pubblica, la verifica dell'integrità dei plichi contenenti l'offerta tecnica (così come la documentazione amministrativa e l'offerta economica) non esaurisce la sua funzione nella constatazione che gli stessi non hanno subito manomissioni o alterazioni, ma è destinata a garantire che il materiale documentario trovi correttamente ingresso nella procedura di gara, giacché la pubblicità delle sedute risponde all'esigenza di tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che non siano successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche dell'interesse pubblico alla trasparenza ed all'imparzialità dell'azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in mancanza di un riscontro immediato; il riconoscimento di un preciso obbligo di svolgimento in seduta pubblica delle predette operazioni è sorretto da puntuali previsioni normative di pubblicità (art. 64, comma 5, 67 comma 5, 91 comma 3, d.p.r. n. 554 del 1999, applicabile alla fattispecie ratione temporis e ora dal d.p.r. n. 207 del 2010).
Ciò premesso ed in base ad una corretta interpretazione dei principi comunitari e di diritto interno in materia di trasparenza e pubblicità delle gare per i pubblici appalti, in particolare, la pubblicità va estesa anche all’apertura della busta delle offerte tecniche.

Rileva la Sezione che, come affermato dall’Adunanza Plenaria n. 13 del 04.07.2011, in sede di gara pubblica, la verifica dell'integrità dei plichi contenenti l'offerta tecnica (così come la documentazione amministrativa e l'offerta economica) non esaurisce la sua funzione nella constatazione che gli stessi non hanno subito manomissioni o alterazioni, ma è destinata a garantire che il materiale documentario trovi correttamente ingresso nella procedura di gara, giacché la pubblicità delle sedute risponde all'esigenza di tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che non siano successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche dell'interesse pubblico alla trasparenza ed all'imparzialità dell'azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in mancanza di un riscontro immediato; il riconoscimento di un preciso obbligo di svolgimento in seduta pubblica delle predette operazioni è sorretto da puntuali previsioni normative di pubblicità (art. 64, comma 5, 67 comma 5, 91 comma 3, d.p.r. n. 554 del 1999, applicabile alla fattispecie ratione temporis e ora dal d.p.r. n. 207 del 2010).
Secondo la citata sentenza in base ad una corretta interpretazione dei principi comunitari e di diritto interno in materia di trasparenza e pubblicità delle gare per i pubblici appalti, in particolare, la pubblicità va estesa anche all’apertura della busta delle offerte tecniche.
Fermo tanto, appare evidente l’illegittimità dell’operato della commissione di gara che ha proceduto in seduta riservata alla apertura delle buste tecniche e in data 09.12.2009 ad una nuova verifica delle offerte economiche, sulla base di formule diverse da quelle richiamate nella prima seduta pubblica rideterminando i coefficienti da attribuire , con riformulazione della graduatoria provvisoria, di cui al verbale di gara della seduta pubblica del 07.12.2009.
La violazione dell’obbligo di pubblicità in una fase della procedura delle gare ad evidenza pubblica, normativamente prevista è talmente evidente da assorbire le questioni relative alla correttezza o meno della formula per come inizialmente interpretata e applicata.
Invero, poco conta se il seggio di gara abbia giustamente proceduto alla correzione dell’applicazione della formula matematica una volta avvedutasi di essere incorsa in errore (la commissione di gara a seguito di ulteriori approfondimenti e verifiche della documentazione dell’offerta economica e dell’assegnazione dei punteggi, ritenuta errata la precedente applicazione della formula matematica dettata dal disciplinare di gara ed i relativi coefficienti e punteggi, riformulava la graduatoria provvisoria, con scivolamento dell’a.t.i. Sacco dal primo al secondo posto della graduatoria provvisoria), essendo suo onere svolgere tale operazione in seduta pubblica previa comunicazione alle ditte partecipanti e quindi con possibilità di partecipazione delle medesime.
La censura è, dunque, fondata con riguardo al vizio del procedimento, in relazione alla necessaria pubblicità dell’apertura delle buste tecniche e non essendo consentito alla stazione appaltante di procedere ad operazioni che avvengono in seduta pubblica, qual è la valutazione delle offerte economiche, senza avvertire le parti interessate, a nulla rilevando che trattandosi dell’applicazione di un mero criterio matematico, gli esiti , una volta giustificata la correzione , risultavano del tutto automatici.
Tali vizi non sono tuttavia determinanti per l’annullamento degli atti di gara.
Effettivamente la commissione di gara aveva commesso un errore nell’applicazione della formula aritmetica prevista dalla lex specialis per la valutazione dell’offerta economica.
Ne consegue che, ove fosse rinnovata questa fase del procedimento emendata dai vizi che l’hanno contrassegnata, l’esito della gara vedrebbe aggiudicataria ugualmente la Geo Cantieri. Risulterebbe tuttavia non assorbita la lesione dell’interesse relativamente alla mancata apertura pubblica delle buste tecniche. Per tale parte l’annullamento della gara non trova tuttavia riscontro in un interesse dell’appellante alla rinnovazione della gara (né tanto meno al subentro contrattuale), in quanto come detto il contratto è stato a suo tempo stipulato e alla data della odierna decisione, quasi integralmente eseguito.
Il Collegio deve dunque limitarsi, giusto il disposto dell’art. 34, comma 3, cod. proc. amm. ad emettere declaratoria di accertamento in parte qua dell’illegittimità degli atti impugnati (cfr. di questa Sezione la sentenza n. 2817/2011), in relazione alle eventuali conseguenze risarcitorie (cfr. art. 30, comma 5, c.p.a.).
A questo riguardo va precisato che sussiste certamente l’interesse dell’appellante alla pronuncia dichiarativa in questione, visto che la domanda di risarcimento danni è stata azionata in questo giudizio in modo generico e in assenza di qualsivoglia allegazione ed offerta di prova
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.10.2012 n. 5408 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nelle procedure ad evidenza pubblica le clausole di esclusione, poste dalla legge o dal bando in ordine alle dichiarazioni cui è tenuta la impresa partecipante alla gara, sono di stretta interpretazione dovendosi dare esclusiva prevalenza alle espressioni letterali in esse contenute, restando preclusa ogni forma di estensione analogica diretta ad evidenziare significati impliciti, che rischierebbe di vulnerare l’affidamento dei partecipanti, la par condicio dei concorrenti e l’esigenza della più ampia partecipazione; pertanto le norme di legge e di bando, che disciplinano i requisiti soggettivi di partecipazione alle gare pubbliche, devono essere interpretate nel rispetto del principio di tipicità e tassatività delle ipotesi di esclusione che di per sé costituiscono fattispecie di restrizione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41, cost., oltre che dal Trattato comunitario.
Ed al riguardo, non può che richiamarsi il consolidato insegnamento della giurisprudenza anche di questa Sezione, secondo cui "nelle procedure ad evidenza pubblica le clausole di esclusione, poste dalla legge o dal bando in ordine alle dichiarazioni cui è tenuta la impresa partecipante alla gara, sono di stretta interpretazione dovendosi dare esclusiva prevalenza alle espressioni letterali in esse contenute, restando preclusa ogni forma di estensione analogica diretta ad evidenziare significati impliciti, che rischierebbe di vulnerare l’affidamento dei partecipanti, la par condicio dei concorrenti e l’esigenza della più ampia partecipazione; pertanto le norme di legge e di bando, che disciplinano i requisiti soggettivi di partecipazione alle gare pubbliche, devono essere interpretate nel rispetto del principio di tipicità e tassatività delle ipotesi di esclusione che di per sé costituiscono fattispecie di restrizione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41, cost., oltre che dal Trattato comunitario" (cfr. Sez. V, n. 3213 del 21.05.2010) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.10.2012 n. 5393 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Anche prima della positivizzazione (ad opera del decreto-legge n. 70 del 2011) del principio di tassatività delle clausole di esclusione nell’ambito delle pubbliche gare, la giurisprudenza aveva fissato il principio secondo cui le clausole della lex specialis, ancorché contenenti comminatorie di esclusione, non possono essere applicate meccanicisticamente, ma secondo il principio di ragionevolezza, e devono essere valutate alla stregua dell’interesse che la norma violata è destinata a presidiare per cui, ove non sia ravvisabile la lesione di un interesse pubblico effettivo e rilevante, deve essere accordata la preferenza al favor partecipationis.
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Ai sensi dell'articolo 83, comma 1, punto 5 del ‘codice di contratti’, non è precluso all'Amministrazione individuare, nei casi da esso disciplinati, un semplice criterio numerico per esprimere il proprio giudizio sui vari aspetti da considerare nella valutazione dell'offerta presentata nell'ambito di una gara di appalto, né è necessario che a detto criterio numerico si accompagnino comunque criteri ulteriori, di tipo argomentativo e descrittivo, mentre ciò che è invece necessario è che sussista comunque la possibilità di ripercorrere, e per ciò solo di controllare, il percorso valutativo compiuto dalla commissione di gara, la quale altrimenti sarebbe investita non di un potere discrezionale, per quanto ampio, ma di un vero e proprio arbitrio, non ammissibile come tale.

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E infatti, anche prima della positivizzazione (ad opera del decreto-legge n. 70 del 2011) del principio di tassatività delle clausole di esclusione nell’ambito delle pubbliche gare, la giurisprudenza aveva fissato il principio secondo cui le clausole della lex specialis, ancorché contenenti comminatorie di esclusione, non possono essere applicate meccanicisticamente, ma secondo il principio di ragionevolezza, e devono essere valutate alla stregua dell’interesse che la norma violata è destinata a presidiare per cui, ove non sia ravvisabile la lesione di un interesse pubblico effettivo e rilevante, deve essere accordata la preferenza al favor partecipationis (in tal senso: Cons. Stato, III, 12.05.2011, n. 2851; id., VI, 08.03.2010, n. 1305).
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Al riguardo si ritiene di richiamare il condiviso orientamento secondo cui, ai sensi dell'articolo 83, comma 1, punto 5 del ‘codice di contratti’, non è precluso all'Amministrazione individuare, nei casi da esso disciplinati, un semplice criterio numerico per esprimere il proprio giudizio sui vari aspetti da considerare nella valutazione dell'offerta presentata nell'ambito di una gara di appalto, né è necessario che a detto criterio numerico si accompagnino comunque criteri ulteriori, di tipo argomentativo e descrittivo, mentre ciò che è invece necessario è che sussista comunque la possibilità di ripercorrere, e per ciò solo di controllare, il percorso valutativo compiuto dalla commissione di gara, la quale altrimenti sarebbe investita non di un potere discrezionale, per quanto ampio, ma di un vero e proprio arbitrio, non ammissibile come tale (Cons. Stato, V, 16.06.2010, n. 3806)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 19.10.2012 n. 5389 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’interesse a ricorrere avverso il provvedimento di esclusione da una gara pubblica è configurabile ex se e non richiede la dimostrazione che l'esito della gara sarebbe stato sicuramente o probabilmente favorevole al ricorrente nelle ipotesi in cui il criterio di aggiudicazione previsto sia di tipo non automatico, in quanto la parte ricorrente ha interesse a veder valutata la propria offerta in sede di gara e dunque è portatrice di un interesse strumentale all'annullamento degli atti impugnati e alla rinnovazione della procedura atteso che dal rinnovo deriva una nuova chance di partecipazione e di vittoria.
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L’esclusione da una gara pubblica può legittimamente essere disposta ove il concorrente abbia violato previsioni poste a tutela degli interessi sostanziali dell'Amministrazione o a protezione della par condicio tra i concorrenti e la carenza essenziale del contenuto o delle modalità di presentazione, che giustifica detta esclusione, deve in primo luogo riferirsi all'offerta, incidendo oggettivamente sulle componenti del suo contenuto ovvero sulle produzioni documentali a suo corredo dirette a definire il contenuto delle garanzie e l'impegno dell'aggiudicatario, in rispondenza ad un interesse sostanziale della stazione appaltante, costituendo il canone dell'utilità delle clausole e della necessità di evitare inutili appesantimenti, nonché di garantire in massimo grado la partecipazione dei concorrenti, nel rispetto della par condicio, metodo operativo ed interpretativo irrinunciabile.
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In presenza di una clausola del bando di gara di ambigua formulazione, non è necessaria l'immediata impugnazione della clausola stessa dal momento che la lesività della posizione del contraente si configura solamente al momento della sua esclusione.

Al riguardo il Collegio ritiene di prestare adesione (non rinvenendosi ragioni per discostarsene) all’orientamento secondo cui l’interesse a ricorrere avverso il provvedimento di esclusione da una gara pubblica è configurabile ex se e non richiede la dimostrazione che l'esito della gara sarebbe stato sicuramente o probabilmente favorevole al ricorrente nelle ipotesi in cui (come nel caso che qui ricorre) il criterio di aggiudicazione previsto sia di tipo non automatico, in quanto la parte ricorrente ha interesse a veder valutata la propria offerta in sede di gara e dunque è portatrice di un interesse strumentale all'annullamento degli atti impugnati e alla rinnovazione della procedura atteso che dal rinnovo deriva una nuova chance di partecipazione e di vittoria (Cons. Stato, V, 17.05.2012, n. 2826; id.,V, 18.11.2011, n. 6090).
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Deve prestarsi puntuale adesione all’orientamento secondo cui l’esclusione da una gara pubblica può legittimamente essere disposta ove il concorrente abbia violato previsioni poste a tutela degli interessi sostanziali dell'Amministrazione o a protezione della par condicio tra i concorrenti e la carenza essenziale del contenuto o delle modalità di presentazione, che giustifica detta esclusione, deve in primo luogo riferirsi all'offerta, incidendo oggettivamente sulle componenti del suo contenuto ovvero sulle produzioni documentali a suo corredo dirette a definire il contenuto delle garanzie e l'impegno dell'aggiudicatario, in rispondenza ad un interesse sostanziale della stazione appaltante, costituendo il canone dell'utilità delle clausole e della necessità di evitare inutili appesantimenti, nonché di garantire in massimo grado la partecipazione dei concorrenti, nel rispetto della par condicio, metodo operativo ed interpretativo irrinunciabile (Cons. Stato, V, 28.02.2011, n. 1245).
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Deve essere richiamato il condiviso orientamento secondo cui, in presenza di una clausola del bando di gara di ambigua formulazione, non è necessaria l'immediata impugnazione della clausola stessa dal momento che la lesività della posizione del contraente si configura solamente al momento della sua esclusione (Cons. Stato, V, 25.03.2002, n. 1683)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 19.10.2012 n. 5389 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl concetto di ristrutturazione di un edificio preesistente presuppone che non si tratti di opere implicanti radicali interventi di adattamento delle strutture interne eseguite per creare nuovi vani o volumi, in quanto l’aumento di questi ultimi determina a sua volta un maggiore carico urbanistico di cui l’amministrazione non può non tenere conto in sede di approvazione del progetto stesso.
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Nel caso di specie, il progetto presentato realizza all’evidenza un intervento di ristrutturazione urbanistica dell’area, in quanto esso interviene su alcuni capannoni di proprietà della società ricorrente attraverso un insieme di opere volte a trasformare le strutture preesistenti da immobili ad uso produttivo in immobili ad uso misto, attraverso la creazione di una serie di appartamenti residenziali e relativi giardini di pertinenza nonché di un certo numero di laboratori.
Tutto ciò anche con la prevista demolizione e ricostruzione di alcuni dei fabbricati e con lo svuotamento di porzioni di immobili, onde ricavare adeguati rapporti aeroilluminanti.
Il progetto modifica, quindi, in maniera sostanziale la consistenza e la struttura degli edifici preesistenti, peraltro monofunzionali, e del tessuto urbanistico su cui gli stessi ricadono, mediante un diverso disegno della struttura dei lotti.
Né vale assumere che "il sedime dei fabbricati oggetto di intervento risulta essere il medesimo dello stato di fatto, ad eccezione degli svuotamenti eseguiti per questioni di regolarità normative edilizie di carattere igienico sanitario e di tutte le superfetazioni e tettoie evidenziate in apposito allegato” perché se anche quell’affermazione fosse vera è altrettanto vero che, per effetto di tutte le modifiche richieste o imposte dalla diversa destinazione d’uso impressa alle strutture edilizie, la morfologia del lotto (come da stato di fatto) dal punto di vista formale appare sostanzialmente modificata (recte destinata ad essere modificata) nella misura chiaramente evidenziata dallo stato di progetto ricavato dalla planimetria generale.
E questo ha indotto l’amministrazione a inibire l’esecuzione dei lavori, laddove gli stessi trasmodano da semplice intervento di ristrutturazione edilizia in intervento di rilievo urbanistico, soprattutto nella parte funzionale (che coinvolge l’intero lotto) e che prevede il mutamento di destinazione d’uso del (già) capannone in residenza con annessi spazi privati e laboratori.

Il nucleo delle censure contesta, infatti, nella sostanza, sotto i profili rubricati, il giudizio espresso dall’amministrazione comunale che, contrariamente a quanto dichiarato dalla ricorrente, ha riqualificato il complesso intervento oggetto di D.I.A. da ristrutturazione edilizia a ristrutturazione urbanistica “in quanto esso è rivolto a sostituire l’esistente tessuto urbanistico ed edilizio con altro sostanzialmente diverso, senza peraltro rispettare la previsione del P.R.G. vigente”.
E ciò mediante un insieme sistematico di opere edilizie comportanti anche modifica del disegno dei lotti e degli isolati, che in quanto tale non può essere attuato ai sensi dell’art. 22 del d.P.R. 380/2001 e dell’art. 4 della l.r. 22/1999.
L’art. 3, comma 1, lett. f), del d.P.R. 380/2001 definisce, infatti, come interventi di ristrutturazione urbanistica “quelli rivolti a sostituire l’esistente tessuto urbanistico ed edilizio con altro diverso, mediante un insieme sistematico di interventi edilizi anche con la modifica del disegno dei lotti , degli isolati e della rete stradale”.
Gli interventi di ristrutturazione edilizia sono invece “quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente". Tali interventi più limitati comprendono “il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione o la modifica e l’inserimento di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione o la modifica e l’inserimento di nuovi elementi e impianti” (art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 380/2001).
La norma da ultimo citata prevede inoltre che siano ricompresi nell’ambito della ristrutturazione edilizia “gli interventi consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quella preesistente”.
In realtà, contrariamente a quanto sostiene parte ricorrente, la giurisprudenza ha chiarito che il concetto di ristrutturazione di un edificio preesistente presuppone che non si tratti di opere implicanti radicali interventi di adattamento delle strutture interne eseguite per creare nuovi vani o volumi, in quanto l’aumento di questi ultimi determina a sua volta un maggiore carico urbanistico di cui l’amministrazione non può non tenere conto in sede di approvazione del progetto stesso (cfr. C.d.S. sez. 5^ 10.08.2000 n. 4397).
Ora, nel caso di specie, il progetto presentato dalla società ricorrente realizza all’evidenza –il Collegio ne ha preso visione in contraddittorio anche nel corso della discussione in udienza- un intervento di ristrutturazione urbanistica dell’area, in quanto esso interviene su alcuni capannoni di proprietà della società ricorrente attraverso un insieme di opere volte a trasformare le strutture preesistenti da immobili ad uso produttivo in immobili ad uso misto, attraverso la creazione di una serie di appartamenti residenziali e relativi giardini di pertinenza nonché di un certo numero di laboratori.
Tutto ciò anche con la prevista demolizione e ricostruzione di alcuni dei fabbricati e con lo svuotamento di porzioni di immobili, onde ricavare adeguati rapporti aeroilluminanti.
Il progetto, come sostiene la difesa dell’amministrazione, modifica, quindi, in maniera sostanziale la consistenza e la struttura degli edifici preesistenti, peraltro monofunzionali, e del tessuto urbanistico su cui gli stessi ricadono, mediante un diverso disegno della struttura dei lotti (cfr. doc. 3 e 4 prodotti il 04.05.2012 dalla parte ricorrente da cui emerge con chiara evidenza la rilevanza della trasformazione urbanistica che l’intervento comporta).
Né vale assumere che, come si legge nella perizia stragiudiziale “il sedime dei fabbricati oggetto di intervento risulta essere il medesimo dello stato di fatto, ad eccezione degli svuotamenti eseguiti per questioni di regolarità normative edilizie di carattere igienico sanitario e di tutte le superfetazioni e tettoie evidenziate in apposito allegato” perché se anche quell’affermazione fosse vera è altrettanto vero che, per effetto di tutte le modifiche richieste o imposte dalla diversa destinazione d’uso impressa alle strutture edilizie, la morfologia del lotto (come da stato di fatto) dal punto di vista formale appare sostanzialmente modificata (recte destinata ad essere modificata) nella misura chiaramente evidenziata dallo stato di progetto ricavato dalla planimetria generale.
E questo ha indotto l’amministrazione a inibire l’esecuzione dei lavori, laddove gli stessi trasmodano da semplice intervento di ristrutturazione edilizia in intervento di rilievo urbanistico, soprattutto nella parte funzionale (che coinvolge l’intero lotto) e che prevede il mutamento di destinazione d’uso del (già) capannone in residenza con annessi spazi privati e laboratori.
A ciò va aggiunto, ed è cosa che rileva ai fini della configurazione dell’intervento come semplice ristrutturazione edilizia, che nel referto istruttorio a firma del Dirigente del Settore Edilizia datato 03.05.2004 si dà atto che “non è possibile verificare la conformità del progetto alle norme di P.R.G. relative alla densità fondiaria in quanto non sono state prodotte le verifiche volumetriche”.
Dallo stesso referto si evince, inoltre, che nel progetto in esame “non viene indicato alcuno spazio per parcheggi pubblici e/o privati né indicata alcuna sistemazione degli spazi aperti comuni in relazione anche all’utilizzo misto degli edifici”.
Il motivo, fermo quanto si aggiungerà in seguito in merito alla censura di difetto di motivazione e di integrazione della motivazione, è quindi infondato, non sussistendo, sotto i profili della qualificazione dell’intervento e dei conseguenti profili di violazione di legge, alcuna motivazione erronea né alcun travisamento di fatto riferibile alla natura sostanziale del progetto in questione, che per le sue caratteristiche morfologiche e funzionali non può essere qualificato, a giudizio del Collegio, come intervento di semplice ristrutturazione edilizia ma di ristrutturazione urbanistica dell’area (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.10.2012 n. 2563 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIE' illegittima la ex specialis di gara ove preveda l'inserimento, nell'ambito di un'unica busta, tanto dell'offerta tecnico-funzionale, quanto di quella economica, atteso che in tal modo viene a determinarsi un'inammissibile commistione tra gli elementi tecnici e quelli economici dell’offerta stessa.
Infatti, nel caso di aggiudicazione secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, le offerte economiche devono restare segrete per evitare che gli elementi di valutazione aventi carattere automatico, quali il prezzo, possano influenzare la valutazione degli elementi discrezionali, cosicché nel caso della denunciata commistione risulta violata la regola della par condicio espressamente sancita, tra i principi generali relativi alle procedure per l’affidamento dei contratti pubblici dall'art. 2 del d.lgs. n. 163/2006.
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Il cottimo fiduciario, ex art. 125, comma 4, del d.lgs. n. 163/2006, ha natura di procedura negoziata ai sensi dell'art. 57 del medesimo decreto.
Ne segue che il principio sopra affermato -che risponde all'esigenza di garantire la trasparenza delle operazioni di gara- opera, indipendentemente dal fatto che il bando lo preveda, in tutte le ipotesi in cui all'aggiudicazione si pervenga attraverso un'attività di tipo procedimentale (cfr. l'art. 2 del citato d.lgs. n. 163/2006), ancorché semplificata e quindi anche in relazione ai cottimi fiduciari.
Dunque, anche nell’ipotesi di scelta di una procedura semplificata, continua a trovare applicazione il principio, posto a tutela dell'imparzialità, della trasparenza, del corretto svolgimento della procedura, in base al quale vanno tenute separate e distinte l’offerta tecnica da quella economica, nel mentre la fase di apertura dei plichi contenenti la documentazione amministrativa e la verifica della stessa, nonché quella di apertura delle buste con le offerte economiche devono sempre avvenire in seduta pubblica.
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Negli appalti pubblici da aggiudicare con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa il principio della pubblicità delle operazioni da svolgere trova applicazione con specifico riferimento anche all'apertura della busta dell'offerta tecnica, atteso che la pubblicità delle sedute di gara risponde all'esigenza di tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che non siano successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche dell'interesse pubblico alla trasparenza e all'imparzialità dell'azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in mancanza di un riscontro immediato.

In proposito la giurisprudenza è ferma nel ritenere l’illegittimità della lex specialis di gara ove preveda l'inserimento, nell'ambito di un'unica busta, tanto dell'offerta tecnico-funzionale, quanto di quella economica, atteso che in tal modo viene a determinarsi un'inammissibile commistione tra gli elementi tecnici e quelli economici dell’offerta stessa. Infatti, nel caso di aggiudicazione secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, le offerte economiche devono restare segrete per evitare che gli elementi di valutazione aventi carattere automatico, quali il prezzo, possano influenzare la valutazione degli elementi discrezionali, cosicché nel caso della denunciata commistione risulta violata la regola della par condicio espressamente sancita, tra i principi generali relativi alle procedure per l’affidamento dei contratti pubblici dall'art. 2 del d.lgs. n. 163/2006 (Cons. Stato, sez. III, 11.03.2011, n. 1582; TAR Liguria, sez. I, 23.02.2012, n. 322; TAR Lazio, Latina, 11.04.2012, n. 283).
Né vale in senso contrario affermare, come sostenuto dalla difesa erariale nella sua memoria del 17.12.2011, che la stazione appaltante abbia dato applicazione al decreto interministeriale n. 44/2001 recante le istruzioni generali sulla gestione amministrativo/contabile delle istituzioni scolastiche, discostandosi dalla disciplina generale dettata dal Codice dei contratti pubblici.
Ciò comporterebbe un’attenuazione del rigore formale della procedura di gara in analogia con quanto previsto dall’art. 125 del d.lgs. n. 163/2006 in tema di cottimo fiduciario.
Invero, è stato condivisibilmente osservato che il cottimo fiduciario, ex art. 125, comma 4, del d.lgs. n. 163/2006, ha natura di procedura negoziata ai sensi dell'art. 57 del medesimo decreto.
Ne segue, contrariamente a quanto la resistente amministrazione mostra di ritenere, che il principio sopra affermato -che risponde all'esigenza di garantire la trasparenza delle operazioni di gara- opera, indipendentemente dal fatto che il bando lo preveda, in tutte le ipotesi in cui all'aggiudicazione si pervenga attraverso un'attività di tipo procedimentale (cfr. l'art. 2 del citato d.lgs. n. 163/2006), ancorché semplificata e quindi anche in relazione ai cottimi fiduciari (cfr. TAR Sardegna, I Sez., 14/06/2010 n. 1487; Cons. Stato, V Sez., 10/11/2010 n. 8006).
Dunque, anche nell’ipotesi di scelta di una procedura semplificata, continua a trovare applicazione il principio, posto a tutela dell'imparzialità, della trasparenza, del corretto svolgimento della procedura, in base al quale vanno tenute separate e distinte l’offerta tecnica da quella economica, nel mentre la fase di apertura dei plichi contenenti la documentazione amministrativa e la verifica della stessa, nonché quella di apertura delle buste con le offerte economiche devono sempre avvenire in seduta pubblica.
E d’altro canto, contrariamente a quanto avvenuto nella fattispecie, nella vicenda oggetto del precedente di questo Tribunale citato da controparte (TAR Toscana, sez. I, n. 6809/2010) non era stato impugnato il bando di gara.
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Osserva il Collegio che negli appalti pubblici da aggiudicare con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa il principio della pubblicità delle operazioni da svolgere trova applicazione con specifico riferimento anche all'apertura della busta dell'offerta tecnica, atteso che la pubblicità delle sedute di gara risponde all'esigenza di tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che non siano successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche dell'interesse pubblico alla trasparenza e all'imparzialità dell'azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in mancanza di un riscontro immediato (Cons. Stato, Ad. plen., 28.07.2011, n. 13; id., sez. III, 04.11.2011, n. 5866).
Nel caso di specie, peraltro l’illegittimità appare ancor più evidente se solo si consideri che in seduta riservata è avvenuta l’apertura dell’unico plico contenente sia l’offerta tecnica che quella economica.
Per le ragioni esposte il ricorso deve dunque essere accolto con il conseguente annullamento della lettera d’invito e della successiva aggiudicazione in favore della ditta controinteressata
(TAR Toscana, Sez. II, sentenza 19.10.2012 n. 1680 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVILa prova della sussistenza del danno da perdita di chance, in seguito all'emanazione di un provvedimento illegittimo, può avvenire o attraverso l’articolazione di argomentazioni logiche, che, sulla base di un processo deduttivo rigorosamente sorvegliato, inducano a concludere per la sua sussistenza; ovvero secondo un processo deduttivo conforme al criterio, elaborato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, del cd. "più probabile che non", e cioè "alla luce di una regola di giudizio che ben può essere integrata dai dati della comune esperienza, evincibili dall'osservazione dei fenomeni sociali”.
Si rammenta in proposito che la prova della sussistenza del danno da perdita di chance, in seguito all'emanazione di un provvedimento illegittimo, può avvenire o attraverso l’articolazione di argomentazioni logiche, che, sulla base di un processo deduttivo rigorosamente sorvegliato, inducano a concludere per la sua sussistenza; ovvero secondo un processo deduttivo conforme al criterio, elaborato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, del cd. "più probabile che non", e cioè "alla luce di una regola di giudizio che ben può essere integrata dai dati della comune esperienza, evincibili dall'osservazione dei fenomeni sociali” (Cons. Stato sez. IV, 22.05.2012, n. 2974) (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 19.10.2012 n. 1680 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl potere di adozione di un'ordinanza contingibile ed urgente presuppone la necessità di provvedere in via d'urgenza con strumenti extra ordinem per far fronte a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile di pericolo attuale ed imminente per l'incolumità pubblica, non fronteggiabili con gli ordinari strumenti a disposizione dell'Autorità amministrativa.
Inoltre, tale atto, proprio per la sua natura di provvedimento "extra ordinem", deve avere effetti provvisori limitati nel tempo, in attesa dell'adozione dei provvedimenti tipici spettanti alle autorità competenti, non potendo essere utilizzato dall’Amministrazione come strumento per la definitiva soluzione dell’emergenza.
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Quando la legge, per consentire all'amministrazione di fare fronte a situazioni non prevedibili né tipizzabili, non precisa quali siano gli elementi del provvedimento, limitandosi ad attribuire il potere di adottare le misure "adeguate" o "necessarie", si verte in ambito di ordinanze di necessità e urgenza.
Esse costituiscono una deviazione rispetto al principio di tipicità, accentuata dal fatto che spesso i provvedimenti di tale tipo possono derogare alla disciplina vigente e sono normalmente suscettibili di esecuzione forzata.
Tale tipologia di provvedimenti impone che essi siano preceduti da un’adeguata istruttoria e che la situazione di pericolo effettivo e l’impossibilità di farvi fronte con gli ordinari strumenti giuridici sia esternata con una congrua motivazione.

Il ricorso merita accoglimento.
Positivo riscontro va assegnato al primo motivo con il quale la ricorrente lamenta l’inesistenza dei presupposti per l’esercizio dei poteri extra ordinem assegnati al Sindaco dal TUEL.
Recita, infatti, l’art. 50, co. 4 e 5, del d.lgs. n. 267/2000, in applicazione del quale è stato emanato l’avversato provvedimento, che “Il sindaco esercita altresì le altre funzioni attribuitegli quale autorità locale nelle materie previste da specifiche disposizioni di legge.
In particolare, in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale...
”.
Per pacifica giurisprudenza, il potere di adozione di un'ordinanza contingibile ed urgente presuppone la necessità di provvedere in via d'urgenza con strumenti extra ordinem per far fronte a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile di pericolo attuale ed imminente per l'incolumità pubblica, non fronteggiabili con gli ordinari strumenti a disposizione dell'Autorità amministrativa (cfr., da ultimo, TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 23.01.2012, n. 256; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 15.11.2011, n. 1376; TAR Abruzzo L'Aquila, 15.03.2011, n. 134).
Inoltre, tale atto, proprio per la sua natura di provvedimento "extra ordinem", deve avere effetti provvisori limitati nel tempo, in attesa dell'adozione dei provvedimenti tipici spettanti alle autorità competenti, non potendo essere utilizzato dall’Amministrazione come strumento per la definitiva soluzione dell’emergenza (Cons. Stato, sez. III, 05.10.2011, n. 5471; id. sez. IV, 24.03.2006, n. 1537).
Orbene, nel caso all’esame, non può revocarsi in dubbio che l’imposizione alla ricorrente dell’obbligo di redazione di una progettazione esecutiva tale da rimuovere definitivamente la situazione di asserito pericolo, costituisce un’evidente sviamento del potere eccezionale assegnato al Sindaco dal citato art. 50.
Quando la legge, per consentire all'amministrazione di fare fronte a situazioni non prevedibili né tipizzabili, non precisa quali siano gli elementi del provvedimento, limitandosi ad attribuire il potere di adottare le misure "adeguate" o "necessarie", si verte in ambito di ordinanze di necessità e urgenza.
Esse costituiscono una deviazione rispetto al principio di tipicità, accentuata dal fatto che spesso i provvedimenti di tale tipo possono derogare alla disciplina vigente e sono normalmente suscettibili di esecuzione forzata.
A completamento delle considerazioni esposte va soggiunto che tale tipologia di provvedimenti impone che essi siano preceduti da un’adeguata istruttoria e che la situazione di pericolo effettivo e l’impossibilità di farvi fronte con gli ordinari strumenti giuridici sia esternata con una congrua motivazione (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 19.10.2012 n. 1669 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALa curatela fallimentare non può essere destinataria di ordinanze sindacali dirette alla bonifica di siti inquinati, per effetto del precedente comportamento commissivo od omissivo dell’impresa fallita.
Al riguardo si è, infatti, sottolineata l’erroneità delle argomentazioni per cui:
a) la disponibilità dei beni, anche di quelli classificati come rifiuti nocivi, entrerebbe giuridicamente nella titolarità del curatore, sul quale graverebbe, per conseguenza, il dovere di rimuoverli secondo le leggi vigenti;
b) il fallimento subentra negli obblighi facenti capo all’impresa fallita e perciò sarebbe tenuto all’adempimento dei doveri derivanti dall’accertata responsabilità della stessa impresa, come dimostrerebbe tra l’altro la disciplina della legge fallimentare sulla prosecuzione dei contratti facenti capo all’impresa fallita.
In realtà, se l’ordinanza impugnata è rivolta al fallimento per effetto dell’inottemperanza dell’impresa a precedenti provvedimenti (com’è avvenuto sia nella fattispecie analizzata dalla giurisprudenza ora riportata, sia nel caso oggetto del ricorso in epigrafe), la curatela fallimentare deve esser considerata estranea alla determinazione degli inconvenienti sanitari riscontrati nell’area interessata.
Non basta, a far scattare un obbligo in capo alla curatela, il riferimento alla disponibilità giuridica degli oggetti qualificati come rifiuti inquinanti: il potere di disporre dei beni fallimentari, secondo le regole della procedura concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato, non comporta necessariamente il dovere di adottare particolari comportamenti attivi, volti alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica dei fattori inquinanti.
D’altro lato, è proprio il richiamo alla disciplina del fallimento e della successione nei contratti a dimostrare che la curatela fallimentare non subentra negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell’imprenditore fallito, non potendosi invocare l’art. 1576 c.c., poiché l’obbligo di mantenimento della cosa locata in buono stato riguarda i rapporti tra conduttore e locatore e non si riverbera, direttamente, sui doveri fissati da altre disposizioni, dirette ad altro scopo.
Sulla questione si è espresso anche questo Tribunale Amministrativo che, mutando il proprio precedente orientamento, ha evidenziato come, in linea di principio, i rifiuti prodotti dall’imprenditore fallito non siano beni da acquisire alla procedura fallimentare e, quindi, non formino oggetto di apprensione da parte del curatore.
L’esclusione della possibilità di sussumere legittimamente i rifiuti nel compendio fallimentare fa, perciò, scartare l’ipotizzabilità di profili di responsabilità di carattere meramente gestorio in capo al curatore. La sentenza in rassegna precisa, inoltre, che per una diversa conclusione sarebbe necessario individuare un’univoca, chiara ed autonoma responsabilità in capo al curatore fallimentare nell’abbandono dei rifiuti di cui trattasi, che, però, va esclusa quando il fatto si è verificato in epoca antecedente all’apertura della procedura fallimentare, richiedendo la normativa di riferimento (a partire dal d.lgs. n. 22/1997) l’accertamento della responsabilità da illecito in capo al destinatario dell’ordine. In mancanza dell’ascrivibilità alla curatela fallimentare di una condotta illecita o di un comportamento corresponsabile, alla P.A. non resta che procedere all’esecuzione d’ufficio ed al recupero delle somme anticipate con insinuazione del relativo credito al passivo fallimentare, in conformità, del resto, all’art. 18, comma 5, del d.m. n. 471/1999.
Ad una diversa conclusione non si potrebbe pervenire neanche aderendo alla tesi che configura l’illecito ambientale come illecito permanente. In base a detta tesi si è affermata l’applicabilità della normativa di cui all’art. 17 del d.lgs. n. 22/1997 a qualsivoglia situazione di inquinamento in atto al tempo dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 22 cit., indipendentemente dal momento del verificarsi del fatto generatore dell’attuale situazione patologica: ciò, però, a condizione che il soggetto che aveva posto in essere la condotta all’epoca in cui non vigeva ancora il d.lgs. n. 22/1997 fosse lo stesso che operava al tempo del verificarsi dell’inquinamento, dopo tale data. Per quanto sopra detto, si deve escludere che una simile identità sia ipotizzabile tra il fallito e la curatela fallimentare.
Sul punto, il Collegio ritiene di aderire in toto alle osservazioni avanzate dal curatore fallimentare nell’istanza di riesame dell’ordinanza gravata e, poi, riprodotte nel ricorso, in base alle quali, al di fuori dell’esercizio provvisorio (caso non verificatosi), il curatore non è il produttore dei rifiuti, né lo diventa con la dichiarazione di fallimento, poiché non sostituisce il fallito e la procedura fallimentare ha uno scopo liquidativo e non già amministrativo o continuativo dell’impresa fallita. Peraltro, quando è il fallito ad aver prodotto i rifiuti e cagionato un danno all’ambiente, sullo stesso grava l’onere per il relativo smaltimento, da soddisfare, come già esposto, con l’insinuazione al passivo fallimentare del credito sorto in capo alla P.A. che ha anticipato le relative spese.

In termini generali, la problematica è, infatti, già stata affrontata dalla Sezione con la sentenza 21.01.2011 n. 137, che può essere richiamata, anche in funzione motivazionale della presente decisione: <<deve essere condivisa, alla luce della prevalente giurisprudenza espressasi sulla questione, la doglianza del ricorrente, per cui la curatela fallimentare non può essere destinataria di ordinanze sindacali dirette alla bonifica di siti inquinati, per effetto del precedente comportamento commissivo od omissivo dell’impresa fallita (C.d.S., Sez. V, 29.07.2003, n. 4328).
Al riguardo si è, infatti, sottolineata l’erroneità delle argomentazioni per cui:
a) la disponibilità dei beni, anche di quelli classificati come rifiuti nocivi, entrerebbe giuridicamente nella titolarità del curatore, sul quale graverebbe, per conseguenza, il dovere di rimuoverli secondo le leggi vigenti;
b) il fallimento subentra negli obblighi facenti capo all’impresa fallita e perciò sarebbe tenuto all’adempimento dei doveri derivanti dall’accertata responsabilità della stessa impresa, come dimostrerebbe tra l’altro la disciplina della legge fallimentare sulla prosecuzione dei contratti facenti capo all’impresa fallita.
In realtà, se l’ordinanza impugnata è rivolta al fallimento per effetto dell’inottemperanza dell’impresa a precedenti provvedimenti (com’è avvenuto sia nella fattispecie analizzata dalla giurisprudenza ora riportata, sia nel caso oggetto del ricorso in epigrafe), la curatela fallimentare deve esser considerata estranea alla determinazione degli inconvenienti sanitari riscontrati nell’area interessata.
Non basta, a far scattare un obbligo in capo alla curatela, il riferimento alla disponibilità giuridica degli oggetti qualificati come rifiuti inquinanti: il potere di disporre dei beni fallimentari, secondo le regole della procedura concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato, non comporta necessariamente –per la giurisprudenza del Consiglio di Stato in commento, le cui affermazioni il Collegio condivide– il dovere di adottare particolari comportamenti attivi, volti alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica dei fattori inquinanti.
D’altro lato, è proprio il richiamo alla disciplina del fallimento e della successione nei contratti a dimostrare che la curatela fallimentare non subentra negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell’imprenditore fallito, non potendosi invocare l’art. 1576 c.c., poiché l’obbligo di mantenimento della cosa locata in buono stato riguarda i rapporti tra conduttore e locatore e non si riverbera, direttamente, sui doveri fissati da altre disposizioni, dirette ad altro scopo (C.d.S., Sez. V, n. 4328/2003, cit.)….Sulla questione si è espresso anche questo Tribunale Amministrativo (TAR Toscana, Sez. II, 01.08.2001, n. 1318), che, mutando il proprio precedente orientamento (TAR Toscana, Sez. I, 03.03.1993, n. 196; id., Sez. II, 28.04.2000, n. 780), ha evidenziato come, in linea di principio, i rifiuti prodotti dall’imprenditore fallito non siano beni da acquisire alla procedura fallimentare e, quindi, non formino oggetto di apprensione da parte del curatore.
L’esclusione della possibilità di sussumere legittimamente i rifiuti nel compendio fallimentare fa, perciò, scartare l’ipotizzabilità di profili di responsabilità di carattere meramente gestorio in capo al curatore. La sentenza in rassegna precisa, inoltre, che per una diversa conclusione sarebbe necessario individuare un’univoca, chiara ed autonoma responsabilità in capo al curatore fallimentare nell’abbandono dei rifiuti di cui trattasi, che, però, va esclusa quando il fatto si è verificato in epoca antecedente all’apertura della procedura fallimentare, richiedendo la normativa di riferimento (a partire dal d.lgs. n. 22/1997) l’accertamento della responsabilità da illecito in capo al destinatario dell’ordine. In mancanza dell’ascrivibilità alla curatela fallimentare di una condotta illecita o di un comportamento corresponsabile, alla P.A. non resta che procedere all’esecuzione d’ufficio ed al recupero delle somme anticipate con insinuazione del relativo credito al passivo fallimentare, in conformità, del resto, all’art. 18, comma 5, del d.m. n. 471/1999 (TAR Toscana, Sez. II, n. 1318/2001, cit.)….
Ad una diversa conclusione non si potrebbe pervenire neanche aderendo alla tesi che configura l’illecito ambientale come illecito permanente. In base a detta tesi si è affermata l’applicabilità della normativa di cui all’art. 17 del d.lgs. n. 22/1997 a qualsivoglia situazione di inquinamento in atto al tempo dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 22 cit., indipendentemente dal momento del verificarsi del fatto generatore dell’attuale situazione patologica: ciò, però, a condizione che il soggetto che aveva posto in essere la condotta all’epoca in cui non vigeva ancora il d.lgs. n. 22/1997 fosse lo stesso che operava al tempo del verificarsi dell’inquinamento, dopo tale data (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 19.04.2007, n. 1913). Per quanto sopra detto, si deve escludere che una simile identità sia ipotizzabile tra il fallito e la curatela fallimentare.
Sul punto, il Collegio ritiene di aderire in toto alle osservazioni avanzate dal curatore fallimentare nell’istanza di riesame dell’ordinanza gravata e, poi, riprodotte nel ricorso, in base alle quali, al di fuori dell’esercizio provvisorio (caso non verificatosi), il curatore non è il produttore dei rifiuti, né lo diventa con la dichiarazione di fallimento, poiché non sostituisce il fallito e la procedura fallimentare ha uno scopo liquidativo e non già amministrativo o continuativo dell’impresa fallita. Peraltro, quando (come nella fattispecie per cui è causa) è il fallito ad aver prodotto i rifiuti e cagionato un danno all’ambiente, sullo stesso grava l’onere per il relativo smaltimento, da soddisfare, come già esposto, con l’insinuazione al passivo fallimentare del credito sorto in capo alla P.A. che ha anticipato le relative spese
>> (TAR Toscana, sez. II, 21.01.2011 n. 137).
Non possono poi sussistere dubbi in ordine alla possibilità di estendere il detto orientamento giudiziale anche alla procedura di concordato preventivo con cessione dei beni prevista dall’art. 182 della l. fallimentare (r.d. 16.03.1942, n. 267, successivamente modificato dal d.lgs. 12.09.2007, n. 169).
Come rilevato dalla giurisprudenza (Cass. pen. ss.uu. 30.09.2010, n. 43428) <<il liquidatore di cui alla L. Fall., art. 182, … per il compito che espleta e il rapporto che lo lega agli organi della procedura (in particolare, al commissario giudiziale, tenuto a vigilare sull'esecuzione del concordato, con riguardo anche al rispetto delle modalità di liquidazione determinate dal Tribunale in sede di omologazione), si viene a trovare in una posizione di terzietà rispetto al debitore, che esclude il determinarsi di un suo rapporto organico con la società e circoscrive la sua sostituzione agli organi di quest'ultima nei limiti funzionali all'esecuzione del mandato (realizzazione del valore dei beni ceduti -costituenti ormai una sorta di patrimonio separato- con riparto del ricavato)>>; siamo pertanto in presenza delle stesse coordinate fondamentali (attribuzione della disponibilità dei beni all’organo di giustizia incaricato della liquidazione del patrimonio nell’interesse dell’intera collettività e non del titolare dei beni) che hanno giustificato il radicato orientamento giurisprudenziale relativo all’impossibilità di considerare la curatela fallimentare destinataria delle ordinanze di rimozione dei rifiuti (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 19.10.2012 n. 1662 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Allorché il bando di concorso richieda tassativamente il possesso di un determinato titolo di studio (o equipollente) per l’ammissione ad un concorso pubblico, non è consentita la valutazione di un titolo di studio diverso.
Il principio poggia sul dovuto riconoscimento in capo all’Amministrazione che indice la procedura selettiva –ferma la definizione del livello del titolo, affidata alla legge o ad altra fonte normativa– di un potere discrezionale nell’individuazione della tipologia del titolo stesso, da esercitare tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire.

Allorché, come nel caso di specie, il bando di concorso richieda tassativamente il possesso di un determinato titolo di studio (o equipollente) per l’ammissione ad un concorso pubblico, non è consentita la valutazione di un titolo di studio diverso.
Il principio poggia sul dovuto riconoscimento in capo all’Amministrazione che indice la procedura selettiva –ferma la definizione del livello del titolo, affidata alla legge o ad altra fonte normativa– di un potere discrezionale nell’individuazione della tipologia del titolo stesso, da esercitare tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire (Consiglio di Stato, Sez. VI, 19.08.2009, n. 4994) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 18.10.2012 n. 5351 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl parere della C.E.I. in ordine alla sanatoria di costruzioni abusivamente realizzate non implica una diffusa motivazione, dovendo ritenersi sufficientemente motivato dall’indicazione delle ragioni assunte a fondamento della valutazione di compatibilità dell’intervento edilizio con le esigenze di tutela paesistica poste a base del relativo vincolo. Anche una motivazione scarna e sintetica, laddove rilevi gli estremi logici dell’apprezzamento negativo è, quindi, da ritenersi sufficiente.
La necessità di una motivazione più penetrante ricorre, invece, nel caso di parere favorevole, dovendosi dare compiutamente conto delle ragioni per cui un concreto e specifico intervento edilizio non determini un impatto ambientale negativo nonostante la precostituita imposizione di un vincolo sull’area ove l’intervento è allocato, essendo i valori dell’ambiente, valori di rilevanza costituzionale primaria, tali cioè da prevalere, ove in concreto sussistenti, anche sullo jus aedificandi.

Con il primo motivo di ricorso (“Violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge 29.06.1939 n. 1497; eccesso di potere particolarmente sotto il profilo del travisamento dei fatti; violazione e falsa applicazione degli artt. 7, 31, 32 e 35 della legge 28.02.1985 n. 47 e successive modificazioni e integrazioni”), si sostiene che la C.E.I. avrebbe immotivatamente affermato che i manufatti per cui è causa sarebbero non condonabili perché fonte di un danno ambientale.
La censura non ha pregio.
Il parere della C.E.I. in ordine alla sanatoria di costruzioni abusivamente realizzate non implica una diffusa motivazione, dovendo ritenersi sufficientemente motivato dall’indicazione delle ragioni assunte a fondamento della valutazione di compatibilità dell’intervento edilizio con le esigenze di tutela paesistica poste a base del relativo vincolo. Anche una motivazione scarna e sintetica, laddove rilevi gli estremi logici dell’apprezzamento negativo è, quindi, da ritenersi sufficiente (cfr., TAR Toscana, III, 26.11.2010, n. 6641). La necessità di una motivazione più penetrante ricorre, invece, nel caso di parere favorevole, dovendosi dare compiutamente conto delle ragioni per cui un concreto e specifico intervento edilizio non determini un impatto ambientale negativo nonostante la precostituita imposizione di un vincolo sull’area ove l’intervento è allocato, essendo i valori dell’ambiente, valori di rilevanza costituzionale primaria, tali cioè da prevalere, ove in concreto sussistenti, anche sullo jus aedificandi (cfr., TAR Toscana, III, 12.11.1998, n. 377)
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 16.10.2012 n. 1625 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAnche qualora intercorra un lungo periodo di tempo tra la realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento sanzionatorio, tale circostanza non rileva ai fini della legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso affidamento circa la legittimità dell'opera, che il protrarsi del comportamento inerte del Comune avrebbe ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in relazione ad un presunto ulteriore obbligo, per l'amministrazione procedente, di motivare specificamente il provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico attuale a far demolire il manufatto, poiché la lunga durata nel tempo dell'opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza il carattere abusivo (trattandosi di illecito permanente), il che preserva il potere-dovere dell'amministrazione di intervenire nell'esercizio dei suoi poteri sanzionatori, tanto più che il provvedimento demolitorio non richiede una congrua motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso, che è in re ipsa.
Quanto, infine, all’ulteriore profilo di doglianza –a prescindere dall’inammissibilità dello stesso per carenza di interesse- va rilevato che, anche qualora intercorra un lungo periodo di tempo tra la realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento sanzionatorio, tale circostanza non rileva ai fini della legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso affidamento circa la legittimità dell'opera, che il protrarsi del comportamento inerte del Comune avrebbe ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in relazione ad un presunto ulteriore obbligo, per l'amministrazione procedente, di motivare specificamente il provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico attuale a far demolire il manufatto, poiché la lunga durata nel tempo dell'opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza il carattere abusivo (trattandosi di illecito permanente), il che preserva il potere-dovere dell'amministrazione di intervenire nell'esercizio dei suoi poteri sanzionatori, tanto più che il provvedimento demolitorio non richiede una congrua motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso, che è in re ipsa (cfr., ex multis, TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 07.07.2009, n. 1053) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 16.10.2012 n. 1625 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo consolidata giurisprudenza (formatasi in costanza dei referenti normativi vigenti all’epoca della adozione del provvedimento impugnato, che sono quelli indicati in rubrica), la verifica concernente la sussistenza dei presupposti atti a rendere obbligatoria l’acquisizione del titolo concessorio, ai fini della legittima realizzazione di un traliccio porta antenna, è incentrata sulla valutazione dell’impatto estetico, ambientale e funzionale alla stessa ascrivibile: in tale ottica, la doverosità del previo conseguimento della concessione edilizia è stata affermata, ad esempio, con riguardo all’ipotesi di antenna alta quindici metri ovvero di opera complessa, composta da “tre antenne, la più alta delle quali misura otto metri, e da un box metallico che misura 7 mq. per un’altezza di circa 3 metri”.
... per l'annullamento dell'ordinanza-diffida n. 128/1996 del Sindaco pro tempore del Comune di Bagno a Ripoli, notificata a Ripetitori Televisivi Montagni (R.T.M.) s.r.l. il 05.03.1996, a demolire, con riconduzione in pristino, entro novanta giorni dalla notifica, con avviso di demolizione d’ufficio, in caso di inottemperanza, un locale tecnico per ripetitore e un ripetitore, insistenti su area vincolata ex L. 1497/1939, nonché del contestuale diniego di sanatoria emesso, ex art. 32 della legge n. 47/1985, sulla base del parere contrario 23.11.1995 espresso da parte della C.E.I., che aveva ritenuto che l'intervento costituisse grave danno ambientale, in quanto sito all'interno di resede di edificio di notevole valore storico ambientale e per l'impatto negativo per le sue dimensioni e morfologia;
...
Con il terzo motivo di ricorso ("Violazione di legge: art. 8 primo comma, art. 10 L. 47/1985.") e con il quarto ("Violazione art. 1 L. n. 10/1977; art. 7 L. n. 47/1985.") la ricorrente sostiene che il Sindaco avrebbe errato nell'ordinare la demolizione perché, per le opere in questione, non sarebbe necessaria la concessione edilizia e, quindi, non potrebbe essere imposta tale sanzione.
Le censure non possono essere condivise.
Secondo consolidata giurisprudenza (formatasi in costanza dei referenti normativi vigenti all’epoca della adozione del provvedimento impugnato, che sono quelli indicati in rubrica), la verifica concernente la sussistenza dei presupposti atti a rendere obbligatoria l’acquisizione del titolo concessorio, ai fini della legittima realizzazione di un traliccio porta antenna, è incentrata sulla valutazione dell’impatto estetico, ambientale e funzionale alla stessa ascrivibile: in tale ottica, la doverosità del previo conseguimento della concessione edilizia è stata affermata, ad esempio, con riguardo all’ipotesi di antenna alta quindici metri (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4391 del 30.07.2003) ovvero di opera complessa, composta da “tre antenne, la più alta delle quali misura otto metri, e da un box metallico che misura 7 mq. per un’altezza di circa 3 metri” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 3265 del 10.06.2003).
Nella fattispecie, pertanto, tenuto conto che il traliccio, come asserito dalla stessa ricorrente, è alto ben 14 metri, è indubbio che le opere abbiano una rilevanza sotto il profilo urbanistico-edilizio tale da richiedere il rilascio della concessione edilizia.
Né le opere in questione, stanti la loro autonomia funzionale –non potendo certo dirsi asservite al Convento dei Frati all’interno del cui terreno insistono- e consistenza materiale, possono ricomprendersi tra quelle accessorie per le quali è sufficiente l’autorizzazione edilizia ex art. 8 della L. 47/1985 (e prima ex art. 7, L. 94/1982). Tali opere, infatti, sono soltanto quelle che, per consistenza, destinazione e caratteristiche, sono accessorie rispetto al fabbricato principale (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 16.10.2012 n. 1624 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Essendo la funzione della sanzione pecuniaria di cui all'art. 15 l. 29.06.1939 n. 1947 non meramente repressiva della condotta nell'autore del illecito, ma ripristinatoria dei valori giuridici offesi dalla condotta illecita, la condanna al pagamento di tale sanzione, ”equivalente alla maggiore somma tra il danno arrecato e il profitto conseguito”, è eventuale ed alternativa alla demolizione e può essere adottata solo dopo una valutazione effettuata dall'amministrazione "nell'interesse della protezione delle bellezze naturali e panoramiche".
Peraltro, il principio –che è jus receptum– di autonomia della violazione paesaggistica rispetto all’illecito edilizio, e dei correlati procedimenti amministrativi, esclude qualsiasi interferenza, nei sensi invocati dalla ricorrente, tra i due procedimenti, e, quindi, che l’erronea richiesta di pagamento della sanzione pecuniaria ex art. 15 cit., cui sia seguita la corresponsione a tale titolo della somma richiesta –come avvenuto nel caso di specie– quale che sia la valenza che a tale richiesta si voglia attribuire, possa inficiare la validità dell’ordine di demolizione successivamente emesso in relazione a quelle stesse opere abusive per la realizzazione delle quali era stato richiesto il pagamento della suindicata sanzione pecuniaria.
L’autonomia dei due procedimenti esclude, altresì, che la richiesta di corresponsione della sanzione pecuniaria in argomento ed il successivo pagamento del relativo importo possano aver consolidato una vera e propria aspettativa sull’esito favorevole del condono.
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Per definizione non può considerarsi legittimo l’affidamento derivante dalla realizzazione di un abuso soggettivamente qualificato; in ogni caso, l’esercizio del potere di controllo e sanzionatorio della p.a. in materia urbanistico-edilizia e paesistica non è soggetto a prescrizione.
Ne consegue che l’accertamento dell’illecito amministrativo paesistico e l’applicazione della relativa sanzione, così come la verifica in sede di condono della ricorrenza di un profilo preclusivo di incompatibilità, può intervenire anche dopo il decorso di un rilevante lasso temporale dalla consumazione dell’abuso, al quale deve riconoscersi natura permanente sino al conseguimento del titolo autorizzatorio.
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La relatività del vincolo di inedificabilità di cui alla L. 1497/1939 e 431/1985 non comporta un obbligo di analitica motivazione del diniego di autorizzazione ambientale, obbligo che sussiste, viceversa, per il rilascio dell’autorizzazione nonostante il vincolo.
Questo anche perché il parere negativo in ordine alla sanatoria di opere eseguite su aree tutelate costituisce espressione di discrezionalità tecnica, incensurabile nel merito con la conseguenza che il giudizio può risultare viziato solo allorché esso sia manchevole quanto alla sua ragionevolezza e comunque non abbia attinenza alla fattispecie concreta.
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Non sussiste alcun obbligo in capo all'amministrazione di imporre prescrizioni per rendere l'abuso esteticamente compatibile con l'area tutelata in quanto tale finalità non rientra nei compiti d'istituto, dovendo l'amministrazione limitarsi a valutare il contenuto della domanda di sanatoria allo scopo di accertarne la compatibilità paesaggistica e non già per suggerire attività ulteriori volte a legalizzare comportamenti "contra legem".

E’ sì vero che, essendo la funzione della sanzione pecuniaria di cui all'art. 15 l. 29.06.1939 n. 1947 non meramente repressiva della condotta nell'autore del illecito, ma ripristinatoria dei valori giuridici offesi dalla condotta illecita, la condanna al pagamento di tale sanzione, ”equivalente alla maggiore somma tra il danno arrecato e il profitto conseguito”, è eventuale ed alternativa alla demolizione e può essere adottata solo dopo una valutazione effettuata dall'amministrazione "nell'interesse della protezione delle bellezze naturali e panoramiche".
Peraltro, il principio –che è jus receptum– di autonomia della violazione paesaggistica rispetto all’illecito edilizio, e dei correlati procedimenti amministrativi, esclude qualsiasi interferenza, nei sensi invocati dalla ricorrente, tra i due procedimenti, e, quindi, che l’erronea richiesta di pagamento della sanzione pecuniaria ex art. 15 cit., cui sia seguita la corresponsione a tale titolo della somma richiesta –come avvenuto nel caso di specie– quale che sia la valenza che a tale richiesta si voglia attribuire, possa inficiare la validità dell’ordine di demolizione successivamente emesso in relazione a quelle stesse opere abusive per la realizzazione delle quali era stato richiesto il pagamento della suindicata sanzione pecuniaria.
L’autonomia dei due procedimenti esclude, altresì, che la richiesta di corresponsione della sanzione pecuniaria in argomento ed il successivo pagamento del relativo importo possano aver consolidato una vera e propria aspettativa sull’esito favorevole del condono.
Non può, inoltre, non rilevarsi il breve lasso di tempo intercorso tra la richiesta di pagamento dell’importo relativo alla sanzione ex art. 15 cit. e la comunicazione di inizio del procedimento di diniego di sanatoria (25.10.2002–25.05.2004), che sarebbe, comunque, inidoneo ad ingenerare un qualsivoglia affidamento nella responsabile degli abusi sulla sanabilità delle opere.
A riguardo, infatti, la giurisprudenza ha ripetuta temente chiarito che “per definizione non può considerarsi legittimo l’affidamento derivante dalla realizzazione di un abuso soggettivamente qualificato; e che, in ogni caso, alla stregua di un indirizzo giurisprudenziale anch’esso costante, l’esercizio del potere di controllo e sanzionatorio della p.a. in materia urbanistico-edilizia e paesistica non è soggetto a prescrizione. Ne consegue che l’accertamento dell’illecito amministrativo paesistico e l’applicazione della relativa sanzione, così come la verifica in sede di condono della ricorrenza di un profilo preclusivo di incompatibilità, può intervenire anche dopo il decorso di un rilevante lasso temporale dalla consumazione dell’abuso, al quale deve riconoscersi natura permanente sino al conseguimento del titolo autorizzatorio (Cons. Stato, Sez. VI, 15.11.2004, n. 7405)” (così Cons. di Stato, sez. VI, 10.02.2006, n. 528).
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Invero, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, la relatività del vincolo di inedificabilità di cui alla L. 1497/1939 e 431/1985 non comporta un obbligo di analitica motivazione del diniego di autorizzazione ambientale, obbligo che sussiste, viceversa, per il rilascio dell’autorizzazione nonostante il vincolo.
Questo anche perché il parere negativo in ordine alla sanatoria di opere eseguite su aree tutelate costituisce espressione di discrezionalità tecnica, incensurabile nel merito con la conseguenza che il giudizio può risultare viziato solo allorché esso sia manchevole quanto alla sua ragionevolezza e comunque non abbia attinenza alla fattispecie concreta (cfr., ex multis, TAR Toscana, sez. III 17.01.2000 n. 7).
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Come affermato dalla consolidata giurisprudenza non sussiste alcun obbligo in capo all'amministrazione di imporre prescrizioni per rendere l'abuso esteticamente compatibile con l'area tutelata in quanto tale finalità non rientra nei compiti d'istituto, dovendo l'amministrazione limitarsi a valutare il contenuto della domanda di sanatoria allo scopo di accertarne la compatibilità paesaggistica e non già per suggerire attività ulteriori volte a legalizzare comportamenti "contra legem" (cfr. Cons. St., sez. VI, 15.06.2009, n. 3806)
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 16.10.2012 n. 1623 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI provvedimenti repressivi di abusi edilizi non devono essere preceduti dall'avviso dell'inizio del procedimento, trattandosi di procedimenti tipizzati e vincolati e considerato che i provvedimenti sanzionatori presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate, nonché sul carattere non assentito delle medesime.
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I provvedimenti, che ordinano la demolizione di manufatti abusivi non abbisognano di particolari indicazioni in ordine all'attualità dell'interesse pubblico alla rimozione dell’abuso- che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato.
Pertanto, l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime concessorio. Tali provvedimenti, infatti, prescindono da qualsiasi valutazione discrezionale dei fatti e sono subordinati al solo verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge, così che, una volta accertata la consistenza dell'abuso, non vi è alcun margine di ponderazione per l'interesse pubblico eventualmente collegato.
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All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione dell'accertata conformità dell'intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda, con conseguente venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata.
Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia, con la sola precisazione che il termine concesso per l'esecuzione spontanea della demolizione deve decorrere dal momento in cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza dell'interessato, che non può rimanere pregiudicato dall'avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di chiedere l'accertamento di conformità urbanistica, e deve pertanto poter fruire dell'intero termine a lui assegnato per adeguarsi all'ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso.
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Ai sensi dell'art. 7, comma 3, L. 28.02.1985 n. 47 l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'immobile abusivo e della relativa area di sedime costituisce effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordinanza di ingiunzione della demolizione e, pertanto, il provvedimento di accertamento di detta inottemperanza, il quale costituisce titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, ha natura meramente dichiarativa e non implica scelte di tipo discrezionale, fermo restando che sia l'ordinanza di ingiunzione della demolizione sia quella di acquisizione al patrimonio comunale possono essere adottate senza la specifica indicazione delle aree oggetto di acquisizione, in quanto a tale individuazione può procedersi, sulla base dell'art. 7 L. n. 47 cit. con successivo e separato atto.

Il primo motivo, con il quale si deduce la omessa comunicazione di avvio del procedimento, è infondato alla luce del consolidato e condiviso orientamento giurisprudenziale, secondo il quale i provvedimenti repressivi di abusi edilizi non devono essere preceduti dall'avviso dell'inizio del procedimento, trattandosi di procedimenti tipizzati e vincolati e considerato che i provvedimenti sanzionatori presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate, nonché sul carattere non assentito delle medesime (Consiglio di Stato, sez. IV, 30.03.2000, n. 1814; TAR Campania, sez. IV, 28.03.2001, n. 1404, 14.06.2002, n. 3499, 12.02.2003, n. 797; TAR Sicilia, Catania sez. III, 03.03.2003, n. 374; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 20.04.2005, n. 577, 20.03.2006, n. 608; sez. II, 27.03.2007, n. 979).
Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso -con il quale è stata dedotta la carenza della motivazione- in quanto, secondo un consolidato e condiviso orientamento giurisprudenziale, i provvedimenti, che ordinano la demolizione di manufatti abusivi non abbisognano di particolari indicazioni in ordine all'attualità dell'interesse pubblico alla rimozione dell’abuso- che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato (C.G.A. 05.12.2002, n. 651; TAR Campania, sez. IV, 04.07.2001, n. 3071; 13.06.2002, n. 3485; 20.10.2003, n. 12962; TAR Sicilia, sez. III, 26.10.2005, n. 4105, sez. II, 27.03.2007, n. 979).
Pertanto, l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime concessorio (TAR Campania Napoli, sez. IV, 02.12.2004, n. 18085). Tali provvedimenti, infatti, prescindono da qualsiasi valutazione discrezionale dei fatti e sono subordinati al solo verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge, così che, una volta accertata la consistenza dell'abuso, non vi è alcun margine di ponderazione per l'interesse pubblico eventualmente collegato (Consiglio Stato, sez. IV, 27.04.2004, n. 2529).
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L’art. 7 della legge n. 47/1985, nel disciplinare il procedimento sanzionatorio conseguente alla commissione di determinati abusi edilizi, ai commi 3, 4 e 5, così recita: “3. Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita.
4. L'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al precedente comma, previa notifica all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente.
5. L'opera acquisita deve essere demolita con ordinanza del sindaco a spese dei responsabili dell'abuso, salvo che con deliberazione consiliare non si dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali
”.
Nella fattispecie in esame, come emerso dalla esposizione in fatto, l’efficacia dell’ordinanza di demolizione n. 13/1999 è stata sospesa da questo Tribunale con ordinanza cautelare n. 306 dell’08.08.1999 “fino alla pronuncia sulla domanda di sanatoria” presentata, ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47/1985, il 16.04.1999.
Il tenore della citata ordinanza cautelare era, dunque, inequivoco, in linea con un indirizzo giurisprudenziale, secondo il quale: “All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione dell'accertata conformità dell'intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda, con conseguente venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata. Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia, con la sola precisazione che il termine concesso per l'esecuzione spontanea della demolizione deve decorrere dal momento in cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza dell'interessato, che non può rimanere pregiudicato dall'avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di chiedere l'accertamento di conformità urbanistica, e deve pertanto poter fruire dell'intero termine a lui assegnato per adeguarsi all'ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso" (TAR Campania, Napoli, sez. II, 14.09.2009; nello stesso senso, TAR Campania, Napoli, sez. III, 12.04.2011 n. 2103).
E, pertanto, a seguito del diniego di sanatoria, comunicato ai ricorrenti con raccomandata a.r. prot. n. 15801 del 01.07.1999, pervenuta agli stessi il 07.07.1999, l’ordine di demolizione n. 13/1999 ha riacquistato la sua efficacia e, quindi, ha determinato ope legis –non avendo i ricorrenti, nel termine di 90 giorni dalla comunicazione del diniego di sanatoria, proceduto alla demolizione, come emerso a seguito dell’accertamento dell’inadempienza, effettuato il 03.04.2000- l’acquisizione, di cui all’art. 7 della legge n. 47/1985, a favore della P.A., senza necessità che l’Amministrazione adottasse una nuova ed analoga ingiunzione a demolire.
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Ora, tenuto conto che, al momento dell’ordine di acquisizione, è necessaria soltanto la quantificazione dell’area da acquisire e non la precisa delimitazione, l’ordinanza va esente dalla censura avverso lo stesso formulata.
In merito, infatti, la giurisprudenza ha avuto ripetutamente modo di chiarire che “ai sensi dell'art. 7, comma 3, L. 28.02.1985 n. 47 l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'immobile abusivo e della relativa area di sedime costituisce effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordinanza di ingiunzione della demolizione e, pertanto, il provvedimento di accertamento di detta inottemperanza, il quale costituisce titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, ha natura meramente dichiarativa e non implica scelte di tipo discrezionale, fermo restando che sia l'ordinanza di ingiunzione della demolizione sia quella di acquisizione al patrimonio comunale possono essere adottate senza la specifica indicazione delle aree oggetto di acquisizione, in quanto a tale individuazione può procedersi, sulla base dell'art. 7 L. n. 47 cit. con successivo e separato atto (cfr. fra le tante, TAR Calabria-Catanzaro - Sez. II - 08.03.2007, n. 161; Cons. Stato Sez. VI, 08.04.2004, n. 1998)” (TAR Sicilia, Palermo, 02.10.2007, n. 2050)
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 16.10.2012 n. 1616 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPremesso che per determinare il carattere essenziale o meno di una variante alla concessione edilizia si deve avere riguardo al risultato complessivo dell’intervento costruttivo, per cui il relativo giudizio fa formulato, non già esaminando l’intervento stesso nei suoi singoli elementi, ma valutando l’insieme delle modificazioni apportate al primitivo progetto, per stabilire se si è di fronte ad una variante alla concessione ovvero ad una nuova concessione edilizia occorre far riferimento alle modifiche di carattere qualitativo o quantitativo apportate al progetto originario, in particolare, a quelle relative alla superficie coperta, al perimetro, alla volumetria ed alle caratteristiche funzionali e strutturali (interne ed esterne) dell'edificio.
A riguardo, non può che ribadirsi il tradizionale orientamento giurisprudenziale secondo il quale –premesso che per determinare il carattere essenziale o meno di una variante alla concessione edilizia si deve avere riguardo al risultato complessivo dell’intervento costruttivo, per cui il relativo giudizio fa formulato, non già esaminando l’intervento stesso nei suoi singoli elementi, ma valutando l’insieme delle modificazioni apportate al primitivo progetto (cfr., Cons. di Stato, V, 18.10.2001, n. 5496; TAR Puglia, III, 14.12.2006, n. 4355)- per stabilire se si è di fronte ad una variante alla concessione ovvero ad una nuova concessione edilizia occorre far riferimento alle modifiche di carattere qualitativo o quantitativo apportate al progetto originario, in particolare, a quelle relative alla superficie coperta, al perimetro, alla volumetria ed alle caratteristiche funzionali e strutturali (interne ed esterne) dell'edificio (cfr., ex multis, Cons. di Stato, V, 03.08.2004, n. 5429; 22.01.2003, n. 249) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 16.10.2012 n. 1614 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa semplice indicazione di una strada nell’elenco delle strade comunali non risulta dirimente, considerato che tali elenchi hanno natura meramente dichiarativa, e non costitutiva, per cui detta inclusione non è di per sé sufficiente a comprovare la natura pubblica o privata di una strada; si tratta di presunzione “iuris tantum”, cioè superabile con la prova contraria della inesistenza di un diritto di uso o di godimento della strada da parte della collettività, avendo riguardo alle condizioni effettive del bene.
E’ cioè necessario che la strada sia posta all’interno di un centro abitato, che sia concretamente idonea a soddisfare (anche per il collegamento con la pubblica via) esigenze di interesse generale e che sulla stessa si esplichi di fatto il pubblico transito, “jure servitutis publicae”, da parte di una collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad una comunità territoriale.

Ora, va rilevato che, per pacifica giurisprudenza, la semplice indicazione di una strada nell’elenco delle strade comunali non risulta dirimente, considerato che tali elenchi hanno natura meramente dichiarativa, e non costitutiva, per cui detta inclusione non è di per sé sufficiente a comprovare la natura pubblica o privata di una strada (cfr., Cons. di Stato, sez. V, 07.12.2010, n. 8624; Cass. Civ., sez. II, 09.11.2009, n. 23705); si tratta di presunzione “iuris tantum”, cioè superabile con la prova contraria della inesistenza di un diritto di uso o di godimento della strada da parte della collettività (cfr., Cass., sez. I, 26.08.2002, n. 12540; Cons. di Stato, sez. V, 01.12.2003, n. 7831), avendo riguardo alle condizioni effettive del bene.
E’ cioè necessario che la strada sia posta all’interno di un centro abitato, che sia concretamente idonea a soddisfare (anche per il collegamento con la pubblica via) esigenze di interesse generale e che sulla stessa si esplichi di fatto il pubblico transito, “jure servitutis publicae”, da parte di una collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad una comunità territoriale (cfr., ex multis, Cons. di Stato, sez. V, 24.05.2007, n. 2618) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 16.10.2012 n. 1612 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: SPESE GIUDIZIALI CIVILI - LIQUIDAZIONE – ABROGAZIONE DELLE TARIFFE PROFESSIONALI – DISCIPLINA TRANSITORIA - ART. 41 DEL D.M. 140 DEL 2012.
Le S.U. hanno affermato che, agli effetti dell’art. 41 del d. m. 20.07.2012, n. 140, il quale ha dato attuazione all’art. 9, secondo comma, del d.l. 24.01.2012, n. 1, convertito in legge 24.03.2012, n. 27, i nuovi parametri, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti in luogo delle abrogate tariffe professionali, sono da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorché tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta quando ancora erano in vigore le tariffe abrogate (Corte di Cassazione, Sezz. Unite Civili, sentenza 12.10.2012 n. 17405 - link a www.
cortedicassazione.it).

EDILIZIA PRIVATAEsposizione cartello di cantiere e finalità.
L'obbligo, di apposizione del cartello di cantiere, avente lo scopo di rendere edotti i terzi circa i titoli edilizi rilasciati ed i nominativi dei responsabili dell'attività edilizia in corso non può ritenersi esclusivamente finalizzato a consentire ad eventuali contro-interessati di far valere le proprie pretese innanzi all'autorità amministrativa; in considerazione dei rischi per l'incolumità individuale collegati allo svolgimento della attività nel cantiere, deve ritenersi, al contrario, che la finalità cui assolve il suddetto obbligo sia quella di indicare i soggetti responsabili, nel caso in cui durante lo svolgimento delle attività di cantiere derivino danni nei confronti di terzi (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.10.2012 n. 40118 - tratto da www.lexambiente.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAbusi edilizi e buona fede.
Nella fattispecie contravvenzionale la eventuale buona fede può rilevare quando consista nella mancata consapevolezza del fatto che derivi da un elemento positivo, estraneo all'agente stesso, consistente in una circostanza che induca alla convinzione della liceità del comportamento tenuto, facendosi carico di tale prova l'imputato, il quale deve anche dimostrare di avere compiuto tutto quanto poteva per osservare la norma violata (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.10.2012 n. 40115 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATACessione di cubatura.
In tema di cessione di cubatura, la efficacia della volontà del proprietario "cedente" costituisce, all'interno del procedimento amministrativo di rilascio del permesso di costruire, presupposto di tale provvedimento, così che il trasferimento di volumetria si realizza soltanto con il rilascio finale del titolo edilizio.
Peraltro, soltanto per effetto dei rilascio del provvedimento amministrativo si costituisce il ''vincolo di asservimento" che, senza oneri di forma pubblica o di trascrizione, incide definitivamente sulla disciplina urbanistica ed edilizia delle aree interessate, in quanto nel territorio comunale il titolo abilitativo edilizio crea un nuovo lotto di pertinenza urbanistica dell'edificio, che non coincide con i confini di proprietà ed ha una consistenza indipendente rispetto ai successivi interventi nelle aree medesime, derivandone l'impossibilità di assentire e di richiedere ulteriori ed eccedenti realizzazioni di volumi costruttivi sul fondo asservito, per la parte in cui esso è rimasto privo della potenzialità edificatoria già utilizzata dal titolare del fondo in favore del quale ha avuto luogo l'asservimento (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.10.2012 n. 40111 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per quanto concerne la distanza tra edifici, la normativa civilistica esclude dal calcolo gli elementi ornamentali e gli aggetti di minima entità.
Per quanto concerne la distanza tra edifici, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che la normativa civilistica escluda dal calcolo gli elementi ornamentali e gli aggetti di minima entità (ex plurimis: Cass.civ., II, 22.07.2010 n. 17242; TAR Lombardia, Milano, IV, 04.05.2011 n. 1174).
In tal senso si colloca la norma regolamentare vigente a Velletri (art. 103.1 del regolamento edilizio), la quale, richiamando le disposizioni del codice civile, determina la distanza tra fabbricati nella lunghezza del segmento minimo congiungente la parte più sporgente e quella prospiciente, esclusi gli aggetti di copertura, gli elementi ornamentali, le pensiline e i balconi a sbalzo fino a 1 ml, ecc., che non concorrono alla determinazione della sagoma dell’edificio.
La norma non presenta aspetti di irrazionalità, mentre appare generica la censura di parte ricorrente
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 10.10.2012, n. 8371 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALottizzazione abusiva e modifica di destinazione d'uso di complesso alberghiero.
Può configurare il reato di lottizzazione abusiva fa modifica di destinazione d'uso di un complesso alberghiero, realizzata attraverso la vendita di singole unità immobiliari a privati, allorché (indipendentemente dal regime proprietario della struttura) non sussiste una organizzazione imprenditoriale preposta alla gestione dei servizi comuni ed alla concessione in locazione dei singoli appartamenti compravenduti seconda le regole comuni del contratto di albergo, atteso che in tale ipotesi le singole unità perdono la loro originaria destinazione d'uso alberghiera per assumere quella residenziale.
Irrilevante è la titolarità della proprietà della struttura immobiliare, che indifferentemente può appartenere ad un solo proprietario oppure ad una pluralità di soggetti. Ciò che rileva, invece, è la configurazione della struttura medesima (anche se appartenente a più proprietari) come albergo ed una configurazione siffatta deve essere caratterizzata dalla concessione in locazione delle unità immobiliari ad una generalità indistinta ed indifferenziata di soggetti e per periodi di tempo predeterminati (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.10.2012 n. 39465 - tratto da www.lexambiente.it).

URBANISTICA: Decadenza vincolo edificatorio decorso il termine quinquennale.
La decadenza del vincolo strumentale -per esso intendendosi quello che subordina l'edificabilità di un'area all'inserimento della stessa in un programma pluriennale oppure alla formazione di uno strumento esecutivo- non ha luogo nella sola ipotesi (peraltro estranea alla vicenda in oggetto, per la mancanza del PUG, cui la normativa regionale subordina l’iniziativa privata) in cui, in alternativa al piano particolareggiato, sia prevista dal piano regolatore generale la possibilità di ricorso a un piano di lottizzazione redatto dal privato: in questo ultimo caso, infatti, la possibilità di una pianificazione di livello derivato ad iniziativa privata esclude la configurabilità dello schema ablatorio e quindi, conseguentemente, la decadenza quinquennale del relativo vincolo.
La decadenza del vincolo per decorso del quinquennio di efficacia non equivale ad annullamento della previsione di piano in vigore e dunque le aree divengono prive di disciplina urbanistica -salvo quanto previsto dall'art. 9 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (c.d. zone bianche)– fino all'adozione da parte del Comune di nuove, specifiche prescrizioni.

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Resta fermo che l'obbligo di provvedere alla rideterminazione urbanistica di un'area, in relazione alla quale sono decaduti i vincoli espropriativi precedentemente in vigore (o i vincoli a quelli assimilati) non comporta che essa riceva una destinazione urbanistica edificatoria o nel senso voluto dal privato, essendo in ogni caso rimessa al potere discrezionale dell'Amministrazione comunale la verifica e la scelta della destinazione che, in coerenza con la più generale disciplina urbanistica del territorio, risulti più idonea e più adeguata in relazione all'interesse pubblico al corretto e armonico utilizzo del territorio, potendo anche ammettersi la reiterazione degli stessi vincoli scaduti, sebbene nei limiti di una congrua e specifica motivazione sulla perdurante attualità della previsione, comparata con gli interessi privati.
L’art. 9 del decreto del Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327 (come prima l'art. 2, comma 1, della legge 19.11.1968 n. 1187) fissa in cinque anni la durata del vincolo preordinato all’esproprio. La disposizione ora vigente, al pari di quella che l’ha preceduta, si riferisce ai vincoli che producano una pressoché totale ablazione del diritto di proprietà, essendo tanto intensi da annullare o ridurre notevolmente il valore degli immobili cui si riferiscono, ivi compresa l'ipotesi di imposizione temporanea di inedificabilità fino all'entrata in vigore dei piani particolareggiati, per la cui redazione non sia fissato alcun termine finale certo.
La decadenza del vincolo strumentale -per esso intendendosi quello che subordina l'edificabilità di un'area all'inserimento della stessa in un programma pluriennale oppure alla formazione di uno strumento esecutivo- non ha luogo nella sola ipotesi (peraltro estranea alla vicenda in oggetto, per la mancanza del PUG, cui la normativa regionale subordina l’iniziativa privata) in cui, in alternativa al piano particolareggiato, sia prevista dal piano regolatore generale la possibilità di ricorso a un piano di lottizzazione redatto dal privato: in questo ultimo caso, infatti, la possibilità di una pianificazione di livello derivato ad iniziativa privata esclude la configurabilità dello schema ablatorio e quindi, conseguentemente, la decadenza quinquennale del relativo vincolo (cfr. Cons. Stato, 24.03.2011, n. 615).
La decadenza del vincolo per decorso del quinquennio di efficacia non equivale ad annullamento della previsione di piano in vigore e dunque le aree divengono prive di disciplina urbanistica -salvo quanto previsto dall'art. 9 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (c.d. zone bianche)– fino all'adozione da parte del Comune di nuove, specifiche prescrizioni (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 27.01.2011, n. 615).
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Resta naturalmente fermo che l'obbligo di provvedere alla rideterminazione urbanistica di un'area, in relazione alla quale sono decaduti i vincoli espropriativi precedentemente in vigore (o i vincoli a quelli assimilati) non comporta che essa riceva una destinazione urbanistica edificatoria o nel senso voluto dal privato, essendo in ogni caso rimessa al potere discrezionale dell'Amministrazione comunale la verifica e la scelta della destinazione che, in coerenza con la più generale disciplina urbanistica del territorio, risulti più idonea e più adeguata in relazione all'interesse pubblico al corretto e armonico utilizzo del territorio, potendo anche ammettersi la reiterazione degli stessi vincoli scaduti, sebbene nei limiti di una congrua e specifica motivazione sulla perdurante attualità della previsione, comparata con gli interessi privati (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 07.06.2012, n. 3365)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.09.2012 n. 5088 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanza minima dal confine di zona.
Le distanze prescritte (art. 873, c.c.) nell'interesse privato fra gli edifici, nonché fra questi ed i confini, sono derogabili con il consenso fra vicini, ma non lo sono le distanze prescritte nella disciplina (a valenza eminentemente pubblicistica e, quindi, inderogabile) urbanistica e nel piano urbanistico (nella fattispecie in esame: art. 13, regolamento di attuazione), a tutela dell'interesse pubblico ad una progettazione urbanistica sistematicamente ordinata, a meno che la deroga non sia esplicitamente prevista dalla legge, ai sensi dell’art. 38, comma 1, legge urbanistica provinciale, applicabile solamente alle zone di espansione e come tale (norma che sancisce un'eccezione) non estensibile per analogia alle zone di riempimento.
Per giurisprudenza consolidata della Cassazione civile (cfr. sent. n. 12966/2006), le distanze prescritte (art. 873, c.c.) nell'interesse privato fra gli edifici, nonché fra questi ed i confini, sono derogabili con il consenso fra vicini, ma non lo sono le distanze prescritte nella disciplina (a valenza eminentemente pubblicistica e, quindi, inderogabile) urbanistica e nel piano urbanistico (nella fattispecie in esame: art. 13, regolamento di attuazione), a tutela dell'interesse pubblico ad una progettazione urbanistica sistematicamente ordinata, a meno che la deroga non sia esplicitamente prevista dalla legge, ai sensi dell’art. 38, comma 1, legge urbanistica provinciale, applicabile solamente alle zone di espansione e come tale (norma che sancisce un'eccezione) non estensibile per analogia alle zone di riempimento (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.09.2012 n. 5064 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA: Illegittimità diniego del dirigente su piano lottizzazione.
E’ illegittima la nota con la quale il Direttore della Ripartizione qualità edilizia e trasformazione del territorio del Comune di Bari, ha comunicato il parere del Coordinamento tecnico interno, di rigetto del piano di lottizzazione.
La competenza in ordine ai “piani territoriali ed urbanistici” spetta al Consiglio comunale, organo competente sia all’adozione di tali strumenti (sia generali che attuativi), sia in ordine ad eventuali atti di diniego dei predetti strumenti, ed in particolare –per quel che interessa nella presente sede- di progetti (quali il piano di lottizzazione) provenienti da privati e pacificamente equiparati (in quanto sostitutivi/alternativi) agli atti redatti dalla P.A. di pianificazione urbanistica attuativa. Il diniego di approvazione di un piano di lottizzazione deve essere adottato dal Consiglio Comunale e non già da dirigenti dell’amministrazione, le cui competenze, come previste dall’art. 107 d.lgs. n. 267/2000 non ricomprendono l’adozione di tali atti.
Tutto ciò, non comporta che gli uffici dell’amministrazione (e segnatamente i dirigenti degli enti locali) non possono indicare, per mezzo di atti endoprocedimentali, eventuali aspetti dei piani di lottizzazione che possono condurre al diniego di approvazione degli stessi, ovvero richiedere integrazioni documentali. Tuttavia, a fronte della volontà del privato di insistere per la conclusione del procedimento relativo al progetto così come presentato, i medesimi uffici, pur con le osservazioni di propria competenza, non possono che rimettere ogni decisione al Consiglio comunale, unico organo competente a deliberare con carattere di definitività in materia di pianificazione urbanistica.

Il Collegio ritiene che il motivo di appello (sub c) dell’esposizione in fatto), con il quale si lamenta il vizio di incompetenza, è fondato e debba essere, pertanto, accolto, con conseguente assorbimento degli ulteriori motivi di impugnazione.
Secondo gli appellanti, tale vizio sussiste poiché gli atti di diniego del piano di lottizzazione, sono stati “posti in essere non dal Consiglio comunale, unico organo comunale deputato ex lege a ciò, ma da soggetti (dirigente UTC, commissione tecnica interna, ecc.) del tutto incompetenti in materia di approvazione o reiezione di piani urbanistici, primari o secondari che siano”.
Orbene, l’art. 42, co. 2, lett. b), d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (Testo Unico Enti Locali) , nel definire le competenze del Consiglio Comunale, prevede che tra queste ultime rientrino l’adozione dei seguenti atti: “b) programmi, relazioni previsionali e programmatiche, piani finanziari, programmi triennali e elenco annuale dei lavori pubblici, bilanci annuali e pluriennali e relative variazioni, rendiconto, piani territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da rendere per dette materie”.
Appare del tutto evidente, quindi, che la competenza in ordine ai “piani territoriali ed urbanistici” spetta al Consiglio comunale, organo competente sia all’adozione di tali strumenti (sia generali che attuativi: Cons. Stato, sez. VI, 20.01.2003 n. 300), sia in ordine ad eventuali atti di diniego dei predetti strumenti, ed in particolare –per quel che interessa nella presente sede- di progetti (quali il piano di lottizzazione) provenienti da privati e pacificamente equiparati (in quanto sostitutivi/alternativi) agli atti redatti dalla P.A. di pianificazione urbanistica attuativa
Un atto, quindi, che –per le ragioni innanzi esposte (v. punto 2 della presente decisione)– costituisce diniego di approvazione di un piano di lottizzazione (in quanto conseguente all’arresto procedimentale effettuato ed all’ulteriore corso del procedimento subordinato all’adeguamento del piano a prescrizioni imposte), deve essere adottato dal Consiglio Comunale e non già da dirigenti dell’amministrazione (le cui competenze –come previste dall’art. 107 d.lgs. n. 267/2000– non ricomprendono l’adozione di tali atti).
Quanto esposto non comporta che gli uffici dell’amministrazione (e segnatamente i dirigenti degli enti locali) non possono indicare, per mezzo di atti endoprocedimentali, eventuali aspetti dei piani di lottizzazione che possono condurre al diniego di approvazione degli stessi, ovvero richiedere integrazioni documentali. Tuttavia, a fronte della volontà del privato di insistere per la conclusione del procedimento relativo al progetto così come presentato, i medesimi uffici, pur con le osservazioni di propria competenza, non possono che rimettere ogni decisione al Consiglio comunale, unico organo competente a deliberare con carattere di definitività in materia di pianificazione urbanistica
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.09.2012 n. 5055 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZA LAVORO: Il datore di lavoro pubblico in materia di sicurezza del lavoro.
Ancora una sentenza della Corte Suprema sul datore di lavoro pubblico in materia di sicurezza del lavoro.
Ultimamente, la Sez. III osservò che «la definizione di datore di lavoro, contenuta nell’art. 2 D.Lgs. n. 81/2008,ha dato esclusivo rilievo, ai fini della individuazione dei soggetti titolari del debito di sicurezza, al requisito della organizzazione della attività, unito, ovviamente, all’esercizio dei poteri decisionali e di spesa inerenti la stessa», e che, «nella sua seconda parte, l’art. 2, comma 1, lettera b), del citato decreto individua la figura del datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, e, a differenza del D.Lgs. n. 626/1994, il vigente 81/2008 recepisce, esplicitandolo, lo stabile indirizzo giurisprudenziale secondo il quale è l’organo di vertice delle singole amministrazioni, ovverosia l’organo di direzione politica, a dovere individuare il dirigente, o il funzionario non dirigente, cui attribuire la qualità di datore di lavoro».
Aggiunse che «mutuate dal predetto orientamento della Corte di legittimità sono anche le conseguenze che secondo il dettato del citato decreto derivano dalla omessa individuazione dell’organo politico del dirigente designato ad assumere il debito di sicurezza», poiché «in tali casi la qualifica di datore di lavoro continuerà a coincidere con l’organo di vertice medesimo, quindi con il sindaco». (Così Cass. 20.04.2012, in Dir. prat. lav., 2012, 22, 1446. Sul tema v. anche Cass. 28.09.2011, Laganà e R.C, ibid., 2012, 4, 233; Cass. 06.06.2011, Betti, ibid., 2011, 8-9, 674; Cass. 05.05.2011, Angeloni e altri, ibid., 2011, 6, 360, alle cui note si rinvia per il richiamo di ulteriori riferimenti giurisprudenziali).
Nel caso ora esaminato dalla presente sentenza, il direttore generale di un consorzio intercomunale rifiuti, energia servizi, ente consortile con personalità giuridica ed autonomia negoziale, fu dichiarato colpevole quale datore di lavoro per più violazioni antinfortunistiche, sul presupposto che lo statuto del consorzio «attribuisce al direttore generale ampi e pregnanti poteri gestionali, decisionali e di spesa, propri del datore di lavoro».
A sua discolpa, l’imputato lamenta che, «secondo il T.U. 81/2008, che ha mutuato l’indirizzo giurisprudenziale, compete all’organo di direzione politica il dovere di individuare il dirigente cui attribuire la qualità di datore di lavoro», e che, «non risultando alcuna delega, la qualifica di datore di lavoro non poteva che competere al presidente del consorzio».
La Sez. III non è d’accordo.
Premette che, «ai fini dell’applicazione della normativa antinfortunistica, datore di lavoro sia il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’organizzazione dell’impresa, ha la responsabilità dell’impresa stessa ovvero dell’unità produttiva», e che «nelle pubbliche amministrazioni per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri gestionali, decisionali e di spesa, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale».
Nel richiamare Cass. 17.07.2009 Corea e altro (in Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, IV edizione, Milano, 2012, 22), precisa che «gli obblighi di prevenzione infortuni e sicurezza in luoghi di lavoro, che per legge fanno capo al datore di lavoro, nel settore degli enti pubblici gravano sul titolare effettivo del potere di gestione», e che «tali obblighi possono gravare su un funzionario non avente qualifica dirigenziale qualora lo stesso, a norma dell’art. 2 del D.Lgs. n. 81 del 2008, sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall’organo di vertice dell’amministrazione tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività e sia altresì dotato di poteri decisionali e di spesa».
Rileva come «il datore di lavoro, individuato secondo i criteri sopra indicati, possa delegare gli obblighi su di lui gravanti ad altri, con conseguente sostituzione e subentro del delegato nella posizione di garanzia, ma l’atto di delega deve essere espresso, inequivoco e certo, dovendo inoltre investire persona tecnicamente capace, dotata delle necessarie cognizioni tecniche e dei relativi poteri decisionali e di intervento, che abbia accettato lo specifico incarico, fermo restando l’obbligo per il datore di lavoro di vigilare e controllare che il delegato usi, poi, concretamente la delega, secondo quanto la legge prescrive», e, quindi, come «la delega è in linea generale ed astratta consentita, ma per essere rilevante ai fini dell’esonero da responsabilità del delegante, deve avere i seguenti requisiti: essere puntuale ed espressa, senza che siano trattenuti in capo al delegante poteri residuali di tipo discrezionale; il soggetto delegato deve essere tecnicamente idoneo e professionalmente qualificato per lo svolgimento del compito affidatogli; il trasferimento delle funzioni deve essere giustificato in base alle esigenze organizzative dell’impresa; unitamente alle funzioni debbono essere trasferiti i correlativi poteri decisionali e di spesa; l’esistenza della delega deve essere giudizialmente provata in modo certo».
Afferma che, nel caso di specie, «mentre l’art. 20 dello statuto dell’ente attribuisce al presidente del consiglio di amministrazione, oltre alla rappresentanza legale del consorzio, mere funzioni generali di raccordo, di coordinamento e di vigilanza, l’art. 28 attribuisce al direttore generale ampi poteri gestionali, decisionali e di spesa, assegnandogli ‘‘la responsabilità gestionale del consorzio’’, la possibilità di operare ‘‘assicurando il raggiungimento dei risultati programmatici, sia in termini di servizio che in termini economici’’ e, in particolare, i compiti di ‘‘dirigere il personale del consorzio, organizzare funzioni ed attribuzioni di servizi, settori e coordinamenti di aree; predisporre i piani di formazione ed aggiornamento del personale; provvedere agli acquisti in economia ed alle spese indispensabili per il normale ed ordinario funzionamento del consorzio ed entro i limiti e con le modalità previste da apposito regolamento; firmare gli ordinativi di incasso ed i mandati di pagamento».
Conclude che «il direttore generale del consorzio aveva, a norma di statuto, poteri gestionali, decisionali e di spesa e, quindi, su di lui gravavano gli obblighi di prevenzione infortuni e sicurezza nei luoghi di lavoro», e che «non risulta che tali obblighi siano stati delegati ad altri» (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.07.2012 n. 28410 - tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 10/2012).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Direttore dei lavori e coordinatori nei cantieri.
Di notevole interesse, in questa sentenza, è quel che s’insegna a proposito della posizione di garanzia vuoi del direttore dei lavori, vuoi dei coordinatori, nell’ambito dei cantieri temporanei o mobili.
Invero, la Sez. IV, dopo aver ribadito la responsabilità del datore di lavoro dell’imprese esecutrice, sottolinea che «le posizioni di garanzia del coordinatore per la progettazione e del coordinatore per l’esecuzione «non si sovrappongono a quelle degli altri soggetti responsabili nel campo della sicurezza sul lavoro, ma ad esse si affiancano per realizzare, attraverso la valorizzazione di una figura unitaria con compiti di coordinamento e controllo, la massima garanzia dell’incolumità dei lavoratori».
E insegna, inoltre, che «il direttore dei lavori o responsabile dei lavori edili è titolare di una posizione di garanzia nei confronti dei lavoratori, ed ha, pertanto, l’obbligo di predisporre e fare osservare i presidi di sicurezza richiesti dalla legge per l’esecuzione dei predetti lavori, a nulla rilevando la compresenza di un ‘‘coordinatore della sicurezza in fase di progettazione’’ e di un ‘‘coadiutore della sicurezza in fase di esecuzione’’, a loro volta titolari di autonome e concorrenti posizioni di garanzia». (Quanto alla posizione di garanzia dei coordinatori v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, IV edizione, Milano, 2012, 501 ss. e 508 ss.; sulle responsabilità del direttore dei lavori cfr., in particolare, Cass. 31.05.2012, Ciulla e altro, in ISL, 2012, ..., alla cui nota si rinvia per ulteriori riferimenti giurisprudenziali) (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 14.06.2012 n. 23630 - tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 10/2012).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: PSC generico e responsabilità del coordinatore per la progettazione.
In un cantiere aperto per il rifacimento della facciata di un fabbricato, un dipendente dell’impresa esecutrice con qualifica di tinteggiatore, «mentre stava smontando il ponteggio utilizzato, impugnava un tavolone di legno, della
lunghezza di circa quattro metri, del peso di 26 chilogrammi, per caricarlo sul camion
», «inciampava su di un cordolo di cemento alto circa 35 centimetri posto a poca distanza da un lucernario, chiuso con pezzi di legno e nylon che non reggeva il peso dell’operaio», e «rovinava al suolo, da una altezza di diversi metri».
A dire dei giudici di merito, «l’apertura, presente nel piazzale antistante il fabbricato, non era stata adeguatamente coperta e costituiva perciò una palese fonte di pericolo, proprio in relazione alle possibili cadute delle persone che operavano nel cantiere»; e il «coordinatore per la progettazione e la esecuzione delle opere avrebbe dovuto evidenziare tale rischio nel piano di sicurezza e coordinamento e provvedere alla eliminazione in concreto della fonte di pericolo», là dove per contro «il piano, su tale punto, risultava di converso del tutto generico».
Nel confermare la condanna dell’imputato, la Sez. IV ritiene che il coordinatore della sicurezza, «in presenza di una copertura che appariva del tutto inadeguata, avrebbe dovuto provvedere a mettere in sicurezza il lucernario», e che, «sul punto, il piano di sicurezza e coordinamento era stato redatto dall’imputato in modo del tutto generico, in assenza di alcun coordinamento con le diverse ditte che si erano occupate della ristrutturazione dello stabile».
Osserva che «l’appaltatore è il destinatario degli obblighi prevenzionali, salvi alcuni obblighi specifici che restano a carico del committente, quali l’informazione sui rischi dell’ambiente di lavoro e la cooperazione nell’apprestamento delle misure di protezione e prevenzione», e che, «nel caso di specie, vengono in rilievo proprio i rischi connessi all’ambiente di lavoro, in relazione all’apertura presente nel piazzale antistante il fabbricato».
Né il reato di lesione personale colposa ascritto all’imputato risulta improcedibile per difetto di querela: «l’infortunio si era verificato all’interno di un cantiere, a causa della violazione delle norme di sicurezza, con riferimento al piano di sicurezza e coordinamento redatto dall’imputato. Di talché certamente sussisteva l’aggravante di cui all’art. 590, comma 3, c.p., ed il reato risultava perseguibile di ufficio» (Sulla responsabilità del coordinatore per insufficienza o incompletezza del PSC v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, IV edizione, Milano, 2012, 501 ss.) (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 07.06.2012 n. 22044 - tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 10/2012).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L’interesse a ricorrere è caratterizzato dalla sussistenza dei medesimi requisiti che qualificano l’interesse ad agire ai sensi dell’art. 100 c.p.c. e, cioè, dalla prospettazione di una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente e dall’effettiva utilità che deriverebbe a quest’ultimo dall’invocato annullamento dell’atto impugnato.
Ovviamente, la verifica della ricorrenza della condizione dell’azione in esame postula che il pregiudizio arrecato dal provvedimento gravato sia effettivo, nel senso che dall’esecuzione dello stesso deve discendere in via immediata e personale un danno certo alla sfera giuridica del ricorrente, ovvero potenziale, nel senso, però, che la lesione si verificherà in futuro con un elevato grado di certezza, mentre deve escludersi il presupposto in questione nell’ipotesi in cui il danno derivante dall’attuazione dell’atto impugnato sia meramente eventuale, e, cioè, quando lo stesso non risulta, di per sé, capace di arrecare una lesione diretta alla sfera del soggetto ricorrente, né risulti sicuro che il danno si realizzerà in un secondo tempo.
Nelle controversie attinenti alla realizzazione di interventi edilizi si è ulteriormente precisato che, se è vero che l’ordinamento riconosce una posizione qualificata e differenziata, ai fini dell’interesse ad impugnare i provvedimenti di assenso alla trasformazione del territorio, a tutti coloro che si trovano in una situazione di stabile collegamento con la zona interessata dalle opere contestate, è anche vero che, in concreto, devono ritenersi titolati all’impugnativa solo i soggetti che possono lamentare una rilevante e pregiudizievole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio, per effetto della realizzazione dell’intervento controverso.

Al fine dello scrutinio della fondatezza della predetta eccezione, occorre premettere una sintetica ricognizione dei caratteri essenziali dell’interesse a ricorrere e degli elementi che ne integrano la struttura, per come identificati da una giurisprudenza ormai consolidata.
In via generale, l’interesse a ricorrere è caratterizzato dalla sussistenza dei medesimi requisiti che qualificano l’interesse ad agire ai sensi dell’art. 100 c.p.c. e, cioè, dalla prospettazione di una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente e dall’effettiva utilità che deriverebbe a quest’ultimo dall’invocato annullamento dell’atto impugnato (cfr. ex multis Cons. St., sez. V, 08.05.2007, n. 2119).
Ovviamente, la verifica della ricorrenza della condizione dell’azione in esame postula che il pregiudizio arrecato dal provvedimento gravato sia effettivo, nel senso che dall’esecuzione dello stesso deve discendere in via immediata e personale un danno certo alla sfera giuridica del ricorrente, ovvero potenziale, nel senso, però, che la lesione si verificherà in futuro con un elevato grado di certezza (Cons. St., sez. IV, 22.06.2006, n. 3947), mentre deve escludersi il presupposto in questione nell’ipotesi in cui il danno derivante dall’attuazione dell’atto impugnato sia meramente eventuale, e, cioè, quando lo stesso non risulta, di per sé, capace di arrecare una lesione diretta alla sfera del soggetto ricorrente, né risulti sicuro che il danno si realizzerà in un secondo tempo (Cons. St., sez. IV, 19.06.2006, n. 3656).
Nelle controversie attinenti alla realizzazione di interventi edilizi (alle quali può essere ascritta la presente) si è ulteriormente precisato che, se è vero che l’ordinamento riconosce una posizione qualificata e differenziata, ai fini dell’interesse ad impugnare i provvedimenti di assenso alla trasformazione del territorio, a tutti coloro che si trovano in una situazione di stabile collegamento con la zona interessata dalle opere contestate, è anche vero che, in concreto, devono ritenersi titolati all’impugnativa solo i soggetti che possono lamentare una rilevante e pregiudizievole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio, per effetto della realizzazione dell’intervento controverso (Cons. St., sez. IV, 11.04.2007, n. 1672) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.04.2008 n. 1548 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 22.10.2012

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NOVITA' NEL SITO

● inserito il bottone del nuovo dossier CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (prescrizione termine dare/avere)

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: quesito circa l'altezza dei servizi igienici nel caso di recupero di sottotetti di cui alla L.R. 15/1996 (Regione Lombardia, Direzione Generale Sanità, Servizio Prevenzione Sanitaria, nota 12.08.1998 n. 42494 di prot.).
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Il quesito, ancorché datato, è di estrema attualità poiché la norma è cambiata nel numero (L.R. n. 12/2005) ma non nella sostanza.

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Luna Park di Perugia - Assoggettabilità a verifica della Commissione di vigilanza sui locali di pubblico spettacolo (Ministero dell'Interno, Ufficio per gli Affari della Polizia Amministrativa e Sociale, nota 21.09.2012 n. 557 di prot.).
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Spendig review: sparisce anche la Commissione di vigilanza pubblico spettacolo.
Nessuno ci avrebbe scommesso, eppure sull'onda lunga dello spending review, anche la Commissione di vigilanza pubblico spettacolo, prevista dal regolamento Tulps per dare attuazione all'art. 80 del medesimo testo unico, appartiene ormai al passato.
Le sue funzioni, infatti, saranno svolte da qualche ufficio incardinato nell'amministrazione di riferimento e, quindi, comune e prefettura. E ciò da luglio del 2012.

COMPETENZE PROFESSIONALI - PROGETTUALIOggetto: Progettazione e direzione lavori di modeste costruzioni civili con strutture in cemento armato. Competenze professionali Geometri liberi professionisti (Regione Sicilia, Assessorato delle Infrastrutture e della Mobilità, nota 18.09.2012 n. 82824 di prot.).
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Di contro, pronta la risposta della Consulta Ordini Ingegneri Sicilia con la nota 04.10.2012 n. 98 di prot.: Oggetto: Progettazione e direzione lavori di modeste costruzioni civili con strutture in cemento armato – Competenze professionali.

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - ENTI LOCALI - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 19.10.2012 n. 245 "Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese" (D.L. 18.10.2012 n. 179).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: E. Boscariol, Le distanze in edilizia (Il Tecnico Legale n. 17/2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. De Falco, Deposito temporaneo, stoccaggio, abbandono (link a www.industrieambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: M. Sanna, Sottoprodotti e terre e rocce da scavo: D.M. 20.08.2012 n. 161 (link a www.industrieambiente.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI: Divieto di acquisizione di prestazioni lavorative per enti che non rispettano la normativa in materia di personale.
La Corte dei Conti, sezioni riunite di controllo per la Regione siciliana in sede consultiva, con il parere 04.10.2012 n. 54, ricorda che qualsiasi violazione delle norme in materia di spesa e vincoli sul personale oltre a quelle del patto di stabilità impedisce all'ente l'assunzione di personale a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale, ivi compreso (quindi vietato) il ricorso all'utilizzo di personale di altri enti, mediante convenzione ex art. 14 CCNL 22.01.2004 (tratto da www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: La Corte dei conti sul futuro della Sspal. Scuola dirigenti, è il de profundis.
Dopo la soppressione dell'Agenzia autonoma per la gestione dell'albo dei segretari comunali e provinciali (Ages), suona il de profundis anche per la Scuola Superiore per la formazione e specializzazione dei dirigenti della Pubblica Amministrazione Locale (Sspal). La Scuola, infatti, ha un ruolo strumentale finalizzato all'attuazione della funzione fondamentale intestata all'Ages, in una posizione servente e di dipendenza dalla stessa. Motivo per cui si può ritenere che la soppressione ex art. 7, comma 31-ter del dl n. 78/2010 non ha riguardato soltanto l'Ages, ma si è rivolta all'intero sistema di gestione dei segretari comunali e provinciali, coinvolgendo anche la Sspal.
Queste le considerazioni espresse dalla Corte dei conti, sezione centrale di controllo di legittimità sugli atti delle amministrazioni dello Stato, nel testo della deliberazione 02.10.2012 n. 22, con la quale ha ammesso al visto il decreto del Mininterno attuativo della soppressione Ages (a distanza di oltre due anni dall'intervento del legislatore), ma ha ricusato un articolo dello stesso provvedimento, inerente la prosecuzione del funzionamento della Sspal.
Per la magistratura contabile, il quadro delineato dalla normativa che ha istituito l'Ages (art. 17, commi 76 e 77 della legge n. 127/1997) ha conferito alla sola Ages la personalità giuridica, mentre alla Sspal è stato attribuito un ruolo strumentale, consistente nell'organizzazione dell'attività di formazione e specializzazione dei dirigenti della pubblica amministrazione locale, finalizzato all'attuazione della funzione fondamentale intestata alla stessa Ages.
Da ciò, si legge, la Sspal ha chiaramente una posizione servente e di dipendente dall'Agenzia autonoma dei segretari comunali e provinciali. Che non vi sia personalità giuridica lo si evince da alcuni tratti. Tra questi, il fatto che gli organi della scuola siano nominati dal presidente dell'Ages e che la programmazione dell'attività didattica sia subordinata alle risorse assegnate dalla predetta Ages.
In definitiva, la natura di organo strumentale e l'assenza di una soggettività giuridica porta la Corte a ritenere che la soppressione non ha riguardato soltanto l'Ages, ma si è rivolta all'intero sistema di gestione dei segretari, inclusa la Sspal (articolo ItaliaOggi del 18.10.2012 - tratto da www.corteconti.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - PUBBLICO IMPIEGO: Il Vice Sindaco del Comune di Vertova ha formulato una richiesta diretta ad ottenere l’avviso della Sezione in ordine alla procedura che l’Ente intenderebbe seguire per far fronte ad un’ordinanza–ingiunzione, emanata dall’Amministrazione provinciale per una violazione in materia di acque pubbliche nei confronti del Sindaco e del Comune, in via tra loro solidale.
...
Il Vice Sindaco del Comune di Vertova, con nota in data 22.12.2011, ha
formulato una richiesta diretta ad ottenere l’avviso della Sezione in ordine alla procedura che l’Ente intenderebbe seguire per far fronte ad un’ordinanza–ingiunzione, emanata dall’Amministrazione provinciale per una violazione in materia di acque pubbliche nei confronti del Sindaco e del Comune, in via tra loro solidale.
Il quesito è formulato dal Vice Sindaco poiché il Sindaco si sarebbe trovato in una situazione di impedimento temporaneo conseguente ad un ricovero ospedaliero.
Come risulta dalla richiesta di parere formulata alla Sezione, la questione che interessa al Comune di Vertova è di avere indicazioni da parte della Sezione in ordine alla procedura che l’Ente ipotizza di seguire, al fine di verificare se il procedimento ipotizzato “possa considerarsi conforme al vigente quadro normativo così come interpretato dalla dottrina e (dal)la giurisprudenza”.
Il Vice Sindaco del Comune di Vertova specifica, infatti, che
al Sindaco e all’Ente è stata notificata un’ordinanza ingiunzione da parte della Provincia per violazione di alcune disposizioni in materia di acque pubbliche e che il Comune avrebbe intenzione di avviare una verifica interna per appurare se la violazione contestata sia conseguente al comportamento di dipendenti.
All’esito della verifica intenderebbe provvedere, comunque, al pagamento della sanzione comminata dalla Provincia “con oneri a carico del bilancio comunale” avviando azione di regresso nei confronti dei responsabili, ove vengano accertate specifiche colpe, ovvero, qualora emergesse “che l’evento che ha cagionato la sanzione non è da ascriversi a dolo, imperizia, o negligenza da parte di alcuno giacché dovuto a cause impreviste ed imprevedibili”, dare atto che “ …, per effetto dell’istruttoria effettuata, non è emersa responsabilità nei confronti di soggetti nei confronti dei quali attivare azione di regresso”.

...
La richiesta di parere in esame non risponde ai requisiti indicati sopra e, pertanto, è da ritenere inammissibile e non può essere esaminata nel merito.
Il quesito, infatti, non solo non ha carattere di generalità ma attiene ad una precisa scelta gestionale discrezionale dell’Amministrazione collegata alle iniziative da assumere in relazione al pagamento, eventualmente con risorse pubbliche, di una sanzione amministrativa irrogata al Sindaco ed all’Ente locale, in via tra loro solidale.
Si tratta di una scelta delicata che non può avere l’avallo preventivo della Sezione poiché, da un lato, la magistratura contabile non può fornire pareri preventivi di legittimità in ordine agli atti amministrativi che devono essere in concreto adottati dagli Enti locali e, dall’altro, la legittimità della scelta dipende dalla natura della sanzione irrogata dalla Provincia che, ovviamente, non è nota alla Sezione. A questo proposito, infatti, è bene tenere presente che
se la sanzione irrogata al Sindaco avesse carattere strettamente personale non potrebbe che risponderne patrimonialmente il destinatario del provvedimento (in proposito: Corte conti, sez. contr. Emilia Romagna, 30.11.2011, n. 239 che richiama il principio di diritto posto da Corte conti sez. giurisd. Sicilia, 12.07.2010, n. 1574)
Inoltre, occorre sottolineare che
ogni volta che l’ente subisce un danno patrimoniale, quale sarebbe nel caso di specie il pagamento della sanzione amministrativa, l’accertamento dell’esistenza di eventuali responsabilità di dipendenti del Comune non rientra nella disponibilità degli organi comunali ma è di competenza della Procura della Corte dei conti alla quale gli organi di vertice sono tenuti a denunciare la perdita patrimoniale conseguente al pagamento (art. 53, del T.U. 12.07.1934, n. 1214; art. 83 del R.D. 18.11.1923, n. 2440; art. 20 del T.U. 10.01.1957, n. 3 e art. 1, co. 3, della l. 14.01.1994, n. 20) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 26.01.2012 n. 23).

NEWS

APPALTIVerifica antimafia per i revisori. Controlli estesi ai professionisti dei collegi e organi vigilanti. Lo prevede un decreto correttivo del codice del 2011, pronto per il Consiglio dei ministri.
Verifica antimafia per i revisori e per i componenti dell'organo di vigilanza.
Lo prevede lo schema di decreto legislativo correttivo del codice delle leggi antimafia (dlgs 159/2011) che sarà il 23 ottobre prossimo in Consiglio dei ministri e che ItaliaOggi è in grado di anticipare. Lo schema stabilisce, infatti, che i controlli antimafia devono essere espletati nei confronti dei membri dei collegi sindacali di associazioni e società e anche dei componenti dell'organo di vigilanza previsto dall'articolo 6 del decreto legislativo 231/2001 (sulla responsabilità amministrativa delle imprese).
CERTIFICAZIONI E INFORMAZIONI ANTIMAFIA. La documentazione antimafia è costituita dalla comunicazione antimafia e dall'informazione antimafia. La comunicazione antimafia consiste nell'attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto quali misure di prevenzione (articolo 67 del codice antimafia). L'informazione antimafia consiste nell'attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all'articolo 67 citato, e anche nell'attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate.
CATALOGO DEI SOGGETTI COINVOLTI. Il decreto correttivo completa il catalogo dei soggetti da sottoporre a verifica ai fini del rilascio della documentazione antimafia. In materia si sono registrati dubbi applicativi, risolti con il decreto in esame. In particolare viene definito espressamente il regime dei controlli da effettuarsi nei confronti dei gruppi europei di interesse economico (Geie): è assimilato a quello previsto per i consorzi disciplinati dall'articolo ex articolo 2602 codice civile. Trovano un raccordo, quindi, il codice antimafia e il dlgs 240/1991, che prevede l'applicabilità ai Geie delle normative antimafia.
Viene inoltre stabilito che i controlli antimafia devono essere espletati nei confronti dei membri dei collegi sindacali di associazioni e società nonché dei componenti dell'organo di vigilanza previsto dall'articolo 6, comma 1, lettera b) del decreto legislativo 231/2001. Sono assoggettate alle verifiche antimafia anche le imprese prive di sede principale o secondaria in Italia. Il correttivo colma una lacuna: il codice attualmente, consente di effettuare tali verifiche soltanto nei confronti degli operatori economici con sede legale o secondaria nel territorio dello stato.
Vengono introdotte nel codice specifiche disposizioni riguardanti i particolari controlli antimafia da svolgersi nei confronti delle società concessionarie di giochi pubblici. La documentazione antimafia deve riferirsi anche ai soci persone fisiche che detengono, anche indirettamente, una partecipazione al capitale o al patrimonio superiore al 2%. Medesimo obbligo è esteso ai direttori generali e ai soggetti responsabili delle sedi secondarie o delle stabili organizzazioni in Italia di soggetti non residenti.
VALIDITÀ DEI CERTIFICATI. Il codice, come riscritto dal decreto correttivo, stabilisce che la comunicazione antimafia ha una validità di sei mesi dalla data dell'acquisizione, mentre l'informazione antimafia ha, di regola, una validità di dodici mesi dalla data dell'acquisizione.
DECERTIFICAZIONE. Vengono soppresse le previsioni che permettono al privato di utilizzare la copia autentica della documentazione antimafia rilasciata. Inoltre vengono soppresse, all'art. 87, le previsioni che consentono al privato di richiedere il rilascio della comunicazione antimafia. Quest'ultima ha una natura certificativa e può essere prodotta esclusivamente nei confronti dei soggetti pubblici (elencati all'articolo 83, commi 1 e 2, del codice).
RILASCIO AUTOMATICO. Il provvedimento modifica, inoltre, l'articolo 88 del codice, precisando che il rilascio automatico della comunicazione antimafia può avvenire solo se il soggetto interessato è già stato censito nella apposita banca dati. Diversamente, il prefetto provvede a effettuare i controlli antimafia secondo le modalità ordinarie già previste per i soggetti nei cui confronti sono emersi riscontri informativi indicativi dell'esistenza di controindicazioni all'emissione del provvedimento.
TRACCIABILITÀ. Arricchito l'elenco delle circostanze dalle quali il prefetto può desumere l'esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa: sono ricomprese anche le violazioni agli obblighi di tracciabilità dei flussi finanziari derivanti da appalti pubblici, commesse con la condizione della reiterazione.
INFORMAZIONI INTERDITTIVE. Le informazioni antimafia interdittive devono essere comunicate sempre ai vari soggetti istituzionali interessati e non solo nella specifica ipotesi di provvedimenti inibitori emessi a seguito di accesso in cantiere. Inoltre si prevede che il prefetto trasmetta i provvedimenti inibitori anche alla Direzione nazionale antimafia, ai soggetti titolari del potere di proposta di applicazione delle misure di prevenzione, agli uffici dell'Agenzia delle entrate competenti per il luogo di sede legale del soggetto destinatario della misura interdittiva all'Autorità garante della concorrenza (ai fini dell'attribuzione del rating d'impresa) e all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici per l'inserimento nella Banca dati nazionale dei contratti pubblici (articolo ItaliaOggi del 20.10.2012).

ENTI LOCALIForniture alle p.a., fattura elettronica vicina.
Più vicina la fatturazione elettronica delle forniture alla pubblica amministrazione.

Con il parere 12.10.2012 n. 4267, il Consiglio di Stato, preso atto delle modifiche apportate al testo inizialmente predisposto dal ministero dell'economia, ha dato infatti semaforo verde al provvedimento attuativo delle disposizioni dell'art. 1, commi 209-214, della legge n. 244/2007. In particolare, osserva l'organo legale, risultano superate le criticità che il consiglio aveva rilevato nel parere interlocutorio del 27.10.2011, concernenti la coerenza con l'art. 117 della costituzione in relazione all'impatto della procedura di fatturazione elettronica sulle autonomie locali.
In proposito, infatti, il ministero dell'economia, nel trasmettere la nuova versione dello schema di regolamento, ha osservato che l'art. 10, comma 13, del dl 201/2011 ha modificato le predette disposizioni, riferendo l'obbligo della fattura elettronica ai rapporti con le amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, della legge 196/2009 e alle amministrazioni autonome (articolo ItaliaOggi del 19.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALIAgenzia per la gestione dei segretari. Gli enti continueranno a pagare.
I comuni e le province dovranno continuare a versare i contributi dovuti alla vecchia Agenzia per la gestione dell'albo dei segretari non più fino alla fine del 2012 ma fino alla fine del mese di luglio del 2013; la Scuola superiore per la formazione e la specializzazione dei dirigenti della pubblica amministrazione locale, cioè la Scuola dei segretari, conosciuta anche come Sspal, viene soppressa; viene istituito il consiglio direttivo per l'Albo dei segretari comunali e provinciali presso il ministero dell'interno: sono queste le principali novità dettate dall'articolo 10 del dl n. 174/2012.

Viene per l'ennesima volta prorogato (si veda ItaliaOggi di giovedì 4 ottobre) l'obbligo per gli enti locali di versare al ministero dell'interno i contributi provenienti dalla riscossione dei diritti di segreteria già dovuti alla disciolta Agenzia per la gestione dell'albo dei segretari comunali e provinciali, contributi che servono per la corresponsione del trattamento economico ai segretari in disponibilità e per il funzionamento dell'Agenzia e della Scuola dei segretari.
Tale termine era previsto per la fine del 2010, ma di proroga in proroga (con questa disposizioni si sposta la scadenza fissata dal dl 95/2012, cosiddetta spending review, per la fine del 2012) si è arrivati alla fine del mese di luglio del 2013. Da ricordare che, nel momento in cui questo obbligo verrà meno, i trasferimenti ai comuni e alle province saranno ridotti di una cifra complessiva analoga: con le nuove regole si dovrebbe avere una ripartizione più equa tra i singoli enti locali.
Viene chiusa la Scuola dei segretari, che gestisce sia i corsi per l'accesso all'Albo dei segretari, sia quelli per avanzare in tale carriera, sia l'aggiornamento; le sue attività, nonché il suo personale, vengono assegnati al ministero dell'interno. Con un regolamento da emanare entro il termine del 31.07.2013, saranno dettate le modalità attraverso cui il ministero dell'interno dovrà gestire le attività svolte in precedenza dalla Agenzia per la gestione dell'albo e quelle della Scuola.
È stato infine istituito, a far data dalla entrata in vigore del decreto, il Comitato direttivo per l'Albo nazionale dei segretari comunali e provinciali. Esso viene presieduto dal ministro dell'interno ed è composto da rappresentanti del Viminale, dell'Anci e dell'Upi: a differenza del vecchio consiglio di amministrazione dell'Agenzia non vi sono i rappresentanti dei segretari comunali e provinciali. Per la partecipazione a tale organismo non è prevista la erogazione di alcun compenso.
I suoi compiti sono fissati direttamente dalla disposizione: definire le modalità di gestione dell'albo dei segretari, ivi compresi i beni di proprietà della disciolta Agenzia; fissare il fabbisogno di segretari comunali e provinciali (ricordando al riguardo che il dl n. 95/2012 fissa nello 80% dei cessati il tetto per le nuove assunzioni di segretari); adottare gli indirizzi per la programmazione dell'attività didattica e il piano generale annuale delle iniziative di formazione e di assistenza, svolgendo altresì i compiti di controllo; ripartire le risorse necessarie per la gestione dell'albo, per i corsi concorso per l'accesso, per la formazione e l'aggiornamento professionale dei segretari, dei dirigenti degli enti locali e degli amministratori (articolo ItaliaOggi del 19.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOControlli preventivi e dirigenti svincolati. Due ricette anti-sprechi.
Solo i controlli preventivi di legittimità e merito possono scongiurare il proliferare di spese incontrollate come quelle del consiglio regionale del Lazio. E, contestualmente, l'eliminazione definitiva del potere degli organi di governo di incaricare i dirigenti.

Al di là dei rimborsi ai gruppi consiliari, sono emerse spese davvero difficili da giustificare, legate al semplice funzionamento degli uffici. Sono stati acquistati tablet per i consiglieri a prezzi più che doppi rispetto ai listini, così come altre attrezzature informatiche molto più care dell'ordinario.
Di utilizzare la Consip, evidentemente, nemmeno ci si è pensato. Come di responsabilizzare sull'utilità dei beni, la congruità dei prezzi e del sistema di individuazione del contraente.
Inutile pensare che questo modo di operare sia limitato e circoscritto. La giusta necessità di assicurare autonomia alle organizzazioni politiche e agli organi di governo viene troppo spesso, però, scambiata per potere assoluto di scegliere come, cosa, a quale prezzo e da chi spendere. Senza troppa cura di procedure e sistemi, che, invece valgono per tutti gli organi pubblici, politici o tecnici che siano.
Il che dimostra come prevedere norme poste a regolare, per esempio, le modalità di approvvigionamento di beni e servizi, come da ultimo l'articolo 1 della legge 135/2012 che nella logica della spending review mira a potenziare l'utilizzo delle convenzioni Consip, non sia di per sé sufficiente.
Occorre al più presto a tutti i livelli di organizzazione reintrodurre controlli esterni di legittimità, se non di merito, imprudentemente e frettolosamente eliminati dalle riforme-Bassanini, all'epoca della costruzione di un «federalismo» in provetta, che oggi mostra tutta la sua dannosità.
Controlli che sarebbe opportuno svolgessero organi amministrativi, in modo da permettere alle amministrazioni controllate di ricorrervi se erronei. Ma, l'organo di controllo dovrebbe essere funzionalmente posto alle dipendenze della Corte dei conti e a essa rispondere della sua azione.
Un altro elemento di criticità è il cordone ombelicale che lega la dirigenza agli organi politici, per effetto delle norme che attribuiscono a questi ultimi il potere di incaricarli, premiarli, assicurare loro «carriera», in nome di una «fiduciarietà» che, per altro, la Consulta ha più volte considerato contraria alla Costituzione, in quanto l'apparato amministrativo deve assicurare efficienza alla macchina e non fedeltà a questo o quel colore politico.
Lo stretto legame, molte volte accentuato dal potere degli organi di governo di cooptare dirigenti esterni senza nemmeno concorsi, può indurre gli alti funzionari ad agire per assicurare, appunto, l'acquisto di beni o servizi fuori mercato, per «compiacere».
Tanto strategico è il potere di «nomina» dei dirigenti, che la presidente del Lazio ormai a fine mandato ne ha comunque nominati 10. Allo scopo forse di assicurare una continuità quanto meno nei gangli amministrativi o ad altri fini non è dato saperlo. Il fatto che si possa porre il dubbio, tuttavia, fa comprendere come la disciplina degli incarichi dirigenziali e lo spoil system possano consentire a dirigenti e funzionari di non vedere, non parlare, eseguire. Sebbene non sia questo il loro ruolo (articolo ItaliaOggi del 19.10.2012 - tratto da www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ I possibili paletti al diritto di accesso da parte dei consiglieri dell'ente. Rilascio copie con giudizio. Anche l'informatica può soddisfare le richieste.
Un ente locale può determinare, in relazione al diritto di accesso da parte dei consiglieri, un limite al rilascio di copie di documenti oltre il quale imporre un costo del servizio?

In linea generale, per i consiglieri, vale il principio di gratuità del diritto di prendere visione e di estrarre copia di atti e documenti, che trova fondamento nell'esercizio del munus agli stessi affidato, «_ perché l'esercizio del diritto di accesso attiene alla funzione pubblica di cui il richiedente è investito e non al soddisfacimento di un interesse privato ed attuale_».
Pertanto «al consigliere che chieda copia di atti utili per l'esercizio del proprio mandato non può essere addebitato il costo», sia «perché l'esercizio del diritto di accesso attiene alla funzione pubblica di cui il richiedente è investito _», sia perché «in nessun caso il consigliere può fare uso privato_ dei documenti così acquisiti». (Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi parere del 05.10.2004).
Con il parere del 05.10.2010, la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, esprimendosi sull'esercizio di tale diritto, ha ribadito che è illegittimo prevedere, per le richieste da parte dei consiglieri comunali, il pagamento dell'imposta di bollo, dei diritti di segreteria e dei costi di riproduzione.
La stessa Commissione ha richiamato il consolidato principio giurisprudenziale (ex multis Consiglio di Stato, sez. V. n. 929/2007) secondo cui il diritto di accesso del consigliere agli atti «non può subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica dell'ente con l'unico limite di poter esaudire la richiesta, qualora sia di una certa gravosità, secondo i tempi necessari per non determinare interruzione delle altre attività di tipo corrente_» .
Sotto tale profilo il consigliere deve, quindi, contemperare il diritto di accesso con l'esigenza di non intralciare lo svolgimento dell'attività amministrativa ed il regolare funzionamento degli uffici comunali, comportando ad essi il minor aggravio possibile, sia dal punto di vista organizzativo che economico (Corte dei conti, sez. Liguria n. 1/2004).
Al riguardo, la Commissione per l'accesso, sulla base principio di economicità che incombe sia sugli uffici tenuti a provvedere sia sui soggetti che chiedono prestazioni amministrative, ha riconosciuto «la possibilità per il consigliere di avere accesso diretto al sistema informatico interno, anche contabile, dell'ente attraverso l'uso della password di servizio _ proprio al fine di evitare che le continue richieste di accesso si trasformino in un aggravio dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente locale» (cfr. parere 29.11.2009).
In tale contesto anche il giudice amministrativo ha ritenuto legittime norme regolamentari contenenti accorgimenti finalizzati a ridurre i costi. In particolare, il Consiglio di stato, V, con la sent. n. 6742/2007 ha condiviso l'avviso del Ministero dell'interno in merito alla possibilità di riprodurre planimetrie su cd-rom qualora il consigliere chieda l'estrazione di copie di atti la cui fotoriproduzione comporti costi elevati .
Peraltro il Tar Puglia (sent. n. 115 del 21.01.2011) ha affermato che «gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali si rinvengono, per un verso, nel fatto che esso debba avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali e, per altro verso, che non debba sostanziarsi in richieste assolutamente generiche_, fermo restando che la sussistenza di tali caratteri debba essere attentamente_ vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso».
Se quindi, da un lato, l'imposizione di costi di riproduzione non appare di per sé in linea con gli orientamenti espressi, per altro verso, ove sia valutato che la richiesta di rilascio di copie comporti in concreto particolare aggravio per gli uffici, l'ente potrà, di volta in volta, trovare una soluzione organizzativa, anche in chiave informatica, utile ad ovviare a tale inconveniente (articolo ItaliaOggi del 19.10.2012).

PUBBLICO IMPIEGODdl corruzione, per i pubblici dipendenti arriva il divieto di ricevere regali.
È una rivoluzione anche per la pubblica amministrazione quella che metterà in moto il disegno di legge approvato ieri al Senato. Il provvedimento, che tornerà alla Camera per la quarta lettura, rimanda al governo le deleghe ad adottare i decreti legislativi anche in materia di prevenzione. Ed è proprio su questo terreno, secondo i tecnici che hanno lavorato al testo del ddl, che la sfida contro la corruzione sarà più impegnativa.
Segretari anti-corruzione. L’Autorità nazionale detterà le linee guida. Amministrazioni pubbliche ed enti locali dovranno a loro volta darsi un piano per assicurare il massimo della trasparenza. Il responsabile del piano verrà individuato tra i dirigenti amministrativi di prima fascia. In nessun caso comunque potranno essere coinvolti soggetti estranei all’amministrazione. Negli enti locali, «salvo altra motivata determinazione», il ruolo verrà ricoperto dal segretario comunale (o provinciale). Dovrà elaborare un piano triennale e trasmetterlo al Dipartimento della funzione pubblica.
Parenti e redditi sul web. Oltre a definire i criteri per la rotazione dei dirigenti nei settori classificati a rischio, le amministrazioni saranno chiamate a monitorare i tempi della burocrazia interna sul loro sito istituzionale. Chi non lo farà sarà passibile di sanzioni. È un punto, questo dei tempi di lavorazione delle pratiche, ritenuto molto delicato e importante.
Spesso proprio nella dilazione all’infinito dei tempi di concessione di permessi, licenze o di qualsiasi altra documentazione, si rileva l’indizio di un rischio-corruzione. Semplicità e velocità delle procedure assicurano viceversa livelli di trasparenza più elevati negli uffici pubblici. Il governo dovrà poi adottare, senza ulteriori costi, entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge, un decreto legislativo per riordinare gli obblighi di pubblicità e di trasparenza.
Tra le novità che dovranno essere introdotte ci sarà anche l’obbligo «per i titolari di incarichi pubblici di carattere elettivo o comunque di esercizio di poteri» di pubblicare su Internet la situazione patrimoniale. Case, terreni, redditi, situazione all’inizio e alla fine del mandato, titolarità in imprese, partecipazioni azionarie proprie, del coniuge, persino dei congiunti entro il 2° grado di parentela. Per i segretari comunali o chi per loro insomma il lavoro non mancherà.
Le attività a rischio. Viene elencato anche il core business della malavita organizzata, i settori più sensibili alle infiltrazioni mafiose: trasporto di materiale a discarica per conto terzi; smaltimento rifiuti; estrazione, fornitura e trasporto di materiali inerti e terra; guardianìa dei cantieri; fornitura di ferro lavorato e autotrasporto per conto terzi.
Denunce on-line. La commissione anti-corruzione, coordinata dal capo di gabinetto Roberto Garofoli, si è ispirata a modelli europei, fermo restando la forte tipicità italiana. Dove per «tipicità» si intende ’ndrangheta, camorra e ogni genere di infiltrazione mafiosa. Il documento parla chiaro: per tornare ad essere un Paese «normale» il nostro dovrà sottoporsi a dosi massicce di trasparenza.
Non potrà accollarsi in futuro i costi della corruzione, secondo un calcolo della Corte dei Conti, circa 60 miliardi di euro l’anno. Ogni amministrazione dovrà dunque dotarsi di un indirizzo di posta elettronica certificato al quale i cittadini potranno segnalare eventuali anomalie.
No regali. I rapporti tra l’amministrazione e i soggetti che stipulano contratti andranno monitorati per verificare eventuali relazioni di parentela fra titolari, amministratori e soci. Ai dipendenti sarà fatto divieto di chiedere o di accettare «a qualsiasi titolo compensi o altre utilità in connessione con l’espletamento delle proprie funzioni», «fatti salvi si spiega regali d’uso purché di modico valore e nei limiti delle normali relazioni di cortesia».
Andranno indicate anche durata e misura dei compensi; un’attestazione verificherà «l’insussistenza» di eventuali conflitti di interessi. E non è finita: ai magistrati ordinari, contabili e amministrativi ma anche agli avvocati e ai procuratori dello Stato e ai componenti delle commissioni tributarie, sarà vietata la partecipazione a collegi arbitrali. Pena la decadenza (articolo Il Messaggero del 18.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI: La lotta alla corruzione. LE MISURE DI PREVENZIONE.
Per gli appalti pubblici trasparenza online e «white list» antimafia. Le imprese nell'elenco eviteranno l'obbligo di certificato.
LE ALTRE MISURE/ In arrivo nuove ipotesi di risoluzione dei contratti: sanzionate tra l'altro le sentenze per associazione mafiosa e traffico di rifiuti.

Oltre alla repressione dei reati, attraverso le misure penali, nella legge anticorruzione c'è la prevenzione che si rivolge soprattutto ai settori economici più esposti al rischio, come quello degli appalti pubblici (lavori, servizi e forniture). Il Ddl approvato al Senato prevede numerose norme che mirano a dare maggiore trasparenza, e in alcuni casi anche più efficienza nella vigilanza, sia alla fase della gara sia all'esecuzione contrattuale.
Sul primo fronte, ci sono soprattutto nuovi obblighi di trasparenza per le pubbliche amministrazioni che dovranno pubblicare sui propri siti web istituzionali una serie di informazioni relative al bando, come l'oggetto, l'elenco degli operatori invitati a presentare offerte, l'aggiudicatario, i tempi di completamento dell'opera.
Sull'obbligo vigilerà l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici che già oggi riceve dalle stazioni appaltanti analoga comunicazione. Si tratta, in sostanza, di un rafforzamento -attraverso l'uso di tecnologie informatiche- degli attuali obblighi che non di rado vengono disattesi. La banca dati dell'Autorità dovrebbe, in questo modo, risultare più completa di quanto lo sia oggi.
D'altra parte le nuove norme si raccordano anche a quanto già sta facendo la stessa Autorità che proprio martedì ha varato il bando-tipo per uniformare le regole a cui tutte le stazioni appaltanti dovranno attenersi nel fare i bandi di gara e nell'escludere le imprese partecipanti dalle gare (si veda Il Sole 24 Ore di ieri). «È una norma anticorruzione -spiega il presidente dell'Autorità, Sergio Santoro- che punta a evitare uno dei comportamenti più gravi delle stazioni appaltanti, quello di gare mirate a favorire un soggetto specifico attraverso l'inserimento di requisiti anomali». Se si aggiunge poi, il nuovo servizio che da gennaio dovrebbe semplificare a imprese e stazioni appaltante la presentazione di tutte le certificazioni e documentazioni di gara, ecco che il cerchio si chiude.
Tra le certificazioni che dovrebbero essere semplificate c'è anche quella antimafia che però nella legge approvata ieri al Senato subisce un'ulteriore modifica, anche essa nel senso di garantire maggiore efficacia nel contrasto alla mafia e al tempo stesso alla tutela delle imprese oneste. Il meccanismo, già più volte previsto in via sperimentale, è quello delle «white list», vale a dire elenchi di «fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori» al riparo da qualsiasi sospetto di infiltrazione mafiosa. A individuare le «imprese buone» dovranno essere le prefetture che dovranno poi tenere e aggiornare le liste. Una volta inserita nella lista, l'impresa non dovrà più presentare la documentazione antimafia prevista dalla legge.
Viene rimaneggiata la disciplina degli arbitrati, con un divieto di partecipazione ai collegi arbitrali che diventa assoluto per i magistrati «ordinari, amministrativi, contabili e militari». È una norma proposta molte volte che ora sembra trovare un suo compimento (si veda anche l'articolo nella pagina a fianco).
Cambia anche l'articolo 135 del Codice appalti con una serie di nuove ipotesi di risoluzione del contratto. Saranno sanzionate le sentenze passate in giudicato per reati come l'associazione mafiosa,traffico di droga, contrabbando, traffico di rifiuti, delitti con finalità di terrorismo, oltre ai più classici reati di corruzione, concussione, peculato e malversazione a danno dello Stato. Infine non potranno fare parte delle commissioni giudicatrici i condannati con sentenza passata i giudicato per delitti contro la Pa come peculato, malversazione, corruzione, abuso d'ufficio o interruzione di pubblico servizio (articolo Il Sole 24 Ore del 18.10.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: Adempimenti/ Alla Pa solo fatture online. Forma elettronica obbligatoria per tutti ma con decorrenza graduale. Il Consiglio di Stato ha dato il via libera al decreto che sancisce le modalità attuative.
Via libera al secondo decreto attuativo del sistema di fatturazione elettronica verso le pubbliche amministrazioni: col parere 12.10.2012 n. 4267 il Consiglio di Stato, Sezione Consultiva per gli Atti Normativi, ha espresso infatti parere favorevole allo schema di regolamento ministeriale che individua regole tecniche e linee guida per la gestione dei processi di fattura elettronica verso le amministrazioni statali.
Il decreto, alla cui approvazione definitiva manca solo il passaggio formale in Consiglio dei ministri, costituisce l'ultimo tassello necessario all'avvio degli obblighi dettati dall'articolo 1, commi da 209 a 214, della Legge 244 del 2007. Per le amministrazioni destinatarie vige infatti il divieto di accettare le fatture emesse o trasmesse in forma cartacea e di procedere al pagamento, anche parziale, sino all'invio del documento in forma elettronica. I fornitori delle amministrazioni pubbliche dovranno invece gestire il proprio ciclo di fatturazione esclusivamente in modalità elettronica, non solo nelle fasi di emissione e trasmissione ma anche in quella di conservazione.
Gli impatti operativi saranno molti e rilevanti: da un lato, gli enti pubblici dovranno adeguare infrastrutture informatiche, sistemi contabili e procedure interne per la ricezione e la contabilizzazione dei flussi elettronici di fatturazione. Dall'altro, i fornitori privati sono invece chiamati a sviluppare modalità di gestione elettronica dei flussi documentali riorganizzando l'intero ciclo attivo di fatturazione. Il tutto in un contesto normativo ormai maturo e in linea con le indicazioni fornite dall'Unione Europea, da ultimo con la Direttiva 2010/45/UE, di cui è in corso di pubblicazione lo schema di decreto legislativo di recepimento.
Perimetro soggettivo
L'articolo 10 del Dl 201/2011 ha delineato con precisione il perimetro soggettivo delle pubbliche amministrazioni destinatarie di fatture elettroniche. Si tratta di tutti i soggetti, anche autonomi che, a norma dell'articolo 1, comma 2 della legge 196/2009, concorrono al perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica definiti in ambito nazionale e che sono inseriti nel conto economico consolidato e individuati entro il 30 settembre di ciascun anno nell'elenco Istat.
Prima delle modifiche i confini delle amministrazioni destinatarie erano meno definiti, in quanto l'obbligo riguardava genericamente le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, e gli enti pubblici nazionali.
Anche le amministrazioni locali sono state vincolate al rispetto delle medesime regole applicabili a quelle centrali introducendo così una regolamentazione unitaria a livello nazionale.
Il contenuto
Per favorire il rapido passaggio al nuovo sistema in sintonia con l'evoluzione dello scenario europeo, dovrebbe essere adottato il formato fattura xml compatibile con gli standard comunitari. La trasmissione delle fatture, anche per il tramite di intermediari, avverrà attraverso il sistema di interscambio (Sdi), la cui gestione è stata assegnata, con decreto del 07.03.2008, all'agenzia delle Entrate, che ha individuato in Sogei il soggetto tecnologico deputato alla sua realizzazione.
Oltre alle informazioni obbligatorie per legge, sulla fattura trasmessa attraverso lo Sdi dovranno comparire le indicazioni sul soggetto trasmittente, con identificativo fiscale, progressivo di invio e numero di trasmissione, nonché sull'amministrazione destinataria, identificata con un apposito codice. Quanto alla tempistica di decorrenza dell'obbligo di fatturazione elettronica, è fissata in dodici mesi dall'entrata in vigore del regolamento per ministeri, agenzie fiscali ed enti nazionali di previdenza e assistenza sociale; in 24 mesi per le altre amministrazioni incluse nell'elenco Istat, a eccezione delle amministrazioni locali, per le quali la data di decorrenza sarà determinata con Dm dell'Economia, di concerto con il l'Innovazione e d'intesa con la Conferenza Unificata (articolo Il Sole 24 Ore del 18.10.2012).

VARI: La legge di stabilità arrivata alla camera esclude la spesa dalla nuova soglia dei 250 euro. Deduzioni e detrazioni definite. Limature alle franchigie. In salvo l'assistenza medica.
Via la franchigia di 250 euro per le spese mediche e di assistenza specifica dei disabili. Tolta la franchigia di detrazione e la concorrenza al tetto dei 3 mila euro su base annua per le spese sostenute per l'utilizzo dei cani guida da parte dei soggetti non vedenti. Via le limitazioni e ripristino dell'originario regime di detraibilità anche per le spese per i servizi di interpretariato dei sordomuti.
Fuori dalle limitazioni anche le spese per gli addetti all'assistenza personale delle persone non autosufficienti (badanti) che tornano ad essere detraibili, senza alcuna franchigia e senza concorrenza al tetto dei 3 mila euro, nel limite originario di spesa su base annua pari a euro 2.100.

Sono queste le modifiche apportate al testo definito dell'articolo 12 del disegno di legge di stabilità in materia di detrazioni e deduzioni d'imposta.
Nella versione definitiva dell'articolo 12 del testo del disegno di legge compare anche un nuovo paragrafo nel quale si specifica che subiranno le nuove franchigie di 250 e il tetto massimo di detrazione di 3 mila euro su base annuale anche le altre tipologie di oneri deducibili e detraibili dal redditi previsti da altre disposizioni normative diverse dal Tuir ma comunque riconducibili agli articoli 10 e 15 del Testo unico delle imposte sui redditi.
Alcune delle modifiche sopra riportate tendono a evitare alcune storture evidenziate dalla lettura della prima bozza del provvedimento. È il caso ad esempio delle spese mediche e di assistenza specifica dei soggetti disabili per i quali inizialmente si prevedeva l'introduzione della franchigia di deducibilità di 250 euro o quelle relative alle detrazioni per le spese dei cani guida o per le badanti.
Si tratta di modifiche con le quali si tende a ripristinare una sostanziale equità ed uniformità fra tipologie di spese aventi natura similare.
Resta invece confermata, nonostante le polemiche sollevate da più parti, la retroattività delle nuove limitazioni alla deduzione e detrazione dal reddito che si applicheranno già con riferimento all'anno 2012 (articolo ItaliaOggi del 18.10.2012).

PUBBLICO IMPIEGOCORRUZIONE/ Via libera con fiducia dal Senato al disegno di legge che ora va alla Camera. Pugno duro sugli illeciti anti-p.a.. Arriva un codice di comportamento dei dipendenti pubblici.
Via libera con fiducia nell'aula del Senato (228 sì, 33 no e due astenuti) al maxi-emendamento del governo al disegno di legge anticorruzione (2156-B), che inasprisce le pene per illeciti a danno della pubblica amministrazione, predispone un codice di comportamento per i dipendenti e contiene una delega per l'incandidabilità dei condannati alle cariche elettive.
Il testo del ministro della giustizia Paola Severino che sarà, dichiara il premier Mario Monti, «un fattore di crescita per il paese», si compone di 84 commi e passa all'esame della Camera. Di seguito e nella tabella le novità principali.
Corruzione. Giro di vite per corruzione in atti giudiziari (da tre–otto anni a quattro-dieci, per quella aggravata la pena minima sale da quattro a cinque), corruzione propria (da quattro a otto anni, non più due–cinque), peculato (la pena minima cresce da tre a quattro anni) e abuso d'ufficio (da sei mesi–tre anni aumenta da uno a quattro anni).
Concussione. Modifiche al codice penale (art. 317) con un innalzamento della pena («reclusione da 6 a 12 anni») per il pubblico ufficiale che, «abusando della sua qualità e dei suoi poteri, costringe taluno a dare o promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità».
Traffico di influenze illecite e corruzione fra privati. Il testo di Severino comprende anche le formulazioni sui reati di traffico di influenze e corruzione tra privati introdotti alla Camera: nel primo caso, si viene puniti sempre con la reclusione da uno a tre anni, ma solo in relazione «al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio, o all'omissione, o al ritardo di un atto».
Quanto alla corruzione fra privati, arriva la procedibilità a querela di parte, però con un'eccezione che consentirà interventi d'ufficio alla magistratura inquirente, nel caso in cui «dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nell'acquisizione di beni e servizi».
Incandidabilità. Il governo s'impegna per adottare una norma sull'incandidabilità «alla carica di membro del Parlamento Ue, di deputato e senatore della Repubblica, alle elezioni regionali, provinciali comunali e circoscrizionali» dei condannati per reati contro la p.a. entro un anno, tuttavia il Guardasigilli promette di definire la delega in tempi brevi, «entro un mese».
Giudici fuori ruolo. Le toghe che vorranno assumere funzioni nell'apparato statale dovranno mettersi in «fuori ruolo» per tutta la durata dell'attività. E il periodo non potrà superare i dieci anni consecutivi.
La versione governativa che sostituisce l'art. 18 del ddl, prevede la regola valga per «tutti gli incarichi presso istituzioni, organi ed enti pubblici, nazionali ed internazionali attribuiti in posizioni apicali o semiapicali, compresi quelli di titolarità dell'ufficio di gabinetto», affidati a «magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, avvocati e procuratori dello stato»; e le mansioni in corso all'entrata in vigore della normativa «cessano di diritto se, nei 180 giorni successivi, non viene adottato il collocamento in fuori ruolo».
Il governo fisserà altri paletti: emanerà «entro 4 mesi» un dlgs per l'individuazione di ulteriori incarichi da non assegnare. Sotto la lente d'ingrandimento del legislatore «situazioni di conflitto di interesse tra funzioni esercitate presso l'Amministrazione di appartenenza e quelle in ragione del ruolo ricoperto fuori ruolo». Il limite dei dieci anni non si applicherà ai membri del governo, alle cariche elettive (Parlamento e Authority) e ai componenti delle Corti internazionali.
Codice etico. L'esecutivo stilerà un codice di condotta dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche per «assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni di corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell'interesse» collettivo.
Amministrazioni trasparenti. Sui siti istituzionali degli enti dovranno comparire i bilanci e i conti consuntivi, oltre ai costi di realizzazione delle opere pubbliche e di produzione dei servizi (articolo ItaliaOggi del 18.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVISEMPLIFICAZIONI/ Il disegno di legge modifica il codice del processo amministrativo. Danni alla p.a. chiesti in un anno. Al giudice ordinario le opposizioni alle sanzioni Bankitalia.
Più tempo per chiedere i danni alle pubbliche amministrazioni; al giudice ordinario le opposizioni alle sanzioni di Bankitalia e Consob.

Il disegno di legge di semplificazione approvato martedì dal Consiglio dei ministri modifica, in questi due punti, il codice del processo amministrativo: porta a un anno il termine per proporre l'azione autonoma di danni e esclude la giurisdizione amministrativa per le controversie sui provvedimenti sanzionatori dell'istituto di via Nazionale. Il termine di decadenza della speciale azione di danni viene dunque triplicato (oggi è di 120 giorni). Ma vediamo dettagli degli interventi che toccano il settore della giustizia.
AZIONE DI DANNI CONTRO LA P.A.
Il ddl semplificazioni, spiega la relazione al provvedimento, rimodula l'azione risarcitoria, ampliando il termine per la proposizione dell'azione autonoma o diretta di condanna dell'amministrazione al risarcimento del danno.
Si tratta dell'azione con cui si chiede il risarcimento del danno all'amministrazione, senza impugnare un atto amministrativo o dopo avere impugnato, in un separato giudizio, un atto amministrativo lesivo.
Il cittadino ha, infatti, la possibilità di chiedere i danni subito insieme alla richiesta di annullamento di un atto lesivo oppure con un separato ricorso.
Questo separato ricorso può essere attivato subito (senza avere impugnato l'atto) oppure a conclusione del processo di annullamento.
Le regole attuali stabiliscono in entrambi questi ultimi due casi il termine di 120 giorni. Il disegno di legge di semplificazione sposta il termine rispettivamente a un anno e a sei mesi. Vediamo come.
La domanda di risarcimento autonoma (senza avere impugnato un atto) per lesione di interessi legittimi dovrà essere proposta entro il termine di decadenza di un anno decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato o comunque dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo.
Nell'altra ipotesi (e cioè quella in cui sia stata proposta prima l'azione di annullamento dell'atto) la norma (articolo 30 del codice del processo amministrativo) prevede che la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a un certo termine dal passaggio in giudicato della relativa sentenza (che annulla l'atto). Il termine attuale è di 120 giorni, ma il disegno di legge di semplificazione lo allunga a sei mesi.
SANZIONI AMMINISTRATIVE
Secondo l'impianto attuale (articolo 133, comma 1, lettera l) del codice del processo amministrativo) appartengono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto tutti i provvedimenti, compresi quelli sanzionatori ed esclusi quelli inerenti ai rapporti di impiego privatizzati, adottati dalla Banca d'Italia, dagli Organismi regolati dal Testo unico bancario, dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato, dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, dall'Autorità per l'energia elettrica e il gas, e dalle altre Autorità, dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, dalla Commissione vigilanza fondi pensione, dalla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità della pubblica amministrazione, dall'Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private.
Il disegno di legge sulle semplificazioni toglie alla giurisdizione amministrativa i provvedimenti sanzionatori, che invece ora sono inclusi.
La norma tiene conto della sentenza n. 162 del 20-27.06.2012, della Corte costituzionale, la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del processo amministrativo nella parte in cui attribuiscono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, con cognizione estesa al merito, e alla competenza funzionale del Tar Lazio – sede di Roma, le controversie in materia di sanzioni irrogate dalla Consob.
Analoghi profili di legittimità costituzionale riguardano la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per le controversie in materia di sanzioni irrogate dalla Banca d'Italia.
Il disegno di legge sulle semplificazioni, dunque, ripristina la giurisdizione del giudice ordinario anche per le controversie aventi ad oggetto l'opposizione avverso i provvedimenti a contenuto sanzionatorio emanati dalla Banca d'Italia. Di conseguenza viene disciplinato il giudizio di opposizione contro i provvedimenti sanzionatori della Consob e della Banca d'Italia.
In proposito si segnala che il procedimento di opposizione, verrà regolato dall'articolo 6 del dlgs 150/2011, usando il rito del lavoro, anche se resta esclusa l'appellabilità delle decisioni, in quanto i giudizi sono affidati alla Corte d'appello.
CONFERENZA DEI SERVIZI
Il ddl semplificazione modifica l'articolo 14-quater, comma 3, della legge 241/1990, prevedendo un allungamento a 90 giorni del termine attualmente previsto di trenta giorni, per svolgere idonee procedure per consentire reiterate trattative volte a superare le divergenze tra stato e regioni: rimane ferma la possibilità per il governo, nel caso in cui l'intesa non sia comunque raggiunta, di deliberare unilateralmente. La modifica recepisce la sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 2012 (articolo ItaliaOggi del 18.10.2012 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: L’eventuale articolazione dei criteri valutativi previsti dal bando in sub-criteri, cui assegnare sub-pesi o sub-punteggi, deve essere stabilita dalla stazione appaltante ed indicata nel bando, mentre non può essere stabilita dalla commissione di gara dopo la presentazione delle offerte, sia pure prima della loro apertura.
Nel merito, il ricorso è fondato e va di conseguenza accolto.
In particolare, assorbite le ulteriori censure, è meritevole di accoglimento il motivo d’impugnativa con cui è stata dedotta la violazione dell’art. 83, co. 4, d.lgs. n. 163 del 2006.
L’art. 83, co. 4, del codice dei contratti pubblici, stabilisce che il bando per ciascun criterio di valutazione prescelto prevede, ove necessario, i sub-criteri e i sub-pesi o i sub-punteggi.
Di talché, il legislatore ha effettuato una scelta che trova giustificazione nell’esigenza di ridurre gli apprezzamenti soggettivi della commissione giudicatrice, garantendo in tal modo l’imparzialità delle valutazioni nell’essenziale tutela della par condicio tra i concorrenti, i quali sono messi tutti in condizione di formulare un’offerta che consenta di concorrere effettivamente all’aggiudicazione (ex multis: Cons. St., IV, 12.06.2012, n. 3445; Cons. St., III, 01.02.2012, n. 514).
Il codice dei contratti pubblici, quindi, ha chiarito sin dalla sua originaria stesura che l’eventuale articolazione dei criteri valutativi previsti dal bando in sub-criteri, cui assegnare sub-pesi o sub-punteggi, deve essere stabilita dalla stazione appaltante ed indicata nel bando, mentre non può essere stabilita dalla commissione di gara dopo la presentazione delle offerte, sia pure prima della loro apertura.
D’altra parte, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sez. I, con sentenza 24.01.2008 n. C. 532/06, ha evidenziato che gli offerenti devono essere posti su un piano di parità durante l’intera procedura, il che comporta che i criteri e le condizioni che si applicano a ciascuna gara debbano costituire oggetto di un’adeguata pubblicità da parte delle amministrazioni aggiudicatrici.
Infatti, ha dichiarato che l’art. 36, co. 2, della direttiva del Consiglio 18.06.1992 92/50/CEE, letto alla luce del principio di parità di trattamento degli operatori economici e dell’obbligo di trasparenza che ne discende, osta a che, nell’ambito di una procedura di aggiudicazione, l’amministrazione aggiudicatrice determini in un momento successivo coefficienti di ponderazione e sottocriteri per i criteri di aggiudicazione menzionati nel capitolato d’oneri o nel bando di gara.
Peraltro -atteso che l’ultimo periodo dell’art. 83, co. 4, aveva previsto il potere/dovere della commissione giudicatrice di fissare in via generale, prima dell’apertura delle buste, i criteri motivazionali cui attenersi per attribuire a ciascun criterio e subcriterio di valutazione il punteggio tra il minimo e il massimo prestabiliti dal bando– la Commissione Europea, con lettera di contestazione del 30.01.2008, ha rilevato che la previsione della possibilità di fissare i criteri motivazionali dei punti attribuiti alle offerte che non era previsto nei documenti di gara sembra contrario al principio di parità di trattamento fissato dalle direttive 2004/19/CE e 2004/17/CE e ciò in quanto, al fine di garantire il rispetto del principio di parità di trattamento, tutti i criteri che saranno utilizzati per l’aggiudicazione dell’appalto devono essere messi a disposizione dei concorrenti prima che essi formulino le proprie offerte, in modo da permettere loro di tenerne conto.
Di talché, il d.lgs n. 152 del 2008, c.d. terzo correttivo al codice dei contratti pubblici, ha provveduto ad abrogare l’ultimo periodo dell’art. 83, co. 4, d.lgs. n. 163 del 200, vale a dire, come detto, il potere/dovere della commissione giudicatrice di fissare i criteri motivazionali prima dell’apertura delle buste (TAR Lazio, Roma, Sez. II-ter, sentenza 19.10.2012 n. 8695 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una tettoia è soggetta a concessione edilizia …, in quanto essa, pur avendo carattere pertinenziale rispetto all'immobile cui accede, incide sull'assetto edilizio preesistente.
In particolare, la tettoia realizzata sul terrazzo di un fabbricato, in quanto struttura stabilmente ancorata al pavimento e destinata a soddisfare non un'esigenza temporanea e contingente, ma prolungata nel tempo, è priva del carattere della precarietà ed amovibilità ed è quindi assoggettata al regime del permesso di costruire, dal momento che comporta una rilevante modifica dell'assetto edilizio preesistente.

Come più volte rilevato in giurisprudenza, infatti, “... la realizzazione di una tettoia è soggetta a concessione edilizia …, in quanto essa, pur avendo carattere pertinenziale rispetto all'immobile cui accede, incide sull'assetto edilizio preesistente. In particolare, la tettoia realizzata sul terrazzo di un fabbricato, in quanto struttura stabilmente ancorata al pavimento e destinata a soddisfare non un'esigenza temporanea e contingente, ma prolungata nel tempo, è priva del carattere della precarietà ed amovibilità ed è quindi assoggettata al regime del permesso di costruire, dal momento che comporta una rilevante modifica dell'assetto edilizio preesistente” (cfr. TAR Campania Napoli, sez. III, 09.09.2008, n. 10059) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 19.10.2012 n. 8658 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittimo l’ordine di ripristino con il quale è stato contestato (al proprietario dell'immobile) di avere mutato la destinazione d’uso, da turistico-ricettiva a residenziale, dell’immobile di proprietà e si è aggiunto che, in caso di inottemperanza, l’opera sarebbe stata acquisita al patrimonio pubblico, laddove non è provata, come è necessario, la responsabilità del proprietario.
Considerato:
- che il ricorrente impugna l’ordine di ripristino 801 del 2012, con il quale gli è stato contestato di avere mutato la destinazione d’uso, da turistico-ricettiva a residenziale, dell’immobile di proprietà sito in Roma, via Aurelia Antica n. 425, e si è aggiunto che, in caso di inottemperanza, l’opera sarebbe stata acquisita al patrimonio pubblico;
- che, all’esito della fase cautelare, sussistono i presupposti per definire la causa con sentenza in forma semplificata;
- che questo Tribunale si è ripetutamente occupato di analoga fattispecie, posto che il mutamento dell’uso ha riguardato l’intero stabile;
- che, in tali occasioni, si è ritenuto legittimo l’operato della p.a.;
- che, peraltro, il ricorrente, nel caso di specie, anziché contestare il mutamento d’uso, rileva che, in quanto proprietario non responsabile, il Comune non avrebbe potuto configurare la sanzione dell’acquisizione gratuita;
- che, per tale parte (primo motivo), il ricorso è fondato, giacché non è provata, come è necessario, la responsabilità del proprietario, avente causa da un terzo, circa il mutamento (nello stesso senso, su identica fattispecie, sentenza in causa 04727 del 2012 di questa Sezione) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 19.10.2012 n. 8657 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come si evince dall’art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 che dispone la decadenza “di diritto” dal permesso di costruire per mancato inizio dei lavori nel termine di un anno dal rilascio dello stesso, il provvedimento dichiarativo di decadenza ha natura ricognitiva e si concreta in un atto d’accertamento il cui effetto nasce ex lege, conseguendone che siffatto effetto può essere evitato, come la medesima disposizione legislativa prevede, solo a seguito dell’accoglimento della domanda di proroga dell’efficacia del titolo di assentimento inoltrata anteriormente alla scadenza dello stesso.
Si deve, poi, osservare che, come si evince dall’art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 che dispone la decadenza “di diritto” dal permesso di costruire per mancato inizio dei lavori nel termine di un anno dal rilascio dello stesso, il provvedimento dichiarativo di decadenza ha natura ricognitiva e si concreta in un atto d’accertamento il cui effetto nasce ex lege (Cfr. Cons. di Stato – Sez. IV – 10/08/2007 n. 4423; TAR - Liguria – GE – Sez. I – 11/12/2007 n. 2050), conseguendone che siffatto effetto può essere evitato, come la medesima disposizione legislativa prevede, solo a seguito dell’accoglimento della domanda di proroga dell’efficacia del titolo di assentimento inoltrata anteriormente alla scadenza dello stesso, circostanza questa non verificatasi nel caso in esame (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 19.10.2012 n. 1900 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’ordine di demolizione è chiaramente motivato in ragione della violazione della fascia di rispetto cimiteriale, soggetta a vincolo di inedificabilità assoluta.
Trattandosi di atto dal contenuto vincolato, non era richiesta una particolare motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico alla demolizione, essendo questo implicito nella necessità di preservare l’integrità della fascia di rispetto cimiteriale.

L’ordine di demolizione è chiaramente motivato in ragione della violazione della fascia di rispetto cimiteriale, soggetta a vincolo di inedificabilità assoluta.
Trattandosi di atto dal contenuto vincolato, non era richiesta una particolare motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico alla demolizione, essendo questo implicito nella necessità di preservare l’integrità della fascia di rispetto cimiteriale (Cons. Stato, sez. V, 12.11.1999, n. 1871; TAR Lombardia Milano, 30.03.1996, n. 396).
Né è dato rilevare nel comportamento del Comune profili di contraddittorieà o di illogicità: il Comune, stante l’esistenza di un vincolo di inedificabilità oggettivamente ostativo al rilascio del titolo edificatorio, ha operato un ragionevole bilanciamento tra l’interesse pubblico presidiato dal vincolo e quello privato della ricorrente, consentendo che la struttura fosse allocata in via meramente temporanea e attraverso modalità di periodica installazione/disinstallazione che rendessero manifesta e ben percepibile la precarietà del manufatto.
Quando però ha constatato che la struttura aveva assunto carattere permanente, ha dapprima richiamato la ricorrente all’adempimento e quindi, avendone constatato l’inadempimento, l’ha dichiarata decaduta dall’autorizzazione e le ha ordinato, conseguentemente, la demolizione del manufatto perché edificato abusivamente in zona di rispetto cimiteriale.
Il comportamento del Comune è stato coerente, ragionevole e conforme a legge (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 19.10.2012 n. 1113 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa circostanza che nell’atto impugnato non risultino menzionate le conseguenze scaturenti dall’inottemperanza dell’ordine di demolizione e, in particolare, non sia esattamente individuata l’area che, in caso di inottemperanza, sarebbe oggetto di acquisizione gratuita al patrimonio indisponibile del Comune, non integra violazione dell’art. 7 L. 28.02.1985 n. 47 poiché nulla esclude che tale più compiuta individuazione possa essere effettuata successivamente, ai fini dell’immissione in possesso e della relativa trascrizione.
La circostanza che nell’atto impugnato non risultino menzionate le conseguenze scaturenti dall’inottemperanza dell’ordine di demolizione e, in particolare, non sia esattamente individuata l’area che, in caso di inottemperanza, sarebbe oggetto di acquisizione gratuita al patrimonio indisponibile del Comune, non integra violazione dell’art. 7 L. 28.02.1985 n. 47 poiché, come già affermato da questo Tribunale, nulla esclude che tale più compiuta individuazione possa essere effettuata successivamente, ai fini dell’immissione in possesso e della relativa trascrizione (TAR Piemonte, sez. I, 04.09.2009, n. 2253; in senso analogo TAR Campania Napoli, sez. VI, 05.06.2012, n. 2635; TAR Lazio Roma, sez. II, 02.01.2012, n. 9) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 19.10.2012 n. 1112 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione di opere edilizie non costituisce una attività del tutto libera e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione di ogni previsione urbanistica che disciplini l'uso nel territorio nel singolo comune.
Una diversa soluzione, non solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio, con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica.

... per l'annullamento dell'ordinanza n. 2480 in data 02.08.1996, con la quale il sindaco del Comune di Grugliasco ha disposto il ripristino della destituzione d'uso agricola di un capannone di proprietà della ricorrente.
...
Con il secondo motivo la ricorrente sostiene che i mutamenti d’uso realizzati senza opere strutturali sarebbero soggetti a semplice sanzione pecuniaria e non ad obblighi di ripristino.
Anche tale censura non può essere condivisa.
La normativa richiamata dalla ricorrente non è conferente al caso di specie, perché concerne ipotesi di mutamenti funzionali di destinazione d’uso realizzati nel rispetto delle previsioni urbanistiche di zona, benché in assenza di un titolo abilitativo: sicché in tali ipotesi la sanzione pecuniaria punisce l’assenza del titolo, ma non legittima alcun abuso, anzi presuppone la compatibilità urbanistica anche della nuova destinazione d’uso.
Nel caso di specie, invece, il capannone di proprietà della ricorrente è stato in concreto adibito ad un uso (commerciale) incompatibile con l’assetto urbanistico (agricolo) di zona, e dunque correttamente esso è stato sanzionato con l’ordine di ripristino.
Come giustamente ha osservato la difesa comunale, la tesi di parte ricorrente, se portata alle sue estreme conseguenze, condurrebbe alla inammissibile conclusione per cui chiunque, pagando una semplice sanzione pecuniaria, sarebbe legittimato a stravolgere le linee di pianificazione dettate dall’amministrazione, mutando a suo piacimento la destinazione di un determinato sito.
Al riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che il cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione di opere edilizie non costituisce una attività del tutto libera e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione di ogni previsione urbanistica che disciplini l'uso nel territorio nel singolo comune. Una diversa soluzione, non solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio, con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica (Consiglio di Stato sez. I, 25.05.2012 n. 759; in senso conforme Cons. Stato, sez. V, 10.07.2003, n. 4102; 03.01.1998, n. 24; Cons. Stato, V, 28.05.2010, n. 3420) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 19.10.2012 n. 1110 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’utilizzo dello strumento di cui all’art. 54 del testo unico degli enti locali è consentito nei limiti in cui la situazione di pericolo è positivamente accertata, mentre eventuali altri esigenze devono essere affrontate con gli ordinari strumenti autoritativi di cui dispone l’Amministrazione.
- Rilevato che oggetto del giudizio è il provvedimento contingibile ed urgente con il quale il Sindaco del Comune appellato ha vietato in modo assoluto l’utilizzo dei locali, condotti dalla parte appellante, nei quali questa svolge la propria attività culturale e religiosa;
- Rilevato che la parte appellante contesta il provvedimento, oggetto del giudizio, e la sentenza di primo grado sottolineando il fatto che i Vigili del Fuoco hanno attestato l’idoneità dei locali dei quali è stato ordinato lo sgombero ad accogliere un massimo di centocinquanta occupanti e che tale circostanza è stata trascurata dal primo giudice;
- Rilevato che la veridicità di tale elemento è stata dimostrata in punto di fatto;
- Ritenuto, di conseguenza, che le ragioni di tutela della pubblica incolumità, affermate dall’Amministrazione, sono dimostrate solo in tali limiti;
- Ritenuto, in ulteriore conseguenza, di dover condividere la principale argomentazione dell’appellante, secondo la quale l’utilizzo dello strumento di cui all’art. 54 del testo unico degli enti locali è consentito nei limiti in cui la situazione di pericolo è positivamente accertata, mentre eventuali altri esigenze devono essere affrontate con gli ordinari strumenti autoritativi di cui dispone l’Amministrazione;
- Ritenuto, di conseguenza, di dover accogliere, nei limiti di cui sopra, l’appello in epigrafe, per l’effetto annullando, per quanto di ragione, il provvedimento impugnato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 18.10.2012 n. 5361 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: E' corretto che l’amministrazione ritenga di non consentire l’accesso ai rapporti informativi riguardanti la posizione della società ricorrente, rientrando gli atti istruttori dell’informativa prefettizia nei documenti sottratti all’accesso per la loro inerenza alle attività di prevenzione e repressione della criminalità.
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Non si ravvisa la necessità del previo intervento della comunicazione di avvio del procedimento in occasione dell’emissione dell’informativa interdittiva e dei conseguenti provvedimenti incidenti sul rapporto concessorio e/o contrattuale, poiché nella specie si tratta di procedimenti in materia di tutela antimafia, come tali caratterizzati intrinsecamente da riservatezza ed urgenza.
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I tratti caratterizzanti l’istituto dell’informativa prefettizia, di cui agli artt. 4 del d.lgs. n. 490/1994 e 10 del d.P.R. n. 252/1998, ruotano intorno ai seguenti concetti:
- si tratta di una tipica misura cautelare di polizia, preventiva e interdittiva, che si aggiunge alle misure di prevenzione antimafia di natura giurisdizionale e che prescinde dall’accertamento in sede penale di uno o più reati connessi all’associazione di tipo mafioso; non occorre né la prova di fatti di reato, né la prova dell’effettiva infiltrazione mafiosa nell’impresa, né la prova del reale condizionamento delle scelte dell’impresa da parte di associazioni o soggetti mafiosi;
- è sufficiente il “tentativo di infiltrazione” avente lo scopo di condizionare le scelte dell’impresa, anche se tale scopo non si è in concreto realizzato;
- tale scelta è coerente con le caratteristiche fattuali e sociologiche del fenomeno mafioso, che non necessariamente si concreta in fatti univocamente illeciti, potendo fermarsi alla soglia dell’intimidazione, dell’influenza e del condizionamento latente di attività economiche formalmente lecite;
- la formulazione generica, più sociologica che giuridica, del tentativo di infiltrazione mafiosa rilevante ai fini del diritto comporta l’attribuzione al Prefetto di un ampio margine di accertamento e di apprezzamento;
- l’ampia discrezionalità di apprezzamento riservata al Prefetto genera, di conseguenza, che la valutazione prefettizia è sindacabile in sede giurisdizionale solo in caso di manifesti vizi di eccesso di potere per illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti.
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Si è ritenuto inoltre, con riguardo alle informative di cui all’art. 10, comma 7, lettera c), del d.P.R. n. 252/1998, che, essendo fondate le medesime su valutazioni discrezionali non ancorate a presupposti tipizzati, i tentativi di infiltrazione mafiosa possono essere desunti anche da parametri non predeterminati normativamente; tuttavia, onde evitare il travalicamento in uno “stato di polizia” e per salvaguardare i principi di legalità e di certezza del diritto, si è precisato che non possono reputarsi sufficienti fattispecie fondate sul semplice sospetto o su mere congetture prive di riscontro fattuale, occorrendo l’individuazione di idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o collegamenti con la criminalità organizzata.
In particolare, con riferimento agli elementi di fatto idonei a sorreggere l’impianto probatorio delle informative de quibus, la giurisprudenza ha sottolineato che in tali ipotesi il Prefetto, anziché limitarsi a riscontrare la sussistenza di specifici elementi (come avviene per gli accertamenti eseguiti ai sensi dell’art. 10, comma 7, lettere a) e b), del d.P.R. n. 252/1998), deve effettuare la propria valutazione sulla scorta di uno specifico quadro indiziario, ove assumono rilievo preponderante i fattori induttivi della non manifesta infondatezza che i comportamenti e le scelte dell’imprenditore possano rappresentare un veicolo di infiltrazione delle organizzazioni criminali nelle funzioni della pubblica amministrazione; pertanto, si può ravvisare l’emergenza di tentativi di infiltrazione mafiosa in fatti in sé e per sé privi dell’assoluta certezza –quali una condanna non irrevocabile, l’irrogazione di misure cautelari, il coinvolgimento in un’indagine penale, collegamenti parentali, cointeressenze societarie e/o frequentazioni con soggetti malavitosi, dichiarazioni di pentiti– ma che, nel loro insieme, siano tali da fondare un giudizio di possibilità che l’attività d’impresa possa, anche in maniera indiretta, agevolare le attività criminali o esserne in qualche modo condizionata per la presenza, nei centri decisionali, di soggetti legati ad organizzazioni mafiose.
Né deve essere trascurata la rilevanza del legame di parentela, potendo essere tratto dagli insegnamenti della giurisprudenza il principio che se è vero che il rapporto di parentela non costituisce in sé indizio sufficiente del tentativo di infiltrazione mafiosa, è altrettanto vero che tale tentativo deve ritenersi sussistente quando al dato dell’appartenenza familiare si accompagni la frequentazione, la convivenza o la comunanza di interessi con l’individuo sospetto tali da palesare, pertanto, la contiguità con gli ambienti della criminalità.
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La norma introduttiva dell’informativa prefettizia “si spiega nella logica di una anticipazione della soglia di difesa sociale ai fini di una tutela avanzata nel campo del contrasto della criminalità organizzata, in guisa da prescindere da soglie di rilevanza probatorie tipiche del diritto penale, per cercare di cogliere l’affidabilità dell’impresa affidataria dei lavori complessivamente intesa. (…) E tanto specie se si pone mente alla circostanza prima rimarcata che le cautele antimafia non obbediscono a finalità di accertamento di responsabilità, bensì di massima anticipazione dell’azione di prevenzione, rispetto alla quale sono per legge rilevanti fatti e vicende anche solo sintomatici ed indiziari, al di là dell’individuazione di responsabilità penali”.
Ne discende pertanto, mutuando le parole del prefato giudice in altra decisione, che in caso di proscioglimento, “i fatti oggetto di un procedimento penale mantengono una loro idoneità ad essere indicati a presupposto di una informativa antimafia. Un fatto delittuoso per il quale deve essere data prova perché in sede penale intervenga una condanna, mantiene un suo carattere indiziario e può essere valido elemento di dimostrazione dell’esistenza di un pericolo di collegamento fra impresa e criminalità organizzata e di contiguità mafiosa (non configurata come fattispecie criminosa dal codice penale), essendo diversi i piani su cui muovono l’autorità giudiziaria e quella amministrativa”.
Solo nel caso in cui la sentenza penale di assoluzione escluda la verificazione di un determinato fatto sul piano della realtà (a prescindere dalla sua valenza giuridica), tale fatto non può assurgere ad elemento indiziario nemmeno ai fini dell’informativa interdittiva, venendo meno i presupposti per la sua emissione; tale evenienza, tuttavia, non ricorre nella presente fattispecie, tutta incentrata su circostanze acclarate dal giudice penale ma ritenute insufficienti per la pronuncia di condanna dell’imputato.

Correttamente l’amministrazione ha ritenuto di non consentire l’accesso ai rapporti informativi riguardanti la posizione della società ricorrente, rientrando gli atti istruttori dell’informativa prefettizia nei documenti sottratti all’accesso per la loro inerenza alle attività di prevenzione e repressione della criminalità, in virtù del combinato disposto dell’art. 24, comma 1, lett. a), della legge n. 241/1990 e dell’art. 3, comma 1, lett. a) e b), del d.m. 10.05.1994 n. 415 (cfr. TAR Campania Salerno, Sez. I, 10.07.2007 n. 818; TAR Campania Napoli, Sez. V, 15.09.2005 n. 14543).
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Il Collegio condivide il consolidato orientamento della giurisprudenza, che non ravvisa la necessità del previo intervento della comunicazione di avvio del procedimento in occasione dell’emissione dell’informativa interdittiva e dei conseguenti provvedimenti incidenti sul rapporto concessorio e/o contrattuale, poiché nella specie si tratta di procedimenti in materia di tutela antimafia, come tali caratterizzati intrinsecamente da riservatezza ed urgenza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 29.02.2008 n. 756; Consiglio di Stato, Sez. V, 12.06.2007 n. 3126 e 28.02.2006 n. 851).
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La giurisprudenza che si è occupata della materia, condivisa da questo Collegio (cfr. per tutte TAR Campania Napoli, Sez. I, 08.11.2005 n. 18714), ha avuto modo di sottolineare che i tratti caratterizzanti l’istituto dell’informativa prefettizia, di cui agli artt. 4 del d.lgs. n. 490/1994 e 10 del d.P.R. n. 252/1998, ruotano intorno ai seguenti concetti:
- si tratta di una tipica misura cautelare di polizia, preventiva e interdittiva, che si aggiunge alle misure di prevenzione antimafia di natura giurisdizionale e che prescinde dall’accertamento in sede penale di uno o più reati connessi all’associazione di tipo mafioso; non occorre né la prova di fatti di reato, né la prova dell’effettiva infiltrazione mafiosa nell’impresa, né la prova del reale condizionamento delle scelte dell’impresa da parte di associazioni o soggetti mafiosi;
- è sufficiente il “tentativo di infiltrazione” avente lo scopo di condizionare le scelte dell’impresa, anche se tale scopo non si è in concreto realizzato (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.05.2005 n. 2796 e 13.10.2003 n. 6187);
- tale scelta è coerente con le caratteristiche fattuali e sociologiche del fenomeno mafioso, che non necessariamente si concreta in fatti univocamente illeciti, potendo fermarsi alla soglia dell’intimidazione, dell’influenza e del condizionamento latente di attività economiche formalmente lecite;
- la formulazione generica, più sociologica che giuridica, del tentativo di infiltrazione mafiosa rilevante ai fini del diritto comporta l’attribuzione al Prefetto di un ampio margine di accertamento e di apprezzamento;
- l’ampia discrezionalità di apprezzamento riservata al Prefetto genera, di conseguenza, che la valutazione prefettizia è sindacabile in sede giurisdizionale solo in caso di manifesti vizi di eccesso di potere per illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 2867/2006 e n. 1979/2003).
Si è ritenuto inoltre, con riguardo alle informative di cui all’art. 10, comma 7, lettera c), del d.P.R. n. 252/1998 (tra le quali rientra quella di specie), che, essendo fondate le medesime su valutazioni discrezionali non ancorate a presupposti tipizzati, i tentativi di infiltrazione mafiosa possono essere desunti anche da parametri non predeterminati normativamente; tuttavia, onde evitare il travalicamento in uno “stato di polizia” e per salvaguardare i principi di legalità e di certezza del diritto, si è precisato che non possono reputarsi sufficienti fattispecie fondate sul semplice sospetto o su mere congetture prive di riscontro fattuale, occorrendo l’individuazione di idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o collegamenti con la criminalità organizzata (cfr. TAR Sicilia Palermo, Sez. III, 13.01.2006 n. 38; TAR Campania Napoli, Sez. I, 19.01.2004 n. 115).
In particolare, con riferimento agli elementi di fatto idonei a sorreggere l’impianto probatorio delle informative de quibus, la giurisprudenza ha sottolineato che in tali ipotesi il Prefetto, anziché limitarsi a riscontrare la sussistenza di specifici elementi (come avviene per gli accertamenti eseguiti ai sensi dell’art. 10, comma 7, lettere a) e b), del d.P.R. n. 252/1998), deve effettuare la propria valutazione sulla scorta di uno specifico quadro indiziario, ove assumono rilievo preponderante i fattori induttivi della non manifesta infondatezza che i comportamenti e le scelte dell’imprenditore possano rappresentare un veicolo di infiltrazione delle organizzazioni criminali nelle funzioni della pubblica amministrazione; pertanto, si può ravvisare l’emergenza di tentativi di infiltrazione mafiosa in fatti in sé e per sé privi dell’assoluta certezza –quali una condanna non irrevocabile, l’irrogazione di misure cautelari, il coinvolgimento in un’indagine penale, collegamenti parentali, cointeressenze societarie e/o frequentazioni con soggetti malavitosi, dichiarazioni di pentiti– ma che, nel loro insieme, siano tali da fondare un giudizio di possibilità che l’attività d’impresa possa, anche in maniera indiretta, agevolare le attività criminali o esserne in qualche modo condizionata per la presenza, nei centri decisionali, di soggetti legati ad organizzazioni mafiose (cfr. C.G.A. Sicilia, 24.11.2009 n. 1129; Consiglio di Stato, Sez. VI, 02.08.2006 n. 4737; Consiglio di Stato, Sez. V, 03.10.2005 n. 5247; TAR Lazio Roma, Sez. II, 09.11.2005 n. 10892).
Né deve essere trascurata la rilevanza del legame di parentela, potendo essere tratto dagli insegnamenti della giurisprudenza il principio che se è vero che il rapporto di parentela non costituisce in sé indizio sufficiente del tentativo di infiltrazione mafiosa, è altrettanto vero che tale tentativo deve ritenersi sussistente quando al dato dell’appartenenza familiare si accompagni la frequentazione, la convivenza o la comunanza di interessi con l’individuo sospetto –rammentandosi che nel caso di specie sussistono cointeressenze societarie tra i soci ed il loro genitore– tali da palesare, pertanto, la contiguità con gli ambienti della criminalità (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 29.02.2008 n. 756, 27.06.2007 n. 3707 e 02.05.2007 n. 1916).
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Quanto alla portata della sentenza con cui è stato assolto il responsabile della gestione tecnica, il Collegio, pur consapevole di qualche orientamento di segno contrario, ritiene che sia maggiormente aderente alla spiccata natura cautelare e preventiva delle informative prefettizie il più diffuso indirizzo giurisprudenziale, che non esclude che fatti vagliati in un precedente accertamento penale favorevole per l’imputato possano acquisire una connotazione indiziante ai fini dell’emersione dei tentativi di infiltrazione mafiosa.
In particolare, il massimo giudice amministrativo ha condivisibilmente osservato che la norma introduttiva dell’informativa prefettizia “si spiega nella logica di una anticipazione della soglia di difesa sociale ai fini di una tutela avanzata nel campo del contrasto della criminalità organizzata, in guisa da prescindere da soglie di rilevanza probatorie tipiche del diritto penale, per cercare di cogliere l’affidabilità dell’impresa affidataria dei lavori complessivamente intesa. (…) E tanto specie se si pone mente alla circostanza prima rimarcata che le cautele antimafia non obbediscono a finalità di accertamento di responsabilità, bensì di massima anticipazione dell’azione di prevenzione, rispetto alla quale sono per legge rilevanti fatti e vicende anche solo sintomatici ed indiziari, al di là dell’individuazione di responsabilità penali” (così Consiglio di Stato, Sez. VI, 17.05.2006 n. 2867).
Ne discende pertanto, mutuando le parole del prefato giudice in altra decisione, che in caso di proscioglimento, “i fatti oggetto di un procedimento penale mantengono una loro idoneità ad essere indicati a presupposto di una informativa antimafia. Un fatto delittuoso per il quale deve essere data prova perché in sede penale intervenga una condanna, mantiene un suo carattere indiziario e può essere valido elemento di dimostrazione dell’esistenza di un pericolo di collegamento fra impresa e criminalità organizzata e di contiguità mafiosa (non configurata come fattispecie criminosa dal codice penale), essendo diversi i piani su cui muovono l’autorità giudiziaria e quella amministrativa” (così Consiglio di Stato, Sez. V, 26.11.2008 n. 5846).
Solo nel caso in cui la sentenza penale di assoluzione escluda la verificazione di un determinato fatto sul piano della realtà (a prescindere dalla sua valenza giuridica), tale fatto non può assurgere ad elemento indiziario nemmeno ai fini dell’informativa interdittiva, venendo meno i presupposti per la sua emissione; tale evenienza, tuttavia, non ricorre nella presente fattispecie, tutta incentrata su circostanze acclarate dal giudice penale ma ritenute insufficienti per la pronuncia di condanna dell’imputato
(TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 18.10.2012 n. 4166 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il termine decennale di prescrizione dell’obbligazione sul pagamento degli oneri concessori, nell’ipotesi di mancata esplicita definizione dell’istanza di condono, decorre dalla formazione del silenzio assenso e questo, ai sensi dell’art. 35 della legge n. 47/1985, si forma dopo il termine di ventiquattro mesi decorrente dalla data nella quale viene depositata la documentazione completa a corredo della domanda di rilascio della concessione in sanatoria.
Considerato che:
- è fondata la censura con cui parte ricorrente solleva la maturata prescrizione del diritto a riscuotere sia gli oneri concessori sia l’indennità risarcitoria paesaggistica, non essendo peraltro intervenuti atti interruttivi;
- quanto al primo profilo, la difesa comunale mostra di aderire al consolidato orientamento, condiviso dal Collegio, secondo il quale il termine decennale di prescrizione dell’obbligazione sul pagamento degli oneri concessori, nell’ipotesi di mancata esplicita definizione dell’istanza di condono, decorre dalla formazione del silenzio assenso e questo, ai sensi dell’art. 35 della legge n. 47/1985, si forma dopo il termine di ventiquattro mesi decorrente dalla data nella quale viene depositata la documentazione completa a corredo della domanda di rilascio della concessione in sanatoria (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 02.02.2012 n. 578; TAR Sicilia Catania, Sez. I, 12.05.2011 n. 1156; TAR Sardegna, Sez. II, 17.11.2010 n. 2600);
- ebbene, nel caso di specie tale termine è abbondantemente trascorso, in quanto la cartella esattoriale è stata notificata il 18.10.2011 a fronte del perfezionamento del silenzio assenso sulla pratica di condono realizzatosi quasi tredici anni prima, in data 28.03.1998, atteso che, come riferito dalla stessa difesa comunale nella sua memoria difensiva, la documentazione completa per la sanatoria è stata depositata il 28.03.1996 dall’allora proprietario dell’immobile (Fiart Cantieri Italiani S.p.A.);
- quanto all’indennità risarcitoria, deve intendersi prescritto anche il più breve termine quinquennale previsto dall’art. 28 della legge n. 689/1981, che decorre, vertendosi in materia di illecito permanente, a partire dalla cessazione della situazione di illiceità, ossia dall’emissione del provvedimento sanzionatorio determinativo della misura dell’indennità (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 11.04.2007 n. 1585; Consiglio di Stato, Sez. V, 13.07.2006 n. 4420; TAR Toscana, Sez. III, 16.11.2009 n. 1665);
- orbene, nella fattispecie il provvedimento sanzionatorio è stato emesso nei confronti della ricorrente con la citata nota comunale prot. n. 5065 del 06.02.2003, con conseguente maturazione del termine prescrizionale al 06.02.2008, mentre la cartella di pagamento è stata notificata ben oltre tale termine;
- né vale sostenere, come dedotto dalla difesa comunale, che il potere sanzionatorio inerente all’indennità risarcitoria paesaggistica può essere esercitato senza limiti di tempo, poiché nella presente controversia si discute della prescrizione del diritto sorto a seguito dell’esercizio del predetto potere e non di un’ipotetica decadenza dalle prerogative sanzionatorie in tema di illeciti paesaggistici;
- né sono convincenti le ulteriori obiezioni della difesa comunale, con le quali si intende evidenziare che: a) i termini prescrizionali sarebbero stati interrotti dalle menzionate note prot. n. 5065 del 06.02.2003, prot. n. 22621 del 05.06.2003 e prot. n. 23480 del 28.06.2010; b) la mancata corresponsione delle somme dovute a conguaglio, come indicate nelle predette note, impedirebbe la formazione del silenzio assenso sull’istanza di condono secondo quanto previsto dall’art. 35 della legge n. 47/1985;
- si rimarca, difatti, quanto segue: aa) come già chiarito, le note in parola, avendo evidente carattere recettizio, non sono pervenute nella sfera di conoscenza della ricorrente per nullità del procedimento di notifica, con conseguente inconfigurabilità di effetti interruttivi dei termini prescrizionali; bb) si tratta nel caso specifico non del mancato pagamento di ratei dell’oblazione, che effettivamente impedisce il perfezionamento del silenzio assenso sull’istanza di condono, ma della diversa ipotesi della richiesta di pagamento di somme dovute proprio in ragione dell’esistenza di un valido titolo edilizio, sebbene rilasciato in sanatoria (TAR Campania-Napoli, sentenza 18.10.2012 n. 4147 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIn merito all'adozione di una ordinanza contingibile ed urgente, alla denunciata insussistenza dell’eccezionalità ed imprevedibilità del pericolo, per trattarsi di situazione risalente nel tempo, deve opporsi il consolidato indirizzo che, a fronte dell’attualità della minaccia per l’incolumità pubblica e l’igiene, esclude rilevanza al fatto che la situazione di pericolo fosse nota da tempo.
Tali provvedimenti non devono necessariamente avere il carattere della provvisorietà e ciò in quanto, la provvisorietà o definitività è in funzione del tipo di rischio che si intende fronteggiare, nel senso che occorre avere riguardo alle specifiche circostanze di fatto e allo scopo perseguito attraverso il provvedimento sindacale.
Le ragioni dell’impiego di siffatto mezzo straordinario ben possono evincersi dalla sua giustificazione quindi dagli elementi acquisiti ed atti a manifestare i motivi di urgenza rapportati, nel caso, all’aggravamento delle condizioni ambientali che “proprio a causa dei crolli delle coperture collassate … sono notevolmente peggiorate”, dal che la conseguenza per la quale la “presenza di notevoli quantitativi di lastre di cemento di amianto spezzate a cielo aperto, oltre al fatto che la mancanza di elementi di copertura è causa della diretta esposizione agli agenti atmosferici di materiali friabili che prima si trovavano confinati all’interno della struttura”.

... per l’annullamento dell’ordinanza contingibile ed urgente del Sindaco del Comune di Ferentino n. 48, prot. n. 13242, datata 22.06.2012 avente ad oggetto: “interventi urgenti di messa in sicurezza di emergenza sito “ex Cemamit”;
...
Considerato che il ricorso non merita accoglimento perché:
[a] alla denunciata insussistenza dell’eccezionalità ed imprevedibilità del pericolo, per trattarsi di situazione risalente nel tempo, deve opporsi il consolidato indirizzo che, a fronte dell’attualità della minaccia per l’incolumità pubblica e l’igiene, esclude rilevanza al fatto che la situazione di pericolo fosse nota da tempo (Consiglio di Stato, V, 28.03.2008 n. 1322; 19.09.2012, n. 4968);
[b] il Collegio condivide l’orientamento per il quale, tali provvedimenti non devono necessariamente avere il carattere della provvisorietà e ciò in quanto, la provvisorietà o definitività è in funzione del tipo di rischio che si intende fronteggiare, nel senso che occorre avere riguardo alle specifiche circostanze di fatto e allo scopo perseguito attraverso il provvedimento sindacale (Tar Veneto, III, 07.07.2010 n. 2887);
[c] le ragioni dell’impiego di siffatto mezzo straordinario ben possono evincersi dalla sua giustificazione quindi dagli elementi acquisiti ed atti a manifestare i motivi di urgenza rapportati, nel caso, all’aggravamento delle condizioni ambientali che “proprio a causa dei crolli delle coperture collassate … sono notevolmente peggiorate”, dal che la conseguenza per la quale la “presenza di notevoli quantitativi di lastre di cemento di amianto spezzate a cielo aperto, oltre al fatto che la mancanza di elementi di copertura è causa della diretta esposizione agli agenti atmosferici di materiali friabili che prima si trovavano confinati all’interno della struttura”;
[d] non infine è fondato il dedotto eccesso di potere per contraddittorietà, perché le presupposte evenienze giustificano un provvedimento per definizione straordinario quindi diverso rispetto a quello eventualmente conclusivo del pendente, ordinario procedimento di cui al D.Lgs. 152/2006 (TAR Lazio-Latina, sentenza 18.10.2012 n. 781 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il tempo è un bene della vita e che pertanto il ritardo nel ricevere un provvedimento sfavorevole possa avere effetti pregiudizievoli anche di natura patrimoniale. A sostegno di tale possibilità di tutela milita infatti il nuovo art. 2-bis della legge n. 241/1990 (come modificata dalla legge n. 68/2009 che stabilisce che le pp.aa. sono tenute a risarcire il danno ingiusto cagionato “in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”. Tale disposto normativo riecheggia altresì il tenore testuale dell’art. 30 (azione di condanna) comma 4 del codice del processo amministrativo laddove, ai fini della decorrenza del termine di decadenza, richiama proprio tale inciso dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento. Tale riferimento non è casuale atteso che, nella fattispecie, il ricorrente non riesce a dimostrare in ricorso né la colpa né il dolo dell'amministrazione.
Il collegio condivide infatti quell’opinione giurisprudenziale che ritiene che, sia prima dell’avvento del codice del processo amministrativo, sia dopo la sua entrata in vigore, il danno da ritardo risulta risarcibile unicamente quando venga provata da parte ricorrente o la colpa ovvero il dolo dell'amministrazione. Non è cioè sufficiente l'inosservanza del termine procedimentale per far considerare sussistente il danno.

Da tutto quanto sopra esposto risulta quindi che, a conclusione del procedimento, le condizioni di fatto e di diritto tali da far considerare maturata una piena aspettativa qualificata al rilascio dell’autorizzazione de qua in favore del ricorrente non può dirsi venuta ad esistenza sotto il profilo giuridico; anzi, secondo quanto statuito dal Sindaco con la nota predetta -che faceva presente la decisione di non procedere all’adozione della variante al p.r.g. (e, di conseguenza, al rilascio dell’autorizzazione all’impianto)- la domanda di provvedimento favorevole è stata rigettata.
Occorre allora esaminare l’altra domanda risarcitoria, quella con la quale, sostanzialmente, si chiede il risarcimento per il cd. ritardo procedimentale. In questo caso, in via generale, il privato invoca la tutela risarcitoria per i danni conseguenti al ritardo con cui l’amministrazione ha adottato un provvedimento, di regola a lui favorevole, ma emanato appunto con ritardo rispetto al termine previsto per quel dato procedimento.
Tale tipologia di tutela risarcitoria, nella fattispecie (così come sopra ricostruita, con la precisazione che il procedimento si è chiuso col definitivo atto di arresto procedimentale costituito dalla nota sindacale del 26/09/2006) sarebbe quindi da ritenere applicabile anche all’ipotesi di un provvedimento amministrativo non impugnato (e quindi “legittimo”) sfavorevole per il privato ma adottato con ritardo; in altri termini si ipotizza che il privato abbia subito danni per non aver ottenuto il tempestivo esame della propria istanza e per non aver conosciuto, entro i termini previsti, l’inaccoglibilità della stessa.
In astratto al collegio una siffatta domanda non appare di per sé inappropriata atteso che il tempo è un bene della vita e che pertanto il ritardo nel ricevere un provvedimento sfavorevole possa avere effetti pregiudizievoli anche di natura patrimoniale. A sostegno di tale possibilità di tutela milita infatti il nuovo art. 2-bis della legge n. 241/1990 (come modificata dalla legge n. 68/2009 che stabilisce che le pp.aa. sono tenute a risarcire il danno ingiusto cagionato “in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”. Tale disposto normativo riecheggia altresì il tenore testuale dell’art. 30 (azione di condanna) comma 4 del codice del processo amministrativo laddove, ai fini della decorrenza del termine di decadenza, richiama proprio tale inciso dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento. Tale riferimento non è casuale atteso che, nella fattispecie, il ricorrente non riesce a dimostrare in ricorso né la colpa né il dolo dell'amministrazione.
Il collegio condivide infatti quell’opinione giurisprudenziale (cfr. TAR Abruzzo, Pescara, 06/07/2011 n. 416) che ritiene che, sia prima dell’avvento del codice del processo amministrativo, sia dopo la sua entrata in vigore, il danno da ritardo risulta risarcibile unicamente quando venga provata da parte ricorrente o la colpa ovvero il dolo dell'amministrazione. Non è cioè sufficiente l'inosservanza del termine procedimentale per far considerare sussistente il danno (TAR Basilicata, sentenza 18.10.2012 n. 469 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: L’art. 6 della legge n. 537/1993, come sostituito dall’art. 44 della legge n. 724/1994, detta una disciplina speciale circa il riconoscimento della revisione prezzi nei contratti stipulati dalla p.a..
Si tratta di una previsione che prevale su quella generale di cui all’art. 1664 c.c. ed attribuisce alle imprese il diritto alla revisione dei prezzi (successivamente alla determinazione discrezionale della stazione appaltante cristallizzata in un espresso provvedimento attributivo del beneficio, ovvero desumibile da comportamento implicito quale il pagamento di acconti). Tale disciplina ha natura imperativa e si impone nelle pattuizioni private modificando ed integrando la volontà delle parti contrastante con la stessa, attraverso il meccanismo divisato dall’art. 1339 c.c.; ne consegue che le clausole difformi sono nulle nella loro globalità, anche se la nullità non investe l’intero contratto in applicazione del principio utile per inutile non vitiatur sancito dall’art. 1419 c.c..
Poiché la disciplina legale dettata dall’art. 6, co. 4 e 6 cit., non è mai stata attuata nella parte in cui prevede l’elaborazione, da parte dell’I.S.T.A.T., di particolari indici concernenti il miglior prezzo di mercato desunto dal complesso delle aggiudicazioni di appalti di beni e servizi, rilevate su base semestrale, la lacuna è stata colmata mediante il ricorso all’indice F.O.I..
L’utilizzo di quest’ultimo parametro, ovviamente, non esonera la stazione appaltante dal dovere di istruire il procedimento tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto al fine di esprimere la propria determinazione discrezionale, ma segna il limite massimo oltre il quale, salvo circostanze eccezionali che devono essere provate dall’impresa, non può spingersi nella determinazione del compenso revisionale. In tal modo, secondo la giurisprudenza, si rispecchia fedelmente la “ratio” complessiva della norma sancita dal menzionato art. 6, ed il meccanismo istruttorio in essa divisato, che è quella di coniugare l’esigenza di interesse generale di contenere la spesa pubblica, con quella, parimenti generale, di garantire nel tempo la corretta e puntuale erogazione delle prestazioni dedotte nel programma obbligatorio. L’istituto della revisione è infatti preordinato, nell’attuale disciplina, alla tutela dell’esigenza dell’amministrazione di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo, tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto.
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A fronte della mancata pubblicazione da parte dell’Istituto di statistica dei dati di cui al comma 6 del citato articolo di legge, la giurisprudenza, interrogatasi sulla sorte della disposizione legislativa, ha concluso, in modo unanime, che in mancanza di questi la revisione debba appunto essere operata sulla base dell’indice di variazione dei prezzi per le famiglie di operai e impiegati (cd indice F.O.I.) mensilmente pubblicato dall’ISTAT e che l'adeguamento del corrispettivo non possa essere ancorato alle variazioni specifiche dei prezzi e dei costi delle componenti utilizzate dall'impresa appaltatrice. A quest’ultimo riguardo è stato aggiunto che, sia i commi 4 e 6 dell'art. 6, L. n. 537 del 1993, sia, ora, l’art. 115 del D.Lgs n. 163/2003 fanno riferimento al "prezzo" e non al "costo".
Soltanto il prezzo, inteso come prezzo formatosi sul mercato generale dei prezzi, consente di ancorare il meccanismo di revisione a criteri "oggettivi", tali da conservare l'equilibrio del sinallagma contrattuale e ad impedire di ancorare la misura della revisione al costo (per l'impresa), poiché in tal modo l'aumento posto a carico dell'Amministrazione finirebbe per riflettere le eventuali inefficienze della funzione produttiva del singolo contraente, a tutto danno delle finanze pubbliche.
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La giurisprudenza ammette che soltanto in frangenti del tutto eccezionali l’istituto della revisione prezzi possa fuoriuscire dalla mera esigenza dell’Amministrazione aggiudicante di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo e tuteli –quindi– il contrapposto interesse dell’impresa di non subire l’alterazione dell’equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi che potrebbero verificarsi durante l’arco del rapporto, essendo suscettibili di indurre l’impresa stessa ad una riduzione degli standard qualitativi delle prestazioni.
Tale eccezionalità che conseguentemente legittima una quantificazione del compenso revisionale mediante il ricorso a differenti parametri statistici va comunque intesa come circostanza o circostanze impreviste e imprevedibili, ossia non sussistenti al momento della sottoscrizione del contratto e delle quali non era prevedibile l’avveramento.

Va premesso che la giurisprudenza (cfr. Cons. St., V, 09/06/2008 n. 2786; sez. V, 14.12.2006, n. 7461; sez. V, 16.06.2003, n. 3373; sez. V, 08.05.2002, n. 2461) ha più volte chiarito che l’art. 6 della legge n. 537/1993, come sostituito dall’art. 44 della legge n. 724/1994, detta una disciplina speciale circa il riconoscimento della revisione prezzi nei contratti stipulati dalla p.a..
Si tratta di una previsione che prevale su quella generale di cui all’art. 1664 c.c. ed attribuisce alle imprese il diritto alla revisione dei prezzi (successivamente alla determinazione discrezionale della stazione appaltante cristallizzata in un espresso provvedimento attributivo del beneficio, ovvero desumibile da comportamento implicito quale il pagamento di acconti). Tale disciplina ha natura imperativa e si impone nelle pattuizioni private modificando ed integrando la volontà delle parti contrastante con la stessa, attraverso il meccanismo divisato dall’art. 1339 c.c.; ne consegue che le clausole difformi sono nulle nella loro globalità, anche se la nullità non investe l’intero contratto in applicazione del principio utile per inutile non vitiatur sancito dall’art. 1419 c.c.
Poiché la disciplina legale dettata dall’art. 6, co. 4 e 6 cit., non è mai stata attuata nella parte in cui prevede l’elaborazione, da parte dell’I.S.T.A.T., di particolari indici concernenti il miglior prezzo di mercato desunto dal complesso delle aggiudicazioni di appalti di beni e servizi, rilevate su base semestrale, la lacuna è stata colmata mediante il ricorso all’indice F.O.I.
L’utilizzo di quest’ultimo parametro, ovviamente, non esonera la stazione appaltante dal dovere di istruire il procedimento tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto al fine di esprimere la propria determinazione discrezionale, ma segna il limite massimo oltre il quale, salvo circostanze eccezionali che devono essere provate dall’impresa, non può spingersi nella determinazione del compenso revisionale. In tal modo, secondo la giurisprudenza, si rispecchia fedelmente la “ratio” complessiva della norma sancita dal menzionato art. 6, ed il meccanismo istruttorio in essa divisato, che è quella di coniugare l’esigenza di interesse generale di contenere la spesa pubblica, con quella, parimenti generale, di garantire nel tempo la corretta e puntuale erogazione delle prestazioni dedotte nel programma obbligatorio. L’istituto della revisione è infatti preordinato, nell’attuale disciplina, alla tutela dell’esigenza dell’amministrazione di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo, tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto.
La tesi attorea è che, avendo l’art. 5 (adeguamento prezzi) del contratto stipulato fra le parti previsto, per l’ipotesi della “mancanza” dei dati di cui al comma 6 dell’art. 6 l. n. 537/1993 e succ. modif. (costituiti dai dati ISTAT relativi ai prezzi del mercato dei principali beni e servizi acquisiti dalle pp.aa. da pubblicare semestralmente sulla G.U.) un meccanismo sostitutivo di calcolo dell’adeguamento incentrato sulle “variazioni intervenute sugli elementi caratteristico-costitutivi del costo del servizio”, l’adeguamento “de quo” doveva in concreto obbedire a quest’ultimo criterio e non a quello -indicato concordemente dalla giurisprudenza come idoneo parametro di valutazione dell’incremento del prezzo sostitutivo di quello mancante- dell’indice ISTAT basato sul rilevamento degli incrementi del tasso generale d’inflazione che misura l’aumento medio dei prezzi per le famiglie degli operai e degli impiegati.
A fronte della mancata pubblicazione da parte dell’Istituto di statistica dei dati di cui al comma 6 del citato articolo di legge, la giurisprudenza, interrogatasi sulla sorte della disposizione legislativa, ha concluso, in modo unanime, che in mancanza di questi la revisione debba appunto essere operata sulla base dell’indice di variazione dei prezzi per le famiglie di operai e impiegati (cd indice F.O.I.) mensilmente pubblicato dall’ISTAT e che l'adeguamento del corrispettivo non possa essere ancorato alle variazioni specifiche dei prezzi e dei costi delle componenti utilizzate dall'impresa appaltatrice (Consiglio di Stato, sez. V, 16.06.2003, n. 3373; 13.12.2002, n. 4801; 08.05.2002 n. 2461). A quest’ultimo riguardo è stato aggiunto che, sia i commi 4 e 6 dell'art. 6, L. n. 537 del 1993, sia, ora, l’art. 115 del D.Lgs n. 163/2003 fanno riferimento al "prezzo" e non al "costo".
Soltanto il prezzo, inteso come prezzo formatosi sul mercato generale dei prezzi, consente di ancorare il meccanismo di revisione a criteri "oggettivi", tali da conservare l'equilibrio del sinallagma contrattuale e ad impedire di ancorare la misura della revisione al costo (per l'impresa), poiché in tal modo l'aumento posto a carico dell'Amministrazione finirebbe per riflettere le eventuali inefficienze della funzione produttiva del singolo contraente, a tutto danno delle finanze pubbliche (cfr. in tal senso Cons. Stato, Sez. V 14.12.2006 n. 7461; TAR Sicilia, Palermo, I, 26/01/2009 n. 105).
Ciò detto, per stare alla fattispecie, va rilevato che, in effetti, la parte della clausola revisionale “de qua” invocata dalla ricorrente (comma 3 e ss.) si discosta nettamente dal primo e dal secondo comma della stessa (incentrati invece sul richiamo all’art. 6, in particolare il co. 6, della legge citata) e, nel caso appunto di “mancanza” di pubblicazione dei dati ISTAT inerenti i prezzi di mercato dei principali beni e servizi acquisiti dalle pp. aa., promuove a regime ordinario dell’adeguamento del canone, in luogo del criterio del prezzo imposto dalla legge, quello del costo del servizio per il cui calcolo rinvia ai “valori di riferimento”.
Ne consegue allora, ad avviso del collegio, come pure eccepito dal Comune, la nullità di questa parte dell’art. 5 del contratto per contrasto con l’art. 6, in particolare i commi 1, 4 e 6, della legge n. 537/1993 come successivamente modificata. Tale disciplina ha infatti natura imperativa e si impone sulle pattuizioni private modificando ed integrando la volontà delle parti contrastante con la stessa, attraverso il meccanismo divisato dall’art. 1339 c.c.; ne consegue che le clausole difformi sono nulle, anche se la nullità non investe l’intero contratto in applicazione del principio utile per inutile non vitiatur sancito dall’art. 1419 c.c.
Infatti, come ricordato di recente (cfr. TAR Veneto, I, n. 236/2010), la giurisprudenza ammette che soltanto in frangenti del tutto eccezionali l’istituto della revisione prezzi possa fuoriuscire dalla mera esigenza dell’Amministrazione aggiudicante di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo e tuteli –quindi– il contrapposto interesse dell’impresa di non subire l’alterazione dell’equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi che potrebbero verificarsi durante l’arco del rapporto, essendo suscettibili di indurre l’impresa stessa ad una riduzione degli standard qualitativi delle prestazioni (cfr. al riguardo Cons. Stato, Sez. V, 09.06.2008 n. 2786). Tale eccezionalità che conseguentemente legittima una quantificazione del compenso revisionale mediante il ricorso a differenti parametri statistici va comunque intesa come circostanza o circostanze impreviste e imprevedibili, ossia non sussistenti al momento della sottoscrizione del contratto e delle quali non era prevedibile l’avveramento (TAR Basilicata, sentenza 18.10.2012 n. 468 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIL'impresa che possiede la categoria generale OG11 può eseguire anche le opere delle categorie speciali OS 28 e OS30 può trovare applicazione solo se la lex specialis della gara non richiede espressamente il possesso della qualificazione alle categorie specialistiche.
Il ricorso viene trattenuto in decisione ai sensi dell’art. 60 CPA per la evidente fondatezza del primo motivo del ricorso incidentale con conseguente inammissibilità del ricorso principale in quanto proposto da una partecipante che doveva essere esclusa dalla gara per la mancanza delle qualificazioni OS28 e OS30, categorie in cui ricade una consistente parte dei lavori in appalto, per la ritenuta inapplicabilità del principio di assorbenza delle categorie succitate nella categoria generale OG11.
Ritiene infatti il Collegio che il principio secondo cui l'impresa che possiede la categoria generale OG11 può eseguire anche le opere delle categorie speciali OS 28 e OS30 può trovare applicazione solo se la lex specialis della gara non richiede espressamente il possesso della qualificazione alle categorie specialistiche. Nel caso di specie il bando di gara richiedeva espressamente e a pena di esclusione il possesso delle qualificazioni OS28 e OS30 per l’esecuzione dei lavori rientranti in tali rispettive categorie che rappresentavano, rispettivamente, il 39,97% ed il 15,74% del totale dei lavori. Si deve quindi ritenere che il Comune, attraverso la lex di gara, avesse già formulato la precisa e legittima scelta di richiedere il possesso delle qualificazioni nelle categorie specialistiche che esclude la possibilità di partecipare mediante il possesso della qualificazione nella sola categoria OG11 (C.S. III, N. 1422/2011, C.S., V, n. 3275/2012).
Il Collegio ritiene anche che, come correttamente evidenziato dalla ricorrente incidentale, la disposizione contenuta nell'art. 79, comma 16, del D.P.R. n .207/2012 a tenore della quale “L'impresa qualificata nella categoria O11 può eseguire i lavori in ciascuna delle categorie OS3, O 28 e O 30 per la classifica corrispondente a quella posseduta.” non sia applicabile in relazione alle qualificazioni certificate da attestazioni SOA rilasciate sotto il vigore del DPR 34/2000, ma soltanto in relazione a quelle certificate da attestazioni SOA rilasciate in applicazione del nuovo e più rigoroso sistema delineato dal comma 16 dell’art. 79 cit., secondo il quale per la qualificazione nella categoria OG11, l'impresa deve dimostrare di possedere, per ciascuna delle categorie di opere specializzate individuate con l'acronimo O3, O28 e O30 almeno le ivi previste percentuali dei requisiti di ordine speciale previsti da tale norma per l'importo corrispondente alle classifiche richieste.
Solo per le imprese munite di tale nuova qualificazione potrà quindi ritenersi operativo il principio generale dell’assorbimento delle categorie specialistiche in quella generale OG11, a prescindere da qualsiasi previsione di bando (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 18.10.2012 n. 374 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOCorte Ue sulle condizioni di stabilizzazione. Precari della p.a. Il servizio conta.
Discriminati gli stabilizzati della pubblica amministrazione. È sproporzionata, infatti, la normativa italiana laddove ha escluso del tutto la possibilità di valutare i periodi di servizio svolti a termine ai fini di inquadramento e retribuzione.

Lo stabilisce la sentenza 18.10.2012 cause riunite C-302/11 e C-305/11 emessa dalla Corte di giustizia europea, relative alla procedura di stabilizzazione dei precari del pubblico impiego della Finanziaria 2007 (legge n. 296/2006). L'ultima parola, tuttavia, spetta al Consiglio di stato, al quale la corte Ue rimette comunque la verifica della sussistenza di «ragioni oggettive» che possano giustificare la differenza di trattamento.
In realtà, ciò che rileva la Corte Ue è la paradossale situazione della normativa italiana per cui, da una parte, ha riconosciuto anzi subordinato la stabilizzazione all'esperienza acquisita dal lavoratore non stabile presso il datore di lavoro (cioè una pubblica amministrazione), e dall'altra non ha tenuto conto della stessa (esperienza) ai fini dell'inquadramento retributivo.
Tuttavia, spetta al giudice che ha effettuato il rinvio alla Corte di giustizia (il Consiglio di stato) stabilire se le dipendenti ricorrenti, allorché esercitavano le loro funzioni nell'ambito di un contratto a termine, si trovassero in una situazione comparabile a quella dei dipendenti di ruolo assunti a tempo indeterminato. La Corte Ue ricorda che può esistere una ragione oggettiva che giustifica la differenza di trattamento, però in un contesto particolare e in presenza di elementi precisi e concreti risultanti dalla natura particolare delle mansioni. La disparità di trattamento cioè deve fondarsi su criteri oggettivi e trasparenti, che consentano di verificare che risponde a un reale bisogno ed è idonea e necessaria al conseguimento dell'obiettivo perseguito.
Ad ogni modo, precisa la Corte, il semplice fatto che il lavoratore a tempo determinato abbia compiuto periodi di servizio sul fondamento di un contratto a termine non può configurare una ragione oggettiva. Mentre l'obiettivo fatto valere dal governo italiano di evitare le discriminazioni alla rovescia nei confronti dei dipendenti di ruolo assunti mediante concorso pubblico potrebbe costituire una «ragione oggettiva». Ma l'ultima parola spetta al giudice del rinvio che deve verificare se sussistono «ragioni oggettive» che giustificano la differenza di trattamento (articolo ItaliaOggi del 19.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI: Anche se la gara è stata revocata prima che fosse adottato il provvedimento di aggiudicazione definitiva, la stazione appaltante, trattandosi della revoca dell’intera procedura ai sensi dell’art 21-quinques L. 241/1990, non può avvalersi della facoltà che, invece, le consente, senza obblighi ulteriori verso la controparte, di non procedere all’aggiudicazione, se nessuna delle offerte risulti conveniente (art. 82 Codice Contratti).
Le due disposizioni hanno un ambito di applicazione diverso: l’art. 12 Codice Contratti regola la situazione in cui le offerte presentate non rispondono ai risultati previsti dalla stazione appaltante secondo il criterio del “id quod plerumque accidit”, mentre l’art. 21-quinques l. n 241/1990 regola la situazione in cui, nel corso della gara, vengono a modificarsi fatti o parametri che erano stati determinanti nelle valutazioni della stazione appaltante per fissare le regole della gara ed i risultati da conseguire: per questo motivo il legislatore, mentre ha riconosciuto alla stazione appaltante la facoltà di sottrarsi all’obbligo di contrarre, quando la procedura di scelta del contraente non ha raggiunto l’obiettivo di assicurare l’economicità ed il buon andamento dell’azione amministrativa, nella diversa ipotesi dello “ius poenitendi”, in osservanza dei principi di correttezza e di tutela dell’affidamento del soggetto inciso dal ritiro del provvedimento ed a bilanciamento dei contrapposti interessi, se la revoca comporta pregiudizi in danno degli interessati, ha posto a carico della P.A. l’obbligo di provvedere al loro indennizzo.

Va, pertanto, accolta la domanda di indennizzo, proposta da CIR (nell’appello incidentale e nei motivi riproposti ex art. 101 c p a ) per il ristoro del pregiudizio patito in conseguenza della revoca dell’intera gara, disposta dalla stazione appaltante in espresso esercizio del potere di revoca disciplinato dall’art, 21-quinques della legge n. 241/1990 per sopravvenuti motivi di pubblico interesse di natura economica e per una nuova valutazione dei bisogni da soddisfare.
Infatti, anche se la gara è stata revocata prima che fosse adottato il provvedimento di aggiudicazione definitiva, la stazione appaltante, trattandosi della revoca dell’intera procedura ai sensi dell’art 21-quinques, non può avvalersi della facoltà che, invece, le consente, senza obblighi ulteriori verso la controparte, di non procedere all’aggiudicazione, se nessuna delle offerte risulti conveniente (art. 82 Codice Contratti).
Il collegio è giunto a tali conclusioni poiché ritiene che le due disposizioni hanno un ambito di applicazione diverso: l’art. 12 Codice Contratti regola la situazione in cui le offerte presentate non rispondono ai risultati previsti dalla stazione appaltante secondo il criterio del “id quod plerumque accidit”, mentre l’art. 21-quinques l. n 241/1990 regola la situazione in cui, nel corso della gara, vengono a modificarsi fatti o parametri che erano stati determinanti nelle valutazioni della stazione appaltante per fissare le regole della gara ed i risultati da conseguire: per questo motivo il legislatore, mentre ha riconosciuto alla stazione appaltante la facoltà di sottrarsi all’obbligo di contrarre, quando la procedura di scelta del contraente non ha raggiunto l’obiettivo di assicurare l’economicità ed il buon andamento dell’azione amministrativa, nella diversa ipotesi dello “ius poenitendi”, in osservanza dei principi di correttezza e di tutela dell’affidamento del soggetto inciso dal ritiro del provvedimento ed a bilanciamento dei contrapposti interessi, se la revoca comporta pregiudizi in danno degli interessati, ha posto a carico della P.A. l’obbligo di provvedere al loro indennizzo (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 16.10.2012 n. 5282 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di una tettoia è soggetta a concessione edilizia ai sensi dell'art. 1, l. 28.01.1977 n. 10, in quanto essa, pur avendo carattere pertinenziale rispetto all'immobile cui accede, incide sull'assetto edilizio preesistente.
La costruzione di una tettoia non rientra nel concetto di manutenzione straordinaria, atteso che quest'ultima si fonda sul duplice presupposto che i lavori progettati siano preordinati alla mera rinnovazione o sostituzione di parti dell'edificio o alla realizzazione di impianti igienici sanitari e che i volumi e le superfici preesistenti non vengano alterati o non siano destinati ad altro uso.
Una tettoia avente carattere di stabilità, realizzata in aderenza ad un preesistente fabbricato ed idonea ad un'utilizzazione autonoma, oltre a non poter essere considerata una mera pertinenza, costituisce un'opera esterna per la cui realizzazione occorre il permesso di costruire.

Con riguardo agli ulteriori motivi di ricorso, il Collegio condivide l’interpretazione giurisprudenziale secondo la quale “la realizzazione di una tettoia è soggetta a concessione edilizia ai sensi dell'art. 1, l. 28.01.1977 n. 10, in quanto essa, pur avendo carattere pertinenziale rispetto all'immobile cui accede, incide sull'assetto edilizio preesistente. La costruzione di una tettoia non rientra nel concetto di manutenzione straordinaria, atteso che quest'ultima si fonda sul duplice presupposto che i lavori progettati siano preordinati alla mera rinnovazione o sostituzione di parti dell'edificio o alla realizzazione di impianti igienici sanitari e che i volumi e le superfici preesistenti non vengano alterati o non siano destinati ad altro uso” (TAR Campania Napoli, sez. VI, 17.12.2008, n. 21346).
Una tettoia avente carattere di stabilità, realizzata in aderenza ad un preesistente fabbricato ed idonea ad un'utilizzazione autonoma, oltre a non poter essere considerata una mera pertinenza, costituisce un'opera esterna per la cui realizzazione occorre il permesso di costruire (TAR Lombardia Milano, sez. II, 04.12.2007, n. 6544) (TAR Lazio-Latina, sentenza 16.10.2012 n. 769 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione di una domanda di accertamento di conformità o sanatoria ex art. 13 della l. n. 47/1985 (art. 36 del d.P.R. n. 380/2001), a fronte di un provvedimento di demolizione in precedenza emesso, fa venir meno l’efficacia dell’ordine repressivo, dovendo questo venir sostituito o dalla concessione in sanatoria, ovvero, in caso di diniego della stessa, da un nuovo provvedimento sanzionatorio.
Ciò, atteso che il riesame dell’abusività dell’opera, al fine di verificarne l’eventuale sanabilità, comporta la (necessaria) formazione di un nuovo provvedimento, che vale, comunque, a superare l’ordine repressivo in origine adottato dall’Amministrazione.

Secondo la giurisprudenza prevalente (cfr., ex plurimis, TAR Puglia, Bari, Sez. II, 11.04.2012, n. 705; TAR Lombardia, Milano. Sez. IV, 08.09.2010, n. 5159; TAR Lazio, Latina, 06.02.2002, n. 67), cui ha aderito anche questa Sezione (TAR Abruzzo, Pescara, 27.02.1998, n. 216), la presentazione di una domanda di accertamento di conformità o sanatoria ex art. 13 della l. n. 47/1985 (art. 36 del d.P.R. n. 380/2001), a fronte di un provvedimento di demolizione in precedenza emesso, fa venir meno l’efficacia dell’ordine repressivo, dovendo questo venir sostituito o dalla concessione in sanatoria, ovvero, in caso di diniego della stessa, da un nuovo provvedimento sanzionatorio.
Ciò, atteso che il riesame dell’abusività dell’opera, al fine di verificarne l’eventuale sanabilità, comporta la (necessaria) formazione di un nuovo provvedimento, che vale, comunque, a superare l’ordine repressivo in origine adottato dall’Amministrazione (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 16.10.2012 n. 420 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione di un’istanza di accertamento di conformità o sanatoria ex art. 13 della l. n. 47/1985 ed ora art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, a fronte di un provvedimento di demolizione precedentemente emesso, fa venir meno l’efficacia dell’ordine repressivo, dovendo quest’ultimo venir sostituito o dalla concessione in sanatoria, o, in caso di diniego della stessa, da un nuovo provvedimento sanzionatorio. Ciò, giacché il riesame dell’abusività dell’opera, onde verificarne l’eventuale sanabilità, comporta la (necessaria) formazione di un nuovo provvedimento, che vale, comunque, a superare l’ordine di demolizione in origine adottato dall’Amministrazione.
Secondo la giurisprudenza prevalente (cfr., ex plurimis, TAR Puglia, Bari, Sez. II, 11.04.2012, n. 705; TAR Lombardia, Milano. Sez. IV, 08.09.2010, n. 5159), cui ha aderito anche questa Sezione (cfr., ex plurimis, TAR Lazio, Latina, 06.02.2002, n. 67), la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità o sanatoria ex art. 13 della l. n. 47/1985 ed ora art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, a fronte di un provvedimento di demolizione precedentemente emesso, fa venir meno l’efficacia dell’ordine repressivo, dovendo quest’ultimo venir sostituito o dalla concessione in sanatoria, o, in caso di diniego della stessa, da un nuovo provvedimento sanzionatorio. Ciò, giacché il riesame dell’abusività dell’opera, onde verificarne l’eventuale sanabilità, comporta la (necessaria) formazione di un nuovo provvedimento, che vale, comunque, a superare l’ordine di demolizione in origine adottato dall’Amministrazione (TAR Lazio-Latina, sentenza 15.10.2012 n. 762 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIn merito alla fattispecie di lottizzazione abusiva si può verificare la lottizzazione c.d. materiale e la lottizzazione c.d. cartolare.
La giurisprudenza, quanto alla prima ha precisato che:
- sussiste in presenza di qualsivoglia tipo di opere concretamente idonee a stravolgere l’assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in definitiva, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico urbanistico necessitante un adeguamento degli standards;
- non richiede la realizzazione di vere e proprie costruzioni abusive, essendo sufficiente la sussistenza di opere le quali, sebbene nella fase iniziale, denotino che è stato iniziato o è in corso un procedimento di trasformazione urbanistica ed edilizia del terreno, in contrasto con le norme vigenti;
- per verificarne l’esistenza appare necessaria una visione d’insieme dei lavori, ossia una verifica nel suo complesso dell’attività edilizia realizzata, giacché potrebbero anche ricorrere modifiche rispetto all’attività assentita idonee a conferire un diverso assetto al territorio comunale oggetto di trasformazione.
Ha sottolineato che si ha, invece, lottizzazione cartolare quando la trasformazione sia predisposta mediante il frazionamento, la vendita o atti equivalenti del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche, come la dimensione in relazione alla natura del terreno ed alla sua destinazione sulla base degli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o l’eventuale previsione di opere di urbanizzazione, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio; l’elemento oggettivo della fattispecie è costituito pertanto dal frazionamento di mappali seguito necessariamente da atti di vendita, o da atti ad essi equiparati, sicché in mancanza di detti atti non è possibile contestare legittimamente la lottizzazione abusiva. L’attività negoziale è, infatti, considerata dalla norma quale strumento funzionale al perseguimento dell’intento lottizzatorio e, quindi, come indice della sussistenza di siffatta finalità che deve però esser confermata anche da altri elementi, che rendano evidente la non equivocità della destinazione a scopo edificatorio sia del frazionamento, sia della vendita.
La giurisprudenza poi:
- ha evidenziato con riferimento all’elemento oggettivo della lottizzazione abusiva che si tratta di un illecito non solo di danno (rispetto alle opere già eseguite) ma anche di pericolo (rispetto alle urbanizzazioni ancora possibili), qualora, pur a fronte dell’avvenuta ultimazione degli edifici, strade od altri manufatti, vi sia la possibilità che l’urbanizzazione del comprensorio, ancora incompleta, sia condotta a termine per stati di avanzamento successivi;
- quanto all’elemento soggettivo, in base all’affinità tra l’acquisizione delle aree ex articolo 30 del d.P.R. 380/2001 e la confisca urbanistica disposta dall’autorità giudiziaria ai sensi del successivo articolo 44, ha affermato la necessità per l’applicazione delle sanzioni privative della proprietà del bene, che non si presentino come meramente ripristinatorie rispetto all’abuso perpetrato, di un elemento soggettivo di natura colposa da parte del soggetto che subisce la sanzione, ragion per cui l’acquirente di un lotto non può considerarsi, come tale, estraneo al reato di lottizzazione abusiva, essendo tenuto a dimostrare di aver agito in buona fede, senza cioè rendersi conto (pur avendo adoperato la necessaria diligenza nell’adempimento dei doveri di informazione e conoscenza) di partecipare ad un’opera di illecita lottizzazione.
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La comunicazione di avvio del procedimento di individuazione e repressione della lottizzazione abusiva è superflua ove il contenuto dell’atto non possa essere diverso da quello in concreto adottato e, più in dettaglio, laddove la partecipazione del privato a detto procedimento sia inutile (ed egli non possa fornire alcun apporto conoscitivo e/o documentale rilevante), sussistendo la certezza assoluta della finalità edificatoria della lottizzazione.

L’articolo 30, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, collega la lottizzazione abusiva:
- all’inizio di opere di trasformazione urbanistica od edilizia in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti o adottati, o comunque dettate dalle leggi statali o regionali, senza la prescritta autorizzazione (lottizzazione cd. materiale);
- al frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche (quali la dimensione in relazione alla natura del terreno ed alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o la previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti), denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio (lottizzazione cd. cartolare).
La giurisprudenza, quanto alla prima ha precisato che:
- sussiste in presenza di qualsivoglia tipo di opere concretamente idonee a stravolgere l’assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in definitiva, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico urbanistico necessitante un adeguamento degli standards (Tar Liguria, I, 20.01.2012, n. 161);
- non richiede la realizzazione di vere e proprie costruzioni abusive, essendo sufficiente la sussistenza di opere le quali, sebbene nella fase iniziale, denotino che è stato iniziato o è in corso un procedimento di trasformazione urbanistica ed edilizia del terreno, in contrasto con le norme vigenti (Tar Lazio, Latina, I, 12.10.2011, n. 798);
- per verificarne l’esistenza appare necessaria una visione d’insieme dei lavori, ossia una verifica nel suo complesso dell’attività edilizia realizzata, giacché potrebbero anche ricorrere modifiche rispetto all’attività assentita idonee a conferire un diverso assetto al territorio comunale oggetto di trasformazione (Tar Lazio, Roma, I, 09.10.2009, n. 9859).
Ha sottolineato che si ha, invece, lottizzazione cartolare quando la trasformazione sia predisposta mediante il frazionamento, la vendita o atti equivalenti del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche, come la dimensione in relazione alla natura del terreno ed alla sua destinazione sulla base degli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o l’eventuale previsione di opere di urbanizzazione, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio; l’elemento oggettivo della fattispecie è costituito pertanto dal frazionamento di mappali seguito necessariamente da atti di vendita, o da atti ad essi equiparati, sicché in mancanza di detti atti non è possibile contestare legittimamente la lottizzazione abusiva. L’attività negoziale è, infatti, considerata dalla norma quale strumento funzionale al perseguimento dell’intento lottizzatorio e, quindi, come indice della sussistenza di siffatta finalità che deve però esser confermata anche da altri elementi, che rendano evidente la non equivocità della destinazione a scopo edificatorio sia del frazionamento, sia della vendita (Consiglio di Stato, IV, 20.07.2009, n. 4578; V, 12.03.2012, n. 1374).
La giurisprudenza poi:
- ha evidenziato con riferimento all’elemento oggettivo della lottizzazione abusiva che si tratta di un illecito non solo di danno (rispetto alle opere già eseguite) ma anche di pericolo (rispetto alle urbanizzazioni ancora possibili), qualora, pur a fronte dell’avvenuta ultimazione degli edifici, strade od altri manufatti, vi sia la possibilità che l’urbanizzazione del comprensorio, ancora incompleta, sia condotta a termine per stati di avanzamento successivi (Tar Toscana, III, 28.02.2012, n. 392);
- quanto all’elemento soggettivo, in base all’affinità tra l’acquisizione delle aree ex articolo 30 del d.P.R. 380/2001 e la confisca urbanistica disposta dall’autorità giudiziaria ai sensi del successivo articolo 44, ha affermato la necessità per l’applicazione delle sanzioni privative della proprietà del bene, che non si presentino come meramente ripristinatorie rispetto all’abuso perpetrato, di un elemento soggettivo di natura colposa da parte del soggetto che subisce la sanzione, ragion per cui l’acquirente di un lotto non può considerarsi, come tale, estraneo al reato di lottizzazione abusiva, essendo tenuto a dimostrare di aver agito in buona fede, senza cioè rendersi conto (pur avendo adoperato la necessaria diligenza nell’adempimento dei doveri di informazione e conoscenza) di partecipare ad un’opera di illecita lottizzazione (Tar Campania, Napoli, IV, 04.08.2011, n. 4210).
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Deve allora ritenersi infondata la dedotta violazione delle garanzie procedimentali condividendosi l’orientamento giurisprudenziale (Tar Campania, Napoli, II, 09.09.2011, n. 4363) per il quale, la comunicazione di avvio del procedimento di individuazione e repressione della lottizzazione abusiva è superflua ove il contenuto dell’atto non possa essere diverso da quello in concreto adottato e, più in dettaglio, laddove la partecipazione del privato a detto procedimento sia inutile (ed egli non possa fornire alcun apporto conoscitivo e/o documentale rilevante), sussistendo la certezza assoluta della finalità edificatoria della lottizzazione (TAR Lazio-Latina, sentenza 15.10.2012 n. 756 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI: Elettrosmog. Uso di telefoni cordless e cellulari e patologie tumorali.
Questione concernente la contrazione di grave patologia in conseguenza dell'uso lavorativo protratto, per dodici anni e per 5-6 ore al giorno, di telefoni cordless e cellulari all'orecchio sinistro (Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, sentenza 12.10.2012 n. 17438 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATALe modifiche integrano una variante solo ove il progetto già approvato non risulti sostanzialmente e radicalmente mutato dal nuovo elaborato. La nozione di “variante”, quindi, si ricollega a modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto all’originario progetto e per discriminare un nuovo permesso di costruire dalla variante ad altro preesistente, occorre considerare una serie di elementi ivi incluse le caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed esterne, del manufatto.
Il sistema delineato dal d.P.R. n. 380 del 2001, all’articolo 22, comma 2, conferma una tale impostazione prevedendo che “Sono, altresì, realizzabili mediante denuncia di inizio attività le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell’edificio e non violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire. Ai fini dell’attività di vigilanza urbanistica ed edilizia, nonché ai fini del rilascio del certificato di agibilità, tali denunce di inizio attività costituiscono parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell’intervento principale e possono essere presentate prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori.”.
La riprodotta norma collega oggettivamente il tipo di intervento al titolo edilizio e conferma che la connotazione complementare ed accessoria del permesso in variante rispetto al preesistente opera nei limiti in cui non interessi mutamenti rilevanti ed implicanti un nuovo permesso.
Per la giurisprudenza “le varianti in senso proprio sono quelle che si riferiscono a modifiche quantitative e qualitative di limitata consistenza e di scarso rilievo rispetto al progetto originario e si distinguono da quelle che, pur chiamate varianti nel linguaggio usuale del termine, tali non possono essere considerate perché richiedono la realizzazione di un quid novi (da valutarsi con riferimento alle evidenze progettuali quali la superficie coperta, il perimetro, il numero dei piani, la volumetria, le distanze dalle proprietà vicine, nonché le caratteristiche funzionali e strutturali del fabbricato complessivamente inteso): in questa seconda categoria vanno ricondotte le varianti cc.dd. «improprie» o «essenziali», che si configurano come nuove concessioni.”.

Il ricorrente, impugna il permesso di costruire “in variante per opere in corso” n. 1 del 05.06.2009, prot. n. 3527, rilasciato ai controinteressati. Argomenta, innanzitutto, la necessità di “un nuovo permesso a costruire” essendo gli interventi progettati in totale difformità o costituendo gli stessi comunque variazioni essenziali riconducibili al mutamento della destinazione d’uso o delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentito di cui all’articolo 31, comma 1, lettere a) e d), del d.P.R. 380/2001.
Va evidenziato che il permesso n. 3 del 2008 prevedeva “la costruzione di un gazebo del tipo tettoia in tubolari zincati, con sovrastante copertura pannelli in sandwinch termocoibentanti, per l’esposizione di ferramenta”. Il titolo impugnato interessa invece la “realizzazione di mazzette in muratura, in prossimità dei pilastri portanti allo scopo di ridurre l’ampiezza delle vetrate che erano previste appoggiate ai pilastri nella richiesta originaria e nella costruzione di un wc a piano terra”, quindi l’esecuzione di tramezzature, di impianto elettrico, di intonaci esterni ed interni con rifinitura a stucco e tinteggiatura, di tubazioni per impianti igienici, di pavimentazione interna ed esterna, di infissi e di scarichi con allaccio alla fogna pubblica esistente.
L’amministrazione comunale come visto ha rilasciato un permesso di costruire che autorizza la realizzazione di varianti al progetto approvato.
Sul tema va ricordato che le modifiche integrano una variante solo ove il progetto già approvato non risulti sostanzialmente e radicalmente mutato dal nuovo elaborato. La nozione di “variante”, quindi, si ricollega a modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto all’originario progetto e per discriminare un nuovo permesso di costruire dalla variante ad altro preesistente, occorre considerare una serie di elementi ivi incluse le caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed esterne, del manufatto.
Il sistema delineato dal d.P.R. n. 380 del 2001, all’articolo 22, comma 2, conferma una tale impostazione prevedendo che “Sono, altresì, realizzabili mediante denuncia di inizio attività le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell’edificio e non violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire. Ai fini dell’attività di vigilanza urbanistica ed edilizia, nonché ai fini del rilascio del certificato di agibilità, tali denunce di inizio attività costituiscono parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell’intervento principale e possono essere presentate prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori.”.
La riprodotta norma collega oggettivamente il tipo di intervento al titolo edilizio e conferma che la connotazione complementare ed accessoria del permesso in variante rispetto al preesistente opera nei limiti in cui non interessi mutamenti rilevanti ed implicanti un nuovo permesso.
Per la giurisprudenza (tra le tante Tar Napoli, V, 16.01.2008, n. 241) “le varianti in senso proprio sono quelle che si riferiscono a modifiche quantitative e qualitative di limitata consistenza e di scarso rilievo rispetto al progetto originario e si distinguono da quelle che, pur chiamate varianti nel linguaggio usuale del termine, tali non possono essere considerate perché richiedono la realizzazione di un quid novi (da valutarsi con riferimento alle evidenze progettuali quali la superficie coperta, il perimetro, il numero dei piani, la volumetria, le distanze dalle proprietà vicine, nonché le caratteristiche funzionali e strutturali del fabbricato complessivamente inteso): in questa seconda categoria vanno ricondotte le varianti cc.dd. «improprie» o «essenziali», che si configurano come nuove concessioni.” (TAR Lazio-Latina, sentenza 12.10.2012 n. 752 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’accertamento di conformità regolato dall’articolo 36 del d.P.R. 380/2001 è diretto a sanare opere formalmente abusive perché eseguite senza il richiesto titolo ma conformi, nella sostanza, alla disciplina edilizio-urbanistica applicabile per l’area su cui sorgono, vigente sia al momento della realizzazione che a quello della presentazione dell’istanza di sanatoria (cd. doppia conformità).
Il comune è chiamato a svolgere una valutazione da rapportare ad un assetto di interessi prefigurato dalla citata disciplina, dal che deriva che l’accertamento di conformità assume una connotazione eminentemente oggettiva e vincolata, priva pertanto di appezzamenti discrezionali.

Va preliminarmente osservato che l’accertamento di conformità regolato dall’articolo 36 del d.P.R. 380/2001 è diretto a sanare opere formalmente abusive perché eseguite senza il richiesto titolo ma conformi, nella sostanza, alla disciplina edilizio-urbanistica applicabile per l’area su cui sorgono, vigente sia al momento della realizzazione che a quello della presentazione dell’istanza di sanatoria (cd. doppia conformità).
Il comune è chiamato a svolgere una valutazione da rapportare ad un assetto di interessi prefigurato dalla citata disciplina, dal che deriva che l’accertamento di conformità assume una connotazione eminentemente oggettiva e vincolata, priva pertanto di appezzamenti discrezionali (Tar Puglia, Bari, III, 26.01.2012, n. 246; Tar Campania, Napoli, II, 11.01.2012, n. 55) (TAR Lazio-Latina, sentenza 12.10.2012 n. 751 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione dell'istanza di condono successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse, e ciò in quanto il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, ex se comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, dal momento che, in caso di diniego del richiesto condono, l'Amministrazione Comunale dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi.
Infatti è noto l'orientamento, accolto anche da questo Tribunale, secondo cui la presentazione dell'istanza di condono successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse, e ciò in quanto il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, ex se comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, dal momento che, in caso di diniego del richiesto condono, l'Amministrazione Comunale dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi (cfr. Consiglio di Stato sez. IV, 16.09.2011, n. 5228) (TAR Lazio-Latina, sentenza 10.10.2012 n. 739 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAQuanto alla denegata efficacia esterna del P.T.P. ove solamente adottato, trattasi di affermazione respinta dalla prevalente giurisprudenza, per la quale le prescrizioni stabilite dal Piano Territoriale Paesistico hanno efficacia vincolante sin dall’adozione e conseguente pubblicazione del Piano stesso, e non dalla definitiva approvazione di questo, atteso il principio di immediata efficacia dei provvedimenti di tutela dei valori paesaggistici ed ambientali.
Il principio di immediata effettività dei provvedimenti di tutela dei valori paesaggistici ed ambientali, concordemente affermato dalla giurisprudenza per ciò che riguarda i vincoli inerenti le cd. bellezze di insieme (i quali si perfezionano sin dal momento in cui la proposta di adozione è pubblicata presso i Comuni interessati), si configura valido anche con riferimento ai limiti e criteri di tutela recepiti dal P.T.P., i quali concorrono ad orientare le determinazioni della P.A. a partire dalla data di pubblicazione nella G.U. della deliberazione della Giunta Regionale di adozione del Piano.
Ove si intendesse riconoscere efficacia prescrittiva al P.T.P. solo a partire dalla data di definitiva approvazione, si correrebbe il rischio di vanificare il più organico regime di tutela delle zone vincolate qualora, nelle more del perfezionamento dell’iter procedimentale, fossero consentite, in contrasto con il contenuto del Piano, iniziative di modifica del territorio: queste, anzi, potrebbero ricevere un impulso, in vista di una futura regolamentazione di dettaglio più restrittiva.
Del resto l’ordinamento recepisce, con riferimento alla disciplina dell’assetto urbanistico ed edilizio del territorio, il criterio di immediata efficacia a salvaguardia delle prescrizioni pianificatorie, nelle more del perfezionamento dei singoli piani e detta esigenza si configura a maggior ragione valida e non eludibile relativamente allo strumento di disciplina paesaggistico-ambientale, che è indirizzato alla tutela di interessi primari e prevalenti su ogni altro inerente all’utilizzazione del territorio.

Invero, quanto alla denegata efficacia esterna del P.T.P. ove solamente adottato, trattasi di affermazione respinta dalla prevalente giurisprudenza, per la quale le prescrizioni stabilite dal Piano Territoriale Paesistico hanno efficacia vincolante sin dall’adozione e conseguente pubblicazione del Piano stesso, e non dalla definitiva approvazione di questo, atteso il principio di immediata efficacia dei provvedimenti di tutela dei valori paesaggistici ed ambientali (cfr., ex multis, TAR Lazio, Roma, Sez. II, 02.03.2007, n. 1932, con i precedenti ivi elencati).
Sul punto si è sottolineato che il principio di immediata effettività dei provvedimenti di tutela dei valori paesaggistici ed ambientali, concordemente affermato dalla giurisprudenza per ciò che riguarda i vincoli inerenti le cd. bellezze di insieme (i quali si perfezionano sin dal momento in cui la proposta di adozione è pubblicata presso i Comuni interessati: v. C.d.S., A.P., 06.05.1976, n. 3), si configura valido anche con riferimento ai limiti e criteri di tutela recepiti dal P.T.P., i quali concorrono ad orientare le determinazioni della P.A. a partire dalla data di pubblicazione nella G.U. della deliberazione della Giunta Regionale di adozione del Piano (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. II, 28.03.2001, n. 2559).
Ove si intendesse riconoscere efficacia prescrittiva al P.T.P. solo a partire dalla data di definitiva approvazione, si correrebbe il rischio di vanificare il più organico regime di tutela delle zone vincolate qualora, nelle more del perfezionamento dell’iter procedimentale, fossero consentite, in contrasto con il contenuto del Piano, iniziative di modifica del territorio: queste, anzi, potrebbero ricevere un impulso, in vista di una futura regolamentazione di dettaglio più restrittiva.
Del resto l’ordinamento recepisce, con riferimento alla disciplina dell’assetto urbanistico ed edilizio del territorio, il criterio di immediata efficacia a salvaguardia delle prescrizioni pianificatorie, nelle more del perfezionamento dei singoli piani e detta esigenza si configura a maggior ragione valida e non eludibile relativamente allo strumento di disciplina paesaggistico-ambientale, che è indirizzato alla tutela di interessi primari e prevalenti su ogni altro inerente all’utilizzazione del territorio (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. II, 05.05.2004, n. 3781; id., n. 2559/2001, cit.) (TAR Lazio-Latina, sentenza 10.10.2012 n. 737 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe prescrizioni dettate a livello regolamentare non possono tradursi nell’imposizione di limitazioni o divieti generalizzati incompatibili con la possibilità di realizzare una rete completa di infrastrutture per la telecomunicazione, e ciò ancor più quando dette prescrizioni sono palesemente rivolte a tutelare aspetti collegati alla salute umana, dal momento che siffatte esigenze sono valutate dagli organi statali a ciò deputati, stante la previsione dell’art. 4 della legge n. 36/2001.
L’art. 8, comma 6, della legge n. 36/2001 prevede che “I comuni possono adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici”.
Per principio pacifico in giurisprudenza, le prescrizioni dettate a livello regolamentare non possono tradursi nell’imposizione di limitazioni o divieti generalizzati incompatibili con la possibilità di realizzare una rete completa di infrastrutture per la telecomunicazione, e ciò ancor più quando dette prescrizioni sono palesemente rivolte a tutelare aspetti collegati alla salute umana, dal momento che siffatte esigenze sono valutate dagli organi statali a ciò deputati, stante la previsione dell’art. 4 della legge n. 36/2001 (Consiglio Stato, sez. VI, 27.12.2010, n. 9414; TAR Calabria-Reggio Calabria, sez. I, 21.03.2012, n. 231; TAR Campania–Napoli, sez. VII, 28.10.2011, n. 5030; TAR Molise–Campobasso, sez. I, 04.08.2011, n. 533)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 05.10.2012 n. 1647 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 non impone la puntuale ed analitica confutazione delle osservazioni presentate dalla parte privata a seguito della ricezione della comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza, essendo sufficiente ai fini della giustificazione del provvedimento adottato la motivazione complessivamente resa a sostegno dell'atto stesso e tenuto conto del fatto che la confutazione delle osservazioni può essere desunta dal complesso del provvedimento.
Peraltro, secondo una condivisibile giurisprudenza, l’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 non impone la puntuale ed analitica confutazione delle osservazioni presentate dalla parte privata a seguito della ricezione della comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza, essendo sufficiente ai fini della giustificazione del provvedimento adottato la motivazione complessivamente resa a sostegno dell'atto stesso e tenuto conto del fatto che la confutazione delle osservazioni può essere desunta dal complesso del provvedimento (TAR Campania Napoli, sez. VII, 07.05.2010, n. 3072; TAR Liguria-Genova, sez. I, 17.02.2010, n. 603) (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 05.10.2012 n. 1647 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALIFiere, i comuni senza esclusiva. I paletti sono in contrasto col Trattato Ce.
Nessun diritto di esclusiva dei comuni nel regolare lo svolgimento dell'attività fieristica nel loro ambito territoriale. Il comune nello stabilire che l'attività fieristica possa svolgersi soltanto nelle aree pubbliche (strade, canali, piazze, comprese quelle private gravate da servitù di pubblico passaggio, e ogni altra area di qualunque natura destinata a uso pubblico) o in quelle private di cui lo stesso abbia la disponibilità, appaiono in contrasto con il principio della liberalizzazione delle attività economiche, derivante dal Trattato Ce e dall'interpretazione di esso da parte della Corte di giustizia (sentenza 15.02.2002 c. 439/99).
In virtù del principio della liberalizzazione delle attività economiche, valevole anche con riferimento alle fiere e ai mercati, il comune non può pretendere di esercitare alcun diritto di esclusiva nello svolgimento dell'attività fieristica. La liberalizzazione delle attività economiche è finalizzata a garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità e il corretto e uniforme funzionamento del mercato, nonché per assicurare ai consumatori finali un livello minimo e uniforme di condizioni di accessibilità ai beni e servizi sul territorio nazionale.

Questo è il principio espresso nella sentenza 05.10.2012 n. 835 del TAR Sardegna, Sez. II.
Pertanto, secondo i giudici amministrativi sardi, in questa circostanza, devono essere annullati i provvedimenti di diniego della domanda presentata da un consorzio per una manifestazione fieristica di tipo locale, i quali nel presupporre che l'attività fieristica possa svolgersi soltanto nelle aree pubbliche o in quelle private di cui il comune abbia la disponibilità, appaiono in contrasto con il principio della liberalizzazione delle attività economiche.
Il mercato è un'area pubblica o privata della quale il comune ha la disponibilità, composta da più posteggi, attrezzata o meno e destinata all'esercizio dell'attività, per uno o più giorni della settimana o del mese, per l'offerta integrata di merci al dettaglio, la somministrazione di alimenti e bevande e l'erogazione di servizi pubblici.
La fiera invece è una manifestazione caratterizzata dall'afflusso, nei giorni stabiliti, sulle aree pubbliche o private delle quali il comune abbia la disponibilità, di operatori autorizzati a esercitare il commercio su aree pubbliche, in occasione di particolari ricorrenze, eventi, festività (articolo ItaliaOggi del 20.10.2012).

URBANISTICAAttività di indagine e lottizzazione.
La valutazione in ordine alla eventuale inutilizzabilità degli atti di indagine, prevista dall'art. 407 c.p.p., va effettuata considerando il contenuto e la funzione dell'atto, con la conseguenza che non devono essere inclusi nel novero degli atti passibili di inutilizzabilità quelli costituenti mera rielaborazione di attività precedentemente svolte quali, ad esempio, le note riassuntive o conclusive solitamente redatte dalla polizia giudiziaria, all'esito di investigazioni complesse, per fornire una illustrazione organica e definitiva dell'attività compiuta ed agevolare la consultazione della relativa documentazione, ovvero quelli meramente ricognitivi, finalizzati a documentare la permanenza ed attualità di situazioni già in precedenza compiutamente accertate.
L'acquirente ed il sub-acquirente di un immobile o terreno abusivamente lottizzato sono tenuti ad assolvere in modo rigoroso all'onere di conoscenza ed informazione loro richiesto e non possono dimostrare di aver agito in buona fede semplicemente richiamando l'affidamento riposto in altri soggetti o nella apparente legittimità di atti amministrativi, specie nel caso in cui la illiceità dell'operazione lottizzatoria sia resa evidente dalla presenza di elementi obiettivi sintomatici di una irregolare trasformazione edilizia o urbanistica del territorio (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.10.2012 n. 38732 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Totale difformità ed opere interne.
Rientra nella nozione di totale difformità dal permesso di costruire la realizzazione in un edificio in corso di costruzione di strutture all'interno di una parte dell'immobile, che ne determinino la modificazione della destinazione d'uso e lo rendano suscettibile di autonoma utilizzazione, in modo da incidere sull'assetto del territorio, in quanto aumentano il carico urbanistico rispetto a quanto previsto dal permesso di costruire (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.10.2012 n. 38536 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATAAppare coerente con i principi generali dell’ordinamento nazionale e comunitario ritenere che, per effetto della disciplina sopravvenuta di cui all'art. 87 D. Lg.vo n. 259/2003, sia stato implicitamente abrogato, per incompatibilità, l'art. 3, comma 1, lett. e. 3) ed e. 4) del DPR n. 380/2001, nella parte in cui qualifica gli impianti di telecomunicazioni come “nuova costruzione”, richiedenti, ai sensi del successivo art. 10 DPR n. 380/2001, il previo rilascio del permesso di costruire.
Invero, l'espressa assimilazione normativa fra le stazioni radio base e le opere di urbanizzazione primaria, statuita dall’art. 86, comma 3, del D.Lgs n. 259/2003 rende l'installazione di tali manufatti compatibile con qualunque destinazione di zona ed assoggettata alle sole prescrizioni di cui all'art. 87 del D.Lgs n. 259/2003 e non anche alle previsioni generali di cui all'art. 3 del D.P.R. n. 380/2001.
Pertanto, l’art. 87-bis del D.Lgs n. 259/2003 (introdotto dall’art. 5-bis del D. L. 25.03.2010 n. 40) delinea un procedimento per il caso in cui l’impianto radio base abbia potenza in singola antenna superiore ai 20 Watt, con riferimento al quale il gestore di telefonia mobile deve chiedere “autorizzazione alla installazione”, ed un procedimento semplificato, per il caso in cui la predetta potenza sia uguale o inferiore ai 20 Watt, per il quale si richiede la mera “denuncia di inizio attività”, trasmessa alle amministrazioni competenti (Comune e Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale).
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E' consentito alle regioni ed ai comuni, ciascuno per la sua competenza, introdurre criteri localizzativi degli impianti de quibus, nell'ambito della funzione di definizione degli "obiettivi di qualità", consistenti in criteri localizzativi, di cui all'art. 3, comma 1, lettera d, ed all'art. 8, comma 1, lettera e, e comma 6 della legge quadro, mentre non è consentito introdurre limitazioni alla localizzazione.
Coerentemente, vanno considerati criteri localizzativi (legittimi, ancorché espressi "in negativo") i divieti di installazione su ospedali, case di cura e di riposo, scuole e asili nido, siccome riferiti a specifici edifici, mentre vanno ritenute limitazioni alla localizzazione (vietate) i criteri distanziali generici ed eterogenei, quali la prescrizione di distanze minime, da rispettare nell'installazione degli impianti, dal perimetro esterno di edifici destinati ad abitazioni, a luoghi di lavoro o ad attività diverse da quelle specificamente connesse all'esercizio degli impianti stessi, di ospedali, case di cura e di riposo, edifici adibiti al culto, scuole ed asili nido, nonché di immobili vincolati ai sensi della legislazione sui beni storico-artistici o individuati come edifici di pregio storico-architettonico, di parchi pubblici, parchi gioco, aree verdi attrezzate ed impianti sportivi.

Il cosiddetto “Codice delle Comunicazioni Elettroniche”, approvato con D.Lgs. 01.08.2003, n. 259, con gli artt. 86, 87 e 88, con riferimento alle infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, affronta i molteplici profili di interesse pubblico coinvolti e prevede lo svolgimento di apposite conferenze di servizi, per un adeguato coordinamento di tali interessi, con finale rilascio -in forma espressa o tacita- di un titolo abilitativo, qualificato come autorizzazione, in coerenza con i criteri -rilevanti anche sul piano comunitario- di semplificazione amministrativa, mediante la confluenza in un solo procedimento di tutte le tematiche rilevanti, pur senza cancellare l'incidenza delle installazioni stesse sotto il profilo urbanistico-edilizio, tenuto conto della concreta consistenza dell'intervento e senza esclusione di eventuali conseguenze penali, connesse ad ipotesi di abusivismo, ex art. 44 D.P.R. n. 380/2001 (conf.: Corte Cost. 28.03.2006, n. 259; Corte Cost. 18.05.2006, ord. n. 203).
L'art. 86, comma 3, del precitato D.Lgs n. 259/2003 stabilisce che tutte le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, tra cui anche gli impianti di telefonia mobile, "sono assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria di cui all'art. 16, comma 7, DPR n. 380/2001, pur restando di proprietà dei rispettivi operatori".
Il D.Lgs. 06.06.2001 n. 380 (Testo Unico dell'Edilizia), con l’art. 3, comma 1°, lett. e. 3) ed e. 4), prescrive, per "l'installazione di torri e tralicci per impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione" -espressamente catalogata come intervento di nuova costruzione- il permesso di costruire, introdotto dalla medesima normativa come nuova qualificazione formale della concessione edilizia, ai sensi del successivo art. 10, comma 1.
L’art. 87 del suddetto D.Lgs n. 259/2003 richiede, per il caso di installazione di impianti, con tecnologia UMTS od altre, con potenza in singola antenna uguale od inferiore ai 20 Watt, la mera denuncia di inizio attività, conforme ai modelli predisposti dagli Enti locali e, ove non predisposti, “al modello B di cui all'allegato n. 13", conformemente alla “ratio acceleratoria”, desumibile anche dai criteri di delega contenuti nell'art. 41 della legge n. 166/2002 .
Appare, quindi, coerente con i principi generali dell’ordinamento nazionale e comunitario ritenere che, per effetto della disciplina sopravvenuta di cui all'art. 87 D. Lg.vo n. 259/2003, sia stato implicitamente abrogato, per incompatibilità, l'art. 3, comma 1, lett. e. 3) ed e. 4) del DPR n. 380/2001, nella parte in cui qualifica gli impianti di telecomunicazioni come “nuova costruzione”, richiedenti, ai sensi del successivo art. 10 DPR n. 380/2001, il previo rilascio del permesso di costruire (conf.: Cons. Stato. Sez. VI, sent. n. 5044 del 17.10.2008; Cons. Stato Sez. VI: sent. n. 3534 del 15.06.2006; sent. n. 4000 del 26.7.2005; sent. n. 100 del 21.01.2005; TAR Napoli Sez. VII sent. n. 2702 del 22.03.2007; TAR Lecce Sez. II sent. n. 4279 del 22.08.2006).
Invero, l'espressa assimilazione normativa fra le stazioni radio base e le opere di urbanizzazione primaria, statuita dall’art. 86, comma 3, del D.Lgs n. 259/2003 rende l'installazione di tali manufatti compatibile con qualunque destinazione di zona ed assoggettata alle sole prescrizioni di cui all'art. 87 del D.Lgs n. 259/2003 e non anche alle previsioni generali di cui all'art. 3 del D.P.R. n. 380/2001.
Pertanto, come correttamente rilevato dalla ricorrente, l’art. 87-bis del D.Lgs n. 259/2003 (introdotto dall’art. 5-bis del D. L. 25.03.2010 n. 40) delinea un procedimento per il caso in cui l’impianto radio base abbia potenza in singola antenna superiore ai 20 Watt, con riferimento al quale il gestore di telefonia mobile deve chiedere “autorizzazione alla installazione”, ed un procedimento semplificato, per il caso in cui la predetta potenza sia uguale o inferiore ai 20 Watt, per il quale si richiede la mera “denuncia di inizio attività”, trasmessa alle amministrazioni competenti (Comune e Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale).
E’ questo secondo il procedimento pacificamente applicabile al caso che occupa.
Secondo il quadro emergente della giurisprudenza costituzionale, è consentito alle regioni ed ai comuni, ciascuno per la sua competenza, introdurre criteri localizzativi degli impianti de quibus, nell'ambito della funzione di definizione degli "obiettivi di qualità", consistenti in criteri localizzativi, di cui all'art. 3, comma 1, lettera d, ed all'art. 8, comma 1, lettera e, e comma 6 della legge quadro, mentre non è consentito introdurre limitazioni alla localizzazione (conf.: Corte Cost.: 07.10. 2003 n. 307; 07.11.2003, n. 331; 28.03.2006, n. 129).
Coerentemente, vanno considerati criteri localizzativi (legittimi, ancorché espressi "in negativo") i divieti di installazione su ospedali, case di cura e di riposo, scuole e asili nido, siccome riferiti a specifici edifici, mentre vanno ritenute limitazioni alla localizzazione (vietate) i criteri distanziali generici ed eterogenei, quali la prescrizione di distanze minime, da rispettare nell'installazione degli impianti, dal perimetro esterno di edifici destinati ad abitazioni, a luoghi di lavoro o ad attività diverse da quelle specificamente connesse all'esercizio degli impianti stessi, di ospedali, case di cura e di riposo, edifici adibiti al culto, scuole ed asili nido, nonché di immobili vincolati ai sensi della legislazione sui beni storico-artistici o individuati come edifici di pregio storico-architettonico, di parchi pubblici, parchi gioco, aree verdi attrezzate ed impianti sportivi (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 03.10.2012 n. 981 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'Amministrazione non può giustificare il diniego di rilascio del titolo con esclusivo riferimento alla necessità della previa approvazione di un nuovo piano attuativo, che si sostanzierebbe in un'atipica ed illegittima misura di salvaguardia.
Ed invero, ai fini del rilascio del titolo abilitativi uno stato di sufficiente urbanizzazione della zona che renda superflua la pianificazione di dettaglio deve ritenersi equivalente, in via generale, alla operatività di un piano attuativo al momento della presentazione della domanda.
Ciò equivale a dire che la mancanza del piano attuativo non è circostanza che di per sé giustifichi il diniego del titolo abilitativo, necessitando verificare in concreto l'esistenza di opere di urbanizzazione adeguate a supportare l'ulteriore intervento, la qual cosa implica la rigorosa valutazione degli effetti che l'intervento da abilitare produrrebbe sul territorio di riferimento.
Per tali ipotesi l'Amministrazione ha, perciò, l'obbligo di verificare il grado di urbanizzazione delle aree di intervento, al fine di stabilire se sia ancora necessaria l'approvazione di un piano di dettaglio per asservire un'area non ancora urbanizzata, tenendo conto della situazione esistente al momento della richiesta del titolo abilitativo.

Il ricorso è fondato.
Osserva, anzitutto, il Collegio -facendo richiamo ad un consolidato indirizzo giurisprudenziale- che “l'Amministrazione non può giustificare il diniego di rilascio del titolo con esclusivo riferimento alla necessità della previa approvazione di un nuovo piano attuativo, che si sostanzierebbe in un'atipica ed illegittima misura di salvaguardia” (cfr. Tar Napoli II n. 296, 297, 298 del 18.01.2008).
Ed invero, ai fini del rilascio del titolo abilitativi uno stato di sufficiente urbanizzazione della zona che renda superflua la pianificazione di dettaglio deve ritenersi equivalente, in via generale, alla operatività di un piano attuativo al momento della presentazione della domanda.
Ciò equivale a dire che la mancanza del piano attuativo non è circostanza che di per sé giustifichi il diniego del titolo abilitativo, necessitando verificare in concreto l'esistenza di opere di urbanizzazione adeguate a supportare l'ulteriore intervento, la qual cosa implica la rigorosa valutazione degli effetti che l'intervento da abilitare produrrebbe sul territorio di riferimento.
Per tali ipotesi l'Amministrazione ha, perciò, l'obbligo di verificare il grado di urbanizzazione delle aree di intervento, al fine di stabilire se sia ancora necessaria l'approvazione di un piano di dettaglio per asservire un'area non ancora urbanizzata, tenendo conto della situazione esistente al momento della richiesta del titolo abilitativo (cfr. Consiglio di Stato, sez. V n. 5953 del 09.10.2006; sez. IV n. 6171 del 04.12.2007).
In conclusione, la determinazione comunale impugnata è inficiata nella parte in cui omette la doverosa verifica istruttoria della sufficienza del regime rinvenibile nel vigente PRG e dello stato di urbanizzazione dell'area, vale a dire ogni valutazione circa la coerenza dell'intervento con il regime rinvenibile nel vigente PRG od in merito alla necessità di un piano attuativo.
La mancanza di ogni riferimento alla necessaria e preliminare verifica dell'utilizzabilità, come paradigma di assentibilità dell'intervento, della disciplina contenuta nel PRG palesa i vizi di difetto di istruttoria e di motivazione, in quanto finisce con l'essere un giudizio assunto sulla base dell'attuazione di un parametro normativo non immediatamente ed automaticamente applicabile alla fattispecie esaminata (TAR Lazio-Latina, sentenza 03.10.2012 n. 709 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Normativa antisismica e tipologia opere.
La normativa antisismica ed edilizia dettata dagli artt. 93, 94 e 95 del D.P.R. 380/2001 si applica a tutte le opere -purché stabilmente ancorate al suolo- realizzate in zone sismiche e la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità, a nulla rilevando la tipologia dei materiali impiegati che possono essere costituiti anche da elementi strutturali diversi dalia opere in muratura o in cemento armato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.10.2012 n. 38090 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'autore di un abuso edilizio, che abbia prestato acquiescenza al diniego di concessione di costruzione in sanatoria, decade dalla possibilità di rimettere in discussione l'abuso accertato in sede di impugnazione dell'ordine di demolizione, atteso che quest'ultimo rinviene nel diniego di sanatoria il suo presupposto.
Infatti, per consolidata giurisprudenza amministrativa "L'autore di un abuso edilizio, che abbia prestato acquiescenza al diniego di concessione di costruzione in sanatoria, decade dalla possibilità di rimettere in discussione l'abuso accertato in sede di impugnazione dell'ordine di demolizione, atteso che quest'ultimo rinviene nel diniego di sanatoria il suo presupposto." (Cons. Stato, Sez. V, 17.09.2008, n. 4446; TAR Puglia Bari, sez. II, 05.01.2011, n. 8; Cons. Stato, Sez. V, 28.12.2007, n. 6715) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 02.10.2012 n. 1940 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Richiesta di sanatoria e violazione art. 483 cod. pen..
Nel caso di presentazione, da parte del privato, della dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà (come regolata dal d.P.R. 445/2000) concernente la data di ultimazione del fabbricato e tesa a conseguire la concessione in sanatoria, sono ravvisabili tutti i requisiti previsti per la integrazione dei reato di cui all'art. 483 cod. pen., salva la verifica della fattispecie concreta (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.10.2012 n. 37904 - tratto da www.lexambiente.it).

ESPROPRIAZIONE: L’A.N.A.S. non è soltanto società concessionaria del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ma soggetto espressamente individuato dal legislatore a svolgere i compiti e le funzioni di interesse pubblico di cui all’art. 2, lett. da a) a g), nonché 1), del d.lgs. 26.02.1994, n. 143, ivi compreso il potere di procedere alle espropriazioni che si rendano necessarie, di tal che la stessa è pienamente legittimata a delegare, ai sensi dell’art. 6, comma 8, DPR 327/2001, le funzioni espropriative a soggetti terzi.
Valga, in proposito, osservare:
a) che l’A.N.A.S. non è soltanto società concessionaria del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ma soggetto espressamente individuato dal legislatore a svolgere i compiti e le funzioni di interesse pubblico di cui all’art. 2, lett. da a) a g), nonché 1), del d.lgs. 26.02.1994, n. 143, ivi compreso il potere di procedere alle espropriazioni che si rendano necessarie, di tal che la stessa è pienamente legittimata a delegare, ai sensi dell’art. 6, comma 8, DPR 327/2001, le funzioni espropriative a soggetti terzi, cosi come è avvenuto con la convenzione stipulata con Autostrade Meridionali spa (cfr., in proposito, TAR Piemonte, Sez. I, 03.05.2010 n. 2286): con il che non hanno ragion d’essere le ventilate perplessità in ordine alla competenza ad adottare i provvedimenti impugnati (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 01.10.2012 n. 1764 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva e piani di lottizzazione convenzionata.
E' configurabile il reato di lottizzazione abusiva nel caso in cui i permessi di costruire, destinati a creare nuovi insediamenti abitativi in una zona in cui il piano regolatore generale subordina l'attività edificatoria all'adozione dei piani di lottizzazione convenzionata, siano stati rilasciati in assenza dei prescritti strumenti attuativi e difetti la prova della preesistenza e sufficienza delle opere di urbanizzazione primaria che avrebbero reso questi ultimi superflui; né il reato può essere escluso sulla base della semplice preesistenza di opere di urbanizzazione secondaria (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.09.2012 n. 37399 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATALegittimità diniego di condono edilizio e ordinanza di demolizione di opere abusive su area demaniale.
E’ legittimo il diniego di condono edilizio e l’ordinanza sindacale di demolizione per opere realizzate nella zona portuale su suolo demaniale, consistenti in una struttura in ferro, alluminio e vetri, occupante una superficie di circa mq. 150 ed un'altezza di circa m. 3,00, poggiante su una pedana in cemento e piastrellata. La necessità dell'apposito titolo edilizio per le opere da eseguirsi dai privati su aree demaniali era ed è, infatti, espressamente prevista dall'art. 8, d.P.R. n. 380/2001, nonché implicitamente riconosciuta dall'art. 55, comma 4, codice della navigazione.
La mancanza di titolo edilizio del manufatto, progressivamente realizzato sulla base delle sole concessioni demaniali, ne comporta la sicura configurazione come abusivo, ai fini urbanistico-edilizi. Per la realizzazione di opere sul demanio marittimo occorre l'autorizzazione prevista dall'art. 54, cod. nav., anche dopo la delega alle regioni in materia di demanio marittimo ed il trasferimento ai comuni delle competenze per il rilascio di concessioni demaniali, atteso che tale trasferimento di competenze non ha fatto venir meno la necessità di apposita e specifica autorizzazione, che concorre con la concessione edilizia, sussistendo due diverse finalità di tutela: la riserva all'ente locale del governo e dello sviluppo del territorio in materia di edilizia relativamente alla concessione ad edificare, la salvaguardia degli interessi pubblici connessi al demanio marittimo per quanto attiene all’autorizzazione demaniale.
La sopravvenienza di una normativa vincolistica, rispetto alla data di esecuzione delle opere abusive (ed anche rispetto alla data di presentazione della domanda di condono edilizio), non ne escludeva l’applicabilità in sede di valutazione della domanda, sia in base ai principi generali (ratione temporis), sia in base al principio specifico desumibile dall’art. 32, comma 2, legge n. 47/1985. Trattandosi di zona vincolata paesisticamente, in virtù del p.t.p. dei Comuni Vesuviani (D.M. Beni culturali 04.07.2002), è senz’altro da escludere la formazione del silenzio-assenso, stante la mancanza del parere favorevole dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sulla compatibilità paesistico-ambientale (tratto da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.09.2012 n. 5059 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità diniego condono e ordine di demolizione dell’ampliamento dell’autorimessa interrata.
E’ legittimo il diniego per il condono, l’ingiunzione di demolire la rimessione in pristino della parte di edificio realizzati abusivamente in ampliamento dell’autorimessa interrata, realizzata in violazione delle distanze minime dalla strada stabilite in m. 5,00.
La specifica previsione dell’esclusione della sanabilità delle opere lesive delle distanze stabilite dagli strumenti urbanistici locali, deve ritenersi del tutto coerente con la natura pubblicistica degli interessi coinvolti, in quanto secondo consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità le norme degli strumenti urbanistici locali, che impongono di mantenere le distanze fra fabbricati o di questi dai confini, a differenza dalle norme sulle distanze di cui all’art. 873 c.c., dettate a tutela di reciproci diritti soggettivi dei singoli e miranti unicamente ad evitare la creazione di intercapedini antigieniche e pericolose, come tali suscettibili di deroga mediante convenzione tra privati, non sono derogabili, perché dirette, più che alla tutela di interessi privati, a quella di interessi generali e pubblici in materia urbanistica.
A maggior ragione, l’interesse pubblicistico al rispetto delle distanze è ravvisabile nella disciplina dell’arretramento delle costruzioni in funzione dell’osservanza della fascia di rispetto stradale. Infatti, il vincolo di rispetto stradale ha carattere assoluto, in quanto persegue una serie concorrente di interessi pubblici fondamentali ed inderogabili, a prescindere da qualsiasi accertamento sulla effettiva pericolosità della costruzione realizzata in sua violazione per il traffico stradale (tratto da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.09.2012 n. 5057 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Illegittimità diniego permesso di costruire fabbricati ad uso agricolo da adibire a magazzino e deposito di prodotti olivicoli.
E’ illegittimo il diniego del Comune per il rilascio del permesso di costruire per fabbricati ad uso agricolo da adibire a magazzino e deposito di prodotti olivicoli.
La norma urbanistica, laddove consente espressamente l’effettuazione di interventi edilizi diretti alla realizzazione degli impianti e servizi necessari alla silvicoltura o alla olivicoltura, alla migliore utilizzazione del bosco o dell’oliveto o, comunque, alla loro conservazione, valorizzazione e sviluppo non può che avere al centro della propria attenzione tutte le strutture funzionali alla concreta possibilità di esercitare l’attività di olivicoltore, che già in punto di principio, come enucleabile sempre dalla stessa, non è incompatibile con una destinazione urbanistica agricola tutelata, quale quella “EOL” prevista dalla strumento urbanistico vigente del Comune.
Possono definirsi “…attività connesse all’agricoltura…” (art. 2135 c.c., nel testo introdotto dal D.Lgs. 18.05.2001 n. 228) le attività che, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, siano dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione dei prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda, normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione e di ospitalità, come definite dalla legge.
La giurisprudenza ha già avuto modo di precisare che la “…attività connessa…” dell’imprenditore agricolo deve restare sempre collegata all’attività dal medesimo esercitata in via principale, mediante un vincolo di strumentalità o complementarietà funzionale, in assenza del quale essa non rientra più nell’esercizio normale dell’agricoltura ed assume, invece, il carattere prevalente od esclusivo dell’attività commerciale o industriale (tratto da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.09.2012 n. 5045 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALegittimità diniego autorizzazione idrogeologica per opere abusive all’interno di uno stabilimento balneare.
E’ legittimo il diniego dell’autorizzazione idrogeologica per opere edilizie eseguite abusivamente all’interno di uno stabilimento balneare.
Il potere di ordinare la rimessione in pristino di aree soggette a vincolo, nella specie idrogeologico, compete non soltanto al Comune nel cui territorio si trova l’area sulla quale è stata realizzata l’opera abusiva, ma anche all’Autorità preposta al vincolo, la quale esercita poteri autonomi a tutela degli interessi pubblici ad essa affidati, onde garantire che lo stesso vincolo abbia valenza ed effetti sostanziali e non meramente formali. Ciò perché, ai sensi dell’art. 35 del T.U. n. 380 del 2001, disciplinante gli interventi abusivi realizzati su suoli di proprietà dello Stato o di enti pubblici: “…Resta fermo il potere di autotutela dello Stato e degli enti pubblici territoriali, nonché quello di altri enti pubblici…”.
Secondo pacifica e condivisibile giurisprudenza l’eventuale sanatoria di altre opere edilizie precedentemente realizzate in maniera abusiva, rispetto a quelle contestate, non condiziona in alcun modo le valutazioni dell’Amministrazione sulle seconde, essendo le une autonome e distinte dalle altre e non potendo mai assumersi a parametro di giustizia atti e fatti comunque realizzati contra legem  (tratto da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.09.2012 n. 5030 - link a www.giustizia-amministrativa.it).).

EDILIZIA PRIVATA: Destinazione d'uso di immobile.
La destinazione d’uso di un immobile non si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il soggetto che lo utilizza, ma con la destinazione impressa dal titolo abilitativo, e ciò in quanto la nozione di “uso” urbanisticamente rilevante è ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile –quale individuata nel titolo edilizio–, senza che essa possa essere influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori (tratto da www.lexambiente.it - TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 17.09.2012 n. 566 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon si possono mettere limiti alla crescita delle rinnovabili.
No alla previsione di limiti massimi per la produzione di impianti a fonti rinnovabili fissate da norme regionali in quanto la produzione di energia avviene in regime di libero mercato concorrenziale. La legislazione regionale non può stabilire limiti alla realizzazione degli impianti in quanto violano le norme di diritto internazionali (protocollo di Kyoto) e quelle comunitarie (2001/77/Ce) ed è quindi illegittimo il diniego all'autorizzazione a realizzare gli impianti.

Questo è il principio espresso dal Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 10.09.2012 n. 4768.
I giudici di Palazzo Spada hanno riformato il giudizio di merito dando ragione alla società ricorrente contro la Regione Basilicata che aveva negato un'autorizzazione unica alla costruzione di un impianto eolico di 28 MW poiché erano stati superati i limiti massimi di potenza autorizzabile fissati dal Piano energetico regionale.
La normativa varata dalla Regione Basilicata porta innegabilmente alla chiusura del mercato della produzione di energia eolica e ciò, sebbene stabilito con un limite temporale, si manifesta lesivo di importanti e basilari principi caratterizzanti gli ordinamenti europeo ed italiano.
La direttiva comunitaria 2001/77/Ce impegna gli Stati membri a promuovere il maggior contributo delle fonti energetiche rinnovabili, ad adottare misure appropriate a promuovere l'aumento del consumo di elettricità da tali fonti. Obbliga gli Stati membri a ridurre gli ostacoli normativi e di altro tipo all'aumento di questo tipo di energia. L'art. 1 della direttiva richiama in primo luogo la necessità di «un maggior contributo delle fonti energetiche rinnovabili alla produzione di elettricità nel_ mercato interno», mentre l'art. 3 prevede l'adozione da parte degli Stati membri di misure appropriate atte a promuovere l'aumento del consumo di elettricità prodotta da fonti energetiche rinnovabili secondo obiettivi indicativi nazionali, indicati nello stesso art. 3 nel 12% del consumo interno lordo di energia entro il 2010.
I regimi di sostegno dei singoli Stati membri devono comunque promuovere efficacemente l'uso delle fonti energetiche rinnovabili ed ancor più, soprattutto, andranno ridotti gli ostacoli normativi e di altro tipo all'aumento della produzione di elettricità da fonti energetiche rinnovabili (articolo ItaliaOggi del 19.10.2012).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTIDoppia tassazione sull'impianto pubblicitario.
L'impianto pubblicitario situato sul suolo pubblico è sottoposto al pagamento sia dell'imposta sulla pubblicità che della tassa per l'occupazione degli spazi ed aree pubbliche.

Con la sentenza 07.07.2012 n. 13476 la Corte di Cassazione ha profondamente modificato il proprio orientamento sull'alternatività dei due tributi sullo stesso impianto.
L'orientamento giurisprudenziale precedente afferma che gli impianti pubblicitari sono soggetti alla sola imposta di pubblicità in quanto gli stessi debbono necessariamente occupare una parte del suolo pubblico. Essendo installato al suolo, per la sua stessa esistenza, origina un'occupazione di suolo in via permanente, ma il carattere di specialità della pubblicità per impianti rispetto al genere dell'occupazione di qualsiasi natura, determina una prevalenza dell'imposta sulla tassa.
La tesi dell'assorbimento, portata avanti dalla Suprema corte con la sentenza n. 17614 del 2004, ha determinato, per gli enti locali, sia una riduzione delle entrate comunali sia conseguenze finanziarie, derivanti dalle richieste di rimborso della Tosap versata dagli operatori commerciali in aggiunta all'Icp.
Nella sentenza in commento, l'interpretazione letterale dell'articolo 9, comma 7, del dlgs n. 507/1993: l'applicazione dell'imposta sulla pubblicità non esclude quella della tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche nonché il pagamento di canoni di locazione o di concessione, ha spinto la Corte di cassazione a discostarsi dal consolidato orientamento e a riconoscere la sottoposizione dell'impianto pubblicitario sia all'imposta sulla pubblicità, che alla tassa per l'occupazione degli spazi ed aree pubbliche. Il tenore letterale della disposizione è chiaro e la precedente giurisprudenza di legittimità non aveva tenuto conto del citato, ineludibile, dato testuale.
La sottoposizione contemporanea ad entrambi i tributi non determina l'ipotesi, vietata, della doppia imposizione, in quanto l'Icp ha oggetto diverso dalla Tosap e hanno come presupposto impositivo, rispettivamente, il mezzo pubblicitario disponibile e la sottrazione dello spazio pubblico all'uso generalizzato. Nelle rispettive normative non vi è, pertanto, alcuna alternatività tra le due imposizioni (articolo ItaliaOggi del 19.10.2012).

APPALTI SERVIZIRequisiti rigidi per le entrate locali.
È legittimo l'affidamento diretto del servizio di accertamento e riscossione delle entrate a una società pubblica da parte dei comuni che sono soci di minoranza, se esercitano congiuntamente il necessario controllo analogo. A patto, però, che la società non abbia o acquisisca una vocazione commerciale che rende difficoltoso il controllo dell'ente pubblico.

Lo ha affermato il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, con la sentenza 31.05.2012 n. 380.
Secondo i giudici amministrativi, è consentito l'affidamento senza gara poiché dalla lettura dello statuto della società pubblica «emerge con nettezza la sussistenza, in capo ai comuni soci, di effettivi poteri in grado di limitare in modo determinante i poteri degli organi di gestione e amministrazione della società». Del resto, l'oggetto sociale è la gestione di servizi strumentali a favore degli enti locali soci, ai quali è riservata anche la nomina dei membri del consiglio di amministrazione. Inoltre, una norma statutaria impone che la totalità del capitale sociale debba essere pubblica.
Tuttavia, come posto in rilievo nella motivazione della sentenza, requisito essenziale è che la società non svolga un'attività commerciale che ne renderebbe più difficoltoso il controllo da parte dell'ente pubblico. Per il Tar è legittimo l'affidamento in house del servizio di accertamento e riscossione spontanea delle entrate del comune alla propria società strumentale, mediante convenzione, in base all'articolo 7, comma 2, lett. gg-ter) e gg-quater) del dl 70/2011, che nel testo in vigore al momento dell'affidamento stabiliva che i comuni potessero riscuotere le proprie entrate solo direttamente o tramite società interamente pubblica. Era escluso l'affidamento ai concessionari iscritti all'albo ministeriale.
In seguito alle modifiche apportate alla norma non è più previsto l'obbligo di riscuotere direttamente le entrate spontanee o volontarie. L'articolo 5, comma 8-bis, del dl semplificazioni fiscali (16/2012), in sede di conversione in legge (44/2012), infatti, ha disposto che i concessionari possono continuare a riscuotere le entrate dei comuni, sia tributarie che extratributarie, e le somme devono essere versate su uno o più conti correnti, postali o bancari, intestati al soggetto affidatario e dedicati alle entrate dell'ente.
Il riversamento va effettuato sul conto corrente di tesoreria, al netto dell'aggio e delle spese anticipate dal concessionario, entro la prima decade di ogni mese con riferimento alle somme accreditate nel mese precedente (articolo ItaliaOggi del 19.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

AGGIORNAMENTO AL 18.10.2012

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NOVITA' NEL SITO

● inserito il bottone del nuovo dossier INCARICHI LEGALI e/o RESISTENZA IN GIUDIZIO

● inserito il bottone del nuovo dossier PERGOLATO e/o GAZEBO e/o BERCEAU

● inserito il bottone del nuovo dossier PERMESSO DI COSTRUIRE (volturazione)

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 42 del 18.10.2012, "Determinazioni in ordine alla d.g.r. 2727/2011 “Criteri e procedure per l’esercizio delle funzioni amministrative in materia di beni paesaggistici in attuazione della legge regionale 11.03.2005, n. 12" (deliberazione G.R. 10.10.2012 n. 4138).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 42 del 18.10.2012, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dell’elenco dei “Tecnici competenti” in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 30.09.2012, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 10.10.2012 n. 104).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: DICHIARATA DALLA CORTE COSTITUZIONALE L’ILLEGITTIMITA’ DELLA TRATTENUTA DEL 2,50% SULL’INDENNITA’ DI BUONUSCITA  (CSA di Milano, nota 16.10.2012).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI: BANDO- TIPO. Indicazioni generali per la redazione dei bandi di gara ai sensi degli articoli 64, comma 4-bis e 46, comma 1-bis, del Codice dei contratti pubblici (determinazione 10.10.2012 n. 4 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTIContratti. Il servizio recupererà antimafia, Durc e altri documenti al posto di imprese e Pa.
Appalti, certificati snelli. Santoro (Autorità): da gennaio banca dati per il 10% delle gare
COLLABORAZIONI DIFFICILI/ Fatte le convenzioni con Camere di Commercio e Inps. Mancano ancora quelle con Interni, Giustizia, Inail e Agenzia delle entrate.

Partenza a scaglioni per la banca dati nazionale dei contratti pubblici. La rivoluzione attesa per il primo gennaio 2013 -niente più carta, né rincorsa tra gli uffici per andare a caccia dei documenti necessari per partecipare alle gare- sarà obbligatoria solo per un 10% delle imprese e delle amministrazioni coinvolte nel mercato degli appalti pubblici.
L'annuncio viene direttamente dal presidente dell'Autorithy di vigilanza sui contratti pubblici, Sergio Santoro, a caccia di una strategia per far sì che un servizio ad alto tasso di semplificazione non si trasformi in una zeppa capace di mandare in tilt il mercato. In questa chiave, Santoro ha firmato pure il bando-tipo (
determinazione 10.10.2012 n. 4): un documento fondamentale per rendere meno arbitrari i comportamenti delle stazioni appaltanti.
«È una misura anti-corruzione e pro-concorrenza –spiega-. Limiterà la prassi dei bandi scritti ad hoc per favorire qualcuno, escludendo imprese che avrebbero i titoli per partecipare alla gara». Le stazioni appaltanti che non si atterranno alle regole, dovranno motivare le scelte e potranno essere "denunciate" all'Antitrust dall'Autorità.
La banca dati nazionale dei contratti pubblici è in realtà un vero servizio di semplificazione per imprese e stazioni appaltanti. Introdotta nel codice appalti dal decreto legge 5/2012 sulle semplificazioni, prevede che «dal 01.01.2013, la documentazione comprovante il possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario per la partecipazione» alle gare di lavori, servizi e forniture sia acquisita tramite il servizio informatico istituiti presso l'Autorità.
Il servizio «Avcpass» -si chiamerà così- permetterà alle stazioni appaltanti di verificare il possesso dei requisiti delle imprese -dal certificato antimafia alla regolarità della posizione fiscale e contributiva, dalla qualificazione Soa al possesso dei certificati di qualità- semplicemente collegandosi al sito dell'Autorità. Un lavoro di non poco conto considerando che intorno agli appalti gravita una galassia di 38 mila amministrazioni che nel 2011 hanno prodotto 1.243.000 procedure di gara.
«Partire di colpo, tutti insieme, il 01.01.2013 comporterebbe uno strappo insopportabile per il mercato -sottolinea Santoro-. Per questo restringiamo l'obbligo di svolgere le gare con l'appoggio del servizio Avcpass solo al 10% degli operatori, delle stazioni appaltanti e dei contratti che però rappresenteranno il 75% del valore degli importi». Per gli altri l'Autorità immagina un percorso di avvicinamento a tappe progressive trimestrali che si concluderà con l'obbligatorietà per tutti dal 01.01.2014. A gestire il servizio Avcpass -per un controvalore di 20.7 milioni per tre anni- sarà uno degli operatori delle tlc che hanno risposto alla gara bandita dall'Autorità a luglio e scaduta lo scorso 12 ottobre.
Prima di partire bisognerà però ottenere il via libera del garante della privacy sulla metodologia di acquisizione e gestione dei dati forniti dalle imprese. Poi bisognerà portare a termine le otto convenzioni che serviranno a riempire di contenuto la banca-dati. Al momento sono state firmate quelle con le Camera di Commercio (bilanci e composizione dei cda) e con l'Inps. Sono in corso di definizione le convenzioni con Accredia (certificazione di qualità), Inarcassa (posizione contributiva di architetti e ingegneri), Inail (Durc), ministero degli Interni (certificato antimafia), ministero della Giustizia (casellario giudiziario) e Agenzia delle Entrate (regolarità fiscale). Su questo punto l'Autorità invita alla collaborazione.
«È un compito molto difficile far dialogare i diversi sistemi –dice Santoro– ma immaginate che tipo di servizio potremmo offrire sostituendoci a tutti gli adempimenti che prima rimanevano in capo agli operatori privati. Una rivoluzione, che andrebbe estesa ad altri campi: penso al fisco».
Gelidi i commenti sull'obbligo di sottoscrivere una convenzione con l'Economia prevista dal Ddl stabilità. «Vediamo cosa succederà in Parlamento -è la risposta-. La banca dati è un “autobus normativo” di tale complessità per cui il conducente non può che essere unico» (articolo Il Sole 24 Ore del 17.10.2012 - link a www.ecostampa.it).

APPALTITrasparenza. Più difficili le gare «mirate». Al via il bando-tipo regole uguali per tutti.
LA SVOLTA/ Tassative le motivazioni per escludere un'impresa: per le Pa che non si adeguano possibile «denuncia» all'Antitrust.
Sergio Santoro la definisce una misura «moralizzatrice», che assume «particolare rilevanza nel momento in cui in Parlamento si discute di regole anti-corruzione». Di certo il bando tipo firmato ieri dal presidente dell'Autorità prova a dare un indirizzo univoco alle stazioni appaltanti, nel tentativo di “standardizzare” le procedure di gara e favorire la massima partecipazione delle imprese.
Da oggi, la
determinazione 10.10.2012 n. 4, con le «indicazioni generali per la redazione dei bandi di gara ai sensi degli articoli 64-bis e 46, comma 1-bis del Codice dei contratti pubblici» è operativa (e scaricabile dal sito di Edilizia e Territorio). Rispetto alla bozza messa in consultazione lo scorso luglio ci sono delle novità. Non nella impostazione generale della determinazione.
L'obiettivo rimane quello di «ridurre il potere discrezionale della stazione appaltante», limitando «le numerose esclusioni che avvengono sulla base di elementi formali e non sostanziali, con l'obiettivo di assicurare il rispetto del principio della concorrenza e di ridurre il contenzioso negli appalti». Non cambia neppure il numero complessivo delle cause di esclusione espressamente indicate da Via Ripetta: sono circa un'ottantina e vanno considerate «tassative».
La novità principale riguarda l'ulteriore giro di vite sulla possibilità che le stazioni appaltanti compiano scelte diverse da quelle indicate nel bando-tipo. Le deroghe, intese come «la previsione di ulteriori ipotesi di cause di esclusione», scrive l'Autorità, devono esse «motivate espressamente» ed esplicitate «nella delibera a contrarre». Non si può comunque andare oltre i confini previsti dalle norme che prevedono soltanto tre tipologie generali di cause di esclusione: gli adempimenti previsti dal Codice dei contratti (Dlgs 163/2006) e dal suo regolamento attuativo (Dpr 207/2010), la carenza di elementi essenziali dell'offerta, le irregolarità relative agli adempimenti formali di partecipazione alla gara.
Da parte sua la determinazione –in tutto 49 pagine- prova a fornire un elenco il più possibile dettagliato, distinguendo i comportamenti da punire con il cartellino rosso, dagli errori veniali, magari sanabili in corso di gara, con integrazioni alla documentazione. Tra gli esempi forniti da Via Ripetta nel bando-tipo il blocco più numeroso riguarda la carenza di requisiti, ma non sono poche neppure le violazioni formali -come la mancata presentazione del documento di identità in allegato alle dichiarazioni sostitutive- che possono comportare l'estromissione dalla competizione.
Definite le regole generali, con l'indicazione delle cause di esclusione da considerare tassative, il lavoro dell'Autorità si concentra ora sulla messa a punto dei bandi-tipo per categorie di appalti. In fase avanzata di lavorazione ci sono modelli relativi ai lavori pubblici e ai servizi di progettazione. Arriverà uno standard anche per i bandi che prevedono la realizzazione di opere pubbliche con l'apporto di capitali privati, come nel caso del project financing o del leasing in costruendo.
L'obiettivo finale è realizzare una sezione del sito dell'Autorità nella quale le stazioni appaltanti potranno scaricare un bando -già pronto e a prova di ricorso- semplicemente indicando le coordinate fondamentali dell'attività da affidare. «Per chi non si adeguerà potranno scattare i ricorsi all' Autorità Antitrust -annuncia il presidente Santoro-. Tra qualche mese trarremo i primi bilanci» (articolo Il Sole 24 Ore del 17.10.2012 - link a www.ecostampa.it).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: Costruzioni sul suolo pubblico
Domanda
Quali sono le conseguenze nell'ipotesi in cui si effettuino costruzioni sul suolo pubblico?
Risposta
L'art. 35, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, con riferimento a tutte le opere realizzate su aree e terreni di proprietà pubblica (Stati o Enti Pubblici in genere), prevede l'adozione dell'ordinanza di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi.
L'ordinanza di demolizione e di ripristino se, da un lato, si configura come unico e doveroso provvedimento sanzionatorio, dall'altro, costituisce circostanza idonea ad escludere in radice non solo ogni possibilità di sanatoria, ma anche la stessa sussistenza dell'obbligo di provvedere su tale istanza, in quanto manifestamente inammissibile e infondata.
Tale disciplina, differente rispetto a quella ordinaria dettata dall'art. 31 del T.U. dell'Edilizia e che non prevede l'irrogazione di sanzioni pecuniarie, trova la sua giustificazione nella peculiare gravità della condotta sanzionata, che riguarda la costruzione di opere abusive su suoli pubblici (16.10.2012 - tratto da www.ipsoa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIACome si rinnova l’Autorizzazione Unica Ambientale? (15.10.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAPuò essere disposto un veto regionale all’istallazione di depositi di materiali radioattivi? (15.10.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIACome è disciplinata l’attività di raccolta e trasporto dei rifiuti in forma ambulante? (15.10.2012 - link a www.ambientelegale.it).

APPALTI: Definizione di arbitrato
Domanda
In cosa differiscono arbitrato rituale e irrituale?
Risposta
L'arbitrato rituale e irrituale sono istituti del tutto distinti la cui differenza è segnata dall'art. 808-ter cpc il quale dispone che le parti possano stabilire, con disposizione espressa per iscritto, che la controversia sia definita dagli arbitri mediante determinazione contrattuale.
Questa previsione diverge dunque da quanto disposto dal riformato art. 824-bis cpc, che invece attribuisce al lodo gli effetti della sentenza pronunciata dall'autorità giudiziaria. Si parlerà in quest'ultimo caso di arbitrato rituale.
La principale differenza tra i due istituti non risiede tanto nella fonte, in entrambi i casi l'accordo libero delle parti e dunque una loro libera scelta, quanto nella natura della decisione finale resa dagli arbitri. Inoltre, a un patto compromissorio irrituale non potranno ricondursi tutta quella serie di effetti che derivano dalla previsione di un arbitrato rituale, primo fra tutti l'incompetenza del giudice statale a conoscere della lite oggetto dell'arbitrato. In definitiva, l'arbitrato irrituale sembra sostanziarsi in una forma di collaborazione tra le parti coadiuvata dall'intervento di un terzo, alla quale non sono riconducibili effetti processuali.
La natura poi di arbitrato rituale o irrituale non incide sulla qualifica dell'arbitrato come «ad hoc» o «amministrato», «di diritto» o «di equità», nozioni queste che mi pare siano già state chiarite proprio in questa sede (articolo ItaliaOggi Sette del 15.10.2012).

APPALTI: Lodo arbitrale
Domanda
Non sono soddisfatto della decisione resa dagli arbitri nei miei confronti. Posso impugnare il lodo?
Risposta
Per rispondere alla sua domanda è necessario fare riferimento ai mezzi di impugnazione ai quali è soggetto il lodo, individuati dal legislatore all' art. 827 cpc (impugnazione per nullità, revocazione e opposizione di terzo) e in particolare all'impugnazione per nullità di cui all'art. 829 cpc, che rimane a oggi il principale mezzo di impugnazione del lodo rituale. Questa disciplina peraltro è stata modificata in modo sostanziale dal dlgs 40/06 con il fine di accrescere la stabilità del lodo, limitando il controllo su di esso da parte del giudice dello stato.
Dalla lettura dei motivi di impugnazione per nullità si evince che questo gravame non è stato pensato dal legislatore come un secondo grado di giudizio. Infatti, i motivi di impugnazione sono circoscritti a ipotesi di vizi particolarmente invalidanti per il lodo che non consentiranno in ogni caso al sindacato del giudice di estendersi anche all'analisi del merito della controversia.
E infatti da una parte, l'art. 829, comma 1°, individua una serie di casi di impugnazione per errores in procedendo mentre, dall'altra, il comma 2° dello stesso articolo estende il gravame agli errores in iudicando (violazione delle regole di diritto). Anche in quest'ultimo caso però, si tratta di ipotesi di impugnazione estremamente circoscritte che avranno a oggetto non l'errore degli arbitri, inteso come processo valutativo, ma direttamente il contenuto della decisione stessa (articolo ItaliaOggi Sette del 15.10.2012).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALI: Segreteria comunale in Unione.
La Corte dei Conti, sezione regionale controllo Piemonte, con il parere 12.10.2012 n. 304, risponde da un ente con popolazione inferiore a 1000 abitanti "circa la possibilità ... di gestire il servizio di Segreteria Comunale in forma associata, trasferendo il relativo servizio all'Unione di Comuni di cui fa parte, a condizione che il Segretario dell'Unione sia iscritto all'Albo dei Segretari Comunali e Provinciali".
La sezione passa in rassegna le norme che impongono agli enti di minori dimensioni la gestione, in convenzione o mediante Unione delle, funzioni fondamenti e i tempi di attuazione di dette disposizioni e, conseguentemente ricorda i seguenti principi:
- obbligatorietà per gli enti di gestire le funzioni fondamenti che sono individuate dall'art. 14, comma 27, del d.l. 78/2010, convertito in legge n. 122/2010, come modificato dal d.l. 95/2012, convertito in legge n. 135/2012;
- esercizio obbligatorio in forma associata, mediante Unione o convenzione, delle funzioni fondamentali per gli enti con popolazione fino a 5000 abitanti ed obbligo, per ciascuna funzione, di utilizzo di una sola forma associativa;
- facoltà per gli enti con popolazione fino a 1000 abitanti di esercitare tutte le funzioni in forma associata, mediante Unione.
Successivamente riprende le disposizioni del TUEL che riguardano la figura del Segretario Comunale: figura specifica, organo monocratico e funzioni appositamente disciplinate dal testo unico; dipendenza funzionale dal Sindaco; configurazione di una distinta e specifica funzione amministrativa fondamentale per l'ente.
Passando, poi, all'esame del quesito, formula le seguenti osservazioni:
"Tale funzione (quella del Segretario), nell'ambito dell'elencazione delle funzioni fondamentali contenuta nell'art. 14, comma 27, del D.L. n. 78/2010, conv. nella L. n. 122/2010, appare riconducibile alla fattispecie sub lett. a) ('organizzazione generale dell'Amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo'), ma non esaurisce di per sé l'intera categoria di cui alla lett. a) citata, che, al contrario, ricomprende altre funzioni oggettivamente ed amministrativamente distinte. ... In quest'ottica, è indubbio che la Segreteria Comunale, attenenendo ad una distinta e specifica funzione amministrativa fondamentale, possa essere oggetto di una gestione associata, tramite convenzione o, come indicato nella richiesta di parere in esame, tramite Unione di Comuni.
Le disposizioni sopra citate vietano anche l'eventualità che la medesima funzione sia oggetto di più di una forma associativa, con conseguente duplicazione di spese. Sotto questo profilo, la Sezione osserva che il divieto menzionato deve essere riferito, nel caso di specie, alla singola specifica funzione di Segreteria comunale conferita in forma associata, e non alla complessiva fattispecie a) del citato art. 14, comma 27, che ricomprende una pluralità di funzioni amministrative tra loro distinte, secondo una logica classificatoria di tipo giuridico-finanziario, analoga a quella sottostante alla classificazione già contenuta nel D.P.R. n. 194/1996.
Pertanto, fermo restando l'obbligo della gestione associata di tutte le funzioni fondamentali, se da un lato non risulta precluso l'affidamento, alla medesima Unione di Comuni, della Segreteria comunale insieme a tutte le altre funzioni ricomprendibili nella fattispecie sub a) (già funzione 01, prevista dal D.P.R. n. 194/1996, denominata 'Funzioni generali di amministrazione, di gestione e di controllo'), dall'altro lato non risulta neppure precluso l'affidamento disgiunto, tramite diverse soluzioni associative, della Segreteria comunale rispetto alle altre funzioni includibili nella fattispecie a), purché non si abbia un'effettiva duplicazione delle singole funzioni individuali.
Spetta all'Ente, valutare, nella propria autonomia decisionale, le modalità organizzative ottimali al fine di raggiungere gli obiettivi di maggior efficienza, razionalizzazione e risparmio che il legislatore ha inteso conseguire prevedendo l'esercizio associato di funzioni (sul punto cfr. anche la deliberaz. di questa Sezione n. 287/2012)
" (tratto da www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSul “doppio incarico” di posizione organizzativa e sulla elevazione del tetto della retribuzione di posizione (da 12.911,42 a 16.000,00 euro) e di risultato (dal 20% al 30%).
...
Con la richiamata nota il Sindaco del Comune di Roccamontepiano (CH) sottopone al parere della scrivente Sezione un quesito in ordine alle posizioni organizzative a tempo parziale.
In particolare,
il Sindaco ha chiesto:
1. Se la disposizione in merito alle posizioni organizzative a tempo parziale contenute nel comma 2 bis dell’art. 4 del CCNL del 14.9.2000, così come inserito dall’art. 11 del CCNL 22.1.2012, si riferisca al personale che svolge un’attività privata al di fuori del rapporto di lavoro con una pubblica amministrazione;
2. Se, in una fattispecie ricadente nella previsione di cui al comma 1 ma non anche in quella di cui al comma 4 dell’art. 14 del CCNL 22/1/2004, il lavoratore, il quale sia incaricato di una posizione organizzativa nell’ente di appartenenza, ma non anche in quello di utilizzazione, possa continuare a percepire il medesimo importo annuale relativo alla retribuzione di posizione, in godimento nel periodo antecedente la stipula della convenzione.

...
Nel merito della fattispecie in esame, va preliminarmente ricordato che secondo quanto statuito dal Testo Unico degli Enti Locali D.Lgs. n. 267/2000 all’art. 30 “al fine di svolgere in modo coordinato funzioni e servizi determinati, gli enti locali possono stipulare tra loro apposite convenzioni”.
L’art. 32 del TUEL, invece, stabilisce che “le unioni di comuni sono enti locali costituiti da due o più comuni di norma contermini, allo scopo di esercitare congiuntamente una pluralità di funzioni di loro competenza”. Insieme a queste due modalità di gestione delle realtà comunali associate, le esigenze organizzative degli enti di ridotte dimensioni demografiche sono state affrontate in passato mediante il sistema del cosiddetto “scavalco”, mutuato dall’ordinamento dei Segretari comunali. I piccoli comuni, cioè, utilizzavano a diverso titolo e a tempo parziale dipendenti di altri enti. Ciò avveniva spesso al di fuori di qualunque convenzione tra gli enti, con una semplice autorizzazione dell’ente di provenienza.
Una delle innovazioni di maggior rilievo del CCLN 22-01-2004 è stata, proprio quella di mettere ordine a questa realtà frammentata e ibrida, introducendo anche strumenti concreti per incentivare, secondo lo spirito della legge, le iniziative associative dei comuni.
In particolare, nell’art. 4 del CCNL del 14.09.2000, dopo il comma 2 è stato inserito il comma 2-bis il quale ha espressamente previsto: “I comuni privi di dirigenza, in relazione alle specifiche esigenze organizzative derivanti dall’ordinamento vigente, individuano, se necessario ed anche in via temporanea, le posizioni organizzative che possono essere conferite anche al personale con rapporto a tempo parziale di durata non inferiore al 50% del rapporto a tempo pieno. Il principio del riproporzionamento del trattamento economico trova applicazione anche con riferimento alla retribuzione di posizione”.
La disposizione de qua si riferisce, pertanto, al personale “assegnato da altri enti” , cui si applica lo stesso CCNL, essendo del tutto ininfluente se lo stesso personale svolge anche un’attività privata al di fuori del rapporto di lavoro con una pubblica amministrazione.
L’art. 14 del predetto CCNL, poi, prevede che, al fine di soddisfare la migliore realizzazione dei servizi istituzionali e di conseguire una economica gestione delle risorse, gli enti locali possono utilizzare, con il consenso dei lavoratori interessati, personale assegnato da altri enti (cui si applica lo stesso CCNL) per periodi predeterminati e per una parte del tempo di lavoro d’obbligo mediante convenzione e previo assenso dell’ente di appartenenza.
La convenzione definisce, tra l’altro, il tempo di lavoro in assegnazione, nel rispetto del vincolo dell’orario settimanale d’obbligo, la ripartizione degli oneri finanziari e tutti gli altri aspetti utili per regolare il corretto utilizzo del lavoratore. La utilizzazione parziale, che non si configura come rapporto di lavoro a tempo parziale, è possibile anche per la gestione dei servizi in convenzione.
Il rapporto di lavoro del personale utilizzato, ivi compresa la disciplina sulle progressioni verticali e sulle progressioni economiche orizzontali, è gestito dall’ente di provenienza, titolare del rapporto stesso, previa acquisizione dei necessari elementi di conoscenza da parte dell’ente di utilizzazione.
Il citato art. 14 al comma 4 prevede che i lavoratori utilizzati a tempo parziale possano essere anche incaricati della responsabilità di una posizione organizzativa nell’ente di utilizzazione o nei servizi convenzionati di cui al comma 7; il relativo importo annuale, indicato nel comma 5, è riproporzionato in base al tempo di lavoro e si cumula con quello eventualmente in godimento per lo stesso titolo presso l’ente di appartenenza che subisce un corrispondente riproporzionamento. Al personale utilizzato compete, ove ne ricorrano le condizioni e con oneri a carico dell’ente utilizzatore, il rimborso delle sole spese sostenute nei limiti indicati nei commi 2 e 4 dell’art. 41 del CCNL del 14.09.2000.
La disciplina dei commi 4, 5 e 6 trova applicazione anche nei confronti del personale utilizzato a tempo parziale per le funzioni e i servizi in convenzione ai sensi dell’art. 30 del D.Lgs. n. 267 del 2000. I relativi oneri sono a carico delle risorse per la contrattazione decentrata dell’ente di appartenenza, con esclusione di quelli derivanti dalla applicazione del comma 6.
In proposito si deve ricordare che, in base ai commi 3 e 7, del suddetto art. 14, al personale utilizzato a tempo parziale per funzioni e servizi in convenzione è possibile riconoscere particolari forme di incentivazione (nell’ambito dei trattamenti accessori disciplinati dall’art. 17 del CCNL dell’01.04.1999, che devono ritenersi gli unici consentiti) con oneri a carico delle risorse decentrate dell’ente di appartenenza, in considerazione della specifica condizione di questo personale che viene utilizzato in parte presso l’ente di appartenenza e in parte presso il servizio in convenzione.
L’eventuale riconoscimento di queste forme di incentivazione non ha, quindi, carattere di obbligatorietà ma è meramente eventuale e dipenderà dalle autonome valutazioni della contrattazione decentrata e, naturalmente, dalla disponibilità delle relative risorse finanziarie.
In base alla medesima disciplina contrattuale (art. 14, commi 4 e 7, del CCNL del 22.1.2004) il dipendente, che sia già titolare di posizione organizzativa presso l’ente di appartenenza, può essere incaricato anche di altra posizione organizzativa nell’ambito del servizio in convenzione.
In proposito, tuttavia, occorre precisare che la più favorevole disciplina per il lavoratore incaricato di posizione organizzativa, in materia di retribuzione di posizione e di risultato, con la elevazione del valore massimo del primo compenso fino a € 16.000 e del secondo fino ad un massimo del 30%, nei casi di personale utilizzato a tempo parziale presso l’ente di appartenenza e nell’ambito di servizi in convenzione, trova applicazione solo in presenza di due incarichi diversi e distinti: l’uno attribuito dall’ente di appartenenza e l’altro presso il servizio in convenzione.
Tale disciplina, infatti, si fonda sull’assunto che solo la coesistenza di due incarichi diversi e distinti può creare oggettivamente una condizione di maggiore gravosità del lavoratore, utilizzato su due diverse e distinte posizioni di lavoro (o sedi), rispetto a quella del lavoratore che fruisce di un solo incarico. Se, invece, al di fuori di tale particolare ipotesi, al lavoratore sia affidato un solo incarico di posizione organizzativa, presso l’ente che lo utilizza a tempo parziale o nell’ambito di un servizio in convenzione, l’importo annuale della retribuzione di posizione e di quella di risultato saranno quelli ordinariamente previsti per la posizione organizzativa, sulla base delle previsioni contrattuali (art. 10 ed 11 del CCNL del 31.03.1999);
In ogni caso, l’importo annuale della retribuzione di posizione previsto per la posizione organizzativa, affidata nell’ambito del servizio in convenzione, deve essere riproporzionato in relazione alla durata del tempo di lavoro stabilito per la prestazione da rendere nel servizio in convenzione stesso. Analogo riproporzionamento dovrà essere operato anche presso l’ente di appartenenza del lavoratore, relativamente all’incarico di posizione organizzativa di cui è titolare presso lo stesso; infatti, anche in questo caso, il lavoratore è chiamato a rendere una prestazione quantitativamente ridotta; pertanto, la retribuzione di posizione erogata al dipendente dovrà essere ridotta rispetto al valore ordinariamente assegnato alla stessa (non come valore riconosciuto a titolo personale, ma come importo predefinito in base ai criteri di pesatura di ogni posizione roganizzativa), sulla base dei criteri a tal fine adottati dall’ente, ai sensi dell’art. 10 del CCNL del 31.03.1999, in relazione al minore impegno lavorativo (rispetto alla misura minima delle 36 ore) che viene richiesto al dipendente utilizzato cui viene affidata la titolarità della posizione organizzativa.
Se al lavoratore, titolare di posizione organizzativa presso l’ente, non sarà affidato altro incarico di posizione organizzativa presso il servizio in convenzione, non potrà trovare applicazione la più favorevole disciplina dell’art. 14, comma 5, che, come sopra detto, in materia di retribuzione di posizione e di risultato, consente la elevazione del valore massimo del primo compenso fino a 16.000 € e del secondo fino ad un massimo del 30%.
Inoltre, in questa particolare situazione, se il dipendente, titolare di posizione organizzativa presso l’ente di appartenenza, oltre a continuare a rendere la sua prestazione presso lo stesso, è, allo stesso tempo, utilizzato, solo parzialmente, nell’ambito del servizio in convenzione (senza il conferimento di una seconda posizione organizzativa), lo stesso può percepire i trattamenti accessori ordinariamente previsti per la generalità del personale non titolare di P.O. ivi compresi i compensi per lavoro straordinario, addetto al servizio in convenzione. Naturalmente, l’importo della retribuzione di posizione in godimento presso l’ente di appartenenza dovrà essere riproporzionato in relazione alla minore durata della prestazione lavorativa, dato che necessariamente parte del tempo di lavoro è dedicata al servizio dell’ente utilizzatore.
Nell’interpretazione della norma contrattuale anche l’ARAN, in risposta a un quesito posto sull’argomento (n. 104-14A3), ha ritenuto che la ratio dell’elevazione del tetto della retribuzione di posizione (da 12.911,42 a 16.000,00 euro) e di risultato (dal 20% al 30%) sia quella di compensare la “maggiore gravosità del lavoratore” utilizzato su due diverse e distinte posizioni di lavoro (o sedi) in virtù di due incarichi diversi e distinti; l'uno attribuito dall'ente di appartenenza e l'altro nell'ambito dell’ente o servizio di utilizzazione.
Pertanto, una volta che il dipendente riceve il “doppio incarico” di posizione organizzativa, gli enti possono stabilire, in base ai da essi criteri adottati, il valore della retribuzione di posizione riproporzionando l’importo in relazione alla entità della prestazione lavorativa svolta a favore dell’uno e dell’altro ente, a condizione di non superare il tetto “complessivo” dei 16.000 euro (Corte dei Conti, Sez. controllo Abruzzo, parere 10.09.2012 n. 344).

NEWS

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICICONSIGLIO DEI MINISTRI/ Edilizia, il silenzio non ha valore. Se ci sono vincoli l'inerzia del comune non vale come rifiuto. Approvato il ddl con nuove semplificazioni per cittadini e imprese.
Eliminato il silenzio rifiuto sul permesso di costruire in caso di vincoli; semplificata la procedura per l'adeguamento degli strumenti urbanistici; ammesse agli appalti le imprese che hanno sottoscritto un contratto di rete, ridotta al 20% la quota delle garanzie non svincolabili fino al collaudo dell'opera pubblica; possibile lo svincolo delle garanzie di buona esecuzione rese dalla imprese di costruzioni per le opere in esercizio da almeno un anno e non ancora collaudate.
Sono queste alcune delle novità previste nel disegno di legge sulla semplificazione approvato dal Consiglio dei ministri di ieri, che conferma molte delle norme che erano state messe a punto nelle scorse settimane. Fra le modifiche apportate nell'ultima versione si segnala la scomparsa della norma sulla qualificazione delle imprese di costruzioni operanti nell'ambito della categoria Og 11 (impianti tecnologici) che avrebbe ridotto le percentuali di possesso dei requisiti nelle categorie Os 3, impianti idrici, Os 28, impianti termici e Os 30, impianti elettrici e telefonici, rendendo più facile la qualificazione.
Viene invece confermata la norma sull'eliminazione del silenzio rifiuto sul permesso di costruire per inerzia del comune in relazione all'adozione del provvedimento conclusivo del procedimento di rilascio del permesso di costruire, quando esiste un vincolo ambientale, paesaggistico o culturale. Con la modifica apportata dal disegno di legge il governo richiede comunque che vi sia un provvedimento espresso, derubricando il «silenzio» dell'amministrazione a silenzio non avente valore di provvedimento di diniego. Viene anche chiarito che sia per immobile sottoposto a vincolo la cui tutela competa, anche in via di delega, all'amministrazione comunale, sia per immobile oggetto di vincolo che non compete al comune, non vi sia differenza di procedura: nel secondo caso occorre indire una conferenza di servizi che, con la novella del disegno di legge, diventa invece facoltativa.
Per quel che riguarda l'adeguamento degli strumenti urbanistici alle prescrizioni dei piani paesaggistici, il disegno di legge restituisce all'amministrazione competente il potere di provvedere sulla domanda di autorizzazione decorsi inutilmente i termini indicati per l'espressione del parere del soprintendente, senza la presunzione di parere favorevole del soprintendente decorsi 90 giorni dalla ricezione degli atti.
Viene confermata anche la modifica al Codice dei contratti pubblici che consentirà alle le aggregazioni tra imprese aderenti al contratto di rete ai sensi del comma 4-ter, dell'articolo 3, del decreto legge 10.02.2009, n. 5 di partecipare alle gare di appalto, con l'applicazione delle regole previste per i raggruppamenti temporanei di imprese.
Così facendo si recepisce la richiesta formulata dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (segnalazione n. 2 del 27.09.2012) anche se il mero rinvio alla disciplina dei raggruppamenti non sembra idoneo a fare completa chiarezza sulle modalità di partecipazione. Eliminato anche l'obbligo di allegazione delle copie delle procure quando le stesse siano iscritte nel registro delle imprese.
Per quel che concerne le garanzie di buona esecuzione, si tocca l'articolo 113 del Codice dei contratti pubblici prevedendo che la quota dell'importo della garanzia non svincolabile in corso di esecuzione del contratto, passi dal 25 al 20% dell'iniziale importo garantito, consentendo quindi alle imprese di avere un livello minore di impegni.
Si introduce poi una norma sulle opere in esercizio stabilendo che, anche prima del collaudo, l'esercizio protratto per oltre un anno produca, a determinate condizioni, lo svincolo automatico delle garanzie di buona esecuzione prestate a favore dell'ente aggiudicatore, senza necessità di alcun benestare, ferma restando una quota massima del 20% da svincolare all'emissione del certificato di collaudo.
Per gli appalti affidati alla data di entrata in vigore della disposizione, le cui opere siano state in tutto o in parte poste in esercizio prima dell'entrata in vigore della legge nei termini indicati dalla norma, il termine per lo svincolo automatico avviene a decorrere da tale data e ha durata di 180 giorni.
Infine si interviene per semplificare e accelerare le procedure per il rilascio dei provvedimenti di Via (valutazione impatto ambientale) e di parere di Vas (valutazione ambientale strategica) sopprimendo l'obbligo di acquisire il parere dei ministeri diversi da quelli concertanti (articolo ItaliaOggi del 17.10.2012).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGOLE SEMPLIFICAZIONI/ I contenuti del Ddl. Nelle semplificazioni-bis stop al «silenzio-rifiuto» e Durc valido 180 giorni. Il Governo non accelera: niente decreto, avanti con il Ddl.
LE MISURE PER I CITTADINI/ I certificati di malattia professionale vanno inviati solo online, la documentazione Tarsu va rilasciata insieme al cambio di residenza e arrivano i titoli di studio in inglese.

Con una settimana di ritardo rispetto alla tabella di marcia originaria arrivano le semplificazioni bis. I sette giorni trascorsi tra il Consiglio dei ministri di martedì scorso, che doveva vararle, e quello di ieri, che le ha approvate, non sono serviti a cambiare "pelle" al provvedimento, da disegno di legge a decreto, come chiedevano le imprese e il Garante per le Pmi, Giuseppe Tripoli. Ddl era e tale è rimasto.
Le speranze di una sua introduzione in tempi stretti è ora affidata alla possibilità di approvarlo in almeno una delle due Camere in commissione in sede deliberante. Pressoché immutati anche i pilastri del testo: Durc valido 180 giorni; addio al "silenzio-rifiuto" per il permesso di costruire sui beni vincolati; imprese individuali esonerato dal Codice della privacy; invio on-line del certificato di malattia. Mentre è scomparso all'ultima curva il taglio del 2% sugli interessi da versare sui crediti contributivi dilazionati.
I 33 articoli del Ddl proseguono nello snellimento della burocrazia avviato con il Dl "Semplifica-Italia" di febbraio. Agli 8,14 miliardi di oneri amministrativi su cui si è intervenuti all'epoca si aggiungono ora altri 4,6 miliardi. Molti dei quali (circa 3,7) concentrati nel pacchetto sulla sicurezza lavoro. Tra gli adempimenti destinati a sparire vanno segnalati quelli sui lavoratori assunti per meno di 50 giorni l'anno, che toccherà a un decreto di Lavoro e Salute individuare. I datori di lavoro si vedranno ridotti anche gli obblighi di comunicazione dei dati sanitari che da soli costano 372 milioni. Confermata inoltre la sostituzione del documento di valutazione dei rischi da interferenze (il cosiddetto Duvri) con la nomina di un incaricato ad hoc. Un adempimento che pesa per 390 milioni a cui vanno aggiunti i 308 milioni prodotti dall'obbligo di presentare il Duvri nelle attività a basso rischio.
Ancora più cospicua la massa di spesa "aggredibile" nei piccoli cantieri: 2,6 miliardi dovuti ai vari piani di sicurezza che un decreto attuativo snellirà. Completano il quadro delle semplificazioni sulla sicurezza le verifiche più rapide delle attrezzature da lavoro e l'obbligo del datore di inviare on-line all'Inail le denunce di infortunio. E, sempre in zona Inail, va segnalata la necessità per il medico di trasmettere per via telematica i certificati di malattia professionale e non solo quelli di malattia semplice. Una misura che, insieme alla possibilità di ottenere la certificazione ai Tarsu in abbinata al cambio di residenza e ai titoli di studio in lingua inglese, completa il mini-pacchetto per i cittadini.
Più di una norma è dedicata invece all'edilizia. A cominciare dall'eliminazione del silenzio-rifiuto per i permessi di costruire in presenza di vincoli ambientali, paesaggistici o culturali: la Pa dovrà pronunciarsi in maniera espressa. Senza dimenticare la fissazione a 45 giorni del termine di conclusione del procedimento di autorizzazione paesaggistica.
Tra le misure più attese dalle aziende vanno segnalate le semplificazioni per autorizzazione (Aia) e valutazione d'impatto ambientale (Via) e l'estensione a 180 giorni della durata del documento unico di regolarità contributiva (Durc) per partecipare agli appalti. Oltre alla possibilità di ottenere il Durc pure in presenza di debiti contributivi purché abbia crediti vero la Pa certi ed esigibili. Ma anche l'esonero delle imprese individuali dal Codice della privacy. Degne di nota infine la chance degli hotel dotati di bar o ristoranti di somministrare cibi e bevande senza richiedere l'apposita autorizzazione e quella delle reti di impresa di accedere alle gare di appalto (articolo Il Sole 24 Ore del 17.10.2012).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATASEMPLIFICAZIONI/ Lavoro più facile nei cantieri. Imprese e autonomi non dovranno più produrre il Durc. Oggi il disegno di legge approda all'esame del consiglio dei ministri.
Accesso al lavoro più facile nei cantieri. Imprese e lavoratori autonomi, infatti, non dovranno più produrre il Durc per la propria regolarità contributiva: basterà una dichiarazione sostitutiva da parte del legale rappresentante o dello stesso lavoratore autonomo.
Lo stabilisce, tra l'altro, il pacchetto semplificazioni oggi all'esame del consiglio dei ministri. Pacchetto costretto a dura cura dimagrante con la scomparsa delle norme di semplificazione relative a collocamento obbligatorio, estensione della prosecuzione volontaria ai lavoratori parasubordinati, armonizzazione base di calcolo delle prestazioni non pensionistiche dell'Inps e alla comunicazione (Co) sui rapporti di lavoro (si veda ItaliaOggi del 18 e 19 settembre). Confermate, invece, le disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro.
Stop al Durc nei cantieri. La modifica riguarda l'articolo 90 del T.u. sicurezza (dlgs n. 81/2008), relativo agli obblighi per il committente o responsabile dei lavori nei cantieri.
La norma stabilisce che il committente o il responsabile dei lavori, nelle fasi di progettazione dell'opera, devono attenersi ai principi e misure generali di tutela, nonché, nel caso di affidamento dei lavori, a: a) verificare l'idoneità tecnico-professionale dell'impresa o del lavoratore autonomo a cui vengono affidati i lavori; b) chiedere alle imprese esecutrici una dichiarazione sull'organico medio annuo; c) trasmettere all'amministrazione concedente, prima dell'inizio dei lavori oggetto del permesso di costruire o della denuncia di inizio attività, tra l'altro, il Durc.
Il pacchetto semplificazioni abroga quest'ultima previsione (consegna del Durc) e la sostituisce con l'obbligo di consegnare «in luogo del documento unico di regolarità contributiva, una dichiarazione sostitutiva del legale rappresentante dell'impresa o del lavoratore autonomo_ che l'amministrazione concedente è tenuta a verificare_».
Un solo Durc. Sempre in materia di Durc, il pacchetto semplificazioni estende la vigente previsione della misura «compensativa» per chi ha crediti nei confronti dello stato per il Durc richiesto per fruire di benefici normativi e contributivi a ogni tipologia di Durc.
Infatti, è oggi previsto il rilascio del Durc, anche in presenza di debiti contributivi, qualora l'impresa sia in possesso di una certificazione che attesti la sussistenza e l'ammontare di crediti certi, liquidi ed esigibili vantati nei confronti delle pubbliche amministrazioni di importo almeno pari agli oneri contributivi accertati e non ancora versati (che darebbero esito ad un Durc negativo).
Tuttavia, la norma fa riferimento esclusivo al Durc rilasciato per la fruizione di benefici «normativi e contributivi», per cui restano fuori i Durc richiesti per gli appalti pubblici e nell'ambito degli appalti privati in edilizia. Il pacchetto semplificazioni elimina questa disparità.
Sicurezza più facile. Il pacchetto semplificazioni conferma, invece, le novità sulla valutazione rischi con la previsione di una semplificazioni del documento per le piccole e medie imprese, addirittura con un procedimento più semplice.
La fissazione di tale disciplina semplificata viene rimessa a un decreto del ministro del lavoro, da adottarsi sentita la commissione consultiva per la salute e sicurezza sul lavoro, entro 60 giorni dalla conversione in legge di quello che sarà il decreto legge semplificazioni (pacchetto).
Compiti fondamentali affidati al decreto sono: a) l'individuazione dei settori di attività a basso rischio infortunistico, per i quali sarà possibile effettuare la valutazione dei rischi standard; b) la predisposizione del modello ad hoc che servirà per attestare di avere effettuato la valutazione rischi (articolo ItaliaOggi del 16.10.2012).

PUBBLICO IMPIEGOLEGGE DI STABILITA'/ Assistere i genitori costerà caro. Retribuzione dimezzata per chi utilizza i permessi della 104. La valutazione della diagnosi funzionale passa dall'Asl all'Inps.
Dal 01.01.2013 avrà un costo anche la fruizione dei tre giorni di permesso mensile consentiti, per assistere i parenti disabili in situazione di gravità, previsti dall'articolo 33 della legge-quadro 05.02.1992, n. 104 e successive modificazioni e integrazioni. In particolare, se bisognosi di aiuto saranno i genitori del lavoratore pubblico.
É una delle modifiche alla legge 104 che sarebbero state inserite, il condizionale è d'obbligo fino a quando non sarà depositato in Parlamento il testo firmato dal presidente del consiglio dei ministri), nel disegno di legge di Stabilità.
L'altra attiene alla indicazione delle commissioni mediche a cui affidare le funzioni di valutazione della diagnosi funzionale propedeutica all'assegnazione del docente di sostegno all'alunno disabile. Delle due modifiche quella che avrà maggiore impatto sul personale della scuola è certamente quella relativa alla fruizione dei permessi previsti dall'articolo 33 della legge 104.
Il comma 3 dell'articolo 7 del disegno di legge dispone infatti che, a partire dal 01.01.2013 i permessi previsti dal predetto articolo 33 fruiti dai dipendenti pubblici, ivi compreso il personale direttivo, docente, amministrativo, tecnico ed ausiliario, dovranno essere retribuiti al 50 per cento anziché al 100 per cento come dispongono il comma 3-ter dell'articolo 2 del decreto legge 324/1993 e il comma 6 dell'articolo 15 del contratto collettivo nazionale del comparto scuola 27.11.2007.
Ai solo fini previdenziali tre giorni di permesso, da chiunque fruiti continueranno, invece, ad essere coperti da contribuzione figurativa. La penalizzazione non si applica, si legge sempre nel comma 3, se i tre giorni di permesso sono fruite direttamente dal personale disabile, dai genitori per assistere i figli o l'altro coniuge disabili in situazione di gravità.
I permessi indicati nell'articolo 33 in vigore sono:
a) quelli cui hanno diritto i genitori di minore con handicap in situazione di gravità (due ore di permesso giornaliero retribuito fino al compimento del terzo anno di vita del bambino) in alternativa al prolungamento fino a tre anni del periodo di astensione facoltativa;
b) quelli cui hanno diritto i lavoratori che assistono il coniuge, un parente o affine entro il secondo grado handicappato in situazione di gravità( tre giorni mensili retribuiti coperti da contribuzione figurativa).
Se il contenuto del predetto comma 3 dovesse essere integralmente recepito nella legge che dovrà essere approvata dal Parlamento entro la fine del 2012, la prevista riduzione dello stipendio giornaliero dovrebbe riguardare esclusivamente i permessi di cui alla precedente lettera b), fatta eccezione per quelli previsti dal predetto comma 3) essendo impensabile che possa riguardare anche quelli di cui alla lettera a).
Per ognuno dei tre giorni di permesso eventualmente fruiti lo stipendio dovuto subirebbe una riduzione nella misura del 50 per cento di quello spettante al lordo. Al netto la riduzione potrebbe essere compresa, a seconda della qualifica ricoperta e della misura dello stipendio di anzianità in godimento, tra il 30 e il 40 per cento della retribuzione giornaliera netta.
La seconda modifica riguarda l'articolo 4 della legge 104. Gli accertamenti relativi alla minorazione, alle difficoltà, alla necessità dell'intervento assistenziale, unitamente alle funzioni di valutazione della diagnosi funzionale propedeutica all'assegnazione del docente di sostegno all'alunno disabile previste dall'articolo 19, comma 11, del decreto legge 98/2011, saranno affidate non più, come disponeva l'articolo 4, alle commissioni mediche di cui all'articolo 1 della legge 295/1990 (unità sanitarie locali) ma a quelle dell'Inps (articolo ItaliaOggi del 16.10.2012 - link a www.corteconti.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIConsip in campo per gli acquisti. Torna la Consip e gli acquisiti in e-commerce per le scuole.
La novità è contenuta nella bozza di legge di stabilità varata dal governo martedì scorso. Il provvedimento estende alle istituzioni scolastiche ed educative l'obbligo di approvvigionarsi facendo riferimento alle cosiddette convenzioni quadro. Vale a dire giovandosi degli accordi secondo i quali imprese fornitrici, aggiudicatarie di gare indette dalla Consip su singole categorie merceologiche, s'impegnano ad accettare (alle condizioni e ai prezzi stabiliti in gara e in base agli standard di qualità previsti nei capitolati) ordinativi di fornitura da parte delle pubbliche amministrazioni, fino al limite massimo previsto (il cosiddetto massimale).
Le convenzioni attivate dalla Consip riguardano una spesa standard, cioè l'acquisto di quei beni e servizi che vengono largamente utilizzati da tutte le amministrazioni: computer, stampanti, gasolio per il riscaldamento degli edifici, ma anche pulizie. Acquistando attraverso la convenzione Consip, tutte le amministrazioni possono evitare di sostenere i costi di una gara d'appalto, anche nel caso in cui l'acquisto superi le soglie previste dalla legge (la soglia comunitaria che è di 206mila euro) e possono ottenere notevoli risparmi di processo oltre che sul prezzo dei beni. Infatti, aggregando la domanda delle amministrazioni, la Consip riesce ad abbattere i costi unitari d'acquisto (in media il 15-20% in meno, secondo rilevazioni dell'Istat), mantenendo al contempo standard qualitativi elevati nelle forniture.
Il provvedimento dispone anche che le scuole procedano agli acquisti utilizzando l'e-commerce. E a questo proposito è prevista anche l'emanazione di linee guida indirizzate per coordinare gli acquisti, suddivisi per natura merceologica, tra più istituzioni (articolo ItaliaOggi del 16.10.201).

PUBBLICO IMPIEGOLEGGE DI STABILITA'/ Il contratto non scatta fino al 2014. Congelate tutte le retribuzioni, a rischio pure i gradoni. Norma stralciata dal ddl, ricompare identica in decreto ad hoc.
Retribuzioni bloccate fino al 2014 e gradoni fermi per un altro anno. Il blocco era inizialmente previsto nella bozza della legge di stabilità varata dal governo martedì scorso. Ma poi è stato stralciato e sarà oggetto di un provvedimento a parte.
Secondo quanto risulta a ItaliaOggi, il governo può procedere attraverso un semplice decreto, già in fase di ultimazione da parte del Tesoro, visto che una proroga era già ipotizzata dall'ultima manovra del precedente governo.
Resta il fatto che l'esecutivo Monti è fermo nella volontà di procedere alla riduzione delle retribuzioni di fatto degli operatori scolastici agendo in due direzioni: il blocco dei rinnovi contrattuali fino al 2014, con contestuale eliminazione anche dell'indennità di vacanza contrattuale, e il blocco dei gradoni fino al 2013. Timida apertura sulla monetizzazione delle ferie: sarà consentita in via residuale solo per i periodi non coperti dalle vacanze.
La mossa sulla contrattazione collettiva è in continuità con quanto previsto dalla legge 15/2009 e dal decreto Brunetta (dlgs 150/2009). Fermo restando che quest'ultimo, almeno nelle premesse, afferma comunque il primato della contrattazione ai fini della regolazione dei diritti e dei doveri dei lavoratori pubblici e della pubblica amministrazione in qualità di datore di lavoro.
In modo particolare per quanto riguarda le retribuzioni. Precisazione doverosa da parte del legislatore, dopo che le Sezioni unite, con la sentenza n. 21744 del 14.10.2009, avevano individuato nel contratto collettivo la fonte primaria del rapporto di lavoro. Ma c'è dell'altro.
La Corte di cassazione, infatti, è costante nel ritenere che la retribuzione sufficiente, di cui parla l'articolo 36 della Costituzione, sia da rinvenirsi negli importi determinati dalla contrattazione collettiva e non dal datore di lavoro. E quindi le disposizioni varate dal governo, per ridurre unilateralmente l'importo delle retribuzioni potrebbero addirittura essere «in odore di incostituzionalità».
I contratti
Quanto alle disposizioni nello specifico, va anzitutto segnalato il blocco delle retribuzioni per altri due anni. Il decreto legge 78/2010, infatti, aveva previsto tale blocco solo fino al 2012. E quindi, il governo ha ritenuto di bloccare la contrattazione per altri due anni, fino al 2014 incluso. Giova ricordare che l'ultimo contratto è stato sottoscritto il 29.11.2007.
Tra l'altro si prevede che non ci sia neanche il pagamento dell'indennità di vacanza contrattuale, e che questa potrà essere pagata nel triennio 2015-2017 facendo riferimento all'inflazione programmata e non più all'Ipca, il tasso europeo, più pesante di quasi mezzo punto percentuale rispetto alla vecchia inflazione.
I gradoni
Da allora le retribuzioni sono ferme. Anzi, sono diminuite. Da una parte per la perdita del potere di acquisto che ogni anno, nella migliore delle ipotesi, si mangia quasi il 3%. E dall'altra parte perché il governo Berlusconi ha bloccato i gradoni per tre anni, dal 2010 al 2013. Il 2010 è stato salvato in extremis con un accordo sindacale, traendo i fondi da un terzo dei risparmi derivanti dal taglio di circa 135mila posti di lavoro nella scuola, inizialmente destinati a finanziare il merito.
Ma sul 2011 si stava ancora trattando, sebbene senza esito, al punto che Cisl, Uil, Gilda e Snals hanno già avviato le procedure per lo sciopero ( la Cgil ha scioperato il 12 ottobre scorso). E mentre la tensione tra governo e sindacati era già arrivata al punto di non ritorno, l'esecutivo ha previsto la proroga di un altro anno del blocco dei gradoni: fino al 2013.
Torna la monetizzazione
Nella bozza di legge di stabilità è contenuta anche una disposizione che reintroduce la monetizzazione parziale delle ferie per i precari che, a causa della ridotta durata del contratto, non abbiano potuto fruirne nei periodi di sospensione delle lezioni.
In particolare, il dispositivo prevede una deroga al divieto previsto dall'articolo 5, comma 8, del decreto legge 06.07.2012, n. 95. E dispone che il divieto non si applichi al personale docente supplente breve e saltuario o docente con contratto sino al termine delle lezioni o delle attività didattiche, limitatamente alla differenza tra i giorni di ferie spettanti e quelli in cui è consentito al personale in questione fruire delle ferie (articolo ItaliaOggi del 16.10.2012).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Legge di stabilità/ LE NOVITÀ PER LA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA.
Appalti, liti a costo variabile. Il contributo unificato è calcolato in proporzione al valore della causa.
RICHIAMO DELLA UE/ La modifica è stata indotta da una lettera dell'Unione a Palazzo Chigi nella quale si prefigura l'infrazione comunitaria.

Dissuadere i ricorsi ma anche incentivarli. È la linea su cui si muove il disegno di legge di Stabilità approvato dal Governo nella notte tra martedì e mercoledì. Quello che sembra all'apparenza un comportamento schizofrenico, in realtà ha obiettivi ben precisi. Da un lato, infatti, si è calcata la mano sul contributo unificato da pagare in caso di impugnazione quando le controversie si rivelano, alla fine, pretestuose, cioè portate avanti con evidenti scopi dilatori: sulle cause di appello respinte integralmente, dichiarate inammissibili o improcedibili, gli importi, infatti, raddoppiano. L'intento è di evitare che le aule delle corti vengano affollate di ricorsi destinati fin dall'origine a bocciatura certa, che distolgono il personale togato e non dal lavoro su altri fronti del contenzioso.
Dall'altro lato, il contributo unificato è stato differenziato per permettere un accesso meno restrittivo alla giustizia. È il caso degli importi versati per le cause in materia di appalti e per quelle relative ai provvedimenti delle Autorità di garanzia. Ricorsi, dunque, di competenza dei giudici amministrativi. Il Dl 98 del 2011, convertito dalla legge 111, ha ritoccato verso l'alto il contributo unificato e ha raddoppiato gli importi per il contenzioso sulle opere pubbliche, portandolo da 2mila a 4mila euro. Spesa che non ha eguali fra quelle che, in tutte le giurisdizioni, si devono versare per chiedere giustizia.
È pur vero che le cause di appalti hanno un valore molto alto, che facilmente supera i milioni di euro. Esistono, però, anche ricorsi il cui valore ha molti meno zeri, sui quali un contributo unificato di 4mila euro diventa un peso significativo, inducendo la parte a rinunciare, per questioni economiche, al processo.
È una riflessione a cui il nostro Governo è stato indotto dalla Commissione europea, che ha scritto una lettera a Palazzo Chigi e al ministero dell'Economia per chiedere ragguagli sugli effetti dell'aumento del contributo unificato, in particolare di quello relativo ai ricorsi sugli appalti pubblici. La Ue ha domandato come mai quest'ultimo importo sia stato stabilito in misura fissa e non proporzionale rispetto al valore della causa.
Le delucidazioni chieste dall'Europa non sono mosse da semplice curiosità. Alle spalle c'è il rischio da parte dell'Italia dell'ennesima infrazione comunitaria, perché l'aumento del contributo unificato sugli appalti si porrebbe in contrasto con la direttiva 89/665/Ue, modificata dalla direttiva 2007/66/Ce, entrambe in materia di appalti pubblici, e sarebbe non in linea anche con i principi fondamentali del Trattato. Ciò che si potrebbe configurare è, infatti, una compressione del diritto alla concorrenza attraverso vincoli eccessivi al diritto di giustizia.
La lettera ha innescato un confronto tra Palazzo Chigi, Mef e giudici amministrativi, sfociato, appunto, nella norma contenuta nel Ddl di stabilità. Disposizione che ha scaglionato il contributo unificato dovuto per i ricorsi sugli appalti pubblici, diminuendo l'importo da versare per le cause di minor valore e aumentando, fino a 6mila euro, quello per le controversie più ricche.
Per riequilibrare i conti, il Governo ha però aumentato il contributo unificato per i ricorsi in cui si applica il rito abbreviato comune (l'importo è passato da 1.500 a 1.800 euro) e quello per tutte le altre cause, compresi i ricorsi al presidente della Repubblica, che è cresciuto di 50 euro, da 600 a 650. Inoltre, il contributo unificato aumenta del 50% per le controversie che dal Tar vanno all'appello del Consiglio di Stato.
Il nuovo impianto trova d'accordo i giudici amministrativi. Secondo il presidente del Consiglio di Stato, Giancarlo Coraggio, in questo modo si è riequilibrato il carico delle spese di giustizia per chi deve fare ricorso e si è allontanato il rischio dell'apertura di un caso da parte del l'Unione europea (articolo Il Sole 24 Ore del 15.10.2012).

APPALTI: Obblighi fiscali. L'intermediario o il Caf possono certificare il versamento delle ritenute e dell'Iva relative ad appaltatore e subappaltatore.
Appalti solidali, professionisti in guardia. Nella circolare 40/E niente modello standard di asseverazione né chiarimenti sui rischi.

La nuova disciplina sulla responsabilità fiscale «solidale» tra appaltatore e subappaltatore per il versamento delle ritenute sui redditi di lavoro dipendente e dell'Iva nell'ambito dei contratti di appalto e subappalto di opere e servizi, prevista dal Dl 83/2012, chiama in causa non soltanto i soggetti della "catena" (committente, appaltatore e subappaltatore), ma anche i professionisti e i Caf che li assistono.
Come talvolta accade, anche con riferimento alla verifica degli adempimenti in materia tributaria prevista dal Dl 83/2012, il legislatore "scarica" agli operatori in materia lavoristica e fiscale la responsabilità di attestare la regolarità degli stessi.
Infatti, secondo quanto previsto dalla norma e in parte chiarito dalla circolare delle Entrate 40 dell'08.10.2012 (si veda Il Sole 24 Ore del 9 ottobre), oltre alla soluzione «fai da te», gli appaltatori e i subappaltatori potranno rivolgersi ai professionisti abilitati per richiedere l'asseverazione dell'attestazione dell'avvenuto adempimento degli obblighi fiscali, utile a dimostrare il regolare versamento dell'Iva e delle ritenute sui redditi da lavoro dipendente (Irpef e addizionali regionali e comunali), scaduti alla data del pagamento del corrispettivo.
Il rilascio dell'attestazione
La circolare delle Entrate non illustra, però, le conseguenze che si potrebbero verificare se l'attestazione rilasciata dovesse risultare non corretta: in particolare, non spiega in quali rischi potrebbe incorrere il professionista.
Peraltro, non essendo stata fissata una validità dell'asseverazione, questi dovrà prestare molta attenzione alle tempistiche del rilascio, eventualmente indicando che il controllo comprende i versamenti effettuati fino a una certa data: in caso contrario, il rischio è quello di produrre una dichiarazione non allineata.
Sarebbe stata comunque auspicabile l'adozione di una modulistica standard da adottare sia in caso di asseverazione, sia in caso di dichiarazione sostitutiva, così da garantire una maggiore chiarezza.
La verifica dei dati
Il professionista, se non già in possesso dei dati necessari, potrebbe chiedere al cliente l'elenco dei lavoratori adibiti all'appalto-subappalto e delle relative buste paga, per verificare la rispondenza delle ritenute operate rispetto a quelle versate con il modello F24.
Questo aspetto si rivela molto complicato, soprattutto nel caso di imprese di dimensioni elevate e con diversi contratti di appalto-subappalto in atto: in queste ipotesi, solo un controllo capillare (su tutto il complesso aziendale) può garantire -per esclusione- che siano stati assolti anche gli obblighi riferiti al contratto in questione.
L'altro aspetto dai contorni ancora nebulosi riguarda proprio quale tipologia di controlli sia chiamato a svolgere l'intermediario: in caso contrario, difficilmente quest'ultimo si sentirà di rilasciare un'asseverazione di regolarità. A meno che non disponga di una conoscenza approfondita della situazione del cliente.
Dal tenore della circolare emerge altresì che il contenuto dell'attestazione deve comprendere anche i riferimenti inerenti l'Iva e le ritenute sui redditi da lavoro dipendente non versate, perché ad esempio l'obbligo di versamento non è mai sorto (reverse charge) o perché il tributo è stato compensato.
Infine, rimane da chiarire se nel controllo dei versamenti debbano essere comprese anche le ritenute sui redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente quali -ad esempio- quelle operate sui compensi di eventuali lavoratori parasubordinati impiegati nelle prestazioni in appalto-subappalto.
Poiché, come è stato anche chiarito dalla circolare del Lavoro n. 5/2011, questi soggetti possono godere delle tutele derivanti dalla solidarietà, è possibile che vi rientrino anche le ritenute sui relativi compensi.
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Gli altri adempimenti. Sanzione da 5mila a 200mila euro. Il committente paga se omette il controllo.
La circolare delle Entrate 40/2012 non ha risolto la totalità dei dubbi sul tema della responsabilità solidale tra appaltatore e subappaltatore per il versamento delle ritenute sui redditi di lavoro dipendente e dell'Iva (dettata dal Dl 223/06, articolo 35, comma 28, come riscritto dall'articolo 13-ter del Dl 83/2012) ma ha offerto un primo importante chiarimento: i nuovi obblighi operano solo per i contratti di appalto-subappalto stipulati a partire dal 12.08.2012 e in relazione ai pagamenti dei corrispettivi effettuati dall'11 ottobre scorso.
La materia è complessa, non solo per la mancanza di un Codice che raccolga tutte le norme, ma anche per le modifiche che, nel 2012, hanno interessato il quadro legislativo. Peraltro, le conseguenze per gli "attori" del contratto di appalto possono essere molto pesanti, sia per il coinvolgimento nel meccanismo solidaristico, sia per le sanzioni previste.
Il Dl sulle semplificazioni fiscali, varato a marzo (Dl 16/2012, comma 5-bis dell'articolo 2) aveva disposto la responsabilità solidale tra i soggetti della filiera dell'appalto per il versamento delle ritenute sui redditi di lavoro dipendente e dell'Iva riferite all'appalto, nel limite di due anni dalla cessazione dell'appalto stesso.
Il regime della solidarietà tracciato da questa disposizione sarebbe scattato se il soggetto coinvolto non avesse dimostrato di aver messo in atto tutte le cautele possibili: era una formulazione talmente ampia e priva di parametri di riferimento da non lasciare -in pratica– alcun "paracadute" per salvarsi dalle nuove regole sulla solidarietà (in vigore, peraltro, dal 29 aprile all'11.08.2012).
Nel sistema in vigore oggi, dopo le modifiche del Dl 83/2012, sebbene il campo di applicazione sia lo stesso, ci sono due diversi livelli di coinvolgimento per i soggetti interessati nell'appalto, a cui corrispondono specifici oneri amministrativi.
L'appaltatore risponde in solido con il subappaltatore, nei limiti dell'ammontare del corrispettivo dovuto, del versamento all'erario delle ritenute fiscali sui redditi da lavoro dipendente e dell'Iva dovuta dal subappaltatore in relazione alle prestazioni effettuate nell'ambito dell'appalto. Nell'attuale versione della norma, la solidarietà non è più limitata a una scadenza temporale ma alla prescrizione ordinaria riferita alle ritenute in questione.
Il committente invece, pur non essendo chiamato a rispondere dei mancati versamenti all'erario da parte dei soggetti della filiera, è obbligato a una stringente azione di controllo sulla regolarità degli stessi che –in caso di mancata attuazione– può comportare una sanzione amministrativa da 5mila a 200mila euro.
Infine, la circolare 40/2012 sembra estendere la responsabilità anche al committente, fattispecie che la norma non prevede
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.10.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Procedure amministrative. Le semplificazioni introdotte dal decreto 83/2012.
Permessi edilizi più veloci in conferenza dei servizi. Gli assenti possono inviare il parere favorevole.

Con le novità dettate dal decreto sviluppo –il Dl 83/2012– lo sportello unico per l'edilizia (Sue) costituisce l'unico punto di accesso per il privato interessato in relazione a tutte le vicende amministrative riguardanti il titolo abilitativo e l'intervento edilizio, che risponde al posto di tutte le Pa coinvolte.
Tra i compiti dello sportello c'è anche quello di acquisire – anche mediante conferenza dei servizi – gli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità (articolo 5, comma 1-bis, del Dpr 380/2001) nonché gli altri pareri di autorità eventualmente coinvolte nel procedimento, come ad esempio il parere vincolante della Commissione per la salvaguardia di Venezia per gli interventi in quell'area. E proprio all'accelerazione della conferenza dei servizi è dedicata un'altra delle modifiche del Dl 83.
La conferenza dei servizi è uno strumento di semplificazione procedimentale disciplinato in via generale dagli articoli 14 e seguenti della legge 241/1990. Esistono due tipi di conferenza dei servizi. Quella istruttoria, prevista dal comma 1 dell'articolo 14 della legge, può essere indetta quando è opportuno che l'attività istruttoria relativa a un certo procedimento si svolga con la collaborazione di più soggetti pubblici variamente interessati.
La riunione «decisoria»
Più complessa è la disciplina del l'altro tipo di conferenza dei servizi, quella decisoria. L'adozione di un determinato provvedimento amministrativo è sempre competenza di una specifica amministrazione (per i titoli edilizi, il Comune). Tuttavia, nei procedimenti più complessi, la competenza dell'amministrazione procedente si integra con quella di altre amministrazioni a tutela di determinati interessi superiori. E così, ad esempio, l'attività dei permessi edilizi è sempre soggetta al parere delle Pa poste a tutela del paesaggio, dell'ambiente, della salute pubblica, del patrimonio storico e archeologico.
Quando ciò avvenga, ciascuna di queste amministrazioni è chiamata a dare il proprio assenso. Quando queste amministrazioni siano più d'una e le valutazioni da compiere siano particolarmente complesse, l'esercizio dei loro poteri potrebbe rallentare notevolmente il procedimento. La conferenza dei servizi, obbligatoria ormai per la stragrande maggioranza dei procedimenti, consente la valutazione, in un'unica sede di tutti gli interessi variamente coinvolti nel procedimento. Tutte le amministrazioni sono convocate in un'unica sede secondo le forme previste dall'articolo 14-ter della legge 241 perché esprimano nella medesima sede il proprio assenso o dissenso all'interno della conferenza dei servizi entro un dato termine.
La conferenza e gli assenti
La regola è che le determinazioni in sede di conferenza dei servizi vengano prese a maggioranza degli enti coinvolti: meglio, l'amministrazione che ha la competenza ad adottare il provvedimento finale può provvedere se ha l'assenso della maggioranza degli enti interessati. In alcuni casi, tuttavia, esigenze di tutela di interessi superiori giustificano dei correttivi. E così, ad esempio, se il procedimento ha ad oggetto permessi relativi ad opere soggette a valutazione di impatto ambientale, la decisione finale non può essere assunta prescindendone, mentre il dissenso di un'amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, o del patrimonio storico e artistico può essere superato solo con la remissione della decisione alla Presidenza del Consiglio dei ministri.
In ogni caso le amministrazioni coinvolte hanno l'onere di intervenire in conferenza dei servizi manifestando la propria posizione. Qualora ciò non avvenga, salvo per i provvedimenti in materia di Via e Vas, si considera assunto l'assenso dell'amministrazione, anche se preposta alla tutela paesaggistico territoriale e ambientale, il cui rappresentante non abbia espresso definitivamente la volontà dell'amministrazione rappresentata.
Da ultimo, dopo le modifiche del Dl 83/2012, le amministrazioni che intendono esprimere parere positivo possono non intervenire alla conferenza di servizi e trasmettere i propri atti di assenso. Non sarà necessario, pertanto, che le amministrazioni volta per volta interessate al procedimento partecipino fisicamente alle riunioni della conferenza dei servizi inviando un loro rappresentante autorizzato a esprimere la volontà per l'ente, essendo sufficiente l'invio tempestivo di un atto d'assenso allo sportello. Infine la determinazione adottata dalla conferenza di servizi è, ad ogni effetto, titolo per la realizzazione dell'intervento.
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La giurisprudenza. Gli orientamenti del Consiglio di Stato. L'atto finale va impugnato verso tutte le Pa coinvolte.
I PIANI DI SVILUPPO/ In caso di ristrutturazione degli impianti industriali l'assenso adottato dagli enti si traduce in una variante da sottoporre al Comune.

La conferenza dei servizi è uno strumento procedimentale di semplificazione. Ha lo scopo di far riunire in un unico luogo, fisico o anche virtuale (conferenza dei servizi telematica), tutte le amministrazioni che possono essere interessate, per la tutela degli interessi alla quale sono preposte, ad esprimere il proprio parere su un procedimento.
Quello che occorre sempre tenere a mente è che, anche quando viene utilizzato lo strumento della conferenza dei servizi, da un lato l'amministrazione competente a emettere il procedimento finale è sempre una, dall'altro che il modulo procedimentale della conferenza dei servizi non supera la soggettività delle singole amministrazioni coinvolte nel procedimento.
La conferenza dei servizi non è pertanto un organo nuovo e diverso rispetto ai soggetti che vi partecipano, ma rappresenta solamente un modo operativo col quale queste prendono coscienza del procedimento in corso ed esprimono il loro parere sul progetto. E così, nel caso di procedimenti complessi per il rilascio di titoli edilizi l'autorità competente sarà sempre una, ossia il Comune, mentre tutte le altre amministrazioni preposte alla tutela di interessi diversi hanno l'onere di esprimere il proprio parere sul progetto per il quale è richiesto il permesso di costruire nell'ambito della conferenza dei servizi.
Questa è l'impostazione ribadita recentemente dal Consiglio di Stato, sezione V, con la sentenza del 02.05.2012, n. 2488, secondo il quale «l'utilizzo del modulo procedimentale della conferenza di servizi, che come tale non configura un ufficio speciale della pubblica amministrazione, autonomo rispetto ai soggetti che vi partecipano, non altera le regole che presiedono, in via ordinaria e generale, all'individuazione delle autorità emananti».
Con questa decisione il Consiglio di Stato, oltre a precisare ancora una volta i caratteri della conferenza dei servizi, si preoccupa di ribadire che l'impugnazione del provvedimento finale di assenso o dissenso deliberato in sede di conferenza dei servizi deve essere impugnato non nei confronti della «conferenza dei servizi», non costituendo questa un organo nuovo e distinto dai suoi partecipanti, bensì nei confronti di tutte le singole amministrazioni coinvolte.
I caratteri della conferenza dei servizi sono confermati anche dalla sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n. 2170 del 16.04.2012, in materia di piani di sviluppo industriale ex Dpr 447 del 1998, secondo la quale la ristrutturazione o l'ampliamento degli impianti industriali sono soggetti a un iter semplificato che si risolve in un procedimento che, mediante la conferenza di servizi indetta dal responsabile del procedimento, porta alla formazione di una proposta di variante sulla quale il consiglio comunale si pronuncia definitivamente per giungere, con una variante urbanistica adottata nell'ambito della conferenza di servizi, alla rapida realizzazione di tali iniziative, anche quando esse siano in contrasto con gli strumenti urbanistici in vigore, purché il relativo progetto sia conforme alle norme in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza del lavoro e lo strumento urbanistico non individui aree destinate all'insediamento di impianti produttivi o queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato.
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Il caso della Dia. È ancora possibile rivolgersi all'ufficio.
Allo sportello unico per l'edilizia, del quale si discuteva l'abolizione visto l'insuccesso relativo che l'istituto aveva avuto sul piano pratico –specie se paragonato con lo sportello per le attività produttive– sono ora attribuiti poteri e competenze che appaiono idonei a garantire un buon impulso procedimentale. Questo, pertanto, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbe essere lo strumento di accertamento di tutte le attività di competenza comunale relative alle pratiche edilizie, oltre che l'ufficio deputato a dare impulso al procedimento edilizio.
Tant'è vero che le comunicazioni al richiedente sono trasmesse esclusivamente dallo sportello unico per l'edilizia; gli altri uffici comunali e le amministrazioni pubbliche diverse dal Comune, che sono interessati al procedimento, non possono trasmettere al richiedente atti autorizzatori, nulla osta, pareri o atti di consenso, anche a contenuto negativo, comunque denominati e sono tenuti a trasmettere immediatamente allo sportello unico per l'edilizia le denunce, le domande, le segnalazioni, gli atti e la documentazione ad esse eventualmente presentati, dandone comunicazione al richiedente.
Viene da chiedersi, a questo punto, se sia ancora possibile, come avviene oggi nella prassi, che gli interessati si facciano parte diligente e si rivolgano direttamente alle amministrazioni interessate per risolvere i profili di tutela dei valori vincolati, prima di presentare al Comune il progetto edilizio. A giudicare dalle nuove disposizioni parrebbe di no, e che il Sue accentri e assorba ogni competenza. Anche perché secondo il nuovo comma 7-bis dell'articolo 5 del Dpr 380/2001 «le amministrazioni pubbliche diverse dal Comune, che sono interessate al procedimento sono tenute a trasmettere immediatamente allo sportello unico per l'edilizia le denunce, le domande, le segnalazioni, gli atti e la documentazione ad esse eventualmente presentati, dandone comunicazione al richiedente», con la conseguenza che la domanda di nulla osta presentata direttamente all'ente competente sarebbe destinata a tornare in Comune prima ancora di essere istruita nel merito.
Eppure un'attività preventiva del privato che scegliesse di rivolgersi alle amministrazioni interessate per ottenerne l'assenso prima della presentazione del progetto parrebbe consentita, almeno per gli interventi soggetti a Dia, dall'articolo 23, Dpr 380/2001, non modificato in parte qua, laddove consente l'allegazione alla Dia del parere favorevole dell'amministrazione preposta, ad esempio, alla tutela paesaggistica e ambientale.
Sempre in termini di accelerazione e semplificazione, il decreto sviluppo è intervenuto anche sul procedimento di rilascio del permesso di costruire (articolo 20 Dpr 380/2001) prevedendo che, se entro i 60 giorni non siano intervenute tutte le intese, i concerti, i nulla osta o gli assensi, il responsabile dello sportello unico indice la conferenza di servizi
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.10.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI: Decreto enti locali/1. Moltiplicate le forme di monitoraggio: sono definiti contenuto minimo, responsabili e tipologie.
Controlli interni, si riparte da sei. Le nuove verifiche si aggiungono alla valutazione prevista dalla legge Brunetta.

I controlli interni passano da quattro a sei, o meglio a sette se consideriamo che la valutazione è disciplinata dalla legge Brunetta, anche se due di questi non si applicano agli enti locali con meno di 10mila abitanti. Il loro contenuto minimo viene per la prima volta definito in modo preciso dallo stesso legislatore nel D.L. 10.10.2012 n. 174.
A queste regole si devono aggiungere le forme di controllo interno previste da altre disposizioni: basta ricordare oltre alla valutazione dei dirigenti, dei responsabili e del personale, anche le relazioni sulla performance e sulla trasparenza imposte dal Dlgs 150/2009, oltre all'intensificazione del ruolo della Corte dei conti prevista dallo stesso Dl, il monitoraggio della spesa del personale e della contrattazione integrativa e le verifiche che ogni ente locale dovrà attivare una volta che le norme anticorruzione diventeranno legge.
Dal primo esame delle norme si può concludere che da una condizione di sostanziale assenza di controlli, e dalla loro sostituzione in modo assai limitato e spesso casuale con gli interventi censori delle magistrature penali, civili, contabili e amministrative e dalle visite ispettive, si passi a una condizione di eccesso di controlli. E, inoltre, non è affatto detto che le nuove regole permettano di raggiungere lo scopo di migliorare la qualità dell'attività amministrativa e il tasso di legittimità dell'attività degli enti locali.
Il vecchio testo del Dlgs 267/2000 prevedeva, in analogia a quanto dettato per tutte le amministrazioni statali dai Dlgs 286/1999 e 165/2001, quattro forme di controllo interno, lasciando un'amplissima autonomia di regolamentazione alle singole amministrazioni: regolarità amministrativa e contabile, di gestione, valutazione dei dirigenti e realizzazione dei programmi politico amministrativi. Forme di controllo che non sono sostanzialmente decollate nella gran parte delle amministrazioni. Con le modifiche introdotte dal Dl si introduce il pacchetto dei sei nuovi controlli: di regolarità amministrativa e contabile, di gestione, strategico, di verifica degli equilibri finanziari della gestione, della gestione degli organismi esterni, della qualità dei servizi erogati.
Gli enti locali che hanno una popolazione inferiore a 10mila abitanti (quindi non solo i comuni, ma anche le unioni, le superstite comunità montane eccetera) non devono attivare i controlli della gestione degli organismi esterni (cioè in primo luogo le società partecipate o controllate) e della qualità dei servizi erogati, anche attraverso la customer satisfaction. Viene prevista la possibilità di realizzare questi controlli in forma associata attraverso lo strumento della convenzione.
L'altro elemento che più caratterizza queste disposizioni è costituito dalla previsione del contenuto minimo che le varie forme di controllo interno devono soddisfare. Infatti vengono individuati i soggetti chiamati a svolgere tali attività, il contenuto ed il flusso delle informazioni con gli organi di governo dell'ente. La norma si preoccupa di garantire che lo svolgimento di queste attività non determini oneri aggiuntivi, preoccupazione sicuramente assai importante, ma non tiene conto della possibilità di prevedere forme di migliore utilizzazione degli organismi di valutazione, di recente potenziati, senza costi aggiuntivi, dalla legge Brunetta (articolo Il Sole 24 Ore del 15.10.2012 - link a www.corteconti.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - SEGRETARI COMUNALIPer la regolarità amministrativa direzione affidata al segretario.
Il marcato potenziamento dei compiti di controllo successivo assegnati ai segretari è uno degli effetti di maggiore rilievo contenuti nel D.L. 10.10.2012 n. 174. Questo effetto si farà ancor più sentire con l'approvazione della legge anticorruzione, che responsabilizza direttamente i segretari nel coordinamento delle iniziative che le singole amministrazioni devono assumere sul versante della prevenzione di questo fenomeno.
Il risultato combinato di queste disposizioni non potrà che determinare conseguenze anche sullo status dei segretari, a partire dall'accelerazione del processo di convenzionamento di questa figura nella gran parte dei piccoli Comuni, oltre che dalla necessità di differenziare le attribuzioni di controllo e garanzia da quelle che sono più intimamente collegate alla gestione e di rafforzare la sua indipendenza.
Il decreto responsabilizza direttamente i segretari nella direzione del controllo di regolarità amministrativa e contabile nella fase successiva allo svolgimento della attività amministrativa; va ricordato che nella fase preventiva questo controllo è rimesso ai pareri tecnici dei singoli dirigenti e a quello del dirigente finanziario. Il controllo di regolarità amministrativa e contabile nella fase successiva si deve dirigere sulle determinazioni, sugli impegni di spesa, sui contratti e non sulle deliberazioni, visto che nel procedimento di loro formazione il segretario interviene già direttamente partecipando alle riunioni dei consigli e delle giunte e avendo in quelle sedi il potere e il dovere di evidenziare i profili di illegittimità.
Il segretario viene inoltre responsabilizzato direttamente a garantire la trasmissione delle risultanze di questa forma di controllo interno agli organi di governo, ai dirigenti, ai revisori dei conti e agli organismi di valutazione. Nel rispetto di questi principi, le singole amministrazioni avranno un'ampia autonomia regolamentare, ad esempio per la scelta delle modalità con cui decidere gli atti da controllare e con cui supportare il ruolo del segretario.
Una seconda importante scelta contenuta nel provvedimento è quella di imporre alle singole amministrazioni l'obbligo di garantire comunque uno ruolo specifico del segretario nella «organizzazione del sistema dei controlli interni».
Si deve inoltre segnalare il vincolo che i segretari siano direttamente coinvolti, anche se non con un ruolo di direzione, nel controllo degli equilibri finanziari. Il che sottolinea la crescente funzione di garanzia che il segretario viene a svolgere in tale forma di controllo interno.
Inoltre nelle province e nei comuni con popolazione superiore a 10mila abitanti, i direttori generali o i segretari sono impegnati a trasmettere, per conto del vertice politico dell'ente, con cadenza semestrale alla Corte dei conti il referto della regolarità della gestione e dell'efficacia e adeguatezza dei sistemi di controllo interno, informando anche il Presidente del Consiglio comunale o provinciale (articolo Il Sole 24 Ore del 15.10.2012 - link a www.corteconti.it).

ATTI AMMINISTRATIVISubito al via gli esami preventivi agli atti. Il parere tecnico «vincola» tutte le delibere.
L'immediata operatività di alcune disposizioni del D.L. 10.10.2012 n. 174 determina la riorganizzazione di molte fasi dei processi decisionali.
Le nuove norme relative ai pareri sulle deliberazioni e a quelli dell'organo di revisione sono in vigore dal 10 ottobre, con l'inserimento nel Tuel: di conseguenza, le amministrazioni devono adeguare le procedure per la formazione degli atti di giunta e consiglio al nuovo quadro di regole, a pena di illegittimità degli stessi.
In base alla nuova formulazione dell'articolo 49 del Dlgs 267/2000, per le deliberazioni di giunta e di consiglio va richiesto il parere di regolarità tecnica del responsabile di servizio, ma, se esse comportano riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente, va acquisito anche il parere del responsabile del servizio finanziario in ordine alla regolarità contabile (comma 1).
La resa dei pareri deve avvenire in relazione alla proposta di deliberazione formata e sottoposta all'organo collegiale per l'adozione, con il loro inserimento nel testo della stessa. Giunta e Consiglio possono discostarsene in sede di approvazione dell'atto, ma devono darne adeguata motivazione nel testo della deliberazione (comma 4). La norma ha contenuto analogo a quello dell'articolo 6, comma 1, lettera e), della legge 241/1990 in linea generale per i provvedimenti amministrativi.
La disposizione consente comunque ai due organi collegiali di adottare altre decisioni, che potranno assumere la configurazione di meri atti di indirizzo, tuttavia restringendo di fatto l'ambito di utilizzo degli stessi.
Nel caso in cui l'ente non abbia i responsabili dei servizi (quindi nelle ipotesi di Comuni di ridotte dimensioni), i pareri sono espressi dal segretario dell'ente, in relazione alle sue competenze.
In tema di pareri incide anche la nuova formulazione dell'articolo 239 del Tuel, che riporta all'organo di revisione la resa di una serie di pareri obbligatori su alcune delle decisioni di massima rilevanza per la situazione economico-finanziaria e organizzativa dell'ente locale. La norma prevede, peraltro, che la resa dei pareri sia disciplinata da un regolamento, che non potrà essere che quello di contabilità, creando un singolare paradosso, poiché i revisori devono svolgere la loro azione consultiva anche sulle proposte di regolamenti relativi alla contabilità (come pure quelli in materia di economato, patrimonio e applicazione dei tributi locali). Le valutazioni dell'organo di revisione sugli oggetti specifici indicati nell'articolo 239 sono obbligatorie e vanno formulate con un giudizio articolato su congruità, coerenza e attendibilità contabile in rapporto alle previsioni di bilancio.
Anche l'integrazione apportata all'articolo 109 del Tuel, sui presupposti per la revoca del responsabile del servizio finanziario e sul percorso per la formalizzazione della stessa (comprensivo del parere obbligatorio del ministero dell'Interno e del Mef-Rgs), comporta l'immediata operatività della procedura. Di conseguenza, un atto di revoca da parte del sindaco o del presidente della Provincia (in forma di ordinanza) non sostenuto dal presupposto di gravi irregolarità nell'esercizio delle funzioni assegnate, e senza il parere obbligatorio dei due ministeri, sarebbe illegittimo (articolo Il Sole 24 Ore del 15.10.2012 - link a www.ecostampa.it).

LAVORI PUBBLICIControlli immediati del Consiglio. La stretta coinvolge anche i lavori urgenti.
Sempre al fine di mettere un freno alle spese degli enti locali, il Dl 174/2012 è particolarmente restrittivo anche sui lavori pubblici di somma urgenza dovuti a eventi eccezionali o imprevedibili, che spesso, anche per la notevole frequenza cui vi si ricorre e per gli elevati importi connessi, hanno ripercussione di notevole entità sugli equilibri finanziari dell'ente.
Si supera il precedente ordinamento più "blando”, che prevedeva una regolarizzazione dei lavori ordinati –a cura del responsabile del procedimento– a pena di decadenza entro 30 giorni, e comunque entro il 31 dicembre dell'anno, e la comunicazione al terzo interessato (appaltatore/fornitore) contestualmente alla regolarizzazione. I lavori di somma urgenza vengono ricondotti nell'ambito della casistica dei debiti fuori bilancio, come tali soggetti alla relativa procedura, coinvolgendo il responsabile del procedimento, la giunta e il consiglio comunale. A quest'ultimo viene di fatto demandato il compito di verificare la sussistenza dei presupposti normativi e contabili in ordine alla legittimità della procedura intrapresa e di apprestare la relativa copertura finanziaria.
Infatti, nel sostituire l'articolo 191, comma 3, del Dl 267/2000, il D.L. 10.10.2012 n. 174 prevede che, «per i lavori pubblici di somma urgenza, cagionati dal verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile, la giunta, entro dieci giorni dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile del procedimento, sottopone all'organo consiliare il provvedimento di riconoscimento della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, prevedendo la relativa copertura finanziaria nei limiti delle accertate necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento è adottato entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte della giunta, e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è data contestualmente all'adozione della deliberazione consiliare».
Si tratta, quindi, di un controllo consiliare immediato (con funzione di ratifica dell'operato del responsabile del procedimento che ha ordinato i lavori). Una novità che potrebbe limitare i lavori di somma urgenza ai casi in cui l'intervento è assolutamente indifferibile e condivisibile (articolo Il Sole 24 Ore del 15.10.2012 - link a www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVILa violazione della norma che impone (tra l’altro) il parere di regolarità contabile determina l’illegittimità della relativa delibera perché si tratta di disposizione che ha l’importante finalità di mettere al corrente l’organo politico (la giunta o il consiglio) dell’incidenza della deliberazione sul bilancio comunale, fermo restando che detti pareri non pongono alcun limite alla potestà deliberante di quest’ultimo che ben può liberamente disporre del contenuto delle deliberazioni (una volta resi detti pareri) perché, diversamente argomentando, si finirebbe con l’attribuire agli organi consultivi potere di amministrazione attiva, lasciando ai corpi rappresentativi la funzione di mera ratifica delle determinazioni altrui.
Passando all'esame della questione centrale relativa all'illegittimità della più volte citata deliberazione 729/2001 in ragione della violazione dell'articolo 53 legge 142/1990, come recepito in Sicilia dalla legge regionale 48/1991, occorre rilevare che effettivamente la deliberazione in questione non reca il previsto parere di regolarità contabile. Sotto tale aspetto, dunque, la delibera presenta profili di indubbia contrarietà al chiaro disposto della legge e conseguentemente il motivo d'appello deve essere rigettato (Cons. St., V, 15.02.2000 n. 808) risultando convincente l’illegittimità riscontrata dal giudice di primo grado.
A differenza di quanto affermato da alcune decisioni dei TAR, il Consiglio ritiene che la violazione della norma che impone (tra l’altro) il parere di regolarità contabile determini l’illegittimità della relativa delibera (Cons. St., V, 15.02.2000 n. 808) perché si tratta di disposizione che ha l’importante finalità di mettere al corrente l’organo politico (la giunta o il consiglio) dell’incidenza della deliberazione sul bilancio comunale, fermo restando che detti pareri non pongono alcun limite alla potestà deliberante di quest’ultimo che ben può liberamente disporre del contenuto delle deliberazioni (una volta resi detti pareri) perché, diversamente argomentando, si finirebbe con l’attribuire agli organi consultivi potere di amministrazione attiva, lasciando ai corpi rappresentativi la funzione di mera ratifica delle determinazioni altrui (Corte Conti reg. Sicilia, sez. giurisd., 23.03.2011, n. 1058) (C.G.A.R.S., sentenza 16.10.2012 n. 942 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl rapporto di trasmissione via fax è strumento idoneo a garantire con sufficiente certezza l’effettività della comunicazione, senza che il soggetto che ha trasmesso il fax debba fornire l’ulteriore prova oltre quella risultante dal rapporto di trasmissione che indichi le regolari avvenute trasmissioni e ricezioni, mentre grava, invece, sul ricevente che assume la mancata ricezione fornire la prova contraria.
In base alla più recente normativa (D.P.R. 28.12.2000, n. 445) il fax è lo strumento ordinario di comunicazione di atti e documenti, in quanto soddisfa sia la forma scritta che la fonte di provenienza; in forza dell’art. 43, comma 6, un fax deve presumersi giunto al destinatario quando il rapporto di trasmissione indica che questa è avvenuta regolarmente.
Sulla scorta della normativa citata, la giurisprudenza ha ritenuto che il rapporto di trasmissione via fax è strumento idoneo a garantire con sufficiente certezza l’effettività della comunicazione, senza che il soggetto che ha trasmesso il fax debba fornire l’ulteriore prova oltre quella risultante dal rapporto di trasmissione che indichi le regolari avvenute trasmissioni e ricezioni, mentre grava, invece, sul ricevente che assume la mancata ricezione fornire la prova contraria (cfr., di recente, C.d.S., Sez. V, 14.02.2010, n. 722) (C.G.A.R.S., sentenza 16.10.2012 n. 941 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALINel nuovo ordinamento delle autonomie locali, in mancanza di una disposizione statutaria che la richieda espressamente, l'autorizzazione alla lite da parte della giunta municipale non costituisce atto necessario ai fini del promuovimento di azioni o della resistenza in giudizio da parte del sindaco: quest'ultimo, infatti, trae la propria investitura direttamente dal corpo elettorale e costituisce, esso stesso, fonte di legittimazione dei componenti della giunta municipale, nel quadro di un sistema costituzionale e normativo di riferimento profondamente influenzato dalle modifiche apportate al Titolo V della Parte II cost. dalla l. cost. 18.10.2001 n. 3, nonché di quelle introdotte dalla l. 05.06.2003 n. 131, con ripercussioni anche sull'impianto del d.lgs. 18.08.2000 n. 267, il cui art. 50, peraltro, indica il sindaco quale organo responsabile dell'amministrazione comunale e gli attribuisce la rappresentanza.
Nel nuovo ordinamento delle autonomie locali, la rappresentanza processuale del comune spetta istituzionalmente al sindaco, cui compete, in via esclusiva, il potere di conferire al difensore la procura alle liti, senza necessità di autorizzazione della giunta municipale, salvo che una disposizione statutaria la richieda espressamente, spettando in tal caso alla parte interessata provare la carenza di tale autorizzazione producendo idonea documentazione.

Quanto poi alla asserita illegittimità del mandato conferito dal Sindaco all’avv. Cerceo il 12.03.2009, in assenza della esplicita autorizzazione della Giunta, che sarebbe tuttora richiesta dallo Statuto, in primo luogo è da ritenere che, a seguito della modifica statutaria mediante l’inserimento della disposizione secondo la quale “i dirigenti sono competenti alla promozione delle liti e alla resistenza alle stesse” sia venuta meno, per incompatibilità tra la nuova disposizione (il citato art. 44, comma 6-bis) e la precedente, vale a dire l’art. 38/s) dello statuto, proprio quest’ultima disposizione la quale, in base a quanto afferma la difesa dell’appellato, richiedeva che la Giunta autorizzasse il Sindaco a promuovere o a resistere alle liti. Si tratta, del resto, di atto gestionale e tecnico che non richiede più l’autorizzazione giuntale.
A questo proposito la Corte suprema di Cassazione (sent. n. 21330 del 2006) ha avuto occasione di statuire che “nel nuovo ordinamento delle autonomie locali, in mancanza di una disposizione statutaria che la richieda espressamente, l'autorizzazione alla lite da parte della giunta municipale non costituisce atto necessario ai fini del promuovimento di azioni o della resistenza in giudizio da parte del sindaco: quest'ultimo, infatti, trae la propria investitura direttamente dal corpo elettorale e costituisce, esso stesso, fonte di legittimazione dei componenti della giunta municipale, nel quadro di un sistema costituzionale e normativo di riferimento profondamente influenzato dalle modifiche apportate al Titolo V della Parte II cost. dalla l. cost. 18.10.2001 n. 3, nonché di quelle introdotte dalla l. 05.06.2003 n. 131, con ripercussioni anche sull'impianto del d.lgs. 18.08.2000 n. 267, il cui art. 50, peraltro, indica il sindaco quale organo responsabile dell'amministrazione comunale e gli attribuisce la rappresentanza”.
Inoltre, “nel nuovo ordinamento delle autonomie locali, la rappresentanza processuale del comune spetta istituzionalmente al sindaco, cui compete, in via esclusiva, il potere di conferire al difensore la procura alle liti, senza necessità di autorizzazione della giunta municipale, salvo che una disposizione statutaria la richieda espressamente, spettando in tal caso alla parte interessata provare la carenza di tale autorizzazione producendo idonea documentazione” (Cass. civ. n. 13968/2010) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.10.2012 n. 5277 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La Corte ha dichiarato incostituzionale la trattenuta del Tfs. Ma grazie alla Consulta la paga recupera il 2,5%.
La trattenuta in busta paga del 2,5% (ex opera di previdenza) è incostituzionale. Il passaggio dalla disciplina del Tfs a quella del Tfr dal 01.01.2011, operato dall'articolo 12 comma 10 del decreto legge 78/2010, ha determinato, infatti, la cancellazione di tale trattenuta. E quindi, l'interpretazione adottata dal governo, nel senso del permanere della decurtazione, è incostituzionale.
Lo ha stabilito la Consulta con la
sentenza 11.10.2012 n. 223.
La Corte costituzionale ha spiegato che la trattenuta non poteva essere più applicata dopo che la legge aveva mutato il regime della buonuscita dei dipendenti pubblici. Prima dell'avvento della nuova disciplina, infatti, i dipendenti pubblici assunti prima del 2000, all'atto della cessazione ricevevano una somma, denominata trattamento di fine servizio (Tfs) notevolmente più alta rispetto al Tfr (trattamento di fine rapporto).
Il Tfs, infatti, veniva calcolato sull'ultimo stipendio dell'ultimo giorno di servizio, moltiplicato per il numero degli anni a cui si aveva diritto, compresi i periodi riscattati. Il Tfr, invece, è salario differito (come tale totalmente a carico dell'amministrazione) che viene accantonato (virtualmente) e rivalutato anno per anno per essere poi versato al lavoratore, al termine dell'attività lavorativa, come liquidazione. L'importo del Tfr, dunque, è dato dal risultato dell'accantonamento di una specie di quattordicesima mensilità, che viene messa da parte ogni anno dall'amministrazione. E che viene versata in un'unica soluzione quando il lavoratore cessa dal servizio. Di qui il minore importo rispetto al Tfs.
Oltre tutto la trattenuta del 2,50%, che veniva applicata ai fini del Tfs, veniva calcolata ponendo come base l'80% dell'importo della retribuzione. Ma a questo scopo assumevano rilievo solo alcune voci stipendiali. E cioè: lo stipendio tabellare, l'indennità integrativa speciale, l'eventuale assegno ad personam o la vacanza contrattuale. Rimanevano invece fuori dal calcolo: la retribuzione professionale docente (per gli insegnanti), il compenso individuale accessorio (per gli Ata), l'indennità di direzione e l'indennità di risultato (per direttivi e dirigenti). L'applicazione della trattenuta del 2,5% su somme in regime di Tfr ha determinato, dunque, due effetti deteriori.
Il primo è la decurtazione della retribuzione calcolata al lordo, comprendendo tutte le voci stipendiali, nessuna esclusa. E dunque un aumento comunque illegittimo dell'importo della trattenuta. Aumento al quale fa riscontro una liquidazione di minore importo rispetto a quella fissata dalla vecchia disciplina. Il secondo è l'applicazione di una decurtazione non dovuta, a carico dei soli dipendenti pubblici, nonostante il passaggio al nuovo regime avrebbe dovuto comportare il mero obbligo di accantonamento del 6,91% della retribuzione lorda onnicomprensiva, a solo carico dell'amministrazione in quanto datore di lavoro.
E quindi, la Corte costituzionale ha ritenuto di dichiarare che la nuova disciplina «determina irragionevolmente l'applicazione dell'aliquota del 6,91% sull'intera retribuzione, senza escludere nel contempo la vigenza della trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50% della base contributiva della buonuscita». Di qui la pronuncia di illegittimità costituzionale (articolo ItaliaOggi del 16.10.2012).

EDILIZIA PRIVATA: La demolizione, quale misura volta a garantire il ripristino della legalità violata, non opera solo quale sanzione rivolta contro il responsabile dell'abuso, ma legittimamente può essere irrogata nei confronti del proprietario dell'immobile, anche qualora non responsabile dell'abuso, proprio perché il proprietario in tale veste trovasi in una relazione giuridica qualificata con l'immobile oggetto di abuso, che gli consente di attivarsi onde renderlo conforme alla normativa urbanistica ed edilizia vigente.
Inoltre, la prevalente giurisprudenza è incline a ritenere legittimamente applicabili le sanzioni demolitorie nei confronti del proprietario dell'immobile abusivo, non avendo l'amministrazione alcun obbligo di compiere accertamenti giuridici circa l'esistenza di particolari rapporti interprivati, ma solo l'onere di individuare il proprietario catastale.
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E’ “ius receptum” di questo Tribunale che l'ordine di demolizione di opera abusiva, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione e correlativa esplicazione delle ragioni di interesse pubblico attuale e concreto alla demolizione né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, poiché non è ravvisabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il trascorrere del tempo non può legittimare.
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L’ordine di demolizione può essere rivolto anche all’usufruttuario il quale in virtù della particolare ampiezza del diritto di cui è titolare, può essere equiparato al proprietario.

Quanto al primo motivo, deve essere ribadita la legittimità dell'operato comunale, per avere applicato la sanzione edilizia agli attuali proprietari anziché al responsabile dell'abuso.
Sennonché, per costante giurisprudenza (p.e. fra le recenti cfr. TAR Liguria, I, 18/05/2012, n. 705) la demolizione, quale misura volta a garantire il ripristino della legalità violata, non opera solo quale sanzione rivolta contro il responsabile dell'abuso, ma legittimamente può essere irrogata nei confronti del proprietario dell'immobile, anche qualora non responsabile dell'abuso, proprio perché il proprietario in tale veste trovasi in una relazione giuridica qualificata con l'immobile oggetto di abuso, che gli consente di attivarsi onde renderlo conforme alla normativa urbanistica ed edilizia vigente (TAR Campania-Napoli, VIII, 06.04.2011, n. 1945; TAR Lombardia, IV, 09.03.2011, n. 644; TAR Campania-Salerno, II, 15.02.2006, n. 96; TAR Veneto, II, 09.12.2003, n. 6064).
Inoltre, la prevalente giurisprudenza (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 27.10.2011 n. 5758; id. 12.04.2011, n. 2266; sez. V, 31.03.2010, n. 1878; TAR Lombardia, Milano, II, 14/06/2012 n. 1656) è incline a ritenere legittimamente applicabili le sanzioni demolitorie nei confronti del proprietario dell'immobile abusivo, non avendo l'amministrazione alcun obbligo di compiere accertamenti giuridici circa l'esistenza di particolari rapporti interprivati, ma solo l'onere di individuare il proprietario catastale (cfr. sulla natura riparatoria-ripristinatoria delle sanzioni amministrative correlate all'abusivismo edilizio, come tali prive del carattere esclusivamente punitivo proprio dei procedimenti sanzionatori considerati dalla L. 689/1981: Cons. di Stato, sez. II, 13.11.1996, n. 1026 secondo cui: "la sanzione pecuniaria per abuso edilizio non è retributiva di un comportamento illecito, bensì ripristinatoria dell'ordine urbanistico violato, seppure per equivalente" e pertanto non prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la realizzazione dell’abuso).
Comunque, la mancata notifica al preteso responsabile dell’abuso giammai avrebbe potuto orientare diversamente l’amministrazione in sede di repressione degli abusi atteso che la perizia di parte dell’Ing. Lombardi è stata inoltrata al Comune solo in data successiva all’adozione e alla notifica dell’atto impugnato; come rilevato dall’amministrazione, detta perizia si limita ad escludere che le opere abusive possano essere state eseguite dopo l’acquisto, ma non imputa specificamente a terzi la commissione degli abusi.
Pure infondata è la censura relativa al difetto di motivazione inficiante l’atto impugnato con riferimento al lungo lasso temporale trascorso dalla realizzazione degli abusi e in riferimento all’affidamento degli istanti.
E’ “ius receptum” di questo Tribunale che l'ordine di demolizione di opera abusiva, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione e correlativa esplicazione delle ragioni di interesse pubblico attuale e concreto alla demolizione né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, poiché non è ravvisabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il trascorrere del tempo non può legittimare (TAR Basilicata Potenza, sez. I, 06.04.2011, n. 159; TAR Basilicata Potenza, 15.02.2006, n. 96; TAR Basilicata Potenza, 17.07.2002, n. 518).
Inoltre, è infondato anche il secondo motivo atteso che l’ordine di demolizione può essere rivolto anche all’usufruttuario il quale in virtù della particolare ampiezza del diritto di cui è titolare, può essere equiparato al proprietario (TAR Basilicata, sentenza 04.10.2012 n. 456 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Canna fumaria, conta chi la usa. Il bene può anche non essere di proprietà condominiale. Per la Cassazione prevale la prova della destinazione sulla presunzione di comunione.
La canna fumaria, anche se ricavata all'interno di un muro comune, può anche non essere di proprietà condominiale, laddove la presunzione di comunione del bene sia vinta in concreto dalla prova della destinazione oggettiva del bene a servire in modo esclusivo uno solo dei comproprietari.

Questo il principio stabilito dalla II Sez. civile della Corte di Cassazione nella recente sentenza 25.09.2012 n. 16306.
La presunzione di comunione dei beni. Il codice civile, all'art. 1117, elenca una serie di beni che si presumono di natura condominiale, ossia destinati all'utilizzo e al godimento di tutti i comproprietari: il suolo su cui sorge l'edificio, le fondazioni, i muri maestri, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni d'ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili, i locali per la portineria e per l'alloggio del portiere, per la lavanderia, per il riscaldamento centrale ecc..
Detti beni, come detto, si presumono oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piani di un edificio, a meno che, per utilizzare il linguaggio codicistico, il contrario non risulti dal titolo. Con quest'ultima espressione, come chiarito anche dalla Suprema corte nella sentenza in questione, si intende fare riferimento non solo ad atti formali, come ad esempio il regolamento condominiale, ma anche a circostanze di fatto, quali la destinazione funzionale del bene.
Il caso concreto. Nella specie due condomini, proprietari di un appartamento, avevano citato avanti alla pretura di Roma i proprietari dell'appartamento soprastante. I primi, sul presupposto che nell'incavo del muro maestro era stato installato da tempo immemorabile un caminetto con relativa canna fumaria che attraversava la parete condominiale del sovrastante appartamento di proprietà dei convenuti, lamentavano il fatto che questi ultimi avessero innestato a loro volta nella predetta canna fumaria un'altra tubatura, provocandone l'occlusione, per cui chiedevano al giudice di accertare la loro proprietà esclusiva della canna fumaria in questione, con condanna dei convenuti al ripristino dello stato dei luoghi. Si erano però costituiti in giudizio i convenuti, chiedendo il rigetto della domanda attrice, sostenendo che la canna fumaria fosse invece di loro proprietà esclusiva.
La decisione della Cassazione. I giudici di legittimità, ritenendo che nel caso in questione fosse essenziale stabilire alternativamente se la canna fumaria inserita nell'edificio condominiale costituisse o meno opera all'esclusivo servizio dell'unità immobiliare degli attori originari, ovvero di quella dei convenuti originari o se, infine, la stessa ricadesse nel novero delle cose comuni ai sensi dell'art. 1117 c.c., hanno quindi concluso nel senso che, sulla base delle risultanze processuali, il titolo attributivo dell'esclusiva proprietà del bene agli attori andava ricercato nella destinazione funzionale dell'opera predetta all'esclusivo servizio del loro appartamento.
Nel fare questo la Suprema corte si è richiamata a un precedente di legittimità (sentenza n. 9231/1991) nel quale analogamente era stato stabilito che una canna fumaria, anche se ricavata nel vuoto di un muro comune, non è necessariamente di proprietà comune, ben potendo appartenere a uno solo dei condomini, ove sia destinata a servire esclusivamente l'appartamento cui afferisce, costituendo detta destinazione titolo contrario alla presunzione legale di comunione. Di qui il rigetto del ricorso presentato dai condomini convenuti in primo grado che, dopo aver presentato inutilmente appello avverso la sentenza della pretura di Roma, si sono visti condannare anche alle spese del giudizio di legittimità.
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Non si può pregiudicare il decoro della facciata.
Le canne fumarie all'interno del condominio rappresentano da sempre una delle principali cause di litigio tra condomini. In assenza di titolo contrario (il regolamento di condominio, un atto di acquisto delle singole unità, una sentenza passata in giudicato che ne accerti l'usucapione), la canna fumaria si presume comune.
Tuttavia non è necessariamente di proprietà comune, ben potendo appartenere a un gruppo di condomini o a uno solo dei comproprietari, ove sia destinata a servire esclusivamente un determinato appartamento. In ogni caso non si può escludere che il singolo condomino debba installare una nuova canna fumaria nelle parti comuni. Tale ipotesi è normalmente ammessa, purché si rispettino determinati requisiti. Al contrario è da escludere che un singolo condomino possa utilizzare la canna fumaria dell'impianto centrale di riscaldamento anche se questo sia stato disattivato dal condominio, perché si avrebbe una definitiva sottrazione della canna fumaria alle possibilità di godimento della restante parte dei condomini (in questo caso è necessario il consenso di tutti gli altri condomini).
Installazione di canna fumaria in facciata. L'appoggio di una canna fumaria al muro comune perimetrale di un edificio condominiale comporta una modifica della cosa comune conforme alla destinazione della stessa, che ciascun condomino può apportare a sue cure e spese. Del resto si deve considerare la normale possibilità del muro stesso di contenere o reggere una o più canne fumarie, senza subire alterazione apprezzabile della sua principale funzione e senza compromettere l'uso da parte degli altri condomini. Tali considerazioni valgono a maggiore ragione nel caso in cui l'opera sia diretta a evitare la diffusione dei fumi di cottura di un ristorante, che incidono in modo particolare sulle condizioni di vita di tutti i condomini.
Certo tale appoggio non deve pregiudicare il decoro del caseggiato, incidendo negativamente sull'insieme dell'aspetto dello stabile (e ciò a prescindere dal particolare pregio estetico dell'edificio). Così, ad esempio, deve ritenersi illegittima l'installazione di una canna fumaria che percorra tutta la facciata dell'edificio condominiale, così da pregiudicare l'aspetto e l'armonia del condominio.
Allo stesso modo la canna fumaria deve essere di dimensioni tali da non ridurre considerevolmente la visuale da parte degli altri condomini che usufruiscano di vedute dalla facciata interessata.
Il discorso si collega alla compatibilità dell'installazione di una canna fumaria rispetto delle distanze legali. A tale proposito si deve precisare che le norme in materia sono applicabili anche nei rapporti tra il condominio e il singolo condomino nel caso in cui esse siano compatibili con l'applicazione delle norme particolari relative all'uso delle cose comuni, cioè nel caso in cui sia possibile una applicazione complementare. Quindi, qualora vi sia compatibilità tra le due discipline, la distanza legale per la collocazione di una canna fumaria sul muro perimetrale comune, a opera di uno dei condomini, non può essere inferiore a 75 centimetri dai più vicini sporti dei balconi di proprietà esclusiva degli altri comproprietari.
In ogni caso una canna fumaria installata in un condominio ex novo e senza alcuna previa autorizzazione condominiale va rimossa qualora provochi immissioni che superino la normale soglia di tollerabilità o, quanto meno, dovranno essere adottate le misure tecniche idonee a limitare il disagio arrecato. Del resto è possibile che il regolamento di condominio preveda limiti più rigorosi nell'installazione di una nuova canna fumaria da parte del singolo condominio.
Installazione di canna fumaria sul lastrico solare. Qualora l'installazione della canna fumaria vada a interessare una porzione di lastrico solare, occorrerà verificare se tale installazione alteri o meno la funzione di protezione e calpestio del lastrico stesso e se sottragga il lastrico o parte di esso alla possibilità di utilizzo da parte degli altri condomini. Occorrerà pertanto valutare caso per caso se l'installazione sia legittima.
La giurisprudenza ha poi ritenuto che se il condomino inserisce la propria canna fumaria nel lastrico solare comune, incorporandone una porzione con opere murarie, al servizio esclusivo del proprio appartamento, non ne compromette la destinazione se occupa una zona periferica del tutto trascurabile rispetto alla superficie complessiva del lastrico, senza che possa, in concreto, escludersi la funzione di calpestio del lastrico o le possibilità di uso degli altri comproprietari.
Al contrario il condomino che, senza previa autorizzazione, inserisca stabilmente e con opere murarie una canna fumaria di dimensioni non limitate in corrispondenza dell'esiguo cordolo perimetrale del lastrico solare destinato a stenditoio, pone in essere un'occupazione stabile e duratura, non consentita dalla legge, sottraendo la relativa porzione di bene comune all'uso e al godimento degli altri condomini (articolo ItaliaOggi Sette del 15.10.2012).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: ABUSO DI UFFICIO: rilascio di permesso di costruire contrario agli strumenti urbanistici - configurabilità del reato (art. 323 c.p.).
E’ configurabile il reato di abuso di ufficio, nell'ipotesi di rilascio di permesso edilizio in contrasto con gli strumenti urbanistici generali, stante la loro natura di atti da ritenersi equiparati alle norme regolamentari, la cui violazione è richiesta ai fini della configurabilità dell'art. 323 c.p..
In particolare, il rilascio di titolo abilitativo illegittimo costituisce il presupposto di fatto della violazione della normativa primaria in materia edilizia, alla quale deve comunque farsi riferimento quale dato strutturale della fattispecie criminosa (Cassazione penale, sez. III, 09/04/2008, n. 22134; sez. 6, 2001/16241, Ruggeri, RV 218516; conf. sez. 6, 2003/20475, Casagrande ed altri, RV 225185).
E quand’anche il piano regolatore non possa equipararsi al "regolamento” richiamato dallo stesso art. 323 c.p., la condotta violerebbe direttamente la legge, e precisamente le norme della l. n. 1150 del 1942 e s.m.i. ,della L. n. 10/1977 e –da ultimo- dell’art. 12 DPR 380/2001, secondo cui gli atti dei p.u. in relazione a domande di concessione edilizia devono essere conformi a quanto previsto dai piani regolatori e dai regolamenti edilizi; laddove il provvedimento amministrativo svolge una funzione integrativa rispetto agli elementi normativi del fatto (Cassazione penale, sez. V, 31/01/2001; Cassazione penale, sez. VI, 05/09/2000, n. 9422; Cassazione penale, sez. VI, 11/05/1999, n. 8194 ) (TRIBUNALE di Nola, Coll. B, sentenza 15.12.2011 - link a www.iussit.eu).

AGGIORNAMENTO AL 15.10.2012

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dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: R. Pagliaro, Nessuna sbrigativa gestione associata di uffici o servizi (15.10.2012).

UTILITA'

ENTI LOCALI: La Bussola della Trasparenza dei Siti Web - Per orientare e monitorare l'attuazione delle linee guida siti web nelle pubbliche amministrazioni (link a www.magellanopa.it/bussola).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Aiello, IL REATO DI ABBANDONO DI RIFIUTI SPECIALI COSTITUITI DA PNEUMATICI FUORI USO IN AREA PRIVATA – LINEE GUIDA E PROCEDURE OPERATIVE PER GLI ADDETTI AI CONTROLLI (link a www.lexambiente.it).

URBANISTICA: F. R. Maellaro, LA LEGITTIMAZIONE AL RICORSO IN MATERIA URBANISTICA (link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: P. Giampietro, Il nuovo statuto delle terre e rocce da scavo (link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: G. Ferrari, EFFICACIA TEMPORALE E DECADENZA DEL PERMESSO DI COSTRUIRE (link a www.lexambiente.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa Sezione si pronuncia in ordine allo svolgimento in forma associata di funzioni fondamentali ai sensi della L. n. 135/2012.
Il Sindaco del Comune di Valle Lomellina (PV) ha posto alla Sezione una articolata richiesta di parere in ordine allo svolgimento in forma associata di funzioni fondamentali ai sensi della l. n. 135/2012.
Più nel dettaglio, l’organo rappresentativo dell’ente precisa quanto segue.
Il Comune di Valle Lomellina, la cui popolazione è pari a 2.250 abitanti, alla luce della vigente normativa ha l'obbligo di associarsi per lo svolgimento delle nove funzioni fondamentali come previste, da ultimo, dal comma 1 dell'articolo 19 del d.l. n. 95/2012 convertito in legge n. 135/2012, o comunque di rivedere, alla luce delle novità introdotte dalla suddetta legge n. 135/2012, le forme associative già costituite con altri comuni nelle forme dell'unione o della convenzione.
Ciò premesso,
il Sindaco pone i seguenti quattro quesiti.
A) In assenza di limite minimo dimensionale nazionale per le convenzioni (che non appare rinvenirsi nella legge n. 135/2012), trova comunque applicazione la legge regionale lombarda n. 22/2011 (che fissa in 5.000 abitanti o nel quadruplo degli abitanti del comune demograficamente più piccolo tra quelli associati il limite dimensionale minimo per le convenzioni) anche se precedente alla legge statale n. 135/2012?
B) In caso di gestione delle varie funzioni mediante convenzione o unione, a ciascuna funzione fondamentale può essere preposto un solo responsabile di servizio (titolare di posizione organizzativa), anche se la funzione comprende servizi diversi ed eterogenei? In tal caso tale soluzione implica ripercussioni sulle correlative posizioni organizzative nei comuni aderenti alle due modalità di gestione associata?
C) Il comma 5 dell'art. 32 del d.lgs. n. 267/2000 -come modificato dall'articolo 19 del d.l. n. 95/2012 convertito in legge n. 135/2012– statuisce che "all’unione sono conferite dai comuni partecipanti le risorse umane e strumentali necessarie all'esercizio delle funzioni loro attribuite". Orbene, tale disposizione deve interpretarsi nel senso che, ove i comuni costituiscano o siano già in unione, la gestione delle (nove) funzioni fondamentali deve avvenire mediante comando o trasferimento (o altra forma di utilizzo) del personale dal comune all'unione, con transito della gestione del personale preposto alla funzione associata a valere sul bilancio dell'unione?
D) Quali sono le interrelazioni, in caso di gestione associata a mezzo di Unione ex art. 32 del d.lgs. n. 267/2000 o convenzione ex art 30 del d.lgs. n. 267/2000 con gli obblighi che -dal 2013- graveranno sui comuni sopra i 1.000 abitanti, assoggettati al patto di stabilità, con specifico riferimento alle spese di personale?

...
Con il primo quesito il Sindaco si interroga se, in assenza di un limite minimo dimensionale nazionale per le convenzioni (che non appare rinvenirsi nella legge 135/2012), trovi comunque applicazione ad un Comune ricompreso tra i 1.000 e i 5.000 abitanti la legge regionale lombarda n. 22/2011 (che –all’art. 8, comma 1, e salve le deroghe di cui al successivo art. 10- fissa in 5.000 abitanti o nel quadruplo degli abitanti del comune demograficamente più piccolo tra quelli associati il limite dimensionale minimo per le convenzioni), anche se precedente alla legge statale n. 135/2012.
Il Collegio osserva che
la citata disposizione di legge regionale non appare ex se incompatibile con il vigente assetto normativo di fonte statale ex art. 19 del d.l. n. 95/2012, il quale –in relazione alle convenzioni in oggetto– statuisce quanto segue: “le convenzioni … hanno durata almeno triennale e alle medesime si applica, ove compatibile, l’articolo 30 del decreto legislativo 18.08.2000 n. 267. Ove alla scadenza del predetto periodo non sia comprovato, da parte dei comuni aderenti, il conseguimento di significativi livelli di efficacia e di efficienza nella gestione, secondo modalità stabilite con decreto del Ministro dell’Interno, da adottare entro sei mesi, sentita la Conferenza Stato Città ed autonomie locali, i comuni interessati sono obbligati ad esercitare le funzioni fondamentali esclusivamente mediante unione di comuni”.
Anzi, la predeterminazione di una soglia demografica minima da parte del Legislatore regionale, peraltro -come illustrato- non priva di caratteri di flessibilità, appare coerente con la specifica finalità cristallizzata dal Legislatore statale di conseguire livelli di efficacia e di efficienza nella gestione sovracomunale delle funzioni mediante convenzione.
D’altronde, è la medesima normativa nazionale (art. 14, commi 30 e 31, del d.l. n. 78/2010 a seguito della novella ex art. 19 del d.l. n. 95/2012) che, al fine di tutelare i principi di efficacia, di economicità, di efficienza e di riduzione delle spese, ha demandato alla normativa regionale –nelle materie di cui al terzo e quarto comma dell’art. 117 della Costituzione e previa concertazione con i comuni interessati nell’ambito del Consiglio delle autonomie locali– l’individuazione della dimensione territoriale ottimale e omogenea per area geografica (oltre che il termine per l’esercizio delle predette funzioni), individuando comunque, per le unioni, salvo diversa indicazione regionale nel termine previsto, un limite demografico minimo di 10.000 abitanti (cfr., sul punto, Corte dei Conti, Sez. Basilicata, delibera n. 173 del 20.09.2012).
Con il secondo quesito, l’Amministrazione si interroga da un lato se, in caso di gestione delle varie funzioni mediante convenzione o unione, a ciascuna funzione fondamentale possa essere preposto un solo responsabile di servizio (titolare di posizione organizzativa), anche se la funzione comprende servizi diversi ed eterogenei; dall’altro, sorge il dubbio in capo al Comune istante se, in tal caso, siffatta soluzione implichi ripercussioni sulle correlative posizioni organizzative nei comuni aderenti alle due modalità di gestione associata.
Orbene, spettando ad ogni Ente interessato, e quindi anche al Comune di Valle Lomellina (PV), la concreta attuazione del disposto legislativo citato sopra, la Sezione non può pronunciarsi in questa sede nel merito sulla convenienza e correttezza di particolari soluzioni.
Al fine di contribuire a chiarire il contesto normativo e finanziario all’interno del quale è stata introdotta la norma che prevede l’unificazione delle funzioni, così da agevolare il compito attuativo che spetta all’Ente interessato, il Collegio evidenzia peraltro recenti approdi ermeneutici della giurisprudenza contabile (Corte Conti, sez. Piemonte, parere 30.08.2012 n. 287), da cui non vi è ragione di discostarsi in questa sede, di seguito testualmente richiamati.
Come più volte indicato, in base all’art. 14, co. 27 e segg., del d.l. 31.05.2010, n. 78, conv. dalla legge 30.07.2010, n. 122, come modificata ed integrata dall’art. 19 del d.l. 06.07.2012, n. 95, conv. dalla legge 07.08.2012, n. 135, i Comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti sono tenuti ad esercitare “obbligatoriamente, in forma associata, mediante unione di comuni o convenzione, le funzioni fondamentali dei comuni di cui al comma 27, ad esclusione della lettera l)” (art. 27, co. 28).
Peraltro, il legislatore ha indicato l’obiettivo dell’esercizio associato delle funzioni, da raggiungere progressivamente, ma non ha fornito indicazioni in merito alle conseguenze che questo potrà avere sia sull’organizzazione dei singoli enti che sulla gestione dei rapporti di lavoro dei dipendenti.
E’ indubbio che lo scopo perseguito con la previsione contenuta nei commi 27 e segg. del citato art. 14 del d.l. n. 78, conv. dalla legge n. 122 del 2010, è quello di migliorare l’organizzazione degli Enti interessati al fine di fornire servizi più adeguati sia ai cittadini che alle imprese, nell’osservanza dei principi di economicità, efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa.
Spetta, quindi, agli Enti interessati dalla procedura di aggregazione delle funzioni individuare le modalità organizzative ottimali, al fine di raggiungere gli obiettivi di maggior efficienza, razionalizzazione e risparmio che il legislatore intendeva conseguire prevedendo l’esercizio associato delle funzioni.
Con specifico riguardo alla concreta organizzazione di ciascuna funzione,
è evidente che gli Enti interessati dall’aggregazione debbano unificare gli uffici e, a seconda delle attività che in concreto caratterizzano la funzione, prevedere la responsabilità del servizio in capo ad un unico soggetto che disponga dei necessari poteri organizzativi e gestionali, nominato secondo le indicazioni contenute nell’art. 109 del TUEL.
L’atto costitutivo dell’unione o la convenzione predisposta per la gestione associata dei servizi dovrà prevedere le modalità di nomina dei Responsabili dei servizi e ciascun Ente dovrà adeguare il proprio Regolamento degli Uffici e dei servizi per poter procedere allo svolgimento associato delle funzioni.
Nella predisposizione del modello organizzativo gli Enti interessati dovranno tenere conto degli obiettivi di finanza pubblica sottesi al citato art. 14, co. 27 e segg., del d.l. n. 78 del 2010, come modificato ed integrato dall’art. 19 del d.l. 06.07.2012, n. 95, conv. dalla legge 07.08.2012, n. 135, e
dovranno, quindi, evitare di adottare soluzioni organizzative che, di fatto, si pongano in contrasto con le finalità, anche di risparmio di spesa, perseguite dal legislatore e che, nella sostanza, mantengano l’organizzazione precedente.
L’esercizio unificato della funzione implica che sia ripensata ed organizzata ciascuna attività, cosicché ciascun compito che caratterizza la funzione sia considerato in modo unitario e non quale sommatoria di più attività simili. Lo svolgimento unitario di ciascuna funzione non implica necessariamente che la stessa debba far capo ad un unico ufficio in un solo Comune, potendosi ritenere, in relazione ad alcune funzioni, che sia possibile il mantenimento di più uffici in Enti diversi.
Ma anche in questi casi l’unitarietà della funzione comporta che la stessa sia espressione di un disegno unitario guidato e coordinato da un Responsabile, senza potersi escludere, in linea di principio, che specifici compiti ed attività siano demandati ad altri dipendenti.
Spetta agli Enti interessati disegnare, in concreto, la nuova organizzazione delle funzioni, adottando un modello che non si riveli elusivo degli intenti di riduzione della spesa, efficacia, efficienza ed economicità perseguiti dal legislatore (come si evince espressamente dal co. 30 del citato art. 14 del d.l. n. 78), non essendo sufficiente che il nuovo modello organizzativo non preveda costi superiori alla fase precedente nella quale ciascuna funzione era svolta singolarmente da ogni Ente.
In proposito,
una soluzione che lasciasse intravedere un’unificazione solo formale delle attività rientranti in ciascuna funzione e che, di fatto, permettesse a ciascun Ente di continuare a svolgere con la sua organizzazione ed ai medesimi costi i compiti inerenti alla funzione non risponderebbe all’obbligo previsto dall’art. 14, co. 27 e segg., del d.l. 31.05.2010, n. 78, conv. dalla legge 30.07.2010, n. 122, come modificato e integrato dal citato art. 19 del d.l. n. 95, conv. dalla legge n. 135 del 2012.
In relazione al terzo quesito, l’Amministrazione istante si interroga se la gestione delle (nove) funzioni fondamentali debba avvenire mediante comando o trasferimento (o altra forma di utilizzo) del personale dal comune all'unione con transito della gestione del personale preposto alla funzione associata a valere sul bilancio dell'unione.
A questo proposito, la Sezione rammenta la necessità che il Comune provveda a dotare l’unione delle necessarie risorse umane per lo svolgimento delle funzioni ad essa attribuite, come -peraltro- espressamente statuito dal dato legale richiamato dall’ente locale (art. 32, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000, novellato dall’art. 19 del d.l. n. 95/2012 convertito nella l. n. 135/2012).
In linea di principio, ne deriva, in sede di valutazione delle modalità di trasferimento del personale all’unione, l’allocazione stabile dei dipendenti nella dotazione organica dell’ente strumentale, anche in ossequio ai principi di prudente programmazione finanziaria ed amministrativa nonché di sana gestione, che richiedono una adeguata simmetria tra risorse umane e funzioni esercitate, con i relativi oneri a carico dell’unione. All’esito del predetto trasferimento, il Comune avrà cura di rideterminare la propria dotazione organica, tenendo conto delle funzioni e del personale in capo all’unione.
Per quanto concerne il quarto quesito, il Sindaco chiede quali siano le interrelazioni, in caso di gestione associata a mezzo di unione ex art. 32 del d.lgs. n. 267/2000 o convenzione ex art. 30 del d.lgs. n. 267/2000 con gli obblighi che -dal 2013– si applicano ai comuni sopra i 1.000 abitanti assoggettati al patto di stabilità, con specifico riferimento alle spese di personale.
Orbene, i Comuni con popolazione compresa tra 1.001 e 5.000 abitanti dal 2013 dovranno osservare la disciplina relativa al Patto di stabilità interno (art. 16, co. 31, del d.l. 13.08.2011, n. 138, conv. dalla legge 14.09.2011, n. 148, recante “Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo”) e, pertanto, saranno assoggettati anche alla disciplina relativa alle spese di personale e ai vincoli per le assunzioni dettati per gli Enti sottoposti al Patto.
In proposito, la Sezione delle autonomie della Corte ha rilevato che “l’estensione del Patto a tutti i Comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti, oltre a non presentare specifiche incompatibilità sul piano formale, non offre motivi plausibili per sottrarre taluni di essi all’immediata e uniforme applicazione dei vincoli di contenimento della spesa, alla luce, soprattutto, dei recenti interventi correttivi di finanza pubblica dettati dalla eccezionale situazione di crisi finanziaria. Invero, l’esigenza di assicurare il mantenimento di servizi minimi ed essenziali, in contesti in cui la riorganizzazione delle residue risorse umane disponibili all’interno del singolo ente locale non è in grado di evitare una sostanziale paralisi degli stessi, può trovare adeguata compensazione in misure di razionalizzazione della spesa che facciano leva sull’associazionismo comunale previsto e disciplinato dall’art. 16 del citato D.L. n. 138/2011, quale modulo organizzativo più flessibile, economico ed efficiente fruibile ai fini dell’esercizio di tutte le funzioni fondamentali e dei correlati servizi pubblici di competenza comunale…(omissis). Sebbene non siano state previste specifiche disposizioni di diritto intertemporale volte a regolare il passaggio tra i due assetti normativi, l’estensione della disciplina del Patto ai Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti è avvenuta assicurando, comunque, un congruo arco temporale durante il quale gli stessi enti potranno provvedere a riprogrammare non soltanto le procedure di reclutamento, in linea con il preannunciato regime vincolistico, ma anche i livelli complessivi di spesa, così da poterli rendere compatibili con i previsti obiettivi di saldo finanziario…” (Corte conti, Sez. Autonomie, deliberazione 11.05.2012 n. 6; cfr. altresì Corte Conti, Sez. Piemonte, 30.08.2012, n. 288).
Per quanto concerne le modalità di computo, la giurisprudenza contabile ha da tempo valorizzato una considerazione sostanziale della spesa di personale, secondo la quale la disciplina vincolistica in tale materia non può incidere solo per il personale alle dirette dipendenze dell’ente, ma anche per quello che svolge la propria attività al di fuori dello stesso e, comunque, per tutte le forme di esternalizzazione. Ciò significa che l’amministrazione, al fine di rendere correttamente le certificazioni e attestazioni relative al rispetto dei parametri di spesa per il personale previsto dalla vigente normativa, dovrà conteggiare la quota parte di spesa di personale dell’unione che sia riferibile al Comune stesso. Allo scopo dovrà reperire ed adottare idonei criteri per determinare la misura della spesa di personale propria dell’unione che sia riferibile pro quota al Comune (Corte dei Conti, Sez. Autonomie n. 8/2011).
Questo consolidato principio ermeneutico non appare confliggere con il tenore dell’art. 32, comma 5, del TUEL, novellato dall’art. 19 del d.l. n. 95/2012 (convertito nella l. n. 135/2012), secondo cui in relazione alle funzioni attribuite la spesa sostenuta per il personale dell’unione non può comportare, in sede di prima applicazione, il superamento della somma delle spese di personale sostenute precedentemente dai singoli comuni partecipanti, fermi i vincoli previsti dalla vigente normativa in materia di personale. A regime, precisa tale disposizione, attraverso specifiche misure di razionalizzazione organizzativa e una rigorosa programmazione dei fabbisogni, devono essere assicurati progressivi risparmi di spesa in materia di personale (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 08.10.2012 n. 426).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: La Sezione, nel rendere parere in merito alla corretta interpretazione dell’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006, relativo all’attribuzione del c.d. incentivo alla progettazione a favore dei dipendenti dell’ufficio tecnico comunale, riferisce che nel caso in cui l’attività di progettazione sia stata affidata a professionisti esterni, le rispettive quote del fondo incentivante sono devolute in economia, costituendo un risparmio per l’amministrazione. L’eventuale attività prestata dal personale interno prima della fase di aggiudicazione (RUP e “collaboratori” specificatamente individuati ex art. 10 e 92, comma 5, d.lgs. 163/2006), ove l’incentivazione sia prevista dal regolamento interno (e quest’ultimo non richieda anche la successiva aggiudicazione) deve essere limitata alla quota spettante per la fase di gara (e non anche alle quote previste, sempre per RUP e collaboratori, per la fase esecutiva non realizzata). Nessun compenso è dovuto in questo caso (in quanto non riferibile ad attività espletata) per la direzione lavori, il coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione ed il collaudo.
Il Sindaco del Comune di Rivolta d’Adda, con nota del 19.09.2012, ha formulato alla Sezione una richiesta di parere, ex art. 7, comma 8, della legge n. 131/2003, in merito alla corretta interpretazione dell’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006, relativo all’attribuzione del c.d. incentivo alla progettazione a favore dei dipendenti dell’ufficio tecnico comunale.
Riferisce che il vigente regolamento comunale per la ripartizione del predetto incentivo prevede quanto segue: “La ripartizione della somma accantonata è effettuata in due fasi:
- la prima, pari al 50% dell’importo dovuto, ad avvenuta approvazione del progetto esecutivo e la seconda a saldo ad avvenuta emissione del certificato di ultimazione dei lavori e/o collaudo.
- la mancata realizzazione dell’opera o del lavoro non comporterà l’erogazione dell’incentivo relativamente alla parte spettante per la direzione lavori e fasi successivi
”.
Sulla scorta di quanto precede il Sindaco
chiede un parere articolato in due punti:
1) se il secondo capoverso della disposizione sopra evidenziata, che comporta l’erogazione dell’incentivo al RUP e agli altri collaboratori dell’ufficio tecnico per le fasi realizzate, sia conforme alla normativa vigente;
2) se l’erogazione dell’incentivo in favore del personale interno, qualora l’opera sia stata progettata da professionisti esterni e non sia mai stata appaltata (per diversa decisione dell’Amministrazione comunale), possa considerarsi legittima.

...
Appare opportuno richiamare il dettato normativo (art. 92, comma 5, d.lgs. n. 163/2006, c.d. Codice dei contratti pubblici), oggetto della richiesta di parere che, nella formulazione vigente, così recita: “Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti; limitatamente alle attività di progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo dipendente non può superare l'importo del rispettivo trattamento economico complessivo annuo lordo; le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie”.
La disciplina in discorso è stata già oggetto di attenzione da parte di precedenti pronunce della Corte dei conti (cfr., fra le altre, Sezione Autonomie delibera 13.11.2009 n. 16/2009, Sezione Veneto parere 26.07.2011 n. 337, Sezione Piemonte parere 30.08.2012 n. 290, Sezione Lombardia parere 06.03.2012 n. 57 e parere 30.05.2012 n. 259) alle cui motivazioni e conclusioni può farsi riferimento per l’analisi dei profili generali.
La norma va letta nel complessivo contesto delle modalità d’affidamento degli incarichi tecnico professionali, previste dalla legislazione in materia di contratti pubblici. Quest’ultima (si rinvia agli artt. 10, 84, 90, 112, 120 e 130 del d.lgs. 163/2006) è informata da un principio generale, già codificato dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, in base al quale i predetti incarichi possono essere conferiti a soggetti esterni al plesso amministrativo solo se non si disponga di professionalità adeguate nel proprio organico e tale carenza non sia altrimenti risolvibile con strumenti flessibili di gestione delle risorse umane. Tale presupposto mira a preservare le finanze pubbliche oltre che a valorizzare il personale interno alle amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi ordinarie in cui gli incarichi tecnici sono espletati da personale interno, ai fini della loro remunerazione, occorre far riferimento alle regole generali previste per il pubblico impiego, il cui sistema retributivo è conformato da due principi cardine, quello di definizione contrattuale delle componenti economiche e quello di onnicomprensività della retribuzione (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001, nonché Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Puglia, sentenze nn. 464/2010,
22.07.2010 n. 475 e 02.08.2010 n. 487). Secondo questi ultimi nulla è dovuto, oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che rientra nei suoi doveri d’ufficio, anche se di particolare complessità.
Tale principio ha, nel sistema delineato dal d.lgs. 165/2001 (applicabile anche al personale degli enti locali in forza dell’art. 1, comma 2, del medesimo decreto) vari addentellati normativi.
Per il personale dirigente, la base giuridica è rinvenibile nell’art. 24, comma 3 («tutte le funzioni ed i compiti attribuiti ai dirigenti in base a quanto previsto dal presente decreto, nonché qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o comunque conferito dall’amministrazione»). Per il personale non dirigente, il fondamento si rinviene nel combinato disposto degli artt. 2, 40, 45 e 53 e si dipana come corollario del canone dell’articolazione legale e contrattuale della struttura retributiva: poiché la determinazione del corrispettivo per le prestazioni dei dipendenti è rimessa alla contrattazione collettiva (salve le eccezioni previste dalla legge), ne consegue che quanto previsto da quest’ultima retribuisce ogni attività che ricade nei doveri d’ufficio (principio di onnicomprensività).
Per contro, il contratto individuale (che deve conformarsi al CCNL, ex art. 2 e 45 d.lgs. 165/2001), quello integrativo di ente (che assume rilevanza nei limiti previsti dal CCNL nazionale, cfr. artt. 40 e 40-bis d.lgs. 165/2001) o una fonte normativa di grado secondario (ad esempio un regolamento) non possono autonomamente determinare la retribuzione del dipendente.
La legge, invece, oltre a disciplinare struttura e livelli di contrattazione nel pubblico impiego (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 d.lgs. 165/2001) può, in omaggio al generale sistema delle fonti previsto dalla Costituzione, disciplinare in modo diretto l’ammontare del trattamento economico (si rimanda, per esempio, ai precetti posti dall’art. 9 del d.l. n. 78/2010, convertito nella legge n. 122/2010), nonché attribuire ulteriori specifici compensi (come nel caso dell’art. 92, comma 5, del Codice dei contratti pubblici).
Il c.d. “incentivo alla progettazione”, previsto dal Codice dei contratti pubblici, costituisce uno di quei casi nei quali il legislatore, derogando al principio per cui il trattamento economico è fissato dai contratti collettivi, attribuisce un compenso ulteriore e speciale, rinviando ai regolamenti dell’amministrazione aggiudicatrice, previa contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione.
L’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006 deroga ai principi di onnicomprensività e determinazione contrattuale della retribuzione del dipendente pubblico e, come tale, costituisce un’eccezione che si presta a stretta interpretazione e per la quale sussiste il divieto di analogia posto dall’art. 12 delle diposizioni preliminari al codice civile (in tal senso Sezione Campania, parere 07.05.2008 n. 7/2008).
L’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici, con atto di regolazione n. 6 del 04/11/1999, aveva già avuto modo di precisare come, nel caso della progettazione interna, la prestazione dei dipendenti, in quanto riferita direttamente all’amministrazione di appartenenza, è da considerare svolta "ratione offici" e non "intuitu personae", risolvendosi "in una modalità di svolgimento del rapporto di pubblico impiego" (Cass. Civ. Sez. Un. 02.04.1998, n. 3386), nell'ambito della cui disciplina, normativa e contrattuale, vanno individuati i termini della relativa retribuzione.
Come evincibile dalla lettera del comma, la legge pone alcuni paletti per l’attribuzione del predetto incentivo, rimettendone la disciplina concreta (“criteri e modalità”) ad un regolamento interno assunto previa contrattazione decentrata.
I punti fermi che il regolamento interno deve rispettare (sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non previsti, si rimanda al parere 30.05.2012 n. 259 della Sezione) paiono essere i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, per un appalto di fornitura di beni o di servizi). La norma non presuppone, tuttavia, ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di una o più attività (per esempio, la progettazione) purché, come sarà meglio specificato, il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni;
- ammontare complessivo non superiore al due per cento dell’importo a base di gara. Di conseguenza la somma concretamente prevista dal regolamento interno può essere stabilita in misura percentuale inferiore;
- ancoramento del fondo incentivante alla base di gara (non all’importo oggetto del contratto, né a quello risultante dallo stato finale dei lavori). Si deduce che non appare ammissibile la previsione e l’erogazione di alcun compenso nel caso in cui l’iter dell’opera o del lavoro non sia giunto, quantomeno, alla fase della pubblicazione del bando o della spedizione delle lettere d’invito (cfr., per esempio, l’art. 2, comma 3, del DM Infrastrutture n. 84 del 17/03/2008). Quanto detto non esclude che, in sede di regolamento interno, al fine di ancorare l’erogazione dell’incentivo a più stringenti presupposti, l’amministrazione possa prevedere la corresponsione solo subordinatamente all’aggiudicazione dell’opera;
- puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento, progettista, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo percentuali rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza (cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, Deliberazioni n. 315 del 13/12/2007, n. 70 del 22/06/2005, n. 97 del 19/05/2004;
- devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione (si rinvia alle Deliberazioni dell’Autorità di vigilanza n. 315 del 13/12/2007, n. 35 del 08/04/2009, n. 18 del 07/05/2008 e n. 150 del 02/05/2001).

Altri principi applicabili alla fattispecie (rilevanti ai fini del parere di cui si discute) si ricavano dalla normativa generale sul pubblico impiego e, in particolare, dall’art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001 in base al quale “le amministrazioni pubbliche non possono erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese”.
La regola è fatta espressamente propria dal legislatore anche nella materia degli incentivi di cui si discute, posto che l’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006, nella formulazione discendente dalla novella apportata dall’art. 1 del d.l. n. 162/2008, dispone che “la corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti”. Nel caso in cui tale accertamento sia invece negativo, la norma, adotta la medesima regola della devoluzione in economia, prevista per il caso di attività eseguita da professionisti esterni (in proposito l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici ha affermato, nella Deliberazione n. 69 del 22/06/2005, emessa nel previgente similare contesto normativo, che l’incentivo assolve alla funzione di compensare i progettisti dipendenti che abbiano in concreto effettuato la redazione degli elaborati progettuali. Pertanto,
la previsione, da parte di un regolamento interno, della corresponsione anche nell’ipotesi di progettazione nella sostanza redatta da professionisti esterni, risulta in contrasto con la ratio della disposizione legislativa, concretando un’ipotesi di duplicazione di spesa).
Alla luce del dettato normativo e dei precedenti sopra richiamati, appare necessario ribadire, in primo luogo, che
l’amministrazione non può, in sede di regolamento, adottare disposizioni in contrasto con quanto previsto dalla legge, sia, in particolare, dall’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 165/2006 che, in generale, dai principi posti in tema di pubblico impiego dal d.lgs. n. 165/2001 e dall’ulteriore normativa di rango primario.
Nello specifico
non è legittima l’erogazione dell’intero incentivo, suddiviso dal regolamento interno fra fase di aggiudicazione e fase di esecuzione, nel caso in cui l’opera non sia stata successivamente appaltata ed eseguita (e, di conseguenza, l’attività del personale interno, in relazione a tali ulteriori fasi, non sia stata espletata).
Nel caso in cui l’attività di progettazione sia stata affidata a professionisti esterni, le rispettive quote del fondo incentivante sono devolute in economia, costituendo un risparmio per l’amministrazione. L’eventuale attività prestata dal personale interno prima della fase di aggiudicazione (RUP e “collaboratori” specificatamente individuati ex art. 10 e 92, comma 5, d.lgs. 163/2006), ove l’incentivazione sia prevista dal regolamento interno (e quest’ultimo non richiese anche la successiva aggiudicazione) deve essere limitata alla quota spettante per la fase di gara (e non anche alle quote previste, sempre per RUP e collaboratori, per la fase esecutiva non realizzata). Nessun compenso è dovuto in questo caso (in quanto non riferibile ad attività espletata) per la direzione lavori, il coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione ed il collaudo.
Quanto esposto non esclude la valutazione dell’operato dell’amministrazione sia ai fini dell’affidamento ed esecuzione della singola opera o lavoro che del complessivo programma di opere pubbliche attuato nel corso di un più ampio arco temporale. Appare evidente, infatti, che la redazione di un progetto o la pubblicazione di un bando di gara senza la successiva aggiudicazione ed esecuzione dell’opera costituiscono un sintomo di carente programmazione amministrativa (mancata effettuazione di espropri, assenza di titoli abilitativi o autorizzativi urbanistici, etc.), finanziaria (sottostima del fabbisogno, distorsione verso iniziative non preventivate, etc.) o progettuale (emersione di lacune in sede di verifica, incoerenza dei costi, etc.) da parte dell’Ente.
Nel caso tale carente programmazione sia dovuta a colpa dell’amministrazione (o meglio, di alcuni suoi organi), appare evidente come non solo il costo per i progetti non utilizzati ma anche l’incentivo attribuito ai dipendenti interni può costituire, in presenza degli altri presupposti previsti dalla legge, voce di danno risarcibile (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 08.10.2012 n. 425).

INCENTIVO PROGETTAZIONEComune di Livorno - Richiesta di parere in cui si pongono cinque diversi quesiti di cui due in materia di incentivi alla progettazione e all’esecuzione di opere pubbliche e redazione di piani urbanistici.
Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla Sezione, con nota prot. n. 13429/1.13.9 del 03.08.2012, una richiesta di parere formulata dal Sindaco del Comune di Livorno, in cui si pongono cinque diversi quesiti di cui due in materia di incentivi alla progettazione e all’esecuzione di opere pubbliche e redazione di piani urbanistici e tre in materia di compensi da corrispondere al dirigente con incarico di vice-segretario. La richiesta, pertanto, distinta in due gruppi di quesiti, è così sintetizzabile con riferimento alla materia degli incentivi alla progettazione di cui all’art. 92, comma 5, del D.Lgs. n. 163/2006 ed alla redazione di atti di pianificazione di cui al comma 6 del medesimo articolo:
1. se si possa applicare la percentuale del 2% (e non dello 0,5%) dell’incentivo alla progettazione di cui all’art. 92, comma 5, del D.Lgs. n.163/2006, percentuale nuovamente introdotta dalla legge n. 183 del 24/11/2010 abrogativa dell’art. 61, c. 7-bis, della legge n. 133/2008, con decorrenza 24/11/2010 (entrata in vigore della citata legge n. 183 del 24/11/2010), nonostante l’ente non abbia ancora adottato un atto deliberativo che recepisca la possibilità di liquidare l’incentivo nella misura del 2% e sia ancora in corso la contrattazione decentrata in materia, avendo l’amministrazione comunque disposto l’accantonamento della suddetta percentuale del 2%;
2. se sia consentito riconoscere specifici incentivi ai sensi dell’art. 92, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006 (30% della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione) al personale dell’ente che fornisce a vario titolo supporto alla redazione di un atto di pianificazione nel caso la redazione dello stesso venga rimessa ad un professionista esterno.

...
Nel merito del primo quesito, la richiesta non può ritenersi oggettivamente ammissibile, in quanto lo stesso si risolve in una valutazione a posteriori circa la legittimità di atti e comportamenti che rientrano nell’autonomia decisionale spettante all’amministrazione richiedente, non presentando, pertanto, i necessari presupposti di astrattezza e generalità ed implicando perciò considerazioni afferenti l’attività concreta dell’ente. Occorre, pertanto, ribadire il principio in virtù del quale le richieste di parere debbono presentare il connotato della rilevanza generale e non possono essere funzionali all’adozione di specifici atti gestionali che rientrano nell’autonomo potere discrezionale dell’ente, volto all’adozione dei provvedimenti inerenti la gestione finanziaria ed amministrativa.
Cionondimeno è opportuno precisare che l’erogazione dell’incentivo di cui all’art. 92, comma 5, del D.Lgs. n. 163/2006, è subordinato alla propedeutica determinazione delle somme da ripartire e della misura stessa del beneficio (che dalla norma viene determinato in percentuale nella sola misura massima) che sono rimessi, ai sensi dell’art. 92 del citato D.Lgs. n. 163/2006, alla previsione delle modalità e dei criteri in sede di contrattazione decentrata ed alla conseguente assunzione di un regolamento comunale.
Nel merito del secondo quesito, il comma 6 dell’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006 (codice dei contratti) così recita: “Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”. Il quesito proposto dal comune richiedente è volto a conoscere se tale incentivo possa essere erogato anche nel caso in cui l’attività di pianificazione sia affidata ad un professionista esterno.
Al riguardo, il Collegio ritiene che l’art. 92, comma 6, del Codice dei contratti, in quanto norma speciale e derogatoria del principio di onnicomprensività della retribuzione (art. 24, comma 3, per la dirigenza; art. 45, per il personale non dirigente; del Dlgs. n. 165/2001) non consente di riconoscere specifici incentivi al personale che fornisce variamente supporto mediante attività meramente sussidiarie, alla redazione di un atto di pianificazione, qualora quest’ultima venga affidata dall’ente ad un professionista esterno. Infatti, premesso che il legislatore ha inteso favorire l’affidamento d’incarichi inerenti prestazioni d’opera professionale ai dipendenti pubblici, prevedendo la remunerazione di tali specifiche professionalità, è ammesso il ricorso ad un professionista esterno in costanza di precisi presupposti di legittimità, che si sostanziano principalmente nella carenza all’interno dell’organico di quelle risorse in grado di prestare adeguatamente detta attività (art. 90, c. 6, del D.Lgs. n. 163/2006 e art. 7, c. 6 e ss., del Dlgs. n. 165/2001).
Pertanto, ad avviso di questa Sezione, si ritiene di condividere quanto affermato anche da altra Sezione regionale della Corte dei conti (Lombardia parere 30.05.2012 n. 259; veggasi anche, id., n. 57/2012) per cui “L’art. 92, comma 6, non potrebbe costituire titolo per l’erogazione di speciali compensi ai dipendenti che svolgono attività sussidiarie, strumentali o di supporto alla redazione di atti di pianificazione affidata a professionisti esterni. Tale disposizione, infatti, abilita (nella misura autoritativamente fissata dalla legge) a riconoscere uno speciale compenso, al di là del trattamento economico ordinariamente spettante, solo in presenza dei due seguenti elementi di fattispecie: a) sul piano dell’oggetto, che la prestazione consista nella diretta “redazione di un atto di pianificazione”, non in attività variamente sussidiarie che rientrano nei doveri d’ufficio dei dipendenti, … (…); b) implicitamente, che la redazione dello stesso non sia stata esternalizzata ad un professionista esterno ai sensi dell’art. 90, comma 6” (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 27.09.2012 n. 256).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Parere in merito alla corretta applicazione della normativa di spesa ed assunzionale relativa agli incarichi a tempo determinato ex art. 110, co. 1 del T.U.E.L., con particolare riguardo ai contingenti massimi di cui all'art. 19, co. 6-quater del D.lgs 165/2001.
Il Sindaco del Comune di Cittadella, chiede un parere in merito alla corretta applicazione della normativa di spesa ed assunzionale relativa agli incarichi a tempo determinato ex art. 110, comma 1 del TUEL.
In particolare il rappresentante legale dell’ente chiede:
• se la recente riforma della "legge Brunetta" relativa agli incarichi di cui all'art. 110, comma 1, del TUEL con la possibilità di deroga in via transitoria, prevista dall'art. 19, comma 6-quater del D.Lgs 30.03.2001, n. 165, per un ulteriore quinquennio, comprende in sé oltre alla deroga del parametro numerico percentuale anche la deroga alla spesa ammissibile;
• se è ammissibile superare il limite di spesa del 50% di quella sostenuta nel 2009 per il tempo flessibile, per rinnovare un dirigente a tempo determinato ex art. 110 comma 1 del TUEL ...."in via transitoria, con provvedimento motivato volto a dimostrare che il rinnovo sia indispensabile per il corretto svolgimento delle funzioni essenziali";
• ove detta soluzione sia possibile, quale sia il limite che sì impone all'ente locale nel caso di rinnovo del dirigente ai sensi dell'art. 110, comma 1 del TUEL;
• quale sia il limite di spesa previsto dall'ordinamento per il personale a tempo determinato se, nel caso di nomina di dirigente con contratto a tempo determinato, la deroga rinvenibile nel riformulato art. 19, comma 6-quater, del D.Lgs 30.03.2011 operi, come taluni sostengono, anche dal punto di vista finanziario.
...

La disposizione di cui al riscritto comma 6-quater dell’articolo 19 del d.lgs 165/2001, relativa al conferimento degli incarichi dirigenziali con contratto a tempo determinato ex art. 110, comma 1 del TUEL, è norma assunzionale speciale e parzialmente derogatoria rispetto al regime vigente.
Da ciò consegue che:
1. gli incarichi conferibili (contingente) con contratto a tempo determinato in applicazione delle percentuali individuate dal riscritto comma 6-quater dell’articolo 19, del d.lgs 165/2001, riguardano solo ed esclusivamente le funzioni dirigenziali;
2. a detti incarichi non si applica la disciplina assunzionale vincolistica prevista dall’articolo 9, comma 28, del d. l. 78/2010;
3. gli enti che intendono conferire detti incarichi (la cui spesa va considerata ai sensi dell’art. 1, commi 557 e 562, della L. 296/2006), oltre ad osservare gli obblighi assunzionali (generali) previsti per tutte le pubbliche amministrazioni (richiamati nella citata deliberazione della Sezione delle Autonomie), devono essere in linea con i vincoli di spesa ed assunzionali per gli stessi previsti dalla normativa in vigore e di seguito richiamati:
• rispetto del patto di stabilità interno, se tenuti;
• riduzione della spesa del personale rispetto a quella sostenuta nell’anno precedente (art. 1, comma 557, Legge 296/2006 per gli enti soggetti al patto di stabilità) o contenimento della stessa entro il valore di quella relativa all’anno 2008 (art. 1, comma 562, primo periodo, Legge 296/2006, per gli enti minori);
• contenimento nella percentuale normativamente prevista del rapporto tra spesa del personale e spesa corrente (attualmente 50% articolo 76, comma 7, primo periodo, prima parte, d.l. 112/2008);
4. gli incarichi conferibili in applicazione della disposizione derogatoria di cui al terzo periodo del richiamato comma 6–quater relativa all’utilizzo dell’ulteriore percentuale (3%) prevista e quelli rinnovabili per una sola volta entro l’anno 2012 in applicazione delle previsioni del quinto periodo del medesimo comma, non sono soggetti al vincolo finanziario di cui all’articolo 9, comma 28, del d.l. 78/2010 ma, restano comunque soggetti al vincolo assunzionale di cui all’articolo 76, comma 7, primo periodo, seconda parte, del d.l. 112/2008) (entro il limite del 40% della spesa per cessazioni dell’anno precedente)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 12.09.2012 n. 581).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: In tema di mobilità e copertura posti che si rendono vacanti.
Il Sindaco del Comune di Campagnola Cremasca (CR), con nota del 16.07.2012, ha formulato alla Sezione una richiesta di parere in ordine al rapporto fra la disciplina limitativa delle assunzioni e le cessazioni dal servizio per mobilità.
In particolare, premessa l’esposizione del quadro normativo in tema di divieti e limitazioni alle assunzioni da parte degli enti locali ed una serie di precedenti interpretativi, il Sindaco pone i seguenti quesiti:
a) se il Comune (con popolazione inferiore ai 1.000 abitanti), autorizzata la mobilità di un proprio dipendente (verso un Comune di circa 2.000 abitanti, attualmente non ancora sottoposto al Patto di stabilità), possa, a sua volta, coprire la vacanza con mobilità esterna;
b) nell’eventualità che la mobilità non dovesse avere buon esito, se sia possibile procedere all’indizione di un concorso.

I dubbi del Sindaco istante sono prospettati alla luce dell’introduzione nell’ordinamento dell’art. 14, comma 7, del d.l. n. 95/2012, in fase di conversione, che così dispone: “le cessazioni dal servizio per processi di mobilità nonché a seguito dell'applicazione della disposizione di cui all'articolo 2, comma 11, lettera a), non possono essere calcolate come risparmio utile per definire l'ammontare delle disponibilità finanziarie da destinare alle assunzioni o il numero delle unità sostituibili in relazione alle limitazioni del turn-over”.
...
Ai due quesiti posti dal Comune istante può rispondersi nei termini che seguono:
a) se il Comune (avente popolazione inferiore ai 1.000 abitanti) autorizza la mobilità di un proprio dipendente (verso un Comune soggetto anch’esso a limitazioni alle assunzioni), può coprire la sopravvenuta vacanza organica con mobilità in entrata da altro ente pubblico soggetto a limitazioni alle assunzioni (con la precisazione, derivante dall’art. 14, comma 7, del d.l. n. 95/2012, che l’amministrazione cedente non potrà conteggiare la cessione per mobilità quale risparmio di spesa o contingente di cessazioni, utile per procedere ad assunzioni dall’esterno).
B) nell’eventualità che, ceduta un’unità di personale per mobilità, la successiva procedura di mobilità in entrata non abbia buon esito, il Comune non sarebbe invece abilitato ad effettuare assunzioni bandendo un concorso, stante l’irrilevanza di tale cessione ai fini del conteggio del contingente di cessazioni utile ai fini di successive assunzioni dall’esterno (in virtù della nuova regola posta dall’art. 14, comma 7, del d.l. n. 95/2012 in attesa di conversione) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 30.07.2012 n. 373).

NEWS

INCARICHI PROFESSIONALILEGGE DI STABILITÀ/ Un freno alle parcelle dei legali. Il giudice non può liquidare per valori superiori alla causa. Chi vince non potrà ribaltare su chi perde somme maggiori della controversia.
Parcelle degli avvocati calmierate in giudizio. La legge di stabilità stabilisce che il giudice non può liquidare compensi giudiziali in misura maggiore del valore della causa. Se il giudizio riguarda una controversia del valore di 2 mila euro, chi vince non potrà ribaltare su chi perde una somma maggiore.
E se il compenso pattuito con il proprio avvocato fosse più alto, la parte eccedente rimarrà a carico del cliente, anche se ha vinto la causa.

Vediamo i dettagli della questione.
La legge di stabilità propone di sostituire il quarto comma dell'articolo 91 del codice di procedura civile. La nuova versione, come scritta nel disegno di legge, prevede che i compensi liquidati dal giudice e posti carico del soccombente non possono superare il valore effettivo della causa.
L'attuale quarto comma dell'articolo 91 del codice di procedura civile formula la stessa regola, ma limitatamente alle cause previste dall'articolo 82 del medesimo codice: si tratta delle cause il cui valore non eccede i 1.100 euro, di competenza del giudice di pace.
Peraltro nella versione vigente il tetto riguarda non solo i compensi per l'avvocato, ma ogni possibile voce: «spese, competenze e onorari».
Nella modifica proposta dalla legge di stabilità il tetto riguarda qualunque causa, anche se si precisa che i compensi non comprendono le spese. Quindi il giudice potrà liquidare i compensi con il tetto dell'importo del valore della causa, mentre le spese si aggiungono. Si tratta di un criterio di liquidazione delle spese di giudizio che si aggiunge a quelli previsti dal decreto 140/2012 sui cosiddetti parametri, sostitutivi delle tariffe forensi.
L'effetto di questa disposizione è un possibile vantaggio per chi perde la causa e uno svantaggio per chi vince la causa. Questo si verifica soprattutto quando il valore della causa è basso e il compenso stabilito dal giudice (che deve rispettare il tetto) è più probabile che sia minore della cifra che l'interessato e l'avvocato hanno inserito nel contratto stipulato tra di loro.
Inoltre la quantità e la qualità della prestazione professionale può essere rilevante, anche per cause di importo piccolo. Altro possibile effetto è quello di disincentivare il ricorso alla giustizia, considerata la prospettiva di non poter recuperare i soldi che si spenderanno. Si deve aggiungere che l'avvocato dovrà informare il cliente di questa regola, consentendo al cliente di agire con consapevolezza dei costi.
Il disegno di legge di stabilità interviene anche sulle entrate dei tribunali e in particolare sul contributo unificato e cioè il balzello da pagare ogni volta che ci si rivolge al sistema giustizia. Si tratta di aumenti del contributo, soprattutto nel settore della giustizia amministrativa.
Gli incrementi riguardano tutti i tipi di procedimento, anche se rispetto a una prima versione del disegno di legge c'è qualche differenza. Nella versione originaria aumentava da 300 a 350 euro il contributo per ricorsi in materia di accesso ai documenti amministrativi e quelli avverso il silenzio dell'amministrazione: l'ultimo testo disponibile non contempla più queste ipotesi.
Una ritocco (confrontando testo originario e ultimo testo disponibile) riguarda anche gli appalti.
Nel disegno di legge sulla stabilità, per queste controversie di competenza del Tar e del Consiglio di stato, si individua una scaletta in base al valore della causa: il contributo dovuto è di euro 2 mila (contro i 3 mila della prima versione) quando il valore della controversia è pari o inferiore a euro 200 mila; per quelle di importo compreso tra 200 mila e 1.000.000 euro il contributo dovuto è di euro 4.000, mentre per quelle di valore superiore a 1.000.000 euro è pari ad euro 6 mila (era 5 mila nella versione originaria). Aumenta il contributo unificato anche per tutti i processi amministrativi in materie diverse da quelle sopra elencate: si passa, infatti, da 600 a 650 euro.
Incremento sensibile si deve registrare per tutti i giudizi in cui si applica il rito abbreviato con termini ridotti a metà (materie previste dal libro IV, titolo V, del codice del processo amministrativo e altre disposizioni speciali): il contributo unificato passa da 1.500 euro a 1.800 euro.
Inoltre si pagherà un contributo doppio per i giudizi di impugnazione avanti al consiglio di stato e si paga un secondo contributo nel caso in cui le impugnazioni anche civili siano respinte o dichiarate improcedibili o inammissibili (articolo ItaliaOggi del 13.10.2012).

APPALTIContratti pubblici, alla Sogei la gestione della banca dati.
La gestione della Banca dati nazionale sui contratti pubblici sarà affidata in house a una società del ministero dell'economia (la Sogei), ma c'è il rischio di uno slittamento della scadenza del primo gennaio 2013, data di attivazione del sistema di verifica online dei requisiti di ammissione alle gare; vietato alle autorità indipendenti il conferimento di incarichi di consulenza informatica, salvo casi eccezionali.

È quanto prevede una norma del disegno di legge di stabilità che, per promuovere la razionalizzazione della spesa pubblica in materia informatica, obbliga l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture a stipula una convenzione ad hoc con il ministero dell'economia e delle finanze per la gestione, anche attraverso «propria società in house» (e la scelta parrebbe cadere sulla Sogei), della Banca dati nazionale dei contratti pubblici di cui all'articolo 6-bis del Codice dei contratti pubblici.
Si tratta della Banca dati che dovrebbe partire il 01.01.2013 (anche se si parla già di una possibile proroga), che consentirà alle stazioni appaltanti di effettuare online la verifica dei requisiti di partecipazione alle gare di appalto di lavori, forniture e servizi, snellendo e semplificando le procedure, con una riduzione rilevante del contenzioso. Il governo sembra quindi indicare un percorso diverso (la gestione in house) da quello, finalizzato all'esternalizzazione della gestione dei servizi informatici, che al momento l'Autorità sembra avere seguito, con le gare di questi ultimi mesi.
La norma prevede che la convezione regoli la durata, i compiti, le modalità operative e gestionali del servizio e assicuri la copertura dei relativi costi (che è probabile verranno «ribaltati» sull'utenza, cioè sui partecipanti alle gare). L'Autorità manterrà vigilanza e controllo sulle attività di gestione della Bdncp.
Peraltro l'Autorità sembra essere destinataria, indirettamente, anche di un'altra norma del disegno di legge che riguarda i servizi informatici e fa divieto alle autorità indipendenti e alla Consob di conferire incarichi di consulenza in materia informatica salvo casi eccezionali, adeguatamente motivati, in cui occorra provvedere alla soluzione di problemi specifici connessi al funzionamento dei sistemi informatici. Se le Autorità e le altre amministrazioni violeranno il divieto scatterà la responsabilità amministrativa e disciplinare dei dirigenti (articolo ItaliaOggi del 13.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

INCARICHI PROFESSIONALILEGGE DI STABILITÀ/ Partecipate nel mirino. Saltano blocco contratti e contributo di solidarietà. P.a., consulenze non rinnovabili. Proroga solo in via eccezionale. E il compenso resta lo stesso.
Tempi duri per l'esercito di consulenti degli enti pubblici. Gli incarichi (per forza di cose temporanei e altamente qualificati come prevede il Testo unico del pubblico impiego) non potranno essere rinnovati e sarà ammessa la proroga solo in via eccezionale se il progetto per cui sono state conferite le consulenze non è ancora stato completato a causa di ritardi non imputabili al collaboratore. E, particolare non di poco conto, anche in caso di proroga, il compenso resterà quello pattuito al momento del conferimento dell'incarico. Il giro di vite sulle consulenze si estenderà anche alle partecipate, ossia alla galassia delle società controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni, su cui si era già abbattuta la scure della spending review. Oltre a essere soggette al tetto del 50% della spesa 2009 per co.co.co. e contratti a termine, saranno soggette ai limiti e agli obblighi di trasparenza nel conferimento degli incarichi vigenti per tutta la pubblica amministrazione.

Ancora una volta il taglio delle spese della p.a. passa attraverso la messa a dieta delle consulenze. Il ddl di stabilità 2013 non sfugge a questa regola ormai consolidata, stabilendo un generale divieto di rinnovo degli incarichi, salvo le eccezioni di cui si è detto.
Chi invece può sorridere sono i grand commis di stato per il dietrofront sulla proroga a tutto il 2014 del contributo di solidarietà (5% sopra i 90 mila euro lordi annui di stipendio, 10% sopra i 150 mila) introdotto dalla manovra 2010 di Giulio Tremonti. Salta anche il blocco del rinnovo dei contratti pubblici per il 2014.
Il doppio passo indietro è stato imposto dalla sentenza della Corte costituzionale n. 223/2012 che giovedì ha dichiarato incostituzionale il prelievo (si veda ItaliaOggi di ieri). Stessa sorte è toccata alla trattenuta del 2,5% sul tfr degli statali, anche questa prevista dal dl 78/2010 e spazzata via dalla Consulta. Con la conseguenza che ora le p.a. dovranno restituire le somme illegittimamente trattenute a decorrere dal 1° gennaio 2011. Secondo la Uil-Fpl nelle tasche degli statali dovrebbero tornare in media 600 euro l'anno per un lavoratore di fascia C. «Una grande soddisfazione» che il sindacato guidato da Giovanni Torluccio rivendica rimarcando la differenza con le altre sigle sindacali le quali, ricorda, «non hanno dimostrato alcun interesse in proposito, ma anzi hanno fatto proprie le tesi dell'Inpdap sulla correttezza della trattenuta del 2,50%».
«Sin dall'approvazione della norma, abbiamo sempre sostenuto che fosse illegittima in quanto violava il principio di eguaglianza e quello di parità di trattamento retributivo rispetto al settore privato», ha proseguito.
Tornando al ddl di stabilità, l'unica novità confermata rispetto all'impianto originario, riguarda il dimezzamento della retribuzione (non sarà toccata invece la contribuzione figurativa) dei permessi fruiti per assistere familiari disabili (per esempio i genitori). Continueranno a essere pagati al 100% i permessi richiesti per patologie dello stesso dipendente o per l'assistenza ai figli o al coniuge.
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Giro di vite sugli acquisti di auto e immobili.
Scatta subito il divieto per le pubbliche amministrazioni di acquistare o prendere in leasing autovetture. Divieto che, però, non si applica per gli acquisti effettuati dalle amministrazioni che ricadono nel cosiddetto comparto sicurezza e per quelle che devono garantire i livelli essenziali di assistenza sociale e sanitaria. Dal prossimo Capodanno, le stesse p.a. non possono acquistare immobili né stipulare contratti di locazione passiva, salvo che non si tratti di rinnovi di contratti già in essere. Dal 2014, invece, gli enti territoriali e quello del Servizio sanitario nazionale potranno effettuare operazioni di acquisto di immobili solo se sarà documentata e certificata l'assoluta indispensabilità del predetto immobile ai fini istituzionali.
Stretta, invece, per il biennio 2013-2014, sull'acquisto di mobili e arredi. Le p.a. a tal fine, non dovranno sforare il 20% della spesa sostenuta nel 2011. Infine, anche le scuole e le università dovranno attingere alle convenzioni presenti sul mercato telematico per l'acquisto di beni e servizi. È quanto contenuto all'interno della legge di stabilità varata dall'esecutivo nella serata di mercoledì scorso e che, in pratica, fa stringere ancora di più la cinghia al comparto della pubblica amministrazione.
Auto nuove addio. Un divieto senza precedenti quello che si abbatte sul parco auto della p.a. La legge di stabilità, infatti, dispone che le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico Istat (anche gli enti territoriali, pertanto) a decorrere dalla data di entrata in vigore della stessa, non possono acquistare autovetture né possono acquisirle mediante la stipula di contratti di leasing.
E per evitare qualche «furbetto», la norma tiene a precisare che si intendono revocate anche le procedure di acquisto iniziate dal 9 ottobre scorso. Da questo taglio netto con il passato, escluse espressamente le amministrazioni del comparto sicurezza e quelle che sono tenute a garantire servizi sociali e sanitari. La norma, infine, sancisce che per le regioni il divieto costituisce una condizione inderogabile ai fini dell'erogazione dei trasferimenti erariali.
Stretta sugli immobili. Per il prossimo anno, tutte le p.a. e le authority non potranno acquistare immobili né stipulare contratti di locazione passiva. Divieto che non opera nel caso di rinnovi contrattuali ovvero nei casi in cui la «nuova» locazione sia economicamente più vantaggiosa per acquisire disponibilità di locali in sostituzione di immobili dismessi.
Dal gennaio 2014, invece, scatterà il divieto per gli enti territoriali e per quelli del Ssn di acquistare immobili. Tranne nei casi in cui il responsabile del procedimento attesti «l'indispensabilità e l'indilazionabilità» dell'operazione. Quest'ultima, inoltre, dovrà essere connotata dalla massima trasparenza in quanto, sia il prezzo pattuito (che dovrà essere preliminarmente definito congruo dall'Agenzia del demanio) che il soggetto alienante, dovranno essere resi noti sul sito internet dell'ente.
A dieta su mobili e arredi. Per il prossimo biennio, l'esecutivo intende sforbiciare anche la spesa sostenuta dalle p.a. per mobili e arredi. Si dispone, infatti che tutte le p.a., le authority e la Consob (ma non gli enti e gli organismi vigilati dalle regioni, dalle province autonome e dagli enti locali) non potranno sostenere spese a tali fini di ammontare superiore al 20% della spesa sostenuta nel 2011. I dirigenti responsabili dell'eventuale violazione ne risponderanno sotto il profilo amministrativo e disciplinare. I risparmi conseguiti dovranno essere versati entro il 30 giugno al bilancio statale.
Scuola e mercato telematico. Operando una modifica all'articolo 1, comma 449, della legge finanziaria 2007 (la legge n. 296/2006), l'esecutivo ha disposto che anche gli istituti e le scuole di ogni ordine e grado, le istituzioni educative e quelle universitarie, sono tenute ad approvvigionarsi dei beni e servizi disponibili sul mercato telematico, utilizzando le cosiddette convezioni-quadro (articolo taliaOggi del 13.10.2012).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Giunte provinciali a dieta. Possibile nominare meno assessori del minimo. Sì ai tagli se c'è la volontà politica. Ma bisogna modificare lo statuto.
È possibile nominare un numero di assessori provinciali inferiore al minimo fissato dallo statuto?

Ai sensi del comma 2 dell'art. 47 del Tuel, «gli statuti, nel rispetto di quanto previsto dal comma 1, possono fissare il numero degli assessori ovvero il numero massimo degli stessi»; il comma 1 prevede il numero massimo nella misura di un terzo e comunque non superiore a dodici unità.
Nel demandare all'autonomia statutaria la determinazione numerica degli assessori, il legislatore statale ha legittimato la possibilità di prevedere un numero «fisso» ovvero «flessibile», senza fissare il numero minimo, ma stabilendo un limite massimo inderogabile.
Prevedendo «che lo statuto possa stabilire il numero effettivo degli assessori nominabili», lo stesso legislatore impone «una verifica in sede locale dell'individuazione del numero ottimale di componenti della giunta» (Consiglio di stato V, 31/12/2003, n. 9315), che, presupponendo una ponderata valutazione politico-amministrativa delle esigenze dell'ente, consente la nomina del numero di assessori reputato ottimale .
Nell'ambito del delineato criterio di riferimento definito nel citato articolo 47, si deduce che la norma dello statuto che stabilisce il numero dei componenti della giunta diviene vincolante per l'ente locale e può essere derogata solo attraverso una modifica della medesima disposizione.
A tal fine giova il riferimento alla sentenza n. 3357/2009, con la quale il Consiglio di stato, pronunziatosi sul quorum di maggioranza necessario per modificare il regolamento per il funzionamento del consiglio comunale, ha affermato il principio che «una volta adottato il regolamento contenente una specifica previsione in ordine alle maggioranze occorrenti per le proprie modifiche, l'adozione di queste non può che trovare disciplina in quelle norme di cui il consiglio stesso si è dotato, alle quali l'ente deve attenersi essendo ben noto come una pubblica amministrazione non possa disapplicare le regole da essa poste, se non previo ritiro ed ancorché illegittime».
Ove, quindi, si delinei la volontà politica di ridurre la compagine degli assessori occorrerà procedere, preliminarmente, ad una apposita modifica della disposizione statutaria inerente la quantificazione degli stessi, nel senso ritenuto (articolo ItaliaOggi del 12.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Numero assessori.
Un comune può nominare due assessori in più rispetto al numero massimo previsto dalla vigente normativa, se la norma statutaria tuttora vigente prevede un limite massimo superiore?
La determinazione numerica degli assessori rientra nella materia «organi di governo» dei comuni rimessa, ai sensi dell'articolo 117, comma 2, lett. p), della Costituzione, alla potestà legislativa esclusiva dello stato.
Quest'ultima, invero, per il profilo considerato riconosce a comuni e province, quale unico spazio di autonomia, la possibilità di individuare nello statuto una misura «fissa» ovvero «flessibile» di assessori, purché, in entrambi i casi, entro il limite massimo prescritto, che non può mai essere superato.
Peraltro, secondo l'articolo 1, comma 3, del decreto legislativo n. 267, «l'entrata in vigore di nuove leggi che enunciano espressamente i principi che costituiscono limite inderogabile per l'autonomia normativa dei comuni e delle province abroga le norme statutarie con essi incompatibili. I consigli comunali e provinciali adeguano gli statuti entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore delle leggi suddette».
Pertanto l'eventuale disposizione statutaria incompatibile con le intervenute modifiche normative non può trovare applicazione.
Inoltre, come ha evidenziato la circolare del ministero dell'interno prot. n. 2915 del 18.02.2011, a decorrere dal 2011, in occasione del successivo rinnovo elettorale, il numero dei consiglieri sarà ridotto del 20% e di conseguenza, nel caso dei comuni con più di 30 mila abitanti, il numero massimo degli assessori dovrà essere calcolato su 25 unità (24 consiglieri più il sindaco).
Nel caso di specie, pertanto, non è possibile la nomina di ulteriori assessori (articolo ItaliaOggi del 12.10.2012 - tratto da www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: DECRETO SALVA ENTI/ Spending review sterilizzata solo per i comuni soggetti al Patto. Fondo anti-dissesto ricco nel 2012. Dotazione extra di 500 mln per pagare stipendi e fornitori.
Previsione di un'extra dote per il fondo anti-dissesto 2012. Correzione del decreto «Semplifica Italia» per superare i rilievi del Consiglio di stato sul regolamento in materia di Imu degli enti non commerciali. Obbligo di rendere pubblici gli stati patrimoniali degli amministratori. Sterilizzazione dei tagli della spending review solo per i comuni soggetti al Patto.

Sono queste le principali novità per gli enti locali contenute nel dl 174/2012, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 237 di mercoledì e quindi in vigore da ieri.
Rispetto alle bozze esaminate in consiglio dei ministri la settimana scorsa, il testo finale del provvedimento innanzitutto quantifica l'ammontare del «Fondo di rotazione per assicurare la stabilità finanziaria degli enti locali». Il nuovo strumento (destinato agli enti che presentano pesanti squilibri strutturali di bilancio e che richiederanno di aderire alla «procedura di riequilibrio finanziario pluriennale» disegnata dai nuovi artt. 243-bis, 243-ter e 243-quater del Tuel.) potrà contare per quest'anno su 30 milioni di euro, che diventeranno 100 il prossimo e 200 per ciascuno degli anni dal 2014 e 2020.
Per il solo 2012, la dotazione finanziaria base sarà incrementata di ulteriori 500 milioni destinati esclusivamente al pagamento delle spese di parte corrente relative al personale, alla produzione di servizi in economia ed all'acquisizione di servizi e forniture, già impegnate e comunque non derivanti dal riconoscimento di debiti fuori bilancio. Una parte della copertura finanziaria è stata trovata utilizzando i 60 milioni stanziati dall'art. 1, commi 59 e 60, della legge 220/2010 (e mai utilizzati) per far fronte al pagamento degli interessi passivi maturati dai comuni per il ritardato pagamento dei fornitori, nonché una quota parte delle risorse (1 miliardo) al medesimo fine appostate dall'art. 35 del dl 1/2012.
Il Fondo, precisa la norma, sarà altresì alimentato dalle somme via via rimborsate dagli enti locali beneficiari. Questi, infatti, potranno ricevere anticipazioni fino ad un massimo di 100 euro per abitante ma dovranno restituirle entro 10 anni. I criteri per la determinazione dell'importo massimo dell'anticipazione, nonché le modalità per la concessione e per la restituzione saranno definiti con un decreto del ministero dell'interno da emanare entro il prossimo 30 novembre. Al riguardo, si conferma che dal beneficio sono esclusi gli enti per i quali è già stato dichiarato il dissesto (è il caso del comune di Alessandria) o è già stato fissato dalla Corte dei conti il termine per l'adozione delle misure correttive (casi di Reggio Calabria e Ancona). Agli altri enti, invece, potrà essere anche concessa, sussistendo motivi di urgenza, una boccata d'ossigeno immediata, da riassorbire in sede di predisposizione e attuazione del piano di riequilibrio finanziario.
La seconda novità rilevante riguarda l'inserimento nel testo di una norma che integra l'art. 91-bis del dl 1/2012, relativo all'applicazione dell'Imu agli enti non commerciali. La novella estende il potere regolamentare del governo alla definizione di tutti gli elementi necessari all'applicazione dell'imposta, con particolare riguardo agli immobili a uso promiscuo. In tal modo, vengono superati i rilievi mossi dal Consiglio di stato alla proposta di regolamento applicativo già elaborato dal Mef.
Ancora, va segnalata la previsione di un obbligo per gli enti locali con popolazione superiore a 10.000 abitanti di disciplinare le modalità di pubblicità e trasparenza dello stato patrimoniale dei titolari di cariche pubbliche elettive e di governo di loro competenza. Dovranno essere resi pubblici i dati di reddito e di patrimonio, con particolare riferimento alle dichiarazioni annuali, ai beni immobili e mobili registrati posseduti, alle partecipazioni in società quotate e non quotate, alla consistenza degli investimenti in titoli obbligazionari, titoli di stato, o in altre utilità finanziarie detenute anche tramite fondi di investimento, sicav o intestazioni fiduciarie.
Infine, viene precisato che la parziale sterilizzazione dei tagli (500 milioni in tutto) previsti per il 2012 dall'art. 16 del dl 95/2012 a carico dei comuni riguarda solo quelli soggetti al Patto, i quali potranno evitare la mannaia destinando l'importo corrispondente alle riduzioni «teoriche» (che saranno comunque calcolate entro fine mese) all'estinzione anticipata dei debiti. Le relative somme, tuttavia, non saranno valide ai fini del Patto e quindi dovranno essere detratte dagli accertamenti delle entrate correnti ai fini del calcolo del relativo saldo. Coloro che non riusciranno a utilizzare tutto l'importo per ridurre il «rosso» si vedranno decurtata la differenza nel 2013. Una beffa ulteriore per gli enti virtuosi che avessero già ridotto o addirittura estinto i mutui a loro carico e che in tal caso subiranno il taglio per intero (articolo ItaliaOggi del 12.10.2012).

LAVORI PUBBLICI: Opere incompiute al test. Entro il 31 marzo elenchi dalle p.a. appaltanti. Lo prevede la nuova bozza di regolamento del ministero infrastrutture.
Entro il 31 marzo di ogni anno le stazioni appaltanti dovranno comunicare quali opere possono considerarsi «incompiute»; al Ministero delle infrastrutture e alle regioni spetterà il compito di mettere in linea l'elenco-anagrafe delle opere incompiute al fine di valutarne l'eventuale diversa destinazione d'uso o un utilizzo parziale rispetto a quanto programmato e progettato.
È quanto prevede la nuova bozza di regolamento ministeriale (predisposta dal dicastero delle infrastrutture e dei trasporti) sull'anagrafe delle opere incompiute, dopo la riunione tecnica che si è svoltasi il 12 settembre che ha consentito alle regioni e all'Anci di proporre diverse modifiche allo schema trasmesso in questi giorni alla Conferenza Unificata per il parere.
Lo schema attua l'articolo 44-bis, comma 6, della legge 214/2011 di conversione del decreto-legge «Salva Italia» (201/2011) che affida al ministro delle infrastrutture e dei trasporti il compito di emanare un regolamento che detti le modalità di redazione dell'elenco-anagrafe delle opere incompiute, nonché le modalità di formazione della graduatoria e dei criteri in base ai quali le opere pubbliche incompiute sono iscritte nell'elenco-anagrafe, tenendo conto dello stato di avanzamento dei lavori ed evidenziando le opere prossime al completamento.
Nel nuovo testo rimangono invariate le situazioni in presenza delle quali si può definire «incompiuta» un'opera pubblica: mancanza di fondi, cause tecniche che ne impediscano l'ultimazione, sopravvenienza di nuove norme tecniche o disposizioni di legge, fallimento dell'impresa esecutrice o, ancora recesso dal contratto per motivi legati a infiltrazioni malavitose, o infine «mancato interesse al completamento da parte del gestore».
Cambiano invece sia i soggetti tenuti alla pubblicazione dell'elenco, sia le modalità di pubblicazione.
Le regioni e le province autonome, per le opere di interesse regionale e locale, dovranno direttamente pubblicare i dati sui siti di cui al dm 06.04.2001, n. 20: sul sito regionale per lavori di interesse regionale; laddove il sito regionale non sia istituito, la pubblicazione deve invece avvenire sul sito del Ministero delle infrastrutture.
Anche per le attività di raccolta, redazione, monitoraggio e aggiornamento dei dati si modifica il testo precedente stabilendo che siano il Dipartimento per le infrastrutture e gli affari generali del Ministero (per le opere nazionali) e gli Osservatori regionali dei contratti pubblici o altri uffici regionali a ciò preposti (per le opere regionali e di interesse locale), a svolgere le attività di controllo.
Novità anche per la tempistica: entro il 31 marzo di ogni anno le stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori tenuti ad applicare il Codice dei contratti pubblici, dovranno trasmettere i dati e le informazioni sulle opere incompiute al Ministero delle infrastrutture o alle regioni, o province autonome. Le stazioni appaltanti, una volta trasmessi i dati dell'opera incompiuta, potranno pubblicarli anche sul proprio sito istituzionale. Per quel che riguarda l'elenco delle informazioni da fornire per ogni opera dichiarata «incompiuta» il testo prevede anche l'inserimento del Codice unico di progetto (Cup) e la denominazione della stazione appaltante.
Entro il 30 giugno di ogni anno ministero e regioni (e le province autonome) pubblicano i dati nelle due sezioni dell'elenco-anagrafe. Nella prima fase di attuazione del regolamento si prevede, come norma transitoria) che le stazioni appaltanti trasmettano i dati entro 90 giorni dalla pubblicazione del regolamento e nei180 giorni Ministero e regioni provvedano alla pubblicazione sulle sezioni dell'elenco (articolo ItaliaOggi del 12.10.2012 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Pa. Dopo la sentenza della Corte saltano i tagli del 5 e 10% sui superstipendi. Congelati i contratti pubblici.
BLOCCO PER IL 2014/ Confermata la sospensione della vacanza contrattuale e il dimezzamento dei salari per i giorni destinati alla cura dei familiari disabili.

Esce dal testo della legge di stabilità in via di perfezionamento la norma che congela il rinnovo dei contratti pubblici anche per il 2014. Per confermare lo stop si procederà con un atto amministrativo, esattamente come si è già fatto l'anno scorso, in attuazione di quanto previsto dal decreto legge 78/2010. E con quel provvedimento verrà confermata pure la sospensione della vacanza contrattuale, che potrà tornare solo in riferimento al biennio 2015-2017 con riferimento all'inflazione programmata (non al nuovo indice Ipca, visto che non è mai stato raggiunta un'intesa sindacale). Dalla legge di stabilità uscirà pure la proroga del «contribuito di solidarietà» che era stato introdotto sempre dal dl 78 (articolo 9) visto che quella norma è stata giudicata incostituzionale dal giudice delle leggi (si veda a pagina 13).
Nella versione del testo disponibile ieri resta invariata, invece, la norma che prevede il dimezzamento della retribuzione per i giorni utilizzati dai dipendenti pubblici per l'assistenza a familiari con disabilità. La retribuzione, secondo il provvedimento nella versione attuale, rimarrà piena solo se il permesso ex lege 104/1992 è dovuto a patologie del dipendente o all'assistenza a figli e coniuge: se l'assistito è un altro familiare (i permessi possono essere ottenuti per assistere parenti o affini entro il secondo grado, o entro il terzo grado se i genitori dell'assistito sono over 65 o portatori di handicap), lo stipendio della giornata sarà dimezzato, e si manterrà intera solo la contribuzione figurativa.
Si tratta di una norma molto delicata, che ha già acceso reazioni molto forti. L'obiettivo del Governo è tentare di aggredire una spesa significativa, visto che nel 2010 (sono gli ultimi dati disponibili) per garantire i permessi a 244.997 beneficiari (7,4% del totale dei dipendenti) è stata sostenuta una spesa superiore ai 725 milioni di euro (articolo Il Sole 24 Ore del 12.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Enti locali. Il decreto legge 174/2012 in vigore da ieri. Il ragioniere «vista» tutte le delibere di spesa.
LA FIGURA/ Il responsabile dei servizi finanziari opera in piena autonomia può essere revocato solo in caso di gravi irregolarità.

Con la pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale» 237 del 10.10.2012 del decreto legge 174, in vigore da ieri, è ridisegnato il ruolo del responsabile dei servizi finanziari degli enti locali.
Tale figura, in quattro modifiche apportate al Testo Unico degli enti locali, si delinea come un "baluardo" della tenuta della finanza locale. La prima riguarda il visto di regolarità contabile. La nuova formulazione dell'art. 49 del Tu prevede che ogni proposta di delibera che "comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente" deve obbligatoriamente ottenere il visto del ragioniere.
Le altre modifiche riguardano "status" e competenze del responsabile finanziario. La rivisitazione del Tu degli enti locali rende inamovibile il responsabile dei conti degli enti. Attraverso una modifica all'articolo 109 l'incarico del responsabile finanziario può essere revocato solo in caso di "gravi irregolarità riscontrate nell'esercizio delle funzioni". L'ordinanza del legale rappresentante dell'ente (sindaco o presidente della Provincia), per essere esecutiva, deve ottenere previamente un parere obbligatorio sia del Viminale che di via XX settembre.
Questa "inamovibilità" assume ancor più rilevanza se letta in modo coordinato, sia alle nuove tipologie di controlli affidate a tale figura, sia alle disposizioni contenute nel disegno di legge di stabilità 2013.
Rispetto alla mappatura dei controlli interni, il nuovo articolo 147 dispone che spetta al responsabile finanziario la funzione di garantire la gestione del bilancio e il rispetto degli obiettivi e dei vincoli di finanza pubblica determinati dal patto di stabilità interno. Per svolgere tali funzioni, il responsabile deve agire in piena autonomia e tenendo "conto degli indirizzi della Ragioneria generale dello Stato".
La garanzia e la salvaguardia dei vincoli di finanza pubblica sono esaltate dalla nuova normativa del Ddl stabilità. Il Ddl impone alle pubbliche amministrazioni una rigida programmazione finanziaria nell'esecuzione degli investimenti. Dal 2013, gli enti locali possono avviare le procedure per l'esecuzione dei lavori pubblici solo se sono in grado di garantire i termini di pagamento previsti dalla normativa, ossia, solo se sono è in grado di rispettare i vincoli imposti dal patto di stabilità interno già in sede di programmazione delle opere pubbliche e non, come accaduto in passato, rinviando all'esercizio successivo i pagamenti.
La norma prosegue dando la facoltà alle amministrazioni appaltanti di sospendere l'efficacia dei contratti già sottoscritti, senza diritto ad alcun indennizzo delle parti, nel caso in cui la prosecuzione del contratto non consenta il rispetto dei vincoli di finanza pubblica.
Il responsabile "in autonomia" e tenendo conto degli indirizzi che gli derivano dalla Ragioneria generale dello Stato, dovrà garantire che i lavori già finanziati e da programmare siano in linea con le norme relative alla tempestività dei pagamenti e il rispetto del patto di stabilità interno (articolo Il Sole 24 Ore del 12.10.2012 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVIQuando il trattamento concerne dati idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale, il diritto di accesso è consentito se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di esibizione dei documenti amministrativi è di rango almeno pari ai diritti dell'interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile.
Tuttavia:
- in una diversa ottica, il diritto alla difesa in giudizio –tutelato a livello costituzionale– potrebbe essere apprezzato come situazione giuridica di “pari rango” rispetto alla riservatezza (capace di legittimare una richiesta di accesso a dati sull’altrui stato di salute);
- laddove venga in rilievo una richiesta di accesso a documenti amministrativi contenenti dati sensibili (o giudiziari) per motivi di difesa legale, l'accesso è consentito solo “nei limiti in cui sia strettamente indispensabile” alla difesa medesima, come stabilisce l’art. 27, comma 7, secondo periodo, della L. 241/1990;
- che in tal caso il giudice dell'accesso ha il dovere di effettuare un più pregnante esame circa l'effettiva necessità della richiesta documentazione ai fini della difesa giudiziaria dell'istante, perché l'ostensione viene ammessa dalla legge solo nella misura in cui sia effettivamente necessaria a tal fine;
- che il bilanciamento cui fa riferimento l’art. 60 D.Lgs. 196/2003 deve avvenire verificando non in astratto, ma in concreto se il diritto che si intende far valere o difendere attraverso l’accesso è di rango almeno pari a quello alla riservatezza
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Rilevato:
- che secondo la piana lettura dell’art. 60 del D.Lgs. 196/2003 (confortata da un consolidato indirizzo interpretativo – cfr. Consiglio di Stato, sez. V – 28/09/2010 n. 7166) quando il trattamento concerne dati idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale, il diritto di accesso è consentito se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di esibizione dei documenti amministrativi è di rango almeno pari ai diritti dell'interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile;
- che il diritto azionato da parte ricorrente ha natura e consistenza patrimoniale e, come tale, è stato in taluni casi ritenuto recessivo rispetto all'intesse del controinteressato a preservare la riservatezza dei propri dati sensibili (TAR Campania Salerno, sez. I – 21/04/2011 n. 728);
- che in altra controversia (sentenza Sezione II – 13/07/2011 n. 1043) la Sezione ha affermato che il diritto ad ottenere il risarcimento del danno derivato dalla perdita del familiare non può ritenersi dello stesso rango di diritto fondamentale ed inviolabile riconosciuto al diritto alla riservatezza dei dati relativi alla stato di salute di una persona (nella specie il responsabile della lesione);
- che in tale circostanza la Sezione ha puntualizzato che l’esclusione del richiesto accesso “non incide direttamente sulla possibilità di esercitare l’azione civile risarcitoria (che in effetti risultava già pendente), ma ha esclusivamente l’effetto di rendere un po’ più lenta e faticosa l’eventuale dimostrazione delle condizioni di salute del controinteressato che lo avrebbero reso inidoneo alla guida, il cui accertamento potrà comunque avvenire sia mediante perizie mediche, che attraverso l’acquisizione della documentazione direttamente ad opera del giudice civile, previa valutazione della rilevanza delle stesse”;
Atteso:
- che, in una diversa ottica, il diritto alla difesa in giudizio –tutelato a livello costituzionale– potrebbe essere apprezzato come situazione giuridica di “pari rango” rispetto alla riservatezza (capace di legittimare una richiesta di accesso a dati sull’altrui stato di salute);
- che tuttavia è stato sottolineato che, laddove venga in rilievo una richiesta di accesso a documenti amministrativi contenenti dati sensibili (o giudiziari) per motivi di difesa legale, l'accesso è consentito solo “nei limiti in cui sia strettamente indispensabile” alla difesa medesima, come stabilisce l’art. 27, comma 7, secondo periodo, della L. 241/1990 (TAR Toscana, sez. I – 27/12/2011 n. 2067);
- che in tal caso il giudice dell'accesso ha il dovere di effettuare un più pregnante esame circa l'effettiva necessità della richiesta documentazione ai fini della difesa giudiziaria dell'istante, perché l'ostensione viene ammessa dalla legge solo nella misura in cui sia effettivamente necessaria a tal fine;
- che la giurisprudenza ha altresì chiarito che il bilanciamento cui fa riferimento l’art. 60 deve avvenire verificando non in astratto, ma in concreto se il diritto che si intende far valere o difendere attraverso l’accesso è di rango almeno pari a quello alla riservatezza (Consiglio di Stato, sez. IV – 06/05/2010 n. 2639) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 11.10.2012 n. 1685 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIQuesto TAR deve dichiararsi privo della giurisdizione, propria del Tribunale superiore delle acque pubbliche (TSAP), trattandosi di questione espropriativa direttamente connessa con la legittimità di atti attinenti ad una concessione di derivazione di acque pubbliche.
Le opere la cui realizzazione è oggetto di contestazione, infatti, risultano strettamente connesse all’attivazione della derivazione di acqua concessa a favore della controinteressata (condotta forzata, scala di risalita dei pesci ecc.) ed in considerazione di ciò anche l’occupazione e l’espropriazione del terreno necessario alla loro localizzazione è attratta nella giurisdizione del TSAP.

Ritenuto che, alla luce dell’ormai costante giurisprudenza in materia, questo Tribunale debba dichiararsi privo della giurisdizione, propria del Tribunale superiore delle acque pubbliche, trattandosi di questione espropriativa direttamente connessa con la legittimità di atti attinenti ad una concessione di derivazione di acque pubbliche (cfr, tra le tante, in tal senso, TAR Emilia Romagna Bologna, sez. I, 27.12.2011, n. 855, TAR Marche Sez. I, 26.03.2008, n. 209, Cons. St., Sez. VI, 12.10.2006, n. 6070, Cassazione civile, sez. un., 12.05.2009, n. 10846).
Le opere la cui realizzazione è oggetto di contestazione, infatti, risultano strettamente connesse all’attivazione della derivazione di acqua concessa a favore della controinteressata (condotta forzata, scala di risalita dei pesci ecc.) ed in considerazione di ciò anche l’occupazione e l’espropriazione del terreno necessario alla loro localizzazione è attratta nella giurisdizione del TSAP (cfr. il precedente in termini di cui alla sentenza TAR Emilia-Romagna, Sez. I, 16.07.2012, n. 495).
Conseguentemente, declinata la propria giurisdizione, il Collegio precisa che il termine per la riassunzione davanti al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche –termine fino alla scadenza del quale saranno salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda– è pari a tre mesi dal passaggio in giudicato della presente decisione (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 11.10.2012 n. 1684 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOTfr, la Consulta: prelievo illegittimo sugli stipendi degli statali. La sentenza della Corte costituzionale boccia il prelievo destinato alla buonuscita.
Ora lo dice anche la Corte costituzionale: quella trattenuta pari al 2 per cento dello stipendio, che circa due milioni di dipendenti pubblici si vedono applicare ogni mese, non è legittima.
Nella stessa
sentenza 11.10.2012 n. 223 in cui censurano il prelievo sulle retribuzioni più alte, i giudici della Consulta affermano che la legge 122 del 2010 con la quale è stato riformato l’istituto della buonuscita viola gli articoli 3 e 36 della Costituzione determinando «un ingiustificato trattamento deteriore dei dipendenti pubblici rispetto a quelli privati».
La possibilità che quei soldi tornino in tempi brevi nelle tasche degli interessati è piuttosto bassa: l’onere per lo Stato sarebbe troppo pesante soprattutto in una fase di ulteriore stretta di bilancio. Ma è chiaro che di un pronunciamento pesante come quello della Corte costituzionale, che segue quelli di alcuni Tar, lo Stato in qualche modo dovrà tener conto.
Tutto nasce dalla legge 122 del 2010, una corposa manovra economica che oltre a bloccare i rinnovi contrattuali per tre anni e a congelare le retribuzioni dei dipendenti pubblici, modificava l’istituto della loro buonuscita equiparandola a partire dal 2011 al Tfr dei privati. Le due forme di liquidazione funzionano in modo abbastanza diverso: la buonuscita degli statali era alimentata da un accantonamento del 9,6 per cento calcolato sull’80 per cento della retribuzione: il 2,5 (quindi il 2 per cento del totale) era a carico del lavoratore. Invece per il Tfr viene accantonato il 6,91 per cento dello stipendio totale, totalmente a carico del datore di lavoro.
Con l’equiparazione tra pubblico e privato la trattenuta del 2,5 per cento, denominata «Opera di previdenza» sarebbe dovuta sparire dai cedolini. Anche perché a fronte di questi soldi non c’è più a fine carriera, come accadeva con la buonuscita, una liquidazione generalmente più vantaggiosa del Tfr. Anzi, per i lavoratori pubblici la base retributiva per il calcolo del Tfr resta pari all’80 per cento dello stipendio, mentre per i privati si tiene conto del 100 per cento.
Nella realtà però non è successo nulla, anche perché l’allora Inpdap (poi confluita nell’Inps) ha emanato una circolare in cui sosteneva che siccome la legge aveva sì modificato il sistema di calcolo, ma senza cambiare il nome «buonuscita», la trattenuta doveva essere applicata ancora. E così hanno fatto tutte le amministrazioni. Alcuni lavoratori si sono però rivolti alla giustizia amministrativa che ha iniziato a dare loro ragione; dal Tar dell’Umbria il nodo è poi rimbalzato alla Consulta, che ora si è pronunciata.
Sulla carta, si tratta di una partita finanziaria gigantesca. Il prelievo dichiarato illegittimo pesa sulla busta paga di un dipendente medio per 35-40 euro al mese; 600 euro l’anno è la stima della Uil-Fpl per un lavoratore di fascia C. Siccome il nuovo meccanismo è scattato all’inizio del 2011 si tratterebbe -oltre che di sospendere il prelievo- di restituire quello applicato ormai su quasi due anni. La Cgil valuta l’impatto sul biennio pari a 3,8 miliardi di euro riferendosi a tutta la platea del pubblico impiego.
Bisogna ricordare però che questa situazione non riguarda tutti i dipendenti pubblici ma solo quelli assunti prima del 2001: gli altri infatti hanno già fin dall’inizio il meccanismo del Tfr e la trattenuta non viene loro applicata per il semplice motivo che lo stipendio è stato loro ridotto in proporzione al momento in cui sono stati assunti: soluzione ugualmente poco piacevole nella sostanza ma giuridicamente corretta.
Ora parte la battaglia per rendere esecutivo il principio fissato dai giudici; il governo dovrà quanto meno iniziare ad ipotizzare qualche soluzione. «Abbiamo sempre sostenuto che il prelievo fosse illegittimo in quanto viola il principio di eguaglianza e quello di parità di trattamento retributivo rispetto al settore privato -commenta Giovanni Torluccio-segretario generale della Uil-Fpl- ora le amministrazioni dovranno restituire ai lavoratori le somme illegittimamente trattenute». La Cgil parla di «una vera e propria bomba sui conti Inps-Inpdap» (articolo Il Mattino del 13.10.2012 - tratto da www.corteconti.it).

CONDOMINIO: Se l’inquilino muore fulminato ne rispondono proprietario e amministratore.
Il proprietario di casa e l’amministratore -anche soltanto di fatto- rispondono penalmente della morte dell’inquilino rimasto fulminato per l’assenza di “salvavita “all’interno dell’abitazione.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza 10.10.2012 n. 40050, respingendo il ricorso di un’anziana madre (proprietaria della casa), e del di lei figlio (che “le dava una mano” nella gestione), contro la sentenza della Corte di appello che li aveva condannati entrambi per omicidio colposo.
La vicenda
L’incredibile quanto tragica storia è avvenuta a Catania. Lì si trovava la casa dove lo sventurato inquilino fu raggiunto mentre si faceva la doccia da una prima scarica elettrica. A quel punto, per capire il motivo della dispersione, l’uomo si recò sul terrazzo di copertura dell’abitazione e “senza che avesse in alcun modo armeggiato con i fili elettrici”, “venne attinto dalla mortale scarica”, soltanto “per avere contemporaneamente toccato il tubo conduttore dell’elettricità all’autoclave e l’inferriata a potenziale elettrico zero”, dove venne trovato ancora aggrappato dai soccorritori.
Impianto non a norma
Nulla ha potuto la testimonianza di un tecnico elettricista secondo cui l’appartamento era dotato del dispositivo di sicurezza. Per la Cassazione, infatti, se così fosse stato “il tragico evento non si sarebbe dato”, perché “l’immediata disattivazione elettrica avrebbe impedito la folgorazione”. Mentre dagli accertamenti tecnici era risultato un impianto “assemblato in modo rudimentale e al quanto approssimativo”, tale da escludere, dunque, che la protezione fosse assicurata.
No alla responsabilità dell’inquilino
Neppure si può rimproverare all’inquilino un comportamento anomalo, secondo l’id quod plerumque accidit, per aver tentato di capire l’origine della perdita, salendo su una terrazza a cui gli era precluso l’ingresso ma che “evidentemente era dotato di libero accesso”. Non può dunque addossarsi al povero inquilino tutta la responsabilità anche se la Cassazione ha confermato un suo concorso di colpa al 20%.
La responsabilità dell’amministratore
Infine, degno di nota è anche il riconoscimento della responsabilità in capo al figlio, quale amministratore di fatto, senza perciò che vi fosse stata alcuna “formalità di sorta” nella preposizione ma soltanto sulla base del fatto che egli aveva indicato l’abitazione come “casa mia”, riscuoteva i canoni di locazione rilasciandone ricevuta e dopo l’evento si occupò della messa a norma dell’impianto al posto della madre ormai in età (tratto da e link a
www.diritto24.ilsole24ore.com).

EDILIZIA PRIVATAPer la giurisprudenza maggioritaria, la semplice constatazione dell'abuso, a prescindere dal tempo trascorso, costituisce un legittimo presupposto per l’adozione dell’ordine di demolizione di opere abusive e, ciò, in considerazione del carattere “dovuto” di detto provvedimento.
E’ utile ricordare, infatti, come nello schema giuridico delineato dall'art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo dell'abuso edilizio costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione.
Il provvedimento di cui all’art. 31 deve allora ritenersi sufficientemente motivato con l’accertamento dell’abuso, non necessitando di una particolare motivazione in ordine alle disposizioni normative che si assumono violate, né in ordine all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso.
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Va ricordato l’orientamento prevalente in materia di ordini di demolizione nella parte in cui si afferma, in materia edilizia, la non necessità di una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti. Questo Collegio è, altresì, a conoscenza dell’ulteriore orientamento giurisprudenziale diretto a sancire la necessità di una “più articolata” motivazione tutte le volte che il notevole lasso di tempo trascorso, tra la sanzione e l’abuso, sia la conseguenza di un’inerzia dell’Amministrazione che, a sua volta, abbia ingenerato un affidamento del privato.
Sul punto deve, tuttavia, evidenziarsi come l’applicazione dei principi fatti propri da detto ulteriore orientamento comporti la necessità di verificare l’esistenza di alcuni presupposti, precisamente riconducibili sia all’avvenuto accertamento che gli abusi siano stati eseguiti in un periodo molto risalente sia, ancora, alla constatazione circa l’effettiva inerzia dell’Amministrazione (inerzia che presuppone una conoscenza dell’abuso) e, in ultimo, del nesso causale tra l’inerzia e l’affidamento ingenerato nei confronti del privato.

Con il primo motivo il ricorrente sostiene come il provvedimento impugnato sia stato assunto in violazione e falsa applicazione degli art. 3 e 31 del D.p.r. n. 380/2001 in quanto il magazzino abusivo sarebbe stato realizzato in un periodo anteriore al 01.09.1967 e, quindi, in un regime giuridico in cui non era necessaria la concessione edilizia. Solo a partire da detta data, infatti, è divenuto efficace, su tutto il territorio nazionale, l’obbligo di acquisire, al fine di procedere alla realizzazione di un manufatto edilizio, una preventiva concessione edilizia adottata nel rispetto delle prescrizioni urbanistiche di cui alla legge 17.08.1942 n. 1150 e ai sensi della legge del 01.08.1967 n. 765.
Il ricorrente contesta sia il fondamento della dichiarazione del proprietario confinante (che afferma come il manufatto sia stato realizzato tra il 1980 e il 1985) sia, ancora, l’idoneità di una foto aerea del 1967 in quanto tale non sufficiente a ricondurre l’esistenza del manufatto ad un periodo successivo alla data sopra riportata.
Sul punto va rilevato come il ricorrente si limiti semplicemente ad affermare la “non idoneità” della prova fotografica addotta dal Comune a datare il manufatto, senza per questo fornire ulteriori elementi documentali o riscontri suscettibili di inficiarne la validità.
In realtà è necessario rilevare come, per la giurisprudenza maggioritaria, la semplice constatazione dell'abuso, a prescindere dal tempo trascorso, costituisca un legittimo presupposto per l’adozione dell’ordine di demolizione di opere abusive e, ciò, in considerazione del carattere “dovuto” di detto provvedimento. E’ utile ricordare, infatti, come nello schema giuridico delineato dall'art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo dell'abuso edilizio costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione. Il provvedimento di cui all’art. 31 deve allora ritenersi sufficientemente motivato con l’accertamento dell’abuso, non necessitando di una particolare motivazione in ordine alle disposizioni normative che si assumono violate, né in ordine all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso (per tutte si veda TAR Campania Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n. 9638 e TAR Campania Napoli Sez. II, 06.02.2012, n. 580).
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Deve essere rigettato anche il secondo e il terzo motivo alla base del ricorso nella parte in cui, entrambi, fondano l’illegittimità del provvedimento sulla base del venire in essere di un “affidamento” del ricorrente, ingenerato dal considerevole decorso del tempo trascorso.
Il ricorrente sostiene, altresì, la violazione dell’art. 3 della L. n. 241/1990 in quanto il provvedimento risulterebbe privo della motivazione in ordine alla specificazione dell’interesse pubblico che permetterebbe di superare il presunto affidamento del privato.
Il motivo deve ritenersi infondato in quanto in contrasto con l’orientamento prevalente in materia di ordini di demolizione nella parte in cui si afferma, in materia edilizia, la non necessità di una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti. Questo Collegio è, altresì, a conoscenza dell’ulteriore orientamento giurisprudenziale diretto a sancire la necessità di una “più articolata” motivazione tutte le volte che il notevole lasso di tempo trascorso, tra la sanzione e l’abuso, sia la conseguenza di un’inerzia dell’Amministrazione che, a sua volta, abbia ingenerato un affidamento del privato (Cons. Stato Sez. V, 29.05.2006, n. 3270).
Sul punto deve, tuttavia, evidenziarsi come l’applicazione dei principi fatti propri da detto ulteriore orientamento comporti la necessità di verificare l’esistenza di alcuni presupposti, precisamente riconducibili sia all’avvenuto accertamento che gli abusi siano stati eseguiti in un periodo molto risalente sia, ancora, alla constatazione circa l’effettiva inerzia dell’Amministrazione (inerzia che presuppone una conoscenza dell’abuso) e, in ultimo, del nesso causale tra l’inerzia e l’affidamento ingenerato nei confronti del privato.
Niente di tutto ciò è stato dimostrato dalla ricorrente che, al contrario, si limita a fondare l’affidamento sulla presunta consapevolezza da parte del proprietario confinante circa l’esistenza del manufatto, fattispecie che di per sé non può significare necessariamente l’esistenza di una contestuale conoscenza del Comune circa l’esistenza del manufatto e, di conseguenza, del manifestarsi da parte di quest’ultimo di un comportamento omissivo, e di mera inerzia, nel perseguire l’abuso
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 10.10.2012 n. 1255 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Paesaggio e costituzione.
I principi generali in materia ambientale e paesaggistica non possono esser disgiunti dagli artt. 9 e 117 della Costituzione, per cui deve essere data la prevalenza alla tutela del paesaggio non nel significato, meramente estetico, di “bellezza naturale”, ma come complesso dei valori inerenti il territorio naturale, che è un bene “primario” ed “assoluto" e comunque una risorsa assolutamente limitata ed in via di esaurimento.
L’attività sanzionatoria è diretta ad assicurare la tutela ambientale e paesaggistica quale valore primario, complesso, unitario ed assoluto, che precede gli altri interessi pubblici e privati.
Pertanto, una volta accertato l’assoluto contrasto dell’intervento comunque realizzato dall’appellante con la disciplina urbanistica, non può sussistere alcun legittimo affidamento in capo al costruttore abusivo che possa giustificare la conservazione di una situazione di fatto realizzata "contra ius" in totale spregio dei valori ambientali, archeologici e paesaggistici.
Ossia, non solo non vi è alcuna norma che preveda il preteso “favor” per la conservazione dell’edilizia illegale, ma al contrario la repressione degli abusi edilizi è un’attività soggetta ai principi generali di "tipicità" e di "legalità" costituente un preciso obbligo dell'amministrazione, la quale non gode di alcuna discrezionalità al riguardo.

I principi generali in materia ambientale e paesaggistica non possono esser disgiunti, come ha insegnato la Corte Costituzionale, dagli artt. 9 e 117 della Costituzione, per cui deve essere data la prevalenza alla tutela del paesaggio non nel significato, meramente estetico, di “bellezza naturale”, ma come complesso dei valori inerenti il territorio naturale (cfr. Corte Cost., 07.11.1994, n. 379), che è un bene “primario” ed “assoluto" (Corte cost., 05.05.2006, nn. 182, 183) e comunque una risorsa assolutamente limitata ed in via di esaurimento.
In conformità ai principi costituzionali e con riguardo all'applicazione della Convenzione europea sul paesaggio, adottata a Firenze il 20.10.2000, l’attività sanzionatoria è diretta ad assicurare la tutela ambientale e paesaggistica quale valore primario, complesso, unitario ed assoluto, che precede gli altri interessi pubblici e privati.
Pertanto, una volta accertato l’assoluto contrasto dell’intervento comunque realizzato dall’appellante con la disciplina urbanistica, non può sussistere alcun legittimo affidamento in capo al costruttore abusivo che possa giustificare la conservazione di una situazione di fatto realizzata "contra ius" in totale spregio dei valori ambientali, archeologici e paesaggistici.
Ossia, non solo non vi è alcuna norma che preveda il preteso “favor” per la conservazione dell’edilizia illegale, ma al contrario la repressione degli abusi edilizi è un’attività soggetta ai principi generali di "tipicità" e di "legalità" costituente un preciso obbligo dell'amministrazione, la quale non gode di alcuna discrezionalità al riguardo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.10.2012 n. 5256 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATARisulta legittimo l’annullamento soprintendentizio laddove fonda la propria determinazione sul rilievo del difetto di motivazione dell’autorizzazione paesaggistica comunale.
Invero, l’autorizzazione paesaggistica deve essere motivata in modo che emerga l’apprezzamento di tutte le rilevanti circostanze di fatto e la non manifesta irragionevolezza della scelta effettuata sulla prevalenza rispetto al valore tutelato in via primaria, non potendo l’autorità comunale limitarsi ad affermazioni apodittiche e dovendosi pure riferire non all’entità atomisticamente valutata del singolo intervento ma al complesso strutturalmente individuato che deriva dalla sovrapposizione con quello preesistente.
Pertanto, occorre esternare adeguatamente l’avvenuto apprezzamento comparativo, da un lato del contenuto del vincolo e, dall’altro, di tutte le rilevanti circostanze di fatto relative al manufatto ed al suo inserimento nel contesto protetto, in modo da giustificare la scelta di dare prevalenza all’interesse del privato rispetto a quello tutelato attraverso l’imposizione del vincolo.
Nel caso di specie, tale valutazione non risulta esternata da parte dell’autorità comunale, atteso che il parere della commissione preposta, cui rinvia per relationem l’autorizzazione paesaggistica, si limita ad evidenziare che “gli interventi proposti non contrastano con le esigenze di tutela paesaggistiche ed ambientali”, senza spiegarne le ragioni conformemente alla regola sopra richiamata.

- Ritenuto che risulta legittimo l’annullamento soprintendentizio, laddove fonda la propria determinazione sul rilievo del difetto di motivazione dell’autorizzazione paesaggistica comunale;
- Ritenuto, invero, per costante giurisprudenza della Sezione, che l’autorizzazione paesaggistica deve essere motivata in modo che emerga l’apprezzamento di tutte le rilevanti circostanze di fatto e la non manifesta irragionevolezza della scelta effettuata sulla prevalenza rispetto al valore tutelato in via primaria, non potendo l’autorità comunale limitarsi ad affermazioni apodittiche e dovendosi pure riferire non all’entità atomisticamente valutata del singolo intervento ma al complesso strutturalmente individuato che deriva dalla sovrapposizione con quello preesistente;
- Ritenuto, pertanto, che occorre esternare adeguatamente l’avvenuto apprezzamento comparativo, da un lato del contenuto del vincolo e, dall’altro, di tutte le rilevanti circostanze di fatto relative al manufatto ed al suo inserimento nel contesto protetto, in modo da giustificare la scelta di dare prevalenza all’interesse del privato rispetto a quello tutelato attraverso l’imposizione del vincolo;
- Evidenziato che tale valutazione non risulta esternata da parte dell’autorità comunale, atteso che il parere della commissione preposta, cui rinvia per relationem l’autorizzazione paesaggistica, si limita ad evidenziare che “gli interventi proposti non contrastano con le esigenze di tutela paesaggistiche ed ambientali”, senza spiegarne le ragioni conformemente alla regola sopra richiamata (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 09.10.2012 n. 1813 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di repressione degli abusi edilizi non è richiesta la comunicazione di avvio del procedimento, nel caso di ordine di demolizione di opere edilizie abusive, in particolare laddove trattasi di provvedimento che, per sua natura, ha carattere urgente, dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali; simili provvedimenti si risolvono, infatti, in meri accertamenti tecnici e si sostengono su un presupposto di fatto, rientrante nella sfera di controllo dell'interessato.
Contrariamente alla tesi sostenuta dal ricorrente, in materia di repressione degli abusi edilizi non è richiesta la comunicazione di avvio del procedimento, nel caso di ordine di demolizione di opere edilizie abusive, in particolare laddove trattasi, com’è nel caso di specie, di provvedimento che, per sua natura, ha carattere urgente, dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali; simili provvedimenti si risolvono, infatti, in meri accertamenti tecnici e si sostengono su un presupposto di fatto, rientrante nella sfera di controllo dell'interessato (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 05.03.2010, n. 1278 e, da ultimo, Tar Campania, Napoli, Sez. VII, 03.09.2010, n. 17302) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 09.10.2012 n. 1807 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAQualora si versi nell’ambito di un mutamento di destinazione d'uso di carattere strutturale, cioè connesso e conseguente all'esecuzione di opere, il permesso di costruire è necessario.
Pertanto devono considerarsi abusive non solo le opere di costruzione vere e proprie, ma anche i lavori interni che, per quanto modesti (e non è il caso in esame, nel quale al contrario gli interventi all’esterno ed all’interno appaiono significativi), si rendono indispensabili per rendere possibile la nuova destinazione.

Come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, con orientamento condiviso dal Collegio, qualora si versi nell’ambito di un mutamento di destinazione d'uso di carattere strutturale, cioè connesso e conseguente all'esecuzione di opere, il permesso di costruire è necessario (cfr. recente Tar Campania, Napoli, Sez. III, 07.02.2011, n. 735). Pertanto devono considerarsi abusive non solo le opere di costruzione vere e proprie, ma anche i lavori interni che, per quanto modesti (e non è il caso in esame, nel quale al contrario gli interventi all’esterno ed all’interno appaiono significativi), si rendono indispensabili per rendere possibile la nuova destinazione.
Ne consegue che, nel caso in cui locali sottotetto siano stati destinati a locali di civile abitazione, è legittimo l'ordine di demolizione (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 09.10.2012 n. 1804 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASe presentata richiesta di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 37 d.p.r. 380/2001, il decorso di 60 giorni dalla richiesta medesima, senza che l’amministrazione comunale si sia pronunciata, va qualificato come silenzio-rigetto.
La società ricorrente ha presentato richiesta di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 37 d.p.r. 380/2001, per il quale il decorso di sessanta giorni dalla richiesta medesima, senza che l’amministrazione comunale si sia pronunciata, va qualificata come silenzio-rigetto; ed invero l’art. 37, comma 6, chiarisce che: “La mancata denuncia di inizio dell'attività non comporta l'applicazione delle sanzioni previste dall'articolo 44. Resta comunque salva, ove ne ricorrano i presupposti in relazione all'intervento realizzato, l'applicazione … dell'accertamento di conformità di cui all'articolo 36”.
L’art. 36, comma 3, dispone che “Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata” (TAR Campania-Salerno, Sez. I sentenza 09.10.2012 n. 1803 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’autore di un esposto, anche se proprietario confinante del destinatario di un provvedimento di annullamento d’ufficio del titolo ad aedificandum, non assume la veste giuridica di controinteressato perché il potere di autotutela è esercitato per il conseguimento dell’interesse pubblico al quale è estraneo il privato che, se vanta un interesse di mero fatto, ricorrendone i presupposti, può svolgere, come è avvenuto nel caso in esame, l’intervento ad opponendum a norma dell’art. 22, comma 2, della legge n. 1034/1971 (ora art. 28, comma 2, del c.p.a.).
L’orientamento giurisprudenziale assolutamente maggioritario, condiviso da questo Tribunale, ha avuto modo di affermare che l’autore di un esposto, anche se proprietario confinante del destinatario di un provvedimento di annullamento d’ufficio del titolo ad aedificandum, non assume la veste giuridica di controinteressato perché il potere di autotutela è esercitato per il conseguimento dell’interesse pubblico al quale è estraneo il privato che, se vanta un interesse di mero fatto, ricorrendone i presupposti, può svolgere, come è avvenuto nel caso in esame, l’intervento ad opponendum a norma dell’art. 22, comma 2, della legge n. 1034/1971 (ora art. 28, comma 2, del c.p.a.) (Cfr. Cons. di Stato – Sez. IV – 15/11/2004 n. 7417; TAR Valle d’Aosta 13/02/2008 n. 10; id. Puglia – BA – Sez. I – 21/02/2006 n. 558; id. Lombardia – BS – 20/11/2002 n. 1881) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 04.10.2012 n. 1794 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione dell'istanza di accertamento di conformità ai sensi dell'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, produce l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione dell'ordine di demolizione per sopravvenuta carenza di interesse.
L'esercizio della facoltà di regolarizzare la propria posizione da parte del privato impedisce l'esercizio del potere repressivo dell'Amministrazione, almeno fino a quando la stessa non si pronunci in senso negativo sull'istanza medesima, comportando altresì la traslazione dell'interesse ad impugnare verso il futuro provvedimento che, eventualmente, respinga la domanda medesima, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva.
In definitiva l'istanza di sanatoria impone il riesame della questione, da parte dello stesso Ente, che dovrà valutare la possibile conformità delle opere stesse, tenendo conto delle concrete ragioni dell'istanza, configurandosi cioè diversi ed autonomi presupposti per un eventuale rinnovato esercizio del potere sanzionatorio.
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L'acquisizione del bene al patrimonio del Comune non può essere adottata ove la parte interessata si sia attivata per sanare l'abuso, dovendo l'Amministrazione pronunciarsi sull'istanza di adeguamento e/o sanatoria, con la necessità di riedizione dell'ordine di demolizione in caso di mancato accoglimento della stessa o vi sia stato il rigetto del'istanza di dissequestro.

Secondo la giurisprudenza alla quale aderisce il Collegio, la presentazione dell'istanza di accertamento di conformità ai sensi dell'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, produce l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione dell'ordine di demolizione per sopravvenuta carenza di interesse (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. VII, 20.11.2007, n. 14442; 28.12.2007, n. 16539).
In base a tale orientamento, dal quale il Collegio non ha ragione di discostarsi, l'esercizio della facoltà di regolarizzare la propria posizione da parte del privato impedisce l'esercizio del potere repressivo dell'Amministrazione, almeno fino a quando la stessa non si pronunci in senso negativo sull'istanza medesima, comportando altresì la traslazione dell'interesse ad impugnare verso il futuro provvedimento che, eventualmente, respinga la domanda medesima, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva.
In definitiva l'istanza di sanatoria impone il riesame della questione, da parte dello stesso Ente, che dovrà valutare la possibile conformità delle opere stesse, tenendo conto delle concrete ragioni dell'istanza, configurandosi cioè diversi ed autonomi presupposti per un eventuale rinnovato esercizio del potere sanzionatorio (Cfr. TAR Salerno Campania, sez. I, 14.10.2011 n. 1666, TAR Campania Salerno, sez. I, 22.02.2011, n. 350, TAR Campania Napoli, sez. VII, 10.03.2011, n. 1401 e Tar Piemonte, Sez. I, n. 16/2011 e TAR Lazio Roma, sez. II 04.12.2009, n. 12552).
Nel caso di specie il ricorrente a seguito dell’ordinanza di demolizione, di cui il provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale costituisce esecuzione, ha presentato richiesta di variante al piano regolatore ai fini della sanatoria dell’abuso, così privando di efficacia l’ordinanza stessa.
Sul rapporto tra il procedimento disciplinato dall'art. 5, D.P.R. n. 447 del 1998 e quello ordinario di variante allo strumento urbanistico generale, la giurisprudenza si è pronunciata evidenziando che si tratta di procedimenti entrambe volti ad apportare alla strumentazione urbanistica comunale le variazioni necessarie a consentire il rilascio della concessione edilizia richiesta per la realizzazione di impianti produttivi (così, CdS Sez. V, sent. n. 7425 del 14.12.2006
Il Comune, una volta rigettata la richiesta variante, o meglio, la domanda di indizione di conferenza di servizi, avrebbe dovuto riesercitare il potere sanzionatorio, rinnovando il termine per la demolizione del manufatto abusivo (Tar Catania 3846 - 27.09.2010 - Sez. I).
In mancanza di una nuova ordinanza di demolizione l’acquisizione del bene al patrimonio del comune è illegittima, non potendo la stessa disporsi sulla base dell’inottemperanza ad una ordinanza di demolizione divenuta inefficace per effetto della richiesta attività di regolarizzazione intrapresa dal privato.
La giurisprudenza condivisa dal Collegio ha, infatti, chiarito che l'acquisizione del bene al patrimonio del Comune non può essere adottata ove la parte interessata si sia attivata per sanare l'abuso, dovendo l'Amministrazione pronunciarsi sull'istanza di adeguamento e/o sanatoria, con la necessità di riedizione dell'ordine di demolizione in caso di mancato accoglimento della stessa o vi sia stato il rigetto del'istanza di dissequestro (Cfr., in termini, TAR Catania, Sez. I, 4374 - 11.11.2010 – e 27.09.2010 n. 3846) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 04.10.2012 n. 1784 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa mera presentazione dell'istanza di accertamento di conformità ai sensi dell'art. 13 della l. n. 47/1985 (oggi, dell’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001) produce l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione dell'ordine di demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva per sopravvenuta carenza di interesse, atteso che l'esercizio della facoltà di regolarizzare la propria posizione da parte del privato impedisce l'esercizio del potere repressivo dell'amministrazione, almeno fino a quando la stessa non si pronunci in senso negativo sull'istanza medesima, ed, inoltre, in quanto l'applicazione di detto principio, determina, sotto l'aspetto processuale, la sopravvenuta carenza di interesse all'annullamento dell'atto sanzionatorio in relazione al quale è stata prodotta la suddetta domanda di sanatoria e la traslazione e differimento dell'interesse ad impugnare verso il futuro provvedimento che, eventualmente, respinga la domanda medesima, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva.
RITENUTO, in disparte ogni altro rilievo, che –per costate orientamento pretorio– la mera presentazione dell'istanza di accertamento di conformità ai sensi dell'art. 13 della l. n. 47/1985 (oggi, dell’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001) produce l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione dell'ordine di demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva per sopravvenuta carenza di interesse, atteso che l'esercizio della facoltà di regolarizzare la propria posizione da parte del privato impedisce l'esercizio del potere repressivo dell'amministrazione, almeno fino a quando la stessa non si pronunci in senso negativo sull'istanza medesima, ed, inoltre, in quanto l'applicazione di detto principio, determina, sotto l'aspetto processuale, la sopravvenuta carenza di interesse all'annullamento dell'atto sanzionatorio in relazione al quale è stata prodotta la suddetta domanda di sanatoria e la traslazione e differimento dell'interesse ad impugnare verso il futuro provvedimento che, eventualmente, respinga la domanda medesima, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva (in terminis, da ultimo TAR Campania Salerno, sez. II, 24.04.2012, n. 802) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 01.10.2012 n. 1776 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa mera presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce di per sé l'effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento (e, correlativamente, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse) e ciò in quanto il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, ex se comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, dal momento che, in caso di diniego del richiesto accertamento di conformità, l'Amministrazione Comunale dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi.
CONSIDERATO che, per costante orientamento giurisprudenziale, la mera presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce di per sé l'effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento (e, correlativamente, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse) e ciò in quanto il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, ex se comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, dal momento che, in caso di diniego del richiesto accertamento di conformità, l'Amministrazione Comunale dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi (in termini, da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 16.09.2011, n. 5228) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 01.10.2012 n. 1769 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo giurisprudenza consolidata:
- nella fattispecie disciplinata dagli artt. 873 e seguenti del codice civile, in applicazione del principio di prevenzione gli stessi attribuiscono a chi edifica per primo una triplice facoltà alternativa: a) costruire sul confine; b) costruire con il distacco previsto dalla normativa vigente; c) costruire con distacco inferiore alla metà della distanza minima prescritta, salva la possibilità per il vicino di costruire successivamente avanzando la propria fabbrica fino a quella preesistente, pagando la metà del valore del muro del vicino che diventerà comune, oltreché il valore del suolo occupato per effetto dell’avanzamento della fabbrica ovvero arretrare la costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico;
- la realizzazione di strutture in muratura, pur sovrastate da una terrazza, per il loro carattere di stabilità e permanenza costituiscono intervento di sopraelevazione che rappresenta una vera e propria “costruzione” in relazione alla quale deve trovare applicazione la disciplina del codice civile sulle distanze legali;
- la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall’art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche a estendere e ampliare per l’intero fronte dell’edificio la parte utilizzabile per l’uso abitativo;
- per “pareti finestrate”, ai sensi dell’art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti.

La ricorrente censura il permesso di costruire da ultimo rilasciato sostenendo, a ragione, che, per quanto concerne il nuovo manufatto costruito sul confine, limitatamente alla parte che fuoriesce sia in altezza, rispetto al piano di copertura, che in larghezza rispetto al box di proprietà in adesione del quale è costruito e che, come tale, fronteggia la facciata finestrata del proprio fabbricato, il titolo sia stato rilasciato in violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968 (ora art. 136 del d.P.R. n. 380/2001), per violazione delle distanze legali tra gli edifici (m. 10) e delle distanze degli edifici rispetto al confine (m. 5).
In particolare, deduce parte ricorrente che avendo la medesima costruito per prima a una distanza inferiore dal confine (a circa m. 4,10, per quanto riguarda l’edificio, e sul confine, per quanto concerne il box), per il principio di prevenzione temporale, dovrebbe essere la confinante controinteressata a dovere arretrare, con la sola esclusione della parte costruita sul confine in aderenza al citato box e per la relativa altezza ed estensione.
Invero, secondo giurisprudenza consolidata:
- in tale ultimo caso si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata dagli artt. 873 e seguenti del codice civile, che in applicazione del principio di prevenzione attribuisce a chi edifica per primo una triplice facoltà alternativa: a) costruire sul confine; b) costruire con il distacco previsto dalla normativa vigente; c) costruire con distacco inferiore alla metà della distanza minima prescritta, salva la possibilità per il vicino di costruire successivamente avanzando la propria fabbrica fino a quella preesistente, pagando la metà del valore del muro del vicino che diventerà comune, oltreché il valore del suolo occupato per effetto dell’avanzamento della fabbrica ovvero arretrare la costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico (Cass. Civ. sez. II, 07.08.2002, n. 11899; Consiglio Stato, sez. IV, 31.03.2009, n. 1998);
- la realizzazione di strutture in muratura, pur sovrastate da una terrazza, per il loro carattere di stabilità e permanenza costituiscono intervento di sopraelevazione che rappresenta una vera e propria “costruzione” in relazione alla quale deve trovare applicazione la disciplina del codice civile sulle distanze legali (Consiglio Stato, sez. IV, 31.03.2009, n. 1998);
- la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall’art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche a estendere e ampliare per l’intero fronte dell’edificio la parte utilizzabile per l’uso abitativo (Cons. di Stato, sez. IV, 05.12.2005, n. 6909);
- per “pareti finestrate”, ai sensi dell’art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti (Corte d’Appello, Catania, 22.11.2003; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte, Torino, 10.10.2008 n. 2565; TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 07.06.2011, n. 1419)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 28.09.2012 n. 1624 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La disposizione di cui all’art. 9, comma 1, n. 2, D.M. 02.04.1968 n. 1444, essendo volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia d’imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, e quindi tassativa e inderogabile, non solo impone al proprietario dell’area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata a essere mantenuta a una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell’art. 907, comma 3, c.c., ma vincola anche i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata, atteso che l’art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, per la sua natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione.
Secondo giurisprudenza consolidata, dal cui orientamento il Collegio non ravvisa valide ragioni per discostarsi, la disposizione di cui all’art. 9, comma 1, n. 2, D.M. 02.04.1968 n. 1444, essendo volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia d’imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, e quindi tassativa e inderogabile, non solo impone al proprietario dell’area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata a essere mantenuta a una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell’art. 907, comma 3, c.c., ma vincola anche i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata, atteso che l’art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, per la sua natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione (Cons. di Stato, sez. IV, 27.10.2011, n. 5759; Idem, 12.06.2007, n. 3094) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 28.09.2012 n. 1624 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: È unicamente con l’approvazione del progetto esecutivo, provvedimento tipico e dichiarativo della pubblica utilità, che si esplicita formalmente la definitiva volontà dell’Amministrazione di realizzare l’opera pubblica.
I progetti preliminari di opere pubbliche, di per sé, non sono nemmeno atti autonomamente impugnabili, perché meramente endoprocedimentali, diversamente dalla successiva fase progettuale (solamente alla quale è connessa la dichiarazione di pubblica utilità), che deve essere perciò impugnata poiché immediatamente in grado di ledere la posizione giuridica soggettiva dei singoli.

Invero, l’art. 18 della l.p. 10.9.1993, n. 26 (in materia di lavori pubblici di interesse provinciale), prevede -in difformità da quanto disposto dall’art. 12 del t.u. nazionale sulle espropriazioni 08.06.2001, n. 327- che solo l'approvazione del progetto “esecutivo” di un’opera pubblica equivale a dichiarazione di pubblica utilità, di urgenza ed indifferibilità e che è il progetto esecutivo che deve essere depositato presso la segreteria del comune con i prescritti elaborati grafici e descrittivi.
In proposito, la giurisprudenza afferma che è unicamente con l’approvazione del progetto esecutivo, provvedimento tipico e dichiarativo della pubblica utilità, che si esplicita formalmente la definitiva volontà dell’Amministrazione di realizzare l’opera pubblica (cfr., C.d.S., sez. VI, 24.11.2011, n. 6207).
Secondo la normativa provinciale, dunque, è il progetto esecutivo a presentare una stabile connotazione che consente di valutare appieno i profili di interferenza per coloro che se ne ritengono lesi; solo il progetto esecutivo, in altri termini, è l’atto che concreta ed attualizza la lesione delle posizioni giuridiche non solo dei proprietari interessati alle espropriazioni ma anche dei soggetti confinanti o vicini che contestano le modalità di realizzazione dell’opera pubblica.
Rammenta poi il Collegio che la problematica in esame è stata da tempo risolta dalla giurisprudenza del Giudice d’appello, il quale, con orientamento consolidato -dal quale non si rinvengono ragioni per discostarsi- ha chiarito che i progetti preliminari di opere pubbliche, di per sé, non sono nemmeno atti autonomamente impugnabili, perché meramente endoprocedimentali, diversamente dalla successiva fase progettuale (solamente alla quale è connessa la dichiarazione di pubblica utilità), che deve essere perciò impugnata poiché immediatamente in grado di ledere la posizione giuridica soggettiva dei singoli (cfr., C.d.S., sez. V, 03.05.2012, n. 2535; sez. IV, 22.06.2006, n. 3949) (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 27.09.2012 n. 287 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Rifiuti. Recupero materiali da demolizione.
Ai sensi dell'art. 184, comma 3, lett. b), del D.Lgs. 152/2006 costituiscono rifiuti speciali quelli "derivanti dalle attività di demolizione, costruzione, etc..." soggetti ad una (limitata) riutilizzazione solo a seguito di attività di recupero (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.09.2012 n. 37083 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Termine di prescrizione delle contravvenzioni di omessa denuncia di inizio lavori in zona sismica.
Il termine di prescrizione delle contravvenzioni di omessa denuncia di inizio lavori in zona sismica e di esecuzione dei medesimi in assenza di autorizzazione decorre dalla data di inizio dei lavori, attesa la natura istantanea di dette contravvenzioni (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.09.2012 n. 37060 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Ambiente in genere. V.I.a. come strumento di tutela dell'ambiente nella sua accezione più ampia.
La V.i.a. è stata individuata come uno strumento di tutela dell'ambiente nella sua accezione più ampia, e cioè quale sistema integrato che condiziona la qualità della vita dell'uomo anche nella sua proiezione futura; appare, dunque errato, limitare la disciplina in tema di V.i.a. alla sola tutela delle specie animali e vegetali e omettere l'importanza rivestita anche ai fini del paesaggio e del contesto in cui le specie viventi e l'uomo si collocano.
Tale impostazione appare pienamente confermata d.lgs. 03.04.2006, n.152, come emerge dai contenuti del preambolo, dall'art. 1, comma 1, lett. b, ove le procedure di V.a.s. e di V.i.a. sono poste in relazione anche alla tutela del suolo, dall'art.2, concernente le specifiche finalità che la disciplina si propone (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.09.2012 n. 37051 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Aria. Molestie olfattive e criteri di accertamento del reato.
In caso di molestie olfattive l'evento del reato consiste nella molestia, che prescinde dal superamento di eventuali limiti previsti dalla legge, essendo sufficiente il superamento del limite della normale tollerabilità ex art. 844 c.c.; se manca la possibilità di accertare obiettivamente, con adeguati strumenti, l'intensità delle emissioni, il giudizio sull'esistenza e sulla non tollerabilità delle emissioni stesse ben può basarsi sulle dichiarazioni di testi, specie se a diretta conoscenza dei fatti, quando tali dichiarazioni non si risolvano nell'espressione di valutazioni meramente soggettive o in giudizi di natura tecnica ma consistano nei riferimento a quanto oggettivamente percepito dagli stessi dichiaranti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.09.2012 n. 37037 - tratto da www.lexambiente.it).

URBANISTICA: I vincoli ai quali si applica il principio della decadenza quinquennale, con la conseguente applicazione della normativa prevista dall’art. 9 del D.P.R. n. 380/2001 concernente l’edificazione in assenza di pianificazione urbanistica, sono soltanto quelli che incidono su beni determinati assoggettandoli a vincoli preordinati all'espropriazione o a vincoli che ne comportano l'inedificabilità e, dunque, quelli che svuotano il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio.
Sono, invece, conformativi e non preordinati all’espropriazione i vincoli dettanti condizioni e limiti d’edificazione (in essi compresi quelli di cubatura connessi agli indici di fabbricabilità in relazione alle varie categorie di zone) in conseguenza della specifica destinazione di zona, e ciò anche nelle ipotesi in cui la proprietà viene asservita al perseguimento di obiettivi d’interesse generale della collettività mediante la realizzazione di opere e di infrastrutture di uso generale che siano attuabili anche ad iniziativa privata o mista pubblico-privata, perché in tali ipotesi la disciplina impressa ai suoli non comporta il totale svuotamento della vocazione edificatoria degli stessi ed attiene alla potestà di regolazione propria della strumentazione urbanistica la cui validità è a tempo indeterminato come è previsto dall’art. 11 della legge n. 1150/1942.

Al riguardo la giurisprudenza, condivisa da questo Tribunale, ha avuto modo di affermare costantemente che i vincoli ai quali si applica il principio della decadenza quinquennale, con la conseguente applicazione della normativa prevista dall’art. 9 del D.P.R. n. 380/2001 concernente l’edificazione in assenza di pianificazione urbanistica, sono soltanto quelli che incidono su beni determinati assoggettandoli a vincoli preordinati all'espropriazione o a vincoli che ne comportano l'inedificabilità e, dunque, quelli che svuotano il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio; e che sono, invece, conformativi e non preordinati all’espropriazione i vincoli dettanti condizioni e limiti d’edificazione (in essi compresi quelli di cubatura connessi agli indici di fabbricabilità in relazione alle varie categorie di zone) in conseguenza della specifica destinazione di zona, e ciò anche nelle ipotesi in cui la proprietà viene asservita al perseguimento di obiettivi d’interesse generale della collettività mediante la realizzazione di opere e di infrastrutture di uso generale che siano attuabili anche ad iniziativa privata o mista pubblico-privata, perché in tali ipotesi la disciplina impressa ai suoli non comporta il totale svuotamento della vocazione edificatoria degli stessi ed attiene alla potestà di regolazione propria della strumentazione urbanistica la cui validità è a tempo indeterminato come è previsto dall’art. 11 della legge n. 1150/1942 (Cfr. Cons. di Stato – Sez. IV – 22/06/2011 n. 3797; id. 13/07/2010 n. 4542, 10/06/2010 n. 3700, 07/04/2010 n. 1982; TAR Campania–SA - Sez. II – 27/04/2011 n. 764 e 28/272011 n. 363) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 26.09.2012 n. 1691 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nelle controversie aventi a oggetto gli obblighi di pagamento dei contributi afferenti alle concessioni ed ai permessi edilizi, il giudizio non ha carattere impugnatorio, ancorché esso sia proposto, formalmente, come contestazione di una determinazione amministrativa, in quanto mira ad accertare la sussistenza o la misura del credito vantato dal Comune.
Ne deriva che il ricorso può essere correttamente proposto nel termine di prescrizione del diritto e, dunque, anche dopo che siano trascorsi più di sessanta giorni dalla conoscenza, da parte dell’interessato, dell’atto con cui l’amministrazione ha quantificato i contestati contributi, richiedendone il pagamento.

Costituisce indirizzo consolidato, dal quale la Sezione non ravvisa ragione per discostarsi, che, nelle controversie aventi a oggetto gli obblighi di pagamento dei contributi afferenti alle concessioni ed ai permessi edilizi, il giudizio non ha carattere impugnatorio, ancorché esso sia proposto, formalmente, come contestazione di una determinazione amministrativa, in quanto mira ad accertare la sussistenza o la misura del credito vantato dal Comune.
Ne deriva che il ricorso può essere correttamente proposto nel termine di prescrizione del diritto e, dunque, anche dopo che siano trascorsi più di sessanta giorni dalla conoscenza, da parte dell’interessato, dell’atto con cui l’amministrazione ha quantificato i contestati contributi, richiedendone il pagamento (cfr. C.d.S., sez. IV, 04.11.2011, n. 585, e 02.03.2011, n. 1365; C.d.S., sez. V, 06.11.2007, n. 623; 21.04.2006, n. 2258; 10.07.2003, n. 4102)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 24.09.2012 n. 5080 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce variante essenziale, rispetto al progetto approvato, la modifica della localizzazione dell'edificio tale da comportare lo spostamento del fabbricato su un'area totalmente o pressoché totalmente diversa da quella originariamente prevista, trattandosi di modifica che comporta una nuova valutazione del progetto da parte dell'amministrazione concedente, sotto il profilo della sua compatibilità con i parametri urbanistici e con le connotazioni dell'area.
E’, invece, ininfluente, rispetto all'obbligo di acquisizione da parte dell'interessato di un nuovo permesso di costruire, la circostanza che le altre caratteristiche dell'intervento (sagoma, volumi, altezze etc.) siano rimaste invariate rispetto all'originario permesso di costruire, e l'assenza di ogni incidenza della variante sul regime dei distacchi e delle distanze.
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La localizzazione dell’edificio può assurgere a livello di variazione essenziale soltanto quando si sia in presenza di una traslazione non parziale, ma tale da comportare lo spostamento del fabbricato su di un’area totalmente diversa da quella originariamente prevista.

Ai sensi dell'art. 32, lett. c), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, costituisce variante essenziale, rispetto al progetto approvato, la modifica della localizzazione dell'edificio tale da comportare lo spostamento del fabbricato su un'area totalmente o pressoché totalmente diversa da quella originariamente prevista, trattandosi di modifica che comporta una nuova valutazione del progetto da parte dell'amministrazione concedente, sotto il profilo della sua compatibilità con i parametri urbanistici e con le connotazioni dell'area.
E’, invece, ininfluente, rispetto all'obbligo di acquisizione da parte dell'interessato di un nuovo permesso di costruire, la circostanza che le altre caratteristiche dell'intervento (sagoma, volumi, altezze etc.) siano rimaste invariate rispetto all'originario permesso di costruire, e l'assenza di ogni incidenza della variante sul regime dei distacchi e delle distanze (Cd.S., sez. IV, 15.04.2010, n. 6878).
Al riguardo, il Collegio ritiene di condividere l’interpretazione della disposizione di cui all’art. 32, lettera c), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, secondo cui costituiscono “…variazioni essenziali...” rispetto al progetto approvato le “…modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato, ovvero della localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza…”.
Tale disposizione é comunemente intesa nel senso che la modifica della “…localizzazione…” dell’edificio assurge al livello di “…variazione essenziale…” allorché si sia in presenza di una traslazione non parziale, ma tale da comportare lo spostamento del fabbricato su un’area totalmente o pressoché totalmente diversa da quella originariamente prevista. In particolare, ciò viene giustificato con la considerazione che tale modifica comporta una nuova valutazione del progetto da parte dell’Amministrazione concedente, sotto il profilo della sua compatibilità con i parametri urbanistici e con la considerazione dell’area (C.d.S., sez. IV, 20.11.2008, n. 5743).
Nel caso in esame, tali orientamenti possono ritenersi ancor più calzanti tenuto conto che, riguardando le opere per le quali è stata richiesta la contestata integrazione di contributo un fabbricato sperimentale bioclimatico ad energia alternativa, già precedentemente autorizzato e realizzato, esse maggiormente si evidenziano come opere di completamento (che peraltro non sarebbero state realizzate contemporaneamente all’edificazione dei manufatti principali soltanto per la temporanea sottoposizione delle opere a sequestro penale, poi revocato), tenuto conto che hanno riguardato o opere qualificate di completamento dalle stesse norme, come serramenti, vetri, pavimenti, rivestimenti ed altre opere di finitura, ovvero i locali tecnologici, e precisamente i volumi tecnici collocati tra i due corpi del fabbricato (già autorizzato) e completamente interrati, nonché le vasche di stoccaggio acque e di accumulo energetico, anch’esse interrate, cioè tutte opere necessarie per la corretta realizzazione di detto fabbricato sperimentale.
Dunque, a ben vedere, tutti interventi non riconducibili alla nozione di “…ristrutturazione edilizia…”, difettando quel quid novi rispetto all’opera precedentemente assentita, bensì qualificabili come “…opere di mero completamento funzionale…” di un intervento realizzato in virtù di legittimi titoli edilizi, quali la concessione edilizia n. 1973 del 24.04.1991 e la successiva avariante n. 1973/791 del 07.10.1992, che non hanno comportato alcun aggravio del carico urbanistico.
Conferma del convincimento espresso è rinvenibile, in particolare:
- per un verso, dalle disposizioni di legge, sia nazionali, quali l’art. 9, lettera e), della legge n. 10 del 1977 che concerne proprio i volumi indispensabili per impianti tecnologici necessari alle abitazioni, sia regionali, quali le norme della legge regionale Lombardia n. 19 del 09.05.1992 che disciplinano le c.d. varianti minime e gli oneri di urbanizzazione;
- per altro verso, dagli atti anche cartografici esibiti in giudizio che mostrano come le opere in questione non sono state di valenza e consistenza tale da provocare una concreta modifica del’edificio originariamente autorizzato per cui opinare, come ha fatto il primo Giudice, che si sia trattato di una vera e propria ristrutturazione edilizia non può non ritenersi contrastante con tali atti.
Né, infine, può avere alcuna incidenza nell’economia del presente giudizio la lieve traslazione di volumi verificatasi nella realizzazione delle (interrate) vasche di stoccaggio delle acque e di accumulo energetico, essendo giurisprudenza di questa Sezione, che il Collegio condivide, che la localizzazione dell’edificio può assurgere a livello di variazione essenziale soltanto quando si sia in presenza di una traslazione non parziale, ma tale da comportare lo spostamento del fabbricato su di un’area totalmente diversa da quella originariamente prevista (cfr. C.d.S., sez. IV, n. 6878 del 15.09.2010 e n. 5743 del 20.11.2008)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 24.09.2012 n. 5080 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Legittimità diniego comunale per approvazione piano di lottizzazione.
L'approvazione del Piano di lottizzazione non è atto dovuto, ancorché il Piano medesimo risulti conforme al Piano regolatore generale, essendo l’approvazione medesima sempre espressione di potere discrezionale dell’organo deputato a valutare l’opportunità di dare attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico generale: e ciò in quanto tra quest’ultimo e i suoi strumenti attuativi sussiste un rapporto di necessaria compatibilità ma non di formale coincidenza.
Va rimarcata la funzione di strumento particolareggiato ed attuativo delle prescrizioni del P.R.G. assolta dal Piano di lottizzazione, con la conseguente necessità che il provvedimento negativo sia congruamente istruito e motivato mediante una valutazione comparata degli interessi pubblici coinvolti, e ciò in modo da consentire al richiedente di essere puntualmente edotto degli ostacoli che si frappongono all’estrinsecazione del suo ius aedificandi.
La conformità urbanistica del Piano di lottizzazione non esclude la possibilità di una valutazione “piena” dei contenuti di quest’ultimo da parte dell’organo deputato alla sua approvazione e senza che ciò implichi un’incisione delle previsioni contenute nella strumentazione urbanistica di rango superiore qualora non sia ravvisabile un rapporto di necessaria consequenzialità tra i contenuti dell’uno e quelli dell’altro.
La mancata approvazione del Piano di lottizzazione non pone in discussione l’attualità delle previsioni del Piano regolatore generale né, tanto meno, la sua conformità di esso alle linee guida regionali; né, di per sé, incide sull’attualità del Piano di attuazione di iniziativa pubblica, fino a quando il Consiglio Comunale non reputerà, in concreto e nell’autonomo apprezzamento delle necessità della sua “rivisitazione”, di sostituirlo con un testo “revisionato”: e ciò, come detto innanzi, in quanto la conformità allo strumento di piano di livello superiore non comporta necessariamente la condivisione delle scelte operate dallo strumento attuativo.

Posto ciò, va evidenziato che l’approvazione del Piano di lottizzazione non è atto dovuto, ancorché il Piano medesimo risulti conforme al Piano regolatore generale, essendo l’approvazione medesima sempre espressione di potere discrezionale dell’organo deputato a valutare l’opportunità di dare attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico generale: e ciò in quanto tra quest’ultimo e i suoi strumenti attuativi sussiste un rapporto di necessaria compatibilità ma non di formale coincidenza (Cons. Stato, Sez. IV, 29.01.2008 n. 248; 02.03.2004 n. 957 e 02.03.2001 n. 1181).
La medesima giurisprudenza rimarca –altresì– la funzione di strumento particolareggiato ed attuativo delle prescrizioni del P.R.G. assolta dal Piano di lottizzazione, con la conseguente necessità che il provvedimento negativo sia congruamente istruito e motivato mediante una valutazione comparata degli interessi pubblici coinvolti, e ciò in modo da consentire al richiedente di essere puntualmente edotto degli ostacoli che si frappongono all’estrinsecazione del suo ius aedificandi.
Questo assunto della giurisprudenza va coordinato con il precedente rilievo circa il fatto che la conformità urbanistica del Piano di lottizzazione non esclude la possibilità di una valutazione “piena” dei contenuti di quest’ultimo da parte dell’organo deputato alla sua approvazione e senza che ciò implichi un’incisione delle previsioni contenute nella strumentazione urbanistica di rango superiore qualora non sia ravvisabile –come, per l’appunto, nel caso di specie- un rapporto di necessaria consequenzialità tra i contenuti dell’uno e quelli dell’altro.
Va pertanto anche qui ribadito che la mancata approvazione del Piano di lottizzazione non pone in discussione l’attualità delle previsioni del Piano regolatore generale né, tanto meno, la sua conformità di esso alle linee guida regionali; né, di per sé, incide sull’attualità del Piano di attuazione di iniziativa pubblica, fino a quando il Consiglio Comunale non reputerà, in concreto e nell’autonomo apprezzamento delle necessità della sua “rivisitazione”, di sostituirlo con un testo “revisionato”: e ciò, come detto innanzi, in quanto la conformità allo strumento di piano di livello superiore non comporta necessariamente la condivisione delle scelte operate dallo strumento attuativo
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.09.2012 n. 4977 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità ordinanza demolizione per opere precarie temporanee non autorizzate.
Al fine di verificare se una determinata opera abbia carattere precario (condizione per l'accertamento della non necessarietà del rilascio della relativa concessione edilizia), occorre verificare la destinazione funzionale e l'interesse finale al cui soddisfacimento l'opera stessa è destinata; pertanto, solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare una esigenza oggettivamente temporanea -destinata a cessare dopo il tempo, normalmente non lungo, entro cui si realizza l'interesse finale- possono ritenersi prive di minima entità ovvero di carattere precario e, in quanto tali, non richiedenti la concessione edilizia. Infatti la precarietà o meno di un'opera edilizia va valutata con riferimento non già alle modalità costruttive, bensì alla funzione cui essa è destinata; in altri termini non sono manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati ad una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante.
È dunque da considerare legittima l'ordinanza di demolizione di opere che, pur difettando del requisito dell'immobilizzazione rispetto al suolo (cd. case mobili), consistano in una struttura destinata a dare un'utilità prolungata nel tempo, dovendo in tal caso escludersi la precarietà del manufatto, che ne giustificherebbe il non assoggettamento a concessione edilizia, posto che la stessa non dipende dai materiali utilizzati o dal suo sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è destinato, e va quindi valutata alla luce della obiettiva ed intrinseca destinazione naturale dell'opera, a nulla rilevando la temporanea destinazione data alla stessa dai proprietari.

Come è noto al fine di verificare se una determinata opera abbia carattere precario (condizione per l'accertamento della non necessarietà del rilascio della relativa concessione edilizia), occorre verificare la destinazione funzionale e l'interesse finale al cui soddisfacimento l'opera stessa è destinata; pertanto, solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare una esigenza oggettivamente temporanea -destinata a cessare dopo il tempo, normalmente non lungo, entro cui si realizza l'interesse finale- possono ritenersi prive di minima entità ovvero di carattere precario e, in quanto tali, non richiedenti la concessione edilizia. Infatti la precarietà o meno di un'opera edilizia va valutata con riferimento non già alle modalità costruttive, bensì alla funzione cui essa è destinata (Cons. St., V, 04.02.1998 n. 131); in altri termini non sono manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati ad una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante (Cons. St., VI, 16.02.2011 n. 986).
È dunque da considerare legittima l'ordinanza di demolizione di opere che, pur difettando del requisito dell'immobilizzazione rispetto al suolo (cd. case mobili), consistano in una struttura destinata a dare un'utilità prolungata nel tempo, dovendo in tal caso escludersi la precarietà del manufatto, che ne giustificherebbe il non assoggettamento a concessione edilizia, posto che la stessa non dipende dai materiali utilizzati o dal suo sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è destinato, e va quindi valutata alla luce della obiettiva ed intrinseca destinazione naturale dell'opera, a nulla rilevando la temporanea destinazione data alla stessa dai proprietari (Cons. St., IV, 15.05.2009 n. 3029) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 12.09.2012 n. 4850 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia urbanistica, a differenza che nella materia civilistica, possono costituire pertinenze solo i manufatti di dimensioni estremamente modeste e ridotte, inidonei, quindi, ad alterare in modo significativo l'assetto del territorio.
In terzo luogo, come correttamente rilevato dall’amministrazione appellata, le opere in questione non possono neppure essere, sotto un profilo urbanistico, considerate pertinenze perché in materia urbanistica, a differenza che nella materia civilistica, possono costituire pertinenze solo i manufatti di dimensioni estremamente modeste e ridotte, inidonei, quindi, ad alterare in modo significativo l'assetto del territorio (Cons. St., VI, 11.05.2011 n. 2781) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 12.09.2012 n. 4850 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'esistenza del vincolo cimiteriale, nell'area nella quale è stato realizzato un manufatto abusivo, comportando l'inedificabilità assoluta, preclude il rilascio della concessione in sanatoria ai sensi dell'art. 33, l. 28.02.1985 n. 47, senza necessità di compiere valutazioni in ordine alla concreta compatibilità dell'opera con i valori tutelati dal vincolo.
La giurisprudenza di questo Consiglio, infatti, ha stabilito che l'esistenza del vincolo cimiteriale, nell'area nella quale è stato realizzato un manufatto abusivo, comportando l'inedificabilità assoluta, preclude il rilascio della concessione in sanatoria ai sensi dell'art. 33, l. 28.02.1985 n. 47, senza necessità di compiere valutazioni in ordine alla concreta compatibilità dell'opera con i valori tutelati dal vincolo (Cons. St., IV, 12.03.2007 n. 1185) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 12.09.2012 n. 4850 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Occupazione usurpativa e azione restitutoria.
In tema di occupazione usurpativa, qualora il proprietario del bene illecitamente occupato domandi la restituzione, ancorché accompagnata dalla richiesta di riduzione in pristino, non sono predicabili i limiti intrinseci alla disciplina risarcitoria, come l’eccessiva onerosità prevista dall’art. 2058, comma 2, c.c.; né può farsi ricorso alla previsione del comma 2 dell’art. 2933 c.c., ove non risulti che la distruzione della res indebitamente edificata sia di pregiudizio all’intera economia del Paese, ma abbia, al contrario, riflessi di natura individuale o locale.
La proprietaria di un immobile aveva convenuto in giudizio dinanzi al tribunale l’Amministrazione comunale e, premesso:
- che era stata disposta e realizzata l’occupazione di un bene di sua proprietà, costituito da un terreno con sovrastante fabbricato, successivamente sottoposto ad irreversibile trasformazione, mediante demolizione della costruzione per la realizzazione di una strada di accesso alla piazza destinata allo svolgimento del mercato settimanale;
- che il procedimento era illegittimo per assenza, nella relativa delibera, dei termini iniziali e finali dell’espropriazione e di inizio e fine dei lavori, chiedeva, in via principale, la rimessione in pristino dei luoghi di sua proprietà e, in via subordinata, il risarcimento dei danni.
Il tribunale adito, dato atto dell’illegittimità dell’occupazione, posta in essere in carenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità, nonché dell’intervenuta manipolazione irreversibile del fondo dell’attrice, aveva ritenuto che all’accoglimento della domanda di riduzione in pristino era ostativo il pregiudizio che dal suo accoglimento sarebbe derivato all’economia nazionale, con conseguente applicabilità della disposizione contenuta nell’art. 2933, comma, 2, c.c. Esso aveva accolto la domanda di risarcimento per equivalente, determinandosi in euro 20.508,50 l’importo a tale titolo dovuto all’attrice al cui pagamento, oltre alle spese di lite nella misura di due terzi veniva condannato, in favore della stessa, il Comune convenuto.
La Corte di appello, pronunciando sugli appelli proposti in via principale dall’attrice, la quale si doleva principalmente del mancato accoglimento della domanda di riduzione in pristino dei luoghi, nonché dal Comune, che contestava l’entità della somma attribuita a titolo di risarcimento del danno, ritenuta incongrua per eccesso, aveva dichiarati non dovuti gli interessi anatocistici attribuiti con la sentenza di primo grado, rilevando la riferibilità dell’art. 1283 c.c. alle sole obbligazioni pecuniarie.
La S.C. ha accolto il ricorso proposto dalla proprietaria, iniziando col ricordare che, con la prima decisione che ha definito in maniera chiara i contorni della figura dell’occupazione usurpativa (Cass. 18.02.2000, n. 1814), la stessa Corte, ripercorrendo le tappe del percorso giurisprudenziale inerente alla cd. occupazione espropriativa, ha posto in evidenza l’esigenza di approfondire i meccanismi di tutela del proprietario nell’ipotesi in cui non sussista, come avviene nella fattispecie testé richiamata, una valida dichiarazione di pubblica utilità.
Movendo da precedenti arresti (fra i quali Cass., Sez. Un., 04.03.1997, n. 1907), nei quali si era affermata la possibilità per il proprietario di optare, anziché per la tutela restitutoria, per quella risarcitoria, si è pervenuti alla conclusione, che «nell’occupazione che, per convenzione, potremmo definire usurpativa, il giudice si occupa della domanda risarcitoria del proprietario sotto l’aspetto delle non consentite trasformazioni che l’occupante abusivo abbia apportato al fondo. Ma l’acquisizione del bene alla mano pubblica resta estranea alla fattispecie, e dipendendo da una scelta del proprietario usurpato, è inquadrabile in una vicenda logicamente e temporalmente successiva alla definitiva trasformazione del fondo, e se può ipotizzarsi un modo di acquisto della proprietà a titolo originario, esso non ha carattere accessivo (artt. 934 c.c.), ma semmai occupatorio in relazione ad un bene che è un novum nella realtà giuridica (in analogia all’art. 942 c.c.), ove non rileva la destinazione a soddisfare una pubblica utilità giacché qui neppure può porsi questione di bilanciamento di interessi».
L’occupazione sine titulo del fondo, in altri termini, non può comportare, soprattutto in assenza di una scelta abdicativa del proprietario (sulla cui conformità ai principi della CEDU cfr. la recente Cass. 19.10.2011, n. 21639), la perdita della proprietà del fondo da parte del soggetto che subisce l’occupazione, con la conseguenza che «l’assenza dell’indefettibile presupposto del riconoscimento, da parte degli organi competenti, della pubblica utilità dell’opera comporta che il privato, durante l’illegittima occupazione, possa fruire dei rimedi reipersecutori a tutela della non perduta proprietà» (Cass. n. 1814/2000 cit.).
La Corte ha, pertanto, sottolineato, anche sulla base dei criteri testé richiamati (per altro costantemente ribaditi ed applicati con sempre maggiore rigore, anche nell’occupazione cd. espropriativa: cfr. Cass., Sez. Un., 31.05.2011, n. 11963, in merito alla possibilità di chiedere la restituzione della porzione del bene originariamente occupata e non oggetto di irreversibile trasformazione), che il principio di effettività della tutela del diritto del proprietario, essendo insussistente la dichiarazione di pubblica utilità, non possa soffrire di alcuna limitazione. In particolare, non può escludersi la tutela reale, soprattutto quando manchi, da parte del titolare del diritto, qualsiasi atto abdicativo, ancorché implicito, mentre al contrario, come nella fattispecie in esame, venga espressamente esercitata l’azione restitutoria.
Tale conclusione, del resto, è conforme ai principi affermati, in più occasioni, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale (a partire dalla nota decisione Belvedere Alberghiera c/Stato It. del 30.05.2000, proprio in tema di occupazione usurpativa) ha escluso che l’autorità pubblica possa acquisire la proprietà di beni privati nel disprezzo delle regole formali previste per l’espropriazione, e senza che assuma immediata rilevanza il fine di pubblica utilità (cfr. anche Cass. 11.06.2006, n. 11096, nella cui motivazione si esamina la compatibilità dell’occupazione espropriativa e, per quanto qui interessa, di quella usurpativa, con i principi affermati dalla Cedu con le note decisioni Belvedere Alberghiera e Carbonara e Ventura).
Nell’ambito dell’invocata tutela di natura reale non possono trovare applicazione le disposizioni contenute negli artt. 2933, comma 2, e 2058, comma 2, c.c. Quanto al primo articolo, la sentenza impugnata aveva affermato l’applicabilità della disposizione contenuta nell’art. 2933, comma 2, c.c., già ritenuta operante in primo grado ai fini della verifica della fondatezza della domanda di riduzione in pristino, ritenendo, senza altro aggiungere, che il suo accoglimento «risulterebbe di pregiudizio all’economia nazionale»; a prescindere dalla riferibilità della norma in questione agli obblighi di non fare (e quindi, ai soli aspetti che riguardano la manipolazione del bene e non l’azione restitutoria), la S.C. ha rilevato che non era dato di comprendere quale legame possa sussistere fra la celebrazione del mercatino settimanale del Comune e le sorti dell’economia di un intero Paese: la giurisprudenza formatasi in relazione alla norma teste richiamata è costantemente orientata nel ritenere che la stessa debba essere interpretata in senso restrittivo, riferendosi alle cose insostituibili ovvero di eccezionale importanza per l’economia nazionale, con conseguente inapplicablità qualora il pregiudizio riguardi interessi individuali e locali (Cass. 17.02.2004, n. 3004; Cass. 25.05.2012, n. 8358).
Quanto al secondo riferimento normativo, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di affermare che la tutela riservata ai diritti reali non consente l’applicabilità dell’art. 2058 c.c. nel caso di azioni volte, appunto, a far valere uno di tali diritti, atteso il carattere assoluto degli stessi (Cass., Sez. Un., 10.05.1995, n. 5113; Cass. 29.10.1997, n. 10694; Cass. 18.08.2003, n. 11744; Cass. 16.01.2007, n. 866), salvo che sia la stessa parte danneggiata a chiedere la condanna per equivalente. Non potendosi omettere di rilevare che non possono ritenersi applicabili i limiti inerenti alla regolamentazione del risarcimento del danno alla tutela reale, che, oltre a trovare la propria disciplina specifica negli artt. 948 e 949 c.c., «esige la rimozione del fatto lesivo» (Cass. 04.11.1993, n. 10932), la Corte di Cassazione ha richiamato il dibattito culturale che la dottrina negli ultimi tempi ha dedicato al tema della collocazione o meno della reintegrazione in forma specifica nell’area come modalità del risarcimento del danno, ovvero come tutela del tutto autonoma e da esso distinta.
La prima soluzione, maggiormente condivisa, appare preferibile, anche sulla scorta degli argomenti fondati sulla collocazione della norma, sulla sua portata letterale e su una nozione di danno ampia, ossia non riferibile al solo nocumento di natura patrimoniale, ma anche all’alterazione, sul piano fenomenico, come conseguenza dell’atto illecito, dell’integrità e della consistenza del bene.
Se dunque, la disciplina complessivamente dettata dall’art. 2058 c.c. appartiene alla materia del risarcimento del danno, erroneamente essa è applicata quando venga esercitata, come nel caso, la tutela restitutoria (cfr., in tal senso, anche, in motivazione, Cons. Stato, Ad. Plen., 29.04.2005, n. 2) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 23.08.2012 n. 14609 - tratto da Urbanistica e appalti n. 10/2012).

EDILIZIA PRIVATA: ORDINE DI DEMOLIZIONE E LEGITTIMAZIONE AD OPPORVISI DEGLI ALIENANTI A TERZI DELL’IMMOBILE OGGETTO DEL PROVVEDIMENTO.
Il concetto di ‘‘interessato’’ in sede di incidente di esecuzione (art. 666 c.p.p.) dev’essere inteso in termini ampi e
riferito a soggetto titolare di una posizione giuridicamente tutelata sulla quale incide l’esecuzione della sentenza; ne consegue che deve trattarsi di soggetto titolare di situazioni giuridiche soggettive per le quali potrebbe verificarsi un pregiudizio (o un vantaggio anche in senso non patrimoniale) in seguito al consolidamento o alla rimozione di una determinata decisione, non assumendo alcun rilievo, ai fini della esclusione della detta qualità, la maggiore o minore pregnanza che la parte abbia concretamente alla decisione collegata alla propria posizione processuale.

Particolarmente interessante la questione giuridica affrontata dalla Suprema Corte di Cassazione nella vicenda in esame, in cui i giudici di legittimità si soffermano a valutare in presenza di quali condizioni possa essere attribuita la qualifica di ‘‘interessato’’ al soggetto che intenda proporre incidente di esecuzione contro l’ordine di demolizione del manufatto abusivo.
La vicenda processuale segue ad un’ordinanza del giudice dell’esecuzione che aveva dichiarato inammissibile, per difetto di interesse, l’istanza volta ad ottenere la sospensione dell’ordine di demolizione di un manufatto abusivo, disposto con sentenza di condanna irrevocabile per il reato urbanistico.
Osservava il Giudice che gli istanti -soggetti estranei al processo penale definito a carico di altra persona, originario proprietario dell’immobile e materiale autore dell’abuso edilizio che ne aveva comportato la condanna per i reati edilizi- non avevano interesse ad opporsi all’esecuzione, avendo a loro volta ceduto il detto immobile a terzi e quindi non essendo titolari di alcun diritto tutelabile in sede esecutiva.
Contro tale ordinanza proponevano ricorso per cassazione i due soggetti ex proprietari dell’immobile, lamentando carenza di motivazione ed erronea applicazione della legge penale per avere il G.E. solo genericamente ritenuto il difetto di interesse -quali alienanti a terzi dell’immobile oggetto del provvedimento- ad opporsi all’esecuzione dell’ordine di demolizione, omettendo di valutare i contenuti dell’atto di compravendita dai quali risultava una diretta assunzione di responsabilità civile e penale dei ricorrenti verso i terzi acquirenti, derivante dall’obbligo di adempimento delle formalità necessarie per l’ottenimento della concessione in sanatoria, responsabilità dalla quale i terzi acquirenti erano stati sollevati con l’atto di compravendita.
La Cassazione ha accolto il ricorso. In particolare ha precisato che il concetto di ‘‘interessato’’ esplicitato nell’art. 666 c.p.p., va inteso in termini ampi e riferito a soggetto titolare di una posizione giuridicamente tutelata sulla quale incide l’esecuzione della sentenza. Deve quindi trattarsi, per la Corte, di soggetto titolare di situazioni giuridiche soggettive per le quali potrebbe verificarsi un pregiudizio (o un vantaggio anche in senso non patrimoniale) in seguito al consolidamento o alla rimozione di una determinata decisione, non assumendo alcun rilievo, ai fini della esclusione della detta qualità, la maggiore o minore pregnanza che la parte abbia concretamente alla decisione collegata alla propria posizione processuale (v., da ultimo: Cass. pen., sez. III, 21.06.2010, n. 23761, in Ced Cass., n. 247281).
Nel caso in esame, ha aggiunto la Cassazione, il G.E. non ha tenuto in considerazione gli obblighi gravanti sui ricorrenti implicanti una diretta assunzione di responsabilità (costituente oltretutto elemento essenziale dell’atto di compravendita) in merito alle procedure da coltivare per la definizione amministrativa finalizzata all’ottenimento della concessione in sanatoria: e tali obblighi costituiscono proprio quella titolarità di situazioni soggettive giuridicamente tutelabili che -secondo l’orientamento sopra enunciato- giustificano l’interesse a partecipare al giudizio di esecuzione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.07.2012 n. 25676 - tratto da Urbanistica e appalti n. 10/2012).

EDILIZIA PRIVATA: VIOLAZIONE DI SIGILLI E CONFIGURABILITA' DEGLI OBBLIGHI DEL CUSTODE.
Ai fini della configurabilità del reato di violazione di sigilli (art. 349 c.p.) è del tutto irrilevante stabilire quale sia il ‘‘rapporto’’ del custode nominato con gli immobili oggetto dell’intervento edilizio, in quanto elemento costitutivo del reato è che il reo sia nominato custode dei beni sottoposti a sequestro.
La Corte Suprema si occupa con la sentenza in esame della configurabilità del reato di violazione di sigilli e dell’individuazione degli elementi oggettivi normativamente richiesti ai fini della sussistenza della responsabilità penale del custode.
La vicenda processuale vedeva imputato un individuo del reato di cui all’art. 349, comma 2, c.p. perché in qualità di custode giudiziario del manufatto nonché committente dei lavori abusivi (completamento del solaio del piano rialzato mediante in C.L. e smontaggio dei puntelli a sostegno dello stesso) violava i sigilli apposti al fabbricato. Ritenevano i giudici di merito che l’imputato, in qualità di custode, dovesse rispondere della violazione di sigilli non avendo esercitato alcuna vigilanza sul bene sottoposto a vincolo reale.
Contro la sentenza di condanna proponeva ricorso per Cassazione la difesa dell’imputato, censurando l’affermazione della responsabilità personale, essendo la stessa stata affermata senza alcun accertamento in ordine alla titolarità del bene ed al committente dei lavori; aggiungeva, sul punto, che la responsabilità per violazione di sigilli si estende al concorrente a condizione che costui sia a conoscenza della qualità di custode dell’autore del reato o la ignori colpevolmente: il reo avrebbe avuto solo il torto di essere il proprietario del suolo, su cui i figli avevano prima consumato il reato edilizio e, poi, violato i sigilli e che non sono stati perseguiti per mero errore.
La Cassazione non ha accolto le tesi difensiva, dichiarando inammissibile il ricorso.
In particolare, hanno precisato gli Ermellini come sia del tutto irrilevante stabilire quale fosse il ‘‘rapporto’’ del predetto con gli immobili oggetto dell’intervento edilizio: quel che rilevava, infatti, è che il ricorrente venne nominato custode dei beni sottoposti a sequestro. Trattandosi di un munus publicum obbligatorio, che non può essere rifiutato (art. 366, comma 2, c.p.) non è necessario neppure che il provvedimento di nomina sia accettato. L’art. 81 disp. att. c.p.p., prevede, invero, che l’inosservanza delle formalità prescritte (dichiarazione di assumere gli obblighi di legge e sottoscrizione del verbale) non esonera il custode dall’adempimento dei suoi doveri e della relativa responsabilità penale e disciplinare.
Il soggetto nominato custode rimane pertanto investito della relativa funzione per il solo fatto della nomina, purché portata debitamente a sua conoscenza. Nel caso di specie, osservano i giudici di legittimità come il ricorrente sottoscrisse il verbale, accettando quindi la nomina, e venne reso edotto degli ‘‘obblighi’’ e delle conseguenze derivanti dalla violazione dei sigilli: egli era perciò perfettamente a conoscenza degli obblighi di custodia dell’immobile sequestrato e della immutabilità dello stato dei luoghi, pena conseguenze di carattere penale.
Come costantemente affermato dalla Corte, in tema di violazioni di sigilli, il custode è obbligato ad esercitare sulla cosa sottoposta a sequestro e sulla integrità dei relativi sigilli una custodia continua ed attenta. Egli non può sottrarsi a tale obbligo se non adducendo oggettive ragioni di impedimento e, quindi, chiedendo ed ottenendo di essere sostituito, ovvero, qualora non abbia avuto il tempo e la possibilità di farlo, fornendo la prova del caso fortuito o della forza maggiore che gli abbiano impedito di esercitare la dovuta vigilanza.
Ne consegue che, qualora venga accertata la violazione dei sigilli, senza che il custode abbia provveduto ad avvertire dell’accaduto l’autorità, è lecito ritenere che detta violazione sia opera dello stesso custode, da solo o in concorso con altri, tranne che lo stesso non dimostri di non essere stato in grado di avere conoscenza del fatto per caso fortuito o forza maggiore: ciò non configura alcuna ipotesi di responsabilità oggettiva, estranea alla fattispecie, ma un onere della prova che incombe sul custode (cfr. ex multis: Cass. pen., sez. III, 06.06.2006, n. 19424, in Ced Cass., n. 233830) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.07.2012 n. 25674 - tratto da Urbanistica e appalti n. 10/2012).

EDILIZIA PRIVATA: INDIVIDUAZIONE DEGLI INDICI DELLA PERTINENZA URBANISTICA.
La natura pertinenziale di un manufatto non può essere astrattamente desunta, esclusivamente dalla destinazione o dalle caratteristiche costruttive, ma deve risultare dall’oggettiva compresenza di una serie di requisiti, la cui sussistenza rende qualificabile come ‘‘pertinenziale’’ l’opera eseguita, in quanto tale non necessitante di permesso di costruire.
Di estremo interesse sicuramente la sentenza in commento, con cui la Corte Suprema di sofferma con minuziosa precisione ad individuare le condizioni ed i requisiti oggettivamente richiesti ai fini della qualificazione di un manufatto quale ‘‘pertinenza’’.
La vicenda processuale vedeva imputati due soggetti, riconosciuti responsabili dei reati di cui agli artt. 110 c.p., 44, lett. c), 64, 65, 71 e 72 del D.P.R. n. 380 del 2001 nonché dell’art. 181 del D.Lgs. n. 42 del 2004, per aver realizzato, in zona sismica e sottoposta a vincolo paesaggistico, in aderenza a preesistente fabbricato, un manufatto, costituito dal solo piano terra, di m. 6,00 X 8,00 X 4,50 h. con struttura in ferro e copertura in lamiere coibentate, tompagnato con blocchi di lapil-cemento su due lati, poggiante su pilastrini in ferro cementati su cordolo in cls lungo il perimetro della tompagnatura.
Contro la sentenza di condanna proponevano ricorso per cassazione i condannati, censurando, per quanto qui di interesse, la sentenza di merito in particolare perché le opere realizzate avrebbero avuto natura pertinenziale in quanto destinate a lavanderia o legnaia e che tale natura sarebbe stata desumibile dalla loro conformazione, cosicché non sarebbe stato necessario, per la loro esecuzione, il permesso di costruire.
La Cassazione ha, tuttavia, dichiarato inammissibile il ricorso, precisando, in merito alla natura pertinenziale dell’intervento, che le caratteristiche peculiari della pertinenza urbanistica sono state più volte indicate, in vario modo, dalla giurisprudenza della Cassazione e possono essere così sintetizzate:
a) deve trattarsi di un’opera che abbia comunque una propria individualità fisica ed una propria conformazione strutturale e non sia parte integrante o costitutiva di altro fabbricato;
b) dev’essere preordinata ad un’oggettiva esigenza dell’edificio principale, funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio dello stesso;
c) dev’essere sfornita di un autonomo valore di mercato e non dev’essere valutabile in termini di cubatura o comunque dotata di un volume minimo (non superiore, in ogni caso, al 20% di quello dell’edificio principale) tale da non consentire, in relazione anche alle caratteristiche dell’edificio principale, una sua destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell’immobile cui accede la relazione con la costruzione preesistente;
d) dev’essere, in ogni caso, non di integrazione ma ‘‘di servizio’’, allo scopo di renderne più agevole e funzionale l’uso (carattere di strumentante funzionale);
e) il manufatto pertinenziale, inoltre, deve accedere ad un edificio preesistente edificato legittimamente;
f) deve necessariamente presentare la caratteristica della ridotta dimensione anche in assoluto, a prescindere dal rapporto con l’edificio principale;
g) non dev’essere in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti e con quelli eventualmente soltanto adottati.
E` dunque evidente che la natura pertinenziale di un manufatto non può essere astrattamente desunta, esclusivamente dalla o dalle caratteristiche costruttive, ma deve risultare dalla oggettiva compresenza dei requisiti menzionati (in giurisprudenza, sui requisiti richiesti per la qualifica ‘‘pertinenziale’’ del manufatto, v. tra le tante: Cass. pen., sez. III, 18.10.2008, n. 37257, in Ced Cass., n. 241278) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.07.2012 n. 25669 - tratto da Urbanistica e appalti n. 10/2012).

EDILIZIA PRIVATA: SOSPENSIONE CONDIZIONALE DELLA PENA E DEMOLIZIONE DEL MANUFATTO ABUSIVO.
Il giudice, nel concedere la sospensione condizionale della pena inflitta per il reato di esecuzione di lavori in assenza di permesso di costruire o in difformità, legittimamente può subordinare detto beneficio all’eliminazione delle conseguenze dannose del reato mediante demolizione dell’opera eseguita, disposta in sede di condanna del responsabile.
La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi, con la sentenza in esame, sulla questione della possibilità di subordinare il beneficio della sospensione condizionale della pena ad un comportamento positivo dell’imputato, consistente nella demolizione del manufatto abusivamente realizzato.
La vicenda processuale vedeva imputato un soggetto, riconosciuto responsabile dei reati di cui all’art. 44, lett. b), del D.P.R. n. 380 del 2001 nonché del reato di cui agli artt. 83, comma 3 e 95 per averli realizzati in zona sismica. Condannato in sede di merito, questi proponeva ricorso per cassazione censurando, per quanto qui di interesse, la sentenza di merito lamentando in particolare l’illegittimita` della sospensione condizionale della pena subordinata alla demolizione degli interventi abusivi, rilevando come tale adempimento gli sarebbe stato comunque impossibile non essendo egli proprietario delle opere.
La tesi non ha convinto i giudici della Suprema Corte che hanno dichiarato inammissibile il ricorso della difesa, affermando come sia ormai pacificamente riconosciuta la possibilità, per il giudice penale, di subordinare l’applicazione della sospensione condizionale della pena alla demolizione delle opere abusive. Tale possibilità, ricordano gli Ermellini, secondo un remoto orientamento confermato anche dalle Sezioni Unite della Cassazione (Sez. Un., 04.01.1988, n. 1, in Ced Cass., n. 177318), non era originariamente ammessa.
Tuttavia, una successiva pronuncia delle medesime Sezioni Unite (Sez. Un., 03.02.1997, n. 714, in Ced Cass., n. 206659) ha fornito un condivisibile indirizzo interpretativo, ammettendo la legittimità della sospensione condizionale subordinata alla demolizione che appare, peraltro, giustificata dalla circostanza che la presenza sul territorio di un manufatto abusivo rappresenta, indiscutibilmente, una conseguenza dannosa o pericolosa del reato, da eliminare (v., da ultimo, in senso conforme, nella giurisprudenza più recente: Cass. pen., sez. III, 16.10.2007, n. 38071, in Ced Cass., n. 237825) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.07.2012 n. 25668 - tratto da Urbanistica e appalti n. 10/2012).

EDILIZIA PRIVATA: NATURA GIURIDICA DI REATI (QUASI TUTTI) COMUNI DEGLI ILLECITI EDILIZI.
I reati previsti dall’art. 44 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 devono essere qualificati come reati comuni e non come reati a soggettività ristretta, salvo che per i fatti commessi dal direttore dei lavori e per la fattispecie di inottemperanza all’ordine di sospensione dei lavori impartito dall’Autorità amministrativa.
La Cassazione torna a pronunciarsi con la sentenza in commento sul tema della natura giuridica dei reati edilizi, ossia se gli stessi debbano essere qualificati come reati ‘‘propri’’ o come reati ‘‘comuni’’. La vicenda processuale vedeva imputato un soggetto che era stato riconosciuto responsabile dei reati in materia edilizia ed antisismica per aver realizzato, in assenza di titolo abilitativo, un manufatto di mq. 56 con copertura a due falde con sovrastanti tegole portoghesi.
Contro la sentenza di condanna proponeva ricorso per cassazione l’imputato deducendo, per quanto qui di interesse, il vizio di motivazione e la violazione di legge, in particolare perché la Corte territoriale non avrebbe tenuto in considerazione il fatto che egli non era proprietario dell’immobile interessato dai lavori abusivi, del quale aveva invece la esclusiva proprietà la figlia, come documentato dall’atto di compravendita e che il suo coinvolgimento era stato determinato dall’aver assistito la donna all’atto del controllo da parte della polizia locale.
La tesi non ha però convinto gli Ermellini che hanno respinto il ricorso. In particolare, in merito alla doglianza difensiva, hanno osservato i giudici di legittimità che il fatto di non essere proprietario dell’immobile interessato dagli interventi abusivi non è di per sé sufficiente ad escludere la responsabilità per il reato urbanistico.
Il D.P.R. n. 380 del 2001 individua, nell’art. 29, alcuni soggetti che sono ritenuti perseguibili per eventuali violazioni della normativa urbanistica. Tali soggetti, indicati nel titolare del permesso di costruire, nel committente e nel costruttore, sono ritenuti responsabili della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano e, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo, anche se si è giunti alla conclusione che i reati urbanistici siano per lo più reati comuni, salvo alcune eccezioni e, in quanto tali, possono essere commessi da qualsiasi soggetto (v., da ultimo: Cass. pen., sez. III, 19.12.2007, n. 47083, in Ced Cass., n. 238471).
Vero è -aggiunge la Corte- che, tra le figure contemplate dal predetto art. 29, quelle del titolare del permesso di costruire, del committente e del proprietario dell’area possono, in alcuni casi, essere in tutto o in parte sovrapponibili, nel senso che le diverse qualificazioni di titolare del permesso, committente e proprietario dell’area edificata abusivamente possono riguardare la stessa persona, ma ciò non sempre avviene, tanto è vero che la figura del proprietario (o comproprietario) dell’area, non formalmente committente, ha impegnato in più occasioni la giurisprudenza penale, portandola, come è noto, ad escludere che la responsabilità del proprietario dell’area abusivamente edificata possa essere ricondotta alla violazione di un generico dovere di controllo e che debba essere accertata sulla base di indizi precisi e concordanti.
E' pertanto del tutto corretto, come precisato dagli Ermellini, ritenere che la comprovata proprietà di terzi dell’immobile o dell’area interessata dai lavori consenta di escludere la responsabilità di altri soggetti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.06.2012 n. 25361 - tratto da Urbanistica e appalti n. 10/2012).

EDILIZIA PRIVATA: NON VINCOLATIVITA' DELLA CIRCOLARE MINISTERIALE IN MATERIA EDILIZIA.
La circolare interpretativa è atto interno alla pubblica amministrazione che si risolve in un mero ausilio interpretativo e non esplica alcun effetto vincolante non solo per il giudice penale, ma anche per gli stessi destinatari, poiché non può comunque porsi in contrasto con l’evidenza del dato normativo.
La Corte Suprema torna a pronunciarsi, con la sentenza in commento, sulla valenza giuridica della circolare ministeriale e, in particolare, sulla possibilità che tale atto amministrativo possa avere efficacia vincolante nei confronti del giudice penale.

La vicenda processuale in esame trae origine da un provvedimento con cui il giudice di merito ha rigettato, quale giudice dell’esecuzione, la richiesta di revoca dell’ordine di demolizione di opere edilizie abusive disposto con sentenza emessa dal medesimo giudice, presentata nell’interesse del condannato.
Contro l’ordinanza del giudice dell’esecuzione proponeva ricorso per cassazione il condannato, rilevando che il giudice del merito avrebbe erroneamente respinto la richiesta, supportata dal rilascio, in data successiva al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, di un permesso di costruire in sanatoria per ‘‘condono edilizio’’, in quanto le opere realizzate consistevano in un capannone di mq 450 avente destinazione non residenziale.
La condonabilità delle opere, secondo il ricorrente, era stata esclusa dal giudice dell’esecuzione sulla base di quanto disposto dalla L. n. 326 del 2003 (art. 32, comma 25), dichiarato incostituzionale con sentenza n. 196/2004 ed interpretato dalla circolare del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti 07.12.2005 n. 2699 nel senso che dovesse ritenersi ammessa la condonabilità degli interventi aventi destinazione non residenziale.
La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso, in particolare ritenendo, come già anticipato, non vincolante il contenuto della circolare ministeriale. In particolare, tra le varie questioni affrontate, sul punto centrale la Cassazione precisa che è del tutto privo di rilievo il contenuto della richiamata circolare del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. In tal senso, la Corte ribadisce che la circolare interpretativa è atto interno alla pubblica amministrazione che si risolve in un mero ausilio interpretativo e non esplica alcun effetto vincolante non solo per il giudice penale, ma anche per gli stessi destinatari, poiché non può comunque porsi in contrasto con l’evidenza del dato normativo.
A tal proposito, gli Ermellini richiamano una precedente pronuncia delle Sezioni Unite civili sulla natura ed efficacia delle circolari la quale evidenzia, con riferimento a quelle interpretative in materia tributaria, la natura di atti meramente interni alla pubblica amministrazione che esprimono esclusivamente un parere dell’amministrazione medesima non vincolante per il contribuente, per gli uffici, per la stessa autorità che l’ha emanata e per il giudice (Cass. civ., Sez. Un., 02.11.2007, n. 23031).
La sentenza costituisce espressione di un orientamento ormai pacifico, recentemente affermato dalla stessa Cassazione (v., in termini: Cass. pen., sez. III, 14.01.2011, n. 762, in Ced Cass., n. 249307, in cui la Corte ha disatteso la tesi, fondata sulla medesima circolare del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti 07.12.2005, n. 2699, secondo cui sono condonabili tutte le opere, ‘‘ab origine’’ prive di titolo abilitativo, residenziali e non) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.06.2012 n. 25170 - tratto da Urbanistica e appalti n. 10/2012).

ESPROPRIAZIONE: Espropriazione parziale.
In sede di opposizione alla stima per l’espropriazione parziale di un terreno, va esclusa la risarcibilità del danno alle particelle rese inagibili o inutilizzabili a seguito dell’opera pubblica, poiché trattasi di voce ricompresa nell’indennità di espropriazione, che per definizione riguarda l’intera diminuzione patrimoniale subita dal soggetto passivo.
Decidendo sull’impugnazione proposta avverso una decisione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, le Sezioni Unite hanno, in primo luogo, rigettato il motivo di censura con il quale i ricorrenti avevano censurato l’impugnata sentenza nella parte in cui aveva ritenuto che l’indennità di esproprio copre anche il danno subito dall’espropriato alle zone attigue.
La Corte ha ritenuto che correttamente il TSAP aveva escluso la risarcibilità del danno alle particelle rese inagibili o inutilizzabili a seguito dell’opera pubblica, poiché trattasi di voce ricompresa nell’indennità di espropriazione, che per definizione riguarda l’intera diminuzione patrimoniale subita dal soggetto passivo.
Il deprezzamento, che abbiano subito le parti residue del bene espropriato, è da considerare voce ricompresa nell’indennità di espropriazione, che per definizione riguarda l’intera diminuzione patrimoniale subita dal soggetto passivo del provvedimento ablativo, ivi compresa la perdita di valore della porzione residua derivata dalla parziale ablazione del fondo (Cass. 21.11.2001, n. 14640; 06.06.2003, n. 9096), sia essa agricola o edificabile (Cass. 05.06.2001, n. 7590), non essendo concepibili, in presenza di un’unica vicenda espropriativa, due distinte somme, imputate l’una a titolo di indennità di espropriazione e l’altra a titolo di risarcimento del danno per il deprezzamento subito dai residui terreni (Cass. 10.03.2000, n. 2737).
Ne consegue che qualora il giudice accerti, anche d’ufficio, che la parte residua del fondo sia intimamente collegata con quella espropriata da un vincolo strumentale ed oggettivo (tale, cioè, da conferire all’intero immobile unità economica e funzionale), e che il distacco di parte di esso influisca oggettivamente (con esclusione, dunque, di ogni valutazione soggettiva) in modo negativo sulla parte residua -e tale indagine resta nell’ambito della determinazione dell’indennità, venendo in considerazione il pregiudizio di quella porzione residua non a fini risarcitori, ma come parametro indennitario, e dunque non soggetto a particolare onere di allegazione- deve, per l’effetto, riconoscere al proprietario il diritto ad un’unica indennità, consistente nella differenza tra il giusto prezzo dell’immobile prima dell’occupazione ed il giusto prezzo (potenziale) della parte residua dopo l’occupazione dell’espropriante (Cass. 27.09.2002, n. 14007).
Di nessun rilievo, ai fini dell’affermazione di un diverso principio, è la circostanza che detti effetti negativi si siano realizzati su zone comunque estranee alla dichiarazione di pubblica utilità, una volta ritenuto che le opere accessorie eseguite, che determinarono il fatto dell’interclusione dei terreni residui degli attori, erano previste e conformi al progetto dell’opera pubblica.
Come hanno rilevato le stesse Sezioni Unite (08.04.2008, n. 9041), nell’espropriazione parziale regolata dalla L. 25.06.1865, n. 2359, art. 40 va compresa ogni ipotesi di diminuzione di valore (nella specie interclusione) della parte non interessata dall’espropriazione, con necessario riferimento al concetto unitario di proprietà ed al nesso di funzionalità tra ciò che è stato oggetto del provvedimento ablativo e ciò che è rimasto nella disponibilità dell’espropriato, tanto più ove si tratti di suoli a destinazione agricola, in cui rileva l’unitarietà costituita dalla destinazione a servizio dell’azienda agricola.
I profili irreversibili di danno subiti dalla parte residua della proprietà, a causa dell’interclusione della medesima dopo l’espropriazione, non possono che trovare riconoscimento nei concetti di espropriazione ed occupazione parziale. Nella fattispecie regolata dall’art. 40, va ricompresa ogni ipotesi di diminuzione di valore della parte non interessata dall’espropriazione, per cui, contrariamente a quanto rilevato dai ricorrenti, è ininfluente che la parte residua danneggiata non sia compresa nella dichiarazione di pubblica utilità, ai fini dell’espropriazione.
Infatti nella valutazione del danno da espropriazione parziale ex art. 40 cit. si prescinde dal dato catastale della particella, essendo necessario riferirsi al concetto di proprietà e al nesso funzionale tra ciò che è stato oggetto del provvedimento ablativo e ciò che è rimasto nella disponibilità dell’espropriato (Cass. 24.09.2007, n. 19570), tanto più ove si tratti di suoli a destinazione agricola, in cui rileva l’unitarietà costituita dalla destinazione a servizio dell’azienda agricola (Cass. 14.05.1998, n. 4848; 15.07.1977, n. 4404).
E' stato invece accolto il motivo con il quale i ricorrenti censuravano l’impugnata sentenza per aver ritenuto che fosse giuridicamente corretto l’operato del TRAP, che aveva determinato l’indennità annuale da occupazione provvisoria legittima in un dodicesimo dell’indennità di esproprio, senza tener conto della maggiorazione per il consenso alla determinazione di tale indennità.
La sentenza in rassegna ha ricordato che le stesse Sezioni Unite (18.12.2010, n. 24303) hanno statuito che l’indennità di occupazione legittima, che, in base alla L. 22.10.1971, n. 865, art. 20, comma 3 è pari, per ciascun anno di occupazione, ad un dodicesimo dell’indennità che sarebbe dovuta per l’espropriazione dell’area da occupare, «calcolata a norma dell’art. 16» della stessa legge, va commisurata alla definitiva indennità di espropriazione effettivamente dovuta, dovendo ad essa attribuirsi quella stessa qualificazione di indennità provvisoria che si rinviene nella cit. L. n. 865, art. 12, comma 1, il quale rinvia, per la relativa determinazione, proprio all’art. 16 anzidetto. Siffatta determinazione non trova deroga nell’ambito della disciplina indennitaria posta dalla L. 14.05.1981, n. 219, art. 80 il cui carattere speciale non è elemento sufficiente a spezzare il nesso logico ed economico che, per legge, lega tutte le indennità, sia di espropriazione che di occupazione legittima, posto che la anzidetta normativa di riferimento, fissa l’entità delle indennità di occupazione in misura strettamente percentuale all’indennità di espropriazione parimenti dovuta.
Il suddetto principio e` stato affermato tanto per l’indennità di occupazione legittima del suolo destinato all’esproprio quanto per quello utilizzato per le fasce laterali occupate per le necessità del ‘‘cantiere’’ e transito. La Corte lo ha ribadito, sottolineando che esso si fonda sulla considerazione che -in presenza di legittimo procedimento di occupazione e di esproprio- il sistema prevede un nesso (logico e, soprattutto, economico) che, per la legge, lega, sempre e comunque, tutte le indennità (sia di espropriazione che di occupazione legittima), con la conseguenza che le disposizioni attinenti alle indennità da occupazione provvisoria legittima, perché tendono al ristoro del reddito perduto durante l’occupazione del bene, non possono che fissare l’entità delle indennità di occupazione in misura strettamente percentuale all’indennità di espropriazione parimenti dovuta: quella annuale di ‘‘un dodicesimo’’ corrisponde, infatti e comunque, ad una redditività predeterminata in misura percentuale fissa (8,33% all’anno) dallo stesso legislatore, a cui va aggiunto l’aumento del 50% per il concordamento bonario di cui alla L. n. 865 del 1971, art. 12.
La Corte ha aggiunto che non rileva se il decreto di esproprio sia stato tempestivamente emesso (rilevante -invece- in relazione alla tematica affrontata da Corte cost. n. 24/2009), ma solo se l’indennità di espropriazione sia stata effettivamente accettata e quindi sia dovuta con l’aumento nella misura corrisposta per il concordamento bonario.
Rimane, invece, fuori da questa regolamentazione il caso di imposizione di fatto di servitù pubblica di acquedotto, a seguito di realizzazione dell’opera idraulica senza una procedura ablatoria, in cui, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, trova applicazione analogica l’art. 1038 c.c., che distingue, ai fini della determinazione dell’indennità, tra le parti fisicamente occupate; dall’opera idraulica e quelle costituenti le cosiddette fasce di rispetto necessarie per lo spurgo e per la manutenzione delle condotte, stabilendo che per le prime sia corrisposto al proprietario l’intero valore e per le altre soltanto la metà di tale valore (Cass., Sez. Un., 13.02.2001, n. 51) (Corte di Cassazione, Sezz. Un. civili, sentenza 25.06.2012 n. 10502 - tratto da Urbanistica e appalti n. 10/2012).

EDILIZIA PRIVATA: NORMATIVA ANTISISMICA E REALIZZAZIONE DI PANNELLI AUTOSTRADALI.
Integra il reato di esecuzione di lavori abusivi in zona sismica (art. 95, D.P.R. n. 380/2001) l’installazione, senza la prescritta autorizzazione, di pannelli a messaggio variabile lungo i tratti autostradali, giacché nel concetto di ‘‘costruzione’’ rientrano anche tutti quegli interventi in apparenza minori che possono in concreto rilevare sul piano della pericolosità.
La Corte di Cassazione si sofferma per la prima volta, con la sentenza in esame, sul tema dell’assoggettamento alla normativa antisismica di quegli interventi edilizi che, pur assolvendo a una finalità lato sensu pubblica, sono pur sempre da qualificarsi come potenzialmente pericolosi e, in quanto tali, rientrano nella disciplina dettata dal T.U. edilizia.
La vicenda processuale in esame vedeva imputati il direttore di uno dei tronchi autostradali della ‘‘Autostrade per l’Italia s.p.a.’’ (che rivestiva anche la qualità di committente) nonché il titolare della ditta esecutrice dei lavori, cui era stato contestato di avere realizzato, in assenza della prescritta autorizzazione del competente ufficio della regione, opere di installazione di pannelli a messaggi variabili in zona sismica Z3.
Contro la sentenza di condanna, proponevano ricorso per cassazione gli imputati deducendo, per quanto di interesse in questa sede, violazione di legge in relazione all’art. 95 D.P.R. n. 380/2001, asserendo che il concetto di ‘‘costruzione’’, richiamato dalla norma in questione, si riferirebbe alle sole opere edili in senso stretto e non anche, quindi, alla realizzazione di semplici pannelli contenenti messaggi autostradali dalla cui installazione non potrebbe peraltro oggettivamente, secondo gli imputati, derivare una concreta fonte di rischio per l’incolumità.
La tesi, pur suggestiva ed adeguatamente argomentata, non è stata accolta dalla Cassazione.
La Corte ha ritenuto di doversi adeguare all’orientamento giurisprudenziale maggioritario che non limita agli edifici la nozione di ‘‘costruzione’’ cui si riferiscono le norme antisismiche. Tale nozione, osservano gli Ermellini, è stata approfondita dalla giurisprudenza di legittimità che, proprio con riferimento alla cartellonistica pubblicitaria, ha affermato che la sistemazione di una insegna o tabella pubblicitaria richiede il rilascio del preventivo permesso di costruire quando per le sue rilevanti dimensioni comporti un mutamento territoriale, atteso che soltanto un sostanziale mutamento del territorio nel suo contesto preesistente sia sotto il profilo urbanistico che edilizio fa assumere rilevanza penale alla violazione del regolamento edilizio, con conseguente integrazione del reato di cui all’art. 44 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (Cass. pen., sez. III, 11.02.2004, n. 5328, in Ced Cass., n. 227402).
A ciò si aggiunge, precisa la Cassazione, come è dato notorio che i cartelloni recanti indicazioni sulla viabilità apposti ai margini del tratto autostradale non possono essere, per la funzione svolta, di modeste dimensioni. Appare peraltro di tutta evidenza, quindi, che anche interventi in apparenza ‘‘minori’’ possano in concreto rilevare sul piano della pericolosità. Nella valutazione sul punto non possono non concorrere, infatti, con l’elemento dimensionale anche altri aspetti quali, ad esempio, le modalità di collocazione del manufatto, la morfologia del sito, la pendenza del terreno, le modalità di realizzazione delle strutture di sostegno, ecc. in quanto suscettibili di accrescere il grado di pericolo per l’incolumità pubblica. Ed è ovvio che da tale valutazione non si potrà prescindere anche per le zone in cui il grado di sismicità non sia particolarmente elevato.
Da qui, dunque, la rilevanza penale del fatto, attesa l’estensione della nozione di ‘‘costruzione’’, in materia antisismica, anche agli interventi edilizi minori che si presentino pericolosi per la pubblica incolumità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.06.2012 n. 24086 - tratto da Urbanistica e appalti n. 10/2012).

APPALTINell’ambito di una gara, che come la presente si svolga con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, le valutazioni tecniche delle commissioni di gara sono espressione di ampia discrezionalità, suscettibili di sindacato solo nei limiti della manifesta illogicità.
Nello stesso ambito, la commissione ben può esprimere le proprie valutazioni attribuendo ai vari profili rilevanti dell’offerta un punteggio numerico, purché ciò faccia attraverso “criteri prefissati di valutazione… sufficientemente dettagliati”, tali “da consentire di comprendere l'iter logico attraverso il quale l'amministrazione è giunta ad un certo grado di giudizio”.

In termini generali, è pacifico in giurisprudenza che, nell’ambito di una gara che come la presente si svolga con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, “le valutazioni tecniche delle commissioni di gara sono espressione di ampia discrezionalità, suscettibili di sindacato solo nei limiti della manifesta illogicità”: così espressamente, da ultimo, C.d.S. sez. V 14.09.2010 n. 6686.
E’ poi parimenti noto che, nello stesso ambito, la commissione ben può esprimere le proprie valutazioni attribuendo ai vari profili rilevanti dell’offerta un punteggio numerico, purché ciò faccia attraverso “criteri prefissati di valutazione… sufficientemente dettagliati”, tali “da consentire di comprendere l'iter logico attraverso il quale l'amministrazione è giunta ad un certo grado di giudizio”: così per tutte, sempre nella giurisprudenza recente, C.d.S. sez. V 01.10.2010 n. 7266 (TAR Lombardia-Brscia, Sez. II, sentenza 04.11.2010 n. 4554 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 12.10.2012

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IN EVIDENZA

PUBBLICO IMPIEGO: TFR-TFS- trattenuta del 2,5% - vince la linea della UIL pubblica amministrazione.

GIUSTIZIA E' FATTA !!

La Corte costituzionale, con sentenza 11.10.2012 n. 223 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di diverse norme del decreto legge 31/05/2010, n. 78, convertito con modificazioni in legge 30/07/2010, n. 122, tra queste quella di cui all’art. 12, comma 10, che disponeva il permanere della trattenuta del 2,5 per cento sulla retribuzione, nonostante la norma prevedesse l’applicazione dell’art. 2120 del codice civile in tema di trattamento di fine servizio, in luogo dell’indennità di buonuscita.
Ricordiamo che, su questa questione, la Uil Pa ha per prima denunciato la ingiustizia di un tale comportamento delle Amministrazioni pubbliche ed ha promosso, curate dallo studio legale Galleano, diverse cause pilota in tutt’Italia, sul cui esito evidentemente, influirà la pronuncia della Corte Costituzionale, posto che la dichiarazione di incostituzionalità vincola i giudici di merito.
Siamo andati avanti prima con le diffide e poi con i ricorsi, nonostante le critiche aspre e sprezzanti di alcune sigle sindacali, poiché sapevamo di essere dalla parte della ragione ed ora la Corte Costituzionale conferma questa nostra impostazione.
Riportiamo di seguito, la motivazione sul punto, della Corte Costituzionale: "14.— Anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 10, del citato d.l. n. 78 del 2010, sollevata in riferimento agli articoli 3 e 36 Cost. è fondata.
La premessa interpretativa del TAR per l’Umbria è, innanzitutto, corretta in punto di ricostruzione del quadro normativo, poiché la mancata espressa esclusione del permanere della trattenuta a carico del lavoratore non potrebbe indurre a far uso dell’argomento a silentio sia pure per perseguire un’interpretazione costituzionalmente orientata. Il perdurare del prelievo di cui si discute, infatti, oltre a derivare dall’astratta compatibilità fra il nuovo regime e la disciplina contenuta nel d.P.R. n. 1032 del 1973, è avvalorato dal fatto che il citato art. 12, comma 10, non contiene affatto una disciplina organica sulle prestazioni previdenziali in favore dei dipendenti dello Stato, in grado di sostituirsi, in senso novativo, al d.P.R. n. 1032 del 1973, come del resto ritenuto dall’Amministrazione in sede applicativa.
Ciò posto, va osservato che fino al 31.12.2010 la normativa imponeva al datore di lavoro pubblico un accantonamento complessivo del 9,60% sull’80% della retribuzione lorda, con una trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50%, calcolato sempre sull’80% della retribuzione. La differente normativa pregressa prevedeva dunque un accantonamento determinato su una base di computo inferiore e, a fronte di un miglior trattamento di fine rapporto, esigeva la rivalsa sul dipendente di cui si discute.
Nel nuovo assetto dell’istituto determinato dalla norma impugnata, invece, la percentuale di accantonamento opera sull’intera retribuzione, con la conseguenza che il mantenimento della rivalsa sul dipendente, in assenza peraltro della “fascia esente”, determina una diminuzione della retribuzione e, nel contempo, la diminuzione della quantità del TFR maturata nel tempo.
La disposizione censurata, a fronte dell’estensione del regime di cui all’art. 2120 del codice civile (ai fini del computo dei trattamenti di fine rapporto) sulle anzianità contributive maturate a fare tempo dall01.01.2011, determina irragionevolmente l’applicazione dell’aliquota del 6,91% sull’intera retribuzione, senza escludere nel contempo la vigenza della trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50% della base contributiva della buonuscita, operata a titolo di rivalsa sull’accantonamento per l’indennità di buonuscita, in combinato con l’art. 37 del d.P.R. 29.12.1973, n. 1032.
Nel consentire allo Stato una riduzione dell’accantonamento, irragionevole perché non collegata con la qualità e quantità del lavoro prestato e perché –a parità di retribuzione– determina un ingiustificato trattamento deteriore dei dipendenti pubblici rispetto a quelli privati, non sottoposti a rivalsa da parte del datore di lavoro, la disposizione impugnata viola per ciò stesso gli articoli 3 e 36 della Costituzione.
14.1.— Va, quindi, pronunciata l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui non esclude l’applicazione a carico del dipendente della rivalsa pari al 2,50% della base contributiva, prevista dall’art. 37, comma 1, del d.P.R. n. 1032 del 1973.
" (tratto da e link a www.uilpa.it).
 

     Non c'è che dire: un plauso alla UIL-PA che ha creduto in questa battaglia, unico sindacato contro tutti, laddove gli altri sindacati recitavano, all'unisono: "ma va là, sono solo quisquilie, bazzeccole, pinzellacchere ...".
     Quindi??
Scrivete immediatamente una mail al Vs. Ufficio personale e diffidate che già nella busta paga di ottobre c.a. Vi siano restituite le somme indebitamente trattenute dall'01.01.2011, con rivalutazione monetaria ed interessi legali, siccome già statuito recentemente dal TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 13.09.2012 n. 2321.

12.10.2012
- LA SEGRETERIA PTPL

dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: R. Pagliaro, Decreto-legge SALVA ENTI ... e i “pareri” dei responsabili di servizio sulle proposte di deliberazione da sottoporre alla Giunta od al Consiglio comunale (11.10.2012).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

URBANISTICA: M. Viviani, Gli effetti -in Lombardia- dell’adozione del piano territoriale di coordinamento provinciale (PTCP) (11.10.2012).
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Ringraziamo l'amico Mario Viviani per l'utile contributo ricevuto.
12.10.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

INCARICHI PROFESSIONALI: M. Nesi, Gli incarichi Legali, incarichi fiduciari o incarichi clientelari? (link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: F. Vanetti, In attesa del D.M. su terre e rocce da scavo... (link a www.lexambiente.it).

NEWS

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGODECRETO SALVA-ENTI/ Più peso ai dirigenti nei comuni. I politici devono giustificarsi se si discostano dai pareri. Il provvedimento è stato pubblicato ieri in G.U. (dl 174/2012).
Giunte e consigli di comuni e province dovranno esplicitare le ragioni in base alle quali le delibere da essi approvate risultino difformi dai contenuti del parere di regolarità tecnica.
Il decreto legge sui controlli e gli equilibri finanziari di regioni ed enti locali (dl 174 del 10/10/2012, pubblicato sulla G.U. n. 137 di ieri) modifica l'articolo 49 del dlgs 267/2000, inserendo un nuovo comma 4, ai sensi del quale: «Ove la giunta o il consiglio non intendano conformarsi ai pareri di cui al presente articolo, devono darne adeguata motivazione nel testo della deliberazione». Lo scopo della disposizione è, ovviamente, rafforzare il valore consultivo del parere espresso dai dirigenti o responsabili di servizio sugli atti deliberativi.
Da sempre, dall'entrata in vigore della legge 142/1990, sulle deliberazioni di consigli e giunte è richiesto il parere di regolarità tecnica (un tempo, era previsto anche quello di legittimità da parte del segretario comunale, improvvidamente abolito dalle riforme Bassanini). Tale parere è obbligatorio, salvo che per gli atti di mero indirizzo politico (atti ispettivi, mozioni), ma non vincolante.
Dunque, gli organi collegiali di governo possono adottare una decisione che vada in una linea diversa, sul piano dell'opportunità, del merito e anche della disciplina normativa da seguire, da quella indicata dal parere. Fin qui, impropriamente, in molte amministrazioni laddove il responsabile esprimesse o intendesse esprimere un parere non favorevole alla regolarità della proposta di deliberazione accadeva che organi politici e tecnici andassero allo scontro o che si facesse in modo di ricondurre il parere alle indicazioni degli organi di governo, per evitare di manifestare contrasti tra decisione adottata e parere in merito.
Un sistema di aggiramento della norma, che invece intende proprio evidenziare le eventuali alterità di visione e di responsabilità nel procedimento di adozione delle delibere. Non si deve dimenticare che i responsabili dei servizi, ai sensi del comma 3 dell'articolo 49 del Tuel «rispondono in via amministrativa e contabile dei pareri espressi»: essi hanno il dovere di rilevare ogni aspetto di irregolarità che possa ledere la corretta esplicazione del potere amministrativo, essendo il parere l'estremo momento nel quale rendere consapevoli gli organi di governo di eventuali possibili danni o, appunto, irregolarità discendenti dalle deliberazioni.
Con la modifica apportata dal decreto legge, non sarà più possibile nascondere eventuali diverse visioni tra organi di governo e responsabili di servizio. Il procedimento di formazione delle deliberazioni si arricchisce di una fase in più, eventuale: all'istruttoria e formulazione del testo della proposta, si affianca la fase, eventuale, della modifica della proposta in conseguenza del parere di regolarità tecnica eventualmente negativo rispetto ai contenuti della proposta. Gli organi collegiali sono obbligati a spiegare perché non ritengono di conformarsi alle indicazioni tecniche di chi è chiamato a illustrare loro le strade più corrette e legittime per perseguire gli interessi pubblici.
In questo modo, in analogia a quanto accade nel rapporto tra responsabile del procedimento e autorità decidente ai sensi dell'articolo 6, comma 1, lettera f), della legge 241/1990, si distinguono necessariamente le responsabilità tecniche, da quelle politico-amministrative. Indirettamente, il parere finisce per essere uno strumento finalizzato a ponderare molto bene le scelte dell'organo di governo. E i dirigenti o responsabili di servizio non potranno più nascondersi dietro un dito e non esprimere apertamente rilievi, nei confronti di provvedimenti che contengono delle criticità (articolo ItaliaOggi dell'11.10.2012 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATA: No al confinamento di kebab, money transfer e phone center.
No alla localizzazione di Kebab, money transfer e centri di telefonia fissa solo in specifiche zone urbane del territorio comunale. In quanto sono in contrasto con i principi di concorrenza e con la disciplina nazionale della liberalizzazione. L'ingresso di nuovi operatori non deve incontrare ostacoli di tipo normativo o amministrativo, diretti a predeterminare rigidamente limiti quantitativi alle possibilità di entrata nel mercato.
Questo è quanto espresso dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato all'interno del bollettino settimanale 17.09.2012 n. 35 – in ordine agli effetti distorsivi della concorrenza derivanti dalle disposizioni che regolano l'insediamento delle attività di «Kebap e simili, compresi gli esercizi ove vi è asporto e consumazione in loco di alimenti e bevande, centri di telefonia internazionale e simili, centri di trasferimento del denaro». Sotto osservazioni sono quattro delibere comunali degli anni 2009 e 2010 aventi ad oggetto la «Definizione di programma di localizzazione di particolari attività suscettibili di determinare situazioni di disagio sociale, viabilistico e di quiete pubblica ai fini del loro insediamento sul territorio di...».
Le richiamate deliberazioni introducono il divieto di insediamento delle attività sopra indicate in tutto il territorio comunale, ad eccezione di alcuni ambiti identificati, nei quali eventuali richieste di insediamento saranno valutate nell'ambito di una apposita procedura negoziale volta ad individuare «se la zona urbanistica può accogliere l'insediamento richiesto; le particolari prescrizioni a tutela della collettività insediata nella zona; gli eventuali standard qualitativi dettati dalla particolare attività in relazione alla situazione viabilistica ed urbana consolidata nella zona d'insediamento».
Le delibere, prevedendo un divieto di insediamento di esercizi di vendita di kebab, di telefonia in sede fissa e trasferimento del denaro e simili, ovvero limitandolo a specifiche zone, introducono un elemento di rigidità del sistema tale da tradursi, nei diversi mercati interessati, in una programmazione quantitativa dell'offerta, in contrasto con le esigenze di salvaguardia della concorrenza (articolo ItaliaOggi dell'11.10.2012).

PUBBLICO IMPIEGOStatali, costa cara l'assenza per assistere parenti.
LE CONFERME/ Blocco per un altro anno dei rinnovi. Mentre la cancellazione della vacanza contrattuale era già stata adottata dal vecchio governo.

Con la legge di stabilità 2013 arriva solo la conferma del blocco per un altro anno del rinnovo dei contratti, uno stop partito nel 2011 con il decreto 78/2010, perché la cancellazione della vacanza contrattuale era già stata adottata dal vecchio Governo.
Come ha precisato ieri il ministro Filippo Patroni Griffi per ripristinare la vacanza contrattuale sarebbe stato necessario un nuovo intervento legislativo con tanto di risorse aggiuntive e copertura finanziaria. Dopo la lunga notte del varo della legge di stabilità e in attesa di poterne leggere il testo definitivo, è nella risposta del ministro alle reazioni sindacali di giornata l'unico elemento di novità.
«Certe dichiarazioni di esponenti sindacali dovrebbero tener conto delle reali disponibilità delle casse dello Stato», ha detto Patroni Griffi dopo aver letto i commenti critici di tutte le organizzazioni e i numeri diffusi dalla Fp Cgil, secondo cui il blocco dei contratti e dell'indennità di vacanza contrattuale comporterà tra il 2010 e il 2014 una perdita di salario complessiva di oltre 6 mila euro per gli statali, che si ritroveranno una busta paga alleggerita in media di 240 euro. Ieri è anche circolata l'ipotesi che la norma del blocco dei contratti venga stralciata per scriverla in via amministrativa (come del resto era già stato fatto in passato). Si vedrà.
Tutte confermate invece le altre misure del "pacchetto statali", con la proroga, sempre a tutto il 2014, dei tagli del 5 e 10% delle quote di stipendio superiori a 90 e 150mila euro (misura su cui pendono ricorsi alla Corte costituzionale) e il dimezzamento della retribuzione nei giorni di permesso per l'assistenza a parenti disabili che non siano coniugi o figli riconosciuto dalla legge 104/1992.
Sui permessi ex legge 104 i tecnici della Funzione pubblica stanno per diffondere i dati relativi al 2011, con qualche mese di ritardo rispetto all'anno scorso per qualche problema tecnico dovuto alla migrazione di banche dati dal vecchio sistema al nuovo sistema Perla PA. Gli ultimi numeri ufficiali, relativi al 2010, sintetizzano il ricorso a questo permesso con le seguenti cifre: 244.997 beneficiari (7,4% del totale dei dipendenti) per un totale di 4.835.263 giornate di permesso e un costo stimato (calcolato considerando pari a 33mila euro lo stipendio medio annuo di un dipendente pubblico, per un costo giornaliero di 150 euro su 220 giornate lavorative) di 725milioni e 280mila euro. È questo l'aggregato di spesa che si intende aggredire con la nuova norma.
In attesa dell'invio alle Camere della Stabilità, a palazzo Vidoni si lavora intanto sulle schede prodotte da tutte le amministrazioni centrali, gli enti pubblici non economici e le agenzie sulle dotazioni organiche. Si deve chiudere l'istruttoria in tempo utile per il varo, entro fine mese, dei Dpcm che definiscono i criteri per il taglio delle dotazioni deciso con la spending review: il 20% del personale dirigente e il 10% di funzionari e dipendenti. Secondo le indiscrezioni trapelate, la ricognizione finora condotta conferma che problemi di soprannumeri ci sarebbero in Inps e Inail, dove per effetto dei piani industriali in corso, le dotazioni organiche sono pressoché coincidenti con il personale in servizio. Obiettivo del ministro è trovare possibili compensazioni.
Secondo la Fp Cgil proprio i dipendenti di questi enti sarebbero i più colpiti dal blocco dei contratti: se per i dipendenti dei ministeri la perdita media in busta a regime sarà di 210 euro e per i lavoratori delle agenzie fiscali di 270 euro, per quelli degli enti pubblici non economici (Inps e Inail) sarà invece di 290 euro (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.10.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOParere tecnico obbligatorio su ogni delibera del Comune.
L'ALLARGAMENTO/ Il responsabile del servizio interessato dovrà esprimersi su ogni atto con riflessi diretti o indiretti sulla situazione finanziaria.

Ogni delibera di Giunta o Consiglio deve essere accompagnata dal parere tecnico del responsabile del servizio interessato e dal via libera del responsabile dei servizi finanziari in tutti i casi in cui comporti «riflessi diretti e indiretti» sulla situazione economico-finanziaria o anche sul patrimonio dell'ente.
È questo il primo cambio di rotta nell'attività dei Comuni determinato dall'entrata in vigore, oggi, del decreto enti locali approvato giovedì scorso, che fa scattare anche il conto alla rovescia per l'attuazione dei costi della politica nelle Regioni. Con le regole pubblicate sulla «Gazzetta Ufficiale» di ieri diventano operativi anche i rafforzamenti dei controlli esterni, sia sulle Regioni sia sugli enti locali, che però cominceranno a mostrare le loro ricadute operative solo nei prossimi mesi.
I primi effetti concreti, da questo punto di vista, sono sulle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, investite di nuovi compiti e che, in base al decreto, potranno utilizzare anche uomini della Guardia di finanza (d'intesa con il ministero dell'Economia) e di magistrati delle sezioni giurisdizionali della stessa Corte.
Il primo dato applicativo con l'entrata in vigore del decreto si concentra sui controlli interni e continui nell'attività dei Comuni. I politici locali, in pratica, potranno dribblare i pareri dei responsabili tecnici solo con «adeguate motivazioni espresse», mentre il responsabile dei servizi finanziari vede crescere drasticamente il numero di atti su cui dovrà vigilare in via preventiva.
Fino a ieri il passaggio sulla sua scrivania era obbligatorio solo per gli atti che comportassero «impegno di spesa o diminuzione di entrata», mentre ora il riferimento a qualsiasi effetto diretto o indiretto su conti o patrimonio lo porterà a mettere gli occhi preventivamente su quasi tutte le scelte (sono esclusi solo gli «atti di mero indirizzo»). Insieme al responsabile dei servizi finanziari, di cui viene sancita meglio l'autonomia dagli organi politici, si vedono ampliati i compiti di controllo anche il segretario, il direttore generale (dove c'è) e i revisori dei conti, che dovranno estendere per legge il loro monitoraggio anche alle società partecipate.
In vigore da oggi anche il fondo rotativo anti-dissesto: la dotazione finanziaria iniziale non è elevata (30 milioni di euro per il 2012, 100 milioni per il 2013 e 200 milioni all'anno dal 2014 al 2020), ma per il 2012 è accompagnato a un maxi-assegno da 500 milioni per pagare spese correnti e di personale negli enti in difficoltà. Il primo destinatario dell'incentivo appare il Comune di Napoli, dove però nei giorni scorsi il sindaco Luigi De Magistris ha avuto parole molto dure nei confronti del nuovo strumento, anche perché l'attivazione del fondo è subordinata al taglio di spese e all'avvio di controlli stringenti sul piano di rientro quinquennale che può prevedere anche l'aumento al massimo di tasse e tariffe.
Manca poco, infine, alla scadenza per attuare le norme sui costi della politica regionale: entro il 30 novembre le Regioni dovranno tagliare posti, indennità e fondi ai gruppi, e avranno sei mesi di tempo da oggi solo se la sforbiciata dovrà passare da modifiche statutarie.
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In vigore da oggi
01 | LE DELIBERE
Il parere tecnico del responsabile del servizio interessato e, in molti casi, il via libera del responsabile dei servizi finanziari dovranno accompagnare ogni delibera di Giunta o Consiglio in tutti i casi in cui comporti «riflessi diretti e indiretti» sulla situazione economico-finanziaria o anche sul patrimonio dell'ente
02 | L'ALLARGAMENTO
Finora il parere del responsabile del servizio era obbligatorio solo per gli atti che comportassero «impegno di spesa o diminuzione di entrata». Adesso il riferimento a qualsiasi effetto diretto o indiretto su conti o patrimonio porterà il responsabile tecnico a esprimere un parere preventivo su quasi tutte le scelte
03 | FONDO ROTATIVO
In vigore anche il fondo rotativo anti-dissesto (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.10.2012 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Posto che il permesso di costruire attiene ad un’attività di carattere vincolato al rispetto della disciplina urbanistica, non può, infatti, consentirsi una arbitraria valutazione della compatibilità di un singolo intervento di nuova costruzione con il contesto agricolo.
Il responsabile del servizio deve valutare la sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi previsti dalla legge e dalle NTA per far luogo al titolo edilizio.

Per ciò che concerne poi la seconda censura, deve radicalmente denegarsi che, in assenza della puntuale indicazione di parametri oggettivi per tale riscontro, l’Amministrazione locale possa o debba valutare discrezionalmente “caso per caso” la tollerabilità dell’intervento medesimo rispetto al materiale assetto della zona.
Posto che il permesso di costruire attiene ad un’attività di carattere vincolato al rispetto della disciplina urbanistica (cfr. Consiglio Stato, sez. V 04.05.2004 n. 2694; Consiglio Stato, sez. IV, 03.02.2006, n. 401), non può, infatti, consentirsi una arbitraria valutazione della compatibilità di un singolo intervento di nuova costruzione con il contesto agricolo.
Il responsabile del servizio deve valutare la sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi previsti dalla legge e dalle NTA per far luogo al titolo edilizio (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.10.2012 n. 5255 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Canne fumarie, quando serve il permesso di costruire.
La realizzazione di una canna fumaria che comporti una modifica del prospetto del fabbricato cui inerisce è riconducibile ai lavori di ristrutturazione edilizia realizzati tramite inserimento di nuovi elementi e impianti, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello stesso T.U. sull'edilizia.

La deducente, affittuaria di un locale destinato allo svolgimento dell’attività di ristorazione-pizzeria, ha impugnato l’ordinanza con cui il Comune di appartenenza aveva ingiunto alla medesima, nonché alla proprietaria dell’immobile, la demolizione della canna fumaria realizzata abusivamente in epoca antecedente la stipula del contratto di locazione.
Nello specifico ha eccepito la violazione e falsa applicazione dell’art. 31, comma 2, D.P.R. n. 380/2001, sulla scorta della considerazione per cui la menzionata disposizione sancisce che soltanto l’autore materiale dell’abuso e il proprietario dell’immobile interessato costituiscono i destinatari dell’ingiunzione a demolire, oltre alla violazione degli artt. 3 e 7, L. n. 241/1990.
Il ricorso è stato respinto.
Il TAR di Napoli, in primo luogo, ha ritenuto prive di fondamento le censure inerenti la violazione dell’art. 7, L. n. 241/1990 e il difetto di motivazione sull’interesse pubblico. Sul punto, ha rimarcato che, in linea di principio, l’ordine di demolizione non deve essere necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario e il cui presupposto è costituto unicamente dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo.
Né tampoco deve essere richiesta una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art. 3, L. n. 241/1990, atteso che, ricorrendo i predetti requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico concreto e attuale alla sua rimozione (ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 31.08.2010, n. 3955).
Pertanto, ha precisato che, anche nelle ipotesi in cui intercorre un lungo periodo di tempo tra la realizzazione dell'opera abusiva e il provvedimento sanzionatorio, tale circostanza non rileva ai fini della legittimità dell’ingiunzione di demolizione, sia in rapporto al preteso affidamento circa la conformità dell'opera, sia in relazione a un presunto ulteriore obbligo per l'amministrazione procedente di motivare specificamente il provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico a far demolire il manufatto.
Al contempo, il giudicante ha ritenuto inconferente la natura pertinenziale dell’intervento oggetto di contestazione, dedotta dalla ricorrente a sostegno dell’illegittimità dell’impugnata ordinanza di demolizione.
L’intervento in esame, ad avviso dell’adito G.A., è riconducibile ai lavori di ristrutturazione edilizia di cui all'art. 3, comma 1, lettera d), D.P.R. n. 380/2001, realizzati tramite inserimento di nuovi elementi e impianti.
Ha così sottolineato che la realizzazione della canna fumaria era soggetta al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lettera c), in quanto comportante una modifica del prospetto del fabbricato cui inerisce.
In argomento, infatti, ha richiamato un costante indirizzo giurisprudenziale che, con riferimento alle canne fumarie, ha statuito che: “È necessario il rilascio del permesso di costruire qualora esse non presentino piccole dimensioni, siano di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla sagoma dell’immobile e non possano considerarsi un elemento meramente accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell'immobile” (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. II-ter, 18.05.2001, n. 4246).
Orbene, con riferimento al caso di specie, il Tribunale partenopeo ha evidenziato che la canna fumaria installata sull’edificio, avuto riguardo alle dimensioni, altezza, conformazione e destinazione all’espulsione dei fumi di un esercizio di ristorazione dotato di un forno, avevano inciso sul prospetto e la sagoma della costruzione.
Per siffatta ragione, il Collegio ha puntualizzato che l’intervento in questione necessitava del rilascio di un permesso di costruire, atteso che lo stesso aveva determinato la realizzazione di un elemento che in alcuna guisa avrebbe potuto considerarsi meramente accessorio, ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell’immobile.
Infine, ha ritenuto non meritevole di accoglimento neppure la censura formulata dall’interessata in merito alla propria estraneità all’abuso.
Sul punto, il Giudice amministrativo ha chiarito che, in materia di demolizione, la figura del responsabile dell’abuso non si identifica solo in colui che ha materialmente eseguito l’opera ritenuta abusiva, ma si riferisce, necessariamente, anche a colui che di quell’opera ha la materiale disponibilità e può provvedere alla demolizione.
Non a caso, in giurisprudenza è stato precisato che: "I provvedimenti repressivi di illeciti edilizi possono essere indirizzati anche a persone diverse da quelle che hanno materialmente realizzato l’abuso, ma è anche vero che, ai fini della legittimità delle relative ingiunzioni, è sempre necessaria la sussistenza di una relazione giuridica o materiale del destinatario con il bene" (Cons. Stato, Sez. IV, 16.07.2007, n. 4008).
A ogni buon conto, ha evidenziato che il presupposto dell’impugnato provvedimento amministrativo era la realizzazione di un’opera in assenza di permesso di costruire, la cui eliminazione era necessaria per ripristinare il corretto assetto del territorio; pertanto, ha ritenuto che l’ordine di demolizione era stato legittimamente rivolto a colui che al momento della sua irrogazione aveva l’attuale disponibilità del bene abusivo e ciò indipendentemente dal fatto di averlo realizzato (commento tratto da www.ispoa.it - TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 01.10.2012 n. 4005 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Revoca del bando di gara, colpa scusabile senza responsabilità.
L'amministrazione non è tenuta a risarcire il danno causato dal provvedimento illegittimo quando la sua condotta non è rimproverabile sotto il profilo soggettivo. Il principio e' applicabile anche in materia di appalti pubblici, nel caso in cui la stazione appaltante decida di revocare il bando di gara.
Lo ha stabilito la V Sez. del Consiglio di Stato, con la sentenza 14.09.2012 n. 4894.
Il caso ad oggetto della pronuncia ha visto un Comune bandire un gara d'appalto per la “gestione calore degli immobili comunali”, gara, tuttavia, revocata con delibera della giunta cui ha fatto seguito il successivo affidamento diretto del servizio ad una azienda controllata, vista la ricorrenza degli estremi di un noto precedente del Consiglio di Stato allora in voga (sent. n. 5316/2003).
Una delle imprese partecipanti alla gara ha deciso di adire il giudice amministrativo, per censurare l'illegittimità del provvedimento di revoca e del successivo affidamento diretto, posto in essere, secondo la tesi difensiva, in violazione di quanto chiarito dalla giurisprudenza comunitaria in tema di “controllo analogo”.
Al contempo la società ricorrente ha chiesto di essere risarcita per l'illecito commesso dall'amministrazione a seguito della violazione di legge perpetrata con l'emanazione del provvedimento.
Il Tribunale amministrativo per la regione Lombardia, pronunciandosi sulla questione, ha annullato la delibera impugnata, respingendo, tuttavia, la domanda di risarcimento dei danni promossa dalla ricorrente.
Secondo il giudice lombardo, infatti, l'accertata illegittimità del provvedimento impugnato (lesivo dei principi comunitari indicati dalla stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia, circa l'intensità del controllo che l'amministrazione deve imprescindibilmente avere sulla società affidataria del servizio al fine di acquietare le esigenze della procedura pubblica), mentre risultava idonea alla declaratoria di annullamento della delibera, non poteva considerarsi altrettanto incisiva ai fini del giudizio di rimproverabilità fondante l'addebito di responsabilità extracontrattuale o precontrattuale, attesa l'insussistenza dell'elemento soggettivo in capo all'amministrazione per via della farraginosità delle questioni giuridiche involgenti la vicenda e dalla persuasività del precedente giurisprudenziale cui si era affidata l'amministrazione.
Gli argomenti del Tribunale non sono stati condivisi dalla società, pure in parte vittoriosa, che ha infatti deciso di appellare la decisione al Consiglio di Stato, insistendo sulla responsabilità dell'amministrazione seme dell'obbligazione risarcitoria, al contempo ribadendo che, con il provvedimento adottato, l'amministrazione, oltre ad aver agito negligentemente, sarebbe contravvenuta ai fondamentali doveri di diligenza, correttezza e buona fede che dovevano ispirare la fase delle trattative con le partecipanti alla gara.
Palazzo Spada, tuttavia, ha deciso di non censurare la decisione impugnata, di converso apprezzando la giustezza dell'apparato motivazionale utilizzato dal Tar Lombardia nello statuire sulla vicenda.
Il verdetto, peraltro, è preceduto da un'attenta ricognizione dei limiti della responsabilità dell'amministrazione in caso di attività illegittima e della tutela da garantire al soggetto rimasto leso.
Sul punto i giudici romani hanno osservato come nessun addebito possa muoversi all’operato dell’amministrazione sotto il profilo della negligenza, dell’imperizia o dell’imprudenza laddove la stessa abbia revocato la gara di appalto con successivo incarico ad una propria società controllata qualora la scelta dell’ente sia stata determinata dalla convinzione della ricorrenza delle condizioni per poter procedere all’affidamento diretto del servizio secondo principi indicati dalla stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato, come era stato nel caso di specie.
Nel dettaglio, siccome all’epoca in cui l’amministrazione ha operato la scelta di revocare la gara non vi era, in materia di “presupposti per l'affidamento diretto”, un sicuro e consolidato indirizzo giurisprudenziale ed interpretativo, la mera illegittimità del provvedimento non poteva dirsi, in sé medesima, così grave da raggiungere il livello della colpa così come dispone l'articolo 2043 del codice civile.
Riducendo il ragionamento ai minimi termini, l'errore, in dette circostanze, appariva “scusabile”, di talché l'operato dell'amministrazione, anche se ritenuto illegittimo e dannoso, non era risarcibile.
Da notare come i giudici amministrativi abbiano escluso nel caso in esame anche la responsabilità precontrattuale, ricorrente, per giurisprudenza consolidata, allorquando l'amministrazione venga meno all’obbligo di rendere al partecipante alla gara in modo completo e tempestivo tutte le informazioni necessarie e sufficienti a salvaguardare la sua posizione, circa i fatti o sulla rinnovata valutazione dell’interesse pubblico alla gara, così suscitando un ragionevole ed incolpevole affidamento (tradito ingiustificatamente) sulla conclusione naturale del procedimento.
Affidamento che, nel caso di specie, non poteva rinvenirsi, posto che l'amministrazione aveva revocato la gara ancor prima che scadessero i termini per presentare le offerte (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOTutelati i diritti dell'impiegato scavalcato. È senza segreti il cv del collega.
L'impiegato pubblico che si ritiene «scavalcato» ha diritto di vedere il curriculum del collega che gli è passato avanti, aggiudicandosi l'agognata promozione.

È quanto emerge dalla sentenza 05.09.2012 n. 2097, pubblicata dalla Sez. II del TAR Sicilia-Catania.
Ottiene soddisfazione il dipendente di un Comune isolano. Arrivato secondo nel concorso interno, si frega le mani al pensiero che il primo classificato è ormai andato in pensione: sulla selezione effettuata dall'ente, peraltro, pende una causa promossa proprio dall'ingegnere in carriera. Al sospirato posto di funzionario, però, l'amministrazione destina un'altra persona.
Allora l'escluso vuole sapere che titoli ha il rivale, rivendicando il possesso della laurea e sospettando che evidentemente il neo-funzionario non abbia le carte in regola per quella scrivania. Risultato: l'amministrazione deve mostrare il fascicolo personale del dipendente, senza poter indicare alcun profilo di discrezionalità da parte del sindaco nel conferimento della posizione organizzativa; nell'ente locale l'indirizzo politico deve risultare separato da quello gestionale.
Non passa, in particolare, la tesi dell'amministrazione locale secondo cui l'affidamento della posizione organizzativa di responsabile dell'ufficio tecnico del Comune sarebbe «intuitu personae», vale a dire frutto di un rapporto fiduciario fra il dirigente e il sindaco, ciò che implicherebbe la mancanza di un «diretto collegamento fra il richiedente e una specifica situazione giuridicamente rilevante».
Né rileva il riferimento agli atti di gestione del personale, trattandosi nella specie di documenti concernenti attività di pubblico interesse svolte da un'amministrazione pubblica. Non giova, in questo senso, invocare una presunta discrezionalità del sindaco: le ipotesi di attribuzione di incarichi «fiduciari» costituiscono un'eccezione al sistema e sono quindi limitate agli incarichi di diretta collaborazione con il livello di indirizzo politico.
E la spiegazione va ricercata nella fondamentale distinzione funzionale dei compiti tra organi politici e burocratici e cioè tra l'azione di governo, che è legata ai voleri di una certa maggioranza politica, e l'azione dell'amministrazione, che invece non può essere di parte ma va condotta nell'interesse di tutti. Insomma: il Comune dovrà tirar fuori le carte. Spese di giudizio compensate (articolo ItaliaOggi dell'11.10.2012).

AGGIORNAMENTO ALL'11.10.2012

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IN EVIDENZA

I RAGIONIERI COMUNALI SOTTO "PROTEZIONE LEGISLATIVA" ... E I TECNICI COMUNALI?? PERCHE' LORO NO??


ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO
DECRETO SALVA ENTI/ Ragionieri in una botte di ferro. Per revocarli il sindaco dovrà avere l'ok di Viminale e Rgs. Tecnici garantiti rispetto al potere politico. Dl oggi in Gazzetta Ufficiale.
Ragionieri degli enti locali in una botte di ferro. Non saranno più soggetti alle bizze del sindaco di turno e potranno così sorvegliare la corretta tenuta dei conti senza temere ritorsioni. Passa anche dal rafforzamento delle prerogative dei responsabili finanziari di comuni e province il giro di vite sui controlli contabili introdotto dal decreto legge n. 173/2012 (c.d. salva-enti) approvato giovedì scorso dal consiglio dei ministri e che sarà pubblicato oggi in Gazzetta Ufficiale (n. 236 del 09.10.2012).
Con una norma nuova di zecca che modifica l'art. 109 del Tuel, il decreto prevede che l'incarico di responsabile finanziario possa essere revocato esclusivamente in caso di gravi irregolarità riscontrate nell'esercizio delle funzioni assegnate. Per mandar via il proprio ragioniere, il sindaco dovrà emanare un'apposita ordinanza ma solo dopo aver acquisito il parere obbligatorio del ministero dell'interno e della Ragioneria generale dello stato. Senza l'ok del Viminale e di Via XX Settembre i responsabili finanziari saranno inamovibili e questo consentirà loro una maggiore serenità nell'esercizio delle proprie funzioni rafforzandone l'autonomia dal potere politico.
I ragionieri avranno così più voce in capitolo sugli atti della giunta e del consiglio. D'ora in avanti la regola generale sarà che su ogni proposta di deliberazione che non sia mero atto di indirizzo debba essere richiesto il parere di regolarità tecnica del responsabile del servizio. Ma, qualora la delibera comporti «riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente», dovrà essere acquisito anche il parere di regolarità contabile del responsabile del servizio di ragioneria.
Se l'ente non ha in organico i responsabili dei servizi, gli adempimenti potranno essere svolti dal segretario comunale. Se intendono discostarsi dal parere, consiglio e giunta dovranno spiegare il perché dandone «adeguata motivazione nel testo della deliberazione» (articolo ItaliaOggi del 09.10.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODECRETO SALVA ENTI/ Salta l'approdo in Gazzetta. Monti pensa a blindare il dl.
Era stato tutto prenotato, con tanto di numero da assegnare al decreto legge (si veda ItaliaOggi di ieri). Ma il decreto con cui il governo taglia i costi di regioni ed enti locali, dopo le abbuffate dei vari batman, oggi non è in Gazzetta Ufficiale.
Secondo quanto risulta a ItaliaOggi, la presidenza del consiglio dei ministri ha preferito frenare sulla pubblicazione per ragioni di merito ma anche di opportunità e potrebbe addirittura decidere di rinunciare al decreto legge per far confluire le norme direttamente nel disegno di legge di stabilità. Una mossa un po' inconsueta dal punto di vista della tecnica legislativa, ma non impossibile, e su cui Palazzo Chigi dovrà sciogliere la riserva nel giro di 24 ore. L'intervento per decretazione d'urgenza sulle regioni avrebbe più di un profilo di sospetta incostituzionalità che, è il ragionamento, costringerebbe l'esecutivo, una volta approdato il testo in parlamento, a mettersi sulle barricate per difendersi dagli attacchi dei parlamentari, già allertati dalle caste della politica locale affinché anestetizzino i tagli.
E comunque il testo andrebbe poi modificato, con tutto quello che ne consegue in termini di ricorso al voto di fiducia. Tanto vale allora inserire i tagli all'interno del ddl di Stabilità, che ha tempi più distesi per l'approvazione e che già ci sa dovrà essere nei punti più ostici modificato, ma nei limiti di un'invarianza di obiettivi finanziari invalicabili. Tra l'altro, il governo potrebbe così tenere aperto un solo provvedimento di fuoco su cui concentrarsi in questo scorcio di legislatura. E su cui porre la fiducia (articolo ItaliaOggi del 10.10.2012).
 

     Ma il decreto-legge, invece, è stato puntualmente pubblicato (con un giorno di ritardo sulle previsioni) sulla Gazzetta Ufficiale e lo si può scaricare siccome di seguito linkato.


CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI
: G.U. 10.10.2012 n. 237 "Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012" (D.L. 10.10.2012 n. 174).
 

     Ebbene, siamo contenti per i ragionieri-capo che adesso hanno maggiori tutele ed alcuni non dovranno più "manovrare" il bilancio di previsione secondo le direttive del sindaco/assessore di turno ... anche se il funzionario pubblico dovrebbe operare correttamente, sempre e comunque, e mandare a quel paese tutti coloro che avanzano richieste e/o proposte non conformi alla legge !!
     Tuttavia, checché se ne dica, ci volete dire dove gravitano gli interessi economici?? All'Ufficio anagrafe?? All'Ufficio segreteria?? All'Ufficio ragioneria?? All'Ufficio di polizia locale?? In nessuno di questi uffici ma, ovviamente, all'Ufficio tecnico.
     E allora, chi più del Responsabile ufficio tecnico ha bisogno di tutele, perché persegua con la necessaria tranquillità psico-fisica il bene comune e nel rispetto della legge, e per evitare che l'apicale cambi (minimo) ogni 5 anni a seconda di chi vince le elezioni?? O, peggio ancora, non venga "esautorato" in corsa perché non si adegua al volere del politico di turno??
     Sia chiaro, la mela marcia sta in ogni migliore famiglia e la categoria dei tecnici comunali non è indenne siccome letto mesi or sono dalle pagine dei maggiori quotidiani nazionali: non solo corrotti, concussi, collusi, conniventi, omertosi, ecc. sono indegni di collocarsi nella pubblica amministrazione ma anche coloro che si "prostituiscono" per accaparrarsi una miserabile "retribuzione di posizione" accontentando, sempre e comunque ed in spregio alla norma di legge, chi lo ha nominato responsabile dell'Ufficio tecnico.
     Noi l'abbiamo sempre gridato da anni a questa parte ed in tempi non sospetti: Maledetto il giorno (e coloro che lo ha consentito) in cui è stato abrogato il CO.RE.CO. (Comitato Regionale di Controllo)!! (con la riforma del titolo V della Costituzione nel lontano 2001. Per chi fosse interessato all'argomento legga l'articolo: A. Tallarida, La Riforma del Titolo V della Costituzione e la legalità dell’azione amministrativa degli enti locali - link a www.giustizia-amministrativa.it). E se il CO.RE.CO. non resuscita più (come poteva sembrare, invece, qualche mese fa dalle intenzioni del Governo) vogliamo, allora, limitare al minimo i danni nella pubblica amministrazione mettendo sotto "protezione legislativa" anche il responsabile dell'Ufficio tecnico alla stregua del ragioniere-capo??
     Scusate, ma non vorrete farci credere che blindando (solo) la posizione del ragioniere-capo non vedremo più in televisione altri casi come quello del recente Lazio-Gate!! Ed ancora, non si vorrà disconoscere che le "migliori" e maggiori ruberie ruotano attorno all'Ufficio tecnico!! (appalti di servizi/forniture, lavori pubblici, piano regolatore generale e sue varianti ad hoc, ecc.).
     E allora, cari Governanti tecnici, per capire la bontà di questo ragionamento non abbisogna essere laureati ma è sufficiente avere la 3^ elementare ... e poiché dalle nostre parti si dice "Volere è potere" e siccome il potere ce l'avete in mano Voi (al momento) Vi si chiede un piccolo sforzo in più per ridare fiducia ai cittadini e credibilità alle Istituzioni consentendo ai dipendenti pubblici onesti (che sono la maggioranza) di poter lavorare al meglio, nell'interesse generale del Paese, ma con (ovviamente e necessariamente) maggiori tutele ...

11.10.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

SINDACATI & ARAN

PUBBLICO IMPIEGO: Regioni ed Autonomie Locali-Raccolta sistematica.
La raccolta sistematica si propone di facilitare la lettura dei diversi contratti collettivi nazionali di lavoro vigenti, stipulati negli anni, offrendone una visione unitaria e sistematica.
Essa è stata redatta attraverso la collazione delle clausole contrattuali vigenti, raccolte all’interno di uno schema unitario, per favorire una più agevole consultazione.
A tal fine, sono state aggregate tutte le clausole afferenti a ciascun istituto contrattuale, anche quelle definite in tempi diversi nell’ambito di differenti CCNL, conservando tuttavia la numerazione vigente ed il riferimento al contratto di origine.
Si tratta, pertanto, di un testo meramente compilativo che, non avendo carattere negoziale, non può avere alcun effetto né abrogativo, né sostitutivo delle clausole vigenti, le quali prevalgono in caso di discordanza.
La riproduzione dei testi forniti nel formato elettronico è consentita purché ne venga menzionata la fonte ed il carattere gratuito. La raccolta è il frutto di una selezione redazionale. L’Aran non è responsabile di eventuali errori o imprecisioni, nonché di danni conseguenti ad azioni o determinazioni assunte in base alla consultazione della stessa.
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Nota: navigando all’interno del documento PDF, per tornare alla vista precedente utilizzare i tasti ALT + tasto direzionale sx (ARAN, settembre 2012).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 41 dell'11.10.2012, "Procedure gestionali riguardanti i criteri e le modalità per la presentazione delle domande per il riconoscimento della figura di tecnico competente in acustica ambientale e relativa modulistica" (decreto D.U.O. 04.10.2012 n. 8711).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Oggetto: Immobili di interesse culturale - Profili catastali (Agenzia del Territorio, circolare 09.10.2012 n. 5).
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Nota del Territorio. L'interesse culturale non influisce sul catasto. Ma i proprietari possono chiedere l'annotazione.
Il riconoscimento dell'interesse culturale di un immobile non influisce sul classamento del bene, in quanto la categoria catastale deve essere attribuita in base alle sue caratteristiche, alla destinazione e al contesto territoriale in cui è inserito. Ma i proprietari di immobili storici e artistici possono comunque chiedere che il vincolo risulti anche in catasto, oltre che nei registri immobiliari, presentando un'apposita domanda di annotazione.

Lo ha chiarito l'Agenzia del Territorio con la circolare 09.10.2012 n. 5, diffusa ieri.
Dunque, il regime vincolistico adottato per determinati beni non ha alcuna influenza sull'accertamento catastale e non condiziona l'attribuzione della categoria. Secondo l'Agenzia, la categoria va attribuita «sulla base della destinazione e delle caratteristiche, costruttive e tipologiche, proprie dell'unità immobiliare, a prescindere dall'intervenuto riconoscimento o meno dell'interesse culturale». Così come l'inquadramento in una determinata categoria catastale non può avere alcuna incidenza sul successivo riconoscimento di interesse culturale e sulle relative agevolazioni fiscali.
L'Agenzia ricorda che anche l'inquadramento nella categoria A/9 (castelli e palazzi di particolare pregio) non è connessa al riconoscimento dell'interesse storico o artistico del bene. Stesso discorso vale per le costruzioni tipiche inquadrate nella categoria A/11: dammusi, sassi e trulli. Questa classificazione prescinde dall'eventuale attribuzione del vincolo di interesse culturale.
Tuttavia, precisa la circolare, può risultare dagli atti catastali l'esistenza del vincolo, per rendere note le caratteristiche particolari di questi beni e per gli effetti che ha sul piano fiscale. Per esempio l'articolo 13 del dl salva Italia (20/2011), che disciplina la nuova imposta locale (Imu), riconosce un trattamento agevolato per gli immobili di interesse storico-artistico, con riduzione della base imponibile al 50%.
Pertanto, non solo nei registri immobiliari, ma anche in catasto può essere disposta, su richiesta degli interessati, un'annotazione che ponga in risalto il carattere culturale degli immobili. Nella domanda di annotazione devono essere indicati gli estremi di trascrizione nei registri immobiliari «del relativo provvedimento di dichiarazione o di verifica». Negli atti catastali verrà poi iscritta la seguente annotazione: «Immobile riconosciuto di interesse culturale, ai sensi del dlgs n. 42 del 2004 - Nota di trascrizione del..., reg. gen. n...».
L'Agenzia, però, pone in rilievo che l'annotazione può essere apposta solo se nel provvedimento che ha riconosciuto l'interesse culturale dell'immobile siano correttamente indicati i dati di identificazione catastale. In caso contrario gli interessati devono fare istanza per la riattivazione del procedimento, al fine di ottenere dal ministero dei beni culturali l'attestazione che sussistono i presupposti per l'assoggettamento alla tutela. Questa procedura va esperita anche nei casi in cui l'identificativo venga modificato, in seguito alla presentazione della dichiarazione di variazione per fusione, divisione o ampliamento.
L'annotazione di interesse culturale non può mai essere disposta per gli immobili censiti in catasto senza attribuzione di rendita. Mentre, si legge nella circolare, può essere traslata d'ufficio «a seguito delle variazioni eseguite direttamente dall'Agenzia del territorio, sulla base delle disposizioni vigenti, ovvero per l'aggiornamento degli atti del catasto che non implicano la variazione degli identificativi catastali» (articolo ItaliaOggi del 10.10.2012).

APPALTI: Oggetto: Legge 07.08.2012 n. 134, di conversione con modificazioni del cd. “Decreto Sviluppo” (D.L. 83/2012): Responsabilità solidale nei contratti di appalto. Primi chiarimenti ministeriali (ANCE Bergamo, circolare 09.10.2012 n. 245).

APPALTI: OGGETTO: Articolo 13-ter del DL n. 83 del 2012 - Disposizioni in materia di responsabilità solidale dell’appaltatore - Chiarimenti (Agenzia delle Entrate, circolare 08.10.2012 n. 40/E).
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Circolare delle Entrate sugli obblighi introdotti dal decreto sviluppo (83/2012). Responsabilità solidale alleggerita. Documenti fiscali solo dal 12 agosto. E autocertificazione
Responsabilità solidale negli appalti meno pesante per le imprese. L'obbligo di acquisire la documentazione fiscale sulle ritenute Iva e Irpef da parte dei committenti e degli appaltatori scatta soltanto per i contratti e i subcontratti stipulati dopo il 12.08.2012. La documentazione va chiesta per i pagamenti effettuati dopo l'11.10.2012.
E in luogo della «asseverazione» del commercialista, del Caf o del consulente del lavoro è ammessa anche l'autodichiarazione.

È quanto precisa l'Agenzia delle entrate (direzione centrale normativa) con la circolare 08.10.2012 n. 40/E avente a oggetto alcuni profili interpretativi dell'articolo 13-ter del dl n. 83 del 2012 (convertito in legge 134/2012) in tema di disciplina della responsabilità solidale dell'appaltatore, che ha integralmente sostituito il comma 28 dell'articolo 35 del dl n. 223 del 2006, dettando nuove regole per la responsabilità fiscale nell'ambito dei contratti d'appalto e subappalto di opere e servizi.
La novella introduce il principio della responsabilità dell'appaltatore e del committente per il versamento all'Erario delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente e dell'imposta sul valore aggiunto dovuta dal subappaltatore e dall'appaltatore in relazione alle prestazioni effettuate nell'ambito del contratto. La responsabilità non viene in essere laddove l'appaltatore/committente acquisisca la documentazione attestante che i versamenti fiscali, scaduti alla data del pagamento del corrispettivo, sono stati correttamente eseguiti dal subappaltatore/appaltatore. In assenza della documentazione il committente (verso l'appaltatore) e l'appaltatore (verso il subappaltatore) devono sospendere il pagamento dei corrispettivi. La norma dell'agosto scorso ammette che la documentazione possa consistere anche in una «asseverazione rilasciata da Caf o da professionisti abilitati». In caso di violazione della norma scattano sia le sospensioni dei pagamenti sia sanzioni che possono variare da un minimo di 5.000 a un massimo di 200.000 euro.
Si tratta di una norma molto criticata da diverse associazioni di categoria anche in relazione al fatto che i committenti hanno proceduto alla sospensione dei pagamenti a favore di appaltatori e subappaltatori in attesa di indicazioni in grado di chiarire alcuni profili.
L'Agenzia delle entrate provvede a dettare qualche utile chiarimento in primo luogo sull'entrata in vigore della norma, precisando che «le disposizioni contenute nell'articolo 13-ter del dl n. 83 del 2012 debbano trovare applicazione solo per i contratti di appalto/subappalto stipulati a decorrere dalla data di entrata in vigore della norma, ossia dal 12.08.2012». Non solo: dal momento che si tratta di adempimenti tributari, l'Agenzia precisa anche che, in base allo Statuto del contribuente (legge 212/2000), nonché in relazione al fatto che la norma incide sull'equilibrio del rapporto contrattuale, l'obbligo di esibire la documentazione scatta «a partire dal sessantesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della norma, con la conseguenza che la certificazione deve essere richiesta solamente in relazione ai pagamenti effettuati a partire dall'11.10.2012, in relazione ai contratti stipulati a partire dal 12.08.2012».
Infine, semplificando notevolmente gli adempimenti, la Circolare afferma che in alternativa alle asseverazioni prestate dai Caf e dai professionisti abilitati è ammessa anche «una dichiarazione sostitutiva -resa ai sensi del dpr n. 445 del 2000  con cui l'appaltatore/subappaltatore attesta l'avvenuto adempimento degli obblighi richiesti dalla disposizione». L'autodichiarazione dovrà però indicare il periodo nel quale l'Iva relativa alle fatture concernenti le prestazioni eseguite è stata liquidata, o specificare il periodo nel quale le ritenute sui redditi di lavoro dipendente sono state versate e riportare gli estremi del modello F24 con il quale i versamenti dell'Iva e delle ritenute non scomputate, totalmente o parzialmente, sono stati effettuati
(articolo ItaliaOggi del 09.10.2012).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: documento unico di regolarità contributiva (DURC) nei lavori privati dell'edilizia (Consorzio dei Comuni Trentini, circolare 02.10.2012 n. 40/2012).

APPALTI: Oggetto: DURC - Intervento sostitutivo della stazione appaltante ex art. 4 D.P.R. n. 207/2010. Pagamento tramite F24 (INAIL, nota 28.09.2012 n. 5627 di prot. - link a www.inail.it).

APPALTI: Oggetto: DURC negli appalti (Consorzio dei Comuni Trentini, circolare 09.05.2012 n. 21/2012).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPalazzo Vidoni ammette alcune eccezioni. Ferie monetizzate. Divieto flessibile.
Il divieto di liquidare le ferie al personale dipendente cessato dal servizio, imposto dall'articolo 5, comma 8 del decreto legge sulla spending review, non opera nei casi in cui l'impossibilità a usufruire le ferie sia dovuta a cause indipendenti dalla volontà dello stesso lavoratore quali, per esempio, il decesso, la malattia, l'infortunio e l'inidoneità fisica permanente e assoluta.
Lo ha messo nero su bianco il dipartimento della funzione pubblica, nel testo del parere 08.10.2012 n. 40033 di prot., con cui fa ulteriore chiarezza sulla portata applicativa delle disposizioni contenute all'articolo 5, comma 8, del dl n. 95/2012.
La norma, come si ricorderà, stabilisce, con un divieto di portata generale, l'obbligatorietà della fruizione delle ferie, riposi e permessi che spettano al personale, prevedendo che tali giornate «non danno luogo in nessun caso, alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi». La ratio di tale disposizione è chiara. Inserita in un contesto di razionalizzazione della spesa pubblica, intende prevenire abusi dovuti all'eccessivo ricorso della monetizzazione delle ferie non fruite a causa di assenza di programmazione e di controlli da parte dei vertici dirigenziali delle p.a..
Per palazzo Vidoni le cause di cessazione dal servizio imputabili a malattia, dispense per inidoneità o a maggior ragione, per decesso del dipendente, configurano cause esaustive del rapporto di lavoro che sono dovute a fatti «indipendenti dalla volontà del lavoratore e del datore di lavoro». Includere questi eventi anche nel «generale divieto» delle disposizioni sopra richiamate, a detta della funzione pubblica, comporterebbe una preclusione ingiustificata e irragionevole per il lavoratore stesso.
Senza dimenticare, prosegue il parere, che il diritto comunitario (articolo 7 direttiva 2003/88) nel sancire l'irrinunciabilità delle ferie annuali, prevede anche una indennità sostitutiva nella sola ipotesi di fine del rapporto di lavoro. E che anche la giurisprudenza comunitaria ha ribadito che disposizioni nazionali non possono prevedere che, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, allo stesso lavoratore che sia stato in congedo per malattia, non sia dovuta alcuna indennità monetaria sostitutiva delle ferie annuali non godute (articolo ItaliaOggi del 09.10.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Spending review. La circolare. Ferie non godute, limiti al divieto di non pagare.
LE ECCEZIONI/ Deroga allo stop alle erogazioni in caso di licenziamento disciplinare, malattia, aspettative e gravidanza.

Appare e poi scompare la circolare "legislativa" della Funzione pubblica in tema di monetizzazione delle ferie non godute. La norma è chiara: la spending review taglia inesorabilmente la monetizzazione delle ferie (articolo 5, comma 8, Dl 95/2012).
Quello che non è chiaro è che fine abbia fatto il parere 08.10.2012 n. 40033 di prot. prima pubblicata sul sito istituzionale dello stesso Dipartimento e poi misteriosamente scomparso.
Nel merito, il tema è di quelli scottanti. Da una parte la spending review stabilisce che le ferie non godute «non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi» mentre, a livello interpretativo, si cerca di mitigare quel perentorio «in nessun caso» contenuto nel testo normativo. Sarà che l'interprete istituzionale si è accorto che questa volta il legislatore si è allargato troppo? Con ogni probabilità è così.
Già ai primi di agosto la Funzione pubblica aveva ammesso che, in alcuni limitati casi, si potessero liquidare le ferie non godute (nota prot. 32397 del 06/08/2012). Ma è con l'ultimo parere che viene chiarita la ratio. L'obiettivo è colpire gli abusi correlati all'assenza di programmazione da parte del datore di lavoro e all'utilizzo improprio delle possibilità di riporto previste nei contratti collettivi. In sintesi le ferie non potranno essere liquidate quando alla cessazione del rapporto di lavoro concorre attivamente il lavoratore; al contrario sono ammessi tutti quei casi indipendenti dalla volontà del lavoratore e dalla capacità organizzativa del datore di lavoro.
Riprendendo il testo della norma si ha, quindi, una presunzione di colpa (abuso) nei casi di cessazione derivanti da mobilità (anche se in questo caso non c'è una cessazione e quindi non era possibile liquidare le ferie neppure prima), dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età. Il Dipartimento da una parte ha aggiunto il licenziamento disciplinare ed il mancato superamento del periodo di prova e dall'altra ha aperto la strada ai casi di decesso, di dispensa per inidoneità permanente e assoluta, di malattia, di aspettativa e di gravidanza. Negare una deroga in questi casi comporterebbe un preclusione ingiustificata ed irragionevole per il lavoratore, che si è trovato nell'impossibilità di godere di un proprio diritto.
A supporto di queste tesi vengono richiamati prima i principi comunitari (articolo 7 della Dir. 2003/88) e poi la giurisprudenza, sia europea che italiana. Giurisprudenza che, a più riprese, ha riconosciuto il diritto alla liquidazione delle ferie non godute per malattia e inabilità al servizio. Anche in questi casi, prima di procedere al pagamento in questione, dovrà essere verificato il rigoroso rispetto delle norme che consentono il riporto nel tempo delle ferie, ovvero le documentate cause di servizio.
A livello interpretativo si cerca di mettere una toppa ad un testo normativo che si pone in contrasto sia ai principi generali (europei e costituzionali) che alla costante giurisprudenza (articolo Il Sole 24 Ore del 09.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPERSONALE/ Dirigenti, due pesi e due misure. Gli incarichi a termine non subiscono il limite di spesa del 50%. La Funzione pubblica risponde al comune di Trani. Ma la tesi non convince.
I contratti di lavoro dirigenziali a tempo determinato, ai sensi dell'articolo 110, comma 1, del dlgs 267/2000 non subiscono il limite di spesa del 50% dell'importo complessivo dei contratti di lavoro flessibile del 2009.

Dopo la sezione autonomie della Corte dei conti (deliberazione 12.06.2012, n. 12), è il ministero della Funzione pubblica a giungere a questa conclusione, tuttavia impossibile da condividere, col parere 11.07.2012 n. 28195 di prot., rivolto al comune di Trani.
Secondo il parere di palazzo Vidoni, in primo luogo occorre precisare che il limite di spesa previsto dall'articolo 9, comma 28, della legge 122/2010 costituisce un limite finanziario complessivo a tutte le possibili forme di lavoro flessibile enunciate dalla norma, fugando il dubbio che si debba riferire il tetto alle singole spese per singola tipologia.
Lo scopo della norma secondo il parere è chiaro: impedire alle amministrazioni soggette a tetti alle assunzioni a tempo indeterminato di eludere tale regime limitativo, ricorrendo ad assunzioni a termine.
Gli incarichi previsti dal combinato disposto dell'articolo 110 del Tuel e dell'articolo 19, commi 6 e 6-quater del dlgs 165/2001, sono ovviamente rapporti di lavoro a tempo determinato, ammette palazzo Vidoni.
Sorprendentemente, tuttavia, il parere sostiene che gli incarichi dirigenziali a contratto sfuggono al limite di spesa dell'articolo 9, comma 28, in quanto l'articolo 19, comma 6-quater, del dlgs 165/2001 ha introdotto un sistema di limiti numerici alle assunzioni di dirigenti a contratto.
Ciò, secondo palazzo Vidoni, determinerebbe di riflesso anche un tetto di spesa massimo anche per tali incarichi. La deroga all'articolo 9, comma 28, tuttavia, può operare solo a condizione che si rispetti il limite numerico ai contratti dirigenziali a termine previsto.
Tale conclusione non è, tuttavia, condivisibile. In primo luogo per la contraddizione irrisolvibile con la premessa: se, come correttamente sostenuto dal parere, l'articolo 9, comma 28, riguarda tutte le forme flessibili di lavoro, non vi è alcuna ragione per considerare i contratti a termine dirigenziali, che sul piano strettamente lavoristico sono contratti di lavoro come gli altri, esclusi dal tetto della spesa del 50%.
In secondo luogo, è da rilevare che quello previsto dall'articolo 19, comma 6-quater, del dlgs 165/2001 non sia un limite di spesa diverso e derogatorio rispetto a quello del 50% sulle spese del 2009. La dimostrazione di ciò è data dall'interpretazione letterale del detto articolo 19, comma 6-quater, che fissa le percentuali entro le quali gli enti locali possono assumere dirigenti a tempo determinato definendole come «limite massimo». Il legislatore, dunque, non attribuisce agli enti locali un tetto fisso e prestabilito di dirigenti a contratto. Poiché, invece, è un «limite massimo» è evidente che esso può essere raggiunto solo nella misura in cui le assunzioni di dirigenti a contratto non comportino il superamento del tetto di spesa fissato dall'articolo 9, comma 28, del dl 78/2010, ovviamente comprensivo anche delle assunzioni di dirigente a contratto. Le quali, possono ovviamente, anzi debbono, laddove il limite dell'articolo 9, comma 28, non lo consenta, avvenire anche al di sotto del «limite massimo».
Non si deve, poi, dimenticare che la sentenza della Corte costituzionale 173/2012 a proposito dell'articolo 9, comma 28, della legge 122/2012 abbia rilevato che essa sia stata legittimamente emanata dallo stato nell'esercizio della sua competenza concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica. Il suo obiettivo è il contenimento della spesa per il personale flessibile. La Consulta afferma espressamente che «l'art. 9, comma 28, censurato, d'altronde, lascia alle singole amministrazioni la scelta circa le misure da adottare con riferimento a ognuna delle categorie di rapporti di lavoro da esso previste. Ciascun ente pubblico può determinare se e quanto ridurre la spesa relativa a ogni singola tipologia contrattuale, ferma restando la necessità di osservare il limite della riduzione del 50% della spesa complessiva rispetto a quella sostenuta nel 2009».
Dunque, proprio alla luce della pronuncia della Corte costituzionale, non può considerarsi corretto affermare che particolari categorie di contratti a tempo determinato possano essere sottratti al superiore vincolo del coordinamento della finanza pubblica, se non sia il legislatore stesso a disporlo (articolo ItaliaOggi del 09.10.2012 - tratto da www.corteconti.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Danno all'immagine del fisco cedere i dati dell'anagrafe.
Sconta la condanna al danno all'immagine, il dipendente dell'Agenzia delle entrate che, in forza della sua funzione, cede con profitto a terzi dati sensibili contenuti all'interno dell'anagrafe tributaria. Oltre alla violazione delle prescrizioni in materia di trattamento dati personali e di condotte sancite dai regolamenti interni all'Agenzia, è deprecabile una simile condotta perpetrata da chi, per legge e dovere etico, è tenuto al rispetto della riservatezza presso un pubblico ignaro dell'uso distorto dei propri dati personali.

È quanto mette nero su bianco la sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Campania, nel testo della sentenza 06.09.2012 n. 1320, con la quale ha condannato al risarcimento del danno all'immagine, un dipendente dell'Agenzia delle entrate che, dietro compenso, divulgava notizie riservate, attinte dalle dichiarazioni fiscali di persone fisiche e giuridiche, con particolare riguardo a diritti di proprietà mobiliari e immobiliari dei contribuenti. Informazioni che, successivamente, venivano utilizzate a fini investigativi e di credito.
Secondo il collegio della magistratura contabile, la condotta del dipendente infedele aveva reso il dato personale, ovvero quanto contenuto nelle dichiarazioni dei redditi dei contribuenti, «un vero e proprio mercimonio». Un disegno che la stessa Corte non ha lesinato a chiamarlo «criminoso», che si è snodato in palese contrasto con le prescrizioni in materia di privacy e con le direttive interne dell'Agenzia. Si ricordi, infatti, che lo stesso codice deontologico dei funzionari fiscali prevede il cosiddetto dovere di segretezza, secondo cui gli stessi, devono mantenere il segreto sugli elementi conosciuti nell'ambito dell'attività svolta e, comunque, devono tenere riservati tali elementi.
Con la violazione reiterata di queste prescrizioni, la Corte ha messo in luce la particolare «odiosità» della condotta del convenuto, perpetrata da chi per legge e per dovere è tenuto al rispetto della riservatezza e raccoglie informazioni presso un pubblico ignaro dell'uso distorto dei dati personali e magari fiducioso proprio del corretto utilizzo di essi. Da ciò, il discredito dell'Agenzia delle Entrate) che ne consegue. Discredito che ha origine oltre che dalla conclusione della vicenda in sede penale, anche dalla circostanza che la vicenda ha raggiunto tutti coloro che sono stati lesi nella loro privacy e che, di conseguenza, hanno avuto una diversa immagine della correttezza istituzionale dell'amministrazione finanziaria (articolo ItaliaOggi del 10.10.2012 - tratto da www.corteconti.it).

QUESITI & PARERI

PUBBLICO IMPIEGOANCI RISPONDE/  Posizione organizzativa a un soggetto esterno.
Il Comune ha conferito la responsabilità di posizione organizzativa dell'area finanziaria a un soggetto esterno (ex articolo 110, comma 1, del Dlgs 267/2000). Poiché sono in atto trattative con un Comune confinante per gestire l'area finanziaria a mezzo convenzione (ex articolo 30 del Dlgs 267/2000) con un unico soggetto responsabile, l'incarico di posizione organizzativa di servizio convenzionato può essere affidato al soggetto esterno assunto ex articolo 110?
La risposta è positiva. L'assunzione di personale apicale a contratto (ex articolo 110, comma 1, del Dlgs 267/2000) implica la copertura di uno specifico posto in dotazione organica; si ritiene, dunque, che, anche a seguito di convenzionamento del servizio tra enti, sia possibile mantenerne la responsabilità in capo al soggetto assunto a contratto, in possesso dei requisiti di legge (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.10.2012).

INCARICHI PROFESSIONALI: Range di onorario adeguato per la difesa in giudizio in un ricorso al TAR.
Domanda
Si chiede di conoscere quale sia il range di onorario adeguato, come da tariffario vigente, per l'affidamento di un incarico legale per la difesa in giudizio in un ricorso al TAR presentato da una ditta per il risarcimento danni subiti per sospensione, in via di autotutela, del procedimento amministrativo di rilascio del permesso a costruire.
Risposta
L'art. 9, D.L. 24.01.2012, n. 1 stabilisce che: "1. Sono abrogate le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico.
2. Ferma restando l'abrogazione di cui al comma 1, nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del Ministro vigilante, da adottare nel termine di centoventi giorni successivi alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Entro lo stesso termine, con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sono anche stabiliti i parametri per oneri e contribuzioni alle casse professionali e agli archivi precedentemente basati sulle tariffe. Il decreto deve salvaguardare l'equilibrio finanziario, anche di lungo periodo, delle casse previdenziali professionali.
3. Le tariffe vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto continuano ad applicarsi, limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali, fino alla data di entrata in vigore dei decreti ministeriali di cui al comma 2 e, comunque, non oltre il centoventesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto.
4. Il compenso per le prestazioni professionali è pattuito, nelle forme previste dall'ordinamento, al momento del conferimento dell'incarico professionale. Il professionista deve rendere noto al cliente il grado di complessità dell'incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento fino alla conclusione dell'incarico e deve altresì indicare i dati della polizza assicurativa per i danni provocati nell'esercizio dell'attività professionale. In ogni caso la misura del compenso è previamente resa nota al cliente con un preventivo di massima, deve essere adeguata all'importanza dell'opera e va pattuita indicando per le singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi. Al tirocinante è riconosciuto un rimborso spese forfettariamente concordato dopo i primi sei mesi di tirocinio.
5. Sono abrogate le disposizioni vigenti che, per la determinazione del compenso del professionista, rinviano alle tariffe di cui al comma 1
".
Con il D.L. 24.01.2012, n. 1 sono state pertanto abrogate le tariffe professionali.
Con D.M. 20.07.2012, n. 140 sono state introdotte nuove tabelle che prevedono, in particolare, sei diversi scaglioni di valore e cinque fasi processuali, le cui attività vengono forfettariamente considerate: fase di studio, introduttiva, istruttoria, decisoria ed esecutiva. La Tabella A del D.M. 20.07.2012, n. 140 stabilisce dei parametri di liquidazione degli onorari professionali ad opera del Giudice che possono essere tenuti presenti dall'Amministrazione anche in sede di valutazione della congruità dell'onorario.
In ogni caso la Giunta Comunale -al pari di qualunque altro cliente- può revocare la propria delibera relativa alla nomina dell'avvocato se ritiene non congruo il preventivo presentato (08.10.2012 - tratto da www.ipsoa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: L’iscrizione alla categoria 2 dell’Albo è valida fino alla scadenza nonostante la soppressione della categoria stessa? (08.10.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Dove e come deve avvenire il deposito delle terre e rocce da scavo in attesa dell’utilizzo? (08.10.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Quale sarà la disciplina semplificata dell’utilizzo delle terre e rocce da scavo per i cantieri di piccoli dimensioni? (08.10.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Autorizzazione Unica Ambientale: Cos’è? Quando si presenta? (08.10.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Si può delegare l’iscrizione al SISTRI? (01.10.2012 - link a www.ambientelegale.it).

TRIBUTI: Come verrà calcolata la Tares? (01.10.2012 - link a www.ambientelegale.it).

TRIBUTI: Chi sarà obbligato al pagamento della Tares? (01.10.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Quale documentazione dovrà accompagnare il trasporto delle terre e rocce da scavo gestite come sottoprodotti? (01.10.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: I trasporti di rifiuti pericolosi e non pericolosi di propria produzione, effettuati direttamente dagli imprenditori agricoli, necessitano di iscrizione all’Albo Nazionale Gestori Ambientali? (01.10.2012 - link a www.ambientelegale.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Astensione per maternità e retribuzione di posizione.
Il Ministero dell'Interno, con parere 04.07.2012, si esprime in ordine alla spettanza della retribuzione di posizione per una dipendente in congedo per maternità. Richiamate le disposizioni dell'art. 17, comma 4, del CCNL 14.09.2000 che si applica a tutte le fattispecie di cui agli artt. 16 e 17 del d.lgs. 151/2001, il Ministero ricorda che:
- alla lavoratrice deve essere corrisposto il trattamento economico che percevipa nel corso del mese o del periodo quadrisettimanale precedente all'inizio del congedo di maternità, compresa la retribuzione di posizione;
- ai sensi dell'art. 9, comma 3, del CCNL 31.03.1999 gli incarichi di posizione organizzativa possono essere revocati prima della scadenza, con atto scritto e motivato, in relazione ad intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati negativi;
- il mero spostamento di servizi da un settore all'altro dell'ente non può giustificare l'applicazione del predetto art. 9, comma 3, CCNL 31.03.1999 che comporta, peraltro, il disconoscimento dei diritti della dipendente in regime di astensione obbligatoria;
- per garantire il regolare svolgimento delle funzioni dell'ente e delle attività della posizione organizzativa il cui titolare sia assente per maternità, la soluzione praticabile sembrerebbe essere quella di valutare il conferimento ad interim del relativo incarico ad altro titolare di posizione organizzativa per la durata del congedo (tratto da www.publika.it).

NEWS

ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICILEGGE DI STABILITÀ/ Lavori pubblici? Se ci sono soldi. E gli enti locali dovranno anche tenere conto del Patto. Le principali misure del ddl approvato ieri dal consiglio dei ministri.
Lavori pubblici solo se ci sono soldi in cassa. Le amministrazioni pubbliche potranno avviare le procedure per l'esecuzione di lavori pubblici solo in presenza delle risorse finanziarie, anche in termini di cassa, necessarie al fine di rispettare i termini di pagamento previsti dalla vigente normativa, anche attuativa delle direttive dell'Unione europea.
Gli enti territoriali, inoltre, dovranno verificare la compatibilità dei pagamenti con il rispetto dei vincoli derivanti dal patto di stabilità interno.

È una delle previsioni contenute nella bozza del disegno di legge di stabilità approvato ieri dal consiglio dei ministri (le principali novità sono riassunte nella tabella in pagina).
La norma prosegue stabilendo che l'efficacia dei contratti per l'affidamento di lavori sottoscritti dalle amministrazioni è sospesa, senza che le parti del contratto abbiano diritto ad alcun indennizzo, nei casi in cui non sia possibile rispettare le condizioni previste.
La sospensione cessa però nel caso in cui, anche a seguito di eventuale rinegoziazione del contratto, l'organo competente, su proposta del responsabile del procedimento, attesta il rispetto delle condizioni, cioè la presenza delle necessarie risorse finanziarie. Le disposizioni non si applicano ad alcune tipologie di lavori, quali ad esempio quelli relativi agli istituti scolastici e ospedalieri.
Da segnalare, a proposito di lavori pubblici, lo stop di fatto al Ponte sullo Stretto di Messina. Per la «mancata realizzazione» del Ponte sullo Stretto di Messina sono stanziati 300 milioni di euro. Al Fondo per lo sviluppo e la coesione, si legge nella norma, è assegnata una dotazione finanziaria aggiuntiva di 300 milioni di euro per l'anno 2013 per far fronte agli oneri derivanti dalla mancata realizzazione di interventi per i quali sussistano titoli giuridici perfezionati alla data di entrata in vigore della legge (articolo ItaliaOggi del 10.10.2012).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: LEGGE DI STABILITÀ/ Nel civile contributo unificato raddoppiato in caso di soccombenza. Salasso nel processo al Tar e Cds. Un appello al Consiglio di stato sugli appalti costerà 8 mila.
Salasso sul processo amministrativo e sulle impugnazioni civili. Il disegno di legge sulla stabilità mette le mani nelle tasche di chi si rivolge ai Tar e al Consiglio di stato e anche di chi propone un'impugnazione civile. La giustizia, soprattutto amministrativa, costerà molto caro: si pensi, ad esempio, che un appello al consiglio di stato in materia di appalti, se il disegno di legge andrà in porto, costerà 8 mila euro, da versarsi subito. Contemporaneamente fissa un tetto alle liquidazione giudiziale delle spese di soccombenza, che penalizza gli avvocati e i clienti vittoriosi in giudizio.
Per le impugnazioni civili (appelli e ricorsi in cassazione) il ddl prevede un contributo unificato raddoppiato in caso di soccombenza o di impugnazione dichiarata improcedibile o inammissibile. In particolare viene proposta la modificazione dell'articolo 13 del T.u. spese di giustizia, disponendo che quando l'impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente, è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l'ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale. Il versamento alla fine assume un carattere sanzionatorio teso a punire chi ha fatto perdere tempo alle corti.
La norma non prevede alcuna valutazione discrezionale da parte del giudice, al fine di tenere conto della eventuale buona fede dell'interessato. La scure è automatica in caso di sconfitta piena, ma anche in caso di pronuncia sul rito (inammissibilità o improcedibilità). Si tratta di un altro tassello che disincentiva le parti a farsi le proprie ragioni nei gradi di giudizio successivi al primo. Solo di recente è stato inserito il filtro di ammissibilità all'appello e ora con la prospettiva del raddoppio del balzello, l'impugnazione diventa una pericolosissima corsa a ostacoli.
Processo amministrativo. Un aumento a tappeto, per primo e secondo grado, è proposto per il processo amministrativo. Qui gli aumenti si spalmano su tutti i tipi di procedimento. Aumenta il contributo unificato per i ricorsi in materia di accesso ai documenti amministrativi (articolo 116 del codice del processo amministrativo, dlgs 104/2010) e di ricorsi avverso il silenzio dell'amministrazione (articolo 117 del codice del processo amministrativo, dlgs 104/2010): passa da 300 euro a 350 euro. Stesso aumento (a 350 euro) è previsto per i giudizi aventi ad oggetto il diritto di cittadinanza, di residenza, di soggiorno e di ingresso nel territorio dello stato e per i ricorsi di esecuzione nella sentenza o di ottemperanza del giudicato.
Incremento sensibile si deve registrare per tutti i giudizi in cui si applica il rito abbreviato con termini ridotti a metà ( materie previste dal libro IV, titolo V, del codice del processo amministrativo e altre disposizioni speciali): il contributo unificato passa da 1.500 euro a 1.800 euro. Ci sono poi due materie speciali in cui si applica il rito abbreviato, per cui la manovra del disegno di legge di stabilità prospetta aumenti molto più pesanti. Si tratta delle controversie in materia di provvedimenti concernenti le procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture e di provvedimenti adottati dalle Autorità amministrative indipendenti, con esclusione di quelli relativi al rapporto di servizio con i propri dipendenti Ora il contributo previsto è di 4 mila euro.
Nel disegno di legge sulla stabilità si individua una scaletta in base al valore della causa: il contributo dovuto è di euro 3 mila quando il valore della controversia è pari o inferiore a euro 200 mila; per quelle di importo compreso tra 200 mila e 1.000.000 euro il contributo dovuto è di euro 4.000 mentre per quelle di valore superiore a 1.000.000 euro è pari ad euro 5 mila. Aumenta il contributo unificato anche per tutti i processi amministrativi in materie diverse da quelle sopra elencate: si passa, infatti, da 600 a 650 euro.
Ad esempio costerà 650 euro impugnare un permesso di costruire. Gli importi del contributo unificato per i ricorsi amministrativi sono raddoppiati per l'impugnazione: se si va in consiglio di stato per ottenere la riforma di una sentenza del Tar l'esborso si moltiplica per due. Il ddl, comunque, con una ragionevole disposizione transitoria, attribuisce i nuovi balzelli ai ricorsi notificati successivamente all'entrata in vigore della presente legge.
Spese di lite. Altra novità in tema di giustizia riguarda la determinazione delle spese di soccombenza da caricare a chi perde la causa. Il ddl stabilisce un tetto massimo: i compensi liquidati dal giudice e posti carico del soccombente non possono superare il valore effettivo della causa. I compensi, però, almeno non comprendono le spese. Si generalizza una regola che riguarda ora le cause di modesto valore: si tratta di un taglio ai compensi degli avvocati che potrà distogliere gli interessati dal proporre le cause (visto che pur vincendo devono pagare l'eventuale compenso aggiuntivo al proprio legale) (articolo ItaliaOggi del 10.10.2012 - tratto da www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: DECRETO SALVA-ENTI/ Enti, on-line i redditi dei politici. Pubblicazione sul sito web nei comuni sopra i 10 mila abitanti. Monti rispolvera una norma già prevista da una legge del 1982.
On-line i redditi e i patrimoni dei politici locali. Negli ultimi ritocchi al decreto salva-enti, Mario Monti rispolvera un'altra norma mai attuata del nostro ordinamento. Si tratta dell'anagrafe degli eletti, prevista da una legge vecchia ormai di 30 anni (n. 441/1982) e poco o nulla applicata nei comuni a differenza di quanto avviene da qualche anno a questa parte nella pubblica amministrazione centrale anche per merito dell'ex ministro Renato Brunetta. Ma chi di anagrafe degli eletti non ha proprio voluto saperne sono stati i sindaci che, a parte qualche eccezione (Milano, Roma, Bari), hanno sempre glissato sul punto o adempiuto all'obbligo informativo in modo molto incompleto.
A rinfrescare la memoria ai primi cittadini ci ha pensato il decreto salva-enti approvato giovedì scorso dall'esecutivo che introduce una norma ad hoc (art. 41-bis) nel Tuel. Gli enti locali con popolazione superiore a 10 mila abitanti dovranno «disciplinare, nell'ambito della propria autonomia regolamentare, le modalità di pubblicità e trasparenza dello stato patrimoniale dei titolari di cariche pubbliche elettive e di governo di loro competenza».
I dossier su sindaci, presidenti di provincia, consiglieri e assessori dovranno essere pubblicati annualmente, all'inizio e alla fine del mandato, e dovranno contenere: i dati di reddito e di patrimonio con particolare riferimento ai redditi annualmente dichiarati; i beni immobili e mobili registrati posseduti; le partecipazioni in società quotate e non quotate; la consistenza degli investimenti in titoli obbligazionari, titoli di stato, o in altre utilità finanziarie detenute anche tramite fondi di investimento, Sicav o intestazioni fiduciarie.
Per rendere più dissuasivo l'obbligo di trasparenza la novella legislativa si appella agli enti locali affinché introducano con regolamento un sistema di sanzioni verso chi continuerà a fare orecchie da mercante: le multe per la mancata o parziale ottemperanza andranno da un minimo di 2 mila euro a un massimo di 20 mila.
Fondo anti-dissesto. Con gli ultimi ritocchi al testo del decreto il governo ha alzato il velo sulla dotazione finanziaria del fondo rotativo anti-dissesto che dovrà servire a evitare il default di molti comuni prossimi al tracollo (Napoli, Palermo, Reggio Calabria). Il fondo prevede una dotazione di 90 milioni di euro per il 2012, 100 milioni per il 2013 e 200 milioni all'anno a partire dal 2014 e fino al 2020.
Solo per quest'anno la dotazione del fondo potrà contare su ulteriori 500 milioni di euro destinati al pagamento delle spese di personale, alla produzione di servizi in economia e all'acquisizione di servizi e forniture, già impegnate e comunque non derivanti da riconoscimento di debiti fuori bilancio (articolo ItaliaOggi del 10.10.2012).

PUBBLICO IMPIEGOPubblico impiego. Via l'indennità di vacanza contrattuale. Statali, anche nel 2014 stipendi e rinnovi bloccati.
IL NUOVO TAGLIO/ Retribuzione dimezzata nei giorni di permesso per l'assistenza a disabili che non siano i coniugi o i figli dei dipendenti.
Il congelamento dei salari dei dipendenti pubblici proseguirà anche nel 2014, ma si perderà anche l'indennità di vacanza contrattuale e si dovrà dire ufficialmente addio ai recuperi delle tornate contrattuali perse.

La bozza del disegno di legge di stabilità entrata ieri in consiglio dei ministri prosegue sui binari già preannunciati dalla prima manovra estiva del 2011, ma aggiunge un ingrediente che rischia di essere indigesto: il dimezzamento della retribuzione per i giorni utilizzati dai dipendenti pubblici per l'assistenza a familiari con disabilità. La retribuzione, secondo la bozza del provvedimento, rimarrà piena solo se il permesso ex lege 104/1992 è dovuto a patologie del dipendente o all'assistenza a figli e coniuge: se l'assistito è un altro familiare (i permessi possono essere ottenuti per assistere parenti o affini entro il secondo grado, o entro il terzo grado se i genitori dell'assistito sono over 65 o portatori di handicap), lo stipendio della giornata sarà dimezzato, e si manterrà intera solo la contribuzione figurativa.
Sul resto del pacchetto, che ieri ha registrato la secca contrarietà da parte dei sindacati, il disegno di legge non si scosta più di tanto dalle previsioni di fatto annunciate fin dalla prima manovra estiva del 2011, quando il Governo Berlusconi mise in agenda come «eventuali» una serie di proroghe alle misure che bloccano le assunzioni e congelano gli stipendi nel pubblico impiego.
Anche nel 2014, di conseguenza, si continueranno ad applicare i tetti agli stipendi individuali, che non potranno superare i livelli raggiunti nel 2010, i limiti ai fondi per i trattamenti accessori, anch'essi vincolati alle somme del 2010, e il contributo di solidarietà che taglia del 5% la quota di retribuzione superiore a 90mila euro e del 10% quella che supera i 150mila euro. A queste regole, le nuove regole scritte nel nome dell'austerità aggiungono lo stop all'indennità di vacanza contrattuale, che tornerà ad affacciarsi solo a partire dal 2015 e sarà regolata dai parametri scritti nel protocollo sul costo del lavoro del 23.07.1993.
Proseguirà nel 2014, naturalmente, anche il blocco delle retribuzioni per insegnanti e tecnici della scuola e per il personale non contrattualizzato, cioè docenti universitari, esercito e magistrati: per questi ultimi, l'indennità speciale di categoria sarà ridotta del 32% sia nel 2013 sia nel 2014, dopo il taglio del 25% subito per il 2012 (senza però effetti previdenziali). Per chi lavora in ambasciate e istituti di cultura all'estero, viene tagliata del 10% l'indennità speciale (anche per gli ambasciatori). In ambito militare, dovranno dire addio ai loro incentivi gli ufficiali piloti in servizio permanente effettivo e i controllori del traffico aereo. Per forze armate e polizia, inoltre, scompare l'indennità di trasferimento per chi viene spostato in sedi limitrofe per la soppressione del reparto in cui lavora oggi.
L'ennesimo colpo di freno alla spesa per retribuzioni non trascura le consulenze. Gli attuali incarichi non potranno essere rinnovati, e un'eventuale proroga potrà essere disposta solo per completare un progetto non ancora arrivato al traguardo per colpe non imputabili al collaboratore. Anche in questo caso, comunque, il compenso rimarrà quello stabilito all'inizio. Le consulenze in materia informatica sono invece abolite, tranne che in «casi eccezionali adeguatamente motivati» e legati alla «soluzione di problemi specifici».
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LE RIDUZIONI
Blocco dei contratti
Niente rinnovi contrattuali e aumenti di stipendio individuale nemmeno nel 2014; scompare l'indennità di vacanza contrattuale, che potrà tornare solo in riferimento al 2015-2017. Proseguono anche nel 2014 i tagli del 5% e del 10% alle quote di stipendio superiori a 90mila e 150mila euro annui
Permessi
Taglio del 50% ai permessi per assistenza ai disabili quando non dovuti a patologie del dipendente, del coniuge o dei figli. Rimane la contribuzione figurativa (articolo Il Sole 24 Ore del 10.10.2012 - tratto da www.corteconti.it).

INCARICHI PROFESSIONALIProfessioni. Alla Camera Governo battuto sulle modalità di determinazione dei compensi: passa la linea della Commissione.
Avvocati, preventivi solo su richiesta. Mazzamuto: «escluso il ritorno alle tariffe» - Buongiorno: «indipendenza salvata».

Preventivo solo su richiesta, possibilità per il Consiglio nazionale forense di esprimere pareri sulla congruità del compenso, niente socio di capitale e riserva di consulenza stragiudiziale.
La riforma dell'ordinamento forense fa un passo avanti alla Camera, con l'esame dei primi 16 articoli e regge senza perdere pezzi sui punti fondamentali e controversi. A cominciare dall'articolo 13 sul conferimento dell'incarico e le tariffe professionali. Sul tema più caldo della riforma l'avvocatura vince il braccio di ferro con il Governo, battuto con una votazione che ha bocciato l'emendamento presentato dall'Esecutivo per chiedere l'abolizione dell'intero articolo 13.
Un parere contrario che ha indotto il sottosegretario alla Giustizia Salvatore Mazzamuto a un compromesso per salvare il salvabile. La scelta, dopo il no all'emendamento del ministero è stata quella di rimettersi all'Aula, aderendo di fatto al lavoro fatto dalla Commissione che, se da una parte esclude il ritorno delle tariffe facendo salvo il principio della libera determinazione del compenso, dall'altra concede molto ai desiderata dei legali.
«Dopo la bocciatura del nostro emendamento -spiega il sottosegretario alla Giustizia Salvatore Mazzamuto- abbiamo scelto il male minore e deciso di rimetterci all'Aula per far passare almeno le modifiche fatte dalla Commissione. Diversamente c'era il rischio che l'articolo 13 restasse com'era e che venissero ripristinate la tariffe. Il Governo aveva chiesto la soppressione dell'articolo 13 perché si tratta di una norma che non si armonizza né con il Dl professioni né con il decreto parametri. Oggi -conclude il sottosegretario- è passato "lo statuto speciale" degli avvocati. Alla categoria sono riconosciute possibilità non previste per altre professioni».
Dopo il voto della Camera, che molto difficilmente verrà ribaltato dal Senato, gli avvocati faranno il preventivo solo su richiesta e potranno usare i parametri come criterio orientativo nei rapporti con il cliente. Inoltre al Consiglio nazionale forense sarà consentito esprimere pareri sulla congruità dei compensi mentre il consiglio dell'ordine potrà tentare una conciliazione in caso di controversia .
Via libera anche alla riserva di consulenza legale stragiudiziale, purché vengano rispettate due condizioni: che si tratti di materie connesse all'attività giurisdizionale e che venga esercitata in maniera sistematica, organizzata e continuativa.
Pollice verso dell'aula anche per il socio di puro capitale. «Il Governo aveva preso atto che la governance non poteva essere in mano al socio capitalista, ma sono state respinte anche le altre soluzioni -sottolinea Salvatore Mazzamuto- per questo ci siamo rimessi all'Aula. Ora i tempi della delega sono stati ridotti da un anno a sei mesi per restare dentro la legislatura».
Tempi a cui pensa anche il presidente della commissione giustizia della Camera Giulia Bongiorno, che respinge al mittente le accuse di sostenere una legge che tutela interessi di parte. «La riforma degli avvocati ha un solo obiettivo: quello di assicurare l'indipendenza della categoria. L'iter è ancora lungo -spiega Giulia Bongiorno- ma lavoriamo per portare a casa lo statuto entro la legislatura».
Soddisfatto ma scaramantico il presidente dell'Oua Maurizio de Tilla. «Ora c'è il sole speriamo che non piova domani». Ma sul domani non c'è certezza. Almeno per quanto riguarda la data per completare l'esame del testo e passare al voto degli altri emendamenti, fermi per ora all'articolo 16 (articolo Il Sole 24 Ore del 10.10.2012).

ENTI LOCALIPubblica amministrazione. La spesa per i mobili ridotta dell'80%. Luci spente per le strade e stop all'acquisto di auto.
IMMOBILI/ Nuovo giro di vite: dal 2014 gli acquisti saranno possibili solo se indispensabili e al «giusto prezzo» deciso dal Demanio.

La crisi della finanza pubblica arriva a spegnere l'illuminazione pubblica, almeno a giudicare dalla bozza della legge di stabilità entrata ieri in Consiglio dei ministri. Per risparmiare, Regioni e Comuni (ma anche lo Stato per le aree di sua competenza) dovranno decidere in quali strade spegnere le luci di notte, in quali prevedere un'illuminazione «affievolita» e dove invece mantenere il livello di luce normale.
L'operazione «cieli bui» si inserisce in un nuovo capitolo di spending review concentrato ancora una volta sul tema dei «consumi intermedi», già protagonista del decreto di luglio. Oltre ai lampioni, finiscono nel mirino gli acquisti e i leasing delle auto (vietati da ieri), le acquisizioni di immobili, le spese per arredamento (taglio dell'80%).
L'ennesima stretta si applica a tutte le pubbliche amministrazioni centrali e periferiche e, più in generale, a tutti gli enti inseriti nell'elenco Istat per il conto economico consolidato della Pa. Una platea in cui, ancora una volta, rischiano di essere coinvolte anche le casse previdenziali professionali, proprio in queste settimane impegnate in un braccio di ferro con il Governo sull'applicabilità delle misure contenute nel decreto estivo sulla revisione di spesa. In fatto di autovetture di servizio, la norma è drastica: fino al 31.12.2014, le pubbliche amministrazioni non potranno più acquistare automobili o sottoscrivere contratti di leasing.
Le procedure di acquisto avviate fino a ieri, ma non ancora arrivate al traguardo, sono revocate per legge, e negli enti territoriali il rispetto di questa regola è condizione indispensabile per accedere alle risorse del fondo anti-dissesto appena introdotto dal decreto enti locali. Esclusi dallo stop alle auto solo forze dell'ordine, vigili del fuoco e servizi sociali e sanitari (ma in questo caso solo se l'acquisto riguarda attività necessarie a garantire i livelli essenziali di assistenza).
Anche sugli immobili, il blocco è quasi totale ma, almeno secondo le bozze disponibili fino alla tarda serata di ieri, partirà dal 01.01.2014. Nel nuovo regime, le pubbliche amministrazioni potranno investire nel mattone solo se il responsabile del procedimento mette la firma in fondo a un atto in cui si attesta che l'acquisto è indispensabile e non può essere differito, e l'agenzia del Demanio certifica (dietro rimborso spese) che la il prezzo è giusto: nel caso delle amministrazioni centrali, queste saranno condizioni indispensabili per ottenere il via libera per decreto da parte del ministero dell'Economia (introdotto dalla prima manovra estiva del 2011).
La regola nasce per fermare il gigantismo immobiliare che ha caratterizzato alcune amministrazioni centrali e non, ma anche per evitare il ripetersi di vicende controverse come il «caso di Via della Stamperia», un immobile venduto per 44 milioni alla cassa psicologi da una società immobiliare che l'aveva acquistato poche ore prima per 26 milioni.
Sempre nell'ottica di razionalizzazione del patrimonio, un fondo da 500 milioni nel 2013 e un miliardo dal 2014 servirà all'Economia per pagare gli affitti di immobili statali conferiti a fondi immobiliari. La cura non dimentica poi l'arredamento, che nel 2013 e nel 2014 non potrà assorbire più del 20% delle risorse dedicate allo stesso scopo nel 2011. I risparmi così ottenuti andranno conferiti al bilancio dello Stato: salvi da quest'ultimo obbligo enti vigilati dalle Regioni e dalle Province autonome (ma non le casse previdenziali).
Chiude il capitolo il rafforzamento dei parametri Consip, che per gli acquisti di beni e servizi da parte dello Stato potranno essere derogati solo per contratto (articolo Il Sole 24 Ore del 10.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTII chiarimenti delle Entrate. Al debutto la disciplina sulla responsabilità comune per appaltatore e subappaltatore. Al via gli appalti «solidali». Le nuove regole applicate ai pagamenti effettuati da giovedì prossimo
LA NOVITÀ/ Tra la documentazione da fornire alla controparte per ottenere lo sblocco dei pagamenti ammessa anche l'autocertificazione.

Arrivano le prime risposte dell'agenzia delle Entrate sulle disposizioni che prevedono la responsabilità solidale dell'appaltatore con il subappaltatore in caso di omesso versamento dell'Iva e delle ritenute fiscali da parte di quest'ultimo, oltre a una pesante sanzione per il committente (si veda Il Sole 24 Ore del 24 settembre scorso).
Con la circolare 08.10.2012 n. 40/E le Entrate affrontano i temi della decorrenza dei nuovi adempimenti e delle modalità con cui essi possono essere concretizzati.
L'articolo 13-ter del Dl 83/2012 ha riscritto il comma 28 dell'articolo 35 del Dl 223/2006, prevedendo, in caso di appalti di opere e servizi la responsabilità solidale dell'appaltatore con il subappaltatore, con riferimento al versamento delle ritenute sui redditi di lavoro dipendente e dell'Iva dovuta dal subappaltatore nell'ambito del rapporto di subappalto. Questa responsabilità è limitata all'ammontare del corrispettivo dovuto e, può essere evitata ottenendo, anteriormente al pagamento del corrispettivo, la documentazione attestante che i versamenti scaduti sono stati correttamente eseguiti.
Inoltre, il Dl 83 ha previsto una sanzione amministrativa da 5mila a 200mila euro in capo al committente, nel caso in cui paghi l'appaltatore che non sia in possesso di questa stessa documentazione (relativa sia all'appaltatore che a tutti i subappaltatori). Peraltro, la circolare accenna a una responsabilità solidale anche di questo soggetto che non emerge dalla norma.
L'Agenzia riconosce che la disposizione sta generando difficoltà applicative al punto che, essendo il pagamento delle prestazioni il momento rilevante ai fini della responsabilità, il risultato pratico è che "nessuno paga nessuno".
Il primo punto chiarito è che le nuove disposizioni trovano applicazione solo per i contratti di appalto o subappalto stipulati a decorrere dal 12 agosto scorso, relativamente ai soli pagamenti effettuati a partire dall'11 ottobre prossimo (60 giorni dall'entrata in vigore, in applicazione dello Statuto del contribuente). Incidendo sul pagamento del corrispettivo, la norma potrebbe infatti alterare il rapporto sinallagmatico relativo ai contratti già stipulati, che vengono quindi posti fuori dal campo applicativo di queste disposizioni. L'Agenzia sembra sottovalutare il fatto che il comma 28 dell'articolo 35 era già stato sostituito (con una disposizione in parte diversa dall'attuale) dall'articolo 2, comma 5-bis, del Dl 16/2012, per cui occorre in qualche modo "sterilizzare" anche il periodo di vigenza di quella formulazione normativa, altrimenti in vigore dal 29 aprile all'11 agosto.
Il secondo (e ultimo) aspetto affrontato dalla circolare riguarda la documentazione da fornire alla propria controparte per ottenere lo sblocco dei pagamenti, che "può" (non "deve") consistere nell'asseverazione rilasciata da uno dei soggetti abilitati previsti dalla norma (commercialisti, consulenti del lavoro, responsabili Caf). Per cui, suggerisce la circolare, «si può ammettere il ricorso ad ulteriori forme di documentazione idonee a tale fine», come, ad esempio, «una dichiarazione sostitutiva –resa ai sensi del Dpr 445/2000– con cui l'appaltatore/subappaltatore attesta l'avvenuto adempimento degli obblighi richiesti dalla disposizione». Il problema sarà comprendere in che misura appaltatori e committenti saranno disposti ad accettare queste autocertificazioni, poiché si ha notizia che molti contratti sono già stati modificati obbligando espressamente la controparte alla attestazione resa da terzi.
Circa il contenuto della dichiarazione sostitutiva (e, quindi, di riflesso, anche dell'attestazione da parte del professionista o responsabile Caf), essa deve contenere l'indicazione: del periodo nel quale l'Iva relativa alle fatture concernenti i lavori eseguiti è stata liquidata, specificando se dalla liquidazione è scaturito un versamento di imposta, ovvero se in relazione alle fatture oggetto del contratto è stato applicato il regime dell'Iva per cassa oppure la disciplina del reverse charge; del periodo nel quale le ritenute sui redditi di lavoro dipendente sono state versate, mediante scomputo totale o parziale; degli estremi del modello F24 con il quale i versamenti dell'Iva e delle ritenute non scomputate, totalmente o parzialmente, sono stati effettuati; infine, dell'affermazione che l'Iva e le ritenute versate includono quelle riferibili al contratto di appalto/subappalto per il quale la dichiarazione viene resa.
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Le questioni aperte
01 | L'AMBITO OGGETTIVO
Sulle nuove disposizioni che prevedono la responsabilità solidale dell'appaltatore con il subappaltatore in caso di omesso versamento dell'Iva e delle ritenute fiscali dovrà essere chiarito l'ambito oggettivo, che, oltre all'appalto di opere e servizi, coinvolge anche quelli "di forniture", accezione che necessita di un approfondimento
02 | IL PROFESSIONISTA
Se è chiaro che la mendace attestazione del subappaltatore (o dell'appaltatore) determina l'applicazione delle sanzioni previste dal Dpr 445/2000, occorre comprendere quando e cosa rischia il professionista che rilascia una attestazione che poi si rivela non corretta. Quali sono i controlli che vanno esercitati? Come può essere assicurato il rischio derivante da questa prestazione?
Va sottolineato che dalla circolare si comprende come l'attestazione vada rilasciata anche quando l'obbligo dei versamenti Iva non è mai sorto (reverse charge o Iva per cassa), con una specie di "attestazione in negativo", che potrebbe forse essere utilizzata anche quando si tratta del primo pagamento non preceduto da fattura.
03 | LA LISTA DEI DIPENDENTI
Infine, la circolare, analizzando il contenuto della dichiarazione da rilasciare, non fa menzione degli estremi dei dipendenti che hanno lavorato nell'appalto/subappalto considerato, ma è chiaro che una qualche forma di verifica sulla lista nominativa da parte di chi deve rendere l'attestazione è del tutto prevedibile (articolo Il Sole 24 Ore del 09.10.2012).

APPALTI SERVIZIStop nelle Regioni prive dei bacini. Servizi pubblici, affidamenti solo in ambiti ottimali.
ENTRO FINE ANNO/ Le gestioni in house devono essere motivate da una relazione pubblicata su Internet con le ragioni della scelta.

Rischio-blocco per gli affidamenti di servizi pubblici nelle Regioni che non hanno ancora costruito gli ambiti territoriali ottimali chiesti dalla manovra-bis del 2011.
Il decreto crescita approvato la scorsa settimana al Consiglio dei ministri torna a intervenire sui servizi pubblici locali, rilanciando le "liberalizzazioni" sopravvissute alla sentenza 199/2012 con cui la Corte costituzionale ha cancellato a luglio le norme-fotocopia (articolo 4 del Dl 138/2011) di quelle bocciate dai referendum nel giugno 2011.
Per raggiungere l'obiettivo, il decreto prevede che nel caso di servizi a rete a rilevanza economica gli affidamenti siano «effettuati unicamente» dagli enti di governo istituiti per gestire i bacini territoriali ottimali. Problema: enti locali e Regioni avrebbero dovuto disegnare i confini degli ambiti fin dal 30 giugno scorso, come indicato dall'articolo 3-bis dello stesso Dl 138, ma in molti territori l'individuazione dei bacini è lontana dal traguardo, e in qualche caso non è nemmeno partita. In questi casi, di conseguenza, diventerebbe impossibile effettuare gli affidamenti, sia con gara sia in house.
Il quadro è articolato: tra le Regioni più avanti va citata l'Emilia Romagna, che ha riunito i nove vecchi Ato provinciali in un'agenzia unica, o il Veneto che a fine settembre ha ridisegnato l'igiene urbana. In altre realtà è stata avviata la costruzione degli ambiti, ma gli enti di governance non sono ancora pronti (è il caso del Piemonte), mentre altre Regioni non hanno nemmeno avviato la macchina. La prospettiva, quindi, rischia di essere quella di un blocco generalizzato degli affidamenti, superabile solo se si tagliano drasticamente i tempi per la creazione degli ambiti e dei loro organi di governo.
Sul fronte vero e proprio delle liberalizzazioni, invece, il nuovo decreto non esce dai binari tracciati dalla Consulta nella sentenza che ha cancellato i limiti all'in house. La bussola per gli affidamenti diretti resta quella delle regole Ue, che aprono questa strada solo se la società affidataria è interamente pubblica, lavora in prevalenza con l'ente affidante ed è soggetta a un controllo analogo a quello che l'ente garantisce sui propri uffici.
Il decreto si limita ad aggiungere il tassello della trasparenza, prevedendo che tutti gli affidamenti di questo tipo siano accompagnati da una relazione da pubblicare sul sito Internet dell'ente affidante in cui si dia conto delle ragioni della scelta per l'in house e di eventuali compensazioni economiche. Per gli affidamenti già attivi la relazione va pubblicata entro fine anno.
Un'ultima novità riguarda gli affidamenti diretti a società già quotate in Borsa al 01.10.2003: se i contratti non hanno scadenza, decadranno automaticamente dal 31.12.2020 (articolo Il Sole 24 Ore del 09.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

VARIIL DECRETO CRESCITA/ Il decreto varato dal Consiglio dei ministri. Le comunicazioni giudiziarie viaggiano solo online. Start up, p.a. digitale, fallimenti Ecco la ricetta per la crescita.
Infrastrutture e servizi digitali, agevolazioni per le nuove imprese innovative, interventi di liberalizzazione in particolare in campo assicurativo sulla responsabilità civile auto, fallimenti telematici, procedura ad hoc per risolvere la situazione di sovraindebitamento del consumatore meritevole.
Queste le principali misure introdotte dal decreto crescita, approvato giovedì scorso dal Consiglio dei ministri su proposta del ministro dello sviluppo economico, delle infrastrutture e dei trasporti. Vediamo le norme nel dettaglio.
Agenda digitale. Con l'applicazione dell'agenda digitale, il governo punta ad aumentare i servizi on-line per i cittadini, che potranno avere un unico documento elettronico, valido anche come tessera sanitaria, attraverso il quale rapportarsi con la p.a. Via libera anche alle ricette mediche digitali, al fascicolo universitario elettronico, all'obbligo per la p.a. di comunicare attraverso la posta elettronica certificata e di pubblicare online i dati in formato aperto e riutilizzabile da tutti. Viene inoltre integrato il piano finanziario necessario all'azzeramento del divario digitale per quanto riguarda la banda larga (150 milioni stanziati per il centro nord, che vanno ad aggiungersi alle risorse già disponibili per il Mezzogiorno per banda larga e ultralarga, per un totale di 750 milioni di euro).
È introdotto poi l'obbligo per le amministrazioni pubbliche di accettare pagamenti in formato elettronico, a prescindere dall'importo della singola transazione. I soggetti che effettuano attività di vendita di prodotti e di prestazione di servizi, anche professionali, saranno inoltre tenuti, dal 01.01.2014, ad accettare pagamenti con carta di debito (per esempio, bancomat).
Giustizia digitale. Il decreto crescita introduce poi delle disposizioni per snellire modi e tempi delle comunicazioni e notificazioni giudiziarie. In particolare, nei procedimenti civili tutte le comunicazioni e notificazioni a cura delle cancellerie o delle segreterie degli uffici giudiziari verranno effettuate esclusivamente per via telematica. Modificata poi la legge fallimentare. Attraverso l'uso della pec e di tecnologie online, le comunicazioni dei momenti essenziali della procedura fallimentare avverranno per via telematica.
Tra questi: a) la presentazione del ricorso per la dichiarazione di fallimento; b) le comunicazioni ai creditori da parte del curatore; c) la presentazione della domanda di ammissione al passivo da parte dei creditori. Per quanto riguarda l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, la disposizione concernerà il flusso di comunicazioni tra curatore e creditori (nel fallimento) e tra commissario giudiziale o liquidatore e creditori (nel concordato preventivo) e tra commissario liquidatore e creditori (nella liquidazione coatta amministrativa).
Impresa innovativa. Per le start up vengono messi subito a disposizione circa 200 milioni di euro, tra i fondi stanziati dal decreto sotto forma di incentivi e fondi per investimento messi a disposizione dalla Fondo italiano investimenti della Cassa depositi e prestiti. Il decreto definisce anche l'incubatore certificato di imprese start up innovative, qualificandolo come una società di capitali di diritto italiano, o di una societas europaea, residente in Italia, che offre servizi per sostenere la nascita e lo sviluppo di start up innovative.
Viene infine istituita un'apposita sezione del registro delle imprese con l'iscrizione obbligatoria per le start up innovative e gli incubatori certificati così da garantirne la massima pubblicità e trasparenza (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.10.2012).

ENTI LOCALI - VARIDoppia mossa sui pagamenti tracciabili.
Con due mosse il Governo mette sotto scacco l'uso del contante e incentiva il ricorso a strumenti elettronici per monitorare il regolamento delle transazioni commerciali.
I provvedimenti emanati nelle ultime settimane, infatti, intervengono in modo sempre più deciso per imporre la tracciabilità dei pagamenti, da una parte, razionalizzando e inasprendo il sistema sanzionatorio connesso all'uso del contante, degli assegni e dei libretti al portatore e, dall'altra, imponendo specifici obblighi a pubbliche amministrazioni, a gestori di servizi pubblici e, più in generale, a imprese e professionisti per consentire ai cittadini l'utilizzo di carte di debito, di credito e di altri strumenti elettronici di pagamento. Tutto questo allo scopo chiaramente dichiarato di rafforzare i presidi di lotta all'evasione fiscale e di monitorare in modo tempestivo la formazione della spesa pubblica e privata.
Limiti e sanzioni
Il quadro normativo sull'utilizzo del contante, degli assegni bancari e postali e dei libretti al portatore si arricchisce di un ulteriore tassello che prevede per i cambiavalute una nuova soglia e rivisita il sistema sanzionatorio collegato all'articolo 49 del Dlgs 231/2007 (si veda la tabella pubblicata sotto). In particolare, con il Dlgs 169 del 19 settembre 2012 (pubblicato sulla Gazzeta n. 230 del 2 ottobre 2012), che integra le regole imposte nel 2010 al credito al consumo, relativamente ai cambiavalute, prevede che la negoziazione a pronti di mezzi di pagamento in valuta abbia, in luogo del limite ordinario di mille euro previsto per il trasferimento in contanti tra privati, la soglia di 2.500 €.
Al contrario, per quanto riguarda le sanzioni l'articolo 18 il decreto legislativo prevede una razionalizzazione del sistema e un innalzamento delle sanzioni pecuniarie per i libretti di deposito bancari o postali al portatore con importo saldo pari o superiore ad euro mille la nuova soglia va da un minimo del 30 a un massimo del 40% (tale sanzione per i libretti al portatore si applica anche per la mancata estinzione al 31 marzo 2012 o per la mancata riduzione del saldo o nel caso di trasferimento dei libretti qualora sia stata omessa la comunicazione da parte del cedente alla banca o alle Poste italiane entro il termine di 30 giorni).
Ulteriore intervento ha riguardo alla determinazione dell'importo della sanzione amministrativa pecuniaria minima applicabile che viene determinato in 3mila euro per tutte le violazioni relative a contante, assegni e libretti al portatore. Solo per i libretti al portatore se il saldo è inferiore a 3mila euro la sanzione è pari al saldo.
Pagamenti elettronici
Sul versante dei pagamenti il Governo propone un'estensione del ricorso a strumenti tracciabili rendendo obbligatori per le pubbliche amministrazioni, per gli enti erogatori di servizi pubblici, per imprese e professionisti l'adozione di procedure che consentano all'utenza di regolare le singole transazioni, almeno con la carta di debito. Sotto questo profilo la prima misura messa in campo dal Governo è prevista nel Dl 158/2012 ("Decreto Sanità") con cui si impone che il pagamento di prestazioni sanitarie di qualsiasi importo a enti o aziende del sevizio sanitario debba essere fatto con mezzi di pagamento tracciabili. A questo si aggiunga che per le stesse prestazioni sanitarie erogate da studi professionali in rete il titolare dello studio deve acquisire la necessaria strumentazione (a esempio collegamento Pos) entro il 30.04.2013.
Sempre in materia di pagamenti tracciabili, altre novità vengono ora dal Decreto sviluppo con cui il governo impone alle pubbliche amministrazioni, alle società interamente partecipate da enti pubblici o con prevalente capitale pubblico, nonché ai gestori di servizi pubblici l'obbligo nei confronti dell'utenza di accettare i pagamenti ad essi spettanti anche con l'uso delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione. In pratica, la nuova norma dispone che i predetti soggetti debbano consentire all'utenza di utilizzare per i pagamenti, oltre al bonifico bancario o postale, anche le carte di debito, di credito, le carte prepagate ovvero, anche se questa possibilità è condizionata all'emissione di un apposito decreto, telefoni cellulari o altri supporti elettronici mobili. Per quanto riguarda, infine, le imprese e i professionisti lo stesso decreto dispone che dal 01.01.2014 tutti i soggetti che effettuano la vendita di prodotti o l'erogazione di servizi anche professionali, sono tenuti a accettare pagamenti effettuati attraverso carte di debito (Bancomat) (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.10.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAAmbiente. Le novità previste dal Dm 161/2012
Via libera al riutilizzo delle terre da scavo derivanti dai cantieri. In vigore il regolamento che consente di impiegare i residui come «sottoprodotti».

Dopo la pausa del fine settimana, oggi la riapertura dei cantieri si svolge all'insegna di una grande novità: l'applicazione del Dm 10.08.2012, n. 161 (in vigore da sabato 6 ottobre). Si tratta del regolamento che detta la disciplina dell'utilizzo delle terre e rocce da scavo che –se gestite a particolari condizioni- sono considerate sottoprodotti da riutilizzare anziché semplici rifiuti da portare in discarica. Una disciplina attesa da molto tempo.
Da sabato scorso è abrogato l'articolo 186 del Codice ambientale, come previsto dall'articolo 49, legge 27/2012. Tuttavia, per i progetti con una procedura in corso ai sensi dell'articolo 186, entro il 4 aprile 2013, sarà possibile presentare il piano di utilizzo previsto dal nuovo regolamento, al fine di poter godere del particolare regime di favore ora introdotto (articolo 15). Altrimenti, senza il piano, i progetti saranno terminati secondo la procedura prevista dall'abrogato articolo 186. L'autorità competente è quella che autorizza la realizzazione dell'opera o, a seconda dei casi, quella che concede la Via o l'Aia.
Anche se nel titolo si riferisce alle terre e rocce da scavo, il regolamento ha una portata ben più vasta poiché (articolo 3) si applica alla gestione dei materiali da scavo cioè suolo o sottosuolo, con eventuali presenze di riporto, derivanti dalla realizzazione di un'opera. Ad esempio, il decreto cita: scavi in genere (sbancamento, fondazioni, eccetera); perforazione, trivellazione, palificazione, consolidamento; opere infrastrutturali in generale (galleria, diga, strada, eccetera); rimozione e livellamento di opere in terra; materiali litoidi in genere provenienti da escavazioni effettuate negli alvei, sia dei corpi idrici superficiali che del reticolo idrico scolante, in zone golenali dei corsi d'acqua, spiagge, fondali lacustri e marini; residui di lavorazione di materiali lapidei (marmi, graniti, pietre, eccetera) anche non connessi alla realizzazione di un'opera e non contenenti sostanze pericolose (quali ad esempio flocculanti con acrilamide o poliacrilamide).
I materiali da scavo possono contenere, sempreché la composizione media dell'intera massa non presenti concentrazioni di inquinanti superiori ai limiti massimi previsti dal presente regolamento, anche i seguenti materiali: calcestruzzo, bentonite, polivinilcloruro (Pvc), vetroresina, miscele cementizie e additivi per scavo meccanizzato. Il regolamento, invece, non si applica ai rifiuti provenienti dalla demolizione degli edifici o di altri manufatti preesistenti.
Il materiale da scavo può essere un sottoprodotto solo se rispetta una serie di condizioni, tra le quali:
- deve essere generato durante la realizzazione dell'opera;
- deve essere riutilizzato nel l'esecuzione della stessa o di un'altra opera.
In ogni caso, il materiale non deve subire alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale (i criteri sono indicati nell'allegato III) e deve soddisfare i requisiti di qualità ambientale presenti nell'allegato IV.
Il piano di utilizzo del materiale da scavo è fondamentale poiché è il documento che prova la sussistenza delle condizioni che il nuovo regolamento richiede affinché il materiale passi dallo status giuridico di rifiuto a quello di sottoprodotto. L'allegato VI reca lo schema dello specifico documento di trasporto mentre l'avvenuto utilizzo del materiale è attestato con la dichiarazione di cui l'allegato VII.
La nuova disciplina è sicuramente più favorevole alle imprese rispetto al pregresso sistema. La corte di Cassazione, però, con sentenza 31.08.2012, n. 33577 ha ritenuto che l'articolo 186 Codice ambientale ha natura di «norma temporanea»; quindi, ai sensi dell'articolo 2 del Codice penale, la relativa disciplina si applica «in ogni caso» ai fatti commessi nella vigenza della normativa in materia di terre e rocce da scavo. Per la Cassazione «non sarebbe, infatti, possibile attribuire la qualifica di sottoprodotto a determinati materiali sulla base di disposizioni amministrative» che erano inesistenti all'epoca della loro produzione.
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I riporti. Semplificazione da potenziare. Alle Pmi conviene trattare i materiali come «rifiuti».
Il regolamento 161/2012 era atteso da tempo in molti grandi cantieri italiani: dalla variante di valico all'Expo milanese, dall'alta velocità di Firenze alla Torino-Lione e così via. Tuttavia, se per i grandi cantieri il complesso sistema che ne deriva può essere attuato abbastanza facilmente, le piccole imprese potrebbero, invece, avere più di un problema (anche per il trasporto) e potrebbero ritenere più conveniente continuare a trattare i materiali come rifiuti.
Il Dm 161/2012 abbozza anche una disciplina dei materiali di riporto di origine antropica –derivanti da scavo, da demolizioni e così via– che si possono presentare frammisti a suolo e sottosuolo. È quello dei riporti, dall'avvento del Codice ambientale, uno dei principali problemi dei cantieri italiani. La recente interpretazione autentica di cui all'articolo 3, legge 28/2012 li qualifica come matrici ambientali al pari del suolo.
Secondo il nuovo regolamento i riporti, se frammisti al terreno naturale in quantità fino al 20% in massa (ma il decreto nulla dispone in ordine a come debbano essere effettuate le misurazioni, rendendosi sul punto quasi inutile) sono considerati alla stregua del terreno naturale e gestiti con il piano di utilizzo. Invece, la quota di riporti in esubero rispetto al 20%, in assenza di una precisa indicazione in tal senso nell'ambito del nuovo Dm, potrebbe essere considerata come rifiuto; semmai, gestibile come sottoprodotto nel rispetto dell'articolo 184-ter, comma 1, Codice ambientale (assai più gravoso e incerto rispetto al sistema del piano di utilizzo). Ferma restando la singolarità di tale disposizione, resta comunque il problema di capire se essa si applichi solo ai riporti che escono dal cantiere oppure anche a quelli che rimangono al suo interno (articolo 185, comma 1, lettere b) e c) del Codice ambientale), i quali, a rigore, in quanto assimilati al "suolo", ove contaminati, sono oggetto di bonifica.
Tale distinzione sarebbe quantomai opportuna per evitare un inutile quanto dannoso spostamento di tali materiali in giro per l'Italia (e non solo) nei casi in cui i materiali di riporto siano destinati, ove necessario previa bonifica, a rimanere in sito e in tal caso (in quanto assimilati al suolo) già esclusi dalla definizione di rifiuto. Di entrambe le problematiche, il Governo sembra essersi reso conto; e infatti, nel disegno di legge sulle semplificazioni che l'Esecutivo sta predisponendo sono previsti appositi articoli per risolvere oltre al problema dei cantieri di piccola dimensione (cioè quelli ove la produzione di materiale non superi i 6mila metri cubi) anche quello della corretta disciplina dei riporti.
Quelli che restano nel cantiere (articolo 185, comma 1, lettere b) e c) Codice ambientale con ciò superando anche il nuovo regolamento) sarebbero da considerare come "suolo" a prescindere dalle percentuali di materiale frammisto, mentre la soglia del 20% prevista dal nuovo Dm 161/2012 continuerebbe ad applicarsi solo ai materiali di riporto destinati a essere recapitati fuori dal cantiere (articolo 185, comma 4, Codice ambientale) (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.10.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOServizi finanziari, più poteri al «capo».
LE SANZIONI/ La mancata approvazione del bilancio nei termini fa scattare lo scioglimento automatico del Consiglio comunale.

L'incarico di responsabile del servizio finanziario può essere revocato esclusivamente per gravi irregolarità e previo parere obbligatorio dei ministeri dell'Interno e dell'Economia.
A riportare al centro dell'attenzione questa figura è il decreto legge salva-enti locali, che fa rientrare il suo rafforzamento nell'ampia girandola di modifiche, mosse soprattutto dalla preoccupazione di garantire la tenuta degli equilibri del bilancio di tipo contabile. Tutto ciò va ad aggiungersi alle novità inizialmente annunciate per il provvedimento relative alla correzione del taglio di risorse di 500 milioni per l'anno 2012 e alla nuova scadenza del riequilibrio.
I compiti del responsabile del servizio finanziario (articolo 153 del Dlgs 267/2000) sono estesi alla salvaguardia degli equilibri finanziari e dei vincoli di finanza pubblica, rispetto ai quali è ribadito che agisce in autonomia. Qualora la gestione sia tale da pregiudicare gli equilibri di bilancio, la segnalazione obbligatoria andrà indirizzata anche alla Corte dei conti.
Il parere di regolarità contabile del responsabile di ragioneria (articolo 49 del Tuel) diventa necessario su tutti gli atti che comportano «riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio del l'ente» (non più solo per atti con impegno di spesa o diminuzione di entrata). Sempre in tema di pareri, è introdotto l'obbligo di motivazione per la Giunta e il Consiglio nei casi in cui la delibera non si conformi agli stessi.
Nell'ambito della riscrittura dei controlli interni è inoltre assegnato alla direzione e al coordinamento del responsabile del servizio finanziario il nuovo «controllo sugli equilibri finanziari», che deve abbracciare anche la valutazione degli effetti generati, sul bilancio finanziario dell'ente locale, dagli andamenti economico-finanziari degli organismi gestionali esterni.
Le ulteriori novità all'ordinamento contabile introducono vincoli aggiuntivi per gli enti che si trovano in anticipazione di cassa o che utilizzano entrate vincolate: devono prevedere un fondo di riserva pari almeno allo 0,45% (invece che lo 0,30%) delle spese correnti e non possono utilizzare l'avanzo di amministrazione.
Tutti gli enti locali devono riservare la metà della quota minima del fondo di riserva alla copertura di eventuali spese non prevedibili. I lavori pubblici di somma urgenza passano all'approvazione del Consiglio con le modalità previste dall'articolo 194 del Tuel.
Finalmente è introdotta la sanzione dello scioglimento del Consiglio per la mancata approvazione del rendiconto nei termini di legge, correggendo il diverso trattamento rispetto al preventivo. Inoltre, la tabella dei parametri di deficitarietà va allegata al rendiconto e non al certificato.
Per il 2012, infine, arrivano la rivisitazione del taglio delle risorse e il posticipo al 30 novembre del termine per la salvaguardia degli equilibri, insieme all'assestamento (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALITrasparenza. Risultati e indicatori on-line. Nasce il «Pira»: i bilanci diventano più leggibili.
Le amministrazioni pubbliche devono rappresentare in modo più semplice e comprensibile i risultati della propria attività, anche quella contabile. Il Dpcm 18.09.2012 detta le linee guida per individuare criteri e metodologie per costruire un sistema d'indicatori e misurare i risultati attesi dai programmi di bilancio. Il Dpcm si applica alle Pa di cui all'articolo 1, comma 2, della legge 196/2009 (il cosiddetto elenco Istat) con l'esclusione di Regioni, enti locali e loro enti strumentali ed enti del servizio sanitario.
Il «Piano degli indicatori e risultati attesi di bilancio» (Pira) deve essere elaborato dalle Pa diverse dalle amministrazioni statali. L'articolo 5, comma 4, del Dpcm prevede che il Pira, per lo Stato, corrisponda alle note integrative ex articolo 21, comma 11, e 35, comma 2, della legge 196/2009.
Il Pira deve illustrare sia gli obiettivi perseguiti dai programmi di spesa in termini di livello, copertura e qualità dei servizi, sia le finalità ultime che gli stessi perseguono per la collettività ed il sistema economico di riferimento.
I programmi di spesa sono le unità di bilancio che identificano in modo sintetico gli aggregati omogenei di attività realizzate dalla Pa per il perseguimento delle finalità di ciascuna missione. La struttura per missioni e programmi (unità di voto della parte spesa del bilancio di tutte le Pa, a seguito dell'armonizzazione dei sistemi contabili) è propedeutica all'attuazione del Dpcm.
Il Pira deve indicare per ogni programma una descrizione sintetica degli obiettivi, il periodo di riferimento per la sua realizzazione e gli indicatori che consentano di misurare e monitorare la realizzazione di ciascun obiettivo.
Oltre ai programmi, i principali elementi del Pira (articolo 4), sono:
- gli obiettivi che la Pa si prefigge;
- i portatori di interesse, ossia gli individui e i gruppi che possono influenzare o essere influenzati dal raggiungimento o meno degli obiettivi della Pa, distinti in cittadini, utenti e contribuenti;
- i valori preventivi (attesi) degli indicatori e quelli effettivamente conseguiti;
- le risorse finanziarie impiegate;
- la fonte dei dati del sistema;
- le unità di misura utilizzate per gli indicatori.
Il Pira deve essere annualmente elaborato in via programmatica e allegato al bilancio di previsione e deve esporre il contenuto dei programmi di spesa insieme a informazioni sintetiche sui principali obiettivi da realizzare.
A consuntivo deve essere redatto il rapporto sui risultati, allegato al rendiconto, che deve illustrare il conseguimento o meno dei risultati e le cause di eventuali scostamenti.
Il Pira e il rapporto consuntivo devono avere la massima pubblicità anche mediante pubblicazione sul sito della Pa (articolo 7). Il fine del Dpcm è chiaro, condivisibile e coerente con il percorso di omogeneizzazione dei bilanci pubblici, che tende a rendere fruibili anche a soggetti esterni al sistema le relative informazioni. Si è voluto affiancare ai bilanci classici dei documenti sintetici che li rendano comprensibili, in termini di obiettivi e risorse anche a un pubblico ampio (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTI:  Il passaggio. Uffici sotto pressione per le necessarie verifiche incrociate con il Catasto.
Gestione più difficile rispetto a Tia e Tarsu.
LE LACUNE/ Disciplinati solo i pagamenti non la riscossione Enti al bivio tra la gestione interna e l'affidamento in appalto.

Tra meno di tre mesi entra in vigore il nuovo tributo sui rifiuti e sui servizi previsto dall'articolo 14 del Dlgs 201/2011, in attuazione della normativa sul federalismo fiscale. La Tares è destinata a sostituire definitivamente la Tarsu, la Tia 1 e la Tia 2, ma prevede anche, per la copertura dei costi dei servizi indivisi dei Comuni, una maggiorazione di 0,30 centesimi per mq. di superficie imponibile. La tariffa della maggiorazione può essere aumentata dal Comune sino a 0,40 centesimi, ma l'entrata relativa, a tariffa base, viene incamerata dallo Stato con una riduzione equivalente del Fsr (fondo sperimentale di riequilibrio).
L'aspetto più critico del nuovo tributo è tuttavia costituito da alcune prescrizioni che ne rendono difficile l'applicazione e che dovrebbero essere corrette per tempo per evitare una partenza caotica.
Ad esempio, la superficie imponibile della Tares, per gli immobili a destinazione ordinaria (categorie catastali A, B e C) è costituita dall'80% della superficie catastale (anche se questa dovesse essere superiore a quella accertata), mentre per gli altri fabbricati (categorie D ed E) e le aree è costituita dalla superficie calpestabile. Questo fatto, oltre a creare una evidente disparità di trattamento, crea notevoli problemi gestionali.
Infatti la norma costringe tutti i Comuni a incrociare con i dati catastali quelli relativi alla Tarsu/Tia, con esiti facilmente ipotizzabili, sia sul carico di lavoro che sul contenzioso. Tra l'altro la norma prevede che in assenza, nella banca dati catastale, del dato della superficie, si applichi una superficie convenzionale (comunque calcolata dall'agenzia del Territorio), con pagamento del tributo in acconto, con un conguaglio non appena il dato relativo alla superficie sarà acquisito. In questo modo si costringerebbero i Comuni a gestire per anni pagamenti in acconto e saldo.
La norma non prevede poi le modalità di riscossione della Tares, limitandosi a regolare i versamenti. Il fatto che vengano previste quattro rate e fissate le date di scadenza, modificabili sia nel numero che nella scadenza da parte del regolamento comunale, sembrerebbe ipotizzare una riscossione con autoliquidazione, con una modifica sostanziale rispetto a Tarsu e Tia, che si basavano sull'iscrizione a ruolo volontario che si estrinsecava nell'invio di un avviso bonario con la liquidazione del tributo e solo una successiva notifica della cartella. I Comuni dovranno comunque prevedere nel loro regolamento come intendono riscuotere il nuovo tributo. L'attività di accertamento e riscossione non potrà comunque, tranne forse nel caso di azienda in house, essere affidata al soggetto gestore del servizio di nettezza urbana. I Comuni dovranno, entro il primo gennaio 2013, reinternalizzare il servizio, con tutti i problemi di personale e di risorse, o riaffidarlo all'esterno. E i gestori si troveranno con personale e un'organizzazione inutilizzati.
Un'altra criticità è che le tariffe sono determinate in base al piano finanziario del servizio di gestione dei rifiuti urbani, redatto dal gestore «ed approvato dall'autorità competente». Ma nessuna altra norma fissa quale sia questa autorità competente con il rischio di un ampio contenzioso (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Se il procedimento consegue obbligatoriamente dalla presentazione di un’istanza da parte del privato ovvero deve essere iniziato d’ufficio, la Pubblica Amministrazione a ciò competente ha l’obbligo di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso che, e non è diversamente disposto, per i procedimenti ad iniziativa della parte privata deve essere emanato, a’ sensi dell’art. 2, comma 3, dello stesso articolo, entro il termine di 90 giorni dal deposito della relativa istanza.
Tale obbligo della Pubblica Amministrazione non sussiste nell’ipotesi di riproposizione di istanza diretta al riesame di una situazione inoppugnabile ovvero nell’ipotesi di un’istanza manifestamente infondata o, ancora, nell’ipotesi di un’istanza di estensione ultra partes di un giudicato.

Come ha ben puntualizzato il giudice di primo grado, l’art. 2 della L. 241 del 1990 e successive modifiche reca un principio generale per il nostro ordinamento, in forza del quale se il procedimento consegue obbligatoriamente dalla presentazione di un’istanza da parte del privato ovvero deve essere iniziato d’ufficio, la Pubblica Amministrazione a ciò competente ha l’obbligo di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso che, e non è diversamente disposto, per i procedimenti ad iniziativa della parte privata deve essere emanato, a’ sensi dell’art. 2, comma 3, dello stesso articolo, entro il termine di 90 giorni dal deposito della relativa istanza.
La giurisprudenza ha –altresì– avuto modo di evidenziare che tale obbligo della Pubblica Amministrazione non sussiste nell’ipotesi di riproposizione di istanza diretta al riesame di una situazione inoppugnabile (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 03.05.2012 n. 2748), ovvero nell’ipotesi di un’istanza manifestamente infondata (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 29.05.2008 n. 2543) o, ancora, nell’ipotesi di un’istanza di estensione ultra partes di un giudicato (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 04.05.2004 n. 2754) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.10.2012 n. 5207 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo di rispetto stradale ha carattere assoluto, in quanto perseguente una serie concorrente di interessi pubblici fondamentali ed inderogabili, dal che si è tratta la conseguenza che il diniego di condono di un edificio abusivamente realizzato in violazione di detto vincolo non richiede un previo accertamento sulla effettiva pericolosità dello stesso per il traffico stradale.
Si rammenta sul punto: "il vincolo di rispetto stradale ha carattere assoluto, in quanto perseguente una serie concorrente di interessi pubblici fondamentali ed inderogabili, dal che si è tratta la conseguenza che il diniego di condono di un edificio abusivamente realizzato in violazione di detto vincolo non richiede un previo accertamento sulla effettiva pericolosità dello stesso per il traffico stradale - Consiglio Stato, sez. IV, 06.05.2010, n. 2644" (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.10.2012 n. 5204 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Non è illecito raccomandare presso enti diversi dal proprio.
Non costituisce illecito penale la raccomandazione del pubblico ufficiale laddove l'intervento è effettuato presso i responsabili di un ente o di una struttura in cui l'agente non ha alcun potere funzionale. E oltre alla concussione, dunque, deve essere esclusa anche la corruzione impropria: l'intervento del pubblico ufficiale, che pure risulta compensato da un regalo, non implica l'esercizio del suo potere istituzionale e dunque non può essere considerato «atto d'ufficio» ma una mera segnalazione effettuata «in occasione» dell'ufficio.
È quanto emerge dalla sentenza 04.10.2012 n. 38762, pubblicata dalla VI Sez. penale della Corte di Cassazione.
Salvo il sindaco che riceve un pc in regalo da un medico che vuole cambiare città: il primo cittadino interviene sul direttore generale dell'Asl del luogo dove il professionista vuole stabilirsi segnalando al manager che il dipendente vuole essere trasferito. In cambio dell'interessamento ottenuto il sanitario regala all'amministratore locale un computer portatile approfittando del fatto che il compleanno del sindaco cade in prossimità di Natale.
Il politico locale è accusato prima di concussione e poi di corruzione impropria, ma è assolto da entrambe le accuse: il reato ex articolo 317 cp va sicuramente escluso perché non risulta che il sindaco abbia costretto o indotto il medico a regalargli il pc portatile né emerge alcun abuso della sua qualità di amministratore locale; deve tuttavia rilevarsi che non si configura neppure il reato ex articolo 318, secondo comma, cp: è vero, l'imputato si avvale della sua qualità di sindaco, ma la segnalazione relativa al trasferimento del medico non costituisce una condotta che denota concreta esplicazione dei poteri inerenti l'ufficio di amministratore del Comune.
Affinché scatti la corruzione impropria, infatti, è necessario che il comportamento oggetto del mercimonio rientri nelle competenza o almeno nella sfera di influenza dell'ufficio cui appartiene il presunto corrotto: nel caso del sindaco le pressioni esercitate sul manager Asl per il trasferimento del medico costituiscono un intervento che va incidere nella sfera di attribuzione di un pubblico ufficiale terzo, come il direttore generale dell'azienda sanitaria, ente rispetto al quale il politico locale non ha alcun potere.
Insomma, la raccomandazione in questo caso esula dagli atti di ufficio (articolo ItaliaOggi del 09.10.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI: Al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo non è richiesto un particolare impegno probatorio per dimostrare la colpa dell’Amministrazione. Questi può perciò limitarsi ad invocare l'illegittimità dell'atto, potendosi ben fare applicazione, al fine della prova della sussistenza dell'elemento soggettivo, delle regole di comune esperienza e della presunzione semplice di cui all'art. 2727 del codice civile.
Spetta a quel punto all'Amministrazione dimostrare di essere incorsa in un errore scusabile, il quale è configurabile, in particolare, in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, o di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.

Quanto all’estremo della colpa della Stazione appaltante, la giurisprudenza ha pressoché regolarmente sottolineato (cfr. ad es. C.d.S., VI, sentenze 09.03.2007 n. 1114 e 09.06.2008 n. 2751) che al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo non è richiesto un particolare impegno probatorio per dimostrare la colpa dell’Amministrazione. Questi può perciò limitarsi ad invocare l'illegittimità dell'atto, potendosi ben fare applicazione, al fine della prova della sussistenza dell'elemento soggettivo, delle regole di comune esperienza e della presunzione semplice di cui all'art. 2727 del codice civile.
Spetta a quel punto all'Amministrazione dimostrare di essere incorsa in un errore scusabile, il quale è configurabile, in particolare, in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, o di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata (cfr., tra le tante, C.d.S., IV, 12.02.2010, n. 785; V, 20.07.2009, n. 4527) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.10.2012 n. 5173 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARICosta caro all'autista dire al poliziotto "lei non sa chi sono io".
L'autista ubriaco che dopo il fermo pronuncia frasi minacciose alla pattuglia millantando amicizie tra la polizia risponde di resistenza a pubblico ufficiale. E non importa se il destinatario della minaccia si sia sentito concretamente intimorito dalle esternazioni del conducente.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI pen., con la sentenza 26.09.2012 n. 37104.
Una signora alterata dall'alcol ha percorso contromano una strada scontrandosi con una macchina della polizia e offendendo gli agenti intervenuti specificando «vabbene sono ubriaca e sono venuta contromano ma siete voi che mi siete venuti addosso e adesso mi volete incastrare, non mi dovete rompere il cazzo perché voi siete dei pezzi di merda, ho anche io amici in polizia e vi rovino».
Contro la conseguente condanna pronunciata ai sensi dell'art. 337 cp l'interessata ha proposto ricorso in Cassazione ma senza successo. Anche se le frasi proferite dal conducente non sono idonee a ingenerare una minaccia seria e concreta nella pattuglia intervenuta il reato di resistenza deve considerarsi perfezionato «essendo sufficiente l'uso della minaccia per opporsi all'atto d'ufficio» (articolo ItaliaOggi del 09.10.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA - VARIPiano carburanti coinvolga il proprietario dell'impianto.
Il proprietario dell'impianto di distribuzione carburanti va coinvolto nel procedimento di approvazione del piano dei carburanti, quando lo stesso contiene disposizioni specifiche.
È quanto ha affermato il Consiglio di stato, Sezione V, con la sentenza 17.09.2012 n. 4911.
La partecipazione prevista dall'art. 7 della legge 241/1990, in pratica, è dovuta in tutti i casi in cui il piano di razionalizzazione della rete di distribuzione dei carburanti, oltre a contenere norme di carattere programmatico – generale contiene previsioni specifiche; ad esempio, quando individua anche gli impianti incompatibili. In altri termini, se la materia trattata dal piano di razionalizzazione dispone anche di un contenuto determinativo «misto», ovvero a carattere provvedimentale individuale, la comunicazione, precisa il giudice, è doverosa.
Nel caso all'attenzione del Collegio, il piano di razionalizzazione non si era, infatti, limitato a fissare meri criteri programmatici di carattere generale, ma aveva direttamente individuato delle ipotesi di incompatibilità (rilevandone la necessità del trasferimento, prevedendo la diffida ai concessionari a richiederne il trasferimento, con assegnazione di un termine e previsione della revoca della concessione in caso di inosservanza).
Se, costituisce ius receptum, ha osservato il giudice, il fatto che non è richiesta la comunicazione di avvio del procedimento per i provvedimenti di carattere generale, essa deve essere effettuata nel particolare caso in cui la deliberazione di approvazione del piano individua direttamente, definendone operativamente la posizione, i soggetti coinvolti nella razionalizzazione (articolo ItaliaOggi del 09.10.2012.

AGGIORNAMENTO ALL'08.10.2012

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IN EVIDENZA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Trattenuta 2,5% tfs - altra sentenza favorevole.
PER IL TAR DELLA LOMBARDIA E' ILLEGITTIMA LA TRATTENUTA DALL'01.01.2011 DATA DI ENTRATA IN VIGORE DELLA NORMA CHE EQUIPARA I TRATTAMENTI DI FINE SERVIZIO AI TRATTAMENTI DI FINE RAPPORTO IN VIGORE NEL SETTORE PRIVATO.
In una causa intentata da personale pubblico non contrattualizzato il TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 13.09.2012 n. 2321, ha condannato il Ministero della Difesa a restituire le somme illegittimamente trattenute a titolo di contributo a carico del lavoratore per il Trattamento di fine servizio.
Si tratta di un ulteriore importante tassello, dopo sentenza 18.01.2012 n. 53 del TAR Calabria-Reggio Calabria, alla nostra battaglia per ottenere la cessazione di queste ritenute dalle nostre retribuzioni.
In questo caso il TAR non ha neanche ritenuto di investire la Corte Costituzionale per violazione dell'art. 3 COST., valutando che la nuova disposizione abbia implicitamente abrogato le norme che prevedevano il contributo del 2,5% a carico dei lavoratori: "... operando la modifica normativa suddetta un vero e proprio cambiamento complessivo del regime del trattamento di fine rapporto applicabile alla categoria professionale degli odierni ricorrenti, la disposizione di cui all’art. 37 del d.P.R. n. 1032/1973 deve ritenersi implicitamente abrogata, alla stregua di quanto previsto dall’art. 15 delle disposizioni preliminari al codice civile, per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti e perché la nuova legge regola l’intera materia già disciplinata dalla legge anteriore...".
Per quanto riguarda i ricorsi presentati dal nostro studio legale Galleano in alcune città, siamo in attesa di conoscere i primi risultati.
Nel corso dell'udienza del 02.10.2012, per la trattazione del ricorso presentato a Milano (Barbato ed altri, Tribunale di Milano, dott. Scarzella) il Giudice ha rinviato la causa al 16.11.2012, ore 12,00, per la discussione.
Il rinvio è dovuto al fatto che in Corte costituzionale è stata discussa il 18 settembre u.s., unitamente a molte altre che riguardavano diversi aspetti del D.L. 78/2010, la questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale amministrativo di Reggio Calabria ed iscritta con il n. 74/2012 nel registro ricorsi della Corte stessa, che conteneva la questione relativa al 2,5%.
La Corte non ha ancora depositato la sentenza.
Per approfondire l'argomento è possibile, digitando la parola tfr nell'apposito campo di ricerca del nostro sito, consultare tutte le precedenti notizie pubblicate (link a www.uilpa.it).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA - VARILe visure catastali diventano a pagamento? Quali restano quelle gratuite? Ecco i chiarimenti.
Con la circolare 28.09.2012 n. 4 l’Agenzia del Territorio chiarisce le novità introdotte dall’articolo 6 del D.L. 16/2012, in materia di accesso alle banche dati ipotecaria e catastale.
La consultazione dei documenti catastali diventa a pagamento dal primo ottobre 2012.
A partire da tale data i seguenti atti catastali sono soggetti a pagamento del tributo speciale sulla base delle seguenti tariffe:
● per la visura degli atti cartacei (registri di partita, mappa catastale cartacea, tipi di frazionamento, etc.): 5 euro a giorno per ogni richiedente
● per la visura della banca dati censuaria (visure per immobile e per soggetto, attuale e storica, per partita ed elenco immobili) e della cartografia da base informatica: 1 euro per identificativo catastale richiedente
● per ogni altro documento, compresa la visura per soggetto: 1 euro ogni 10 unità immobiliari o frazione di 10
La Circolare chiarisce anche che le visure in catasto vengono rilasciate gratuitamente all’intestatario degli immobili, così come le ispezioni sui registri immobiliari, se a richiederle è l’attuale titolare della proprietà.
Inoltre, la consultazione on-line rimane gratuita per coloro i quali hanno debitamente sottoscritto un’apposita convenzione (04.10.2012 - link a www.acca.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: G.U. 28.09.2012 n. 227 "Elenco delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato individuate ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196 (Legge di contabilità e di finanza pubblica)" (ISTAT).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'esercizio associato di funzioni e di servizi tramite convenzione ed il personale interessato (CGIL-FP di Bergamo, nota 04.10.2012).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. Pierobon, L’AMBIENTE NEL DIRITTO AMMINISTRATIVO: UNA INTERESSANTE (RECENTE) LETTURA (link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: R. Ricciarello, Gli adempimenti previsti dalla parte V del dlgs. 152/2006 (link a www.industrieambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. De Falco, Provvedimenti autorizzatori e ordinanze (in materia di gestione rifiuti) (tratto da e link a www.industrieambiente.it).

APPALTI: R. Caponigro, L’interesse legittimo strumentale nelle gare d’appalto (link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: M. Calveri, La tutela di accertamento dell’interesse legittimo e il codice del processo amministrativo: occasione mancata? (link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: P. Costantino, Abbandono di rifiuti sulle strade: la giurisprudenza riduce le responsabilità dell'ente proprietario (Ufficio Tecnico, n. 7-8/2012).

EDILIZIA PRIVATA: E. Montini, Il DURC tra autocertificazione e acquisizione d'ufficio alla luce della legge di semplificazione 2012 (Ufficio Tecnico, n. 7-8/2012).

APPALTI: S. Usai, Il modus operandi della commissione di gara alla luce della recente giurisprudenza ed elle innovazioni apportate con il d.l. 52/2012 (Ufficio Tecnico, n. 7-8/2012).

EDILIZIA PRIVATA: R. Balasso, Varianti, proroghe e rinnovi dei titoli abilitativi edilizi: nozioni e implicazioni (Ufficio Tecnico, n. 7-8/2012).

ATTI AMMINISTRATIVI: G. Ciaglia, La conferenza di servizi nella giurisprudenza più recente (Ufficio Tecnico, n. 7-8/2012).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

PUBBLICO IMPIEGOPalazzo Vidoni. Assunzioni a termine. Nel pubblico il limite dei 36 mesi inderogabile da patti «decentrati».
La contrattazione decentrata non basta per derogare alla riforma Fornero: a parere della Funzione Pubblica deve intervenire il contratto collettivo nazionale di lavoro.
Lo afferma il Dipartimento di Palazzo Vidoni, con la nota 28.09.2012 n. 38845 di prot..
Il problema sorge con l'invio, da parte dell'Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia, di un contratto decentrato in cui si mettevano le basi per derogare dal limite dei 36 mesi quale durata massima dei contratti a tempo determinato stipulati dallo stesso committente con il medesimo soggetto e per lo svolgimento di mansioni equivalenti. L'articolo 5, comma 4-bis, della legge 92/2012 prevede, infatti, che, indipendentemente dalla durata di rinnovi o interruzioni, il contratto a termine si considera a tempo indeterminato quando supera i 36 mesi e vi sia identità fra datore di lavoro, lavoratore e mansioni. Per la Pa, stante il divieto, la trasformazione in tempo indeterminato si tramuta in risarcimento del danno.
Rispetto a questa previsione, però, la norma stessa fa salve «le diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale». Pur essendo espressamente indicato nel testo normativo quale canale attraverso il quale si può bypassare il vincolo dei 36 mesi, la Funzione Pubblica non ritiene sufficiente un contratto decentrato per legittimare comportamenti in tal senso, ma richiede la contrattazione ai massimi livelli. Pur se non espressa, la motivazione si può rinvenire nell'articolo 40, comma 3-bis, del Dlgs 165/2001.
Ma le ipotesi di disapplicazione della riforma, rimesse, a questo punto, alla contrattazione nazionale non si fermano al caso sopra esaminato. Lo stesso Dipartimento elenca altre due ipotesi. La prima riguarda il caso in cui si può omettere la motivazione nell'assunzione a tempo determinato o nella somministrazione di lavoro quando le stesse avvengono nel quadro di un processo riorganizzativo per l'avvio di una nuova attività, il lancio di un prodotto o di un servizio innovativo, l'introduzione di forti cambiamenti tecnologici, una nuova fase di un importante progetto di ricerca o sviluppo e, infine, il rinnovo o la proroga di una commessa rilevante.
Le medesime fattispecie vengono poste a base della seconda ipotesi derogatoria citata dalla Funzione Pubblica. Si fa riferimento alle condizioni per le quali la contrattazione può introdurre interruzioni più brevi fra un contratto e l'altro con lo stesso lavoratore, interruzioni che, però, non possono essere inferiori a 20 giorni se la durata del primo incarico non è superiore a 6 mesi e a 30 giorni in caso contrario (articolo Il Sole 24 Ore del 06.10.2012 - link a www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOOggetto: richiesta di parere in merito alla possibilità di trasformazione di contratto di lavoro a tempo determinato di Dirigente in contratto di lavoro a tempo indeterminato (nota 14.09.2012 n. 36924 di prot.).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Richiesta parere su intervento edilizio.
Il Comune chiede "se un foro di circa 80-100 cm. e profondo circa 15-20 mt. incamiciato (con tubo o altro) praticato sul terreno, per scopi scientifici e di ricerca, effettuato in zona tutelata dal punto di vista ambientale e paesaggistico, sia da considerarsi o meno ‘intervento edilizio’ ed in quanto tale soggetto alle autorizzazioni previste dal D.P.R. 380/2001 e successive modifiche ed integrazioni" (Regione Marche, parere 07.06.2012 n. 270/2012).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Distanza delle costruzioni dalle autostrade.
In relazione al Suo quesito sulla distanza da rispettare dalle pertinenze autostradali “nel caso in cui si debba costruire o condonare un manufatto edile, sia in zona rurale che in zona urbana (all’interno del centro urbano)” osservo quanto segue (Regione Marche, parere 20.04.2012 n. 255/2012).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Applicazione dell’oblazione, ai sensi dell’art. 36, comma 2, del DPR n. 380/2001, per opere in difformità dal permesso di costruire.
Il Comune pone i seguenti due quesiti sull’applicazione dell’art. 36, comma 2, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380:
1) In caso di un’opera realizzata in parziale difformità dal permesso di costruire, per la quale il titolare del permesso ha già assolto agli obblighi di cui all’art. 16 del DPR n. 380/2001, si chiede se dall’oblazione, da stimarsi in misura doppia al contributo di costruzione calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso, “debba essere detratto il contributo di costruzione (oneri di urbanizzazione primaria, oneri di urbanizzazione secondaria e costo di costruzione) già corrisposti all’atto del rilascio del permesso di costruire originario”;
2) Nel caso di totale difformità dell’opera rispetto al permesso di costruire rilasciato, per il quale erano stati assolti gli obblighi di cui all’art. 16 del DPR n. 380/2001, l’oblazione deve essere calcolata con riferimento al contributo di costruzione dell’intera opera in misura doppia. Anche in questo caso si chiede “se all’oblazione così calcolata debba essere detratto il contributo di costruzione già corrisposto all’atto del rilascio del permesso di costruire”.
In proposito Il Comune fa notare che “nel caso di lavori realizzati in totale difformità (o variazione essenziale) rispetto al permesso di costruire originario, qualora non si proceda a detrarre dall’oblazione il contributo già versato, il committente avendo corrisposto il contributo al momento del rilascio del permesso originario e poi l’oblazione in misura doppia del contributo, si troverebbe penalizzato rispetto a colui che avesse realizzato un’opera abusiva in completa assenza di permesso di costruire e che verrebbe a corrispondere la sola oblazione (contributo art. 16 DPR 380/2001 in misura doppia)” (Regione Marche, parere 02.02.2012 n. 240/2012).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Esonero dal contributo di costruzione di cui all'art. 17, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001 per la realizzazione di “Centro per strutture assistenziali e anziani”.
Il Comune chiede “se sia possibile procedere all'esonero del contributo di costruzione ai sensi dell'art. 17, comma 3, lett. c), del DPR 380/2001 per la realizzazione di un “Centro per strutture assistenziali e anziani” da parte di un Ente Morale giuridicamente riconosciuto con Decreto del Presidente della giunta regionale considerando anche il fatto che l'opera viene realizzata in forza di un piano attuativo nel quale però non ne è prevista la cessione al Comune (Regione Marche, parere 02.02.2012 n. 239/2012).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Interpretazione dell’art. 5, comma 3, della legge 12.07.2011, n. 106 - Diritti edificatori.
Il Comune chiede un parere su quanto stabilito dall'art. 5, comma 3, della legge 12.07.2011, n. 106 (conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 13.05.2011, n. 70), che ha inserito nell'art. 2643 del codice civile l'espresso riferimento ai "contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti edificatori comunque denominati, previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoriale" e, in particolare, sulla "possibilità di ammettere una cubatura su un ambito non confinante con quello che possiede l'attitudine edificatoria e la cede" (Regione Marche, parere 19.01.2012 n. 234/2012).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Assoggettabilità di un intervento edilizio al pagamento del contributo di costruzione.
Il Comune -in riferimento ad una Comunicazione pervenuta al Suo Ufficio per l’esecuzione di opere interne, manutenzione straordinaria, impiantistica, parziale modifica alle forature esterne e finiture interne ed esterne, ecc. su di un edificio che in precedenza, con una variazione catastale e senza esecuzione di opere edilizie, è stato trasformato da bifamiliare ad unifamiliare- chiede, in considerazione di quanto stabilito dall’art. 17, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001 che inserisce nei casi di permesso di costruire gratuito interventi di ristrutturazione di edifici unifamiliari, se “gli interventi edilizi che prevedono l’accorpamento con opere di più unità immobiliari in un unico organismo (da bifamiliare ad unifamiliare) mantenendo la stessa destinazione d’uso (residenziale) sono qualificabili come interventi di ristrutturazione edilizia e sono comunque assoggettabili agli oneri di costruzione” (Regione Marche, parere 12.09.2011 n. 210/2011).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Intervento di ristrutturazione con demolizione e ricostruzione – Richiesta di parere per sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 e per distacchi dai fabbricati in relazione alla variante essenziale ex art. 5 della L.R. n. 14/1986.
Il Comune chiede se “può considerarsi ammissibile al rilascio della sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. 380/2001” un intervento di ristrutturazione consistente nella demolizione di un vecchio manufatto e nella sua ricostruzione, “mantenendo un lato della costruzione sulla vecchia parete a confine con il muro sottostante l’area pubblica comunale (strada)” e con cambio di destinazione d’uso da costruzione agricola a monolocale di civile abitazione, entro l’area di sedime ed entro la sagoma del vecchio fabbricato con dimensioni più ridotte e quindi con diminuzione della volumetria preesistente, facendo notare che “la ricostruzione eseguita pur fronteggiando per una piccola parte l’altro edificio dello stesso proprietario risulta essere a distanza inferiore a ml. 10 (art. 13 lett. o) del vigente R.E.C.),ma l’intervento eseguito risulta migliorativo rispetto al distacco della precedente costruzione che era posta molto più vicino” (Regione Marche, parere 09.08.2011 n. 203/2011).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Richiesta di parere circa le modalità di calcolo del volume per le superfici a parcheggio ex Legge 06.08.1967, n. 765 e Legge 24.03.1989, n. 122.
Il Comune chiede se sia ancora da tenere in considerazione quanto esposto nell’art. 9 della circolare ministeriale del 28/10/1967 in relazione alla cubatura da considerare per determinare la superficie da destinare a parcheggi ai sensi dell’art. 18 della legge n. 765/1967, che ha aggiunto l’art. 41-sexies alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150 (Regione Marche, parere 22.06.2011 n. 193/2011).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Quesiti in merito al frazionamento di unità immobiliari e al cambio di destinazione d’uso.
Il Comune pone dei quesiti sul frazionamento di unità immobiliari e sul cambio di destinazione d’uso delle stesse, eseguiti senza esecuzione di opere edilizie o tramite interventi riconducibili ad attività di manutenzione straordinaria, in ordine ai quali si osserva quanto segue (Regione Marche, parere 06.06.2011 n. 188/2011).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Sportello unico per le attività produttive - Rapporti con la normativa urbanistica ed edilizia.
Il Comune fa presente che durante l'esame di un progetto di trasformazione ed ampliamento di una struttura esistente, in variante al P.R.G., ai sensi dell'art. 5 del D.P.R. 20.10.1998, n. 447, "è stato accertato che la ditta proprietaria dell'immobile ha dato in parte corso alle previsioni costituenti variante" realizzando parte dell'ampliamento previsto nel progetto.
Il Comune aggiunge che "in merito al progetto di variante si è espressa preliminarmente la Giunta Comunale ravvisando un equilibrato rapporto tra l'interesse del privato e lo interesse pubblico ed un regolato uso del territorio e dando cosi favorevolmente avvio alla pratica di variante urbanistica ai sensi dell'art. 5 del DPR 447/1998".
Chiede pertanto "se legittimamente la Conferenza dei Servizi, possa proseguire le proprie valutazioni in presenza di ordinanza di sospensione dei lavori che demandi l’adozione di eventuali provvedimenti repressivi all’esito della conclusione della stessa e se la Giunta Provinciale prima ed il Consiglio Comunale poi, legittimamente. in presenza di abusi edilizi possano approvare la variante con effetti sananti" (Regione Marche, parere 24.03.2010 n. 140/2010).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Richiesta di parere sull’applicazione dell’art. 4, comma 1-bis, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Il Comune, in relazione al disposto dell’art. 4, comma 1-bis, del D.P. R. 06.06.2001, n. 380 (in vigore dal 10.01.2010), che impone di prevedere nei Regolamenti edilizi comunali l’obbligo, per gli edifici di nuova costruzione, di installare impianti per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, chiede “se in attesa che il Consiglio Comunale recepisca ed approvi la variante al Regolamento Edilizio Comunale, questo servizio può procedere ai rilascio dei permessi di costruire in corso senza la previsione dell’installazione di impianti per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili” come previsto da tale norma (Regione Marche, parere 16.02.2010 n. 134/2010).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Richiesta di parere sulla definizione di “lotto edificabile”.
Il Comune chiede se “in zona urbana di completamento residenziale, con indice fondiario 1 mq/mq, è accoglibile una richiesta di permesso a costruire in cui si computi quale "superficie fondiaria‟ un lotto di terreno diviso in due parti, rispettivamente di superficie mq 1082 e mq 150, divisi da una strada comunale pubblica di larghezza m. 5,00 circa”, precisando che “il fabbricato andrebbe posizionato sulla parte di terreno con superficie maggiore e che l‟altro appezzamento, di superficie mq 150, da solo non ha le caratteristiche per essere in qualche modo edificabile”, potendosene sfruttare solo il volume (Regione Marche, parere 29.07.2009 n. 120/2009).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Applicazione del contributo di costruzione di cui all’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001.
Il Comune chiede un parere sulla corretta applicazione del contributo di costruzione di cui all’art. 16 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, relativamente ad un caso specifico che illustra sommariamente nel quesito e sul quale questo Servizio non può comunque pronunciarsi, non avendone conoscenza e non essendogli ciò consentito dalla D.G.R. n. 769 del 27.06.2006 (in BUR n. 70 del 07.07.2006), che è l’atto in base al quale i Servizi della Giunta regionale esercitano l’attività di consulenza giuridica a favore degli Enti locali delle Marche (Regione Marche, parere 03.06.2009 n. 116/2009).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Richiesta di parere circa l’onerosità o meno dei permessi di costruire per interventi edilizi di ristrutturazione di edifici ex rurali.
Il Comune chiede se alla luce delle disposizioni del Testo unico per l’edilizia di cui al D.P.R. n. 380/2001, un intervento di ristrutturazione edilizia di un edificio colonico unifamiliare, che ha perso tutti i requisiti di ruralità, da parte di un privato cittadino non imprenditore agricolo, sia oneroso o gratuito e se i pareri che il Servizio legislativo e affari istituzionali della Giunta regionale ha espresso sull’applicazione dell’art. 9, lett. d), della legge n. 10/1977 in data 20.06.1991, prot. n. 124, e in data 09.03.1989, prot. n. 60, dei quali allega copia, siano tuttora validi (Regione Marche, parere 27.02.2009 n. 110/2009).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: OGGETTO: Quesito concernente l’applicazione dell’art. 10, comma 6, della legge 05.02.1992, n. 104.
Il Comune -con richiesta di parere inoltrata al Servizio attività istituzionali, legislative e legali e da questo trasmessa, per competenza, allo scrivente Servizio Governo del territorio- chiede “di esprimersi in merito all’applicazione dell’articolo 10, comma 6, della L. 104/1992” di cui riporta il testo e, in particolare, se il termine “immobile” utilizzato dalla norma “si riferisce ad edifici esistenti ed aree libere o soltanto ad edifici esistenti” e se sia da considerarsi legittima la variante urbanistica automatica che essa prevede “alla luce della recente sentenza (Corte Cost. n. 401 del 23/11/2007) che ha sostanzialmente dichiarato illegittima la norma prevista dall’art. 98, comma 2, del Dlgs. n. 163/2006 la quale prevede l’approvazione di progetti definitivi e la contestuale variante allo strumento urbanistico da parte del Consiglio comunale per gli interventi infrastrutturali viari” (Regione Marche, parere 13.11.2008 n. 101/2008).

INCARICHI PROGETTUALI: OGGETTO: Applicazione dell’art. 41-bis della legge 17.08.1942, n. 1150.
Il Comune “alla luce di quanto disciplinato dall’art. 41-bis legge n. 1150/1942”, chiede un “parere in merito alla legittimità di un incarico di Variante Generale al PRG conferito a tecnico professionista qualificato, incaricato in precedenza da privati, della redazione di un piano di lottizzazione nel territorio comunale presentato all’Ente successivamente alla stipula della convenzione di incarico della Variante Generale al PRG” (Regione Marche, parere 25.09.2008 n. 96/2008).

URBANISTICA: OGGETTO: Legge 24.12.2007, n. 244 - Art. 1, comma 258 - Interpretazione ed applicazione sulla pianificazione urbanistica comunale.
Il Comune, con riferimento a quanto stabilito dall’art. 1, comma 258, della legge 24.12.2007, n. 244 (Legge finanziaria 2008) il cui testo allega in copia, chiede un parere “relativamente alla possibilità di individuare, nelle aree a verde pubblico o a parcheggio, di cui al D.M. n. 1444/1968, aree definite come “ambiti” nei quali prevedere immobili da destinare ad edilizia residenziale sociale”.
Il Comune ritiene che tale norma “stabilisce i seguenti principi:
1. le aree definite come “ambiti” per la eventuale realizzazione di edilizia residenziale sociale devono essere considerate come standard urbanistico, ai sensi del D.M. n. 1444/1968;
2. la eventuale trasformazione di tali aree o “ambiti” in lotti edificabili per edilizia residenziale sociale avviene esclusivamente per cessione gratuita dell’area, da parte del proprietario;
3. in tali “ambiti” è inoltre possibile prevedere la realizzazione e fornitura di alloggi a canone calmierato, concordato e sociale, che rimangono in proprietà del soggetto realizzatore (pubblico o privato);
4. la realizzazione di opere edilizie in tali “ambiti” deve essere equiparata ad opera di urbanizzazione (secondaria) e pertanto esclusa dalle volumetrie realizzabili e disciplinate dal Piano Urbanistico Generale o Attuativo
” (Regione Marche, parere 24.07.2008 n. 93/2008).

URBANISTICA: OGGETTO: Richiesta di parere relativa alla conformità delle previsioni del Piano Particolareggiato del Centro storico con l’art. 9 del D.M. n. 1444/1968.
Il Comune rileva che “questo Ente è dotato di un Piano Particolareggiato per il Centro Storico, attualmente in vigore (approvazione definitiva DCC n. 15/1999)” che “è formato, essenzialmente, dai seguenti elaborati:
- planimetria d’insieme con individuazione dei settori di intervento;
- Elaborato di progetto per singolo settore, formato da planimetrie e schede normative indicanti gli interventi edilizi ammessi per ogni “unità minima di intervento” (allineamenti linee di gronda/colmo, sopraelevazioni, ampliamenti, ristrutturazione edilizia esterna/interna ecc.)
”.
Aggiunge che per un edificio esistente l’Elaborato di progetto prevede, fra l’altro, la possibilità di “realizzare un ampliamento dell’ultimo piano nel rispetto della distanza di m. 5,00 dall’UMI”, cioè, si presume, dall’edificio ad esso adiacente.
Il Comune chiede quindi se “ai sensi del DM 1444/1968, è possibile consentire l’ampliamento dell’ultimo piano del fabbricato in questione, con una distanza tra pareti pari a ml. 5,00 < ml. 10,00, così come previsto “nell’Elaborato di progetto del Settore n. …” del vigente Piano Particolareggiato del Centro Storico” (Regione Marche, parere 18.07.2008 n. 92/2008).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Applicazione dell’art. 17, comma 3, lett. b) del D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Si risponde al quesito di cui all’oggetto -inviato dal Comune al Servizio legislativo e affari istituzionali e da questo trasmesso per competenza al Servizio governo del territorio- con il quale si chiede se per la ristrutturazione di un fabbricato colonico unifamiliare in zona agricola, in conformità ai disposti del censimento dei fabbricati rurali e senza aumento di volumetria ”da parte di un soggetto non avente i requisiti di coltivatore agricolo a titolo principale” si “debba procedere al rilascio del Permesso di Costruire a titolo gratuito ai sensi dell’art. 17, comma 3, lettera b), della L. 10/1977 (rectius: del D.P.R. n. 380/2001) o se si debba richiedere il pagamento degli oneri concessori in riferimento al cambio di destinazione d’uso, da edificio rurale a civile abitazione” (Regione Marche, parere 19.03.2008 n. 83/2008).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Contributo per il rilascio dei permesso di costruire (artt. 16 e 19 del D.P.R. n. 380/2001).
Il Comune fa presente che “nell’anno 2002 è stata rilasciata la Concessione Edilizia per la realizzazione di un intervento soggetto al contributo di cui agli articoli 16 e 19 del D.P.R. n. 380/2001 e che “relativamente al costo di costruzione l’importo da pagare è stato determinato sulla base di apposita perizia giurata a firma del tecnico progettista e trasmessa dal richiedente”.
Il Comune aggiunge che “a seguito di successivi accertamenti è emersa la non corrispondenza tra le opere oggetto di Concessione Edilizia (e successive varianti) e quelle oggetto della richiamata perizia” e che “in conseguenza di ciò la parte interessata ha trasmesso nuova perizia giurata, congruente con le opere autorizzate, il cui importo è superiore a quello stimato con la perizia precedentemente trasmessa”.
Rileva che “quanto sopra comporta una maggiore quantificazione del costo di costruzione da corrispondere” al Comune e chiede pertanto se “alla maggiore somma da richiedere all’interessato a seguito dell’applicazione dell’aliquota del 10% all’importo delle opere, così come rideterminato con la nuova perizia giurata, vanno applicate le sanzioni previste dall’art. 42 del D.P.R. 380/2001” e se sul maggiore importo così determinato vanno altresì applicati “gli interessi”.
Comunica che l’orientamento del Capo Area Tecnica del Comune è il seguente: “non applicazione delle sanzioni previste all’art. 42 del D.P.R. 380/2001 in quanto gli originari importi, anche se sulla base di un’erronea perizia giurata inviata dall’interessato per il calcolo del costo di costruzione, sono stati comunque corrisposti nei termini e con le modalità indicate dall’Ente prima del rilascio della Concessione Edilizia” e “applicazione degli interessi al tasso legale sul maggiore importo calcolato per il periodo che va dal rilascio della originaria Concessione Edilizia all’attualità” (Regione Marche, parere 10.01.2008 n. 78/2008).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Richiesta di parere in merito alla conclusione di un procedimento amministrativo curato dallo Sportello unico per le attività produttive.
Il Comune chiede un parere in merito alla conclusione di un procedimento curato dallo Sportello unico, concernente il progetto di ampliamento e di riorganizzazione urbanistico-edilizia del polo produttivo di una ditta, “difforme con il Piano di Fabbricazione vigente e con il PRG adottato in adeguamento al P.P.A.R.”.
A tal proposito fa presente che “è stato assunto dal SUAP verbale d’ufficio conclusivo della conferenza di servizi avente valore di variante urbanistica”, sul quale “sono state espletate le procedure della pubblicazione” e “non sono pervenute osservazioni, proposte e opposizioni dagli aventi titolo ai sensi della Legge 17.08.1942, n. 1150” e che occorre “pertanto procedere per la pronuncia definitiva del Consiglio Comunale”.
Dato che si evince il mancato interesse della ditta proponente alla conclusione del procedimento amministrativo, in quanto questa non intende predisporre la convenzione necessaria per regolamentare i rapporti giuridici ed economici fra le parti, si chiede se la competenza ad archiviare il procedimento appartenga alla Responsabile SUAP o al Consiglio comunale, “dando atto che” lo Sportello unico  "ha già provveduto a concludere il procedimento con il verbale conclusivo del 03/05/2006 avente valore di proposta di variante” (Regione Marche, parere 26.11.2007 n. 72/2007).

URBANISTICA: OGGETTO: Richiesta di parere in ordine alla possibilità di approvare varianti parziali riguardanti la nuova previsione di Piani per l’Edilizia Economica e Popolare (PEEP) mediante le procedure di cui all’art. 19 del D.P.R. n. 327/2001.
La Provincia chiede se sia possibile utilizzare le procedure di cui all’art. 19 del D.P.R. n. 327/2001 nel caso in cui un Comune, non dotato di Piano Regolatore Generale adeguato al PPAR, “intenda adottare un Piano per l’Edilizia Economica e Popolare in variante al vigente P.R.G. in quanto trattasi di uno strumento urbanistico attuativo le cui procedure di adozione e approvazione sono disciplinate da specifiche leggi (L. n. 167/62 e L.R. n. 34/1992) o se in alternativa si possa ricorrere alle procedure ordinarie di variante previste dalla L. n. 167/1962 utilizzando le esenzioni di cui all’art. 60, punto 3c), delle N.T.A. del P.P.A.R. per le opere pubbliche (tale fattispecie non viene contemplata nella Direttiva regionale n. 14/1997)”.
La Provincia ritiene che la procedura di cui all’art. 19 del D.P.R. n. 327/2001 possa essere attivata solo per un nuovo intervento riferito ad un singolo edificio da destinare ad edilizia residenziale pubblica, dato il carattere di elevato interesse pubblico degli interventi da realizzarsi nell’ambito dei PEEP e in considerazione dei fatto che il punto 3c) dell’art. 60 delle NTA del PPAR prevede “una specifica esenzione per le varianti urbanistiche adottate dai comuni ai sensi dell’articolo 1 della legge 1/1978 (ora art. 19 del D.P.R. n. 327/2001), ma non già per i nuovi P.E.E.P. in variante al vigente P.R.G.” (Regione Marche, parere 19.10.2007 n. 65/2007).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Intervento di ristrutturazione edilizia e possibilità dì spostamento del fabbricato.
Il Comune chiede se un fabbricato ex colonico “in zona agricola all’interno di una zona individuata dal PAI come area di dissesto idrogeologico F - 07 - 0313 con grado di pericolosità elevata P3”, il quale insiste su di un terreno di circa 4-5 ettari che “in parte risulta ricompreso all’interno della zona in frana e in parte no”, possa essere oggetto di un intervento di ristrutturazione attraverso la demolizione “e la sua ricostruzione, rispettandone la stessa sagoma e volumetria, ma posizionato in altro sito al di fuori della zona definita in dissesto dal PAI, con il rispetto della distanza dai confini” e sempre all’interno del terreno di pertinenza che si trova interamente nella zona agricola ai sensi del vigente PRG, nella quale sono ammessi tutti gli interventi edilizi previsti dalla L.R. n. 13/1990.
Il Comune ritiene che tale intervento possa essere considerato di “ristrutturazione” ai sensi del D.P.R. n. 380/2001 e successive modifiche ed integrazioni, in quanto con l’entrata in vigore di questo “nella ristrutturazione è stato compreso anche l’intervento di demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma senza un chiaro richiamo all’area di sedime” e la Circolare del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti del 07.08.2003, n. 4174/316/26 “con cui si è cercato di chiarire il rispetto dell’area di sedime, con l’intento di escludere la possibilità di ricostruire il fabbricato in altro sito, ovvero posizionarlo all’interno dello stesso lotto in maniera del tutto discrezionale, poiché in caso contrario non si avrebbe più un intervento di recupero”, precisa tuttavia che resta possibile nel diverso posizionamento dell’edificio “adeguarsi alle disposizioni contenute nella strumentazione urbanistica vigente per quanto attiene allineamenti, distanze e distacchi” (Regione Marche, parere 09.08.2007 n. 60/2007).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Richiesta di permesso di costruire in deroga ai sensi dell’art. 14 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Il Comune fa presente che gli “Istituti Riuniti di beneficenza” del Comune “hanno inoltrato una richiesta riguardo la possibilità dì deroga prevista dall’art. 14 dei D.P.R. 380/2001 e s.m.i. in ordine al limite di densità edilizia e di altezza, per la realizzazione dell’ampliamento della Casa di Riposo e della residenza protetta in adeguamento alla L.R. 20/2002 e s.m.i.” e che a tal proposito hanno precisato di essere “una Istituzione pubblica di Assistenza e Beneficenza (IPAB) e quindi Ente pubblico a tutti gli effetti come da statuto approvato da Giunta Regionale Marche con Decreto Presidenziale n. 196 del 22.12.1999 Prot. n. 29/196/SAG”.
Il Comune ritiene che “la tipologia dell’intervento e la natura giudica dei soggetto richiedente determinano la possibilità di deroga prevista dall’art. 14 del D.P.R. 380/2001 e s.m.i.” e chiede se tale valutazione sia corretta (Regione Marche, parere 05.07.2007 n. 58/2007).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Crollo di edificio sottoposto a ristrutturazione edilizia - Variante a permesso di costruire mediante denuncia di inizio attività ai sensi dell’art. 22, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001.
Il Comune chiede “se è necessaria l’applicazione della sanzione di Euro 516,00 prevista dall’art. 37 del D.P.R. 380/ 2001, per una denuncia inizio attività depositata in variante al permesso di costruire, relativo alla ristrutturazione di un fabbricato colonico, mediante demolizione completa con fedele ricostruzione” e, in particolare, se tale denuncia di inizio attività “depositata in corso d’opera” e “per l’avvenuta completa demolizione del fabbricato stesso (non prevista) nel progetto originario, possa rientrare fra le varianti di cui all’art. 22, comma 2, del D.P.R. 380/2001 o se la stessa debba considerarsi in corso d’opera e cioè fra le D.I.A. di cui all’art. 37, comma 5, del citato D.P.R. 380/2001”.
A tal fine fa presente: che il comune “ha rilasciato un permesso di costruire, per la ristrutturazione” di un “fabbricato rurale” e che “il relativo progetto prevedeva la ristrutturazione dell’edificio senza completa demolizione e senza aumenti di volume e di sagoma preesistenti; che il direttore dei lavori “comunicava l’avvenuto parziale crollo dell’edificio” e “la sospensione dei lavori”; che successivamente veniva depositata “una variante al permesso di costruire originario, con la quale si prevedeva che la ristrutturazione dell’edificio sarebbe avvenuta con una modalità esecutiva diversa e precisamente mediante demolizione e ricostruzione integrale dell’edificio con stessa volumetria e sagoma di quello preesistente”.
Fa anche presente che l’edificio “non risulta fra quelli di valore storico e architettonico sulla base del censimento redatto ai sensi dell’art. 15 della L.R. n. 13/1990. Pertanto per lo stesso non vige il divieto di demolizione di cui al 3° comma dell’art. 15 della predetta legge regionale” e che “non rientra nella casistica di cui all’art. 6, 2° comma, della L.R. 13/1990 in quanto di volumetria inferiore ai 1000 m. Per lo stesso vige invece la norma di cui al 1° comma dei predetto articolo, nel quale non figura il divieto di demolizione ma solo quello di non aumentarne il volume”.
Il Comune rileva inoltre che a seguito della segnalazione del fatto da parte della Polizia Municipale l’Ufficio tecnico “precisava che la diversa modalità di attivazione dell’intervento di ristrutturazione doveva essere regolarizzata con apposita variante secondo le procedure di cui al D.P.R. n. 380/2001 e che la ricostruzione dell’edificio, ancora da effettuare, doveva avvenire nell’integrale rispetto della volumetria e sagoma autorizzati e con l’utilizzo di materiali che facciano salvo l’aspetto esterno dell’edificio”, variante poi presentata in tal senso dagli interessati come sopra esposto, e che quindi “non è necessario applicare alcuna sanzione” (Regione Marche, parere 14.06.2007 n. 55/2007).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Applicazione dell’art. 9, primo comma, lett. d), della legge 28.01.1977, n. 10 (ora art. 17, comma 3, lett. b) del D.P.R. 06.06.2001, n. 380).
Il Comune fa notare che la quinta sezione del Consiglio di Stato ha pronunciato la decisione n. 9672 del 1998 (rectius: n. 6289 dei 2004), che allega in copia, con la quale si è “dato ragione ad un comune che aveva imposto il pagamento del contributo di costruzione per un intervento di ristrutturazione su un edificio ex agricolo, unifamiliare, senza alcun incremento di unità immobiliari”.
Il Comune ritiene che l’intervento oggetto del contendere avrebbe dovuto essere esente dal contributo di costruzione, così come disposto dall’art. 17, comma 3, lett. b), del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (già art. 9, primo comma, lett. d), della legge 28.01.1977, n. 10).
Chiede quindi, alla luce della predetta decisione del Consiglio di Stato, “quali indirizzi intraprendere per interventi analoghi” e, “in particolare se il cambio di destinazione da ex utilizzo “agricolo” dell’immobile inteso quale vecchia abitazione del colono, ad edificio “residenziale”, determina o meno un provvedimento oneroso anche nel caso in cui l’intervento, pur prevedendo l’estensione dei locali uso abitativo anche al piano terra, mantiene un uso unifamiliare” (Regione Marche, parere 05.06.2007 n. 54/2007).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Disciplina della denuncia di inizio attività.
Il Comune pone dei quesiti sulla disciplina della denuncia di inizio attività, di cui agli articoli 22 e 23 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), in ordine ai quali si osserva quanto segue.
QUESITO N. 1
In considerazione del fatto che l‟art. 22, commi 3 e 7, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, consente all'interessato, per gli interventi edilizi ivi indicati, di presentare una denuncia di inizio attività (DIA) o di richiedere il permesso di costruire, si chiede se “in caso di opere eseguite non conformemente alla denuncia inizio attività o al permesso di costruire presentato”, gli adempimenti relativi all'accertamento dell'abuso “vanno riferiti ai tipo di domanda esistente (Permesso di costruire o DIA) o alla natura dell'intervento”.
Il Responsabile dell'Area tecnica del Comune ritiene che nell'accertamento delle opere difformi “debba essere fatto riferimento alla tipologia dell'intervento” e non al titolo abilitativo edilizio che si è richiesto ed ottenuto.
QUESITO N. 2
Alla luce di quanto stabilito dall'art. 23 del D.P.R. n. 380/2001, sulla disciplina della denuncia di inizio attività, e dagli attuali articoli 19 e 20 della legge 07.08.1990, n. 241, che non escludono dal proprio ambito di applicazione la materia urbanistica e che prevedono che nei casi in cui il silenzio dell'Amministrazione equivale all'accoglimento della domanda, questa possa assumere determinazioni in via di autotutela, si chiede se “il termine dei 30 giorni prima dell'effettivo inizio previsto dallo art. 23 del T.U.” “possa essere inferiore”, qualora il “Responsabile del competente ufficio comunale, concluda il proprio iter di verifica della denuncia inizio attività attestandone la correttezza della presentazione e la completezza dei documenti”.
Il Responsabile dell'Area tecnica del Comune ritiene che il termine dei 30 giorni previsto dall'art. 23 del D.P.R. n. 380/2001 sia da ritenere come un termine concesso all'Amministrazione “per le proprie valutazioni e l'eventuale notifica dell'ordine di non iniziare, qualora sia riscontrata l'assenza di una o più condizioni” e che pertanto, qualora il Responsabile del competente ufficio comunale, concluda prima di trenta giorni il proprio iter di verifica della denuncia inizio attività attestandone la correttezza della presentazione e la completezza dei documenti il richiedente possa procedere all'inizio delle opere anche prima che siano trascorsi 30 giorni dalla presentazione dell'istanza”.
QUESITO N. 3
Si chiede un parere in relazione ad un caso specifico, che viene illustrato nel quesito e che concerne l‟applicazione di quanto stabilito dall'art. 3, comma 1, lett. e 6), del D.P.R. n. 380/2001 sugli interventi pertinenziali da considerare come di “nuova costruzione”. (Regione Marche, parere 24.05.2007 n. 52/2007).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Pagamento del contributo di costruzione, ai sensi dell’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001, per il recupero di un edificio da destinare a residenza protetta e casa di riposo per anziani.
Il Comune chiede se “è necessario il pagamento del contributo di costruzione stabilito dall’art. 16 del D.P.R. 380/2001, per il recupero di un fabbricato esistente costruito come colonia climatica e da destinare a residenza protetta e casa di riposo per anziani, individuate nella L.R. 20/2002”.
A tal fine fa presente che il fabbricato “è stato costruito con regolare licenza edilizia in data 26.07.1964, come colonia climatica”, che è ad oggi inutilizzato e “ricade in una zona classificata dal vigente P.R.G. come “T” Turistica, le cui N.T.A. prevedono le destinazioni a carattere prevalentemente turistiche e ricettive” e che “il progetto presentato prevede il recupero del fabbricato esistente mediante l’esecuzione di opere interne, con modifica degli ambienti, rifacimento degli impianti tecnologici, nuovi ascensori per lettighe ed altre opere di finitura interne ed esterne al fine di utilizzare il fabbricato con le destinazioni sociali sopra riportate”.
Il Comune afferma infine che la richiesta di parere è motivata “dal fatto che ci sono dubbi se la diversa destinazione dei fabbricato prevista in progetto possa rientrare o meno, fra gli interventi di mutamento d’uso, con aumento degli standards, di cui alla L.R. 14/1986” (Regione Marche, parere 08.05.2007 n. 46/2007).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Pubblicazione dei rapporti e delle ordinanze di sospensione dei lavori per abusi edilizi a norma dell’art. 31, comma 7, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (già art. 7, settimo comma, della legge n. 47/1985).
Il Comune ha inviato a questo Servizio copia dell’elenco dei dati relativi alle opere edilizie realizzate abusivamente nel territorio comunale nei mesi di novembre e dicembre 2006, oggetto dei rapporti degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, che il Segretario comunale ha redatto ai sensi dell’art. 31, comma 7, del D.P.R. n. 380/2001 (già art. 7, settimo comma, della legge n. 47/1985) (Regione Marche, parere 22.01.2007 n. 25/2007).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Parcheggi pubblici ai sensi del DM n. 1444/1968.
Il Direttore generale del Consorzio per la industrializzazione delle valli del Tronto, dell’Aso e del Tesino (Piceno Consind) chiede se possono essere considerati parcheggi pubblici, ai sensi dell’art. 5 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, anche i parcheggi interrati e in elevazione e, in tal caso, se “deve essere ceduta all’ente pubblico, dal soggetto proprietario, anche la relativa area di sedime (proiezione sul piano di campagna), qualora la stessa non sia destinata a standard pubblico” (Regione Marche, parere 03.11.2006 n. 9/2006).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: interpretazione dell’art. 167 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, come sostituito dall’art. 27 del D.Lgs. 24.03.2006, n. 157.
Il Comune osserva che il D.Lgs. 24.03.2006, n. 157 “ha introdotto rilevanti modifiche all’art. 167 del Codice Urbani, in particolare per quanto riguarda la possibilità di sanare i piccoli abusi”, prevedendo che “in luogo dell’ordine di rimessione in pristino” possa essere consentito al soggetto interessato di chiedere all’autorità di tutela l’accertamento della compatibilità paesaggistica dell’intervento che ha effettuato nelle ipotesi indicate al comma 4.
A tal fine chiede una interpretazione circa la classificazione dei lavori “che non abbiano determinato creazioni dì superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati” ai quali fa riferimento la lettera a) del comma 4 del nuovo testo dell’art. 167, “in rapporto alla classificazione di cui all’art. 3 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380”.
Il Comune rileva infatti che da una sommaria lettura della norma “i lavori che non determinano creazioni di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati possono essere classificati sia come interventi di restauro e risanamento conservativo che di ristrutturazione” anche se “non espressamente citati dal legislatore nello stesso comma alla lettera c)” (Regione Marche, parere 26.10.2006 n. 8/2006).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Realizzazione postazione di emergenza “118” e nuovo complesso da adibire a sede operativa della pubblica assistenza “AVIS” del Comune, Classificazione dell’intervento ai sensi dell’art. 16, comma 8, del DPR n. 380/2001.
Il Comune fa presente che “l’associazione pubblica assistenza AVIS del Comune” ha richiesto il rilascio del permesso di costruire per la “costruzione di un edificio destinato alla postazione di emergenza 118 e alla sede operativa della associazione”, nel quale sono previsti “sia il deposito dei mezzi a disposizione dell’associazione (autoambulanze, macchine, ecc,) sia sale per i corsi con relativi servizi igienici e camera da letto per gli operatori che svolgono il servizio 118”.
A tal proposito fa notare che “l’associazione è iscritta nel Registro regionale del volontariato, ai sensi dell’art. 6 della L. 266/1991 nel settore sanità e a seguito del decreto di riforma di cui al D.lgs. 460/1997, che ha istituito la figura delle ONLUS, è considerata ex lege una ONLUS di diritto (art. 10, comma 8)”. Precisa infine che “l’attività istituzionale dell’associazione è configurata nel trasporto infermi, ammalati e feriti con mezzi sanitari (autoambulanze) in centri specializzati per cure e terapie (dialisi, chemioterapia, ecc.) integrazione del carente servizio effettuato dalla ASL di competenza per territorio (compreso il servizio 118)”.
Il Comune rileva che “il progetto presentato è funzionale alle attività svolte dall’associazione” e ritiene pertanto che “l’intervento può essere classificato come opera di urbanizzazione secondaria in quanto attrezzatura sanitaria ai sensi dell’art. 16, comma 8, del D.P.R. 380/2001”, Chiede quindi se tale valutazione “può considerarsi corretta ai fini del rilascio del permesso di costruire” (Regione Marche, parere 21.08.2006 n. 7/2006).

URBANISTICA: OGGETTO: Richiesta di chiarimenti sulla durata di un P.P.E..
Il Presidente dell’Ordine degli Ingegneri della provincia di Ascoli Piceno ha trasmesso a questo Servizio, con preghiera di avere un parere in merito, un quesito sull’applicazione dell’art. 17, primo comma, della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, secondo il quale “decorso il termine stabilito per la esecuzione del piano particolareggiato questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l’obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso” (Regione Marche, parere 08.08.2006 n. 4/2006).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Comune di Osimo (AN) - Realizzazione di un impianto di distribuzione G.P.L. per autotrazione in zona verde agricolo con attività produttive (art. 26 delle N.T.A. del P.R.G.) (Regione Marche, parere 27.11.1992 n. 516 di prot.)

NEWS

ENTI LOCALIDECRETO SALVA ENTI/ Non soltanto sindaci, presidenti e assessori nel mirino del dl. La tagliola anche sui revisori. Niente incarichi per 10 anni a chi contribuisce al dissesto.
Anche i revisori che contribuiranno al dissesto degli enti sui quali avrebbero dovuto vigilare incapperanno in pesanti conseguenze, che nei casi estremi potranno arrivare a un divieto decennale di assumere nuovi incarichi.
Non ci sono solo sindaci, presidenti e assessori nel mirino delle misure anti-dissesto varate dal governo nel decreto sulla finanza locale.
Certo, a fare notizia sono soprattutto le sanzioni previste per i politici, ma la mannaia potrebbe colpire duro anche i professionisti.
Qualora, infatti, a seguito della dichiarazione di dissesto, la Corte dei conti accerti gravi responsabilità nello svolgimento dell'attività del collegio dei revisori, o ritardata o mancata comunicazione, secondo le normative vigenti, delle informazioni, i relativi componenti riconosciuti responsabili in sede di giudizio contabile non potranno più essere nominati nel collegio dei revisori degli enti locali e degli enti e organismi agli stessi riconducibili fino a dieci anni, in funzione della gravità accertata.
La Corte dei conti, inoltre, trasmetterà l'esito dell'accertamento anche all'ordine professionale di appartenenza per valutazioni inerenti all'eventuale avvio di procedimenti disciplinari, nonché al ministero dell'interno per la conseguente sospensione dall'elenco di cui all'articolo 16, comma 25, del dl 138/2011. Ai revisori distratti, infine, le sezioni giurisdizionali regionali della magistratura contabile potranno irrogare una sanzione pecuniaria pari a un minimo di cinque e fino a un massimo di 20 volte la retribuzione dovuta al momento di commissione della violazione.
Sanzioni analoghe colpiranno i politici che verranno riconosciuti dalla Corte dei conti, anche in primo grado, responsabili di aver contribuito con condotte, dolose o gravemente colpose, sia omissive che commissive, al verificarsi del dissesto. Essi non potranno ricoprire, per un periodo di dieci anni, incarichi di assessore, di revisore dei conti di enti locali e di rappresentante di enti locali presso altri enti, istituzioni e organismi pubblici e privati.
I sindaci e i presidenti di provincia, inoltre, non saranno candidabili, per un periodo di dieci anni, alle cariche di sindaco, di presidente di provincia, di presidente di Giunta regionale, nonché di membro dei consigli comunali, dei consigli provinciali, delle assemblee e dei consigli regionali, del Parlamento e del Parlamento europeo. Essi non potranno neppure ricoprire per un periodo di tempo di dieci anni la carica di assessore comunale, provinciale o regionale, né alcuna carica in enti vigilati o partecipati da enti pubblici. Anche per loro, infine, è prevista una sanzione pecuniaria pari a un minimo di cinque e fino a un massimo di 20 volte la retribuzione dovuta al momento di commissione della violazione.
A ben vedere, misure analoghe erano già contenute nel decreto «premi e sanzioni» (dlgs 149/2011), adottato nell'ambito del federalismo fiscale.
Le nuove disposizioni, tuttavia, si inseriscono in un contesto normativo decisamente cambiato. Il legislatore, infatti, ha previsto nuovi strumenti volti a prevenire l'emersione di nuovi casi di dissesto. In particolare, verrà attivato un fondo rotativo a favore degli enti locali alle prese con gravi criticità finanziarie, purché si impegnino a definire un rigoroso piano pluriennale di riequilibrio, da implementare sotto la stretta vigilanza di Viminale e (soprattutto) della magistratura contabile.
Il piano dovrà essere accompagnato da un parere dell'organo di revisione economico-finanziaria.
L'introduzione di simili meccanismi, ovviamente, non potrà che aggravare la posizione di coloro che (amministratori o revisori) continueranno a chiudere gli occhi sulle problematiche contabili e finanziarie più rilevanti, nel momento in cui queste esploderanno, come recentemente avvenuto in non pochi comuni. In tali casi, il rischio di incappare nelle pesanti sanzioni sopra ricordate diventa sempre più elevato
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Regioni, controlli più duri che in comune.
Si stringe la morsa intorno alle regioni, che vengono a assoggettate ad obblighi e controlli persino più stringenti di quelli imposti agli enti locali.
Il dl approvato dal governo rafforza decisamente le prerogative della Corte dei conti e impone una dieta sostanzialmente obbligatoria per i costi della politica, con il recupero delle misure già previste dal dl 138/2011 (quasi tutte rimaste inattuale malgrado una pronuncia favorevole della Consulta) e la previsione di ulteriori potature.
I controlli
Sul primo versante, viene reintrodotto il controllo preventivo di legittimità sui principali atti regionali di spesa, affidandolo alle sezione regionali di controllo della magistratura contabile. Ma soprattutto, si prevede che queste ultime verifichino ex ante l'attendibilità dei bilanci di previsione proposti dalle giunte ai consigli, in relazione alla salvaguardia degli equilibri contabili, al rispetto del Patto di stabilità interno e alla sostenibilità dell'indebitamento. Qualora siano accertati comportamenti difformi dalla sana gestione finanziaria o il mancato rispetto degli obiettivi di Patto, le sezioni regionali adottano specifica pronuncia e vigilano sull'adozione, da parte della regione, delle necessarie misure correttive e sul rispetto dei vincoli e limitazioni ad essa imposte. A completare il cerchio, viene disposto che i rendiconti generali delle regioni siano sottoposti a giudizio di parifica con modalità analoghe a quelle previste per il bilancio consuntivo statale.
Previsti, poi, controlli semestrali, rispettivamente, sulla tipologia delle coperture finanziarie adottate dalle leggi regionali, sulla legittimità e regolarità delle gestioni, nonché sul funzionamento dei controlli interni.
Laddove vengano accertati casi di squilibri economico-finanziari, mancata copertura di spese o in generale violazioni di norme a tutela della sana gestione, scatta l'obbligo per le regioni di adottare, entro 60 giorni, gli opportuni provvedimenti. Nel frattempo, è preclusa l'attuazione dei programmi di spesa oggetto di rilievi.
L'occhio della Corte dei conti viene puntato anche sulle assemblee e sui gruppi consiliari, che dovranno trasmettere alle Sezioni Riunite un rendiconto annuale che attesti (attraverso l'allegazione dei relativi giustificativi) il regolare utilizzo dei finanziamenti ricevuti. Le eventuali irregolarità dovranno essere sanate entro un termine perentorio, a pena di decadenza dal diritto all'erogazione (che fa scattare anche l'obbligo di restituire le somme ricevute). Idem in caso di ritardo, inadempimento o di violazioni palesi.
I costi della politica
A quanto già previsto dall'art. 14 del dl 138, si aggiungono nuovi obblighi (si veda la tabella).
Questa volta, però, il legislatore sceglie una strada diversa dal passato per garantire che tali misure vengano recepire dalle regioni. Oltre a fissare a queste ultime un termine (30.11.2012, ovvero entro 6 mesi dalla data di entrata in vigore del dl, laddove sia necessario modificare lo statuto), esso ha previsto che una quota dei trasferimenti erariali a favore dei governatori (l'80% di quelli non destinati a sanità e tpl e il 5% di quelli che finanziano il Ssn) sarà riservata a chi farà i compiti a casa. Gli atri resteranno a secco, ma non solo: alle regioni inadempienti verrà fissato un termine di 90 giorni per provvedere, decorso il quale potrà essere disposto lo scioglimento del consiglio regionale ai sensi dell'art. 126 Cost.
Tali disposizioni, si cura di precisare la norma, vale anche per le regioni speciali (sia pure con le modalità di cui all'art. 27 della l. 42/2009), nonché per quelle nelle quali il presidente «abbia presentato le dimissioni» ovvero si debba andare ad elezioni (vedi Lazio). In tal caso, i termini decorrono dall'insediamento dei nuovi consigli (articolo ItaliaOggi del 06.10.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIDECRETO SALVA ENTI/ Comuni, il controllato è controllore. Il dirigente sarà chiamato a dare un parere sui propri atti. Visto di regolarità contabile e copertura finanziaria ex ante.
Un'invasione di burocrazia, con limitati effetti concreti. Il «nuovo» sistema dei controlli interni previsto dal decreto sulla finanza e il funzionamento degli enti locali suscita più di una perplessità sul piano del funzionamento pratico.
Ne costituisce esempio concreto il principale tra i controlli disciplinati, quello di regolarità amministrativa e contabile, che più si avvicina alla tipologia dei controlli preventivi di legittimità troppo disinvoltamente a suo tempo aboliti dalle riforme Bassanini.
Tale tipologia di controllo, prevede il nuovo articolo 147-bis del dlgs 267/2000 va svolto, dispone la norma, «nella fase preventiva della formazione dell'atto, da ogni responsabile di servizio ed è esercitato attraverso il rilascio del parere di regolarità tecnica attestante la regolarità e la correttezza dell'azione amministrativa».
La norma è scritta come se vi fosse alterità tra il soggetto che adotta i provvedimenti amministrativi ed il responsabile di servizio, chiamato a controllarli. È un errore di prospettiva e di concezione del procedimento di formazione delle determine.
La maggior parte dei provvedimenti decisionali degli enti locali sono le determine, adottate dal dirigente o dal responsabile di servizio, cioè il medesimo soggetto che il regime dei controlli chiama ad esprimere un parere, paradossalmente rivolto, nella sostanza, a se stesso.
Il controllo di regolarità amministrativa è sempre stato da considerare insito nella stessa sottoscrizione del provvedimento da parte del vertice amministrativo, che nel momento in cui lo sottoscrive lo adotta, implicitamente dichiarandolo regolare.
Di fatto, dunque, il parere diviene un passaggio burocratico in più, da gestire in una fase precedente la materiale adozione del provvedimento, che andrà regolamentata con una proposta di provvedimento o una relazione istruttoria, ai sensi dell'articolo 6, comma 1, lettera e), della legge 241/1990.
L'articolo assegna anche al responsabile del servizio finanziario un ruolo rilevante nel controllo di regolarità amministrativa, confermando che esso vada esercitato «attraverso il rilascio del parere di regolarità contabile e del visto attestante la copertura finanziaria», ma stabilendo che tale parere vada rilasciato a sua volta nella fase preventiva all'adozione dell'atto. Mentre sin qui, al contrario, il visto del responsabile è sempre intervenuto successivamente alla fase di formazione, anche allo scopo di attribuire al provvedimento di spesa l'efficacia.
Un bel bailamme, involontariamente, tuttavia, coordinabile, almeno per quanto riguarda le determinazioni a contrattare precedenti la stipulazione dei contratti, con le previsioni dell'articolo 18 della legge 134/2012, che rimette l'efficacia concreta del titolo giuridico per erogare legittimamente somme ai contraenti la pubblicazione sul sito delle amministrazioni dei dati previsti dal medesimo articolo 18. Il quale, dunque, aveva già indirettamente privato il visto del responsabile del servizio finanziario della piena efficacia.
Il sistema, in ogni caso, assegna al responsabile dei servizi finanziari funzioni di controllo di particolare rilievo. Tale soggetto sarà chiamato in causa per il consolidamento dei conti dell'ente con le società partecipate, ma, soprattutto sarà diretto protagonista del controllo degli equilibri finanziari, fondamentale per il rispetto dei vincoli di pareggio del bilancio statale (al quale gli enti locali concorreranno).
Proprio con riferimento al responsabile dei servizi finanziari, la riforma al dlgs operata dal decreto introduce una sorta di forma di «garanzia» nella permanenza delle funzioni, ma limitatamente agli enti privi di dirigenza. Un rimedio allo spoils system troppo limitato per essere considerato davvero efficace (articolo ItaliaOggi del 06.10.2012 - link a www.ecostampa.it).

APPALTI SERVIZIDECRETO CRESCITA/ Utility con affidamenti a tempo. Termine entro il 2020 a meno di scadenze precedenti. Approvate nuove regole sulla gestione del servizio pubblico locale.
Gli affidamenti diretti di servizi pubblici locali disposti prima dell'01.10.2003 termineranno entro il 2020, salvo che non siano previste scadenze precedenti; se un ente locale decide di procedere con affidamento diretto per la gestione di un servizio pubblico ha l'obbligo di pubblicare sul sito internet le ragioni della scelta e la sussistenza dei presupposti.
Sono questi alcuni dei contenuti delle norme del decreto-legge sulla crescita varato dal Consiglio dei ministri di giovedì in materia di servizi pubblici locali Si tratta dei commi da 13 a 16 dell'articolo 34 che si pongono l'obiettivo, in questo nuovo intervento sulla materia, di assicurare il rispetto del diritto comunitario, sotto il profilo della concorrenza e della tutela del mercato e di introdurre ulteriori elementi di trasparenza.
In particolare il comma 13 riguarda i servizi pubblici locali di rilevanza economica e prevede in primo luogo che gli enti competenti predispongano e rendano pubblica sul sito istituzionale una relazione che spieghi le ragioni e la sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento comunitario in ordine alla scelta dell'affidamento individuato per la gestione del servizio. L'obbligo di rendere pubblica la relazione viene messo in rapporto alla necessità di assicurare la trasparenza delle scelte di affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, il rispetto delle regole europee per il mercato interno e la concorrenza ovvero la sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento europeo per l'affidamento diretto, implicitamente recependo anche le indicazioni della recente sentenza della Corte costituzionale (la 119 di quest'anno).
Non si tratta di una particolare novità, dal momento che tutti i provvedimenti amministrativi devono essere ovviamente motivati in rapporto ai vincoli normativi previsti dalla disciplina nella quale si collocano; semmai la novità è rappresentata dal fatto che la relazione sia resa pubblica sul sito internet dell'ente. Gli enti locali sono destinatari di un divieto generale di istituire organismi, aziende ed enti comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica, che esercitino una o più funzioni fondamentali e funzioni amministrative attribuite ai sensi dell'art. 118 della Costituzione.
Diversi i tempi per la pubblicazione della relazione: per gli affidamenti in essere, entro il 31.12.2013; per gli affidamenti per i quali non è prevista una data di scadenza, gli enti competenti provvedono contestualmente ad inserire nel contratto di servizio o negli altri atti che regolano il rapporto un termine di scadenza dell'affidamento, pena la cessazione dell'affidamento medesimo alla data del 31.12.2013.
Viene poi fissata alla fine del 2020 (salvo data anteriore a fine 2020), la data limite per la cessazione degli affidamenti diretti assentiti alla data del primo ottobre 2003 a società a partecipazione pubblica già quotate in borsa a tale data, e a quelle da esse controllate ai sensi dell'articolo 2359 del codice civile, laddove non sia prevista una data di scadenza In altre parole è come se si prevedesse l'obbligo di inserire la scadenza del 2020 nei contratti affidati prima del 2003 che non prevedono alcuna scadenza.
Infine il comma 16 dell'articolo 34 del decreto-legge prevede un intervento sul comma 1 dell'articolo 3-bis del decreto legge 13.08.2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14.09.2011, n. 148, e successive modificazioni,
La norma sulla quale si interviene è quella che stabilisce che i servizi pubblici locali di rilevanza economica abbiamo come territorio di riferimento bacini ottimali e omogenei tali da consentire economie di scala e di differenziazione idonee a massimizzare l'efficienza del servizio.
La novella apportata dal decreto chiarisce che anche “le procedure per il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica sono effettuate unicamente per ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei e che tale onere spetta agli enti di governo istituiti o designati dalla regioni o province le quali, a loro volta, hanno definito «il perimetro» degli ambiti e i bacini ottimali".
La norma, in sostanza, in coerenza con la necessità di favorire le unioni fra enti locali per la gestione dei servizi pubblici, rende applicabile il riferimento ai bacini ottimali per tutte le fasi procedurali, dall'individuazione dei bacini ad opera della regioni, alla programmazione, alle procedure di affidamento e alla gestione del servizio (articolo ItaliaOggi del 06.10.2012 - link a www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGOResponsabilità per il dirigente che non usa strumenti informatici.
Un nuovo carico di responsabilità per i dirigenti pubblici. Il decreto sviluppo-bis allo scopo di assicurare la completa attuazione della digitalizzazione della pubblica amministrazione introduce specifiche sanzioni a carico dei dirigenti che non operino in modo da estendere gli strumenti informatici.
Una prima tipologia di responsabilità è connessa alle modalità di trasmissione dei documenti attraverso la posta elettronica tra le pubbliche amministrazioni.
Il decreto prevede ipotesi di responsabilità dirigenziale e disciplinare nei confronti dei dirigenti, nel caso in cui si violi il disposto dell'articolo 47, comma 1, del dlgs 82/2005. Tale norma dispone che «le comunicazioni di documenti tra le pubbliche amministrazioni avvengono mediante l'utilizzo della posta elettronica o in cooperazione applicativa; esse sono valide ai fini del procedimento amministrativo una volta che ne sia verificata la provenienza».
Compito specifico della dirigenza, dunque, è organizzare gli uffici in modo che si prestino a gestire le comunicazioni con cittadini ed imprese senza più impedimenti. Lo strumento della posta elettronica certificata, in particolare, deve essere quello privilegiato.
La responsabilità a carico dei dirigenti è, tuttavia, piuttosto delicata e al limite delle caratteristiche della responsabilità oggettiva. È evidente, infatti, che la dirigenza potrà assicurare la piena operatività delle comunicazioni online solo ricorrendo una serie di condizioni. In particolare, occorre ovviamente che gli enti abbiano correttamente predisposto gli strumenti telematici necessari. La responsabilità dirigenziale scatta laddove non si assicuri ai dipendenti la necessaria formazione sull'utilizzo di questi strumenti e non vengano adottate chiare e specifiche direttive operative, per iscritto, finalizzate all'attuazione della norma, come ad esempio la previsione del divieto assoluto di inviare documenti ad altre pubbliche amministrazioni se non mediante gli strumenti telematici.
Simmetriche responsabilità, sempre di tipo «dirigenziale» (dunque connessa alla valutazione e alla retribuzione di risultato) e di carattere disciplinare deriva dalla mancata attivazione del procedimento amministrativo in conseguenza della ricezione di istanze telematiche.
Da tempo la legislazione ha preso la strada di favorire la comunicazione telematica con le pubbliche amministrazione. Non bisogna nascondere che non di rado proprio le strutture amministrative costituiscano un ostacolo alla piena esplicazione delle comunicazioni telematiche, in quanto gli uffici non vengono organizzati in modo corretto.
Per questo, il decreto sviluppo-bis stabilisce che «il mancato avvio del procedimento da parte del titolare dell'ufficio competente a seguito di istanza o dichiarazione inviate» con gli strumenti digitali fa scattare le responsabilità evidenziate sopra.
La norma, dunque, introduce l'obbligo di avviare i procedimenti amministrativi laddove i cittadini e le imprese, chiamate, per altro, dal decreto sviluppo a dotarsi della posta elettronica certificata (che addirittura diverrà elemento delle schede della nuova anagrafe) o degli altri mezzi previsti.
Anche in questo caso, la responsabilità dei dirigenti, per non essere configurata come oggettiva, deve essere commisurata alla capacità delle strumentazioni in dotazione agli enti di dialogare mediante strumenti digitali.
Il protocollo informatico capace di registrare le istanze pervenute con strumenti digitali costituisce non tanto un dovere, ma anche solo un presupposto, affinché si attivino una volta e per sempre modalità di gestione dei procedimenti amministrativi di tipo informatico, che quanto meno siano in grado di gestire, se non tutte le fasi dell'iter, almeno quello dell'avvio del procedimento.
I dirigenti sono chiamati anche in questo caso ad aggiornare e formare i dipendenti addetti ai procedimenti amministrativi all'uso corretto degli strumenti e a impartire indicazioni di dettaglio, volte a un chiaro favore verso l'acquisizione senza alcun ostacolo alle comunicazioni mediante strumenti telematici, come presupposto per attivare i procedimenti (articolo ItaliaOggi del 06.10.2012 - link a www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - VARIDECRETO CRESCITA/ Le disposizioni sull'agenda digitale. Pec per le ditte individuali. Versamenti alla p.a., info via web. Iban e conti correnti nei siti. Per facilitare i pagamenti.
Iban e conti correnti nei siti delle p.a. per facilitare i pagamenti dei cittadini. Certificati di malattia dei bambini, ai fini della fruizione del congedo parentale, da inoltrare telematicamente. I cittadini potranno comunicare alla p.a. il proprio indirizzo di posta elettronica certificata, con cui potrà «interfacciarsi» con le altre amministrazioni pubbliche. Via libera al fascicolo degli studenti universitari. Conterrà i dati a partire dall'immatricolazione sino al conseguimento del titolo. Anche le imprese individuali dovranno dotarsi della Pec.
Questo in sintesi il pacchetto Agenda digitale contenuto nel decreto crescita entrato ieri all'esame del Consiglio dei ministri.
P.a. con l'Iban. Nei siti istituzionali delle p.a., ma anche in quelli di gestori di pubblici servizi che operano con utenti, dovranno essere indicati i codici Iban identificativi del conto di pagamento, ovvero i dati relativi al conto corrente postale cui i cittadini potranno effettuare i pagamenti mediante bollettino postale. Possibile altresì per le p.a. di avvalersi di prestatori di servizi di pagamento, da individuare attraverso Consip, cosicché i cittadini potranno effettuare i pagamenti con strumenti quali le carte di credito, di debito e le prepagate. Da queste previsioni restano espressamente escluse le operazioni di competenza delle Agenzie fiscali.
Domicilio digitale del cittadino. Ogni cittadino potrà comunicare alla pubblica amministrazione un proprio indirizzo di posta elettronica certificata, quale suo domicilio digitale. Tale indirizzo verrà inserito nell'anagrafe nazionale della popolazione residente e reso così disponibile a tutte le pubbliche amministrazioni e ai gestori di pubblici servizi. Un successivo decreto del Mininterno metterà nero su bianco le relative modalità di comunicazione. Il decreto prevede che, a partire dall'01/01/2013, la p.a. comunicherà con i cittadini esclusivamente attraverso il suo domicilio digitale, tranne i casi in cui la normativa vigente prevede una diversa modalità di comunicazione.
Fascicolo elettronico degli studenti. Dall'anno accademico 2013-2014, le università statali e non statali, legalmente riconosciute, sono tenute a costituire il fascicolo elettronico dello studente. Un documento che, nelle intenzioni dell'esecutivo, ridurrà i costi e migliorerà i servizi per gli stessi studenti. Il fascicolo conterrà tutte le informazioni della carriera universitaria, a partire dall'immatricolazione fino al conseguimento del titolo.
Libri digitali. Dall'anno scolastico 2013-2014, il collegio dei docenti dovrà adottare libri esclusivamente nella forma digitale o mista, costituita da un testo digitale o cartaceo e da supporti digitali integrativi. Per le scuole del primo ciclo, tale obbligo scatterà dal 2014. Il decreto prevede che le regioni e gli enti locali potranno stipulare convenzioni con il Miur, al fine di garantire l'offerta formativa nei confronti di nuclei familiari in situazioni svantaggiate. Tra queste, anche la possibilità di fornire attività didattiche attraverso strumenti di e-learning.
Fascicolo sanitario elettronico. Tutti i dati di tipo sanitario e socio sanitario saranno inseriti nel Fascicolo sanitario elettronico. Ad istituirlo penseranno le regioni, con fini di prevenzione, cura e diagnosi, ma anche di sorveglianza sanitaria e di valutazione dell'assistenza sanitaria.
Ricette elettroniche. Le regioni, entro sei mesi dall'entrata in vigore del decreto crescita, dovranno accelerare la conversione delle prescrizioni mediche in formato cartaceo con quelle elettroniche. Anzi, dal prossimo anno le percentuali e non dovranno essere inferiori al 60% del totale delle prescrizioni emesse. Rapporto che nel 2014 sale all'80% e al 90% nel 2015. Anche i medici dovranno adeguarsi a questi standard, pena l'applicazione di sanzioni disciplinari previste dall'articolo 55-septies del dlgs 165/2001.
Malattia bimbi online. Anche la certificazione di malattia necessaria al genitore per fruire dei congedi dovrà essere effettuata per via telematica, al pari di quanto oggi avviene per i lavoratori dipendenti dei settori pubblici e privati. Sarà il medico convenzionato Ssn a inoltrare l'istanza all'Inps e il lavoratore avrà l'obbligo, al momento della comunicazione di indicare le generalità del genitore che usufruirà di tale congedo.
Imprese individuali. Chi si iscrive al registro imprese, entro il 31 dicembre 2013 dovrà comunicare il proprio indirizzo Pec. In caso di inosservanza, iscrizione sospesa per tre mesi in attesa di regolarizzazione.
Bus e metro. Il biglietto si acquisterà anche via pc e smartphone.
Giustizia. Nei procedimenti civili, le comunicazioni e le notifiche saranno effettuate per via telematica. In particolare, le notifiche nei confronti dei soggetti per i quali la legge prevede l'obbligo di munirsi di un indirizzo Pec e che non abbiano ancora ottemperato a tali prescrizioni, saranno eseguite solo con il deposito in cancelleria (articolo ItaliaOggi del 05.10.2012).

LAVORI PUBBLICIDECRETO CRESCITA/ Project financing defiscalizzato. Alleggerimento per finanza di progetto superiore a 500 mln. Misura per le opere da realizzare e per quelle già programmate.
Defiscalizzazione per le nuove opere da realizzare in finanza di progetto di valore superiore a 500 milioni e per le opere già programmate, in corso di realizzazione o in gestione, se il piano economico-finanziario non è in equilibrio; 400 milioni per i pagamenti dei debiti Anas per appalti di lavori e forniture; attribuzione delle funzioni dalla soppressa Agenzia stare e autostrade al ministero delle infrastrutture; previste risorse per i comuni attraversati dalla Livorno - Civitavecchia.
È quanto prevede per le infrastrutture la bozza di decreto-legge sulla crescita approvato ieri in consiglio dei ministri.
Defiscalizzazione per infrastrutture in finanza di progetto. Il decreto legge da il via libera alla defiscalizzazione, a favore del soggetto realizzatore in partenariato pubblico privato di nuove opere pubbliche infrastrutturali di importo superiore a 500 milioni di euro per le quali non siano previsti contributi pubblici a fondo perduto e per le quali sia certa la non sostenibilità del piano economico finanziario. Si tratta di un credito di imposta a valere sull'Ires e sull'Irap direttamente generate dalla costruzione e gestione dell'opera, nel limite del 50% del costo dell'investimento, che dovrebbe consentire il riequilibrio del Pef.
Sarà possibile utilizzare questa misura sia per la fase della costruzione dell'opera, sia in alcun casi, anche per la gestione dell'opera stessa. Il credito di imposta è posto a base di gara per l'individuazione dell'affidatario del contratto di partenariato pubblico privato e successivamente riportate nel contratto. L'ammissibilità dei benefici richiesti avviene a valle della verifica da parte del Cipe -su proposta del ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il ministro dell'economia e delle finanze. La valutazione riguarda la capacità dei piani economico-finanziari, proprio per effetto del credito di imposta, di conseguire, anche attraverso il mercato, la sostenibilità necessaria per la realizzabilità degli obiettivi programmati.
La defiscalizzazione sarà possibile anche per le opere già affidate già programmate, affidate o in corso di affidamento, il cui piano economico finanziario non sia più in equilibrio. Il governo stima che la misura possa interessare la Brebemi, la Pedemontana lombarda e veneta, l'Autostrada tirrenica, il Porto di Ancona e la Strada dei parchi.
Pagamenti appalti Anas. Il decreto legge affronta il tema, più volte denunciato in queste ultime settimane anche dall'Ance, delle difficoltà finanziarie di Anas, soprattutto per quel che concerne l'esposizione debitoria nei confronti delle imprese. Si interviene consentendo di utilizzare, in via transitoria e a titolo di anticipazione, 400 milioni di euro a valere sulle risorse del Fondo centrale di garanzia per provvedere al pagamento di lavori e forniture già eseguite. In un'altra norma si fa anche in modo che siano destinate a Anas altri 100 milioni per le esigenze relative ai contratti di programma 2010 e 2011, nelle more del completamento delle procedure contabili.
Funzioni della soppressa Agenzia nazionale strade e autostrade. Il decreto legge si occupa anche di risolvere il problema delle attribuzioni di funzioni che erano state affidate all'Agenzia strade e autostrade che, dal 30.09.2012, è soppressa ex lege a causa della mancata nomina dei commissari.
Scaduto il termine occorreva quindi consentire l'effettiva operatività del trasferimento delle funzioni di concedente della rete stradale e autostradale di interesse nazionale da parte di Anas, prevedendo che unitamente alle predette funzioni transitino nell'amministrazione (ministero delle infrastrutture), oltre alle risorse strumentali, umane e finanziarie relative a Ivca (struttura di Anas deputata a compiti di ispezione e vigilanza sulle concessionarie autostradali), anche le risorse delle strutture di Anas attualmente impiegate nelle funzioni proprie del concedente che consistono in compiti e attività ulteriori rispetto a quelli di vigilanza.
Si tratta, fra le altre, delle funzioni concernenti la selezione dei concessionari, l'approvazione dei progetti relativi ai lavori inerenti la rete stradale ed autostradale di interesse nazionale, la proposta di programmazione del progressivo miglioramento e adeguamento della rete delle strade e delle autostrade statali; le proposte sulla regolazioni e variazioni tariffarie per le concessioni autostradali.
Autostrada Livorno-Civitavecchia. Al fine di reperire risorse da destinare ai comuni che verranno attraversati dalla nuova infrastruttura autostradale in corso di progettazione di realizzazione (per agevolazioni tariffarie ai residenti), il decreto-legge stabilisce che per i primi dieci anni di gestione della nuova tratta Cecina - Civitavecchia si proceda a un trasferimento alla Regione Toscana di una quota fino al 75% del canone annuo versato dal concessionario (pari al 2,4% dei proventi netti da pedaggio). Dovrebbe trattarsi di circa 15 milioni l'anno per dieci anni dal momento che il piano economico finanziario stima proventi per 20 milioni annui (articolo ItaliaOggi del 05.10.2012).

ENTI LOCALIDECRETO SALVA ENTI/ Il governo imbriglia le regioni. Chi non taglia i costi della politica perderà l'80% dei fondi. Tornano i controlli preventivi di legittimità e si rafforzano quelli interni.
Rafforzamento dei controlli interni negli enti locali e ritorno dei controlli preventivi di legittimità sugli atti delle regioni.
È un accerchiamento a tenaglia quello che il governo intende realizzare con il decreto legge sulla trasparenza e la riduzione dei costi degli apparati politici regionali approvato ieri, per evitare il ripetersi di casi di corruzione e malaffare come quello che ha travolto la regione Lazio.
Con argomenti che si annunciano molto «dissuasivi» per le regioni che non accetteranno di ridurre i costi della politica. Perderà il 5% dei fondi destinati alla sanità e l'80% di tutti gli altri finanziamenti (non saranno toccati invece i contributi al trasporto pubblico locale) chi entro sei mesi non avrà: ridotto il numero dei consiglieri, introdotto il divieto di cumulo di indennità e emolumenti, imposto la partecipazione gratuita alle commissioni, pubblicizzato i redditi dei politici regionali e soprattutto adeguato i contributi ai gruppi consiliari e le indennità di funzione e di carica a quelli della regione più virtuosa (che dovrà essere individuata entro fine ottobre).
Nel caso in cui l'inadempienza persista è prevista una diffida da parte del Governo e la successiva procedura per lo scioglimento del consiglio. Stretta anche su pensioni e vitalizi. Potranno essere erogati agli ex governatori, consiglieri e assessori solo se hanno compiuto 65 anni di età e ricoperto le cariche per non meno di 15 anni (non continuativi).
Il taglio del numero di consiglieri e assessori regionali dovrà essere realizzato entro 6 mesi dall'entrata in vigore del provvedimento, ad esclusione delle regioni in cui è prevista una tornata elettorale (per le quali il limite verrà applicato dopo le elezioni). Il decreto obbliga anche le regioni ad attenersi alle regole statali in materia di riduzione di consulenze e convegni, auto blu, sponsorizzazioni, compensi degli amministratori delle società partecipate, ecc.
Passando dai costi della politica al controllo finanziario, si segnala, come detto, una vera e propria entrata a gamba tesa della Corte dei conti sull'autonomia regionale. Saranno sottoposti al controllo preventivo di legittimità dei giudici contabili il piano di riparto delle risorse ai dirigenti titolari di centri di costo e tutti gli atti emanati dal governo regionale aventi rilevanza esterna e riflessi finanziari. Le regioni a statuto speciale e le province autonome non potranno sfuggire alla stretta dovendo recepire le novità del decreto legge entro sei mesi.
La Corte dei conti inoltre controllerà l'attendibilità dei bilanci di previsione regionali. Le proposte di preventivi dovranno essere trasmesse alle sezioni regionali che avranno 20 giorni di tempo per verificare che non mettano in pericolo gli equilibri di bilancio, il rispetto del patto di stabilità e la sostenibilità dell'indebitamento. Qualora la Corte accerti spese senza copertura, le regioni dovranno rimediare entro 60 giorni. Nel frattempo non potranno dare seguito alle spese.
Province e comuni. Negli enti locali si rafforzano invece i controlli interni. Su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla giunta e al consiglio dovrà essere richiesto il parere del responsabile del servizio e del responsabile di ragioneria qualora comporti riflessi economico-finanziari. La norma fa parte di un corposo pacchetto di disposizioni contenute nella Carta delle autonomie da tempo ferma su un binario morto al senato. Il governo Monti ha deciso di estrapolarle dal testo e inserirle nel decreto legge per renderle immediatamente operative. Del pacchetto fanno parte anche l'introduzione del controllo strategico per la verifica dello stato di attuazione dei programmi e l'obbligo del controllo sulle società partecipate.
Ma nemmeno le amministrazioni locali saranno immuni dai controlli della Corte conti. Ogni tre mesi i giudici dovranno verificare la regolarità delle gestioni e il funzionamento dei controlli interni ai fini del rispetto del pareggio di bilancio.
Confermata l'ulteriore stretta sui conti dei comuni anticipata ieri da ItaliaOggi. Gli enti che utilizzano entrate a specifica destinazione o chiedono ai propri tesorieri anticipazioni di cassa non potranno utilizzare gli avanzi di amministrazione. E dovranno iscrivere in bilancio un fondo di riserva per far fronte a spese non prevedibili più sostanzioso rispetto ad oggi. Perché il limite minimo del fondo da inserire nel preventivo passerà dall'attuale 0,30 allo 0,45% del totale delle spese correnti.
Non solo incandidabilità per chi porta gli enti al dissesto. Gli amministratori locali riconosciuti responsabili dalla Corte conti di aver portato gli enti al dissesto con dolo o colpa grave (conteranno anche le condotte omissive) non potranno ricandidarsi per 10 anni. E non è una novità perché la norma è già prevista nel decreto legislativo su premi e sanzioni (dlgs n. 149/2011) attuativo del federalismo fiscale. Ciò che cambia invece è che, oltre a restare a casa, il politico sprecone, se riconosciuto responsabile del default, dovrà pagare una multa che andrà da un minimo di 5 fino a un massimo di 20 volte la retribuzione percepite al momento della violazione.
Sterilizzati i tagli della spending review. Come anticipato da ItaliaOggi (si veda il numero del 3/10/2012) sui comuni non si abbatteranno più le decurtazioni «cieche» del fondo di riequilibrio (pari in totale a 500 milioni per quest'anno, 2 miliardi nel 2013 e 2014 e 2,1 miliardi dal 2015) previste dalla spending review. Le amministrazioni eviteranno i tagli ma saranno obbligate a dirottare una cifra di pari importo sulla riduzione del livello di indebitamento. In pratica dovranno alleggerire la propria esposizione in mutui e prestiti.
Riscossione. Il provvedimento intervenendo sul tema dell'attività di gestione e riscossione delle entrate degli enti territoriali, ne annuncia una prossima riforma. Per favorirla viene sostanzialmente stabilito il mantenimento dell'attuale assetto (e quindi sostanzialmente la presenza di Equitalia), ma non oltre il 30.06.2013.
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L'analisi/ Riforma giusta, ma va cambiata la Costituzione.
Un sistema di controlli a forte sospetto di illegittimità costituzionale. Il ddl sugli equilibri finanziari degli enti locali punta alla reintroduzione dei controlli preventivi di regolarità amministrativa (in parte coincidenti con i vecchi controlli di legittimità) scriteriatamente aboliti dalle leggi-Bassanini, ma realizza un ibrido poco convincente sul piano degli assetti istituzionali, nonché della concreta efficacia.
Da un lato, il disegno di legge estrapola dalla bozza di «Carta delle autonomie» ancora giacente in Parlamento il Capo relativo ai controlli interni e dall'altro lo arricchisce con una disposizione relativa a controlli trimestrali della Corte dei conti.
Già di per sé la scelta di anticipare per decretazione d'urgenza una riforma che interessa autonomie costituzionalmente garantite come quelle locali suscita più di una perplessità. La sede propria per una riforma dell'ordinamento locale è una norma organica, di iniziativa parlamentare.
In ogni caso, l'assegnazione alla Corte dei conti di un sostanziale ruolo di controllore esterno si coordina con estrema difficoltà con l'attuale assetto del Titolo V della Costituzione. Non si può fare a meno di evidenziare che la legge costituzionale 3/2001 ha abolito l'articolo 130 della Costituzione, che precedeva espressamente controlli preventivi sugli atti di regioni ed enti locali operati da organi esterni.
Pensare a reintrodurre i controlli è certamente meritorio e necessario. Ma, a questo scopo, onde evitare qualsiasi rischio di illegittimità costituzionale, sarebbe altrettanto necessario modificare la Costituzione stessa, in modo che essa ponga direttamente la possibilità di controlli affidati a soggetti esterni.
Si può obiettare che il disegno di legge non assegna alla Corte dei conti compiti di controllo preventivo. In effetti, si prevede che «il sindaco, relativamente ai comuni con popolazione superiore ai 5.000 abitanti, o il Presidente della provincia, avvalendosi del direttore generale, quando presente, o del segretario negli enti in cui non è prevista la figura del direttore generale, trasmette trimestralmente alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti un referto sulla regolarità della gestione e sull'efficacia e sull'adeguatezza del sistema dei controlli interni adottato, sulla base delle Linee guida deliberate dalla Sezione delle autonomie della Corte dei conti; il referto è altresì inviato al presidente del consiglio comunale o provinciale». La magistratura contabile si pronuncia entro 15 giorni su tale documentazione.
Per quanto non si tratti di controllo preventivo sui singoli atti, in ogni caso l'ingerenza pervasiva della Corte dei conti è forte ed evidente. Non si tratta più del solo «controllo collaborativo» previsto dall'articolo 8 della legge 131/2003, tanto è vero che la Corte irrogherebbe pesanti sanzioni amministrative nel caso di mancato invio sei referti o laddove rilevasse l'assenza o l'inadeguatezza degli strumenti di controllo interno.
In ogni caso, al di là del forte problema di costituzionalità che si pone, ancor più grave appare la questione connessa all'efficacia di tali controlli. Essi restano prevalentemente interni ed affidati alla regia di soggetti come i segretari comunali o i direttori generali i quali, essendo incaricati dai sindaci o presidenti della provincia, non possono disporre della terzietà che, invece, dovrebbe caratterizzare un controllore. A sua volta, la Corte dei conti esamina non singoli atti, bensì un referto complessivo.
Lo scopo vero dei controlli, prevenire atti e spese illegittimi, nella sostanza non viene conseguito.
La strada più lineare resta un'urgente modifica alla Costituzione tale da reintrodurre controlli preventivi, da affidare ad autorità amministrative terze, da sottoporre alla dipendenza funzionale della Corte dei conti. La quale potrebbe, così, fissare gli indirizzi cui attenersi ed intervenire per risolvere eventuali contenziosi sugli atti di controllo (articolo ItaliaOggi del 05.10.2012).

ENTI LOCALIDECRETO SALVA-ENTI/ Comuni, ecco il fondo anti-dissesto. Gli enti dovranno presentare un piano di riequilibrio di 5 anni. I sindaci saranno costretti a tagliare la spese. Vigilerà la Corte dei conti.
Un fondo rotativo a favore degli enti locali alle prese con gravi criticità finanziarie che si impegnano a definire un rigoroso piano pluriennale di riequilibrio, da implementare sotto la stretta vigilanza di Viminale e (soprattutto) della magistratura contabile.
Confermando le anticipazioni delle scorse settimane, il decreto legge in materia di finanza locale approvato ieri dal governo introduce il nuovo meccanismo di «pre-dissesto» destinato alle province ed ai comuni che presentano pesanti «squilibri strutturali di bilancio». Obiettivo di tale misura è garantire la tempestiva adozione delle misure correttive, scongiurando il rischio che la dichiarazione formale di «default» arrivi quando la situazione dei conti è ormai deteriorata.
Il provvedimento licenziato dal consiglio dei ministri introduce tre nuovi articoli (243-bis, 243-ter e 243-quater) nel Tuel.
Per avviare la nuova «procedura di riequilibrio finanziario pluriennale», gli enti locali interessati devono adottare un'apposta deliberazione consiliare, che entro cinque giorni dalla data di esecutività va trasmessa alla competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti ed al ministero dell'interno.
Tale iniziativa ha un duplice effetto sospensivo: da un lato, essa congela la possibilità per i giudici contabili di assegnare un termine per l'adozione delle misure correttive, ai sensi dell'art. 6, comma 2, del dlgs 149/2011 (ma se il termine è già stato fissato il ricorso alla nuova procedura è precluso); dall'altro, mette temporaneamente in naftalina le procedure esecutive già intraprese nei confronti dei medesimi enti.
In entrambi i casi, la sospensione dura fino alla data di approvazione o di diniego di approvazione del piano di riequilibrio pluriennale, che il consiglio degli enti che ambiscono al «pre-dissesto» deve deliberare nel termine (perentorio) di 60 giorni dall'esecutività della precedente deliberazione di adesione alla procedura di riequilibrio.
Il piano (che va accompagnato da un parere dell'organo di revisione) può avere una durata massima di cinque anni, deve operare una dettagliata analisi dei fattori di squilibrio rilevati (anche alla luce dell'eventuale disavanzo di amministrazione risultante dall'ultimo rendiconto approvato e di eventuali debiti fuori bilancio) e indicare precisare le conseguenti misure correttive (tenendo conto di quella già eventualmente adottate), con puntuale «quantificazione e previsione dell'anno di effettivo realizzo».
Fra queste, il legislatore indica una «rigorosa revisione della spesa» (con tanto di obiettivi dettagliati di riduzione), l'incremento delle aliquote e delle tariffe fino al massimo consentito e le dismissioni patrimoniali, che aprono la strada all'assunzione di mutui per la copertura di debiti fuori bilancio per investimenti e soprattutto al nuovo «Fondo di rotazione per assicurare la stabilità finanziaria degli enti locali».
Quest'ultimo potrà erogare anticipazioni fino ad un massimo di 100 euro per abitante, che andranno restituiti entro cinque anni (prorogabili fino a 10), sulla base di criteri e modalità che verranno definiti con un decreto del Viminale atteso entro il prossimo 30 novembre.
Le erogazioni del fondo, tuttavia, sono subordinate a una duplice condizione. In primo luogo, occorre la preventiva approvazione del piano di riequilibrio da parte della Sezione regionale della Corte dei conti, sulla base di un'istruttoria condotta da un'apposita commissione composta da rappresentanti del Mef e dell'Interno. La Corte è chiamata anche a vigilare sull'attuazione del piano, in stretto raccordo con i revisori interni e con l'interno. I provvedimenti di accoglimento e diniego potranno essere impugnati davanti alle sezioni riunite, cosi come quelli relativi all'ammissione al fondo rotativo.
La seconda condizione è legata ai meccanismi di condizionalità imposti agli enti beneficiari. Essi dovranno tagliare la spesa di personale, le spese correnti per utilizzo di beni di terzi (almeno del 10% in tre anni), e quelle per interessi passivi e oneri finanziari diversi finanziate con risorse proprie (-25%). Essi, inoltre, non potranno contrarre nuovi debiti (salvo i mutui di cui sopra).
Per gli enti non ammessi alla nuova procedura e per quelli che non rispettano le relative regole, scatta la procedura di dichiarazione esterna del dissesto ai sensi del citato dlgs 149 (articolo ItaliaOggi del 05.10.2012).

ENTI LOCALITaglio province in ordine sparso. Regioni aggrappate a cavilli e deroghe per evitare sforbiciate. Sono pochi i Consigli delle autonomie locali (Cal) che hanno approvato il piano di restyling.
Il taglio delle province, sulla carta, è deciso: via le 64 con meno di 350 mila abitanti, e che si estendono su una superficie inferiore ai 2 mila 500 chilometri quadrati. E sì alle città metropolitane (da Milano a Palermo ecc). Tuttavia, incuranti della «spending review» (legge 135/2012), le regioni procedono in ordine sparso.
E si servono di cavilli, ricorsi e deroghe per fermare «la mano del boia». La scorsa settimana si sono pronunciati i Cal, i Consigli delle autonomie locali (o, dove non presenti, altri organismi), ma in pochi hanno approvato il piano di restyling, che spetterà all'amministrazione regionale inoltrare al governo nei successivi 20 giorni (entro il 23 ottobre), senza rivolgersi alla Corte costituzionale segnalando, in considerazione delle specificità del territorio, incongruenze.
La ricognizione di ItaliaOggi Sette restituisce l'immagine di una penisola che, da Nord a Sud, oppone resistenza alla sforbiciata imposta dall'esecutivo Monti. Cominciando dal Piemonte, la riduzione (da 8 a 4) è definita così: non si tocca Cuneo, però Asti viene unita ad Alessandria e nasce la provincia del Piemonte Orientale, i cui confini sono quelli di Novara, Verbania Cusio Ossola, Biella e Vercelli, in più Torino diviene città metropolitana. La Lombardia ne ha 12, rinuncia a 4 (c'è Milano città metropolitana), ovvero Pavia, Lodi - Cremona, Mantova, Brescia, Bergamo, Sondrio, Como - Lecco - Varese, Monza Brianza, mentre la Liguria passa da 4 a 2, più Genova città metropolitana (insieme Savona e Imperia ed è salva La Spezia).
Rimanendo nel Settentrione, verso Est, il Friuli-Venezia Giulia non cede nulla, poiché vota lascia le province di Gorizia, Pordenone, Trieste e Udine (il legislatore impone di fondere le prime due), cercando un «escamotage»: si pensa, infatti, di delegare le funzioni amministrative a regione e comuni, affidando ai 4 enti mansioni onorifiche e consultive. Niente di nuovo in terra veneta: si opta per la conservazione di tutte e 6 le amministrazioni (Belluno, Padova, Rovigo, Treviso, Verona e Vicenza), oltre a Venezia città metropolitana; si mette in moto ... (articolo ItaliaOggi del 05.10.2012).

ATTI AMMINISTRATIVIOSSERVATORIO VIMINALE/ L'albo pretorio va in soffitta. Delibere e determine da pubblicare sul sito web. Ma gli obblighi a carico delle amministrazioni locali rimangono inalterati.
Quali sono gli adempimenti che il comune deve espletare in ordine alla pubblicazione delle determinazioni dirigenziali sui siti informatici, a seguito dell'emanazione dell'art. 32 della legge 28.06.2009, n. 69, recante norme per l'eliminazione degli sprechi relativi al mantenimento di documenti in forma cartacea?

L'art. 32, comma 1, della legge 28.06.2009, n. 69 dispone che «gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si intendono assolti con la pubblicazione nei propri siti informatici da parte delle amministrazioni e degli enti pubblici obbligati», e il successivo comma 5 prevede che a decorrere dall'01.01.2011 le pubblicità effettuate in forma cartacea non hanno effetto di pubblicità legale.
La disciplina ha implicitamente modificato l'art. 124 del dlgs n. 267/2000 nella parte in cui dispone che la pubblicazione avvenga «mediante affissione all'albo pretorio nella sede dell'ente», sostituita dalla pubblicazione sul sito istituzionale dell'ente, fermo restando il termine di 15 giorni consecutivi salvo specifiche disposizioni di legge.
In merito il Consiglio di stato, con sentenza n. 1370 del 15.03.2006, ha stabilito che «la pubblicazione all'albo pretorio del comune è prescritta dall'art. 124 T.u. n. 267/2000 per tutte le deliberazioni del comune e della provincia ed essa riguarda non solo le deliberazioni degli organi di governo (consiglio e giunta municipali) ma anche le determinazioni dirigenziali».
Lo strumento informatico ha sostituito, dunque, il tradizionale albo pretorio, rimanendo inalterati, sotto la nuova forma, gli obblighi di pubblicazione.
L'ente nazionale per la digitalizzazione della pubblica amministrazione - Digit P.a., nelle due linee guida per i siti web della pubblica amministrazione ed in particolare nel «Vademecum sulle Modalità di pubblicazione dei documenti nell'albo on-line», predisposto sulla base della direttiva n. 8 del 26.11.2009 del ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione, ha specificato che «per gli enti locali l'attività dell'albo consiste nella pubblicazione di tutti quegli atti sui quali viene apposto il referto di pubblicazione», includendo tra tali atti le deliberazioni ed altri provvedimenti comunali tra cui anche le determinazioni in argomento (articolo ItaliaOggi del 05.10.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Nomina capogruppo.
Come viene disciplinata la nomina di un capogruppo consiliare nel caso in cui all'interno di un gruppo consiliare composto da due consiglieri, pur in presenza di regolare designazione del capogruppo consiliare con presa d'atto del consiglio comunale, il secondo consigliere ha rivendicato il proprio diritto alla designazione di capogruppo avendo riportato il maggior numero di voti nella lista?

L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (in particolare, art. 38, comma 3 – art. 39, comma 4 e art. 125 del dlgs n. 267/2000). Pertanto, la materia dei «gruppi consiliari» è regolata primariamente dalle norme statutarie e regolamentari proprie di ogni singolo ente locale, per cui è alla stregua di tali norme che occorre valutare e risolvere le questioni ad essa afferenti.
Se, nel caso di specie, lo statuto comunale prevede che il capogruppo è «eletto dagli appartenenti al Gruppo», rinviando al regolamento la disciplina della formazione, del funzionamento e delle attribuzioni dei gruppi consiliari e questo prevede che «i singoli gruppi devono comunicare, per iscritto, al presidente ed al segretario comunale il nome del proprio capogruppo alla prima riunione del consiglio neo eletto»; che «con la stessa procedura dovranno segnalarsi le successive variazioni della persona del capogruppo»; che «in mancanza di tali comunicazioni viene considerato capogruppo ad ogni effetto il consigliere del gruppo che abbia riportato il maggior numero di voti nelle liste di appartenenza», appare evidente che le variazioni della persona del capogruppo debbano essere comunicate con nota sottoscritta «dai singoli gruppi», stante la necessità di seguire «la stessa procedura» utilizzata per la prima designazione.
L'automatica individuazione del capogruppo nel consigliere che abbia riportato il maggior numero di voti nelle liste di appartenenza è un criterio residuale che può essere utilizzato solo all'atto dell'insediamento del consiglio comunale e in mancanza di comunicazioni (articolo ItaliaOggi del 05.10.2012).

TRIBUTI - VARIRifiuti e servizi, arriva la Tares. Con l'avvio del nuovo tributo saranno soppressi quelli attuali. Tutto quello che c'è da sapere per prepararsi al debutto previsto per l'01.01.2013.
Dal 1° gennaio 2013 arriva la Tares.
Vale la pena di esaminare le principali novità che riguardano il nuovo tributo comunale sui rifiuti e sui servizi. Iniziamo a precisare che con l'introduzione della Tares, a decorrere dall'01.01.2013, saranno soppressi tutti i vigenti prelievi relativi alla gestione dei rifiuti urbani, sia di natura patrimoniale che di natura tributaria, compresa l'addizionale per l'integrazione dei bilanci degli enti comunali di assistenza.
La fonte normativa della Tares è l'art. 14 del dl 06.12.2011 n. 201 (salva Italia).
Il nuovo tributo è posto a copertura dei:
a) costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento, svolto mediante l'attribuzione di diritti di esclusiva;
b) costi relativi ai servizi indivisibili dei comuni.
Il comune, nel territorio del quale insistono le aree oggetto dell'imposta, è delegato all'accertamento, alla riscossione e alla liquidazione della Tares.
Il tributo in questione è dovuto da chiunque possieda, occupi o detenga a qualsiasi titolo locali o aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani: non sono soggette all'imposta però le aree comuni scoperte e le aree pertinenziali e accessorie delle civili abitazioni.
Nel caso di locali in multiproprietà e di centri commerciali integrati, il soggetto che gestisce i servizi comuni è responsabile del versamento del tributo.
Ricordiamo che la Tares è dovuta per anno solare.
La tariffa è commisurata alle quantità e qualità delle medie ordinarie di rifiuti prodotti per unità di superficie, in relazione agli usi e alla tipologia di attività svolte, sulla base dei criteri determinati con regolamento.
Per le unità immobiliari a destinazione ordinaria iscritte o iscrivibili nel catasto edilizio urbano, la superficie assoggettabile al tributo è pari all'80% della superficie catastale determinata secondo i criteri stabiliti dal regolamento di cui al dpr 23.03.1998, n. 138.
Si noti che la superficie assoggettabile al tributo è costituita da quella calpestabile.
Particolari regole, su cui non entriamo per esigenze di sintesi, sono stabilite per gli immobili privi di accatastamento o se si riscontri, da parte dell'ente locale, la non corrispondenza della superficie con gli atti a disposizione dei comuni.
Se vi sono aree promiscue in un locale, sono state previste specifiche disposizioni per la determinazione della superficie assoggettabile al tributo: non si tiene conto di quella parte di essa ove si formano di regola rifiuti speciali, a condizione che il produttore ne dimostri l'avvenuto trattamento in conformità alla normativa vigente.
La tariffa è composta: 1) da una quota determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio di gestione dei rifiuti, riferite in particolare agli investimenti per le opere e ai relativi ammortamenti; 2) da una quota rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito e all'entità dei costi di gestione, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio.
Con regolamento da emanarsi entro il 31.10.2012, su proposta dei ministri competenti e delle altre autorità indicate, sono stabiliti i criteri per l'individuazione del costo del servizio di gestione dei rifiuti e per la determinazione della tariffa.
Il regolamento cennato si applica a decorrere dall'anno successivo alla data della sua entrata in vigore.
Alla tariffa determinata in base alle disposizioni precedenti, si applica una maggiorazione pari a 0,30 euro per metro quadrato, a copertura dei costi relativi ai servizi indivisibili dei comuni, i quali possono, con deliberazione del consiglio comunale, modificare in aumento la misura della maggiorazione fino a 0,40 euro, anche graduandola in ragione della tipologia dell'immobile e della zona ove è ubicato.
Per il primo anno, in luogo di questa, la fonte normativa precisa che si continuerà ad applicare la tariffa già esistente e prevista dalle disposizioni di cui al decreto del presidente della repubblica 27.04.1999, n. 158.
La legge n. 201/2011 ha previsto una potestà regolamentare in capo al comune, il quale con l'emanazione dell'apposito strumento giuridico può prevedere riduzioni tariffarie, nella misura massima del trenta per cento, nel caso di:
a) abitazioni con unico occupante;
b) abitazioni tenute a disposizione per uso stagionale od altro uso limitato e discontinuo;
c) locali, diversi dalle abitazioni, e aree scoperte adibiti a uso stagionale o ad uso non continuativo, ma ricorrente;
d) abitazioni occupate da soggetti che risiedano o abbiano la dimora, per più di sei mesi all'anno, all'estero;
e) fabbricati rurali a uso abitativo.
Si devono prevedere anche riduzioni per la raccolta differenziata riferibile alle utenze domestiche.
Il consiglio comunale, in aggiunta a quelle già menzionate, può deliberare anche ulteriori riduzioni ed esenzioni.
Tali agevolazioni sono iscritte in bilancio come autorizzazioni di spesa e la relativa copertura è assicurata da risorse diverse dai proventi del tributo di competenza dell'esercizio al quale si riferisce l'iscrizione stessa.
Inoltre con regolamento da adottarsi ai sensi dell'articolo 52 del decreto legislativo 15.12.1997, n. 446, il consiglio comunale determina la disciplina per l'applicazione del tributo, concernente tra l'altro i seguenti punti:
a) la classificazione delle categorie di attività con omogenea potenzialità di produzione di rifiuti;
b) la disciplina delle riduzioni tariffarie;
c) la disciplina delle eventuali riduzioni ed esenzioni;
d) l'individuazione di categorie di attività produttive di rifiuti speciali alle quali applicare, nell'obiettiva difficoltà di delimitare le superfici ove tali rifiuti si formano, percentuali di riduzione rispetto all'intera superficie su cui l'attività viene svolta;
e) i termini di presentazione della dichiarazione e di versamento del tributo.
Il consiglio comunale deve approvare le tariffe del tributo entro il termine fissato da norme statali per l'approvazione del bilancio di previsione, in conformità al piano finanziario del servizio di gestione dei rifiuti urbani, redatto dal soggetto che svolge il servizio stesso ed approvato dall'autorità competente.
Una regolamentazione specifica e separata è prevista per i comuni che hanno realizzato (o realizzeranno dato che ancora la norma non è vigente), sistemi di misurazione puntuale della quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico: gli enti locali pertanto, possono, con regolamento, prevedere l'applicazione di una tariffa avente natura corrispettiva, in luogo del tributo (comma 29, art. 14).
Il costo del servizio da coprire con la tariffa già accennata è determinato sulla base dei criteri da stabilirsi con specifico regolamento.
Una particolarità del nuovo tributo risiede nel fatto che il legislatore non ha previsto, ma anzi sembra escludere, la possibilità che sia l'ente erogatore del servizio e non il comune, a gestire le fasi di riscossione, accertamento e liquidazione del tributo.
Al contrario, solo e soltanto nei confronti dei comuni che hanno realizzato sistemi di misurazione puntuale della quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico, si rende applicabile la deroga per l'affidamento di tali fasi alla società che gestisce il servizio di raccolta, trattamento e smaltimento dei rifiuti.
In questo caso, anche la tariffa determinata è applicata e riscossa dal soggetto affidatario del servizio di gestione dei rifiuti urbani. In tutti gli altri casi, e cioè la stragrande maggioranza, sarà il comune a gestire l'applicazione e la riscossione della Tares.
I comuni che misurano la quantità dei tributi, applicano il tributo comunale sui rifiuti e sui servizi limitatamente alla componente diretta alla copertura dei costi relativi ai servizi indivisibili dei comuni determinata come cennato.
Per quanto attiene alla dichiarazione, i soggetti passivi del tributo presentano la dichiarazione entro il termine stabilito dal comune nel regolamento, fissato in relazione alla data di inizio del possesso, dell'occupazione o della detenzione dei locali e delle aree assoggettabili a tributo. Nel caso di occupazione in comune di un fabbricato, la dichiarazione può essere presentata anche da uno solo degli occupanti.
La dichiarazione, redatta su modello messo a disposizione dal comune, ha effetto anche per gli anni successivi sempreché non si verifichino modificazioni dei dati dichiarati; in tal caso, la dichiarazione va presentata entro il termine stabilito dal comune nel regolamento.
Come dianzi riferito, il tributo comunale sui rifiuti e sui servizi, in deroga all'articolo 52 dlgs n. 446/1997, è versato esclusivamente al comune.
Infine, il versamento del tributo comunale per l'anno di riferimento è effettuato, in mancanza di diversa deliberazione comunale, in quattro rate trimestrali, scadenti nei mesi di gennaio, aprile, luglio e ottobre, mediante bollettino di conto corrente postale ovvero modello di pagamento unificato. È consentito il pagamento in unica soluzione entro il mese di giugno di ciascun anno.
Per quanto inerisce la fase di accertamento invece, ai fini della verifica del corretto assolvimento degli obblighi tributari, il funzionario responsabile può inviare questionari al contribuente, richiedere dati e notizie a uffici pubblici ovvero a enti di gestione di servizi pubblici, in esenzione da spese e diritti, e disporre l'accesso ai locali e aree assoggettabili a tributo, mediante personale debitamente autorizzato e con preavviso di almeno sette giorni.
In caso di mancata collaborazione del contribuente o altro impedimento alla diretta rilevazione, l'accertamento può essere effettuato in base a presunzioni semplici di cui all'articolo 2729 c.c.; quest'ultima costituisce un'ulteriore novità del nuovo tributo, che non mancherà di essere oggetto di interesse da parte dei giuristi.
In caso di omesso o insufficiente versamento del tributo risultante dalla dichiarazione, si applica l'articolo 13 del decreto legislativo 18.12.1997, n. 471.
In caso di omessa presentazione della dichiarazione, si applica la sanzione dal 100 al 200% del tributo non versato, con un minimo di 50 euro. In caso di infedele dichiarazione, si applica la sanzione dal 50 per cento al 100 per cento del tributo non versato, con un minimo di 50 euro. In caso di mancata, incompleta o infedele risposta al questionario, entro il termine di legge, si applica la sanzione da euro 100 a euro 500. Le sanzioni previste sono ridotte ad un terzo se, entro il termine per la proposizione del ricorso, interviene acquiescenza del contribuente, con pagamento del dovuto.
Concludendo, facendo un rapido commento generale sulla Tares, si nota lo sforzo che il legislatore ha fatto disciplinando più nel dettaglio la nuova imposta, anche se saranno necessari, sui punti applicativi più controversi, ulteriori approfondimenti in merito. Non è da escludersi, infatti, l'introduzione di ulteriori modifiche, anche sostanziali, nelle norme che disciplinano la Tares (articolo ItaliaOggi del 05.10.2012).

ATTI AMMINISTRATIVIIl giudice spieghi le spese compensate. La mancata motivazione è una violazione di legge.
Commette una violazione di legge il giudice che compensa le spese giudiziali senza motivare le ragioni poste a base della decisione. Alla regione, infatti, devono essere addebitati i costi sostenuti dal contribuente se notifica in ritardo la cartella con la quale richiede il pagamento della tassa automobilistica. L'errore dell'amministrazione pubblica non può ricadere sul contribuente. Il giudice tributario, dunque, non può compensare le spese processuali ritenendo legittimo il provvedimento con un generico e insignificante riferimento a giusti motivi.
È quanto affermato dalla Commissione tributaria regionale di Roma, sezione XIV, con la sentenza 11.07.2012 n. 488.
Nel caso in esame, la regione Lazio aveva richiesto il pagamento della tassa auto nonostante la cartella fosse stata notificata oltre il termine di legge. Quindi, aveva preteso un credito già prescritto, imponendo al contribuente di sostenere dei costi per la difesa in giudizio. Per i giudici capitolini, però, «la decisione di compensazione delle spese del giudizio giustificata dal generico ed insignificante riferimento a «giusti motivi» o addirittura senza alcun riferimento causale come nel caso in esame, integra gli estremi della violazione di legge».
Del resto, anche la Cassazione (sentenza 14563/2008) ha sostenuto che qualora l'azione giudiziaria intrapresa dal contribuente risulti totalmente fondata, la sua difesa sarebbe compromessa se fosse tenuto a pagare le spese di giustizia (legali e fiscali). In effetti, con la riforma del processo civile (legge 69/2009) è stato imposto al giudice di porre a carico della parte soccombente l'onere di pagare le spese processuali, salvo casi eccezionali che devono essere motivati.
La regola è stata introdotta anche per deflazionare il contenzioso. Secondo la commissione tributaria regionale di Catanzaro (sentenza 495/2009), la condanna alle spese di giudizio costituisce l'ipotesi ordinaria, legata al fatto stesso della soccombenza, a maggior ragione dopo la modifica dell'articolo 92 del codice di procedura civile che ammette la compensazione delle spese solo per ragioni o eventi eccezionali. Ma che esigono un'adeguata motivazione. Peraltro, nonostante non via sia alcun automatismo che comporti la condanna dell'amministrazione, anche l'adozione del provvedimento di autotutela in corso di causa non è privo di conseguenze.
Sempre la Ctr Roma, sezione XXIX, con la sentenza 43/2011, ha stabilito che nel processo tributario il fisco deve essere condannato a pagare le spese processuali anche nei casi in cui gli atti di accertamento vengano annullati in seguito all'attività di riesame. Tuttavia, non è così semplice per l'amministrazione finanziaria scegliere il comportamento da adottare. La giurisprudenza recente esclude che gli errori possano ricadere sui soggetti accertati.
Se vengono annullati gli atti impositivi nel corso del processo, la soccombenza è virtuale e l'amministrazione va condannata a pagare le spese. Il rimedio, però, in alcuni casi si è rivelato peggiore del male, perché dopo l'adozione del provvedimento di autotutela il fisco è stato condannato anche a risarcire i danni al contribuente (articolo ItaliaOggi del 04.10.2012 - link a www.corteconti.it).

ATTI AMMINISTRATIVIÈ impossibile eludere il Tar. E neppure i procedimenti d'urgenza fanno eccezione. In vigore il dlgs 160/2012, secondo correttivo del codice del processo amministrativo.
Non si elude la competenza territoriale del Tar. Neanche nei procedimenti di urgenza. Il giudice amministrativo, cui si chiede un provvedimento cautelare, deve controllare se è competente per territorio. E se non lo è, deve passare la mano.
Lo prevede il decreto legislativo n. 160/2012 (pubblicato sulla G.U. 18.09.2012 n. 218) noto come secondo correttivo del codice processo amministrativo (dlgs 104/2010).
Il decreto correttivo è entrato in vigore ieri 03.10.2012 e si occupa anche di spese legali e condizioni di ammissibilità del ricorso.
Vediamo le principali novità.
Competenza territoriale. Due le novità. La prima obbliga il giudice a pronunciarsi sulla competenza anche rispetto a richieste di sospensive.
Se dichiara la propria incompetenza, il Tar deve indicare quale sia il tribunale ritenuto competente e le parti hanno trenta giorni di tempo per riproporre la causa al giudice individuato.
Se non c'è richiesta di provvedimento di urgenza, la parte interessata deve eccepire l'incompetenza territoriale entro il termine di costituzione, ma il giudice può sempre rilevarla d'ufficio. Sulla competenza viene anche specificato che la competenza territoriale relativa al provvedimento da cui deriva l'interesse a ricorrere attrae anche quella relativa agli atti presupposti dallo stesso provvedimento (tranne atti normativi o generali).
Spese di giudizio. Il giudice, nell'adottare il provvedimento sulle spese di giudizio, da accollare in via di principio al soccombente, deve tenere conto dell'osservanza dei principi di chiarezza e sinteticità nella stesura degli atti. Atti troppo lunghi oppure oscuri compromettono il rimborso delle spese legali.
Azione di adempimento. Viene codificata l'azione di condanna al rilascio da parte dell'amministrazione di un determinato provvedimento. Il Tar in ogni caso non può intervenire quando l'atto da adottare sia riservato alla piena discrezionalità dell'amministrazione, mentre può farlo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione. L'azione va proposta contestualmente al ricorso introduttivo con cui si chiede l'annullamento di un atto oppure si impugna l'inerzia dell'ente pubblico.
Ricorso. Diventa inammissibile, se i motivi di ricorso non sono specifici. E i contenuti del ricorso (giudice, parti, fatto, diritto, conclusioni, sottoscrizione) devono essere tenuti ben distinti (articolo ItaliaOggi del 04.10.2012).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAL'art. 53, c. 2, della legge regionale lombarda n. 12/2005 deve essere letta unitamente alle disposizioni del testo unico dell’edilizia ed alle altre previsioni dalla legge regionale n. 12/2005 che disciplinano i mutamenti di destinazione d'uso.
L’abusiva realizzazione di un mutamento di destinazione d'uso che non sia conforme alle previsioni urbanistiche è, difatti, sanzionata con la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi dall’art. 31 d.P.R. n. 380/2001, in quanto intervento eseguito in assenza di permesso di costruire.
Né un tale permesso potrebbe comunque essere rilasciato, stante l’assenza di conformità con le destinazioni di zona.
La l.reg. Lombardia n. 12/2005 non incide su tale previsione: l’art. 52, c. 2 esclude, difatti, la necessità del permesso di costruire ed assoggetta a preventiva comunicazione dell'interessato unicamente i mutamenti di destinazione d'uso di immobili non comportanti la realizzazione di opere edilizie “che siano conformi alle previsioni urbanistiche comunali”.
La previsione di cui all’art. 53, c. 2, l. reg. Lombardia n. 12/2005 non può quindi essere interpretata, come vorrebbe la ricorrente, quale norma di sanatoria, pena la sua incostituzionalità, per contrasto con i principi dettati dal testo unico dell’edilizia.
Essa deve essere quindi intesa quale sanzione aggiuntiva a quella ripristinatoria prevista dall’art. 31, d.P.R. n. 380/2001.

La questione centrale oggetto del presente ricorso attiene alla interpretazione dell’art. 53, c. 2, l.reg. Lombardia n. 12/2005, ai sensi del quale “qualora il mutamento di destinazione d'uso senza opere edilizie, ancorché comunicato ai sensi dell'articolo 52, comma 2, risulti in difformità dalle vigenti previsioni urbanistiche comunali, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria pari all'aumento del valore venale dell'immobile o sua parte, oggetto di mutamento di destinazione d'uso, accertato in sede tecnica e comunque non inferiore a mille euro”.
Ad avviso della ricorrente, tale norma consentirebbe la sanatoria di mutamenti di destinazione d'uso che non siano conformi alle previsioni dello strumento urbanistico, dietro pagamento della sola sanzione pecuniaria.
La ricorrente afferma inoltre l’ammissibilità, nel caso di specie, del richiesto intervento di mutamento di destinazione d'uso, in quanto esso sarebbe in linea con le previsioni del nuovo piano di governo del territorio, adottato in epoca antecedente alla presentazione dell’istanza di mutamento di destinazione d'uso.
Il Collegio non condivide le argomentazioni della ricorrente.
È incontestata la non conformità del mutamento di destinazione d'uso richiesto dalla ricorrente con le previsioni dello strumento urbanistico vigente.
In mancanza di tale presupposto, indispensabile perché l’intervento possa essere ritenuto ammissibile, non assume rilievo la circostanza che l’intervento sia consentito dal nuovo piano di governo del territorio che, alla data di adozione del provvedimento, era solamente adottato.
Non può, poi, condividersi la lettura parziale dell’art. 53, c. 2, della legge regionale lombarda n. 12/2005, proposta dalla ricorrente.
Tale norma deve difatti essere letta unitamente alle disposizioni del testo unico dell’edilizia ed alle altre previsioni dalla legge regionale n. 12/2005 che disciplinano i mutamenti di destinazione d'uso.
L’abusiva realizzazione di un mutamento di destinazione d'uso che non sia conforme alle previsioni urbanistiche è, difatti, sanzionata con la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi dall’art. 31 d.P.R. n. 380/2001, in quanto intervento eseguito in assenza di permesso di costruire.
Né un tale permesso potrebbe comunque essere rilasciato, stante l’assenza di conformità con le destinazioni di zona.
La l.reg. Lombardia n. 12/2005 non incide su tale previsione: l’art. 52, c. 2 esclude, difatti, la necessità del permesso di costruire ed assoggetta a preventiva comunicazione dell'interessato unicamente i mutamenti di destinazione d'uso di immobili non comportanti la realizzazione di opere edilizie “che siano conformi alle previsioni urbanistiche comunali”.
La previsione di cui all’art. 53, c. 2, l. reg. Lombardia n. 12/2005 non può quindi essere interpretata, come vorrebbe la ricorrente, quale norma di sanatoria, pena la sua incostituzionalità, per contrasto con i principi dettati dal testo unico dell’edilizia.
Essa deve essere quindi intesa quale sanzione aggiuntiva a quella ripristinatoria prevista dall’art. 31, d.P.R. n. 380/2001.
In questa situazione, non assume neppure rilevanza la verifica sul rispetto degli standard da parte del Comune, la quale rileva unicamente in relazione ai mutamenti compatibili con le destinazioni di zona, ma, non, come nella specie, nel caso di cambiamenti del tutto contrastanti con la vigente zonizzazione (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 03.01.1998, n. 24).
Per le ragioni esposte, il provvedimento di rigetto del cambio di destinazione d'uso ed il diniego di agibilità sono quindi da ritenersi adeguatamente motivati con il richiamo alla non conformità con le previsioni dello strumento urbanistico vigente ed all’art. 52, c. 2, l.reg. Lombardia n. 12/2005 che assoggetta a preventiva comunicazione dell'interessato unicamente i mutamenti di destinazione d'uso di immobili che siano conformi alle previsioni urbanistiche comunali.
La legittimità di tale motivo è sufficiente giustificazione del provvedimento impugnato, sicché è irrilevante la contestazione in ordine alla necessità di realizzare o meno opere edilizie (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.10.2012 n. 2467 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Non sussiste alcun obbligo per l'Amministrazione di pronunciarsi su un'istanza volta a ottenere un provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile dall’esterno l'attivazione del procedimento di riesame della legittimità dell'atto amministrativo mediante l'istituto del silenzio-rifiuto e lo strumento di tutela offerto (oggi dall'art. 117 c. p.a.); infatti, il potere di autotutela si esercita discrezionalmente d’ufficio, essendo rimesso alla più ampia valutazione di merito dell’Amministrazione, e non su istanza di parte e, pertanto, sulle eventuali istanze di parte, aventi valore di mera sollecitazione, non vi è alcun obbligo giuridico di provvedere.
In questa prospettiva non pare inutile aggiungere che:
- lo stesso art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990, nell’affermare che il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d’ufficio sussistendone le ragioni di interesse pubblico rimette la scelta sull’annullamento a un apprezzamento di natura preventiva affidato alla P.A.;
- opinare diversamente rispetto a quanto si è detto sopra, ossia seguire la tesi secondo la quale, in presenza di una istanza diretta a sollecitare l’esercizio della potestà di autotutela, l’Amministrazione è obbligata a una pronuncia esplicita sulla istanza medesima, attraverso l’utilizzo dell’istituto del silenzio–rifiuto e dello strumento processuale di cui agli articoli 31 e 117 c. p. a. vorrebbe dire neutralizzare, in pratica, la condizione di inoppugnabilità del provvedimento amministrativo (nella specie, concessivo di finanziamenti a imprese concorrenti) che non sia stato contestato nei modi ed entro i termini di legge, vanificando in questo modo una garanzia di certezza dei rapporti giuridici che vedono coinvolta una P.A. (certezza che è essa stessa un bene irrinunciabile posto a tutela anche dei cittadini), e avvilendo lo stesso principio di economicità dell’azione amministrativa, che verrebbe posto nel nulla ove si imponesse, a semplice richiesta dell’interessato, l’ obbligo di riesame di provvedimenti restati inoppugnati.

Osta infatti all’accoglimento del gravame –sotto il profilo della insussistenza, in capo all’appellante, di una posizione soggettiva qualificata e differenziata, tale da legittimare Itel a presentare una istanza/diffida di revoca e/o di dichiarazione di decadenza dei finanziamenti concessi in via provvisoria alle società beneficiarie in epigrafe indicate, sulla quale la Regione abbia l’obbligo di provvedere in modo esplicito- non solo la estraneità di Itel rispetto al rapporto intercorrente tra l’Amministrazione e i soggetti beneficiari dei finanziamenti, ma anche il fatto che Itel, pur avendone i requisiti, ha deciso di non partecipare alla procedura “PIT 9” diretta alla concessione dei finanziamenti in questione, non bastando la qualità di concorrente nel medesimo mercato del radiofarmaco e nel medesimo contesto territoriale perché possa ritenersi radicata, in capo alla società, una posizione legittimante, specifica e concreta, tale da porre l’Amministrazione nella condizione di essere obbligata a pronunciarsi in maniera esplicita su una richiesta rivolta a conseguire un intervento in autotutela.
Viene in rilievo una posizione simile a quella di un soggetto che, pur potendo essere considerato, in astratto, come “soggetto qualificato”, per non avere partecipato alla procedura di interesse non può utilmente proporre ricorso giurisdizionale avverso gli atti e gli esiti della procedura in questione “per carenza di interesse” (v. , “ex plurimis”, Cons. St. , V, n. 102 del 2009).
In questa peculiare situazione va ribadita la insussistenza, in capo alla Regione, di un obbligo giuridico di pronunciarsi in maniera esplicita su una “diffida–messa in mora” diretta essenzialmente a ottenere provvedimenti in autotutela, essendo l’attività connessa all’esercizio dell’autotutela (che nella specie dovrebbe concretarsi nel riesame di legittimità di atti e di provvedimenti ai fini della revoca e/o della dichiarazione di decadenza dei finanziamenti già concessi, sia pure in via provvisoria, a Radion) espressione di ampia discrezionalità e, come tale, incoercibile dall’esterno.
Sulla non percorribilità della procedura del silenzio–rifiuto con riferimento a domande dirette a sollecitare l’esercizio del potere di autotutela, è principio giurisprudenziale consolidato –al quale anche questo collegio aderisce- quello per cui “non sussiste alcun obbligo per l'Amministrazione di pronunciarsi su un'istanza volta a ottenere un provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile dall’esterno l'attivazione del procedimento di riesame della legittimità dell'atto amministrativo mediante l'istituto del silenzio-rifiuto e lo strumento di tutela offerto (oggi dall'art. 117 c. p.a.); infatti, il potere di autotutela si esercita discrezionalmente d’ufficio, essendo rimesso alla più ampia valutazione di merito dell’Amministrazione, e non su istanza di parte e, pertanto, sulle eventuali istanze di parte, aventi valore di mera sollecitazione, non vi è alcun obbligo giuridico di provvedere" (v., di recente, Cons. St., VI, n. 4308 del 2010, ivi rif., e sez. V n. 6995 del 2011).
In questa prospettiva non pare inutile aggiungere che:
- lo stesso art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990, nell’affermare che il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d’ufficio sussistendone le ragioni di interesse pubblico rimette la scelta sull’annullamento a un apprezzamento di natura preventiva affidato alla P.A.;
- opinare diversamente rispetto a quanto si è detto sopra, ossia seguire la tesi secondo la quale, in presenza di una istanza diretta a sollecitare l’esercizio della potestà di autotutela, l’Amministrazione è obbligata a una pronuncia esplicita sulla istanza medesima, attraverso l’utilizzo dell’istituto del silenzio–rifiuto e dello strumento processuale di cui agli articoli 31 e 117 c. p. a. vorrebbe dire neutralizzare, in pratica, la condizione di inoppugnabilità del provvedimento amministrativo (nella specie, concessivo di finanziamenti a imprese concorrenti) che non sia stato contestato nei modi ed entro i termini di legge, vanificando in questo modo una garanzia di certezza dei rapporti giuridici che vedono coinvolta una P.A. (certezza che è essa stessa un bene irrinunciabile posto a tutela anche dei cittadini), e avvilendo lo stesso principio di economicità dell’azione amministrativa, che verrebbe posto nel nulla ove si imponesse, a semplice richiesta dell’ interessato, l’obbligo di riesame di provvedimenti restati inoppugnati (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.10.2012 n. 5199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo, e perciò non impugnabile, o di conferma in senso proprio e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini, occorre verificare se l’atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione di interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto a un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può dare luogo a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita a un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione. Ricorre, invece, l'atto meramente confermativo (di c.d. conferma impropria) quando l'Amministrazione, a fronte di una istanza di riesame, si limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione.
La giurisprudenza soggiunge che qualora l’atto successivo, adottato sulla base di una rinnovata istruttoria e di una nuova motivazione, abbia valore di atto di conferma in senso proprio, e non di atto meramente confermativo, dev’essere dichiarato improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso diretto avverso il provvedimento che, in pendenza del giudizio, sia stato sostituito dal provvedimento di conferma innovativo e dotato di autonoma efficacia lesiva della sfera giuridica del suo destinatario, come tale idoneo a rendere priva di ogni utilità la pronuncia sul ricorso proposto avverso il precedente provvedimento.

La giurisprudenza consolidata di questo Consiglio -il che esime dal fare citazioni particolari- ha statuito che allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo, e perciò non impugnabile, o di conferma in senso proprio e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini, occorre verificare se l’atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione di interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto a un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può dare luogo a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita a un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione. Ricorre, invece, l'atto meramente confermativo (di c.d. conferma impropria) quando l'Amministrazione, a fronte di una istanza di riesame, si limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione.
La giurisprudenza soggiunge che qualora l’atto successivo, adottato sulla base di una rinnovata istruttoria e di una nuova motivazione, abbia valore di atto di conferma in senso proprio, e non di atto meramente confermativo, dev’essere dichiarato improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso diretto avverso il provvedimento che, in pendenza del giudizio, sia stato sostituito dal provvedimento di conferma innovativo e dotato di autonoma efficacia lesiva della sfera giuridica del suo destinatario, come tale idoneo a rendere priva di ogni utilità la pronuncia sul ricorso proposto avverso il precedente provvedimento (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.10.2012 n. 5196 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: L’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica non fa venir meno l’obbligo di restituire al privato il bene illegittimamente appreso e ciò superando l’interpretazione che riconnetteva alla costruzione dell’opera pubblica e all’irreversibile trasformazione dello stato dei luoghi effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del privato.
La Corte Costituzionale con la sentenza 04.10.2010 n. 293 recante declaratoria della illegittimità costituzionale dell’art. 43 del Testo unico sulle espropriazioni ha ritenuto che la realizzazione dell’opera pubblica non costituisca impedimento alla restituzione dell’area illegittimamente espropriata e ciò indipendentemente dalle modalità -occupazione acquisitiva o usurpativa- di acquisizione del terreno.
La presenza di un’opera pubblica sull’area illegittimamente occupata costituisce in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo di acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà per cui solo il formale atto di acquisizione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi della proprietà in altri comportamenti, fatto o contegni.
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La illegittimità dell’avvenuta occupazione sine titulo e la natura di illecito permanente della disponibilità del bene da parte dell’Amministrazione pubblica, senza che ciò sia sostenuto da un idoneo titolo, integra gli estremi della sussistenza dell’elemento soggettivo della colpa intesa come consapevolezza da parte di un organo competente di violazione della norma comportamentale di buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost., dandosi così luogo ad una fattispecie di responsabilità che fa insorgere in capo all’Amministrazione un’obbligazione risarcitoria.

Nel caso de quo si è decisamente in presenza di una fattispecie di un’occupazione illegittima, avvenuta sine titulo, prodottasi a seguito dell’annullamento del decreto di occupazione d’urgenza e della intervenuta inefficacia del decreto di esproprio, con la conseguenza che il Consorzio ha nella sua disponibilità, sine titulo parte dei terreni di proprietà dei Guetti che, come correttamente statuito dal primo giudice devono essere restituiti.
Occorre invero dare atto della intervenuta espunzione dal nostro ordinamento dell’istituto dell’acquisizione de facto della proprietà in mano pubblica a seguito della realizzazione dell’opera.
Questa Sezione ha già avuto modo di precisare (Cons. Stato Sez. IV 30.01.2006 n. 290; idem 07.04.2010 n. 1983) che l’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica non fa venir meno l’obbligo di restituire al privato il bene illegittimamente appreso e ciò superando l’interpretazione che riconnetteva alla costruzione dell’opera pubblica e all’irreversibile trasformazione dello stato dei luoghi effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del privato.
La Corte Costituzionale con la sentenza 04.10.2010 n. 293 recante declaratoria della illegittimità costituzionale dell’art. 43 del Testo unico sulle espropriazioni ha ritenuto che la realizzazione dell’opera pubblica non costituisca impedimento alla restituzione dell’area illegittimamente espropriata e ciò indipendentemente dalle modalità -occupazione acquisitiva o usurpativa- di acquisizione del terreno (in tal senso anche Cons. Stato Sez. V 02.11.2011 n. 5844).
La presenza di un’opera pubblica sull’area illegittimamente occupata costituisce in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo di acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà per cui solo il formale atto di acquisizione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi della proprietà in altri comportamenti, fatto o contegni.
Quanto esposto comporta la infondatezza della tesi giuridica avanzata dalla parte appellante, non potendo alla luce delle statuizioni giurisprudenziali e delle novità legislative intervenute darsi usbergo ad una ipotesi di acquisizione dell’area e degli immobili ivi realizzati per via dell’istituto civilistico della specificazione.
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In proposito è sufficiente far rilevare che la illegittimità dell’avvenuta occupazione sine titulo e la natura di illecito permanente della disponibilità del bene da parte dell’Amministrazione pubblica senza che ciò sia sostenuto da un idoneo titolo integra gli estremi della sussistenza dell’elemento soggettivo della colpa intesa come consapevolezza da parte di un organo competente di violazione della norma comportamentale di buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost., dandosi così luogo ad una fattispecie di responsabilità che fa insorgere in capo all’Amministrazione un’obbligazione risarcitoria.
In particolare, la gestione da parte del Consorzio dei suoli in questione in relazione alla alterata fisionomia e funzione dei terreni e alla non giustificata fruizione degli stessi costituisce condotta in cui sono ravvisabili i caratteri dell’illecito secondo il modello della responsabilità aquiliana in termini di colpa oltreché di evento dannoso e di nesso di causalità (Cons. Stato Sez. IV 10.12.2009 n. 7744)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.10.2012 n. 5189 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il termine decennale di prescrizione dell'obbligazione sul pagamento degli oneri concessori decorre, nell'ipotesi di mancata esplicita definizione della domanda di condono, dalla formazione del silenzio assenso e questo, ai sensi dell'art. 35, l. 28.02.1985 n. 47, si forma dopo il termine di ventiquattro mesi decorrente dalla data nella quale viene depositata la documentazione completa a corredo della domanda di concessione.
Il contributo di concessione dovuto, in caso di condono edilizio, ai sensi dell'art. 37, l. 28.02.1985 n. 47, è soggetto a prescrizione decennale, la quale decorre dal momento in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.). Il termine stesso decorre dall'emanazione della concessione edilizia in sanatoria o, in alternativa, dalla scadenza del termine perentorio di ventiquattro mesi dalla presentazione della domanda, decorso il quale quest'ultima si intende accolta ove l'interessato provveda al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio, formandosi così il silenzio-assenso.
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Posto che per gli oneri di urbanizzazione e costo di costruzione il "dies a quo" decorre dal rilascio della concessione edilizia, e, quindi, da un momento in cui sono esattamente noti tutti gli elementi utili alla determinazione dell'entità del contributo, relativamente al conguaglio dell'oblazione dovuta in caso di condono edilizio, il "dies a quo" non può coincidere con la presentazione della domanda, sfornita della documentazione prescritta per la domanda di condono, richiesta ai fini della corretta e definitiva determinazione dell'entità dell'oblazione; sicché la decorrenza del termine di prescrizione presuppone -tanto in favore della pubblica amministrazione per l'eventuale conguaglio, quanto in favore del privato per l'eventuale rimborso- che la pratica di sanatoria edilizia sia definita in tutti i suoi aspetti e siano, per l'effetto, precisamente determinabili, alla stregua dei parametri stabiliti dalla legge, l'"an" ed il "quantum" dell'obbligazione gravante sul privato; ciò che riflette puntualmente la "ratio" sottesa all'art. 2935 c.c. secondo il quale, in generale, la prescrizione non può decorrere se non dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere.

Invero costituisce approdo consolidato in giurisprudenza quello per cui “il termine decennale di prescrizione dell'obbligazione sul pagamento degli oneri concessori decorre, nell'ipotesi di mancata esplicita definizione della domanda di condono, dalla formazione del silenzio assenso e questo, ai sensi dell'art. 35, l. 28.02.1985 n. 47, si forma dopo il termine di ventiquattro mesi decorrente dalla data nella quale viene depositata la documentazione completa a corredo della domanda di concessione.” (TAR Sardegna Cagliari, sez. II, 17.11.2010, n. 2600);
Il contributo di concessione dovuto, in caso di condono edilizio, ai sensi dell'art. 37, l. 28.02.1985 n. 47, è soggetto a prescrizione decennale, la quale decorre dal momento in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.). Il termine stesso decorre dall'emanazione della concessione edilizia in sanatoria o, in alternativa, dalla scadenza del termine perentorio di ventiquattro mesi dalla presentazione della domanda, decorso il quale quest'ultima si intende accolta ove l'interessato provveda al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio, formandosi così il silenzio—assenso.” (TAR Trentino Alto Adige Trento, sez. I, 09.12.2010, n. 234).
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La censura non ha pregio, laddove si consideri che per costante quanto pacifica opzione ermeneutica (peraltro pienamente condivisa dal Collegio in quanto aderente alla lettera della legge e non collidente con la ratio che presiede alla formazione del titolo abilitativo per silentium) “posto che per gli oneri di urbanizzazione e costo di costruzione il "dies a quo" decorre dal rilascio della concessione edilizia, e, quindi, da un momento in cui sono esattamente noti tutti gli elementi utili alla determinazione dell'entità del contributo, relativamente al conguaglio dell'oblazione dovuta in caso di condono edilizio, il "dies a quo" non può coincidere con la presentazione della domanda, sfornita della documentazione prescritta per la domanda di condono, richiesta ai fini della corretta e definitiva determinazione dell'entità dell'oblazione; sicché la decorrenza del termine di prescrizione presuppone -tanto in favore della pubblica amministrazione per l'eventuale conguaglio, quanto in favore del privato per l'eventuale rimborso- che la pratica di sanatoria edilizia sia definita in tutti i suoi aspetti e siano, per l'effetto, precisamente determinabili, alla stregua dei parametri stabiliti dalla legge, l'"an" ed il "quantum" dell'obbligazione gravante sul privato; ciò che riflette puntualmente la "ratio" sottesa all'art. 2935 c.c. secondo il quale, in generale, la prescrizione non può decorrere se non dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere.” (TAR Campania Salerno, sez. II, 03.06.2010, n. 8224) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.10.2012 n. 5201 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La disciplina di cui agli artt. 4 e 5 del DPR 20.10.1998 n. 447, volta a favorire ed a semplificare la realizzazione di impianti produttivi di beni e servizi, costituisce una procedura di tipo derogatorio, che non vale ad espropriare l’Ente locale degli ordinari poteri di assumere le definitive determinazioni al riguardo; e la proposta di variante positivamente assunta dalla conferenza dei servizi non è vincolante per il Consiglio comunale.
In particolare, in tale contesto logico-procedimentale, la proposta della citata conferenza assume in pratica il ruolo di un atto d’impulso, strumentale alla prosecuzione del procedimento, in cui il Consiglio comunale può e deve autonomamente valutare se aderire o meno alla proposta in questione.

Oggetto di controversia è l’autorizzabilità o meno di una “struttura ricettiva adibita ad albergo per anziani” in area classificata agricola che vede contrapposti, da un lato, il richiedente, “forte” di un parere della conferenza dei servizi, favorevole alla realizzazione dell’intervento de quo mediante una variante puntuale ex art. 5 del DPR n. 447 del 20/10/1998, e, dall’altro lato, il Comune di Gagliano del Capo, contrario al progetto in questione per una serie di ragioni sostanzialmente coincidenti con una opposta non compatibilità paesaggistico-urbanistica dell’opera.
La parte privata appellante, con l’articolato mezzo di gravame, rileva in via prioritaria a carico della contestata deliberazione consiliare n. 37/2010 l’assenza di una motivazione che dia adeguata contezza della determinazione con cui l’Amministrazione si è discostata dal parere della conferenza dei servizi.
Il dedotto profilo di illegittimità non sussiste.
Nella parte narrativa della delibera n. 37/2010 il Consiglio comunale ha esplicitato in maniera dettagliata le ragioni che si frappongono all’approvazione del progetto, esplicitate specificatamente con riferimento a tre profili di considerazioni, così riassumibili:
a) l’eccessiva antropizzazione dell’area, con alterazione delle sue caratteristiche, che sarebbe derivata dall’approvazione della proposta del sig. Ciardo;
b) l’assenza di adeguate opere di infrastrutturazione nell’ambito agricolo di che trattasi, contrassegnato da inadeguata viabilità di accesso;
c) la non configurabilità di un tipologia di insediamento produttivo giustificante l’applicazione della variante derogatoria allo strumento urbanistico di cui al DPR n. 447/1998.
Ebbene, dal punto di vista logico-formale, il suindicato l’ordito motivazionale contenuto in delibera, per come articolato, reca una ragionevole spiegazione del perché l’organo consiliare ha ritenuto di assumere un divisamento difforme rispetto al parere reso all’esito della conferenza dei servizi, per cui il dedotto vizio di difetto di motivazione, inteso come assenza di ragioni giustificative, non è rilevabile a carico dell’atto de quo, dovendosi convenire che l’Amministrazione comunale ha “adeguatamente” adempiuto all’onere di dover dare contezza del perché delle sua decisione.
Naturalmente occorre pure verificare se le argomentazioni rese a sostegno del diniego di approvazione resistano o meno alle critiche di carattere sostanziale portate dall’appellante in ordine a ciascuna delle ragioni indicate sub a), b) e c), quanto a valenza e congruità, tali da legittimare il discostarsi dal parere della più volte citata conferenza dei servizi.
In ogni modo, non può in primo luogo ritenersi esaustiva ed assorbente la determinazione della conferenza dei servizi assunta in via prodromica, dovendosi riconoscere al Comune, in sede di delibazione di una proposta di variazione allo strumento urbanistico, come quella approvata con il modulo procedimentale ex art. 14 legge n. 241/1990, la facoltà di poter svolgere un’ autonoma, ulteriore valutazione in merito alla compatibilità a o meno della progettata opera con la disciplina dell’assetto del territorio.
Come già precisato da questo Consiglio di Stato in consimili vicende, la disciplina di cui agli artt. 4 e 5 del DPR 20.10.1998 n. 447, volta a favorire ed a semplificare la realizzazione di impianti produttivi di beni e servizi, costituisce una procedura di tipo derogatorio, che non vale ad espropriare l’Ente locale degli ordinari poteri di assumere le definitive determinazioni al riguardo; e la proposta di variante positivamente assunta dalla conferenza dei servizi non è vincolante per il Consiglio comunale (Sez. IV 14.04.2006 n. 2170).
In particolare, in tale contesto logico-procedimentale, la proposta della citata conferenza assume in pratica il ruolo di un atto d’impulso, strumentale alla prosecuzione del procedimento, in cui il Consiglio comunale può e deve autonomamente valutare se aderire o meno alla proposta in questione (Sez. IV 07.05.2004 n. 2874).
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Rimangono da esaminare le censure riguardanti la qualificazione della struttura che si intende realizzare.
Fermo restando che le ragioni di tipo “urbanistico-ambientali”, nei sensi sopra specificati, sono di per sé idonee a legittimare l’opposto diniego, parte appellante insiste nella tesi della natura produttiva dell’insediamento (quindi della possibilità, sotto tale profilo, della variazione in deroga ex art. 5 DPR n. 447/1998) in ragione della qualifica di struttura ricettiva di tipo alberghiero recata dal progettato intervento.
Ora, al di là del fatto che un albergo per anziani non rientra tra le tipologie delle strutture ricettive previste dalla legge regionale n. 11 dell’11/02/1999, recante la classificazione degli impianti ad uso ricettivo, non può negarsi la “singolarità” e la “specialità” di un albergo rivolto esclusivamente ad una determinata fascia di utenti, quella degli anziani autosufficienti; e riesce veramente difficile configurare una struttura ricettiva destinata unicamente a clienti deputati a fruire della struttura in base all’avanzata età (peraltro non facilmente determinabile dal punto di vista fisiologico).
Da ciò ben può inferirsi la sussistenza in capo all’Amministrazione procedente di legittime e giustificate riserve, come quelle formulate sul punto, che concorrono anch’esse a considerare non compatibile con l’assetto territoriale il progettato intervento (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.10.2012 n. 5187 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: La legittimazione dei consiglieri comunali ad impugnare gli atti degli organo di cui fanno parte è limitata ai casi in cui vengono in rilievo determinazioni direttamente incidenti sul diritto all’ufficio ovvero violazioni procedurali lesive in via diretta del munus di componente dell’organo.
La Sezione deve qui ribadire il più che consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui la legittimazione dei consiglieri comunali ad impugnare gli atti degli organo di cui fanno parte è limitata ai casi in cui vengono in rilievo determinazioni direttamente incidenti sul diritto all’ufficio ovvero violazioni procedurali lesive in via diretta del munus di componente dell’organo (Cons. Stato Sez. V 15.12.2005 n. 7122; Cons. Stato Sez. II 09.04.2008 n. 2881).
Ora, come correttamente osservato dal Tar il vizio procedurale dedotto dagli attuali appellanti costituito dalla riattivazione del procedimento di adozione del PUC dalla fase di controdeduzioni alle osservazioni anche avuto riguardo ai profili di illegittimità sanciti dallo stesso Tar con la precedente sentenza n. 1452/2006 non attiene alle prerogative proprie dei consiglieri giacché non va ad incidere sull’interesse alla regolare e leale dialettica assembleare che non viene appunto pregiudicato e se così è, in ragione dei limiti di legittimazione testé illustrati, non si può riconoscere ai predetti componenti dell’organo consiliare l’interesse processuale a rilevare profili di doglianza che escludono la sussistenza di una posizione giuridica differenziata legittimante la loro contestazione giudiziale (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.10.2012 n. 5184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le determinazioni amministrative che definiscono gli abusi edilizi costituiscono atti aventi natura vincolata, che pongono in essere un modus agendi tracciato in modo analitico dal legislatore, senza che in capo all’Amministrazione ricada uno specifico onere di motivazione sia sull’an sia sull’interesse pubblico sotteso all’adozione delle misure che si vanno ad assumere.
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Il vincolo di inedificabilità assoluta, gravante sull’area su cui insiste il manufatto abusivamente realizzato, legittima e rende doveroso il provvedimento di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, indipendentemente dalla consistenza della struttura realizzata senza titolo alcuno
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L’ordine demolizione di opera edilizia abusiva è sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera anche in riferimento all’interesse pubblico che si intende insito nella misura adottata, senza che nella specie ci si trovi di fronte al protrarsi del tempo trascorso dalla commissione dell’abuso e al protrarsi dell’inerzia dell’amministrazione a provvedere, uniche condizioni che imporrebbero una specifica, congrua motivazione sul punto.
Relativamente poi alla questione sollevata sub b) è sufficiente osservare come le determinazioni amministrative che definiscono gli abusi edilizi costituiscono, per costante giurisprudenza, atti aventi natura vincolata, che pongono in essere un modus agendi tracciato in modo analitico dal legislatore, senza che in capo all’Amministrazione ricada uno specifico onere di motivazione sia sull’an sia sull’interesse pubblico sotteso all’adozione delle misure che si vanno ad assumere (Cons. Stato Sez. IV 31.08.2010 n. 3955; idem 01.10.2007 n. 5049; 10.12.2007 n. 6344; Cons. Stato Sez. V 05.09.2009 n. 5229): da ciò deriva, per tali profili, la legittimità degli atti adottati dall’Amministrazione comunale di Anacapri, come peraltro puntualmente rilevato dal Tar con osservazioni e conclusioni che ribadiscono i principi giurisprudenziali sopra esposti.
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Infondato si rivela altresì il quinto motivo d’appello con cui parte appellante lamenta la mancata irrogazione della sanzione pecuniaria in luogo della adottata misura ripristinatoria trattandosi, ad avviso dei sigg.ri Petrone-Grilli, di opere non soggette al regime di cui all’art. 10 del DPR n. 380/2001.
Come già fatto presente, l’opera de qua ricade in area soggetta a vincolo paesaggistico preesistente e non risulta compatibile con la normativa edilizia, non risultando suscettibile di sanatoria ai sensi dell’art. 32, comma 27, del d.l. 30.09.2003 n.269 .
Ciò significa che il vincolo di inedificabilità assoluta, gravante sull’area su cui insiste il manufatto abusivamente realizzato, legittima e rende doveroso il provvedimento di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, indipendentemente dalla consistenza della struttura realizzata senza titolo alcuno, come da orientamento giurisprudenziale da tempo affermatosi (Cons. Stato Sez. VI 20.11.1998 n. 1583).
Va disattesa infine la censura formulata col sesto ed ultimo motivo di gravame circa l’assenza di una motivazione specifica sull’interesse pubblico a demolire: è sufficiente in proposito richiamare quanto osservato in ordine alle doglianze di cui al terzo e quarto motivo dell’appello, per qui riaffermarsi l’assoluta assenza in capo all’Amministrazione di un onere motivazionale del genere di quello individuato da parte appellante.
L’ordine demolizione di opera edilizia abusiva è sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera anche in riferimento all’interesse pubblico che si intende insito nella misura adottata, senza che nella specie ci si trovi di fronte al protrarsi del tempo trascorso dalla commissione dell’abuso e al protrarsi dell’inerzia dell’amministrazione a provvedere, uniche condizioni (nella specie non rinvenienti) che imporrebbero una specifica, congrua motivazione sul punto (Cons. Stato Sez. IV 06.06.2008 n. 2705; Cons. Stato Sez. V 04.03.2008 n. 883)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.10.2012 n. 5183 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Motivazione ordinanza demolizione e diniego sanatoria.
Le determinazioni amministrative che definiscono gli abusi edilizi costituiscono, per costante giurisprudenza, atti aventi natura vincolata, che pongono in essere un modus agendi tracciato in modo analitico dal legislatore, senza che in capo all’Amministrazione ricada uno specifico onere di motivazione sull’interesse pubblico sotteso all’adozione delle misure che si vanno ad assumere.
L’ordine di demolizione di opera edilizia abusiva è sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata abusività anche in riferimento all’interesse pubblico che si intende insito nella misura adottata, senza che nella specie ci si trovi di fronte al protrarsi del tempo trascorso dalla commissione dell’abuso e al protrarsi dell’inerzia dell’amministrazione a provvedere, uniche condizioni che imporrebbero una specifica, congrua motivazione sul punto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.10.2012 n. 5183 - tratto da www.lexambiente.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl potere del Sindaco, quale Ufficiale di Governo, di adottare ordinanze contingibili ed urgenti può essere esercitato al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini e solo per fronteggiare situazioni di carattere eccezionale ed imprevedibile, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, con la conseguenza che prima dell’adozione di tali ordinanze si impone un rigoroso accertamento in concreto della sussistenza dei presupposti che ne giustificano l’esercizio, dando atto in motivazione della situazione di grave e concreto pericolo per l’interesse pubblico specifico a cui si intende apprestare una tutela anticipata attraverso l’adozione dell’ordinanza contingibile ed urgente.
Ora, se è pur vero che la dichiarazione dello stato di emergenza costituisce una valutazione rimessa alla discrezionalità dell’Amministrazione ed assume come suoi presupposti non solo calamità naturali, ma anche altri eventi, che comunque per intensità ed estensione non possano essere fronteggiati con mezzi ordinari ed indipendentemente dalla causa che li hanno ingenerati, deve rilevarsi che questo Giudice può legittimamente sindacare il corretto esercizio di tale potere, al fine di verificare la sussistenza dei presupposti di legge ed accertare se le misure assunte non siano manifestamente irragionevoli, irrazionali o illogiche.

Carattere pregiudiziale ed assorbente rivestono in merito le doglianze dedotte con il primo, il secondo ed quarto motivo di ricorso e con le quali il ricorrente si è lamentato nella sostanza del fatto che l’ordinanza contingibile non trovava fondamento nella necessità di porre riparo ad un evento straordinario ed imprevedibile, con danno grave ed imminente per l’incolumità pubblica (primo motivo), che era illogico il non aver utilizzato il percorso già da tempo individuato nella variante al P.R.E. e che al ricorrente non era stata data comunicazione dell’avvio del procedimento, né lo stesso era stato convocato nel momento in cui era stato svolto un sopralluogo per individuare un “percorso di emergenza”.
Va, invero, osservato che -come ha costantemente chiarito la giurisprudenza amministrativa (cfr., da ultimo, TAR Campania, sede Napoli, sez. V, 13.06.2012, n. 2799, TAR Puglia, sede Bari, sez. II, 05.06.2012, n. 1099, e Cons. St., sez. IV, 06.12.2011, n. 6414)- il potere del Sindaco, quale Ufficiale di Governo, di adottare ordinanze contingibili ed urgenti può essere esercitato al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini e solo per fronteggiare situazioni di carattere eccezionale ed imprevedibile, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, con la conseguenza che prima dell’adozione di tali ordinanze si impone un rigoroso accertamento in concreto della sussistenza dei presupposti che ne giustificano l’esercizio, dando atto in motivazione della situazione di grave e concreto pericolo per l’interesse pubblico specifico a cui si intende apprestare una tutela anticipata attraverso l’adozione dell’ordinanza contingibile ed urgente.
Ora, se è pur vero che la dichiarazione dello stato di emergenza costituisce una valutazione rimessa alla discrezionalità dell’Amministrazione ed assume come suoi presupposti non solo calamità naturali, ma anche altri eventi, che comunque per intensità ed estensione non possano essere fronteggiati con mezzi ordinari ed indipendentemente dalla causa che li hanno ingenerati, deve rilevarsi che questo Giudice può legittimamente sindacare il corretto esercizio di tale potere, al fine di verificare la sussistenza dei presupposti di legge ed accertare se le misure assunte non siano manifestamente irragionevoli, irrazionali o illogiche.
Ciò detto e per passare all’esame del caso di specie, deve evidenziarsi che le operazioni di ordinaria manutenzione della vasca in parola non erano state svolte regolarmente da anni; cosi come da anni era rimasto irrisolta la questione delle definitiva individuazione del tracciato da seguire per consentire ai mezzi di raggiungere la vasca in questione.
Per cui, ad avviso del Collegio, innanzi tutto non sembra che sussistessero nella fattispecie i presupposti di legge per esercitare legittimamente il potere di ordinanza, in quanto per un verso non si trattava di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciavano l’incolumità dei cittadini e per altro verso non si trattava di fronteggiare una situazione di carattere eccezionale ed imprevedibile, dal momento che il problema dell’individuazione del tracciato per raggiungere la vasca era da anni a conoscenza dell’Amministrazione comunale, che non aveva ritenuto di risolverlo in via definitiva.
Va, inoltre, evidenziato che la problematica in questione era stata da tempo evidenziata (nell’agosto 2011 erano pervenute al Comune le prime segnalazioni dei cittadini interessati) per cui si sarebbe potuto agevolmente consentire la partecipazione del ricorrente al procedimento, visto che l’atto impugnato è stato assunto solo nel dicembre successivo. Né sono state adeguatamente spiegate nell’atto impugnato le ragioni per le quali non era stato utilizzato il percorso, ancorché non definitivo, indicato nello strumento urbanistico e si era preferito attraversare il terreno del ricorrente.
Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso in esame deve, conseguentemente, essere accolto e, per l’effetto, deve essere annullato l’atto impugnato (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 02.10.2012 n. 396 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’avvalimento è istituto di soccorso al concorrente in sede di gara e, di conseguenza, va escluso chi si avvale di impresa ausiliaria a sua volta priva del requisito richiesto dal bando nella misura sufficiente ad integrare il proprio requisito di qualificazione mancante.
Vero è che l’istituto dell’avvalimento risponde all’esigenza della massima partecipazione alle gare, consentendo ai concorrenti che siano privi dei requisiti richiesti dal bando di concorrere ricorrendo ai requisiti di altri soggetti; tuttavia, l’istituto va letto in coerenza con la normativa comunitaria che è volta sì a favorire la massima concorrenza, ma come condizione di maggior garanzia e di sicura ed efficiente esecuzione degli appalti.
Se ne deduce che la possibilità di ricorrere ad ausiliari presuppone che i requisiti mancanti siano da questi integralmente e autonomamente posseduti, senza poter estendere teoricamente all’infinito la catena dei possibili subausilairi.
Va considerato, infatti, che solo il concorrente assume obblighi contrattuali nei confronti della stazione appaltante, tanto che l’ausiliario si obbliga verso il concorrente e la stazione appaltante a mettere a disposizione le risorse necessarie di cui è carente il concorrente mediante apposita dichiarazione (art. 49, comma 3, lett. d)) ed, inoltre, l’ausiliario diventa ex lege responsabile in solido con il concorrente in relazione alle prestazioni oggetto del contratto (art. 49, comma 4).
La responsabilità solidale, che è garanzia di buona esecuzione dell’appalto, può sussistere solo in quanto l’impresa ausiliaria è collegata contrattualmente al concorrente, tant’è che l’art. 49 prescrive l’allegazione, già in occasione della domanda di partecipazione, del contratto di avvalimento; tale vincolo contrattuale diretto col concorrente e con la stazione appaltante non sussisterebbe, invece, nel caso in cui si trattasse di avvalimento da parte dell’ausiliario di requisiti posseduti da terzi.
Inoltre, l’estensione della categoria di “concorrente” sino a ricomprendere l’ausiliario e/o il soggetto indicato dal concorrente per la progettazione (come nella fattispecie), comportando potenzialmente una catena di avvalimenti di ausiliarie dell’ausiliaria (potenzialmente all’infinito), non consentirebbe un controllo agevole da parte della stazione appaltante in sede di gara sul possesso dei requisiti dei partecipanti.

Il Collegio non condivide tale interpretazione, che contrasta sia con la lettera che con la ratio dell’art. 49 del codice dei contratti.
Ed invero, l’art. 49, comma 2, cod. contratti utilizza in proposito l’espressione “concorrente”, con la quale si riferisce in equivocamente al solo operatore economico che presenta domanda di partecipazione alla gara. Questi, ove voglia ricorrere all’avvalimento, è tenuto a dichiarare ed allegare, unitamente alla domanda di partecipazione, il possesso da parte del soggetto avvalso dei requisiti che, sommati ai propri, integrano la prescrizione del bando.
L’avvalimento, in altri termini, è istituto di soccorso al concorrente in sede di gara e, di conseguenza, va escluso chi si avvale di impresa ausiliaria a sua volta priva del requisito richiesto dal bando nella misura sufficiente ad integrare il proprio requisito di qualificazione mancante (cfr. C.d.S., Sez. VI, 02.05.2012, n. 2508).
Vero è che l’istituto dell’avvalimento risponde all’esigenza della massima partecipazione alle gare, consentendo ai concorrenti che siano privi dei requisiti richiesti dal bando di concorrere ricorrendo ai requisiti di altri soggetti; tuttavia, l’istituto va letto in coerenza con la normativa comunitaria che è volta sì a favorire la massima concorrenza, ma come condizione di maggior garanzia e di sicura ed efficiente esecuzione degli appalti.
Se ne deduce che la possibilità di ricorrere ad ausiliari presuppone che i requisiti mancanti siano da questi integralmente e autonomamente posseduti, senza poter estendere teoricamente all’infinito la catena dei possibili subausilairi.
Va considerato, infatti, che solo il concorrente assume obblighi contrattuali nei confronti della stazione appaltante, tanto che l’ausiliario si obbliga verso il concorrente e la stazione appaltante a mettere a disposizione le risorse necessarie di cui è carente il concorrente mediante apposita dichiarazione (art. 49, comma 3, lett. d)) ed, inoltre, l’ausiliario diventa ex lege responsabile in solido con il concorrente in relazione alle prestazioni oggetto del contratto (art. 49, comma 4).
La responsabilità solidale, che è garanzia di buona esecuzione dell’appalto, può sussistere solo in quanto l’impresa ausiliaria è collegata contrattualmente al concorrente, tant’è che l’art. 49 prescrive l’allegazione, già in occasione della domanda di partecipazione, del contratto di avvalimento; tale vincolo contrattuale diretto col concorrente e con la stazione appaltante non sussisterebbe, invece, nel caso in cui si trattasse di avvalimento da parte dell’ausiliario di requisiti posseduti da terzi.
Inoltre, l’estensione della categoria di “concorrente” sino a ricomprendere l’ausiliario e/o il soggetto indicato dal concorrente per la progettazione (come nella fattispecie), comportando potenzialmente una catena di avvalimenti di ausiliarie dell’ausiliaria (potenzialmente all’infinito), non consentirebbe un controllo agevole da parte della stazione appaltante in sede di gara sul possesso dei requisiti dei partecipanti (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 01.10.2012 n. 5161 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’ordine di demolizione non deve essere necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario ed il cui presupposto è costituto unicamente dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo.
Né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art. 3, l. n. 241 del 1990, dato che, ricorrendo i predetti requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione.
Anche qualora intercorra un lungo periodo di tempo tra la realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento sanzionatorio, tale circostanza non rileva ai fini della legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso affidamento circa la legittimità dell'opera, che il protrarsi del comportamento inerte del comune avrebbe ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in relazione ad un presunto ulteriore obbligo, per l'amministrazione procedente, di motivare specificamente il provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico attuale a far demolire il manufatto, poiché la lunga durata nel tempo dell'opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza il carattere abusivo (trattandosi di illecito permanente), il che preserva il potere-dovere dell'amministrazione di intervenire nell'esercizio dei suoi poteri sanzionatori, tanto più che il provvedimento demolitorio non richiede una congrua motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso, che è in re ipsa.
Al riguardo va rimarcato che, per orientamento costante di questo Collegio, l’ordine di demolizione non deve essere necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario ed il cui presupposto è costituto unicamente dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo.
Né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art. 3, l. n. 241 del 1990, dato che, ricorrendo i predetti requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (cfr., ex plurimis, Consiglio Stato, sez. IV, 31.08.2010, n. 3955).
Anche qualora intercorra un lungo periodo di tempo tra la realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento sanzionatorio, tale circostanza non rileva ai fini della legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso affidamento circa la legittimità dell'opera, che il protrarsi del comportamento inerte del comune avrebbe ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in relazione ad un presunto ulteriore obbligo, per l'amministrazione procedente, di motivare specificamente il provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico attuale a far demolire il manufatto, poiché la lunga durata nel tempo dell'opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza il carattere abusivo (trattandosi di illecito permanente), il che preserva il potere-dovere dell'amministrazione di intervenire nell'esercizio dei suoi poteri sanzionatori, tanto più che il provvedimento demolitorio non richiede una congrua motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso, che è in re ipsa (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 01.10.2012 n. 4005 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’obbligo del rilascio della licenza edilizia è stato introdotto per il centro urbano dalla legge n. 1150 del 1942, e con la legge n. 765/1967 è stato esteso a tutto il territorio comunale.
Inoltre la opposta anteriorità al 1967 non è idonea a comprovare la dedotta legittimità delle opere in contestazione in quanto l’obbligo del rilascio della licenza edilizia è stato introdotto per il centro urbano dalla legge n. 1150 del 1942, e con la legge n. 765/1967 è stato esteso a tutto il territorio comunale (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 01.10.2012 n. 4005 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa necessità del previo rilascio del permesso di costruire può configurarsi anche in presenza di opere che attuino una trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio anche se esse non consistano in opere murarie, essendo realizzate in metallo, in laminati di plastica, in legno od altro materiale, in presenza di trasformazioni preordinate a soddisfare esigenze non precarie del costruttore.
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Nel caso delle canne fumarie, la giurisprudenza ha altresì ravvisato la necessità del previo rilascio del permesso di costruire qualora esse non presentino piccole dimensioni, siano di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla sagoma dell’immobile, e non possano considerarsi un elemento meramente accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell'immobile.
Nella specie, come risulta evidente dalle riproduzioni fotografiche in atti, le due canne fumarie installate sull’edificio in esame per le dimensioni, l’altezza, la relativa conformazione, e la destinazione alla espulsione dei fumi di un esercizio di ristorazione dotato di un forno, incidono sul prospetto e la sagoma della costruzione su cui sono installate. Esse infatti si presentano, nello spazio interessante la sua apposizione ed elevazione in altezza, come un visibile prolungamento completativo degli elementi costituenti una delle facciate interne dell’edificio esistente.
Le canne fumarie in oggetto non possono perciò considerarsi, come sostiene la ricorrente, un elemento meramente accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell’immobile.
Contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente, infatti, l’intervento in esame, ad avviso del Collegio, è riconducibile ai lavori di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1°, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, realizzati tramite inserimento di nuovi elementi ed impianti, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R. laddove comporti, come nel caso di specie, una modifica del prospetto del fabbricato cui inerisce, come del resto chiaramente evincibile dalle riproduzioni fotografiche in atti.
Peraltro la necessità del previo rilascio del permesso di costruire può configurarsi anche in presenza di opere che attuino una trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio anche se esse non consistano in opere murarie, essendo realizzate in metallo, in laminati di plastica, in legno od altro materiale, in presenza di trasformazioni preordinate a soddisfare esigenze non precarie del costruttore.
Nel caso delle canne fumarie, la giurisprudenza ha altresì ravvisato la necessità del previo rilascio del permesso di costruire qualora esse non presentino piccole dimensioni, siano di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla sagoma dell’immobile, e non possano considerarsi un elemento meramente accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell'immobile (cfr. Tar Veneto Tar Lazio n. 4246 18.05.2001).
Nella specie, come risulta evidente dalle riproduzioni fotografiche in atti, le due canne fumarie installate sull’edificio in esame per le dimensioni, l’altezza, la relativa conformazione, e la destinazione alla espulsione dei fumi di un esercizio di ristorazione dotato di un forno, incidono sul prospetto e la sagoma della costruzione su cui sono installate. Esse infatti si presentano, nello spazio interessante la sua apposizione ed elevazione in altezza, come un visibile prolungamento completativo degli elementi costituenti una delle facciate interne dell’edificio esistente.
Le canne fumarie in oggetto non possono perciò considerarsi, come sostiene la ricorrente, un elemento meramente accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell’immobile
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 01.10.2012 n. 4005 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di demolizione, la figura del responsabile dell’abuso non si identifica solo in colui che ha materialmente eseguito l’opera ritenuta abusiva, ma si riferisce, necessariamente, anche a colui che di quell’opera ha la materiale disponibilità e pertanto, quale detentore, è in grado di provvedere alla demolizione restaurando così l’ordine violato.
L’ordine di demolizione, infatti, non presuppone l’accertamento dell’elemento soggettivo integrante responsabilità a carico del suo destinatario, non è un provvedimento diretto a sanzionare un comportamento illegittimo da parte del trasgressore, ma è un atto di tipo ripristinatorio avendo esso la funzione di eliminare le conseguenze della violazione edilizia, attraverso la riduzione in pristino dello stato dei luoghi che consegue alla rimozione delle opere abusive.
Per tale ragione l’ordine di demolizione deve essere rivolto a colui che abbia la disponibilità materiale dell’opera abusiva, indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente realizzata, cosa che potrebbe rilevare sotto il profilo della responsabilità penale, ma non per la legittimità dell’ordine di demolizione. Si è difatti affermato, con riguardo all’analoga posizione dell’utilizzatore di un bene abusivo realizzato su area demaniale che: “i provvedimenti repressivi di illeciti edilizi possono essere indirizzati anche a persone diverse da quelle che hanno materialmente realizzato l’abuso, ma è anche vero che, ai fini della legittimità delle relative ingiunzioni, è sempre necessaria la sussistenza di una relazione giuridica o materiale del destinatario con il bene”.
In ogni caso, il presupposto del provvedimento amministrativo è la realizzazione di un’opera in assenza di permesso di costruire, la cui eliminazione è necessaria per ripristinare il corretto assetto del territorio, sicché l’ordine di demolizione legittimamente è rivolto, ad avviso del Collegio, a colui che al momento della sua irrogazione aveva l’attuale disponibilità del bene abusivo e ciò indipendentemente dal fatto di averlo realizzato.

Al riguardo è bene chiarire che in materia di demolizione, ad avviso del Collegio, la figura del responsabile dell’abuso non si identifica solo in colui che ha materialmente eseguito l’opera ritenuta abusiva, ma si riferisce, necessariamente, anche a colui che di quell’opera ha la materiale disponibilità e pertanto, quale detentore, è in grado di provvedere alla demolizione restaurando così l’ordine violato.
L’ordine di demolizione, infatti, non presuppone l’accertamento dell’elemento soggettivo integrante responsabilità a carico del suo destinatario, non è un provvedimento diretto a sanzionare un comportamento illegittimo da parte del trasgressore, ma è un atto di tipo ripristinatorio avendo esso la funzione di eliminare le conseguenze della violazione edilizia, attraverso la riduzione in pristino dello stato dei luoghi che consegue alla rimozione delle opere abusive.
Per tale ragione l’ordine di demolizione deve essere rivolto a colui che abbia la disponibilità materiale dell’opera abusiva, indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente realizzata, cosa che potrebbe rilevare sotto il profilo della responsabilità penale, ma non per la legittimità dell’ordine di demolizione. Si è difatti affermato, con riguardo all’analoga posizione dell’utilizzatore di un bene abusivo realizzato su area demaniale che: “i provvedimenti repressivi di illeciti edilizi possono essere indirizzati anche a persone diverse da quelle che hanno materialmente realizzato l’abuso, ma è anche vero che, ai fini della legittimità delle relative ingiunzioni, è sempre necessaria la sussistenza di una relazione giuridica o materiale del destinatario con il bene” (cfr C.d.S. sez. IV 16.07.2007 n. 4008).
In ogni caso, il presupposto del provvedimento amministrativo è la realizzazione di un’opera in assenza di permesso di costruire, la cui eliminazione è necessaria per ripristinare il corretto assetto del territorio, sicché l’ordine di demolizione legittimamente è rivolto, ad avviso del Collegio, a colui che al momento della sua irrogazione aveva l’attuale disponibilità del bene abusivo e ciò indipendentemente dal fatto di averlo realizzato
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 01.10.2012 n. 4005 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALICompensi professionali: come calcolo la parcella per una prestazione durata oltre 10 anni?
La Corte di Cassazione, Sez. II civile, si pronuncia, con la sentenza 28.09.2012 n. 16581, in merito al calcolo della parcella di un professionista la cui prestazione lavorativa si è protratta per ben 11 anni.
La tariffa applicabile è quella relativa all’inizio dell’attività, quando è stato sottoscritto il contratto, o si fa riferimento alla tariffa vigente al momento della liquidazione? Oppure sarebbe opportuno frazionare la prestazione professionale?
Durante il corso degli anni c’è stata una evoluzione delle tariffe professionali, fino all’attuale abolizione delle stesse e determinazione del compenso attraverso un preventivo di massima, al momento dell’affidamento dell’incarico, basato esclusivamente sulla contrattazione privata tra professionista e cliente (v. art. 2233 del Codice Civile).
Nel caso in esame, la Cassazione decide che il compenso del professionista va calcolato prendendo come riferimento le tariffe vigenti a fine lavori, dovendo considerare “unitaria” la natura dell’incarico conferito e non frazionato nel corso degli anni in rapporto alle diverse prestazioni eseguite.
In conclusione, vale la tariffa in vigore a fine incarico.
Ma a questo punto potremmo chiederci: cosa accade per i lavori iniziati prima dell’abolizione e terminati oggi, quando le tariffe professionali sono ormai abrogate?
Ad inizio lavori il professionista poteva far affidamento a tariffe ben precise; alla fine dell’espletamento dell’incarico lo stesso professionista potrebbe, invece, correre il rischio di andare incontro ad un compenso inferiore calcolato (eventualmente in fase di contenzioso) con il D.M. 20.07.2012 n. 140.
Inoltre, l’organo giurisdizionale può aumentare o diminuire il compenso determinato rispetto al preventivo fino al 60% (04.10.2012 - link a www.acca.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAIl soggetto che subisce un procedimento di controllo o ispettivo ha un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti utilizzati dall’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza, compresi gli esposti e le denunce che hanno determinato l’attivazione di tale potere, non ostandovi neppure il diritto alla riservatezza che non può essere invocato quando la richiesta di accesso ha ad oggetto il nome di coloro che hanno reso denunce o rapporti informativi nell’ambito di un procedimento ispettivo, giacché al predetto diritto alla riservatezza non può riconoscersi un’estensione tale da includere il diritto all’anonimato di colui che rende una dichiarazione a carico di terzi, tanto più che l’ordinamento non attribuisce valore giuridico positivo all’anonimato.
Non può pertanto seriamente dubitarsi che la conoscenza integrale dell’esposto rappresenti uno strumento indispensabile per la tutela degli interessi giuridici dell’appellato, essendo intuitivo che solo in questo modo egli potrebbe proporre eventualmente denuncia per calunnia a tutela della propria onorabilità: il che rende del tutto prive di qualsiasi fondamento giuridico i dubbi sull’uso asseritamente strumentale e ritorsivo della conoscenza dell’esposto che ha dato luogo al procedimento disciplinare in danno del ricorrente, non potendo ammettersi che pretese esigenze di riservatezza possano determinate un vulnus intollerabile ad un diritto fondamentale della persona, quale quello dell’onore.

Quanto al merito della questione la Sezione rileva che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è motivo per discostarsi, il soggetto che subisce un procedimento di controllo o ispettivo ha un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti utilizzati dall’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza, compresi gli esposti e le denunce che hanno determinato l’attivazione di tale potere (C.d.S., sez. IV, 19.01.2012, n. 231; sez. V, 19.05.2009, n. 3081), non ostandovi neppure il diritto alla riservatezza che non può essere invocato quando la richiesta di accesso ha ad oggetto il nome di coloro che hanno reso denunce o rapporti informativi nell’ambito di un procedimento ispettivo, giacché al predetto diritto alla riservatezza non può riconoscersi un’estensione tale da includere il diritto all’anonimato di colui che rende una dichiarazione a carico di terzi, tanto più che l’ordinamento non attribuisce valore giuridico positivo all’anonimato (C.d.S., sez. VI, 25.06.2007, n. 3601).
Non può pertanto seriamente dubitarsi che la conoscenza integrale dell’esposto rappresenti uno strumento indispensabile per la tutela degli interessi giuridici dell’appellato, essendo intuitivo che solo in questo modo egli potrebbe proporre eventualmente denuncia per calunnia a tutela della propria onorabilità: il che rende del tutto prive di qualsiasi fondamento giuridico i dubbi sull’uso asseritamente strumentale e ritorsivo della conoscenza dell’esposto che ha dato luogo al procedimento disciplinare in danno del ricorrente, non potendo ammettersi che pretese esigenze di riservatezza possano determinate un vulnus intollerabile ad un diritto fondamentale della persona, quale quello dell’onore (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.09.2012 n. 5132 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Amleto, i Comuni e i diritti dei terzi: "indagare o non indagare?"
Da sempre esiste un dubbio che attanaglia i Comuni, specialmente quando si tratta di rilasciare un permesso di costruire.
Infatti, ai sensi dell’art. 11 (Caratteristiche del permesso di costruire) del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico edilizia), il permesso di costruire, che viene “rilasciato al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo”, in ogni caso “non comporta limitazione dei diritti dei terzi”.
La formula standard utilizzata nella prassi è piuttosto nota: “fatti salvi i diritti dei terzi”.
Tuttavia, da sempre la giurisprudenza si interroga circa la portata della norma appena richiamata soprattutto con riguardo alle indagini che gli uffici tecnici comunali devono svolgere per verificare, o meno, la sussistenza di limitazioni di “diritto privato”.

In questo ambito si colloca la sentenza 28.09.2012 n. 5128 del Consiglio di Stato, Sez. VI, qui in esame.
Fa da sfondo alla decisione la materia condominiale.
Infatti, il comproprietario di un appartamento aveva chiesto di poter realizzare un abbaino al piano secondo (sottotetto) dell’edificio condominiale, di pertinenza dell’appartamento di sua proprietà, per ottenere una migliore illuminazione del locale-soggiorno la cui finestra era parzialmente coperta dall’ala del tetto dell’edificio.
Ma la richiesta veniva rigettata dal Comune:
- sia per la mancanza del consenso scritto del condominio (sul presupposto della natura di parte comune del tetto interessato dall’opera e dell’utilizzo di una parte della cubatura urbanistica residua dell’edificio condominiale);
- sia per la necessità di integrare la documentazione con una verifica analitica e grafica sulla cubatura ammissibile sul lotto e di evidenziare, nella parte planimetrica, le distanze dai confini e dagli edifici.
Ebbene, in questo quadro, secondo i Giudici di Palazzo Spada esistete anzitutto l’obbligo per il Comune, in sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio, di verificare il rispetto dei limiti privatistici, a condizione però che tali limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili o non contestati, di modo che il controllo da parte dell’ente locale si traduca in una semplice presa d’atto dei limiti medesimi, senza la necessità di procedere ad un’accurata e approfondita disamina dei rapporti civilistici.
In tal modo viene ribadita una regola molto chiara che rappresenta in definitiva un approdo equilibrato in materia: i Comuni devono prendere in considerazione anche gli aspetti di diritto comune, senza tuttavia doversi impegnare in indagini eccessivamente laboriose e dispendiose (quelle semmai riservate al Giudice Ordinario).
In secondo luogo, il Consiglio di Stato afferma che nel caso in cui l’opera per la quale si chiede il rilascio di un permesso di costruire sia destinata a incidere (non solo in senso materiale ma, eventualmente, anche sotto il profilo del decoro architettonico) su di una parte comune di un edificio condominiale (in questo caso: il tetto), tale opera deve qualificarsi come innovazione “voluttuaria” e “non necessaria”, avendo essa lo scopo di rendere più comodo il godimento dell’immobile; opere oltretutto idonea ad imprimere alla cosa comune una destinazione anche ad uso esclusivo del singolo appartamento.
Per questo motivo il Comune ha legittimamente preteso il consenso del condominio, a fronte dell’evidente incidenza su una parte comune dell’edificio condominiale, nonché paventando prudenzialmente l’eventualità dell’utilizzo di parte della volumetria residua dell’edificio stesso, in esplicazione del suo potere/dovere di verifica del titolo di legittimazione.
In definitiva, si potrebbe dire che soprattutto in alcuni ambiti delicati, caratterizzati da un forte tasso di litigiosità (il condominio), i Comuni fanno bene a richiedere il consenso alla realizzazione dell’opera da parte degli altri condomini (ovvero, da parte del condominio).
In questo modo “i diritti dei terzi” vengono in un certo qual senso tutelati in via preventiva, anche se ovviamente non in modo pieno. Il vantaggio potrebbe essere quello di evitare di rimettere ad una successiva causa ordinaria ogni questione al riguardo, in quel caso con problemi non indifferenti quanto ad eventuali sovrapposizioni di giudizi tra loro discordanti (aspetti di diritto privato, da un lato, e aspetti di diritto amministrativo, dall’altro) (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio sussiste l’obbligo per il comune di verificare il rispetto da parte dell’istante dei limiti privatistici, a condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili o non contestati, di modo che il controllo da parte dell’ente locale si traduca in una semplice presa d’atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad un’accurata e approfondita disanima dei rapporti civilistici.
Secondo l’orientamento prevalente di questo Consiglio di Stato, condiviso da questo Collegio, in sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio sussiste l’obbligo per il comune di verificare il rispetto da parte dell’istante dei limiti privatistici, a condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili o non contestati, di modo che il controllo da parte dell’ente locale si traduca in una semplice presa d’atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad un’accurata e approfondita disanima dei rapporti civilistici (v., ex plurimis, C.d.S., Sez. IV, 10.12.2007, n. 6332; C.d.S., Sez. IV, 11.04.2007, n. 1654).
Segnatamente, deve affermarsi l’obbligo del comune di verificare se, a base dell’istanza edificatoria, sia riconoscibile l’effettiva disponibilità giuridica del bene oggetto dell’intervento edificatorio, limitando invero l’art. 70 l.prov. 11.08.1997, n. 13, la legittimazione attiva all’ottenimento della concessione edilizia a chi sia munito di titolo giuridico sostanziale per richiederlo (la citata disposizione normativa, emanata dalla Provincia autonoma di Bolzano nell’esercizio della potestà legislativa primaria in materia di urbanistica, corrisponde sostanzialmente alla previsione contenuta nell’art. 11 d.P.R. 06.06.2001, n. 380).
Nel caso di specie, l’opera in contestazione era destinata a incidere sulla parte comune costituita dal tetto dell’edificio condominiale (non solo in senso materiale ma, eventualmente, anche sotto il profilo del decoro architettonico). L’opera, contrariamente a quanto assunto dall’odierno appellante, deve qualificarsi come innovazione voluttuaria –e non necessaria– per rendere più comodo il godimento dell’immobile. La medesima, al contempo, deve ritenersi idonea ad imprimere alla cosa comune una destinazione anche ad uso esclusivo del suo appartamento.
L’Amministrazione comunale, a fronte dell’evidente incidenza su una parte comune dell’edificio condominiale, nonché paventando prudenzialmente l’eventualità dell’utilizzo di parte della volumetria residua dell’edificio condominiale, in esplicazione del menzionato potere/dovere di verifica del titolo di legittimazione ha consequenzialmente, e del tutto ragionevolmente, richiesto il consenso del condominio.
Orbene, tenuto conto dell’espressa contemplazione, nell’impugnato provvedimento di diniego, dell’esigenza di acquisire il consenso condominiale, vi risulta formalmente indicato l’ente di gestione che sarebbe stato leso nel caso di rilascio del permesso (il condominio, e per esso rispettivamente i condomini, agevolmente individuabili dall’appellante), la cui posizione è connotata dalla titolarità di un interesse giuridicamente qualificato (nella specie, del diritto di proprietà su parti comuni –tetto condominiale– dell’edificio interessato dai lavori), implicitamente contemplato dall’atto impugnato, a mantener fermi gli effetti scaturenti dal provvedimento di diniego.
I citati soggetti, quindi, nell’appellata sentenza sono stati correttamente qualificati come controinteressati in senso formale e sostanziale e ad almeno uno di essi pertanto andava notificato a pena di inammissibilità il ricorso originario a mente dell’art. 21, comma 1, l. n. 1034 del 1971 (v., in fattispecie analoga, C.d.S., Sez. VI, 29.05.2007, n. 2742).
Inconferente appare il richiamo, da parte dell’appellante (nella memoria di replica dell’11.06.2012), della sentenza C.d.S., Sez. IV, 04.05.2010, n. 2546, relativa ad un caso di impugnazione del diniego di concessione per un intervento sul tetto comune, in quanto vi risultava evocato in giudizio il condomino controinteressato (poi non costituitosi in giudizio), con la conseguenza che la questione di merito è stata decisa previa incardinazione del rapporto processuale tra i legittimi contraddittori, mentre nella fattispecie sub iudice questi ultimi non sono stati evocati in giudizio, con conseguente mancata regolare costituzione del rapporto processuale e preclusione all’ingresso delle questioni di merito (attinenti alla fondatezza, o meno, delle ragioni di diniego opposti dal Comune all’istanza di concessione) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 28.09.2012 n. 5128 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAA norma del combinato disposto degli artt. 32 l. 28.02.1985, n. 45, e 39 l. 23.12.1994, n. 724, il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo.
In tale ambito l’amministrazione statale, sebbene non possa disporre l’annullamento dell’autorizzazione o del parere paesaggistico adottato in sede regionale (rispettivamente dall’ente subdelegato) per ragioni di merito e sovrapporre il proprio giudizio di compatibilità paesaggistica a quella dell’amministrazione competente, può vagliare l’autorizzazione o il parere sotto tutti i profili di legittimità, compreso il vizio di eccesso di potere, qualora l’autorità che ha emesso il nulla osta o il parere non abbia esternato una motivazione congrua dalla quale evincere le ragioni che la inducevano a concludere per la compatibilità dei manufatti realizzati con il vincolo paesaggistico.

Giova premettere, in linea di diritto, che a norma del combinato disposto degli artt. 32 l. 28.02.1985, n. 45, e 39 l. 23.12.1994, n. 724, il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo, e che anche in tale ambito secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso da questo Collegio, l’amministrazione statale, sebbene non possa disporre l’annullamento dell’autorizzazione o del parere paesaggistico adottato in sede regionale (rispettivamente dall’ente subdelegato) per ragioni di merito e sovrapporre il proprio giudizio di compatibilità paesaggistica a quella dell’amministrazione competente, può vagliare l’autorizzazione o il parere sotto tutti i profili di legittimità, compreso il vizio di eccesso di potere, qualora l’autorità che ha emesso il nulla osta o il parere non abbia esternato una motivazione congrua dalla quale evincere le ragioni che la inducevano a concludere per la compatibilità dei manufatti realizzati con il vincolo paesaggistico (v. in tal senso, ex plurimis, C.d.S., Sez. VI, 08.07.2011, n. 4103; C.d.S., Sez. IV, 04.05.2011, n. 2644) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 28.09.2012 n. 5125 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIDetermina una violazione dei principi inderogabili di trasparenza e di imparzialità che devono presiedere le gare pubbliche il fatto della conoscenza preventiva di elementi dell'offerta, la quale consente di modulare il giudizio sull’offerta tecnica in modo non conforme alla parità di trattamento dei concorrenti e tale possibilità, ancorché remota ed eventuale, inficia la regolarità della procedura.
E ciò in quanto "ai fini dell’annullamento della gara non è necessario che effettivamente la commissione abbia tenuto conto della conoscenza anticipata dell' offerta economica -circostanza, questa, come il suo contrario, praticamente non dimostrabile— ma è sufficiente che le concrete modalità di svolgimento della gara non abbiano assicurato la garanzia di piena imparzialità dei giudizi e quindi il rischio di inquinamento dei medesimi”.
Nello specifico, poi, la giurisprudenza della Sezione ha avuto modo di precisare come non vi sia "dubbio che la conoscenza di circa un decimo dell’incidenza dell'offerta economica costituisce ben più di un parametro di riferimento per modulare i giudizi della commissione in un senso o nell’altro”.

Secondo il consolidamento insegnamento della giurisprudenza della Sezione, infatti, lo stesso determina una violazione dei principi inderogabili di trasparenza e di imparzialità che devono presiedere le gare pubbliche, atteso che la conoscenza preventiva di elementi dell'offerta "consente di modulare il giudizio sull’offerta tecnica in modo non conforme alla parità di trattamento dei concorrenti e tale possibilità, ancorché remota ed eventuale, inficia la regolarità della procedura” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 08.09.2010 n. 6509; cfr. altresì, Cons. Stato, Sez. V, 25.05.2009 n. 3217).
E ciò in quanto "ai fini dell’annullamento della gara non è necessario che effettivamente la commissione abbia tenuto conto della conoscenza anticipata dell' offerta economica -circostanza, questa, come il suo contrario, praticamente non dimostrabile— ma è sufficiente che le concrete modalità di svolgimento della gara non abbiano assicurato la garanzia di piena imparzialità dei giudizi e quindi il rischio di inquinamento dei medesimi” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 25.05.2009 n. 3217).
Nello specifico, poi, la giurisprudenza della Sezione ha avuto modo di precisare come non vi sia "dubbio che la conoscenza di circa un decimo dell’incidenza dell'offerta economica costituisce ben più di un parametro di riferimento per modulare i giudizi della commissione in un senso o nell’altro” (cfr. sentenza 08.09.2010 n. 6509) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.09.2012 n. 5121 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIFermo restando l’indiscusso principio, più volte ribadito, secondo cui i concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento, dovendo sussistere, come requisito di ammissione alla gara, una perfetta coincidenza tra quota dei lavori (o, nel caso di forniture o servizi, parti del servizio o della fornitura) eseguita dal singolo operatore economico e quota di effettiva partecipazione al raggruppamento, la Sezione ritiene di non doversi discostare da quanto statuito da C.d.S., sez. V, 11.12.2007, n. 6363, ove è stato affermato che “Il disposto dell’art. 95, comma 2, d.P.R. n. 554 del 1999, secondo cui l’impresa mandataria in ogni caso possiede i requisiti in misura maggioritaria, deve essere riferito non all’entità del requisito minimo complessivo prescritto per la specifica gara di cui trattasi in relazione all’importo dei lavori da commettere, bensì alle quote effettive di partecipazione all’associazione, sicché può definirsi maggioritaria l’impresa che, avendo un qualifica adeguata, assuma concretamente una quota superiore o comunque non inferiore a quella di ciascuna delle altre imprese mandanti, a prescindere dai valori assoluti di classifica di ognuna delle altre; ciò perché, in caso diverso, si creerebbe un vincolo restrittivo al mercato, in contrasto con il principio della libertà di determinazione delle imprese in sede associativa, in quanto sarebbero privilegiate comunque le imprese di grande dimensione”.
Sul punto, fermo restando l’indiscusso principio, più volte ribadito, secondo cui i concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento (tra le più recenti, C.d.S., sez. V, 14.12.2011, n. 6538; 08.11.2011, n. 5892), dovendo sussistere, come requisito di ammissione alla gara, una perfetta coincidenza tra quota dei lavori (o, nel caso di forniture o servizi, parti del servizio o della fornitura) eseguita dal singolo operatore economico e quota di effettiva partecipazione al raggruppamento (C.d.S., sez. III, 11.05.2011, n. 2805), la Sezione ritiene di non doversi discostare da quanto statuito da C.d.S., sez. V, 11.12.2007, n. 6363, ove è stato affermato che “Il disposto dell’art. 95, comma 2, d.P.R. n. 554 del 1999, secondo cui l’impresa mandataria in ogni caso possiede i requisiti in misura maggioritaria, deve essere riferito non all’entità del requisito minimo complessivo prescritto per la specifica gara di cui trattasi in relazione all’importo dei lavori da commettere, bensì alle quote effettive di partecipazione all’associazione, sicché può definirsi maggioritaria l’impresa che, avendo un qualifica adeguata, assuma concretamente una quota superiore o comunque non inferiore a quella di ciascuna delle altre imprese mandanti, a prescindere dai valori assoluti di classifica di ognuna delle altre; ciò perché, in caso diverso, si creerebbe un vincolo restrittivo al mercato, in contrasto con il principio della libertà di determinazione delle imprese in sede associativa, in quanto sarebbero privilegiate comunque le imprese di grande dimensione”.
In mancanza, quindi, di ulteriori e diversi elementi, non può sostenersi che nel caso di specie la partecipazione paritaria (50%) all’A.T.I. aggiudicataria delle imprese che la costituiscono, implichi ex se la mancanza del possesso in capo alla capogruppo mandataria dei requisiti di partecipazione maggioritaria previsti dalla legge (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.09.2012 n. 5120 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di manufatti da adibire a serre.
Per la realizzazione di manufatti da adibire a serre è indispensabile ottenere il permesso di costruire, giacché la realizzazione di un impianto di tal genere -che sia stabilmente ancorato al suolo, formi un ambiente chiuso e sia destinato a perdurare nel tempo- integra una modificazione apprezzabile dei territorio, non rilevando la sua destinazione agricola, né che esso possa essere asportato o spostato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.09.2012 n. 36594 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni ambientali. Applicazione principio di offensività.
Il reato di cui all'art. 181, comma 1, del d.Lgs. 22.01.2004, n. 42 è reato di pericolo e, pertanto, per la configurabilità dell'illecito, non è necessario un effettivo pregiudizio per l'ambiente, potendo escludersi da! novero delle condotte penalmente rilevanti soltanto quelle che si prospettano inidonee, pure in astratto, a compromettere i valori del paesaggio e l'aspetto esteriore degli edifici.
Reato di pericolo è anche la contravvenzione di cui agli artt. 13 e 20 della legge n. 394/1991 ed il principio di offensività deve essere inteso, al riguardo, in termini non di concreto apprezzamento di un danno ambientale, bensì dell'attitudine della condotta a porre in pericolo il bene protetto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.09.2012 n. 36040 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Differenza tra realizzazione e gestione di discarica abusiva ed illecito smaltimento.
Perché sia configurabile il reato di realizzazione e gestione di discarica abusiva, sono necessari: l'accumulo ripetuto e non occasionale di rifiuti in area determinata; l'eterogeneità della massa di materiali; la definitività del loro abbandono; il degrado, anche solo tendenziale dello stato dei luoghi.
Tali elementi non ricorrono quando l'abbandono di rifiuti abbia avuto carattere occasionale ed abbia avuto per oggetto materiali in gran parte omogenei e non abbia cagionato un degrado dell'area, con la conseguenza che la condotta deve essere in tal caso sussunta nella diversa fattispecie dello smaltimento abusivo di rifiuti, che costituisce, quanto alla condotta, una fattispecie sovrapponibile a quella di discarica abusiva, salvo che per la mancanza dei presupposti sopra elencati (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.09.2012 n. 36021 - tratto www.lexambiente.it).

LAVORI PUBBLICI: Progettazione e esecuzione dei lavori, per certificarli conta il bando.
Nelle presentazione della documentazione richiesta dal disciplinare di gare da parte delle ditte offerenti le certificazioni dei lavori richiesti rivestono un ruolo indispensabile al fine di procedure all'aggiudicazione della gara; i requisiti richiesti possono essere presenti solo in alcuni certificati mentre in altri possono risultare anche incongruenti all'offerta, l'importante e' che quanto richiesto nel bando di gara sia concretamente attestato.

Il contenzioso riguarda la procedura aperta indetta da un Comune per l’affidamento della progettazione esecutiva e dei lavori del programma di riqualificazione degli spazi pubblici e culminata nell’aggiudicazione in favore di un Consorzio. Il TAR ha respinto il ricorso proposto da una società per azioni che aveva partecipato alla gara indetta dall’ente locale.
Con l’appello principale la società ricorrente ripropone e sviluppa la tesi secondo cui il Consorzio aggiudicatario non avrebbe dimostrato il possesso del requisito di qualificazione, richiesto dal disciplinare, relativo all’esecuzione, nell’ultimo decennio, di due lavori similari a quello in oggetto.
Per il Consiglio di Stato il ricorso è infondato. I giudici di Palazzo Spada evidenziano che: - l’appalto in parola aveva per oggetto la progettazione esecutiva e l’esecuzione dei lavori di riqualificazione degli spazi pubblici di relazione del Comune;- la relazione descrittiva allegata al progetto definitivo redatto dalla stazione appaltante precisava, al riguardo, che la programmata riqualificazione era volta a restituire, in un recuperato contesto, spazi a vocazione urbana alla collettività per favorire lo svago e la vita di relazione ed a “promuovere, unitamente ad altri interventi specifici e puntuali ed attraverso l’introduzione di attività culturali e di animazione, il recupero e la rivitalizzazione urbana e sociale del centro storico”.
Il punto del disciplinare di gara contestato stabiliva, che, “quale ulteriore requisito di partecipazione”, in applicazione dell’art. 253, comma 30, del D.Lgs. n. 163/2006 (“le stazioni appaltanti possono individuare, quale ulteriore requisito di partecipazione al procedimento di appalto, l'avvenuta esecuzione, nell'ultimo decennio, di lavori nello specifico settore cui si riferisce l'intervento, individuato in base alla tipologia dell'opera oggetto di appalto”), ciascun concorrente avrebbe dovuto “avere eseguito, nell’ultimo decennio, almeno due lavori similari a quello in oggetto (…..) per un importo complessivo non inferiore a quello posto a base di gara (€ 6.122.764,68), dei quali almeno uno per un importo pari al 50% di quello posto a base di gara”, puntualizzando che detti lavori avrebbero dovuto “essere relativi ad opere di riqualificazione di strade e/o piazze pubbliche”;
Il Consorzio aggiudicatario aveva esibito nell’offerta presentata un considerevole numero di certificati di esecuzione di lavori per conto di diversi enti locali , mentre la società ricorrente ne contestava l’inerenza con l’oggetto della gara su alcuni di questi certificati.
La società ricorrente in via principale indirizza le sue critiche ai lavori espletati dal consorzio aggiudicatario per il Comune di Marigliano e per la Provincia di Firenze ritenendo che non erano appieno riconducibili allo specifico settore della “riqualificazione di strade e/o piazze pubbliche”, e, quindi, rispondenti al requisito idoneativo richiesto –ai sensi dell’art. 253, comma 30, del codice dei contratti pubblici– dal punto 9.2 del disciplinare di gara.
Per il Consiglio di Stato i rilievi svolti consentono di approdare alla conclusione secondo cui, a prescindere dalla congruenza degli ulteriori certificati di esecuzione dei lavori rilasciati da un ente locale (quelli della Provincia di Firenze con riguardo a “interventi ai manufatti di sostegno del corpo stradale e delle pertinenze, alle opere di regimazione idraulica, alle protezioni veicolari, lungo le strade provinciali e regionali ) il Consorzio ha dimostrato il possesso del duplice requisito tecnico secondo quanto previsto disciplinare di gara, consistente nell’esecuzione, nell’ultimo decennio, di almeno due lavori similari a quelli previsti in appalto, relativi ad opere di riqualificazione di strade e/o piazze pubbliche per un importo complessivo non inferiore a quello posto a base di gara (€ 6.122.764,68), dei quali almeno uno per un importo pari al 50% di quello posto a base di gara.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale pronunciando sul ricorso, respinge l’appello principale e dichiara l’improcedibilità dell’appello incidentale (commento tratto da www.ispoa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.09.2012 n. 5009 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANozione di manutenzione straordinaria.
Per manutenzione straordinaria l'art. 3, 1° comma, lett. b), del T.U. n. 380/2001 [con definizione già fornita dall'art. 31, 1° comma, lett. b), della legge n. 457/1978] ricomprende in tale nozione le opere e le modifiche necessarie per rinnovare o sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare e integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni d'uso.
La legge pone, dunque, un duplice limite: uno, di ordine funzionale, costituito dalla necessità che i lavori siano rivolti alla mera sostituzione o al puro rinnovo di parti dell'edificio, e l'altro di ordine strutturale consistente nel divieto di alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari o di mutare la loro destinazione.
Interventi devono essere inoltre effettuati nel rispetto degli elementi tipologici, strutturali e formali nella loro originaria edificazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.09.2012 n. 35803 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni ambientali. Violazione articolo 734 cod. pen..
La contravvenzione di cui all'art. 734 cod. pen. si configura come un reato di danno, e non di pericolo, richiedendo per la sua punibilità che si verifichi in concreto la distruzione o l'alterazione delle bellezze protette.
Non è sufficiente, pertanto, per integrare gli estremi del reato, la mera esecuzione di un'opera o la semplice alterazione dello stato naturale delle cose sottoposte a vincolo, ma occorre che tale alterazione abbia effettivamente determinato la distruzione o il deturpamento della bellezza naturale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.09.2012 n. 35792 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATAA norma dell’art. 32, l. 28.02.1985 n. 47, il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere favorevole delle Amministrazioni preposte alla tutela del vincolo e anche in tale ambito l’Amministrazione Statale, sebbene non possa disporre l’annullamento dell’autorizzazione o del parere paesaggistico adottato in sede regionale per ragioni di merito e sovrapporre il proprio giudizio di compatibilità paesaggistica a quello dell’Amministrazione competente, può vagliare l’autorizzazione o il parere sotto tutti i profili di legittimità, compreso il vizio di eccesso di potere qualora l’autorità che ha emesso il nulla osta o il parere non abbia esternato una motivazione congrua dalla quale evincere le ragioni che la inducevano a concludere per la compatibilità dei manufatti realizzati con il vincolo paesaggistico.
Rileva il Collegio che il provvedimento impugnato è consistito nell’annullamento del provvedimento n. 4 dell’08.01.2008, a firma del Responsabile dell’Ufficio Tecnico del Comune di Vibonati, che autorizzava, ai sensi dell’art. 159 del d. l.vo 42/2004, il rilascio della sanatoria per il cambio di destinazione d’uso di locali tecnologici e di manufatti realizzati abusivamente, presso il fabbricato di proprietà del ricorrente alla località “Le Ginestre” di quel Comune, in area vincolata giusta D.M. 07.06.1967; che il nucleo centrale della motivazione dello stesso provvedimento si ritrova nel considerato, secondo il quale la suddetta autorizzazione paesaggistica comunale “non giustifica esaustivamente la compatibilità delle opere eseguite abusivamente con la tutela paesistico–ambientale della zona”, limitandosi a dichiarare “parere favorevole trattandosi di tettoie e cambio d’uso di un locale destinato precedentemente a locale uso tecnologico e garage, che bene si inserisce nell’ambiente paesaggistico e tipologia ricorrente in zona”; nonché secondo il quale la prefata autorizzazione “non giustifica l’ammissibilità dell’istanza ai sensi delle previsioni di cui al comma 26, lett. a), dell’art. 32 della l. 326/2003”; e nel successivo rilievo, secondo cui “la tipologia dell’abuso non rientra tra quelle ammesse dall’allegato 1 della l. 326/2003”.
Osserva il Tribunale come in materia sia stato affermato il principio, secondo cui: “A norma dell’art. 32, l. 28.02.1985 n. 47, il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere favorevole delle Amministrazioni preposte alla tutela del vincolo e anche in tale ambito l’Amministrazione Statale, sebbene non possa disporre l’annullamento dell’autorizzazione o del parere paesaggistico adottato in sede regionale per ragioni di merito e sovrapporre il proprio giudizio di compatibilità paesaggistica a quello dell’Amministrazione competente, può vagliare l’autorizzazione o il parere sotto tutti i profili di legittimità, compreso il vizio di eccesso di potere qualora l’autorità che ha emesso il nulla osta o il parere non abbia esternato una motivazione congrua dalla quale evincere le ragioni che la inducevano a concludere per la compatibilità dei manufatti realizzati con il vincolo paesaggistico” (Consiglio di Stato – Sez. VI – 08.07.2011, n. 4103).
Orbene, nella specie la Soprintendenza B.A.P.P.S.A.E. di Salerno ed Avellino ha ritenuto che la motivazione, con cui l’autorità comunale ha giustificato il rilascio del nulla osta, non fosse esaustiva: il rilievo va condiviso, trattandosi a ben vedere di un’affermazione, quella circa il “buon inserimento” del locale, trasformato da garage in abitazione, nell’ambiente paesaggistico e tipologico della zona, anodina, priva com’è di concreti riferimenti alle caratteristiche costruttive dell’immobile, con riferimento all’ambiente nel quale lo stesso andava a collocarsi, tale da non sostanziare, cioè, una compiuta esternazione delle ragioni, fondanti l’asserita assenza di contrasto rispetto ai valori ambientali, riassunti nel decreto ministeriale impositivo del vincolo paesaggistico.
Ma v’è di più, perché il provvedimento di annullamento, decretato dall’autorità tutoria statale, s’è basato anche sulla circostanza che la tipologia dell’abuso in questione non rientrava tra quelle ammesse ai sensi dell’all. 1 al D.L. 30.09.2003 n. 269 (“Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici”), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, L. 24.11.2003, n. 326; e che soprattutto il Comune, nell’autorizzazione paesaggistica, non aveva “giustificato l’ammissibilità dell’istanza” ai sensi dell’art. 32, comma 26, lett. a) del citato decreto legge (“Sono suscettibili di sanatoria edilizia le tipologie di illecito di cui all’allegato 1: a) numeri da 1 a 3, nell’ambito dell’intero territorio nazionale, fermo restando quanto previsto alla lettera e) del comma 27 del presente articolo, nonché 4, 5 e 6 nell’ambito degli immobili soggetti a vincolo di cui all’articolo 32 della legge 28.02.1985, n. 47”).
Il rilievo della Soprintendenza, in sostanza, si lega all’affermazione secondo la quale: “A mente dell’art. 32, comma 26, d.l. n. 269 del 2003, nelle aree sottoposte a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici, ambientali e paesistici è possibile ottenere la sanatoria soltanto ed esclusivamente per gli interventi edilizi di minore rilevanza (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria), previo parere favorevole da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo” (Tribunale Bari sez. I, 17.11.2010, n. 1736).
Ma di tale rilievo, che pure assume valenza centrale nella motivazione del gravato provvedimento di annullamento del nulla osta paesaggistico, non si ritrova, in ricorso, alcuna confutazione: anche sotto tale profilo, pertanto, risulta confermata la legittimità del medesimo, non scalfita dalle doglianze di parte ricorrente.
In giurisprudenza, cfr. la seguente massima: “Allorché un provvedimento si fondi su due o più autonome ragioni, la riconosciuta legittimità o la mancata contestazione di uno dei motivi addotti è sufficiente per la conservazione dell’atto nel mondo giuridico. Da ciò ne consegue, sul piano processuale, che di un tale provvedimento si può disporre l’annullamento unicamente dinanzi ad una fondata censura (o ad una serie di fondate censure) di tutti i suddetti motivi e che devono dichiararsi inammissibili per carenza di interesse le doglianze rivolte solo avverso alcune ragioni fondanti del provvedimento, ove le rimanenti ragioni restino inattaccate” (Consiglio Stato – Sez. IV – 11.02.2005, n. 400) (TAR Campania-Salerno, sentenza 17.09.2012 n. 1650 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di condono edilizio il vincolo di inedificabilità in zona di rispetto stradale è considerato un vincolo di inedificabilità assoluta e, di conseguenza, allorché l’abuso edilizio sia stato compiuto dopo la sua imposizione, non si applica l’art. 32, comma 2, lett. c), l. 28.02.1985 n. 47 ma, in base al comma 3, il successivo art. 33 con conseguente insanabilità dell’abuso, a nulla rilevando la non pericolosità della porzione di manufatto per la sicurezza del traffico.
● Il vincolo d’inedificabilità sulle zone di rispetto stradale, imposto dall’art. 33 l. 28.02.1985 n. 47 ha carattere assoluto e pertanto –a differenza del vincolo di cui all’art. 32, d’inedificabilità relativa, che può essere rimosso a discrezione dell’autorità preposta alla cura dell’interesse tutelato– contiene un divieto di edificazione a carattere assoluto, che comporta la non sanabilità dell’opera realizzata dopo la sua imposizione, trattandosi di vincolo per sua natura incompatibile con ogni manufatto.
● Nell’ipotesi di sanatoria di un’opera edilizia realizzata abusivamente in prossimità della sede viaria di una strada, la valutazione della pericolosità o meno dell’opera spetta all’Anas, ora Ente Nazionale per le Strade, che deve esprimerlo non tanto in funzione del fatto oggettivo della distanza, quanto piuttosto della circostanza che la costruzione costituisca minaccia alla sicurezza del traffico. Tuttavia, i vincoli urbanistici sulle distanze minime a protezione del nastro stradale ex art. 33 l. n. 47 del 1985 comportano un divieto assoluto di edificazione, non rimuovibile a discrezione dell’autorità preposta alla cura dell’interesse tutelato, e come tale incompatibile con ogni manufatto, con conseguente non sanabilità dell’opera abusiva realizzata in sua violazione.

Entrambi i provvedimenti impugnati si sono fondati sui pareri negativi, espressi dall’A.N.A.S., secondo i quali gli abusi edilizi, oggetto delle domande di condono di parte ricorrente, erano “stati realizzati in zona di rispetto stradale e in data successiva al D.M. 01.04.1968” (parere del 27.04.1995) e “in area già sottoposta a vincolo di in edificabilità” (parere del 09.08.1995); di conseguenza, il Comune ha respinto tali domande, atteso che, ai sensi dell’art. 32 della l. 47/1985, il rilascio della sanatoria era necessariamente subordinato al parere favorevole dell’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo, che nella specie –giusta quanto sopra osservato– invece mancava, rientrando quindi le opere in questione in quelle “non suscettibili di sanatoria”, ai sensi dell’art. 33 della l. 47/1985.
La soluzione adottata dal Comune di Campagna è conforme alla dominante giurisprudenza in materia, per la quale si leggano, ex multis, le seguenti massime:
- “In tema di condono edilizio il vincolo di inedificabilità in zona di rispetto stradale è considerato un vincolo di inedificabilità assoluta e, di conseguenza, allorché l’abuso edilizio sia stato compiuto dopo la sua imposizione, non si applica l’art. 32, comma 2, lett. c), l. 28.02.1985 n. 47 ma, in base al comma 3, il successivo art. 33 con conseguente insanabilità dell’abuso, a nulla rilevando la non pericolosità della porzione di manufatto per la sicurezza del traffico” (TAR Lazio–Latina – Sez. I – 17.11.2011, n. 923);
- “Il vincolo d’inedificabilità sulle zone di rispetto stradale, imposto dall’art. 33 l. 28.02.1985 n. 47 ha carattere assoluto e pertanto –a differenza del vincolo di cui all’art. 32, d’inedificabilità relativa, che può essere rimosso a discrezione dell’autorità preposta alla cura dell’interesse tutelato– contiene un divieto di edificazione a carattere assoluto, che comporta la non sanabilità dell’opera realizzata dopo la sua imposizione, trattandosi di vincolo per sua natura incompatibile con ogni manufatto” (Consiglio Stato – Sez. IV – 05.07.2000, n. 3731);
- “Nell’ipotesi di sanatoria di un’opera edilizia realizzata abusivamente in prossimità della sede viaria di una strada, la valutazione della pericolosità o meno dell’opera spetta all’Anas, ora Ente Nazionale per le Strade, che deve esprimerlo non tanto in funzione del fatto oggettivo della distanza, quanto piuttosto della circostanza che la costruzione costituisca minaccia alla sicurezza del traffico. Tuttavia, i vincoli urbanistici sulle distanze minime a protezione del nastro stradale ex art. 33 l. n. 47 del 1985 comportano un divieto assoluto di edificazione, non rimuovibile a discrezione dell’autorità preposta alla cura dell’interesse tutelato, e come tale incompatibile con ogni manufatto, con conseguente non sanabilità dell’opera abusiva realizzata in sua violazione” (TAR Valle d’Aosta – 14.04.2003, n. 53).
In presenza di tale granitico orientamento giurisprudenziale, non ha senso alcuno discettare –come fa il ricorrente– dell’ubicazione delle opere edilizie abusive in zona extraurbana ampiamente urbanizzata e quindi della possibile assimilazione della disciplina giuridica dettata per la stessa a quella, stabilita per le opere ricomprese all’interno del centro urbano, non incidendo minimamente tali osservazioni su quella fondamentale della preesistenza del vincolo di rispetto stradale e quindi dell’assoluta impossibilità di concedere la sanatoria, per le ragioni dianzi esposte (TAR Campania-Salerno, sentenza 17.09.2012 n. 1645 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALICirca la competenza ad adottare l'ordinanza di bonifica di un sito inquinato, il Collegio ritiene infatti d’aderire all’orientamento maggioritario, espresso, “ex multis”, nelle seguenti massime:
- “Sebbene l’art. 107 d.lgs. n. 267/2000 attribuisca l’attività di gestione ai dirigenti, compete al sindaco l’emanazione dell’ordinanza di rimozione, recupero e smaltimento dei rifiuti e di ripristino dello stato dei luoghi, in virtù del carattere di specialità riconosciuto all’art. 192 d. lg. n. 152/2006, da cui la stessa è disciplinata”;
- “L’art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, norma speciale sopravvenuta rispetto all’art. 107, comma 5, d.lgs. n. 267 del 2000, attribuisce espressamente al sindaco la competenza a disporre, con ordinanza, le operazioni necessarie alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti previste dal comma 2: tale previsione, sulla base degli ordinari criteri preposti alla soluzione delle antinomie normative (criterio specialistico e criterio cronologico), prevale sul disposto dell’art. 107, comma 5, d.lgs. n. 267 del 2000, cit. (nella specie, la riscontrata incompetenza dirigenziale ha implicato in prima istanza l’annullamento dell’atto e la remissione del potere di provvedere al sindaco del comune interessato)”;
- “Spetta al sindaco, ai sensi dell’art. 192, comma 3, d.lgs. 03.04.2006 n. 152, norma speciale sopravvenuta rispetto all’art. 107, comma 5, d.lgs. 18.08.2000 n. 267, la competenza a disporre con ordinanza le operazioni necessarie per la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti abbandonati”.

... per l’annullamento dell’ordinanza dirigenziale (di bonifica di sito inquinato) n. 29 del 07.03.2008, emanata dal Responsabile U.T.C. del Comune di Serre;
...
Carattere dirimente, con assorbimento d’ogni altra censura, riveste l’eccezione d’incompetenza del Responsabile dell’U.T.C. all’adozione dell’ordinanza impugnata.
Ciò, peraltro, non perché nella specie ci si trovi di fronte ad un’ordinanza contingibile ed urgente, ma perché è lo stesso art. 192, comma 3, del d. l.vo 152/2006 (norma, espressamente richiamata nel testo del provvedimento gravato) ad attribuire detta competenza al sindaco: “Fatta salva l’applicazione della sanzioni di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all’esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate”.
Pur registrandosi, in giurisprudenza, anche alcune pronunce di segno opposto, il Collegio ritiene infatti d’aderire all’orientamento maggioritario, espresso, “ex multis”, nelle seguenti massime:
- “Sebbene l’art. 107 d.lgs. n. 267/2000 attribuisca l’attività di gestione ai dirigenti, compete al sindaco l’emanazione dell’ordinanza di rimozione, recupero e smaltimento dei rifiuti e di ripristino dello stato dei luoghi, in virtù del carattere di specialità riconosciuto all’art. 192 d. lg. n. 152/2006, da cui la stessa è disciplinata” (TAR Lombardia–Brescia – Sez. I, 09.06.2011, n. 867);
- “L’art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, norma speciale sopravvenuta rispetto all’art. 107, comma 5, d.lgs. n. 267 del 2000, attribuisce espressamente al sindaco la competenza a disporre, con ordinanza, le operazioni necessarie alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti previste dal comma 2: tale previsione, sulla base degli ordinari criteri preposti alla soluzione delle antinomie normative (criterio specialistico e criterio cronologico), prevale sul disposto dell’art. 107, comma 5, d.lgs. n. 267 del 2000, cit. (nella specie, la riscontrata incompetenza dirigenziale ha implicato in prima istanza l’annullamento dell’atto e la remissione del potere di provvedere al sindaco del comune interessato)” (TAR Emilia Romagna–Bologna – Sez. II, 26.01.2011, n. 61);
- “Spetta al sindaco, ai sensi dell’art. 192, comma 3, d.lgs. 03.04.2006 n. 152, norma speciale sopravvenuta rispetto all’art. 107, comma 5, d.lgs. 18.08.2000 n. 267, la competenza a disporre con ordinanza le operazioni necessarie per la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti abbandonati” (Consiglio Stato – Sez. V, 25.08.2008, n. 4061).
La soluzione in rito prescelta –non fondandosi sulla natura di provvedimento contingibile ed urgente dell’ordinanza impugnata, bensì sullo stesso testo dell’art. 192 d. l.vo 152/2006, inibisce l’esame dell’eccezione subordinata d’inammissibilità, sollevata dalla difesa del Comune di Serre (che aveva rilevato come –trattandosi allora di atto emanato dal sindaco quale ufficiale del governo, sarebbe mancata la notifica del ricorso all’Avvocatura dello Stato); la stessa soluzione destituisce altresì di ogni pregio, stante la riferita esistenza di contrasti giurisprudenziali al riguardo, l’esame della domanda risarcitoria, proposta dai ricorrenti; per le stesse ragioni, il Collegio ritiene equo disporre la compensazione integrale, tra le parti, delle spese di giudizio (TAR Campania-Salerno, sentenza 17.09.2012 n. 1644 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni ambientali. Imposizione vincolo indiretto ex art. 49 del D.Lgs. n. 490 del 1999.
E’ legittimo il decreto di vincolo adottato ex art. 49 del D.Lgs. n. 490 del 1999 dall’amministrazione al fine di tutelare, come chiaramente indicato nella Relazione tecnico-scientifica redatta dalla Soprintendenza, mediante prescrizioni limitative di nuove costruzioni e di mutamenti di destinazione d’uso dei terreni, un’area contigua ad un corso d’acqua di rilevante valore paesaggistico, nonché di consentire al meglio la visione di due edifici di particolare interesse paesaggistico-ambientale.
Secondo l’oramai pacifico orientamento della giurisprudenza amministrativa, l’imposizione del vincolo indiretto disciplinato dall’art. 49 del D.Lgs. n. 490 del 1999 (e in precedenza dall’art. 21 della L. n. 1089 del 1939) costituisce espressione della discrezionalità tecnica della amministrazione, sindacabile innanzi al giudice amministrativo solo quando la motivazione risulti inadeguata o presenti manifeste incongruenze o illogicità (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 12.09.2012 n. 552 -  tratto da www.lexambiente.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 04.10.2012

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Per migliaia di bambini in Niger morire di malnutrizione è solo questione di tempo !!
Affrettati e telefona subito, immediatamente, ora al numero

Tu hai la "panza" bella piena ogni giorno ... loro no !!

L'INDIFFERENZA UCCIDE PIU' DELLA FAME

04.10.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

CORTE DEI CONTI

ATTI AMMINISTRATIVISentenze in giudicato inviate al presidente di Corte conti.
Le sentenze passate in giudicato che accolgono il ricorso proposto avverso il silenzio dell'amministrazione devono essere trasmesse telematicamente al presidente della Corte dei conti. Sarà l'organo di vertice dell'Istituto, successivamente, a inoltrare tali atti all'ufficio o agli uffici competenti, in relazione alle fattispecie oggetto delle predette sentenze.

È quanto deciso dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti nella deliberazione 26.09.2012 n. 21, che fa luce sulla disposizione normativa contenuta all'art. 1, comma 1 del dl semplificazioni (5/2012). Il legislatore ha previsto che le sentenze dei Tar passate in giudicato che accolgono il ricorso proposto avverso il silenzio inadempimento dell'amministrazione, siano trasmesse alla Corte dei conti, prevedendo, altresì, che la mancata o tardiva emanazione del provvedimento costituisca elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile dei dirigenti o funzionari inadempienti.
In assenza di indicazioni da parte del legislatore circa l'ufficio della Corte destinatario di tali atti, la magistratura amministrativa ha investito della questione la Corte. Secondo cui, vertendo su un tema di silenzio inadempimento che potrebbe generare danno erariale, l'espresso richiamo operato dal legislatore sulla performance individuale e sull'eventualità di generare un danno erariale, «indurrebbe» a ritenere che la prevista trasmissione sia «funzionale» a rendere effettiva la prevista responsabilità amministrativo-contabile. Con la conseguenza che destinatario della trasmissione telematica delle sentenze in oggetto potrebbero essere le Procure regionali competenti per territorio.
Potrebbe verificarsi che in alcuni casi l'inadempimento potrebbe trovare la sua ragione non in comportamenti negligenti di funzionari o dirigenti pubblici, ma in inefficienze amministrative o disservizi. Motivo per cui, oltre alla Procura, si potrebbe investire della vicenda anche la Sezione centrale di controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato o la Sezione centrale di controllo sugli enti, in base alla tipologia di amministrazione coinvolta nella sentenza.
Il documento ritiene «condivisibile» prevedere che l'inoltro delle sentenze definitive di accoglimento dei ricorsi avverso il silenzio inadempimento delle p.a. sia eseguito nei confronti del Presidente della Corte conti che, in seguito, ne disporrà l'invio agli uffici competenti in relazione alla fattispecie oggetto della sentenza (articolo ItaliaOggi del 02.10.2012 - link a www.corteconti.it).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

PUBBLICO IMPIEGO: Riforma del lavoro. La deroga. Supplenti comunali esclusi dai vincoli sui contratti a termine.
IL PARERE/ La Funzione pubblica precisa che il concorso consente di azzerare il calcolo dei 36 mesi per gli incarichi a tempo.
I supplenti comunali sono «salvi» dai vincoli sui contratti a termine previsti dalla riforma del lavoro (legge 92/2012).

Va in questa direzione il parere 19.09.2012 n. 37561 di prot. del dipartimento della Funzione pubblica.
Con l'inizio del nuovo anno scolastico, è emersa l'esigenza di ricorrere al personale a tempo determinato per far fronte a temporanee scoperture d'organico, o ad assenze dal servizio. Gli enti hanno pensato di ricorrere agli insegnanti che avevano già prestato servizio l'anno scolastico scorso. Riforma del lavoro alla mano, qualche solerte funzionario ha bloccato le assunzioni perché non era trascorso sufficiente tempo fra la cessazione dell'anno scolastico e il nuovo incarico.
La legge 92/2012 (articolo 1, comma 9, lettera g), modificando l'articolo 5, comma 3, del Dlgs 368/2001, stabilisce infatti che il rinnovo del contratto a termine con lo stesso lavoratore non può avvenire entro 60 giorni dalla scadenza se il primo contratto ha durata fino a sei mesi, ed entro 90 giorni in caso di durate superiori, pena la trasformazione del contratto a tempo indeterminato. Per la Pa, stante il divieto previsto dall'articolo 36, comma 5, del Dlgs 165/2001, si tramuta nel risarcimento del danno.
Solitamente gli incarichi annuali terminano al 30 giugno, spesso anche il 31 luglio, e i nuovi contratti decorrono il 1° settembre: impossibile, quindi, rispettare la durata minima dell'interruzione. L'Anci ha rivolto un quesito, evidenziando che è già prevista un'eccezione nell'applicazione del Dlgs 368/2001. L'articolo 10, comma 4-bis, come aggiunto dal comma 18 dell'articolo 9 del Dl 70/2011, prevede, infatti, che il decreto legislativo non si applichi al conferimento di incarichi ai supplenti del personale docente e Ata, indipendentemente dal fatto che questi sostituiscano personale a tempo determinato o indeterminato.
La risposta della Funzione pubblica abbraccia la tesi dell'Anci, sottolineando che il legislatore ha, da sempre, riservato attenzione al settore educativo e scolastico. La necessità di garantire la continuità didattica, come attuazione del diritto allo studio previsto dalla Costituzione, rende inapplicabili le norme che limitano «la costante erogazione del servizio scolastico ed educativo indiscriminatamente per tutte le istituzioni pubbliche che sono chiamate a svolgere tali servizi». Sorge il dubbio, allora, che al personale scolastico degli enti locali non si applichi in toto il Dlgs 368/2001.
Dopo aver richiamato la necessità del concorso pubblico per conferire incarichi a termine, la Funzione pubblica chiarisce anche che il concorso consente di azzerare il contatore dei 36 mesi, come durata massima prevista dal Dlgs 368/2001 per i contratti a tempo determinato con lo stesso soggetto, e di superare la barriera della durata minima dell'interruzione fra un rapporto e l'altro (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.10.2012).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Silenzio inadempimento.
Domanda
Si chiede se una risposta interlocutoria del ministero dell'ambiente in ordine alla richiesta di adottare le misure di precauzione, di prevenzione o di ripristino, in tema di danno ambientale, possa essere intesa quale silenzio inadempimento.
Risposta
Il Tribunale amministrativo regionale della Campania (Tar), Sezione I, con la sentenza dell'08.02.2012, numero 676, ha evidenziato che la tutela offerta dall'articolo 309, comma 3, del Decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, prevede che il ministro dell'Ambiente, in tema di precauzione, di prevenzione o di ripristino della situazione ambientale compromessa, da inquinamento, deve valutare le richieste di intervento e la loro documentazione in ordine a casi di danno o di minaccia di danno ambientale e deve informare senza ulteriori indugi i soggetti richiedenti in ordine ai provvedimenti assunti al riguardo.
La fattispecie esaminata dai giudici amministrativi campani riguarda la cosiddetta cava Sari, meglio nota come discarica di Terzigno.
Nel caso, una cittadina e una associazione ambientalista avevano diffidato il Ministero dell'ambiente ad avviare un procedimento amministrativo al fine di adottare le misure di precauzione, di prevenzione o di ripristino, previste dal succitato decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, parte sesta. Il Ministero dell'ambiente era stato invitato a provvedere all'adozione di misure di precauzione, di prevenzione o di ripristino, previste dal suddetto decreto legislativo, e di ordinare ai responsabili l'immediata cessazione delle condotte dannose, anche a mezzo della sospensione cautelativa della gestione e la messa in sicurezza della discarica che insiste nella suddetta cava Sari. Chiedevano, pure, l'irrogazione delle sanzioni di legge.
Il citato Tribunale amministrativo regionale della Campania (Tar), Sezione I, con la suddetta sentenza, alla luce ed in conformità a quanto previsto dall'articolo 12 della Direttiva comunitaria del 21.04.2004, numero 2004/35/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, che, in ordine di responsabilità ambientale in materia di prevenzione e di riparazione del danno ambientale, prevede che: «Quanto prima, e comunque conformemente alle pertinenti disposizioni della legislazione nazionale, l'Autorità competente in forma le persone... che hanno presentato osservazioni all'autorità, della sua decisione di accogliere o rifiutare la richiesta di azione e indica i motivi della decisione», il Tribunale amministrativo regionale della Campania, si diceva, con la predetta sentenza ha sottolineato che il mancato riscontro della denunzia di danno ambientale da parte del Ministero dell'Ambiente e la sua risposta dilatoria, hanno dato luogo al cosiddetto silenzio inadempimento, avverso il quale è possibile ricorrere ai sensi dell'articolo 310, del più volte citato decreto legislativo 03.04.2006, numero 152.
E tale azione deve essere prima esperita da qualsiasi soggetto che, in materia, intende ricorrere alla Corte europea dei diritti dell'uomo (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.10.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA - URBANISTICA: Ampliamento area protetta.
Domanda
Per ampliare un'area protetta destinata a riserva naturale è sufficiente l'intervento normativo della Regione competente?
Risposta
La legge quadro sulle aree protette (legge del 06.12.1991, numero 394) prevede che, ai fini di istituire una riserva naturale, la sua perimetrazione e i conseguenti obiettivi, si deve seguire un iter procedimentale, del quale è elemento qualificante la consultazione degli enti locali, quali le province, i comuni, le comunità montane. Poi, del provvedimento adottato, deve essere data adeguata pubblicità.
L'articolo 22, comma 1, lettere a) e b), della legge del 06.12.1991, numero 394, regolamenta la partecipazione delle province, delle comunità montane e dei comuni al procedimento di istituzione dell'area protetta e prevede che detta partecipazione debba realizzarsi attraverso conferenze per la redazione di un documento di indirizzo relativo all'analisi territoriale dell'area da destinare a protezione, alla perimetrazione provvisoria, all'individuazione degli obiettivi da perseguire, alla valutazione degli effetti dell'istituzione dell'area protetta sul territorio.
La Corte costituzionale, con la sentenza del 26.01.2012, numero 14, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'articolo 1 della legge della regione Abruzzo, del 22.12.2010, numero 60, che aveva disposto direttamente l'ampliamento dell'estensione di un'area protetta. Per la Consulta, nella fattispecie, viene violato il principio di partecipazione degli enti locali, sancito dal citato articolo 22, comma 1, lettere a) e b), della legge–quadro del 06.12.1991, numero 394. Infatti, il momento partecipativo, per la Corte costituzionale, non costituisce un mero adempimento formale, ma è un passaggio determinato dell'iter procedimentale, atteso che la tutela dell'ambiente investe e coinvolge una pluralità di aspetti che assumono valenza di tipo naturalistico, economico, sociale e culturale. A tal fine, è necessario assicurare il coinvolgimento di tutti i soggetti interessati, specie gli enti locali, conoscitori delle esigenze del territorio di riferimento quali enti esponenziali degli interessi delle comunità di appartenenza.
Peraltro, la stessa Corte costituzionale, con la sentenza numero 282, del 2000, aveva affermato che la partecipazione al procedimento di istituzione di aree protette regionali dei singoli enti locali, il cui territorio è destinato a far parte dell'istituenda area protetta, richiesta dall'articolo 22, succitato, non può ritenersi garantita dalla previsione, a opera della legge regionale, di un comitato consultivo regionale per le aree naturali protette che non prevede la partecipazione dei singoli enti locali interessati in concreto, né è composto stabilmente da rappresentanti dei comuni.
In materia, si rimanda, pure, alla sentenza numero 315, del 2010, della Corte costituzionale (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.10.2012).

APPALTIANCI RISPONDE/ Interesse qualificato per accedere agli atti.
L'aver raggiunto la seconda posizione in una graduatoria di gara non giustifica l'accesso generalizzato agli atti: è quanto afferma il Consiglio di Stato nella pronuncia 3398/2012.
La richiesta di accesso, puntualizzano i giudici di Palazzo Spada, non può mai configurarsi come una forma di controllo preventivo e generalizzato dell'intera attività amministrativa, ma deve essere correlata a uno specifico interesse anche non funzionalmente connesso a una immediata tutela in via giudiziale, purché concreto e attuale. Nella vicenda in commento, l'interesse fatto valere a fondamento della richiesta d'accesso, secondo gli stessi giudici, non si è rivelato concreto, in quanto non è stata precisata la natura dello stesso: «La circostanza di essere il secondo graduato nella procedura di gara per l'affidamento del contratto, non giustifica certo una richiesta generalizzata di accesso di tutti gli atti attinenti alla fase esecutiva». La posizione legittimante l'accesso, in conclusione, è costituita da una situazione giuridicamente rilevante e dal collegamento qualificato tra questa posizione sostanziale e la documentazione di cui si pretende la conoscenza (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.10.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALIANCI RISPONDE/ Segrete le risposte alla Corte dei conti.
La Procura della Corte dei Conti regionale ha inviato una nota personale al segretario comunale con la quale chiede informazioni specifiche sui consiglieri comunali. Sia la richiesta della Corte dei Conti che la risposta del segretario comunale sono state inviate nel protocollo riservato dell'ente. Alcuni consiglieri hanno richiesto copia di questi atti. È possibile concedere l'accesso?
No. La nota riservata inviata dalla Procura della Corte dei Conti non sembra costituire una fase di un procedimento amministrativo, bensì giudiziario, e quindi la materia è sottratta all'applicazione della legge n. 241/1990. Se non è ravvisabile il nesso tra il documento di cui si chiede l'accesso e l'esercizio del mandato, poiché il procedimento in questione attiene alla fase istruttoria di un procedimento di giurisdizione contabile avviato dal Pm presso la Corte dei Conti, non si ritiene accoglibile la richiesta del consigliere.
L'amministrazione può comunque disporre il differimento dell'accesso fino alla conclusione del procedimento istruttorio da parte del Pm, a termini dell'articolo 25 della legge n. 241/1990 (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.10.2012).

APPALTIANCI RISPONDE/ Nelle gare si può comunicare il nome del vecchio appaltatore.
In occasione della pubblicazione di un bando di gara per l'affidamento di un servizio è legittimo comunicare alle imprese che ne facciano richiesta il nome del precedente appaltatore e il prezzo di aggiudicazione? Il bando già prevede un prezzo a base d'asta.
Sì. Si tenga conto che all'esito della precedente gara di appalto è stato pubblicato l' avviso di post-aggiudicazione, per cui non può ritenersi segreto né il nome del precedente appaltatore, né il prezzo della precedente aggiudicazione.
Il rischio di collusione e cartello tra imprese c'è sempre ma non sembra che questo possa crescere in presenza della conoscenza del prezzo del precedente appalto, anche perché c'è la base d'asta del nuovo appalto che è comunque il punto di riferimento della nuova aggiudicazione. Si consiglia comunque di chiedere alla ditta che ha effettuato la richiesta di formalizzarla per iscritto, e di precisare qual è l'interesse sotteso (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.10.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIANCI RISPONDE/ Ai consiglieri dati sui mandati ma il segreto va rispettato.
Alcuni consiglieri comunali hanno chiesto la password per accedere al programma di contabilità per visionare i mandati emessi tra i quali sono presenti anche i dati relativi ai beneficiari delle leggi di settore del sociale. Come si concilia il diritto di ottenere informazioni utili all'espletamento del mandato con il diritto di privacy del malato?

L'articolo 43, comma 2, del Testo unico enti locali deve essere coordinato con le altre norme che tutelano la segretezza della corrispondenza e delle conversazioni e con la speciale disciplina che attiene agli atti anagrafici, allo stato civile, alle liste elettorali. Resta ovviamente ferma la necessità che i dati siano utilizzati effettivamente per le sole finalità pertinenti al mandato, rispettando il segreto.
Ad esempio, si potrà dire che Tizio fruisce di una determinata prestazione sociale in quanto il medesimo risulta essere in possesso dei requisiti di ammissibilità previsti dalla legge o dai regolamenti (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.10.2012).

NEWS

ENTI LOCALIPareggio di bilancio per gli enti locali. Il vincolo previsto dalla legge di attuazione della riforma costituzionale in arrivo al Senato.
COSTI DELLA POLITICA/ Per i consigli regionali che non riducono nei tempi previsti il numero dei componenti possibile lo scoglimento anticipato.

Enti locali e Regioni tra incudine (Governo) e martello (Parlamento). Mentre l'Esecutivo Monti si appresta a varare il decreto sui costi della politica, le Camere stanno ultimando la messa a punto del Ddl per l'attuazione del pareggio di bilancio in Costituzione.
Nel testo –su cui prosegue il confronto tra i tecnici di Palazzo Madama, Montecitorio e Via XX settembre per definire il disegno di legge da presentare al Senato– il Titolo IV è espressamente dedicato all'equilibrio di bilanci delle Regioni e degli enti locali, nonché al loro concorso alla sostenibilità del debito pubblico. I loro bilanci faranno, dunque, parte con quello dello Stato centrale di un «bilancio consolidato nazionale», che dovrà centrare «gli obiettivi di finanza pubblica».
Questo implica non solo i controlli ex post sulla legittimità delle spese, da parte della Corte dei Conti, ma anche ex ante. Il monitoraggio sui conti pubblici al fine di blindare il pareggio di bilancio sarà affidato a un organismo indipendente. Per assicurare l'equilibrio finanziario l'articolo 10 prevede che, sia nella fase di previsione che in quella di rendiconto, i bilanci registrino un saldo non negativo in termini di cassa e di competenza tra entrate finali e spese finali, nonché un saldo non negativo (anche qui sia per cassa che per competenza) tra le entrate correnti e le spese correnti, incluse le quote di capitale delle rate di ammortamento dei prestiti.
Paletti più rigidi con l'articolo 11 anche sul ricorso all'indebitamento da parte di Comuni, Province, Città Metropolitane e Regioni. Il ricorso al debito potrà avvenire solo con la contestuale adozione di uno specifico piano di ammortamento di durata non superiore alla vita del'investimento. Inoltre le operazioni di indebitamento potranno essere effettuate solo sulla base di apposite intese concluse in ambito regionale e dovranno garantire per l'anno di riferimento l'equilibrio della gestione di cassa finale del complesso degli enti della Regione interessata. Oltre all'obbligo dell'equilibrio dei conti le Pa locali saranno chiamati a contribuire alla «sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni». E nelle fasi favorevoli del ciclo economico dovranno partecipare al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato.
Dal canto suo il Governo sta chiudendo sui tagli dei costi della politica da introdurre nel Dl che potrebbe varare già domani. Il punto di partenza è la piena operatività delle disposizioni sul taglio delle poltrone già previste nella manovra estiva di Berlusconi (Dl 138/2001) attraverso una nuova tempistica e specifiche sanzioni per chi non si adegua. Sanzioni che potrebbero essere pecuniarie con un taglio ai trasferimenti oppure ordinamentali come lo scioglimento del consiglio o l'esclusione dal circolo dei "virtuosi".
Sul fronte dei controlli, che per i Comuni saranno rafforzati per scongiurare i dissesti finanziari e per i quali verrà costituito un apposito Fondo anti-crisi, verranno ampliati i poteri dei giudici contabili, che per le Regioni si concentreranno soprattutto proprio sui costi della politica.
Sullo sfondo infine, una nuova riforma del Titolo V della Costituzione. Il ministro Filippo Patroni Griffi lo ha già annunciato: il federalismo va rivisto e l'Esecutivo entro qualche settimana metterà a punto un Ddl costituzionale per rivedere l'intero assetto dei poteri delle Regioni (articolo Il Sole 24 Ore del 03.10.2012 - link a www.corteconti.it).

CONDOMINIO: LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ La riforma approvata alla Camera. Basta la maggioranza per sorvegliare le parti comuni. Video, riscaldamento, animali. Nuove regole per il condominio.
Via libera a maggioranza alla videosorveglianza condominiale. La ripresa di spazi e aree comuni raggiunge così certezza normativa, all'interno di una grande confusione giurisprudenziale.
È una delle novità introdotte dalla riforma del condominio approvata alla camera venerdì scorso in seconda lettura e ora al senato per l'ormai sicuro sì definitivo (si veda ItaliaOggi del 28 settembre). Ma vediamo le principali novità.
La videosorveglianza. L'installazione di sistemi di videosorveglianza viene sovente effettuata da persone fisiche per fini esclusivamente personali. In tali ipotesi possono rientrare, a titolo esemplificativo, strumenti di videosorveglianza idonei a identificare coloro che si accingono a entrare in luoghi privati (videocitofoni ovvero altre apparecchiature che rilevano immagini o suoni, anche tramite registrazione), oltre a sistemi di ripresa installati nei pressi di immobili privati e all'interno di condomini e loro pertinenze (quali posti auto e box). In tal caso la disciplina del Codice non trova applicazione qualora i dati non siano comunicati sistematicamente a terzi ovvero diffusi.
Si ricorda però che, seppure non trovi applicazione la disciplina del Codice, al fine di evitare di incorrere nel reato di interferenze illecite nella vita privata, l'angolo visuale delle riprese deve essere comunque limitato ai soli spazi di propria esclusiva pertinenza (ad esempio antistanti l'accesso alla propria abitazione) escludendo ogni forma di ripresa, anche senza registrazione di immagini, relativa ad aree comuni (cortili, pianerottoli, scale, garage comuni) ovvero ad ambiti antistanti l'abitazione di altri condomini.
Per le aree condominiali, invece, nel provvedimento dell'8 aprile 2010 sulla videosorveglianza il garante ha appurato una lacuna normativa. In quella sede per i trattamenti effettuati dal condominio (anche per il tramite della relativa amministrazione), il garante ha evidenziato l'assenza di una puntuale disciplina che permettesse di risolvere alcuni problemi applicativi evidenziati nell'esperienza di questi ultimi anni. Il garante evidenziava, infatti, che non era chiaro se l'installazione di sistemi di videosorveglianza possa essere effettuata in base alla sola volontà dei comproprietari, o se rilevi anche la qualità di conduttori; ancora non era chiaro quale fosse il numero di voti necessario per la deliberazione condominiale in materia (se occorra cioè l'unanimità oppure una determinata maggioranza).
La legge di riforma del condominio affronta direttamente la questione e stabilisce che le deliberazioni concernenti l'installazione sulle parti comuni dell'edificio di impianti volti a consentire la videosorveglianza su di esse sono approvate dall'assemblea con la maggioranza di cui al secondo comma dell'articolo 1136 del codice civile.
Vediamo dunque cosa prevede l'articolo 1136 del codice civile, che è stato modificato. In prima convocazione per l'approvazione di una delibera ci vuole il quorum di 2/3 del valore e maggioranza per teste, e voto favorevole della maggioranza degli intervenuti e almeno metà del valore dell'edificio. In seconda convocazione basta, invece, la maggioranza degli intervenuti con un numero di voti che rappresenti almeno un terzo del valore dell'edificio.
Una volta rispettate queste maggioranze si può passare a installare le telecamere. Ma senza dimenticare che si devono osservare le precauzioni previste dal provvedimento generale del garante della privacy.
In particolare si devono osservare le seguenti cautele.
Informativa. Le persone che transitano nelle aree sorvegliate devono essere informati con cartelli della presenza delle telecamere, i cartelli devono essere resi visibili anche quando il sistema di videosorveglianza è attivo in orario notturno. Nel caso in cui i sistemi di videosorveglianza installati siano collegati alle forze di polizia è necessario apporre uno specifico cartello che lo evidenzi.
Conservazione. Le immagini registrate possono essere conservate per periodo limitato e fino ad un massimo di 24 ore, fatte salve speciali esigenze di ulteriore conservazione in relazione a indagini.
Consenso. Contro possibili aggressioni, furti, rapine, danneggiamenti, atti di vandalismo, prevenzione incendi, sicurezza del lavoro ecc. si possono installare telecamere senza il consenso dei soggetti ripresi, ma sempre sulla base delle prescrizioni indicate dal Garante.
Addio riscaldamento centralizzato. La riforma modifica l'articolo 1118 del codice civile per precisare che il singolo condomino può distaccarsi dall'impianto centralizzato di riscaldamento, ma solo in presenza di due condizioni. La prima è che l'unità abitativa non gode della normale erogazione di calore, per problemi tecnici all'impianto condominiale, che non vengono risolti nel corso di una intera stagione di riscaldamento. La seconda è che il distacco non comporti squilibri tali da compromettere la normale erogazione di calore agli altri condomini o aggravi di spesa.
Più in dettaglio la norma prevede che il condomino, se viene oggettivamente constatato che il proprio immobile non gode della normale erogazione di calore, a causa di problemi tecnici dell'impianto condominiale, e questi, nell'arco di una intera stagione di riscaldamento, non sono risolti dal condominio, può rinunciare all'utilizzo dell'impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, a condizione che dal suo distacco non derivino squilibri tali da compromettere la normale erogazione di calore agli altri condomini o aggravi di spesa.
Chi si è distaccato non rimane esente da spese: è sempre tenuto a concorrere esclusivamente al pagamento delle spese di manutenzione straordinaria dell'impianto e per la sua conservazione e messa a norma.
Si tratta questa di una specificazione dell'articolo 1118 del codice civile, nella parte in cui prescrive che il condomino non può, rinunziando al diritto sulle cose anzidette, sottrarsi al contributo nelle spese per la loro conservazione.
Inoltre il nuovo articolo 1122 del codice civile, in generale, esclude che il condomino possa eseguire opere che rechino danno alle parti comuni o pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza e al decoro architettonico dell'edificio. L'amministratore deve in ogni caso essere avvisato prima dell'avvio dei lavori ai fini della relativa comunicazione in assemblea (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.10.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATATerre e rocce hanno gestione a sé. Dal 6 ottobre la disciplina è fuori dal regime dei rifiuti. Il dm ambiente 161/2012 ridisegna le regole per il riutilizzo di sottoprodotti e materiali da scavo.
Dal 06.10.2012 la gestione dei materiali da scavo come sottoprodotti sarà disciplinata dalle nuove regole dettate dal dm ambiente 10.08.2012 n. 161 (G.U. del 21.09.2012, n. 221). La nuova disciplina, destinata a sostituire quella prevista dall'attuale articolo 186 del dlgs 152/2006 (in virtù della delegificazione disposta dallo stesso «Codice ambientale») stabilisce criteri qualitativi e adempimenti burocratici per gestire terre e rocce da scavo fuori dall'oneroso regime dei rifiuti, prevedendo un controllo degli operatori lungo tutta la filiera delle sostanze: dalla loro produzione al riutilizzo.
Il dm 161/2012 consentirà la «gestione in deroga» (al regime sui rifiuti) anche delle terre e rocce da scavo contenenti «materiali di riporto» così come il trattamento compatibile con la «normale pratica industriale» prevista dal dlgs 152/2006, ma pretenderà una analitica pianificazione delle operazioni di riutilizzo e il rispetto di precise scadenze temporali.
Le novità e il «Codice ambientale». Il dlgs 152/2006 prevede in termini generali due tipologie di materiali da scavo, disciplinandone diversamente la gestione: da un lato vi è il suolo non contaminato e il materiale allo stato naturale riutilizzato nello stesso sito; dall'altro vi sono i materiali da scavo non rientranti nella prima categoria.
I materiali inclusi nella prima categoria (unitamente al terreno) non sono considerati rifiuti «ex lege» (in forza dell'articolo 185 dello stesso Codice, che li esclude dal campo di applicazione della relativa disciplina); tutti gli altri materiali possono non essere considerati rifiuti solo in due casi: a) perché rispettano a monte i requisiti propri dei sottoprodotti; b) perché hanno riacquistano, a valle, a seguito dunque di operazioni di recupero, lo status di veri e propri beni.
I materiali da scavo come «sottoprodotti». Il nuovo dm 161/2012 si inserisce nel quadro generale disegnato dal dlgs 152/2006 così come sopra delineato, stabilendo i nuovi requisiti che le terre e rocce da scavo devono soddisfare per essere gestiti come sottoprodotti. Le nuove regole recate dal dm in esame riguarderanno i «materiali da scavo», ossia il suolo e il sottosuolo (compresi eventuali «materiali di riporto» in essi presenti) derivanti dalla realizzazione di opere di costruzione, demolizione (a esclusione dell'abbattimento di edifici), recupero, restauro, ristrutturazione manutenzione. A titolo esemplificativo, il nuovo dm 161/202 elenca tra le opere in parola gli scavi in generale (sbancamenti, fondazioni), le perforazioni e trivellazioni, le opere infrastrutturali (come gallerie, dighe, strade), la rimozione e il livellamento di opere in terra.
Il nuovo dm 161/2012 ammette altresì tra i «materiali da scavo» potenzialmente gestibili come sottoprodotti quelli contenenti «materiali di riporto», ossia le miscele eterogenee di materiali di origine antropica utilizzati nel corso del tempo per riempimenti del terreno e sedimentatisi nel suolo, purché nella quantità massima del 20%. Tale previsione, lo ricordiamo, è la diretta conseguenza della norma recata dall'articolo 3 del dl 2/2012, la quale (mediante un'operazione di «interpretazione autentica») ha stabilito che la nozione di «suolo» recata dall'articolo 185 del dlgs 152/2006 deve essere riferita anche alle «matrici materiali di riporto».
Come accennato, non rientrano invece nel campo di applicazione del nuovo dm 161/2012 i rifiuti provenienti direttamente dall'esecuzione dei lavori di demolizione degli edifici o di altri manufatti, per i quali il regolamento in parola rinvia all'applicazione delle generali regole previste dalla parte IV del dlgs 152/2006.
I requisiti tecnici. Il dm 161/2012 legittima la gestione come sottoprodotti dei materiali da scavo a condizione che siano osservati due ordini di condizioni, ossia: il rispetto di precisi criteri tecnici e gestionali delle sostanze in parola; l'adempimento di particolari obblighi formali (sia da parte dei loro produttori che da parte dei successivi soggetti della filiera).
In primo luogo, i materiali dovranno rispondere ai seguenti requisiti (analoghi a quelli previsti dall'articolo 184-bis del dlgs 152/2006 per i sottoprodotti in generale), ossia: essere generati durante la realizzazione di un'opera di cui costituiscono parte integrante ma il cui scopo primario non è la loro produzione; essere riutilizzati nel corso dell'esecuzione della stessa opera dalla quale deriva, (oppure) in una diversa opera per reinterri, rimodellazioni, miglioramenti fondiari o viari, altri ripristini e miglioramenti ambientali, (o, ancora) in processi produttivi, quale sostituto di materiali di cava; essere riutilizzati «direttamente», ossia senza subire preventivi trattamenti diversi dalla «normale pratica industriale»; essere detti materiali in linea con i parametri di qualità ambientale previsti dall'allegato 4 al decreto ministeriale in parola (parametri relativi ai livelli massimi di concentrazione di sostanze inquinanti ammissibili).
Nel tenore del dm 161/2012 costituiscono, in particolare, «normale pratica industriale» le operazioni di miglioramento delle caratteristiche merceologiche dei materiali, finalizzate a renderne il riutilizzo maggiormente produttivo e tecnicamente efficace. Tra queste operazioni il dm 161/2012 richiama, a titolo esemplificativo, quelle più comunemente adottate, come la selezione granulometrica, la riduzione volumetrica, la stabilizzazione, la stesa a suolo l'asciugatura, la riduzione della presenza di materiale da scavo.
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Va rispettato il piano di utilizzo.
Dal punto di vista formale, invece, gli obblighi sono legati all'intera filiera del riutilizzo. Infatti, sempre che rispondano i suddetti requisiti, i materiali potranno essere gestiti come sottoprodotti solo ove: vengano governati nel rispetto del «piano di utilizzo» concordato con l'autorità pubblica responsabile dell'autorizzazione dell'opera dalla quale i materiali provengono (o a quella responsabile della valutazione di impatto ambientale o autorizzazione integrata, ove necessarie); siano depositati (nelle more del riutilizzo) secondo le regole particolari dettate dal dm 161/2012; siano trasportati insieme al peculiare «documento di trasporto»; siano certificati nel loro riutilizzo da una apposita «dichiarazione di avvenuto utilizzo» rilasciata dall'esecutore del medesimo. In caso di inosservanza delle regole relative anche a un singolo anello della catena, i materiali saranno considerati non più sottoprodotti, ma rifiuti, con l'obbligo di doverli gestire come tali.
Il «piano di utilizzo», in particolare, dovrà essere presentato dal soggetto che intende gestire i materiali da scavo come sottoprodotti alla Autorità competente almeno 90 giorni prima dell'inizio dei lavori per la realizzazione dell'opera da cui potranno derivare i materiali da scavo, dimostrando, tramite lo stesso documento, la sussistenza di tutti i citati requisiti oggettivi dei materiali, e indicando altresì tempi, modi e luoghi di realizzazione delle opere (o delle attività manutentive).
La gestione del materiale come sottoprodotto potrà iniziare decorsi 90 giorni dalla presentazione del suddetto piano e previa comunicazione della data di inizio lavori alla stessa autorità competente ma comunque non oltre i 2 anni dalla presentazione dello stesso. Lo stoccaggio del materiale escavato in attesa di utilizzo potrà invece avvenire esclusivamente all'interno del sito di produzione, dei siti di deposito intermedio o dei siti di destinazione finale.
Il deposito dovrà altresì avvenire nel rispetto delle indicazioni e della tempistica del citato piano di utilizzo, separato dal deposito temporaneo di eventuali rifiuti presenti in loco ed appositamente segnalato. In tutte le fasi successive all'uscita dal sito di produzione il materiale escavato dovrà essere accompagnato dal citato «documento di trasporto» previsto dal dm 161/2012 (sulla falsariga del formulario di trasporto ex dlgs 152/2006), predisposto in tre copie e conservato per cinque anni.
Nuovo quadro normativo e regime transitorio. Dalla sua entrata in vigore (coincidente con il 06.10.2012) le nuove norme recate dal dm 161/2012 sostituiranno, come accennato, le analoghe regole per la gestione delle terre e rocce da scavo recate dall'articolo 186 del dlgs 152/2006. E ciò in forza (a monte) dell'articolo 184-bis dello stesso Codice ambientale che legittima il relativo dicastero a stabilire con proprio decreto particolari regole sui sottoprodotti per particolari tipologie di sostanze e (a valle) dall'articolo 39 del dlgs 205/2010 che prevede l'abrogazione del citato articolo 186 a partire dall'entrata in vigore del nuovo decreto ministeriale (oggi decreto 161/2012).
Al fine di garantire una gestione dei sottoprodotti in parola senza soluzione di continuità, il nuovo dm riconosce però ai soggetti interessati a progetti di riutilizzo in corso la facoltà di passare dal vecchio (quello previsto dall'articolo 186 del dlgs 152/2006) al nuovo regime di gestione tramite la presentazione del previsto «piano di utilizzo» entro la metà del prossimo aprile 2012.
In difetto, i progetti in itinere dovranno invece essere portati a termine secondo le uscenti regole del dlgs 152/2006 (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.10.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Proprietà. Intervento a metà tra la manutenzione straordinaria e la ristrutturazione.
Più semplice frazionare le unità immobiliari. Ma l'esclusione dagli oneri urbanistici non è automatica.
IL TITOLO ABILITATIVO/ Permesso di costruire o Dia rafforzata nelle Regioni in cui l'operazione non è ancora stata alleggerita.

Ville familiari ormai troppo grandi per i nuclei moderni, crisi economica e necessità di sfruttare al massimo gli immobili: sono tante le ragioni che spingono i proprietari di casa a dividere il proprio immobile e a ricavarne più unità.
Il frazionamento di immobili è in crescita e lo dimostra anche la recente legge del Veneto che ha deciso di favorirlo.
Ma diverse sono le procedure da seguire per questo tipo di intervento edilizio, anche a seconda della disciplina regionale. Se si abita in Lombardia o in Veneto l'intervento sarà considerato di manutenzione straordinaria: basterà presentare una Scia (segnalazione certificata di inizio attività) e, senza alcun onere o tassa, si potrà procedere ai lavori di frazionamento.
Se invece si abita in un'altra regione questo intervento sarà classificato come una ristrutturazione e, di conseguenza, sarà assoggettato a permesso di costruire (o alla cosiddetta Super-Dia e persino alla Scia in Toscana) e al pagamento di un contributo simile a quello del totale rifacimento di un intero edificio.
Perché questa differenza? Per comprendere la discrepanza bisogna considerare la definizione di manutenzione straordinaria introdotta dalla legge 457/78 e confermata dal Testo unico per l'edilizia del 2001. Quest'ultimo impone che la manutenzione straordinaria non alteri le superfici delle singole unità immobiliari, senza perciò possibilità di aumentarne o diminuirne il numero.
Secondo la legge nazionale, frazionare non è quindi un intervento classificabile come manutenzione straordinaria (fatte salve le diverse discipline regionali).
Resta da stabilire se la modifica delle unità immobiliari è sottoposta ad autorizzazione gratuita, qualora sia considerata come risanamento conservativo, o al pagamento di oneri, se considerata ristrutturazione. A questo proposito entra in gioco il concetto di «carico urbanistico», ovvero bisogna valutare se il frazionamento comporta un aumento delle spese per servizi da parte dei Comuni. Secondo quasi tutte le leggi regionali ed una giurisprudenza abbastanza consolidata il carico urbanistico aumenta, quindi frazionare un appartamento comporta il pagamento di oneri ed una procedura più complessa di una mera opera interna, anche quando per dividere l'immobile è sufficiente chiudere una porta o un piccolo tratto di muro. La ratio di tale posizione è che l'aumento dei nuclei familiari comporta maggiori servizi, ma ad essa si potrebbe obiettare che il numero di persone insediabili in un grande appartamento può essere superiore a quello degli abitanti nella somma dei monolocali corrispondenti alla stessa superficie e che il calcolo dello standard è sempre stato fatto a superficie invece che a numero delle unità.
Per riparare a tali contraddizioni, la regione Emilia Romagna ha previsto, con l'articolo 28 della legge regionale 31/02, la possibile gratuità del frazionamento in caso di opere ridotte o di minimo aumento del carico, ma la sua applicazione è controversa (si veda Tar Emilia Romagna n. 352/2008).
Anche la Lombardia, con la legge regionale 12/2005, prevede fusioni e frazionamenti compresi nella manutenzione straordinaria. Ma alcuni Comuni non demordono e richiedono comunque il pagamento di oneri per compensare il maggior carico.
In conclusione, salvo Lombardia e Veneto, il frazionamento è trattato come un intervento edilizio rilevante a prescindere dal fatto che esso riguardi un intero fabbricato o un singolo appartamento. Anche in Lombardia e Veneto, però, il frazionamento non deve comportare una sostanziale modifica dell'intero edificio ed in particolare delle parti comuni, in tal caso si rientra nella ristrutturazione, a prescindere dalla modifica del numero delle unità immobiliari.
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Leggi regionali. Le norme a regime - Lombardia apripista Ora tocca al Veneto
La spinta alla semplificazione dei frazionamenti immobiliari viene soprattutto dalle leggi regionali. Da ultimo è arrivato il Veneto con la legge 34/2012, nata da un'esigenza del territorio: di famiglie, imprese, associazioni industriali e della proprietà edilizia.
La norma modifica l'articolo 76 della legge 61/1985 e consente ai cittadini di frazionare in più unità (o accorpare, al contrario) una casa, senza dover pagare ai comuni pesanti oneri di urbanizzazione.
Tutto dipende dalla nuova classificazione attribuita ai frazionamenti. La legge, in un solo articolo, precisa, infatti, che questi interventi non sono ristrutturazioni, ma manutenzioni straordinarie e possono, perciò, essere eseguiti senza che ciò comporti l'aumento di un carico urbanistico. La norma vale per locali che mantengono "la destinazione d'uso residenziale": nulla viene invece detto per immobili terziari o industriali.
«La legge –spiega il consigliere Dario Bond, primo firmatario– risponde a una domanda reale. In Veneto le proprietà immobiliari individuali sono numerose. Ma oggi, a fronte dei cambiamenti che investono i nuclei familiari, le case troppo grandi non rispondono ai bisogni delle famiglie, che invece spesso hanno necessità di avere due appartamenti vicini e autonomi, da condividere con genitori anziani o figli indipendenti».
Prima del Veneto, la strada innovativa era già stata percorsa, e da parecchio, dalla Lombardia. Del tutto diverso è, invece, il caso dei frazionamenti consentiti dai piani casa regionali, ma come interventi straordinari in deroga ai Prg, a tempo limitato e, soprattutto, a fronte spesso di pesanti restyling dell'edificio. «Il frazionamento senza oneri –tira le somme Camillo Bertocchi, funzionario del settore Urbanistica della Lombardia– è stato inserito all'articolo 27 della legge 12 dell'11 marzo 2005, che disciplina il governo del territorio. Si tratta di una possibilità che è stata utilizzata sul territorio ed è molto attuale. Anche perché è realizzabile presentando in Comune una semplice Scia o addirittura una comunicazione libera».
Positivo il riscontro delle associazioni che tutelano la proprietà edilizia. «La legge veneta –commenta Michele Vigne, presidente della sezione regionale di Confedilizia– recepisce nel migliore dei modi una proposta che noi stessi avevamo avanzato. Del resto, se un'unità viene frazionata senza variare superficie, volume o destinazione d'uso, non ha senso il pagamento di oneri molto gravosi». L'unica incertezza aperta è sul fronte delle imposte sulla casa. Il frazionamento comporta un aggiornamento della situazione catastale e la definizione di una nuova rendita indispensabile per il calcolo di tasse e Imu (si veda l'articolo a fianco). «C'è da augurarsi –conclude Vigne– che l'ostacolo non arrivi da qui».
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Il Territorio. L'aggiornamento dei dati - Cambia anche la rendita catastale
Ultimati i lavori di frazionamento di unità immobiliari, va completata la pratica sotto il profilo catastale. Il proprietario dovrà rivolgersi a un tecnico professionista –autorizzato a operare negli atti catastali, iscritto all'albo degli ingegneri, architetti, geometri, dottori agronomi, periti edili e agrari, agrotecnici diplomati e laureati– che, esaminata la porzione di fabbricato su cui operare, dovrà richiedere la visura catastale, contenente tutti i dati relativi ai possessori, alla consistenza, categoria, classe e rendita, oltre alla copia della planimetria originale, previa autorizzazione scritta del proprietario, sulla quale sono rappresentate le eventuali pertinenze (cantina, soffitta, eccetera), oltre alle dipendenze (giardini, terrazzi, orticelli e così via).
Disponendo di questi elementi, il tecnico dovrà individuare le porzioni in cui è suddivisa l'unità, generalmente due nel caso di un appartamento di media grandezza, ma anche diverse nel caso di ville di grande consistenza, o dei grandi negozi, capannoni e depositi.
Individuate le porzioni di fabbricato, da ricavare dall'unità originale, il tecnico dovrà delineare le nuove planimetrie, alle quali annettere eventuali pertinenze e, quindi,utilizzando il programma Docfa, dovrà attribuire a ciascuna nuova unità ricavata, un nuovo subalterno identificativo, una rendita proposta, e quindi trasmetterle per via telematica all'ufficio provinciale dell'Agenzia competente. Con lo stesso mezzo l'ufficio, verificata la correttezza formale di ogni unità dichiarata, trasmette in automatico la ricevuta di presentazione e, da quel momento, il possessore potrà utilizzare i nuovi dati catastali per ogni necessità, sia civilistica (trasferimento di proprietà, divisone, conferimenti, successione) che fiscale (denuncia dei redditi, Imu).
Tuttavia, qualora l'ufficio ritenga non congrua la rendita, potrà modificarla, notificando al possessore la nuova rendita, che risulterà efficace dalla data di presentazione della denuncia, se la notifica verrà effettuata entro 12 mesi, mentre se sarà notificata dopo la sua efficacia decorrerà dalla data della notifica (Cassazione, sentenza 17818/2007).
Il costo delle denunce, oltre al tributo speciale catastale di 35 euro per ogni unità denunciata, e il bollo, richiede il pagamento del professionista, sulla base delle vacazioni orarie impiegate, che per un appartamento di 10o metri quadrati può variare da 300 a 500 euro.
Se la variazione dovesse riguardare l'ampliamento del sedime del fabbricato, è necessario effettuare l'aggiornamento della mappa, mediate il rilievo del fabbricato e l'utilizzo del programma Pregeo, fornito dalla stessa Agenzia.
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Semplificazioni. Nessun via libera preventivo per chi accorpa - La fusione è sempre ammessa
La manutenzione straordinaria, come definita dalla legge 457/1978, non può alterare le superfici delle singole unità immobiliari e non permette, perciò, di aumentarne o diminuirne il numero. Cosa fare quindi nel caso in cui si intenda unire due appartamenti o semplicemente spostare una stanza da uno all'altro? In realtà il divieto di modificare la superficie delle unità immobiliari ha sempre riguardato solo il caso del frazionamento e non la fusione.
Malgrado, infatti, la definizione di manutenzione straordinaria non ammetta modifiche alla superficie delle unità immobiliari, la fusione tra due o più unità è sempre stata trattata in modo diverso, rispetto al frazionamento, ed ammessa anche quando non erano in vigore le leggi che lo consentivano, in ragione del minore carico urbanistico e della conseguente impossibilità di richiedere oneri per i Comuni.
Dopo la legge 457/78, la legge 47/1985, all'articolo 26, ha consentito di asseverare opere interne senza aumento del numero delle unità immobiliari, (consentendone quindi la diminuzione). Essa ha chiarito altresì che non è considerato aumento delle superfici utili l'eliminazione o lo spostamento di pareti. Era quindi possibile accorpare appartamenti ma non frazionarli. A partire dal 1996 la situazione si è complicata, infatti la legge 662/1996, istituendo la Dia (denuncia di inizio attività), ha assoggettato ad essa le opere interne di singole unità immobiliari, contraddicendo quindi l'articolo 26, ma senza abrogarlo.
Dall'entrata in vigore del Testo unico per l'edilizia nel 2003, l'articolo 26 è scomparso, rendendo impossibile modificare il numero delle unità immobiliari. Ma la legge 73/2010 (di conversione del Dl 40/2010) intervenendo ancora sul Testo unico, ha compreso tra gli interventi che non richiedono titolo edilizio le opere di manutenzione straordinaria che non comportino aumento del numero delle unità immobiliari, per le quali è sufficiente presentare un'asseverazione di un tecnico, senza alcuna procedura comunale, rendendo di nuovo possibile modificare il numero delle unità e ritornando, in pratica, all'articolo 26 del 1985.
Bisogna però sempre ricordare che l'intervento non deve modificare la destinazione d'uso o, secondo la norma più recente, comportare incremento dei parametri urbanistici, passando da una destinazione con minore ad una con maggiore richiesta di infrastrutture (ad esempio da residenza a terziario).
Al contrario, se il frazionamento comporta oneri, può anche, se ammissibile per il Piano regolatore cambiare la destinazione.
Un'ultima verifica che deve essere fatta è quella della presenza di vincoli: in caso di vincolo paesaggistico, se le opere da eseguire sono solo interne, non è necessaria alcuna autorizzazione; se invece l'immobile è gravato da un vincolo monumentale la modifica delle unità è sottoposta a preventivo nullaosta della Soprintendenza
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.10.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Spending review. Contenzioso. Obbligo di appello sulle promozioni decise dal giudice.
LA DIRETTIVA/ Le amministrazioni pubbliche devono proporre ricorso contro gli aumenti e le progressioni di carriera riconosciuti ai dipendenti.

Le amministrazioni pubbliche devono proporre ricorso contro le sentenze con cui sono condannate a riconoscere miglioramenti economici e progressioni di carriera ai propri dipendenti. Questo vincolo si aggiunge al divieto di estensione del giudicato, all'obbligo di realizzare in ogni ente un ufficio per gestire il contenzioso con il personale, all'obbligo di segnalare alla Funzione Pubblica e al ministero dell'Economia tutte le cause di lavoro da cui potrebbero risultare oneri rilevanti per il complesso delle amministrazioni pubbliche.
L'Aran può infine intervenire nei processi di lavoro pubblico. Sono questi gli strumenti attraverso cui si cerca di evitare che gli enti pubblici sostengano oneri aggiuntivi derivanti dalla conclusione con esito negativo dei contenziosi di lavoro pubblico. Si deve inoltre aggiungere la necessità, non sempre rispettata, che le Pa si costituiscano nei processi del lavoro in cui sono parte.
L'obbligo più recente è quello della proposizione dell'appello, introdotto dalla direttiva del presidente del Consiglio dei ministri «Indirizzi operativi ai fini del contenimento della spesa pubblica», pubblicata sulla «Gazzetta ufficiale» del 23 luglio scorso. Nell'ambito delle misure di spending review, la disposizione è dettata per le amministrazioni statali ma è un principio di carattere generale che vale per tutte le Pa, compresi gli enti locali. Lo scopo è «evitare che le sentenze di primo grado che riconoscono miglioramenti economici, progressioni di carriera per dipendenti pubblici passino in giudicato».
Le amministrazioni pubbliche hanno, a tempo indeterminato (in base all'articolo 41, comma 6, del Dl 207/2008) il divieto «di adottare provvedimenti per l'estensione di decisioni giurisdizionali aventi forza di giudicato, o comunque divenute esecutive, in materia di personale delle amministrazioni pubbliche». Né un'altra pubblica amministrazione, né lo stesso ente, possono estendere il giudicato in materia di lavoro al di là del caso che è stato oggetto di sentenza sfavorevole per il soggetto pubblico. È evidente la sfiducia con cui il legislatore guarda alla giurisprudenza del lavoro, anche nei casi in cui essa sia definitiva.
Un insieme di previsioni del Dlgs 165/2001 mirano a rafforzare la posizione delle Pa nel contenzioso del lavoro. In primo luogo, si richiede la maturazione di professionalità specifiche, con l'attivazione, anche in forma associata, dell'ufficio per la gestione del contenzioso del lavoro. Si impone poi a tutte le Pa di segnalare alla Funzione pubblica e al ministero dell'Economia tutti i contenziosi che possono determinare il maturare di oneri significativi.
Questi enti possono intervenire nei processi (in base all'articolo 105 del Codice di procedura civile). Anche l'Aran, per garantire l'omogeneità nell'interpretazione dei Ccnl, può intervenire nei contenziosi sul lavoro pubblico (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.10.2012).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAOpera interna senza placet se non aumenta il volume.
Non commette reato il proprietario di un immobile che, senza concessione edilizia, ricava dalla stessa metratura un bagno e una cucina. In sostanza non sono necessarie autorizzazioni per le opere interne che non aumentano il volume del fabbricato.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione che, con la sentenza 01.10.2012 n. 37713, ha assolto con formula piena, perché il fatto non sussiste, il proprietario di un vecchio fabbricato che, dalla stessa metratura, aveva ricavato (senza concessione edilizia) un bagno e una cucina.
Insomma, ad avviso della sezione feriale, le cosiddette opere interne, non più previste nel dpr 06.06.2001, n. 380, come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti, quando comportino aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia per i quali è necessario il permesso di costruire. Ma in questo caso, spiega il Collegio di legittimità, non c'è stato né aumento del volume del vecchio casale né, tantomeno, il mutamento della destinazione. Fra l'altro, secondo la Corte non è neppure configurabile il residuo reato di cui all'art. 181 del dlgs 42/2004.
Infatti, fermo il principio che la contravvenzione ha natura di reato di pericolo e non richiede per la sua configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente, pur tuttavia devono escludersi dal novero delle condotte penalmente rilevanti quelle che si prospettino inidonee, pure in astratto, a compromettere i valori del paesaggio e l'aspetto esteriore degli edifici (articolo ItaliaOggi del 02.10.2012).

PUBBLICO IMPIEGO - VARICassazione: non si può spiare i dipendenti. Controlli difensivi Privacy garantita.
Controlli difensivi sì, ma con le garanzie previste dallo statuto dei lavoratori. E anche se i sistemi di rilevamento a distanza sono installati con il placet dei sindacati essi devono pur sempre essere diretti a reprimere eventuali condotte illecite dei dipendenti senza tuttavia violare la riservatezza del lavoratori e, dunque, spiarli durante l'erogazione della prestazione.
È quanto emerge dalla sentenza 01.10.2012 n. 16622 della Corte di Cassazione.
Riservatezza prioritaria. Il ricorso dell'operatore del call center licenziato è accolto contro le conclusioni del pg e dopo una doppia sconfitta in sede di merito. Sbaglia il giudice del merito a confermare il recesso del datore che usa contro il dipendente, telefonista di un servizio di prima assistenza, i dati immagazzinati grazie al software aziendale: i files mostrano che l'operatore ha avuto in 4 mesi 460 contatti telefonici con utenti durati meno di 15 secondi, troppo pochi per ascoltare le richieste e rispondere; senza dimenticare che l'addetto mostra di avere effettuato 136 chiamate di natura personale.
Il collegio intende dare continuità all'indirizzo interpretativo secondo cui anche i controlli cosiddetti «difensivi», cioè quelli posti in essere dal datore contro eventuali comportamenti illeciti dei dipendenti, devono essere sottoposti alle garanzie procedurali di cui all'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori. Ma anche quando l'installazione delle apparecchiature avviene all'esito di un procedimento di concertazione con la rappresentanza sindacale aziendale mai i rilevamenti possono riguardare l'esatto adempimento della prestazione.
Filtro necessario. Il datore punta sulle telefonate private individuate a carico dell'operatore: secondo l'azienda l'inadempimento contrattuale ben può emergere con la scoperta dell'illecito. Il collegio, invece, è fermo nel ritenere che i controllo effettuati dal software aziendale non possono intaccare la sfera della prestazione lavorativa del dipendente: è dunque escluso che i dati rilevati possano essere utilizzati contro l'incolpato per dimostrare l'inadempimento della prestazione. Anzi: servono sistemi di filtraggio delle telefonate per impedire di risalire all'identità del dipendente, la cui riservatezza va tutelata in tal senso (articolo ItaliaOggi del 02.10.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Il rilascio dell'autorizzazione in sanatoria è possibile solo nell'ipotesi in cui i lavori non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzabili, non siano stati impiegati materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica, per lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria (art. 3, d.P.R. 06.06.2001 n. 380), come previsto dai commi 4 e 5 dell'articolo 167 del codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs. n. 42/2004).
Lo ha affermato la sentenza 24.09.2012 n. 5066 con la quale la VI Sez. del Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso presentato per la riforma di una precedente sentenza del TAR concernente il rilascio di un permesso di costruire ed il diniego di riconoscimento di compatibilità paesaggistica.
I fatti
Il ricorrente aveva ricevuto dall'amministrazione comunale il permesso di costruire per la realizzazione dei lavori di ristrutturazione ed ampliamento della sua abitazione. I lavori erano, però, stati ultimati in maniera difforme dal titolo autorizzatorio rilasciato, con una serie di differenziazioni tra le opere effettuate ed il contenuto del permesso di costruire. Per tale motivo il ricorrente aveva presentato una richiesta di permesso di costruire a sanatoria, per la regolarizzazione delle opere completate in difformità dal permesso di costruire. Tale nuova richiesta veniva inviata dal responsabile del Comune alla competente Soprintendenza e successivamente veniva espresso parere negativo "in quanto i lavori realizzati, in assenza di autorizzazione paesaggistica o in difformità da essa, ai sensi dell'art. 167, comma 4, lettera a), hanno determinato creazione di superfici utili o volumi in aumento rispetto a quelli legittimamente realizzati".
La nota della Soprintendenza, con la quale veniva espresso il parere negativo sulla compatibilità paesistica degli interventi realizzati in difformità dal permesso di costruire, veniva impugnata per:
1. violazione dell'art. 3, legge n. 241 del 1990, eccesso di potere per inadeguatezza della motivazione, difetto istruttorio, illogicità, contraddittorietà, violazione dell'art. 97, Cost., e violazione del codice dei beni culturali;
2. ulteriore violazione delle norme del codice dei beni culturali e del paesaggio, eccesso di potere per violazione del principio di leale cooperazione tra istituzioni, irragionevolezza e travisamento dei presupposti di fatto e diritto;
3. eccesso di potere per travisamento dei fatti, erroneità dei presupposti, carenza di attività istruttoria, difetto di motivazione, irragionevolezza e violazione del principio di proporzionalità ed efficienza dell'attività amministrativa;
4. violazione degli artt. 7 e 10-bis, legge n. 241/1990;
5. violazione dell'art. 146, commi 7 e 8, d.lgs. n. 42/2004, eccesso di potere, incompetenza e violazione del principio di leale collaborazione tra le istituzioni.
Il TAR, supportato dalla seguente sentenza del Consiglio di Stato che ne ha ribadito i contenuti, ha osservato che l'autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, delle opere (art. 146, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004), al di fuori dai casi tassativamente previsti dall'art. 167, commi 4 e 5. Questo in quanto viene escluso priori che l'esame di compatibilità paesistica possa essere postergato all'intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal titolo rilasciato).
L'art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004 ha inteso precludere in radice ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere abusive (tranne quelle tassativamente indicate nello stesso art. 167). Se le opere risultino diverse da quelle sanabili ed indicate nell'art. 167, le competenti autorità non possono che emanare un atto dal contenuto vincolato e cioè esprimersi nel senso della reiezione dell'istanza di sanatoria. L'unica eccezione a tale rigida prescrizione riguarda il caso in cui i lavori, pur se realizzati in assenza o difformità dell'autorizzazione paesaggistica, non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Dunque, tenuto conto del testo e della ratio dell'art. 167, nella prospettiva della tutela del paesaggio non è rilevante la classificazione dei volumi edilizi che si suole fare al fine di evidenziare la loro neutralità, sul piano del carico urbanistico, poiché le qualificazioni giuridiche rilevanti sotto il profilo urbanistico ed edilizio non hanno rilievo, quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo paesaggistico, sia quando si tratti della percezione visiva di volumi, a prescindere dalla loro destinazione d'uso, sia quando comunque si tratti di modificare un terreno o un edificio o il relativo sottosuolo.
Vale la pena ricordare la ratio che ha portato alla sentenza.
Come previsto dal comma 4, art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004, l'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica nei seguenti casi:
• per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
• per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;
• per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380.
Come previsto, invece, dal successivo comma 5, il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi di cui al precedente comma 4 presenta apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L'autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni. Qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione. L'importo della sanzione pecuniaria è determinato previa perizia di stima. In caso di rigetto della domanda si applica la sanzione demolitoria (commento tratto da www.lavoripubblici.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIBandi. Il Consiglio di Stato chiarisce il perimetro dei criteri di aggiudicazione.
Gara al massimo ribasso senza documenti tecnici. L'ente appaltante deve valutare soltanto l'offerta economica.

In una gara indetta con il criterio del prezzo più basso, la stazione appaltante non può sottoporre a valutazione l'eventuale documentazione tecnica richiesta per comprovare la qualità del servizio o dei materiali adoperati. Il bando non può prevedere, quindi, l'analisi di alcun documento che non sia la sola offerta economica.
Il Consiglio di Stato (III Sez.), ha chiarito con la sentenza 21.09.2012 n. 5050 quali sono gli elementi essenziali che consentono la gestione corretta della gara da aggiudicare in base al solo dato economico.
Un'azienda sanitaria aveva indetto un appalto di servizi con il criterio del massimo ribasso previsto dall'articolo 82 del Codice dei contratti pubblici, in base a un progetto molto dettagliato, tradotto in obblighi precisi per l'appaltatore, evidenziati nel capitolato prestazionale.
Questa impostazione permette alle amministrazioni di esplicitare i processi di realizzazione delle prestazioni e i livelli qualitativi rispondenti alle loro esigenze, per cui gli operatori economici non devono presentare un progetto tecnico o di miglioria tecnica, ma devono solo impegnarsi a rispettare le prescrizioni del capitolato.
Il Consiglio di Stato evidenzia, rispetto a questo profilo, che le stazioni appaltanti sono obbligate a predisporre la progettazione anche per gli appalti di servizi e di forniture, in base all'articolo 279 del Dpr 207/2010.
Quando la gara riguarda servizi semplici, basati su operazioni ripetitive e standardizzate, l'ente appaltante si può peraltro limitare a indicare in modo dettagliato, nel capitolato speciale d'appalto, gli obblighi cui sarà sottoposto il futuro affidatario, chiedendo ai concorrenti di impegnarsi contestualmente a svolgere il servizio secondo le indicazioni immodificabili fornite dall'amministrazione.
Nello schema della gara con il prezzo più basso, il bando non può quindi prevedere la presentazione di documentazione tecnica (in busta separata da quella dell'offerta economica) e tanto meno questa può essere sottoposta a valutazione dal seggio di gara.
L'esclusione da una gara gestita con il massimo ribasso di un'offerta per la quale l'organismo che presiede alla gara assume a motivazione l'inadeguatezza della documentazione tecnica, evidenzia, secondo il Consiglio di Stato, il travisamento del tipo di gara secondo il criterio del prezzo più basso. L'esplicitazione delle specifiche prestazionali nel capitolato e la richiesta ai concorrenti di svolgere il servizio in stretta aderenza alle indicazioni fornite dalla stazione appaltante, fanno rilevare l'insensatezza della motivazione della esclusione attinente alla non aderenza al progetto tecnico.
La valutazione dei profili tecnico-qualitativi è infatti tipica del criterio di aggiudicazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa disciplinato dall'articolo 83 del Dlgs 163/2006, che è usato quando l'ente appaltante ha bisogno di ottenere dal concorrente, non solo un ribasso economico, ma anche soluzioni tecniche ottimali rispetto a una ipotesi progettuale di espletamento del servizio non sufficientemente dettagliata.
L'impropria commistione e l'esclusione determinata in rapporto all'insufficienza di elementi non compiutamente configurabili come parti di un'offerta tecnica, comportano anche l'elusione del principio di tassatività delle cause di esclusione previsto dall'articolo 46, comma 1-bis, del Codice dei contratti, che devono risultare chiaramente dal bando, escluse le ipotesi in cui rispondano a un particolare interesse dell'amministrazione.
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Procedure differenziate
01 | LA SENTENZA
Nella sentenza 5050 del 21.09.2012, il Consiglio di Stato ha chiarito che in una gara indetta con il criterio del massimo ribasso (prevista dall'articolo 82 del Codice dei contratti pubblici), in cui le modalità tecniche di espletamento del servizio e gli obblighi dell'appaltatore sono esposti in maniera dettagliata ed esaustiva nel capitolato, non si può chiedere agli operatori economici di presentare un progetto tecnico o di miglioria tecnica. Deve essere valutata, invece, la sola documentazione relativa all'offerta economica presentata. Il Consiglio di Stato ha dunque accolto il ricorso di una società respinta da una gara indetta da una Asl per l'inadeguatezza della documentazione tecnica presentata
02 | LA DISTINZIONE
Il Consiglio di Stato, nel motivare la sentenza, precisa che la valutazione del progetto tecnico è tipica del criterio di aggiudicazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa previsto dall'articolo 83 del decreto legislativo 163/2006, che è utilizzato quando l'ente appaltante ha bisogno di ottenere dal concorrente, non solo un ribasso economico, ma anche soluzioni tecniche ottimali rispetto a una ipotesi progettuale di espletamento del servizio non sufficientemente dettagliata in partenza (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.10.2012 - link a www.corteconti.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi senza accesso agli atti.
E' esclusa la possibilità di accedere agli atti amministrativi ai sensi della legge n.241/1990 e s.m.i. in riferimento alla richiesta di acquisizione di copia degli atti riguardanti l'attività svolta dalla Polizia Municipale riguardanti l'accertamento di abuso edilizio.

Il TAR Sicilia ha negato l'accesso agli atti ad un contribuente che voleva verificare le modalità con cui erano state svolte le pratiche amministrativa per dichiarare l'abuso edilizio di un immobile di sua proprietà.
La vicenda nasce quando il Comune aveva negato ad un contribuente l’accesso agli atti amministrativi ex L. 241/1990.
Il contribuente aveva richiesto all’amministrazione comunale di acquisire copia degli atti concernenti l’attività di accesso e sopralluogo espletata dalla Polizia Municipale nel suo immobile a seguito di segnalazione di abuso edilizio fatta da terzi.
Il Comando dei vigili urbani aveva respinto l’istanza, affermando che gli accertamenti svolti riguardano l’attività di polizia giudiziaria i cui esiti sono stati trasmessi con comunicazione di notizia di reato del 25 novembre 2012 alla Procura della Repubblica presso il Tribunale , precisando che “la richiesta di accesso debba essere inoltrata direttamente all’Autorità Giudiziaria competente”.
Avverso tale atto il ricorrente è ricorso al Tribunale amministrativo regionale. In linea generale il testo della legge n. 241/1990, nel contemplare l’estensione e la legittimazione all’esercizio del diritto di accesso, sia pure con diverse sfumature, opera una limitazione di tale situazione giuridica richiedendo un interesse qualificato all’ostensione del documento e, di conseguenza, che le istanze siano motivate.
In altri termini, non è sufficiente un mero interesse di fatto teso semplicemente a controllare l’operato dell’azione amministrativa, ma si richiede che tale interesse sia corrispondente ad una situazione giuridica soggettiva riconosciuta e protetta dall’ordinamento generale.
Qualora tale collegamento non sia ritenuto sussistente dall’amministrazione destinataria della richiesta di accesso, quest’ultima potrà legittimamente negare la richiesta di accesso, atteso che la giurisprudenza amministrativa ha in più di un’occasione affermato il principio, secondo il quale le istanze di accesso, non possono essere volte ad effettuare un controllo generalizzato sull’attività amministrativa.
Tale principio, inoltre, ha trovato una sua positivizzazione nella legge n. 15/2005 di modifica della legge n. 241/1990, il cui articolo 16, comma 3, che ha sostituito l’art. 24 della legge del 1990, prevede testualmente: “Non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni”.
La ratio di tale ultima disposizione è evidentemente quella di adattare l’esercizio del diritto di accesso con un altro bene-interesse, che altrimenti sarebbe oltremodo sacrificato, avente dignità costituzionale (art. 97) e meritevole di tutela: il buon andamento della pubblica amministrazione.
Con riferimento alla sentenza oggetto del presente commento per i giudici amministrativi regionali il ricorso è, in parte, infondato ed, in parte, inammissibile, e va pertanto respinto.
Per i giudici amministrativi non corrisponde al vero quanto asserito dal contribuente ricorrente in merito al fatto che vi sia stata violazione e falsa applicazione degli articoli 24 e 25 della legge 241/1990 in quanto il diritto di accesso agli atti amministrativi costituirebbe principio generale dell’attività amministrativa non comprimibile nemmeno a causa del segreto istruttorio, quando il richiedente vuole conoscere i documenti al fine di tutelare la propria sfera soggettiva; l’art. 24 della legge 241/1990, riferita all’esclusione dal diritto di accesso agli atti, riguarda il diritto di accesso ai documenti amministrativi e non risulta riferibile agli atti di polizia giudiziaria, ossia a quella attività che, a norma dell’art. 55 c.p.p., si sostanzia nel “prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale”.
Per il TAR se è vero che non ogni denuncia di reato presentata dalla pubblica amministrazione all’autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale, potendosi registrare casi in cui la denuncia è presentata dall’amministrazione nell’esercizio delle proprie istituzionali funzioni amministrative, è vero il contrario nei casi in cui la P.A. agisca nell'esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuitele dall’ordinamento. In tali ultimi casi, gli atti redatti sono soggetti a segreto istruttorio ai sensi dell’art. 329 c.p.p. e conseguentemente sottratti all’accesso ai sensi dell’art. 24, Legge n. 241/1990.
Di fronte ad atti di polizia giudiziaria, coperti dal segreto istruttorio ex art. 329 c.p.p., vige il divieto di pubblicazione sancito dall’art. 114 c.p.p.
In sostanza per i giudici amministrativi vi è una netta differenza tra atti amministrativi, sui quali è ritenuta legittima la richiesta di accesso ex art. 241/1990, da quelli di polizia giudiziaria i quali , proprio per la loro natura e finalità, sano sottratti al diritto di accesso (commento tratto da www.ispoa.it - TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 20.09.2012 n. 2220 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIConsiglio di Stato. Per il concorrente «riesame» dalla stessa commissione. Appalti, più tutele per i riammessi.
Tutela sempre più incisiva per l'impresa esclusa illegittimamente da una gara di appalto.
L'adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con
sentenza 26.07.2012 n. 30, ha stabilito che se l'impresa viene riammessa alla procedura a gara conclusa, la sua offerta deve essere valutata dalla stessa commissione che ha attribuito i punteggi alle offerte delle ditte ammesse. E ciò non solo quando la gara è stata aggiudicata al prezzo più basso, ma anche quando il bando prevede il metodo dell'offerta economicamente più vantaggiosa che attribuisce alla commissione ampi margini di discrezionalità.
Il caso trattato dall'Adunanza plenaria riguarda l'affidamento dei servizi di sicurezza e vigilanza dell'aeroporto di Bargamo. Un raggruppamento di imprese escluso dalla gara per l'insufficienza di un'autorizzazione di pubblica sicurezza richiesta dal bando ha impugnato il provvedimento. All'esito di un contenzioso intricato il Consiglio di Stato (VI Sezione), accertata con sentenza parziale l'illegittimità dell'esclusione, ha rimesso all'Adunanza plenaria la questione di principio su come deve comportarsi a quel punto la stazione appaltante. Le opzioni in astratto sono tre: azzerare quasi per intero la procedura richiedendo a tutte le imprese di presentare nuove offerte; far valutare l'offerta dell'impresa esclusa dalla stessa commissione che ha esaminato le altre offerte; rimettere in busta tutte le offerte –senza esclusioni- , e farle valutare a una nuova commissione.
La seconda opzione, preferita dall'Adunanza plenaria, tutela molto di più l'impresa esclusa, perché la rimette in gara a tutti gli effetti. Consente cioè che la sua offerta sia tenuta ferma e sia valutata in comparazione con le altre. La prima opzione è più evanescente perché coincide quasi con l'avvio di una nuova gara. Oltretutto quest'ultima sarebbe comunque falsata perché le altre imprese potrebbero confezionare una nuova offerta avendo già conosciuto il contenuto di quelle presentate dalle altre partecipanti e già valutate.
La terza opzione, scartata dall'Adunanza plenaria perché contraria a una norma espressa del Codice dei contratti pubblici, sembra garantire di più i principi della segretezza della procedura (in parte vanificata dalla possibile lettura dei verbali della prima gara) e della continuità e della contestualità delle valutazioni.
L'esame dell'offerta illegittimamente esclusa a cura della stessa commissione può porre il problema di un'alterazione della parità concorrenziale. Ciò perché la commissione già conosce i punteggi non solo dell'offerta tecnica, ma anche di quella economica, delle altre imprese e il suo giudizio discrezionale potrebbe esserne influenzato. Secondo il Consiglio di Stato, tuttavia, questo rischio può essere minimizzato, perché la valutazione delle altre offerte offre già «una fitta rete di riferimenti che (…) consentono di assicurare l'omogeneità della valutazione postuma» e che rendono particolarmente stringente il controllo del giudice amministrativo.
In definitiva, nessuna soluzione è perfetta, ma quella prescelta dal Consiglio di Stato rispetta di più il principio del "giusto processo", che pone in primo piano soprattutto l'interesse del ricorrente (articolo Il Sole 24 Ore del 03.10.2012 - link a www.corteconti.it).

ICI - IMUAree edificabili, valori medi vincolanti.
I valori medi delle aree edificabili fissati dal consiglio comunale con regolamento sono vincolanti, mentre sono solo delle direttive interne se deliberati dalla giunta. Il consiglio comunale può dunque autolimitare il potere di accertamento per ridurre il contenzioso con il contribuente indicando dei valori, sia per l'Ici che per l'Imu, e questa scelta rende illegittimi gli atti impositivi che accertano un valore superiore a quello dichiarato dal contribuente.
È l'importante principio affermato dalla Corte di Cassazione, con l'ordinanza 25.07.2012 n. 13105, che fa chiarezza sulla valenza degli atti generali adottati dagli organi municipali e sugli effetti diversi che producono.
La pronuncia della Cassazione risolve la questione, dibattuta da tempo, relativa alla diversa efficacia dei due atti generali (regolamento e delibera) nella determinazione dei valori delle aree edificabili e le differenti aspettative dei contribuenti, a seconda del provvedimento adottato dall'amministrazione comunale e utilizzato poi in sede di accertamento.
Per i giudici di legittimità, l'atto regolamentare «è previsto esclusivamente nel caso in cui l'amministrazione locale intenda autoimporsi dei vincoli all'esercizio della potestà di accertamento dei tributo». Questo comporta che gli accertamenti non possono essere emanati se l'ente ha fissato i valori medi e i contribuenti li hanno indicati nella dichiarazione e a essi si sono attenuti nell'autoliquidazione dell'imposta. In caso contrario gli atti sono illegittimi. Tuttavia, come posto in rilievo nella pronuncia, «a parte questi vincoli non si può escludere che la giunta possa commissionare studi statistici o rilevare detti valori medi recependoli in un atto amministrativo generale (senza effetti vincolanti-limitativi del potere di accertamento del tributo)».
E la delibera assume la veste di mero atto di indirizzo o di norma interna che serve a fornire criteri uniformi ai funzionari in sede di accertamento. In effetti l'articolo 59 del decreto legislativo 446/1997, comma 1, lettera g), attribuiva ai comuni il potere regolamentare di determinare, periodicamente e per zone omogenee, i valori venali in comune commercio delle aree fabbricabili, al fine di limitare l'attività di accertamento.
La finalità era quella di ridurre al massimo l'insorgenza di contenzioso. La ripartizione del territorio comunale in zone dava facoltà all'ente di attribuire ad esse un diverso valore per assicurarne una maggiore rispondenza ai valori di mercato. Anche se la lettera g) dell'articolo 59 non è applicabile all'Imu, il ministero ha precisato nelle «linee guida» sui regolamenti che i comuni possono comunque autolimitare i propri poteri di accertamento (articolo ItaliaOggi del 03.10.2012).

AGGIORNAMENTO ALL'01.10.2012

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IN EVIDENZA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Un solo responsabile per le attività in «alleanza».
Comune di Riva presso Chieri (TO) - Parere in ordine alle modalità applicative della previsione contenuta nell’art. 14, co. 27 e segg., del d.l. 31.05.2010, n. 78, conv. dalla legge 30.07.2010, n. 122, recante “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”, nello specifico al riconoscimento di posizione organizzativa a più di un dipendente in relazione alle funzioni svolte in forma associativa tra più enti
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Il Sindaco del Comune di Riva presso Chieri ha inoltrato alla Sezione, per il tramite del Consiglio delle Autonomie Locali del Piemonte, una richiesta di parere contenente un quesito relativo alla disciplina dell’esercizio associato di funzioni fra più Enti locali con riferimento alla possibilità di riconoscere la posizione organizzativa ed erogare l’indennità di posizione e la retribuzione di risultato a più di un dipendente in relazione alle funzioni svolte in forma associativa tra più enti.
Il richiedente ha precisato che il Comune ha popolazione inferiore ai 5.000 abitanti e che in base alle previsioni contenute nell’art. 14, co. 27, del d.l. n. 78 del 2010 “intende sottoscrivere con uno o più Comuni limitrofi entro il prossimo 31 dicembre una convenzione per l’esercizio in forma associata di almeno tre funzioni fondamentali”.
Ha aggiunto che le funzioni che dovranno formare oggetto dell’accordo associativo “sono attualmente attribuite, all’interno di ciascun Comune interessato, ad apposite Aree o Servizi al cui vertice è posto un Responsabile di Servizio individuato ai sensi dell’art. 109, comma 2, D.Lgs. 267/2000” e che a detto Responsabile, in base alle previsioni della contrattazione collettiva, compete l’indennità di posizione e la retribuzione di risultato.
Svolta questa premessa,
il Sindaco del Comune di Riva presso Chieri ha domandato alla Sezione se possa ritenersi “contabilmente corretto, dopo aver provveduto ad individuare al vertice di ogni singola funzione gestita in forma associata un unico Responsabile di servizio, continuare a riconoscere, per una o più funzioni di particolare complessità, la posizione organizzativa e conseguentemente la retribuzione di posizione e di risultato oltre che al Responsabile del servizio così come sopra individuato anche ad altro dipendente del medesimo servizio svolto in forma associata, di categoria D cui siano affidati compiti organizzativi complessi, caratterizzati da un elevato grado di autonomia gestionale ed organizzativa”.
Ha chiesto, altresì, se, in caso di risposta positiva al precedente quesito, la somma delle due indennità di posizione “non potrebbe risultare superiore alla somma delle due precedenti retribuzioni di posizione riconosciute ai Responsabili del servizio dai singoli Comuni prima del convenzionamento della funzione”.

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In base all’art. 14, co. 27 e segg. del d.l. 31.05.2010, n. 78, conv. dalla legge 30.07.2010, n. 122, come modificata ed integrata dall’art. 19 del d.l. 06.07.2012, n. 95, conv. dalla legge 07.08.2012, n. 135, recante “Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario”, i Comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti sono tenuti ad esercitare “obbligatoriamente, in forma associata, mediante unione di comuni o convenzione, le funzioni fondamentali dei comuni di cui al comma 27, ad esclusione della lettera l)” (art. 27, co. 28).
Il legislatore ha indicato l’obiettivo dell’esercizio associato delle funzioni, da raggiungere progressivamente, ma non ha fornito indicazioni in merito alle conseguenze che questo potrà avere sia sull’organizzazione dei singoli enti che sulla gestione dei rapporti di lavoro dei dipendenti.
E’ indubbio che
lo scopo perseguito con la previsione contenuta nei commi 27 e segg. del citato art. 14 del d.l. n. 78, conv. dalla legge n. 122 del 2010 è quello di migliorare l’organizzazione degli Enti interessati al fine di fornire servizi più adeguati sia ai cittadini che alle imprese, nell’osservanza dei principi di economicità, efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa.
Spetta, quindi, agli Enti interessati dalla procedura di aggregazione delle funzioni individuare le modalità organizzative ottimali al fine di raggiungere gli obiettivi di maggior efficienza, razionalizzazione e risparmio che il legislatore intendeva conseguire prevedendo l’esercizio associato delle funzioni.
Con specifico riguardo alla concreta organizzazione di ciascuna funzione,
è evidente che gli Enti interessati dall’aggregazione debbano unificare gli uffici e, a seconda delle attività che in concreto caratterizzano la funzione, prevedere la responsabilità del servizio in capo ad un unico soggetto che disponga dei necessari poteri organizzativi e gestionali, nominato secondo le indicazioni contenute nell’art. 109 del TUEL.
L’atto costitutivo dell’Unione o la convenzione predisposta per la gestione associata dei servizi dovrà prevedere le modalità di nomina dei Responsabili dei servizi e ciascun Ente dovrà adeguare il proprio Regolamento degli Uffici e dei servizi per poter procedere allo svolgimento associato delle funzioni.
Nella predisposizione del modello organizzativo gli Enti interessati dovranno tenere conto degli obiettivi di finanza pubblica sottesi al citato art. 14, co. 27 e segg., del d.l. n. 78 del 2010, come modificato ed integrata dall’art. 19 del d.l. 06.07.2012, n. 95, conv. dalla legge 07.08.2012, n. 135, e dovranno, quindi, evitare di adottare soluzioni organizzative che, di fatto, si pongano in contrasto con le finalità, anche di risparmio di spesa, perseguite dal legislatore e che, nella sostanza, mantengano l’organizzazione precedente.
L’esercizio unificato della funzione implica che sia ripensata ed organizzata ciascuna attività, cosicché ciascun compito che caratterizza la funzione sia considerato in modo unitario e non quale sommatoria di più attività simili.
Lo svolgimento unitario di ciascuna funzione non implica necessariamente che la stessa debba far capo ad un unico ufficio in un solo Comune, potendosi ritenere, in relazione ad alcune funzioni, che sia possibile il mantenimento di più uffici in Enti diversi. Ma anche in questi casi l’unitarietà della funzione comporta che la stessa sia espressione di un disegno unitario guidato e coordinato da un Responsabile, senza potersi escludere, in linea di principio, che specifici compiti ed attività siano demandati ad altri dipendenti.
Spetta agli Enti interessati disegnare, in concreto, la nuova organizzazione delle funzioni, adottando un modello che non si riveli elusivo degli intenti di riduzione della spesa, efficacia, efficienza ed economicità perseguiti dal legislatore (come si evince espressamente dal co. 30 del citato art. 14 del d.l. n. 78), non essendo sufficiente che il nuovo modello organizzativo non preveda costi superiori alla fase precedente nella quale ciascuna funzione era svolta singolarmente da ogni Ente.
In proposito,
una soluzione che lasciasse intravedere un’unificazione solo formale delle attività rientranti in ciascuna funzione e che, di fatto, permettesse a ciascun Ente di continuare a svolgere con la sua organizzazione ed ai medesimi costi i compiti inerenti alla funzione non risponderebbe all’obbligo previsto dall’art. 14, co. 27 e segg., del d.l. 31.05.2010, n. 78, conv. dalla legge 30.07.2010, n. 122, come modificato e integrato dal citato art. 19 del d.l. n. 95, conv. dalla legge n. 135 del 2012 (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 30.08.2012 n. 287).
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Un solo responsabile per le attività in «alleanza».
Importante parere sulle gestioni associate quello fornito dalla Corte dei conti sezione regionale di controllo per il Piemonte anche per le ripercussioni sulla organizzazione del personale.

Il parere 30.08.2012 n. 287 delinea i principi organizzativi e i vincoli anche contabili cui i Comuni dovranno attenersi in ordine al personale destinato alla gestione in forma associata.
Un parere che sostanzialmente si inserisce nel vuoto normativo che caratterizza questa materia atteso che gli attuali contratti del personale degli enti locali disciplinano solo con poche disposizioni le figure dell'unione e delle convenzioni e dei rapporti di lavoro inerenti. La Corte dei conti sottolinea che spetta agli enti interessati dalla procedura di aggregazione individuare le modalità organizzative ottimali al fine di raggiungere gli obiettivi di maggior efficienza, razionalizzazione e risparmio che il legislatore intendeva conseguire con l'associazione.
Per i giudici contabili gli enti interessati dall'aggregazione debbono unificare gli uffici e, a seconda delle attività che in concreto caratterizzano la funzione, prevedere la responsabilità del servizio in capo ad un unico soggetto che disponga dei necessari poteri organizzativi e gestionali, nominato secondo le indicazioni contenute nell'articolo 109 del Testo unico enti locali.
Questo significa che se due o più enti si associano per gestire la funzione sociale o amministrativa, soltanto un dipendente dei due Comuni potrà assumere le funzioni di responsabile di servizio e usufruire del relativo trattamento economico.
L'atto costitutivo dell'unione o la convenzione predisposta per la gestione associata dei servizi dovrà prevedere le modalità di nomina dei responsabili dei servizi e ciascun ente dovrà adeguare il proprio regolamento di uffici e servizi per poter procedere allo svolgimento associato.
Ai fini contabili, poi, il parere precisa che nella predisposizione del modello organizzativo gli enti interessati dovranno tenere conto degli obiettivi di finanza pubblica sottesi all'articolo 14, commi 27 e seguenti, del Dl 78/2010, e dovranno, quindi, evitare di adottare soluzioni organizzative che, di fatto, si pongano in contrasto con le finalità, anche di risparmio di spesa, perseguite dal legislatore e che, nella sostanza, mantengano l'organizzazione precedente.
L'esercizio unificato della funzione implica che sia ripensata e organizzata ciascuna attività, cosicché ciascun compito sia considerato in modo unitario e non quale sommatoria di più attività simili.
Lo svolgimento unitario di ciascuna funzione non implica necessariamente che la stessa debba far capo ad un unico ufficio in un solo Comune, potendosi ritenere, in relazione ad alcune funzioni, che sia possibile il mantenimento di più uffici in enti diversi. Ma anche in questi casi l'unitarietà della funzione comporta che la stessa sia espressione di un disegno unitario guidato e coordinato da un responsabile, senza potersi escludere, in linea di principio, che specifici compiti ed attività siano demandati ad altri dipendenti.
Spetta agli enti interessati disegnare, in concreto, la nuova organizzazione delle funzioni, adottando un modello che non si riveli elusivo degli intenti di riduzione della spesa, e degli obiettivi di efficacia, efficienza ed economicità perseguiti dal legislatore (come si evince espressamente dal comma 30 dell'articolo 14 del Dl 78), non essendo sufficiente che il nuovo modello organizzativo non preveda costi superiori alla fase precedente nella quale ciascuna funzione era svolta singolarmente da ogni ente.
In proposito, una soluzione che lasci intravedere un'unificazione solo formale delle attività rientranti in ciascuna funzione e che, di fatto, permetta a ciascun ente di continuare a svolgere con la propria organizzazione e agli stessi costi i compiti inerenti alla funzione non risponderebbe all'obbligo previsto dalla legge
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.09.2012 - tratto da www.corteconti.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: T. Millefiori, Il regime edilizio delle opere pubbliche e la totale soggezione delle infrastrutture regionali e sub-regionali ai poteri (di pianificazione, di accertamento di conformità, di vigilanza sull’uso del territorio e sanzionatori) comunali (link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: M. Tagliaferro, Attività di ricerca di idrocarburi e principio di precauzione (nota a TAR Lecce n. 1341/2011) (link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: L. Ramacci, Il «disastro ambientale» nella giurisprudenza di legittimità (link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: A. Milone, VIA e AIA delle centrali termoelettriche: un’interessante sentenza (nota a TAR Lazio n. 5327/2012) (link a www.lexambiente.it).

PUBBLICO IMPIEGO: N. Morrone e A. La Mendola, Mancato invio del certificato medico e licenziamento (link a www.ipsoa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: S. Maglia, In caso di contaminazioni pregresse è possibile imporre all’attuale proprietario la bonifica dell’area? (link a www.tuttoambiente.it).

QUESITI & PARERI

APPALTI: Appalti pubblici. Responsabilità del committente.
Domanda
Il committente di un appalto è sempre responsabile in caso di infortunio durante l'esecuzione dei lavori?
Risposta
Con riguardo ai lavori svolti in esecuzione di un contratto di appalto o di prestazione d'opera, il dovere di sicurezza grava, oltre che sull'affidatario dell'opera, anche in capo al committente, con conseguente possibilità che questi, in caso di infortunio, possa esserne riconosciuto responsabile.
Tale principio, tuttavia, non va applicato automaticamente, dato che non può esigersi dal committente un controllo pressante, continuo e capillare sull'organizzazione e sull'andamento dei lavori. Per accertare la responsabilità del committente, pertanto, va approfondito l'esame della situazione concreta, tenendo conto della specificità dei lavori da eseguire, dell'effettiva capacità tecnica e professionale dell'affidatario dell'opera, della eventuale ingerenza del committente nella esecuzione dei lavori nonché del grado di percepibilità della situazione di pericolo (25.09.2012 - tratto da www.ipsoa.it).

UTILITA'

SICUREZZA LAVOROSicurezza nei cantieri e nei luoghi di lavoro: ecco le risposte più interessanti alle domande più frequenti.
1. Qual è la differenza tra DUVRI e POS?
2. Con quale frequenza gli RSPP devono fare i corsi di aggiornamento?
3. Un proprietario che non rimuove la copertura di eternit del suo capannone deve comunicarlo al comune?
4. Ai sensi del Decreto 81/2008 chi è il datore di lavoro? Il Condominio o l’amministratore condominiale pro-tempore?
La risposta a queste e molte altre domande è contenuta nella pubblicazione “Quesiti sulla sicurezza nei luoghi di lavoro”, aggiornata a luglio 2012, a cura del servizio “Info.Sicuri” della Regione Piemonte.
Il documento, rivolto ai datori di lavoro, responsabili e addetti alla sicurezza, dirigenti, preposti, professionisti, lavoratori e loro rappresentanti, contiene una serie di domande a cui la Regione Piemonte ha fornito utili risposte, a carattere esclusivamente informativo, sulla normativa a tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, relativamente a:
● Applicazione generale del D.Lgs. 81/2008
● Luoghi di lavoro, macchine e DPI
● Sicurezza sui cantieri
● Segnaletica di sicurezza, movimentazione manuale dei carichi, videoterminali
● Agenti fisici, sostanze pericolose, agenti biologici, protezione da atmosfere esplosive (27.09.2012 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARIDa ANCE il vademecum su regime fiscale e IVA per cessioni e locazioni di immobili.
La Legge 07.08.2012, n. 134 (Decreto Sviluppo) ha introdotto molte novità anche in materia di regime fiscale delle operazioni immobiliari di cessione e locazione.
Il regime fiscale, sia in caso di cessione che di locazione, è applicabile diversamente a seconda della tipologia d’immobile: “abitazioni” o “fabbricati strumentali”.
In merito l’ANCE ha realizzato un vademecum operativo da seguire per l’applicabilità dell’IVA nelle operazioni di cessione e locazione di immobili distinti tra abitazioni e fabbricati strumentali.
Nel documento, inoltre, vengono trattati i seguenti aspetti:
il regime dell’inversione contabile per cessioni di fabbricati abitativi
il regime dell’inversione contabile per cessioni di fabbricati strumentali
il regime IVA per cessioni ad immobili pertinenziali ad abitazioni (27.09.2012 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATACome adeguare le strutture alberghiere alla normativa antincendio? Arriva il Vademecum dei VV.F..
Le strutture turistico-alberghiere esistenti con oltre 25 posti letto non ancora conformi alla normativa di prevenzione incendi possono adeguarsi in base al Piano Straordinario biennale di Adeguamento, ai sensi del Decreto del 16.03.2012.
Il termine per realizzare gli interventi di adeguamento, dopo diverse proroghe, è stato fissato al 31.12.2013.
Il Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco ha realizzato un vademecum per la presentazione delle domande di accesso al piano di adeguamento che gli enti e i privati responsabili devono presentare al Comando provinciale dei Vigili del Fuoco entro il 31.10.2012.
Obiettivo del documento è quello di definire l’iter procedurale e i lavori di adeguamento delle strutture alberghiere ai fini della sicurezza antincendio; sono definiti i tempi e la modulistica specifica per l’ammissione al piano e fornite indicazioni sugli altri documenti da presentare (27.09.2012 - link a www.acca.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Nuovo regolamento per l’utilizzo delle terre e rocce da scavo (ANCE di Bergamo, circolare 25.09.2012 n. 236).

VARIAgevolazioni fiscali per i professionisti: opportunità di deduzione delle spese per formazione professionale e utilizzo promiscuo della residenza.
Il professionista che sostiene spese per l’aggiornamento e la formazione professionale continua può dedurre dal proprio reddito il 50% degli importi.
Lo ha chiarito l’Agenzia delle Entrate, con circolare 20.09.2012 n. 35/E: in particolare, in base a quanto previsto dal D.P.R. 917/1986 (Testo Unico delle Imposte sui Redditi) è possibile dedurre dal reddito da lavoro autonomo il 50% delle spese sostenute per la partecipazione a corsi di aggiornamento professionale, incluse quelle di viaggio e soggiorno.
Inoltre, se il professionista utilizza la propria abitazione anche come studio professionale, ossia per lo svolgimento dell’attività lavorativa, può dedurre il 50% della rendita catastale.
La Circolare chiarisce, inoltre, una serie di questioni circa i redditi di impresa, redditi di lavoro, le operazioni IVA e le operazioni con soggetti residenti in paesi “Black List” (27.09.2012 - tratto da www.acca.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALINon sfugge ai tagli l'anniversario dell'ente. Deliberazione della Corte dei conti della Lombardia.
Le spese collegate alla celebrazione dell'anniversario storico del comune non possono essere escluse di per sé dai tagli imposti dal legislatore con l'articolo 6, comma 8, della legge n. 122/2010, alle più generali spese di rappresentanza e per relazioni pubbliche. Infatti, dovrà essere l'ente a mettere in pratica un'attenta valutazione sulla natura di tali spese e operare secondo principi di sana gestione.
Lo ha messo nero su bianco la sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Lombardia, nel testo del parere 14.09.2012 n. 398.
Come noto, la disposizione sopra richiamata, nell'ottica di un generale contenimento delle spese della pubblica amministrazione, ha sancito che dal 2011 le pubbliche amministrazioni non possono effettuare spese per relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e di rappresentanza, per un ammontare superiore al 20% della spesa sostenuta nel 2009 per le stesse finalità.
Sul versante della «rappresentanza», la Corte ha rilevato che queste sono da intendersi tutte le attività che, garantendo «una proiezione esterna dell'amministrazione verso la collettività», portano vantaggi all'ente che lo stesso trae dall'essere conosciuto. Allo stesso modo, la nozione di relazioni pubbliche comprende tutte quelle attività di comunicazione il cui obiettivo è quello di sviluppare le relazioni dell'ente. Nel caso specifico, la previsione voluta dal comune istante di escludere da tali parametri (e quindi dalle limitazioni legislative) le spese per la celebrazione dell'anniversario storico dell'ente stesso, non può essere «ex se» condivisa.
Infatti, le possibili esclusioni dalle disposizioni richiamate sono state individuate dal legislatore (per esempio, con riferimento ai convegni organizzati dalle università o alle feste nazionali previste dalla legge). Pertanto, ha concluso il collegio, spetta sempre all'ente valutare se il programma di interventi finalizzati al «compleanno» del comune, rientri nell'alveo normativo delle spese individuate dal legislatore nel citato art. 6, comma 8, della Legge n. 122/2010.
Infatti, è evidente che la ratio della disposizione è quella di contenere gli oneri finanziari degli enti, al fine di salvaguardarne gli equilibri di bilancio, ma non certamente quello di limitarne comunque le azioni, a prescindere dal loro impatto finanziario sul bilancio dell'ente stesso (articolo ItaliaOggi del 25.09.2012 - tratto da www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Sulla responsabilità attribuita al Segretario comunale per il rimborso di spese di missione sostenute dal Sindaco.
Il Collegio intende affermare i seguenti principi generali, in applicazione dei quali –sulla base della specifica contestazione della Procura– è stata assunta la decisione:
a) il Sindaco, quale figura istituzionale di vertice, non è tenuto a conseguire una previa autorizzazione prima di effettuare missioni;
b) la disciplina delle missioni sindacali può esser contenuta nei regolamenti comunali;
c) il Sindaco ha ampia discrezionalità nella determinazione di effettuare le missioni stesse e tale discrezionalità, di per sé insindacabile, incontra il limite della razionalità e dell’oggettivo perseguimento di un interesse pubblico specifico, direttamente correlato con le finalità istituzionali dell’Ente e della rappresentatività della comunità di riferimento;
d) l’ampia discrezionalità nel disporre le proprie missioni determina per il Sindaco l’onere particolarmente “stringente” di documentare in modo compiuto le spese per le quali chieda il rimborso;
e) in via di principio, lo smarrimento della documentazione produce gli stessi effetti della mancanza di documentazione ( a meno che lo smarrimento sia giustificato da comprovate ragioni di forza maggiore);
f) solo in via eccezionale –come in fattispecie– la carenza di documentazione fa conservare il diritto al rimborso, quando cioè gli elementi fattuali che determinano il rimborso stesso siano oggettivamente e certamente desumibili aliunde (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Umbria, sentenza 10.09.2012 n. 97 - link a www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di applicabilità dell'esenzione dal contributo di costruzione prevista dall'art. 17, comma 3, lett. c) del D.P.R. 06/06/2001 n. 380 per la realizzazione di chiese da parte di parrocchie o enti ecclesiastici e delle eventuali pertinenze quali ostelli, oratori o campi da gioco.
Il Comune per poter addivenire all’esonero dal contributo di costruzione deve verificare, secondo i parametri forniti dalla giurisprudenza, la sussistenza di entrambi i requisiti soggettivo ed oggettivo indicati dall'art. 17, comma 3, lett. c), dpr 380/2001 considerando sia le finalità di interesse generale perseguite con la realizzazione di una chiesa e delle eventuali pertinenze sia la natura degli enti esecutori delle predette opere (parrocchia o enti ecclesiastici).
L’art. 17, comma 3, lett. c), del D.P.R. 06/06/2001 n. 380 recante il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, prevede che il contributo di costruzione non è dovuto per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici.
La prima parte della norma per consentire l’esonero dal contributo di costruzione richiede la contemporanea presenza di due requisiti: uno oggettivo attinente alla realizzazione di opere pubbliche o di interesse generale ed uno soggettivo poiché le opere devono essere realizzate da enti istituzionalmente competenti.
Il Consiglio di Stato, con sentenza del 10/05/2005 n. 2226, ha evidenziato che il fine dell'applicazione della norma, fondata dunque sul presupposto oggettivo della natura delle opere e su quello soggettivo della qualità dell'ente realizzatore, è chiaramente quello di assicurare una ricaduta del beneficio dello sgravio a vantaggio della collettività, nel senso che la gratuità della concessione si traduce in un abbattimento dei costi, a cui corrisponde, in definitiva, un minore aggravio di oneri per il contribuente. Le opere per cui può ipotizzarsi lo sgravio dagli oneri concessori devono, dunque, rivelare innanzitutto un carattere direttamente satisfattivo dell'interesse della collettività, di per se stesse -poiché destinate ad uso pubblico o collettivo- o in quanto strumentali rispetto ad opere del genere anzidetto, o comunque perché immediatamente collegate con le funzioni di pubblico servizio espletate dall'ente.
Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, il requisito c.d. soggettivo necessario per accordare l'esenzione dal contributo sussiste non solo nel caso in cui l'opera sia realizzata direttamente da un ente pubblico nell'esercizio delle proprie competenze istituzionali, ma anche nel caso in cui l'opus venga realizzato da un soggetto privato, purché per conto di un ente pubblico come nel caso della concessione di opera pubblica o in altre analoghe figure organizzatorie in cui l'opera sia realizzata da soggetti che non agiscano per scopo di lucro, o che accompagnino tale lucro ad un legame istituzionale con l'azione dell'Amministrazione volta alla cura di interessi pubblici (Cons. Stato 09/09/2008 n. 4296, 12/07/2005 n. 3744).
Nella nozione di ente istituzionalmente competente alla realizzazione di un’opera pubblica o di interesse generale devono ritenersi comprese anche le fondazioni che intendono costruire istituti di cura o di ricerca sanitaria (Cons. Stato 06/12/2007 n. 6237).
La Sezione Regionale di Controllo per la Lombardia, con
parere 09.10.2009 n. 783, accogliendo un’interpretazione evolutiva e teleologicamente orientata del concetto di “ente istituzionalmente competente” previsto all'art. 17 del D.P.R. n. 380/2001 (anche al di là delle figure dei concessionari), ha ritenuto che la realizzazione di opere di riqualificazione di una casa di riposo esistente sul territorio comunale gestita da una fondazione onlus rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 17, comma 3, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001.
Peraltro, con la gratuità si è inteso incentivare solo la dotazione di quelle infrastrutture che danno ordinata e coerente attuazione alle previsioni urbanistiche espressamente previste dall'Autorità comunale; l'esenzione dal contributo concessorio sussiste anche in presenza di opere classificabili di urbanizzazione e realizzate anche da privati, ma a condizione che ciò sia avvenuto in attuazione di quanto previsto dallo strumento urbanistico (Cons. Stato 12/05/2011 n. 2870).
Pertanto, il Comune per poter addivenire all’esonero dal contributo di costruzione deve verificare, secondo i parametri forniti dalla giurisprudenza, la sussistenza di entrambi i requisiti soggettivo ed oggettivo indicati dalla norma considerando sia le finalità di interesse generale perseguite con la realizzazione di una chiesa e delle eventuali pertinenze sia la natura degli enti esecutori delle predette opere (parrocchia o enti ecclesiastici)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 16.01.2012 n. 3).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

LAVORI PUBBLICI: Progetti, comanda uno solo. Illegittimo ogni ausilio esterno agli uffici tecnici. L'Autorità di vigilanza sui lavori pubblici boccia i consulenti alla progettazione.
È illegittimo affidare come supporti agli uffici tecnici delle stazioni appaltanti incarichi di ausilio alla progettazione; la responsabilità progettuale deve fare capo ad un unico centro decisionale; è ammissibile soltanto il supporto per il controllo e la vigilanza sulla progettazione.
È quanto afferma l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, con la deliberazione 01.08.2012 n. 80 (relatore Luciano Berarducci), resa nota in questi giorni, che solleva il problema della compatibilità di una prassi, piuttosto invalsa nelle stazioni appaltanti, di considerare «supporti» agli uffici tecnici quelli che in realtà sarebbero veri e propri appalti di servizi di ingegneria e architettura.
Questa prassi risulta strumentale alla definizione di un importo stimato dell'appalto ben inferiore a quello che risulterebbe in base alle tariffe (in attesa che a breve sia emanato il nuovo decreto del Ministero della giustizia, di concerto con il ministero delle infrastrutture); in questo caso però l'Autorità censura il comportamento della stazione appaltante esclusivamente sul punto della qualificazione delle attività, tralasciando l'aspetto economico della vicenda.
Il caso sul quale si è pronunciata l'Autorità di via di Ripetta presieduta da Sergio Santoro, riguardava un affidamento di «servizi di consulenza specialistica di supporto all'Ufficio Tecnico» di importo superiore a 220 mila euro affidati a fine 2011, sul quale si era già aperto un «precontenzioso» da parte di un concorrente che era stato escluso dalla gara. In particolare l'Autorità ha esaminato nel dettaglio le prestazioni oggetto, la descrizione dell'oggetto dell'affidamento («servizi di consulenza specialistica per la redazione di un progetto definitivo delle opere civili e di distribuzione irrigua, con previsione della progettazione delle opere civili di compenso e opere elettromagnetiche») per giungere alla conclusione che «l'affidamento in questione richiede espressamente attività inquadrabili come servizi tecnici di progettazione».
Ciò premesso, l'Autorità afferma l'illegittimità del comportamento della stazione appaltante che, qualificando in tale modo le prestazioni, si è posta in violazione della determinazione 27.07.2010 n. 5 (Linee guida per l'affidamento dei servizi di Architettura e ingegneria). Le linee guida avevano infatti chiarito che nel nostro ordinamento non è prevista la «consulenza» di ausilio alla progettazione di opere pubbliche. La ragione di ciò risiede nel fatto, dice l'Autorità, che la responsabilità della progettazione deve potersi ricondurre ad un unico centro decisionale, ossia il progettista, e la responsabilità di quest'ultimo rimane impregiudicata quando è fatto divieto di avvalersi del subappalto.
Inoltre l'organismo di vigilanza precisa in maniera netta che la consulenza alla progettazione non appare riconducibile alle attività a supporto del responsabile unico del procedimento, essendo diversi i compiti di quest'ultimo. Infatti, si legge nella delibera, al responsabile unico del procedimento è affidata la responsabilità, la vigilanza e i compiti di coordinamento sull'intero ciclo dell'appalto (progettazione, affidamento, esecuzione), alla stregua di un vero e proprio project manager.
In sostanza per la legge il Rup dovrebbe occuparsi di assicurare che l'appalto sia condotto in modo unitario, in relazione ai tempi ed ai costi preventivati. Per quel che attiene alla specifica attività progettuale, il responsabile del procedimento è tenuto a redigere il documento preliminare alla progettazione e a coordinare le attività necessarie alla redazione del progetto preliminare definitivo ed esecutivo. In tale ottica l'unico ausilio che i soggetti esterni alla stazione appaltante (selezionati con procedure di evidenza pubblica) possono fornire riguarda il supporto inerente le attività di coordinamento e vigilanza sulla progettazione, «fermo rimanendo che la progettazione è compito di esclusiva competenza del progettista».
Pertanto, il bando di gara, qualificato come un affidamento di servizi di consulenza specialistica e avente ad oggetto anche servizi di progettazione, non è stato ritenuto conforme al dlgs 163/2006 (articolo ItaliaOggi del 25.09.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: Procedura aperta per la gestione di servizi al pubblico in un centro culturale.
Contratti della p.a. - Affidamento misto - Locazione immobile commerciale comunale - Illegittimità - Concessione di servizi aggiuntivi - Applicazione delle regole del Codice Appalti - Valore dell'Appalto - Forme di Pubblicità sulla GUCE.
La locazione di un immobile pubblico ad uso commerciale deve qualificarsi come un contratto di concessione, per cui per la scelta del contraente, la stazione appaltante deve rispettare le regole dell'evidenza pubblica contenute nel Codice degli appalti. Di conseguenza, anche l'importo del relativo affidamento deve essere calcolato sulla base del fatturato presunto previsto per la gestione e le relative forme di pubblicità devono essere conformi a quanto stabilito a livello comunitario.

Il caso
La deliberazione dell'Autorità di vigilanza trae origine da una procedura di aggiudicazione di un contratto di locazione di un immobile pubblico adibito a bar caffetteria nell'ambito di un Centro culturale Comunale, composto da un auditorium, una biblioteca e da altri siti culturali.
Il segnalante, oltre alla sussistenza di diverse criticità nella lex di gara rispetto alla durata dell'affidamento, alle modalità prescritte per il rilascio della cauzione, ai criteri di valutazione delle offerte, ha contestato in primis la tipologia contrattuale utilizzata dalla stazione appaltante. Infatti, il bando riguardava la scelta del conduttore di un immobile appartenente al patrimonio indisponibile dell'ente che, secondo il segnalante, invece, avrebbe dovuto essere assegnato in forza di provvedimento concessorio.
La stazione appaltante, al contrario, avendo ritenuto che nel caso in specie prevalesse la causa di locazione rispetto a quella di concessione di servizi, aveva ricondotto la fattispecie nell'ambito della legge n. 392 del 1978 "Disciplina delle locazioni degli immobili urbani", facendo riferimento, per la valutazione del relativo canone, ai valori reperiti presso l'Agenzia del Territorio. Tale diversa qualificazione del rapporto aveva inciso anche sul valore dell'affidamento, calcolato considerando il solo canone di locazione dovuto dal conduttore, e non i ricavi derivanti dalla gestione dell'esercizio commerciale. Ulteriore conseguenza derivante da una non corretta determinazione del valore dell'affidamento era stata, sempre secondo il segnalante, la mancata conformazione agli oneri di pubblicazione e a quelli di contribuzione nei riguardi della stessa Autorità.
La decisione
L'Autorità di vigilanza ha ritenuto che la fattispecie in questione fosse riconducibile a quella dei servizi aggiuntivi museali istituiti dall'art. 4 del d.l. n. 433 del 1992 (convertito in legge n. 4 del 1993, c.d. legge Ronchey). Si tratta di servizi di assistenza agli utenti dei siti culturali o museali, in servizi editoriali, nella vendita di riproduzioni di beni culturali, nella realizzazione di materiale informativo, beni librari archivistici, ma anche di servizi di caffetteria e ristorazione. L'Autorità ha altresì rammentato che l'art. 117 del codice dei beni culturali definisce tutte queste attività "servizi per il pubblico" e ne consente la gestione, oltre che in forma diretta, anche tramite concessione a terzi, scelti mediante procedure di evidenza pubblica. Quanto all'ambito di applicazione della disposizione, l'art. 117 citato si applica agli istituti e ai luoghi della cultura indicati all'articolo 101, ossia quelli che appartengono a soggetti pubblici e sono destinati alla pubblica fruizione ed espletano un servizio pubblico; nella definizione rientrano i musei, gli archivi, le aree e i parchi archeologici, i complessi monumentali, ma anche le biblioteche.
L'Autorità ha dunque concluso che, diversamente da quanto sostenuto dal Comune, la stipula del contratto di locazione in realtà celasse un vero e proprio contratto di concessione di un servizio bar caffetteria all'interno di complessi immobiliari destinati ad attività culturali. Nel caso in specie, pertanto, il servizio, e non la locazione, avrebbe dovuto assumere carattere preminente dal punto di vista economico e il relativo rapporto contrattuale avrebbe dovuto essere qualificato in termini di concessione ai sensi dell'art. 30 del Codice dei contratti.
L'Autorità ha poi chiarito che la stazione appaltante avrebbe dovuto calcolare il valore dell'affidamento nel rispetto delle regole di cui all'art. 29 del codice dei contratti, il quale impone di riferirsi al fatturato presunto derivante dalla gestione del servizio. Sul punto, l'Autorità infatti aveva già chiarito che il calcolo del valore stimato degli appalti pubblici e delle concessioni di lavori o servizi pubblici deve fondarsi "(....) sull'importo totale pagabile al netto dell'IVA, valutato dalle stazioni appaltanti. Questo calcolo deve tener conto dell'importo massimo stimato, ivi compresa qualsiasi forma di opzione o rinnovo del contratto". Per le concessioni, in particolare, nella nozione di "importo totale pagabile" deve essere ricompreso il flusso dei corrispettivi pagati dagli utenti per i servizi in concessione.
L'Autorità, infine, ha osservato come la mancata indicazione del valore stimato dell'affidamento probabilmente aveva reso più difficoltosa per le imprese interessate la formulazione di un offerta economica consapevole e che l'erronea indicazione del valore del contratto aveva determinato la mancata assicurazione di un adeguato livello di pubblicità, che per le concessioni di servizi di importo superiore alle soglie comunitarie, consiste nella pubblicazione del relativo avviso sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea (commento tratto da www.diritto24.ilsole24ore.com - deliberazione 01.08.2012 n. 75 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

LAVORI PUBBLICIAppalti integrati in libertà. Sì all'impresa che non attesta i requisiti dello staff. Il parere dell'Autorità di vigilanza in contraddizione con la normativa.
L'impresa di costruzioni può partecipare a una gara per appalto integrato (di progettazione e costruzione) senza documentare i requisiti progettuali del proprio staff tecnico.
È quanto afferma l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici nel parere 25.07.2012 n. 137, che sta per essere reso noto e di cui ItaliaOggi può anticipare alcuni contenuti, ma la pronuncia dell'Autorità legittima un principio palesemente contrario alla normativa vigente. Infatti sia il Codice, sia il regolamento attuativo impongono alle imprese attestate per progettazione e costruzione di documentare i requisiti progettuali (di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa), come peraltro la stessa Autorità aveva avuto modo di precisare nella determinazione 5/2010 sulle linee guida per i servizi di ingegneria e architettura.
La vicenda riguarda l'affidamento di un appalto integrato (di progettazione esecutiva e costruzione) per il quale il disciplinare di gara prevedeva due possibili modalità di partecipazione: la produzione dell'attestato Soa di «Qualificazione per prestazione di progettazione e costruzione», a comprova della disponibilità di un proprio staff tecnico, oppure il ricorso ad un raggruppamento (con) o all'individuazione (di) un soggetto tra quelli elencati all'articolo 90, comma 1, lettere d), e), f), g) e h) del dlgs n. 163/2006; ai soggetti incaricati della progettazione definitiva ed esecutiva si chiedeva di possedere e dichiarare, oltre alle qualifiche professionali, l'assenza di cause di esclusione e i requisiti di ordine generale, nonché l'iscrizione all'albo professionale.
I requisiti di carattere economico-finanziario e tecnico-organizzativi venivano quindi chiesti soltanto ai progettisti indicati e raggruppati e non all'impresa che aveva l'attestazione per progettazione e costruzione. Il parere dell'organismo di vigilanza ritiene legittimo, riferendosi alla sola lex specialis, il comportamento del raggruppamento di imprese che avevano dichiarato di essere in possesso della qualificazione Soa per la prestazione di progettazione e di costruzione e di partecipare alla progettazione con il proprio staff tecnico, non facendo alcun riferimento ai suoi componenti e ai requisiti di carattere generale e tecnico-finanziario in capo agli stessi.
Per l'Autorità era quindi tutto regolare perché «il bando di gara non imponeva ai concorrenti in possesso di idonea attestazione Soa per la progettazione e costruzione l'obbligo di attestare e documentare il possesso di ulteriori requisiti (con indicazione dei progettisti e certificazione delle pregresse esperienze professionali), ricadendo tale onere documentale solo sui partecipanti sprovvisti di idonea attestazione Soa». Il punto è però che la legge dice ben altro e che il parere dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici sembra non avere considerato che era proprio la lex specialis della gara a essere in violazione di legge.
In realtà si tratta di una doppia violazione, che l'Autorità non ha avuto modo di vedere: del Codice dei contratti e del regolamento attuativo. L'articolo 53, comma 3, del Codice (dlgs 163/2006) prevede che le stazioni appaltanti debbano chiedere (e le imprese documentarne il possesso) i requisiti progettuali in ogni caso, sia che si tratti di attestazione Soa per sola esecuzione, sia per attestazioni Soa di progettazione e costruzione. D'altro canto sarebbe chiaramente discriminatorio prevedere solo in un caso (associazione o indicazione di progettisti) determinate referenze e non chiederli ai progettisti dell'impresa che possiede uno staff che potrebbe anche non avere le referenze specifiche per progettare anche un'opera di rilevante importanza.
Appare curioso che, soprattutto in una fase di tale complessità normativa, tali considerazioni non siano state fatte dall'organismo di vigilanza che, viceversa, si è limitata a verificare la corrispondenza fra gli atti di gara (illegittimi) e il comportamento del concorrente (peraltro in quest'ottica corretto) (articolo ItaliaOggi del 26.09.2012 - tratto da www.corteconti.it).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Prestazioni professionali svolte nei confronti delle pubbliche amministrazioni da parte di titolari di partita I.V.A. - regime introdotto dalla l. n. 92 del 2012 (nota 25.09.2012 n. 38226 di prot.).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSpending review. Patroni Griffi illustra le regole. Conto alla rovescia per i tagli nella Pa.
SINDACATI DIVISI/ Sciopero confermato per venerdì prossimo da Cgil, Uil-Fpl, Uil-Pa e Confsal Contrari Cisl-Fp e Ugl.

È scattato il conto alla rovescia per l'attuazione dei tagli previsti dalla spending review nelle pubbliche amministrazioni.
Con l'adozione della direttiva 24.09.2012 n. 10/2012 ieri da parte del ministero della Pa vengono indicati alle amministrazioni centrali gli adempimenti e i tempi di attuazione del piano di riduzione delle dotazioni organiche dei dirigenti (-20%) e del personale non dirigenziale (-10%).
Le amministrazioni dovranno rivedere gli assetti organizzativi razionalizzando le strutture ed eliminando le sovrapposizioni e le duplicazioni di competenze, per individuare le eccedenze di personale. Per il ministero l'operazione «si presenta complessa», la finalità è quella di «realizzare una revisione razionale della spesa dell'apparato amministrativo con tagli mirati e non lineari», ricorrendo «al metodo della compensazione» tra le amministrazioni.
La gestione dei processi di rideterminazione della dotazione organica è stata accentrata presso il Dipartimento della Funzione pubblica che lavorerà con il ministero dell'Economia e con le amministrazioni interessate. Il primo step è l'invio delle proposte di riduzione al Dipartimento, che dovrà avvenire entro due scadenze: il 28 settembre (enti pubblici e agenzie) e il 4 ottobre (amministrazioni dello Stato). Saranno oggetto di un'istruttoria da parte del Dipartimento che formulerà una nuova proposta da adottare con Dpcm entro ottobre.
Con il passaggio successivo, entro il 31 dicembre, le amministrazioni dovranno quantificare e comunicare al Dipartimento il dato del personale in soprannumero, e predisporre piani per le cessazioni del personale in servizio fino al 2014. Sono fissate ulteriori scadenze per avviare i processi di mobilità guidata (31.03.2013), per la sottoscrizione di contratti di solidarietà (31.05.2013), per la dichiarazione di esubero del personale rimasto in soprannumero (30.06.2013) e per il monitoraggio dei posti vacanti presso le amministrazioni (30 settembre).
La direttiva è stata illustrata ai sindacati, convocati ieri pomeriggio a palazzo Vidoni dal ministro Patroni Griffi. Il sindacato è diviso: da un lato Fp-Cgil, Uil-Fpl e Uil-Pa e Confsal confermano lo sciopero di venerdì 28 settembre dei dipendenti pubblici, giudicando «insensata» la convocazione.
«I temi dell'incontro sono quelli dell'accordo di maggio mai messo in pratica –affermano –. Dover ridiscuterli dopo aver raggiunto una sintesi poi fatta a pezzi dalla spending review ci sembra paradossale». Dall'altro Cisl-Fp e Ugl, contrarie allo sciopero. «Abbiamo ottenuto l'impegno a gestire insieme la spending review –commenta Giovanni Faverin (Cisl-Fp)– e all'invio di due atti di indirizzo all'Aran, sulla flessibilità in entrata e sulle relazioni sindacali nel pubblico impiego, che servirà anche per aprire la trattativa sulle risorse aggiuntive da destinare alla contrattazione integrativa» (articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODirettiva della funzione pubblica sulla spending review. Per le agenzie ricognizione entro venerdì. P.a., i tagli in tempi strettissimi. Rilevazione e classificazione del personale entro il 4/10.
Spending review, tempi strettissimi per la riduzione degli organici dello stato. E una direttiva per evitare nuovi casi di sperpero di denaro pubblico, stile Lazio.
Ieri il ministro della funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, ha ufficializzato a ministeri, agenzie ed enti pubblici, fuori dal parametro d'azione restano le regioni e le autonomie locali, i tempi e le modalità per rilevare il personale, classificarlo, rivedere i relativi servizi e realizzare così i tagli previsti dal decreto legge n. 95/2012, ovvero la prima spending review del governo Monti: - 20% di dirigenti, -10% di impiegati.
Per completare la rilevazione, e inviare i moduli a Palazzo Vidoni, i ministeri hanno tempo fino al 4 ottobre. Per agenzie ed enti pubblici, i tempi scadono addirittura venerdì. Ma non è finita: perché, su sollecitazione dei sindacati, Patroni Griffi si è impegnato a emanare a breve una direttiva sulla trasparenza: nuovi criteri sulla compilazione dei bilanci di tutti i soggetti pubblici e sulla gestione dell'organizzazione del personale, che consentano di scoprire le magagne su finanziamenti ad personam e su assunzioni di favore.
La mala gestione, insomma, che le inchieste giudiziarie stanno portando alla luce in questi mesi, dal caso Penati in Lombardia al caso Fiorito nel Lazio. Già, perché è vero che i bilanci sono pubblici, è il ragionamento, ma sono scritti in maniera tale da rendere difficile il controllo anche da parte dell'occhiuta Corte dei conti.
Sul fronte degli impegni assunti ieri dal ministro verso i sindacati, nel corso di un vertice sul pubblico impiego, a breve dovrebbe essere dato mandato all'Aran di rivedere al tavolo negoziale la materia delle relazioni sindacali e di disciplinare l'armonizzazione tra pubblico e privato, dopo la riforma Fornero, in materia di contratti a tempo determinato. Confermano lo sciopero Cgil, Uil e Confsal, mentre le Cisl prosegue nella linea del dialogo.
Spending review ed eccezioni. L'Inps è l'ente pubblico a livello centrale nel quale il taglio agli organici mieterà più vittime: secondo dati ancora non ufficiali, sarebbero 4.200 gli esuberi dell'istituto di previdenza, altri 1.300 all'Inail. Ci sono però amministrazioni che hanno vacanze di organico: il caso del ministero dell'istruzione, dove si registrano oltre 1.200 vacanze, ma anche del ministero dell'economia, dove mancano all'appello 570 dipendenti.
Complessivamente il taglio sulle amministrazioni ministeriali, secondo una stima ufficiosa, dovrebbe produrre un esubero di 1.800 unità. Il ministero ha predisposto i modelli in cui schedare il personale in servizio. Obiettivo: fare le riduzioni previste dalla legge entro fine ottobre. A farlo, in base alle proposte delle singole amministrazioni, sarà la Funzione pubblica, con un dpcm, che dovrà indicare anche le compensazioni tra chi ha più esuberi e chi ha vacanze di organico.
Le riduzioni dei posti dirigenziali del 20% dovrà essere fatta sia per i livelli generali che di seconda fascia. Le riduzioni, si legge nella direttiva 24.09.2012 n. 10/2012, rappresentano però «il valore minimo che viene richiesto alla platea dei destinatari, sarebbe apprezzabile l'eventuale sforzo da parte delle amministrazioni di operare, al di là di eventuali compensazioni da applicare nella prevista sede, riduzioni maggiori che siano il risultato di un effettivo ridisegno dell'organizzazione operato in relazione a un fabbisogno essenziale».
Sono esclusi dai tagli scuola e università, ma anche il comparto sicurezza, e poi ministero dell'economia, agenzie fiscali e Presidenza del consiglio dei ministri che hanno già operato i tagli previsti. Tempi più lunghi invece per gli Interni e gli Esteri. Insomma, il campo di azioni si è notevolmente ridotto. Per Palazzo Chigi resta in vigore la tagliola decisa con il dl 95 su tutti gli incarichi dirigenziali assegnati al personale esterno, privati o di altra amministrazione, che decadranno allo scoccare del primo novembre ope legis.
Nuove direttive. Per superare le contrarietà dei sindacati, il ministro si è impegnato a un esame congiunto per gestire la spending review sulle compensazioni e sulla mobilità del personale che andrà in esubero verso altri comparti, ma anche sulla formazione necessaria e essere ricollocati.
Annunciati anche due atti di indirizzo all'Aran per altrettanti contratti quadro: uno sulla flessibilità in entrata, ovvero sull'armonizzazione del pubblico impiego con la riforma Fornero sulla durata dei contratti a tempo determinato. Già oggi, molte amministrazioni non riescono a rinnovare i contratti che sforano i 36 mesi e, con il blocco delle assunzioni a tempo indeterminato, si tratta di risorse imperdibili. «Non ci saranno miracoli sul precariato», puntualizza però il ministro mettendo le mani avanti contro eventuali richieste di stabilizzazioni, «non possiamo permettercelo».
Un altro atto di indirizzo riguarderà le relazioni sindacali nel pubblico impiego, da riformare in anticipo rispetto al prossimo rinnovo del contratto. Che, con i chiari di luna che ci sono, rischia di non esserci prima di un triennio. Contro la corruzione nel pubblico impiego, è stata sollecitata una direttiva che renda effettivamente chiari bilanci e organizzazione.
Scioperi e attese. «Lo sciopero è assolutamente confermato», afferma Marco Paolo Nigi, segretario Snals-Confsal. E spiega Michele Gentile, responsabile settori pubblici della Cgil: «Le proposte presentate dal ministro non toccano nessuna delle ragioni dello sciopero, non si interviene riorganizzando ma tagliando le dotazioni organiche. Al di là delle soluzioni, si tagliano i posti disponibili». Per Alberto Civica, Uil università, si tratta dell'unico modo «per mostrare il nostro dissenso».
Contraria allo sciopero la Cisl. «Abbiamo chiesto che il ministro assumesse degli impegni concreti nei confronti dei lavoratori e del sindacato», spiega il segretario generale della Cisl Fp, Giovanni Faverin, «la risposta è stata positiva» (articolo ItaliaOggi del 26.09.2012 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Congedo ex art. 42, comma 5 e ss., del d.lgs. n. 151 del 2001 - personale in regime di part-time verticale (nota 12.09.2012 n. 36667 di prot.).
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Congedo straordinario riproporzionato se il lavoratore è part-time. Va calcolato sulla base delle giornate lavorate

La Funzione Pubblica chiarisce che, in caso di personale in regime di part-time verticale, la durata del congedo straordinario biennale ex art. 42, commi 5 e segg., D.Lgs. n. 151/2001, va riproporzionata in osservanza della regola generale per cui il calcolo va effettuato sulla base delle giornate lavorative del dipendente.
Il Dipartimento della Funzione Pubblica, si è espresso in merito all’applicazione dell'art. 42, comma 5 e ss., D.Lgs. n. 151/2001 (congedo straordinario biennale), al personale dipendente con rapporto di lavoro di part-time verticale.
Il CCNL comparto ministeri del 16.05.2001, integrativo del CCNL del 16.02.1999, all'art. 23 ha disciplinando la fruizione dei congedi e permessi per il personale a tempo parziale ha stabilito che al personale con rapporto di lavoro a tempo parziale si applicano gli istituti normativi previsti dal medesimo contratto, in quanto compatibili, spettanti al personale con rapporto di lavoro a tempo pieno, tenendo conto della ridotta durata della prestazione.
Il comma 11 del citato art. 23 stabilisce che le ferie, le festività soppresse e le altre assenze previste dalla legge e dal contratto nel caso di part-time verticale spettano in numero proporzionato alle giornate di lavoro prestate nel corso dell’anno, individuando specifiche deroghe.
Tra queste deroghe non è menzionato il congedo di cui all'art. 42, commi 5 ss., D.Lgs. n. 151/2001 e, pertanto, per la Funzione Pubblica, in caso di part-time verticale la sua durata deve essere riproporzionata in osservanza della regola generale per cui il calcolo andrà effettuato sulla base delle giornate lavorative del dipendente per tutto il periodo in cui il lavoratore presti la propria opera in regime di part-time. Qualora il dipendente torni a lavorare a tempo pieno, il periodo di congedo già fruito andrà poi riproporzionato (rapportandolo alla situazione di rapporto di lavoro a tempo pieno) e detratto dal complessivo periodo biennale per conoscere il periodo di congedo residuo, ancora fruibile dallo stesso.
Per quanto riguarda la rilevanza dei periodi non lavorativi (ossia dei periodi durante i quali, in virtù dell'articolazione del part-time verticale la prestazione non deve essere resa), considerato che in generale i congedi possono essere fruiti in corrispondenza dei periodi in cui è dovuta la prestazione, il conteggio dovrebbe comprendere solo i mesi o le giornate coincidenti con quelli lavorativi.
Le festività, le domeniche e le giornate del sabato (nel caso di articolazione dell'orario su 5 giorni alla settimana) ricadenti nel periodo non lavorativo dovrebbero essere escluse dal conteggio, con eccezione di quelle immediatamente antecedenti e seguenti il periodo se al termine del periodo stesso non si verifica la ripresa del servizio ovvero se il dipendente ha chiesto la fruizione del congedo in maniera continuativa
(commento tratto da www.ispoa.it).

PUBBLICO IMPIEGOCongedi per assistere disabili in rapporto ai giorni lavorati.
Per i lavoratori in part-time verticale, la durata del congedo straordinario per assistenza a persone con disabilità grave, ex art. 42, comma 5 del dlgs n. 151/2001, va conteggiata in misura proporzionata alle giornate di lavoro prestate nell'anno, specificando che tale modalità applicativa continua a verificarsi sin quando perdura la situazione che l'ha originata, ovvero sino a quando il dipendente fruisce del part-time verticale.

Lo ha precisato il dipartimento della Funzione pubblica, nel testo della nota 12.09.2012 n. 36667 di prot., resa nota ieri.
In risposta a una richiesta dell'Agenzia del territorio, la Funzione pubblica ha rilevato che il Ccnl 16.05.2001 del Comparto ministeri, che si applica anche alle agenzie fiscali, ha disciplinato la fruizione di congedi e permessi per il personale in regime di lavoro parziale.
In linea generale, a tale personale si applicano tutti gli istituti previsti per il personale in rapporto di lavoro a tempo pieno, ma tenendo conto della ridotta durata della prestazione. In particolare, ferie, festività soppresse e altre assenze spettano a chi è in part-time in misura proporzionale alle giornate lavorative, tranne alcune deroghe.
In tali deroghe, ha rilevato la nota di Palazzo Vidoni, non è menzionato l'articolo 42, comma 5, del dlgs n. 151/2001, con la conseguenza che in caso di part-time verticale, la sua durata deve essere riproporzionata nella misura sopra descritta. Con la precisazione che tale modalità applicativa deve essere mantenuta sino a quando «perdura la situazione che l'ha originata» ovvero, sino a quando il dipendente continua a lavorare a tempo parziale.
Il calcolo, poi, del congedo, ha precisato la nota in esame, andrà effettuato sulla base delle giornate lavorative del dipendente per tutto il periodo in cui il lavoratore mantiene il regime a tempo parziale. Qualora il dipendente dovesse optare per il ritorno alla prestazione lavorativa a tempo pieno, la nota chiarisce che il periodo di congedo già fruito andrà nuovamente «riproporzionato» con le giornate lavorative a tempo pieno e così detratto dal complessivo periodo biennale per conoscere quanto ancora spetta al lavoratore a tale titolo (articolo ItaliaOggi del 27.09.2012).

NEWS

INCARICHI PROFESSIONALI - PROGETTUALIIntegrativo 4% anche con le p.a.. La risposta del Lavoro ai professionisti.
Anche le pubbliche amministrazioni sono tenute a pagare al professionista il contributo integrativo al 4% e non al 2%.
Questo il senso della risposta fornita dal viceministro al Lavoro Michel Martone a un'interrogazione proposta alla camera dal deputato Antonino lo Presti. Un'apertura di credito nel senso dalla possibilità di applicazione a pieno titolo anche nel caso delle pubbliche amministrazioni, che coinvolge e interessa tutti i liberi professionisti iscritti alle Casse di nuova generazione finora penalizzati da un'interpretazione in senso contrario del ministero dell'economia.
La legge «Lo Presti», dal luglio 2011, ha fornito la possibilità ai liberi professionisti di aumentare la loro pensione attraverso l'utilizzo di una parte del contributo integrativo riconosciuto in fattura dal cliente al momento di liquidare una prestazione professionale. Ma a una condizione: che il contributo fosse debitamente aumentato dal 2 al 4%. Questo principio, però, era stato circoscritto dal ministero dell'economia che metteva al riparo le pubbliche amministrazioni dal riconoscere la possibilità di applicare il 4% al posto del 2, coinvolgendo i professionisti iscritti alle Casse del 103: biologi, infermieri, psicologi, periti industriali e le quattro professioni legate alla Cassa pluricategoriale (attuari, chimici, dottori agronomi e forestali, geologi).
Insomma, il ministero dell'economia introduceva il principio del doppio binario: quando lavori per un privato, il contributo integrativo si applica al 4%, quando lavori per il pubblico, quel contributo resta fermo al 2%. In questo caso, per i liberi professionisti avrebbe significato niente possibilità di mettere da parte più denari per la futura pensione.
Il viceministro Martone, però, ha aperto a una revisione dell'interpretazione, rispondendo all'interrogazione parlamentare presentata dallo stesso onorevole Lo Presti (seduta 20.09.2012 n. 689). Martone ha riconosciuto che sono intervenuti due fattori che meritano un ripensamento della lettura limitativa della legge 133/2011: anzitutto sono stati aboliti i minimi tariffari e, in secondo luogo, è palese come sia incostituzionale discriminare alcune categorie professionali rispetto ad altre, spesso coinvolte in lavori sostanzialmente simili (articolo ItaliaOggi del 28.09.2012 - tratto da www.corteconti.it).

CONDOMINIOAmministratori, revoca più facile. Basta una sola firma. Arrivano il registro e l'assicurazione. Ok della Camera al ddl, ora l'ultimo sì del Senato. Animali in libertà.
L'amministratore del condominio dovrà avere una polizza di responsabilità civile e basterà la firma anche di un solo condomino per chiederne la revoca. L'amministratore dovrà inoltre iscriversi al registro gestito dall'Agenzia del territorio e seguire corsi di formazione. Nessun divieto a chi vuole tenere cani o gatti. Possibilità per il condominio di aprire un sito Internet dove scambiarsi rendiconti e delibere, e per il condomino di distaccarsi dal riscaldamento centralizzato, anche se dovrà continuare a pagare le spese di manutenzione straordinaria dell'impianto. Chi acquista è responsabile delle spese condominiali non pagate alla data del subentro senza limiti.
Sono queste alcune delle novità del ddl C-4041 di riforma del condominio, approvato ieri dalla Camera in seconda lettura e che adesso passa al Senato per il sì definitivo.
Riscaldamento. Riprendendo un orientamento della cassazione, da un lato si consente al singolo condomino di staccarsi dall'impianto di riscaldamento centralizzato: il presupposto è che abbia riscontrato un malfunzionamento per un anno e sempre che li disservizio sia da imputare all'impianto condominiale; dall'altro lato il singolo condomino dovrà continuare a partecipare alle spese straordinario dell'impianto comune.
Animali da compagnia. Il regolamento condominiale non può porre limiti alle destinazioni d'uso delle unità di proprietà esclusiva e non può vietare di possedere o detenere animali da compagnia.
Videosorveglianza. Il garante della privacy più volte ha sollevato il problema della mancanza di una disposizione specifica sulla maggioranza relativa all'installazione di impianti di videosorveglianza sulle parti comuni. La riforma specifica che basta la maggioranza (articolo 1136, secondo comma, codice civile) e non ci vuole l'unanimità.
Maggioranze. Viene riscritto articolo 1136 del codice civile. In prima convocazione per l'approvazione di una delibera ci vuole il quorum di 2/3 del valore e maggioranza per teste, e voto favorevole della maggioranza degli intervenuti e almeno metà del valore dell'edificio. In seconda convocazione basta, invece, la maggioranza degli intervenuti con un numero di voti che rappresenti almeno un terzo del valore dell'edificio.
Amministratore dimezzato. L'amministratore non potrà accedere nei singoli alloggi per verificare se sono stati fatti lavoro che mettono in pericolo la sicurezza degli edifici. La prerogativa prevista nel testo originario è stata annullata durante l'iter parlamentare.
Polizza dell'amministratore. L'amministratore deve prestare una polizza di responsabilità civile; anche se il premio è caricato sul bilancio condominiale.
Revoca dell'amministratore. Basta la firma di un solo condomino per chiedere la convocazione dell'assemblea per revocare l'amministratore infedele.
Subentro nell'alloggio. Chi acquista un alloggio diventa responsabile di tutte le spese condominiali non pagate alla data del subentro senza limiti di tempo. Occorre, quindi, che la situazione venga messa in chiaro per evitare un decreto ingiuntivo del condominio. Sempre in materia di spese si segnala che il nudo proprietario e l'usufruttuario diventano responsabili in solido per il pagamento dei contributi dovuti all'amministrazione condominiali.
Assemblee. La riforma stabilisce il divieto di tenerle nei giorni di feste religiose.
Millesimi. La possibilità di rettifica a maggioranza dei millesimi sbagliati riguarda tutti i casi di errore e non solo quello (unico originariamente previsto) di errore di calcolo materiale.
Repertorio dei condomini. Viene istituito presso l'agenzia del territorio il repertorio dei condomini. Saranno annotate le deliberazioni delle assemblee, i bilanci, le modifiche di destinazioni di uso, contratti, le ordinanze e sentenze riguardanti il condominio.
Registro degli amministratori. Sempre presso l'Agenzia del territorio (e non preso le camere di commercio) è istituito il registro degli amministratori, in cui possono iscriversi anche le società. Potranno iscriversi da subito coloro che hanno un triennio di attività; poi è richiesta la frequenza a un corso di formazione.
Sito web. Il condominio potrà aprirsi un sito internet on la maggioranza dell'articolo 1136 codice civile: servirà a scambiare rendiconti e delibere.
Conciliazione. Per le mediazioni, precedenti una causa, si deve andare ad un organismo di conciliazione nella circoscrizione del tribunale in cui ha sede il condominio (articolo ItaliaOggi del 28.09.2012).

APPALTIAppalti incagliati sull'asseverazione.
Il giallo su come e chi deve redigere il documento di asseverazione obbligatorio per liquidare le fatture negli appalti di lavori, forniture e servizi, sta di fatto bloccando i pagamenti tra la p.a. e le imprese e tra appaltatore e subappaltatore.
La nuova difficoltà è stata segnalata ieri dall'associazione nazionale dei costruttori edili (Ance) che ha chiesto al governo di sospendere la norma entrata in vigore ad agosto con il decreto Sviluppo fino a quando non saranno chiarite le specifiche attuative.
Il documento di asseverazione è previsto dall'articolo 13-ter: stabilisce la responsabilità solidale fiscale dell'appaltatore con il suo subappaltatore e il suo committente e certifica che il subappaltatore è in regola con l'erario sulle ritenute fiscali sui dipendenti e il pagamento dell'Iva relativa all'appalto. Diversamente, in mancanza del documento di asseverazione, scatta il meccanismo della responsabilità fiscale e delle sanzioni.
Il risultato, ha denunciato ieri l'Ance, è che la poca chiarezza sui contenuti del documento e su chi è autorizzato a redigerlo, di fatto sta portando al blocco dei pagamenti per mancanza dell'asseverazione (articolo ItaliaOggi del 28.09.2012).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATASEMPLIFICAZIONI/ Il silenzio rifiuto finisce in soffitta. Provvedimento espresso sulle costruzioni in caso di vincoli. Le disposizioni della bozza di decreto in materia di contratti pubblici.
Ammesse alle gare di appalto le imprese che hanno sottoscritto un contratto di rete, ma con le regole dei raggruppamenti temporanei e dei consorzi; agevolato lo svincolo delle garanzie di buona esecuzione rese dalla imprese di costruzioni, anche per le opere in esercizio non ancora collaudate; eliminato il silenzio rifiuto sul permesso di costruire in caso di vincoli; più agevole la qualificazione delle imprese che operano nel settore impiantistico.
Sono queste alcune delle novità previste nella bozza di decreto legge sulla semplificazione che dovrebbe andare oggi in Consiglio dei ministri.
Diverse le modifiche apportate al Codice dei contratti pubblici, in primis per quel che riguarda la qualificazione delle imprese di costruzioni operanti nell'ambito della categoria OG11 (impianti tecnologici), la bozza di decreto legge prevede (anche se sono possibili ancora riformulazioni da parte del ministero delle infrastrutture) che siano modificate le percentuali previste dal regolamento del Codice dei contratti pubblici di possesso di requisiti speciali previsti per tre categorie specialistiche (OS3, impianti idrici, OS28, impianti termici e OS30, impianti elettrici e telefonici). In particolare le percentuali passano dal 40% al 20% per la OS3, dal 70% al 40% per la OS28 e per la OS30.
Un'ulteriore novità è rappresentata dall'inserimento fra i partecipanti alle gare di appalto possano esservi anche le aggregazioni tra imprese aderenti al contratto di rete ai sensi del comma 4-ter, dell'articolo 3, del decreto legge 10.02.2009, n. 5. Si tratta di imprese appartenenti a un network ma che mantengono la propria individualità regolando i rapporti giuridici derivanti da una collaborazione stabile basata su obiettivi strategici. Il decreto prevede che alle aggregazioni tra imprese aderenti al contratto di rete si applichino le disposizioni dell'articolo 37 del Codice dei contratti pubblici, che a sua volta detta le regole per la costituzione e il funzionamento dei raggruppamenti temporanei di imprese e dei consorzi ordinari di concorrenti. Ciò dovrebbe significa che le imprese che abbiano sottoscritto il contratto di rete dovranno configurare la propria «aggregazione» secondo le regole proprie di queste due tipologie di soggetti raggruppati.
Va anche rilevato, però, che il decreto prevede comunque che qualche problema di adeguamento e coordinamento vi possa essere, dal momento che si premura di precisare che le disposizioni dell'articolo 37 trovano applicazione alla partecipazione alle procedure di affidamento delle aggregazioni tra le imprese aderenti al contratto di rete, «in quanto compatibili». Con ulteriori modifiche al Codice dei contratti pubblici vengono anche modificate le percentuali per lo svincolo delle garanzie di buona esecuzione (la cauzione definitiva) La norma toccata è l'articolo 113 del Codice dei contratti che stabilisce che la cauzione prestata sia progressivamente svincolata, a misura dell'avanzamento dell'esecuzione, nel limite massimo del 75 per cento dell'iniziale importo garantito.
Il decreto alza del 5% questa percentuale, arrivando fino all'80%, consentendo quindi alle imprese di avere un livello minore di impegni. Si introduce poi una norma sulle opere in esercizio stabilendo che, anche prima del collaudo, l'esercizio protratto per oltre un anno produca, a determinate condizioni, lo svincolo automatico delle garanzie di buona esecuzione prestate a favore dell'ente aggiudicatore, senza necessità di alcun benestare, ferma restando una quota massima del 20% da svincolare all'emissione del certificato di collaudo.
Viene poi modificata la norma del codice dei beni culturali che disciplina l'autorizzazione paesaggistica su immobili e aree vincolate rilasciata dalla regione, dopo avere acquisito il parere vincolante del soprintendente eliminando il silenzio assenso decorsi 90 giorni. Si prevede inoltre che l'autorizzazione paesaggistica sia resa nel rispetto delle previsioni e delle prescrizioni del piano paesaggistico, entro il termine di quarantacinque giorni dalla ricezione degli atti, decorsi i quali l'amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione.
Una seconda modifica viene introdotta al comma 9 dello stesso articolo 146, ove si prevede che decorsi inutilmente venti giorni senza che il soprintendente abbia reso il prescritto parere, è direttamente l'amministrazione a provvedere sulla domanda di autorizzazione. Viene quindi eliminata la parte della precedente disposizione che prevedeva la facoltà di richiedere l'autorizzazione alla regione anche attraverso un commissario ad acta.
Viene anche prevista l'eliminazione del silenzio rifiuto sul permesso di costruire in caso di vincoli prevedendosi che il procedimento sia comunque concluso con l'adozione di un provvedimento espresso, seguendo le regole previste dall'articolo 2 della legge sul procedimento amministrativo. Importante notare che viene soppressa la norma che consentiva di applicare le regole del procedimento per il rilascio del permesso di costruire anche ad interventi in deroga agli strumenti urbanistici, a seguito dell'approvazione della deliberazione del Consiglio comunale (articolo ItaliaOggi del 28.09.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Surroga solo ai consiglieri. L'istituto non si estende al sindaco sospeso. L'articolo 45 del decreto 267/2000 non si applica al primo cittadino.
L'istituto della surroga provvisoria del consigliere comunale, disciplinato dall'art. 45 del dlgs n. 267/2000, è applicabile anche all' ipotesi della sospensione del Sindaco disposta ai sensi dell' art. 59 del dlgs citato?
L'art. 45 del dlgs n. 267/2000, al comma 2, dispone che «nel caso di sospensione di un consigliere ai sensi dell'art. 59, il consiglio (_) procede alla temporanea sostituzione affidando la supplenza per l'esercizio delle funzioni di consigliere al candidato della stessa lista che ha riportato, dopo gli eletti, il maggior numero di voti».
Tuttavia, la fattispecie in questione, relativa alla sospensione del Sindaco, non ricade nell'ambito applicativo dell'art. 45, ma in quello dell'art. 53, il quale, inequivocabilmente, prevede che il vicesindaco sostituisce il sindaco «in caso di assenza o impedimento temporaneo, nonché nel caso di sospensione dall'esercizio della funzione ai sensi dell'art. 59»
Pertanto, la disciplina dell'art. 45, che si riferisce unicamente ai consiglieri comunali, non può trovare applicazione in caso di sospensione dall'esercizio delle funzioni del sindaco, il quale è sicuramente componente del consiglio comunale, ma non consigliere comunale (articolo ItaliaOggi del 28.09.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consigliere decaduto.
Quesito: Può considerarsi decaduto un consigliere comunale per mancata partecipazione alle sedute del consiglio? È applicabile la disciplina statutaria -ai sensi della quale sono dichiarati decaduti i consiglieri che, senza giustificato motivo, siano assenti dal consiglio per tre sedute consecutive- in caso di autosospensione, da parte di consiglieri comunali di minoranza, effettuata allo scopo di evidenziare il proprio dissenso?
L'istituto della decadenza per mancata partecipazione alle sedute è previsto dall'art. 43, comma 4, del dlgs n. 267/2000 che demanda allo statuto comunale la relativa disciplina, «garantendo il diritto del consigliere a far valere le cause giustificative».
La giurisprudenza ha chiarito che la decadenza dalla carica di consigliere appartiene alla categoria di quelle limitazioni all'esercizio di un diritto al munus publicum che devono essere interpretate restrittivamente.
Di conseguenza la decadenza non può riguardare il deliberato astensionismo di un gruppo politico che rientra nel novero delle facoltà ordinariamente a disposizione delle forze di opposizione, ma piuttosto sanziona comportamenti negligenti dei consiglieri dai quali possano derivare disagi all'attività dell'organo la cui valutazione, meramente discrezionale e di esclusiva competenza del solo consiglio comunale , costituisce il fondamento giuridico del provvedimento.
Il Tar Lombardia, Brescia sez. II, con la sentenza del 28.04.2011 n. 638, nell'accogliere un ricorso avverso una deliberazione di decadenza di un consigliere per mancata partecipazione alle sedute del consiglio, ha ribadito che l'astensionismo ingiustificato di un consigliere comunale costituisce legittima causa di decadenza sul presupposto del disinteresse e della negligenza che l'amministratore mostra nell'adempiere il proprio mandato e che rientra nel diritto del consigliere comunale l'impiego di tutti gli strumenti giuridici offerti dall'ordinamento per opporsi a decisioni non condivise (quali, ad esempio, l'espressione di voto contrario, l'astensione dal voto o l'omessa partecipazione alla seduta anche al fine di impedire il formarsi del quorum strutturale).
Pertanto, tali principi giurisprudenziali dovrebbero costituire paradigma di riferimento di un'eventuale deliberazione del consiglio del comune ai sensi del proprio statuto comunale, pur rientrando nella discrezionalità del suddetto organo assembleare la valutazione in ordine alla sussistenza dei presupposti previsti dalla citata fonte normativa.
Si soggiunge che l'art. 43 del dlgs n. 267/2000 demanda allo statuto dell'ente di stabilire i casi di decadenza per mancata partecipazione alle sedute, fermo restando il diritto del consigliere a far valere le cause giustificative delle assenze nonché fornire eventuali documenti probatori (ex multis Tar Sicilia sent. 14.03.2011, n. 464) (articolo ItaliaOggi del 28.09.2012).

APPALTIAdempimenti. Sono in vigore dal 12 agosto le disposizioni che disciplinano il meccanismo di solidarietà che coinvolge anche il subappaltatore.
Appalti, timbro taglia-responsabilità. L'attestato del professionista sblocca i pagamenti dei committenti ma la strada è in salita.
Scatta la responsabilità solidale dell'appaltatore con il subappaltatore e il rischio di una pesante sanzione per il committente in caso di omesso versamento dell'Iva e delle ritenute fiscali. Con la conversione in legge del Dl 83/2012 è stato nuovamente modificato il testo dell'articolo 28, comma 35, del Dl 223/2006, già oggetto di un primo intervento (articolo 2, comma 5-bis, del Dl 16/2012). Le novità attuali sono state introdotte dall'articolo 13-ter del Dl 83/2012.
L'appaltatore
Viene prevista la sua responsabilità solidale con il subappaltatore con riferimento «al versamento all'erario delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente e del versamento dell'imposta sul valore aggiunto dovuta dal subappaltatore all'erario in relazione alle prestazioni effettuate nell'ambito del rapporto di subappalto». Questa responsabilità è limitata all'ammontare del corrispettivo dovuto e, contrariamente alla precedente versione della disposizione, non ha più il limite temporale dei due anni dalla cessazione dell'appalto.
La possibilità dell'appaltatore di liberarsi dalla responsabilità non è più legata a una generica (e, come tale, pericolosamente indefinita) dimostrazione «di aver messo in atto tutte le cautele possibili per evitare l'inadempimento», quanto all'aver ottenuto, anteriormente al pagamento del corrispettivo, la documentazione attestante che i versamenti di ritenute e Iva scaduti sono stati correttamente eseguiti.
Tale documentazione "può" (non "deve") consistere nell'asseverazione rilasciata da uno dei soggetti abilitati previsti dalla norma (commercialisti, consulenti del lavoro, responsabili Caf, eccetera). Nell'attesa della documentazione, l'appaltatore può sospendere il pagamento delle prestazioni. In caso di pagamento senza verifica scatta la responsabilità solidale verso l'erario.
Il committente
Analoga solidarietà è prevista a carico del committente se paga l'appaltatore senza aver prima preteso l'esibizione della stessa documentazione (relativa sia all'appaltatore che a tutti i subappaltatori), ma tale rischio non consiste nella responsabilità solidale con gli altri "attori" quanto nella sanzione amministrativa da 5.000 a 200.000 euro, che gli verrà comminata se qualche soggetto della "catena" dell'appalto non ha correttamente eseguito i versamenti di ritenute e Iva. Il legislatore precisa che queste regole si applicano agli appalti conclusi da soggetti Iva e, in ogni caso, dai soggetti degli articoli 73 e 74 Ires (società, enti commerciali e non, pubbliche amministrazioni, eccetera) con l'esclusione delle stazioni appaltanti dei contratti pubblici (decreto legislativo 163/2006).
Le conseguenze
Attualmente, in settori che già soffrono di liquidità (l'edilizia in particolare), il committente ha una valida ragione per ritardare i pagamenti in attesa che appaltatori e subappaltatori consegnino alla propria controparte la documentazione prescritta a discarico della responsabilità del destinatario della prestazione. Un professionista incontra difficoltà per rilasciare una asseverazione se non ha idea di quali verifiche è tenuto a effettuare per poter serenamente apporre il "visto" (check list o simili), di quali situazioni possono determinare un visto "infedelmente" rilasciato e quali sanzioni sono previste, senza dimenticare l'aspetto dell'eventuale "assicurabilità" di queste attestazioni.
Non mancano i dubbi applicativi: per esempio, come può il soggetto abilitato attestare che i lavoratori che hanno prestato la propria opera in quel determinato appalto sono proprio quelli per cui sono state versate le ritenute? Come regolarsi con il pagamento degli acconti che precedono l'inizio lavori? Come attestare il versamento dell'imposta sulle fatture relative all'appalto nell'ambito di una posizione che globalmente chiude a credito? È sufficiente attestare che la fattura ha regolarmente concorso alla liquidazione di periodo? E come regolarsi nei casi di reverse charge (senza Iva esposta in fattura) o di "Iva per cassa"?
Il vero problema è che prima si scrive la norma (che non avendo disposizioni transitorie, è già in vigore dal 12 agosto) e solo dopo si riflette sul suo funzionamento. Nel frattempo, i pagamenti delle prestazioni si bloccano (ora anche con una giustificazione "legale"), e chi (in ritardo nei versamenti fiscali) confidava in questi incassi e nel ravvedimento operoso per mettersi in pari, deve drammaticamente rivedere i propri conti.
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Compensi e previdenza. L'obbligazione tutela i lavoratori che eseguono l'opera o prestano il servizio. Un vincolo biennale per gli obblighi contributivi.
TEMPI STRETTI/ In questi casi c'è il termine di due anni dalla fine dell'appalto per la chiamata in causa.
La norma riformulata sulla solidarietà per ritenute e Iva negli appalti si affianca a quella che disciplina la responsabilità (altrettanto solidale) di committente, appaltatore e subappaltatori per retribuzioni, Tfr, contributi previdenziali e premi assicurativi dei lavoratori, già in essere da anni e recentemente modificata dalla "riforma Fornero" (articolo 4, comma 31, della legge 92/2012).
La disposizione in parola (che si affianca al più generale obbligo previsto dall'articolo 1676 del Codice civile) è l'articolo 29 del Dlgs 276/2003 e prevede che (fatta salva una diversa regolamentazione a livello di contratto nazionale), in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro (diverso dalla persona fisica che non esercita attività d'impresa o professionale) «è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell'inadempimento». La disposizione è stata oggetto della circolare Inps n. 106 del 10 agosto scorso.
Risultano alcune differenze con la norma che regola la responsabilità per Iva e ritenute:
- è previsto un limite temporale alla "chiamata in causa" del committente o dell'appaltatore (due anni da fine appalto);
- non è previsto un limite quantitativo al rischio, che invece l'articolo 35, comma 28, del Dl 223/2006 individua nell'ammontare del corrispettivo;
- non è prevista alcuna attestazione "liberatoria", anche se, almeno per i contributi, la disciplina in merito al rilascio del Durc è sicuramente meglio formulata rispetto a quella relativa all'Iva e alle ritenute;
- non viene attribuito alcun ruolo al pagamento della prestazione, che, invece, costituisce il momento qualificante per la responsabilità solidale sui versamenti fiscali;
- viene assimilata la posizione di committente e appaltatore, i quali, invece, nel sistema ora delineato dal Dl 83/2012, hanno un grado di rischio molto differente.
Per completezza, ricordiamo che l'articolo 4, comma 2, del Dl 207/2010 prevede che nelle ipotesi previste dal legislatore «in caso di ottenimento da parte del responsabile del procedimento del documento unico di regolarità contributiva che segnali un'inadempienza contributiva relativa a uno o più soggetti impiegati nell'esecuzione del contratto, il medesimo trattiene dal certificato di pagamento l'importo corrispondente all'inadempienza» (articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOStatali, in arrivo nuovi sistemi di valutazione dell'attività.
LA QUESTIONE INCENTIVI/ Palazzo Vidoni pensa a premi di produttività selettivi ed «elastici» ma solo quando saranno disponibili altre risorse.

Un'operazione in tre tappe. È quella che si sta congegnando al ministero della Pubblica amministrazione per alzare gli standard di produttività dei dipendenti pubblici.
La prima fase sarà imperniata sulla creazione di nuovo sistema di valutazione degli statali in raccordo con l'operazione spending review. Dovrebbe poi prendere il via un dispositivo innovativo di misurazione di tutta l'attività svolta dagli uffici anche per verificare sovracosti interni e oneri impropri. Il terzo e ultimo step dovrebbe essere quello per introdurre un meccanismo di incentivi selettivi per premiare la produttività. Meccanismo che però potrà essere attivato solo nel momento in cui saranno utilizzabili risorse di cui attualmente il Governo non dispone, come ieri ha nuovamente lasciato intendere lo stesso ministro della Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi.
Per il momento il percorso è solo abbozzato. Ma il lavoro sui nuovi sistemi di valutazione dei dipendenti e di misurazione dell'attività svolta dagli uffici è in fase avanzata. E una conferma arriva indirettamente da Patroni Griffi: «Siamo impegnati nell'assicurare una migliore performance organizzativa più che individuale, perché quello che interessa è ciò che la pubblica amministrazione produce, non tanto chi produce e come si lavora al suo interno», ha detto ieri mattina a Bologna il ministro.
Patroni Griffi ha sottolineato che «la produttività nel pubblico è importante» ma anche evidenziato che quando il datore di lavoro è lo Stato è difficile, soprattutto nella situazione attuale, reperire le risorse per incentivarla. In ogni caso la priorità resta il dimagrimento degli organici e la riduzione dei costi della pubblica amministrazione. Concetti espressi nel pomeriggio dal ministro nell'incontro con i sindacati in cui è stata presentata la direttiva sull'attuazione della prima fase di spending review (si veda altro articolo in questa pagina).
I nuovi criteri di valutazione e di misurazione dovrebbero vedere la luce entro la fine dell'anno, anche se non è escluso che le linee guida possano essere delineate dalla "fase due" della spending review che scatterà a metà ottobre insieme alla legge di stabilità. Sul fronte della misurazione Palazzo Vidoni sta valutando anche l'ipotesi di ricorrere a un dispositivo simile a quello dei costi standard anche per individuare le eventuali sacche di spreco nell'attività di funzionamento degli uffici pubblici.
Nonostante la carenza di risorse a palazzo Vidoni si sta anche cominciando a ipotizzare un nuovo sistema per premiare i dipendenti maggiormente produttivi. L'idea sarebbe quella di attribuire gli incentivi di produttività sulla base di criteri di selettività ed elasticità superando il sistema delle quote congegnato dall'ex ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, che prevedeva l'esclusione certa dai premi di una fetta di personale pari al 25 per cento.
Nella stessa agenda per la crescita stilata dal premier Mario Monti il 24 agosto scorso si parla, del resto, in relazione alle azioni da attivare nel pubblico impiego, di «sistemi di performance per gestire in modo efficiente le risorse assegnate, premiare il merito, orientare le priorità» (articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZINuovi acquisti solo con la Consip. Cellulari e telefoni fissi. E presto anche pulizie, energia e gas. Debutta il mercato unico per l'istruzione: sanzionato il dirigente che non si attiene alle convenzioni.
Cellulari e telefoni fissi a carico delle scuole da acquistare solo tramite Consip spa, acronimo di concessionaria servizi informativi pubblici, società pubblica il cui azionista unico è il ministero dell'economia e delle finanze e che proprio in questi giorni, comunicato del 18 settembre, ha annunciato l'avvio del progetto MePi, mercato elettronico della pubblica istruzione.
E sanzioni di carattere disciplinare e amministrativo per i responsabili degli acquisti di altri beni e servizi nelle pubbliche amministrazioni, scuole comprese, che non ricorrano agli strumenti messi a disposizione da Consip. Non solo, ma contratti nulli, se stipulati in violazione dell'obbligo di servirsi di tali strumenti. I quali strumenti sono rappresentati dalle convenzioni che Consip stipula con ditte fornitrici di beni e servizi, alle quali quindi ci si deve rivolgere per chiederne la fornitura e, ai prezzi concordati nelle convenzioni, stipulare contratti di acquisto.
Una convenzione sarà presto stipulata, dopo il 25 ottobre, quando scadranno i termini di gara, indetta l'11 luglio scorso, per l'aggiudicazione dei servizi di pulizia per le scuole di ogni ordine e grado e per i centri di formazione della pubblica amministrazione, per un importo complessivo di un milione e ottocentomila euro. Per questa come per le altre forniture di beni e servizi, le amministrazioni pubbliche, scuole comprese, possono anche rivolgersi ad altri fornitori, ma in tal caso devono assumere i parametri di prezzo-qualità, come limiti massimi, individuati nelle stesse convenzioni Consip, purché ovviamente si tratti di beni e servizi comparabili.
Insomma, gli imperativi sono: maggiore attenzione nel disporre gli acquisti e realizzazione di risparmi di gestione e di spesa. Che è poi lo scopo contenuto nei provvedimenti legislativi comunemente definiti di spending review, in particolare, per lo specifico caso degli acquisti, l'art. 1, primo e settimo comma, del decreto legge 06.07.2012, n. 95, convertito nella legge n. 135/2012. Con il progetto MePi, citato all'inizio e specificatamente dedicato agli istituti scolastici di ogni ordine e grado, Consip intende proporre e presentare beni e servizi a destinazione didattica secondo ambiti omogenei, con la conseguenza che potranno essere personalizzati i requisiti tecnici, tecnologici e di servizio dei singoli prodotti e delle relative soluzioni.
Le procedure di acquisto saranno rese così più semplici e rapide e consentiranno alle scuole di accedere a soluzioni più idonee alle loro esigenze di approvvigionamento. Con tale iniziativa Consip continua la collaborazione con il Miur, avviata gli anni scorsi con il Piano nazionale scuola digitale, progetto Lim (Lavagne interattive multimediali) e iniziativa Editoria digitale scolastica.
Va ricordato poi che Consip nel mese di maggio ha aggiudicato la gara per la fornitura di personal computer a basso impatto ambientale e di servizi connessi per le pubbliche amministrazioni, la durata della convenzione è tuttora in corso e le scuole se ne possono così avvalere.
L'obbligo di servirsi degli strumenti messi a disposizione da Consip era per altro già in vigore, essendo stato sancito dalla finanziaria del 2000 (art. 26, terzo comma, della legge 23.12.1999, n. 488), esplicitamente richiamata dalle norme predisposte dal supertecnico Enrico Bondi ed emanate dal governo presieduto da Mario Monti.
Forse la norma del 1999 non era molto incisiva o non è stata applicata con il dovuto rigore, e allora si è dovuti intervenire nuovamente, aggravando le conseguenze della sua violazione e aggiungendo l'obbligo di servirsi in ogni caso delle convenzioni per l'acquisto di “energia elettrica, gas, carburanti rete e carburanti extra-rete, combustibili per riscaldamento, telefonia fissa e telefonia mobile”, solo queste ultime due, tuttavia, di stretta pertinenza delle scuole.
A dire il vero, anche per queste categorie merceologiche è possibile esperire autonome procedure ma in tal caso bisognerà comunque utilizzare «i sistemi telematici di negoziazione sul mercato elettronico e sul sistema dinamico di acquisizione messi a disposizione» da Consip S.p.A. o dalle analoghe strutture regionali di riferimento, costituite ai sensi dell'articolo 1, comma 455, della legge 27.12.2006, n. 296 (articolo ItaliaOggi del 25.09.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALISpending review. Entro l'anno vanno avviata la gestione in forma unita di tre funzioni fondamentali.
Rischio prefetti sui mini-enti. Intervento «statale» per chi non rispetta gli obblighi di associazione.
L'ALTERNATIVA/ Possibile attivare anche le convenzioni che per sopravvivere dovranno superare la verifica di efficienza dopo tre anni.

L'articolo 19 del decreto legge 95/2012 sulla spending review interviene sulla normativa in materia di gestione associata delle funzioni e dei servizi comunali fondamentali e recepisce alcune puntuali sollecitazioni pervenute dalle rappresentanze delle autonomie locali, cogliendo l'occasione per cercare di fare chiarezza sul l'intera disciplina.
Pur dovendo sottolineare l'assoluta inadeguatezza della decretazione d'urgenza in tema di riforme, va riconosciuto tuttavia che il decreto pone rimedio ad una lunga, colpevole inerzia del legislatore.
La principale novità, inserita in sede di conversione del decreto, consiste nella perentorietà dei nuovi termini di legge per l'avvio del processo associazionista, con un ruolo determinante assegnato al prefetto.
Le scadenze da rispettare sono: il 01.01.2013, per associare almeno tre delle funzioni fondamentali di cui al comma 28, e il 01.01.2014 per le restanti funzioni fondamentali. In caso di decorso dei termini, il prefetto assegna agli enti inadempienti un termine perentorio entro il quale provvedere. Decorso inutilmente anche questo termine, trova applicazione l'articolo 8 della legge 131 del 05.06.2003: nell'ambito dei poteri sostitutivi previsti dall'articolo 120 della Costituzione viene nominato un commissario il quale provvede in senso conforme alla norma, sentito il Consiglio delle autonomie locali, tenuto conto dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione tra i vari livelli istituzionali
Le unioni ordinarie sono regolate dall'articolo 14, comma 28, del Dl 78/2010; a differenza della precedente disciplina, l'ambito applicativo comprende ora anche i comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti, in precedenza esclusi in quanto soggetti all'obbligo specifico previsto dall'articolo 16, commi 1-16 del Dl 138/2011 (unioni "speciali" o "micro-unioni" nelle quali si associano tutte le funzioni).
Ora la disciplina dell'articolo 16 costituisce una mera facoltà per questi enti : per tutti i Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti valgono gli stessi obblighi (articolo 14 Dl 78/2010; articolo 32 del Testo unico enti locali).
I Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti devono esercitare le loro funzioni fondamentali in forma associata, ma possono farlo anche mediante una semplice convenzione; il nuovo comma 31-bis dell'articolo 14, del Dl 78/2010, rimanda all'articolo 30 del Tuel in materia di convenzioni, prescrivendo una durata almeno triennale.
Si dispone, tuttavia, l'obbligo di verificare il raggiungimento –entro il triennio– di «significativi livelli di efficacia e di efficienza» subentrando, in caso contrario, l'obbligo di costituire l'unione, analogamente a quanto prescritto dal l'articolo 16 del Dl 138/2011 per le micro unioni. In altri termini, o si dimostrano gli effettivi risultati raggiunti o si deve fare l'unione.
In definitiva, ora si fa sul serio. La riforma è stata progressivamente bilanciata e resa flessibile nei suoi contenuti, ma diventano più stringenti e tassativi i tempi di attuazione. La riduzione della spesa pubblica non può più attendere.
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Le due strade
COMUNI FINO A 5MILA ABITANTI
Obbligo di gestione associata delle funzioni fondamentali, tramite:
- unione ordinaria (articolo 14 Dl 78/2010; articolo 32 Tuel);
- oppure convenzione (articolo 14 Dl 78/2010; articolo 30 Tuel), con dimostrazione dei risultati raggiunti nei tre anni
COMUNI FINO A MILLE ABITANTI
- possono partecipare alle unioni ordinarie o alle convenzioni;
- in alternativa, possono costituire unioni speciali solo con altri Comuni sotto i mille abitanti (articolo 16, Dl 138/2011) (articolo Il Sole 24 Ore del 24.09.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI: Centrale unica per bandire le gare d' appalto. Le procedure. I servizi da accorpare.
L'articolo 19 del decreto legge sulla spending review (Dl 95/2012) riformula la normativa in materia di esercizio associato delle funzioni, secondo modalità più graduali ed equilibrate. Mentre si continua ad arricchire la normativa speciale sulle micro-unioni (articolo 16 Dl 138/2011), che difficilmente prenderanno piede, la disciplina dettata per le unioni "ordinarie" di Comuni appare tuttora piuttosto lacunosa.
Viene ridefinito e leggermente ampliato l'elenco delle funzioni fondamentali che i Comuni fino a 5mila abitanti devono gestire in forma associata, tramite unione o convenzione. Con un parziale passo indietro relativo ai servizi demografici, inclusi tra le funzioni fondamentali ma esclusi espressamente dall'ambito di quelle da gestire obbligatoriamente in forma associata; resta peraltro a nostro avviso la possibilità di un loro accentramento, alla luce anche dell'articolo 16 del Dl 138/2011 che qualora applicato prevede l'unificazione di tutte le funzioni - compresa dunque l'anagrafe, lo stato civile, la materia elettorale e statistica.
La terminologia utilizzata nell'elenco non è sempre chiara e univoca: si ritiene in particolare che le funzioni di amministrazione generale comprendano la globalità dei servizi interni, sia amministrativi che finanziari, ferma restando la facoltà di considerare in modo specifico le segreterie comunali e di mantenere in essere le relative convenzioni. Tra i servizi interni da associare vi è certamente quello informatico: il comma 7 dell'articolo 19 dispone l'abrogazione dei commi da 3-bis a 3-octies dell'articolo 15 del Dlgs 82/2005, superando cosi l'antinomia dovuta alla sovrapposizione delle due diverse normative sulla gestione associata delle funzioni Ict.
Altro servizio interno è quello che si occupa di appalti, da accentrare secondo lo schema della centrale unica di committenza (articolo 33 del Dlgs 163/2006) dal 01.04.2013. L'obbligo riguarda solo le procedure di gara; ogni ente rimane responsabile delle fasi a monte (programmazione) e a valle (esecuzione) e provvede autonomamente agli affidamenti diretti nei casi consentiti (si veda Corte dei conti sezione Piemonte, parere n. 271/2012).
Nulla dice, infine, l'articolo 32 del testo unico enti locali sul trasferimento delle competenze, politiche e gestionali, dagli organi comunali a quelli del l'unione; l'articolo 16 del Dl 138 rappresenta un utile punto di riferimento ma sarebbe opportuno recepire il principio nella disciplina generale delle unioni.
Con riferimento alle funzioni conferite, tutte le competenze gestionali spettano agli organi tecnici dell'unione. Lo stesso principio sembra applicabile sul piano politico, pur dovendosi individuare alcune fattispecie riservate agli organi di governo del singolo comune (ad esempio, gli atti del sindaco come ufficiale di governo citati dall'articolo 16, comma 8). In attesa di ulteriori sviluppi in fase legislativa è necessario delimitare in sede interpretativa tali fattispecie. Dovremmo cercare di creare un quadro giuridico chiaro ed esaustivo prima dell'avvio della riforma, senza demandare decisioni fondamentali al l'improvvisazione e, quindi, al diritto vivente.
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Le materie
01 | APPALTI
Va centralizzata con il meccanismo della centrale di committenza la fase delle gare, mentre resta di competenza esclusiva dell'ente locale sia la programmazione degli appalti, che la fase di esecuzione dei contratti di lavori, servizi e forniture
02 | INFORMATICA
Sono da mettere in comune anche i servizi informatici. La spending review ha abolito la norma (articolo 15 Dlgs 82/2005) che indicava altre strade per la gestione dei servizi di Ict nei piccoli comuni
03 | AMMINISTRAZIONE
La gestione associata può riguardare tutti i servizi interni, amministrativi e finanziari, con la possibilità di esonerare le segreterie comunali (articolo Il Sole 24 Ore del 24.09.2012 - tratto da www.corteconti.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAUna domanda e permessi multipli. Accorpate 7 abilitazioni nell'autorizzazione unica ambientale. Introdotta l'Aua che toccherà micro, piccole, medie imprese e attività a basso rischio.
Sarà un singolo provvedimento amministrativo rilasciato dallo sportello unico per le attività produttive, sull'esito di una sola e cumulativa domanda, ad autorizzare emissioni di inquinanti in aria, acqua, suolo e gestione dei rifiuti per micro, piccole e medie imprese così come per le altre imprese a basso impatto ambientale.
Con l'approvazione, avvenuta lo scorso 14 settembre, in prima lettura da parte del governo del decreto istitutivo della «autorizzazione unica ambientale» (già battezzato come «Aua») si avvicina lo snellimento della burocrazia verde previsto a monte dal dl 5/2012 (c.d. «decreto semplificazioni»).
Il decreto in itinere, formalizzato come dpr e ora in attesa dei rituali pareri del parlamento e della conferenza unificata, introdurrà la nuova figura di autorizzazione unica tra l'istituto della (analoga ma più complessa) «autorizzazione integrata ambientale» (obbligatoria per gli impianti ad alto potenziale di inquinamento) e il novero delle singole procedure previste dalle diverse norme per il rilascio dei necessari e plurimi titoli a inquinare.
Cos'è l'Aua. L'autorizzazione unica ambientale sarà il provvedimento rilasciato dal c.d. «Suap» (Sportello unico per le attività produttive) che, nel tenore del decreto in corso di approvazione, sostituirà numerosi atti di comunicazione, notifica e autorizzazioni in materia ambientale previsti a livello statale e locale.
Per quali imprese. Due le categorie di imprese che saranno ammesse all'autorizzazione unica ambientale. La prima è costituita dalle micro, piccole e medie imprese, ossia dalle imprese rientranti nei parametri dimensionali e di fatturato previsti dall'articolo 2 del dm 18.04.2005 del ministero delle attività produttive. La seconda è invece costituita dagli impianti non soggetti alle disposizioni sulla autorizzazione integrata ambientale (c.d. «Aia») recate dal dlgs 152/2006.
Sono soggette all'Aia, le grandi industrie elencate dall'allegato VIII alla parte seconda del «Codice ambientale» che svolgono particolari attività, come quella energetica (combustioni a elevate potenze termiche, raffinerie), della produzione (a elevata capacità) dei metalli, della fabbricazione di alcuni prodotti chimici (tra cui idrocarburi e coloranti), dello smaltimento o recupero di elevate quantità di rifiuti.
Per quali titoli. L'Aua sostituirà tutti gli atti abilitativi previsti dal dpr in itinere più quelli che stabiliranno localmente le singole regioni e le province autonome (nel rispetto dei criteri generali del decreto statale).
In base allo schema di dpr licenziato dal governo, potranno essere fin da subito sostituiti dalla Aua: l'autorizzazione allo scarico nelle acque ex dlgs 152/2006; la comunicazione preventiva ex articolo 112 del dlgs 152/2006 per utilizzo agronomico di effluenti di allevamento, acque di vegetazione di frantoi oleari, acque reflue da parte di aziende del settore; l'autorizzazione alle emissioni in atmosfera per gli stabilimenti produttivi ex articolo 269, dlgs 152/2006; l'autorizzazione generale per le emissioni «scarsamente rilevanti» in aria ex articolo 272, dlgs 152/2006; il nulla osta alle emissioni sonore ex articolo 8, legge 447/1995 da parte degli impianti produttivi, sportivi, ricreativi commerciali; l'autorizzazione ex articolo 9, dlgs 99/1992 per utilizzo fanghi da depurazione in agricoltura; le comunicazioni per auto smaltimento e/o recupero rifiuti in procedura semplificata ex articoli 215 e 216, dlgs 152/2006.
Saranno poi eventualmente, come accennato, gli enti locali a individuare ulteriori atti di comunicazione, notifica e autorizzazione ambientale che potranno essere ricompresi dell'Aua.
Obbligo o facoltà? L'Aua costituirà la via autorizzatoria obbligatoria per le imprese che intendono acquisire l'intero novero dei titoli elencati dal dpr, mentre costituirà una mera facoltà sia per le imprese che agiranno per ottenere un singolo titolo sia per quelle tenute a presentare semplici comunicazioni ai sensi delle vigenti norme ambientali.
Rilascio, procedura. La domanda per il rilascio dell'Aua andrà presentata al Suap (comunale) di competenza unitamente ai documenti, alle dichiarazioni e alle altre attestazioni necessarie (a tal riguardo, il dpr prevede la possibilità per il Minambiente di adottare un modello di domanda semplificato e unificato). Verificatane la completezza, il Suap li trasmetterà all'autorità competente (ossia alla regione, alla provincia autonoma o all'ente da essi indicato come competente in relazione alla autorizzazione unica ambientale) chiedendo poi al soggetto istante (entro 30 giorni) l'eventuale integrazione della domanda con documenti richiesti dall'autorità. Subordinatamente all'assenso da parte della autorità competente, il Suap rilascerà l'autorizzazione unica ambientale entro un termine «standard» compreso tra 90 e 150 giorni dalla presentazione della domanda (in base alla complessità dell'istruttoria prevista dalla legge).
Durata. L'Aua avrà una durata di 15 anni dalla data di rilascio, fatti salvi gli obblighi di comunicazione intermedi alla citata autorità competente da parte delle imprese a più alto rischio di inquinamento (es: scarichi di reflui contenenti sostanze pericolose) o in caso modifiche di attività o variazioni agli impianti.
Rinnovo, procedura. Il rinnovo dell'autorizzazione unica dovrà essere richiesto (sempre tramite Suap) almeno sei mesi prima della scadenza (a pena della sospensione dell'attività), secondo una delle due procedure (ordinaria e semplificata) previste dal decreto.
La procedura ordinaria (che prevede una domanda pedissequa a quella di primo rilascio) dovrà essere adottata: dagli impianti che pur non superando le soglie dimensionali del dlgs 152/2006 per l'assoggettamento all'Aia svolgono comunque le attività inerenti; dai titolari di scarichi idrici con sostanze pericolose ex articolo 108 del dlgs 152/2006; i soggetti che emettono in atmosfera alcune sostanze pericolose previste dal dlgs 152/2006; gli impianti che utilizzano le sostanze pericolose disciplinate dal dlgs 52/1997.
Per tutte le altre e diverse imprese, sempre che non siano intervenute modifiche di attività e impianti rispetto alla autorizzazione in scadenza, il rinnovo avverrà invece tramite la presentazione di una istanza in autodichiarazione (dpr 445/2000 e successive modifiche) che attesterà l'immutata condizione di esercizio. Il rispetto del termine di sei mesi dalla scadenza dell'autorizzazione consentirà all'istante di proseguire l'attività fino al provvedimento di rinnovo.
Modifiche impianti, procedura. Come accennato, le variazioni di attività o impianti necessiteranno di una nuova procedura amministrativa che ne formalizzi la liceità.
A tal proposito il dpr in esame distingue le «semplici modifiche», legittimate da una semplice comunicazione indirizzata (direttamente) all'Autorità competente (e in assenza di una sua opposizione nei successivi 60 giorni) dalle «modifiche sostanziali» (ossia variazioni considerate tali dalle norme ambientali di riferimento) per le quali dovrà essere invece presentata una domanda pedissequa a quella di prima autorizzazione. Tale ultima e più rigida procedura ordinaria dovrà altresì essere sempre utilizzata dagli impianti a più alto rischio (ossia quelli sottoposti a alla citata procedura ordinaria di rinnovo) anche per le «semplici modifiche».
Oneri. Le spese per il procedimento relativo all'Aua saranno a carico del richiedente, ma esse non potranno comunque superare quelle complessivamente previste per i singoli titoli abilitativi disciplinati dalla normativa di riferimento.
Regime transitorio. I procedimenti autorizzatori in itinere alla data di entrata in vigore della nuova disciplina Aua proseguiranno in base alla pregressa normativa, ossia sfoceranno negli eventuali titoli abilitativi già previsti. Le imprese, invece, già titolari di autorizzazioni rilasciate in base al «vecchio» regime dovranno attendere la scadenza di queste per poterle rinnovare secondo il nuovo meccanismo dell'Aua (articolo ItaliaOggi Sette del 24.09.2012).

INCARICHI PROFESSIONALI: I COMPENSI DEI PROFESSIONISTI/ Dagli ordini i facsimile delle lettere di incarico. Prima regola: mettere tutto per iscritto. Niente tariffe e infinite clausole È il nuovo contratto professionale.
Fra professionista e cliente patti chiari e amicizia lunga. Sembra essere questo lo spirito che sta animando gli ordini in questi giorni che, pur non essendo previsto l'obbligo di preventivo scritto, si stanno dando da fare per dare istruzioni ai propri iscritti su come rendere chiari, e quindi evitare problemi in futuro, gli accordi sul conferimento dell'incarico.
Ed ecco quali sono i punti che non possono mai mancare in un contratto-tipo: l'oggetto e il grado di complessità dell'incarico, da esplicitare il più possibile, il compenso e gli oneri ipotizzabili, il recesso, gli estremi della polizza professionale, la clausola di mediazione. Ma comunque l'indicazione unanime degli ordini è: mettere tutto per iscritto e non lasciare nulla di sottinteso al cliente.
Riguardo la determinazione del compenso, invece, se da un lato i minimi tariffari sono stati aboliti, dall'altro, con tutta probabilità, i nuovi parametri elaborati dal ministero della giustizia per la liquidazione dei compensi da parte del giudice (dm n. 140/2012) saranno presi a riferimento dai professionisti per quantificare la propria prestazione professionale. E metterla al riparo da eventuali contenziosi. Il resto è lasciato al libero mercato. Ma vediamo meglio le indicazioni degli ordini ai professionisti alla luce del dl liberalizzazioni, del dpr di riforma delle professioni e del dm parametri.
Gli ordini giuridico-economico-contabili. Il Consiglio nazionale forense, da ultimo, ha elaborato un modello di contratto per gli iscritti (si veda ItaliaOggi del 20 settembre). Le clausole più importanti riguardano la privacy, la conciliazione, l'antiriciclaggio, la difficoltà dell'incarico, eventuali imprevisti, la quantificazione del compenso, o per fasi o per ore di attività.
Anche il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili ha messo a disposizione il facsimile di lettera di incarico professionale. Dove non devono mai mancare le clausole riferibili a: oggetto e grado di complessità dell'incarico, compenso e oneri ipotizzabili, recesso, estremi della polizza professionale.
«La principale indicazione da dare ai professionisti è che il conferimento dell'incarico venga fatto per iscritto», afferma Massimo Mellacina, consigliere delegato alle tariffe, «lo stesso decreto sui parametri prevede che il professionista debba dare prova del preventivo onorario pre-concordato. Quanto ai parametri, lo consideriamo uno strumento a uso esclusivo dell'organo giudiziale. Detto ciò, che poi possa essere assunto dal professionista come base di riferimento la considero un'opzione possibile e ragionevole. Chiaramente, non è più vincolante come lo era la tariffa minima».
Pure i consulenti del lavoro hanno diramato un facsimile di conferimento di incarico professionale. Gli elementi chiave sono: l'oggetto e grado di complessità del mandato, il compenso, durata e recesso, obblighi del professionista e del mandante. «In seguito all'abolizione delle tariffe è sorta l'esigenza di predisporre un facsimile di conferimento di incarico professionale», afferma il presidente, Marina Calderone, «uno strumento utile, visto che il mandato è diventato un elemento basilare del rapporto tra il professionista e il proprio cliente».
Le professioni tecniche. Il Consiglio nazionale degli ingegneri ha elaborato, tramite il proprio Centro studi, un documento con una serie di linee guida per ogni fattispecie di contratto: dall'incarico professionale con committenti privati, ai mansionari, agli incarichi per i lavori pubblici. «Ora la difficoltà, per il professionista, è individuare il compenso senza potersi riferire alle tariffe», afferma il presidente del Cni, Armando Zambrano, «si tratta di una contraddizione perché l'utente ha un'informazione in meno. Con i nuovi parametri, poi, siamo al paradosso, perché le indicazioni che utilizza il giudice alla fine del procedimento diventano il compenso del professionista, mentre non possono essere utilizzate dal professionista prima del contenzioso».
Il Consiglio nazionale dei periti industriali sta lavorando in questi giorni per predisporre un contratto tipo «che sarà molto complesso», assicura il presidente, Giuseppe Jogna, «perché abbiamo parecchie specializzazioni. Cercheremo di mettere a disposizione una sorta di scrittura privata di contratto di incarico lasciando poi ampio spazio a quella che è l'attività vera propria. Detto ciò, l'importante, per il professionista, è che il contratto sia molto chiaro ed esplicito perché le attività professionali tecniche, come quella di progettazione, hanno la particolarità di poter subire modifiche in corso d'opera. È necessario quindi che il committente ne sia ampiamente informato, perché spesso ci si nasconde dietro l'asimmetria delle conoscenze».
«Per quello che riguarda i parametri», continua Jogna, «è chiaro che il professionista non può utilizzarli. Però dico anche che se il cliente si lamenta del prezzo e non ha la capacità di individuare qual sia il meccanismo utilizzato dal professionista per determinare quella cifra, se si fa riferimento ai parametri non si sbaglia. Anche perché in un eventuale contenzioso il giudice può trovare coerente questo comportamento. In altre parole: come si fa a definire una prestazione complessa se non dando un'occhiata ai parametri, in modo tale che il contratto sia salvo in caso di contenzioso».
Anche il Consiglio nazionale degli agrotecnici sta mettendo a punto un facsimile. «Non è una semplice lettera di incarico», afferma il presidente, Roberto Orlandi, «vogliamo chiarire come costruire il contratto per evitare eventuali contenziosi. Anche perché, per quanto riguarda la determinazione del compenso, i nuovi parametri escludono molte nostre competenze. Il punto principale da chiarire, comunque, è la descrizione puntuale della prestazione» (articolo ItaliaOggi Sette del 24.09.2012).

INCARICHI PROFESSIONALI: I COMPENSI DEI PROFESSIONISTI/ L'eliminazione delle tariffe affida alle parti la negoziazione. Unico riferimento i nuovi parametri. Il prezzo lo fa il libero mercato.
Un contratto con il professionista: l'abbandono delle tariffe affida al mercato e, quindi, alle parti di negoziare il compenso. Anche se si rischia di lasciare nell'indefinito una materia che prima era regolata da decreti ministeriali. In mancanza delle tariffe, però, l'unico punto di riferimento è rappresentato dai parametri stabiliti con il decreto ministeriale n. 140/2012. Anche se non bisogna cadere in un equivoco.
I parametri del decreto 140/2012 non sono un tariffario sopravvissuto finalizzato a regolare i rapporti con la clientela; i parametri sono linee guida per il magistrato, chiamato a decidere quale sia il giusto compenso per il professionista, in una controversia con il cliente o, per gli avvocati, in sede di liquidazione giudiziale dei compensi. Non sono invece una griglia obbligatoria nei rapporti interni tra professionista e cliente. Anzi la legge vorrebbe eliminare qualsiasi griglia cogente per la determinazione delle tariffe e lasciare tutto alla libera negoziazione tra le parti.
D'altro canto c'è una ragione che incentiva il professionista a stendere il contratto vincolante per il cliente: il contratto stipulato e accettato dal cliente, infatti, è intoccabile anche dal magistrato. L'articolo 1 del decreto 140/2012 prevede che l'organo giurisdizionale che deve liquidare il compenso dei professionisti applica i parametri, ma solo in difetto di accordo tra le parti in ordine allo stesso compenso.
Questo significa che il giudice deve valutare innanzitutto se sia stato stipulato un contratto valido tra le parti; in questo caso deve applicare il contratto e non può passare alla applicazione dei parametri.
Naturalmente il cliente potrà contestare la validità del contratto e sostenerne la nullità totale o parziale; tuttavia si parte dal contratto; mentre se il contratto non c'è, allora il professionista non può che affidarsi alla discrezionalità giudiziale.
L'interesse del professionista a bloccare la discrezionalità giudiziale nella determinazione del compenso è molto alto. Si noti, infatti, che i parametri stabiliti dal decreto 140/2012 innanzitutto non sono vincolanti nemmeno per il giudice, che può discostarsene nei casi concreti; in secondo luogo i parametri sono fissati con una forbice molto ampia tra il valore più basso e il valore del maggiore incremento.
Non essendoci più un tariffario unico, seppure modulabile, considerata la forbice minimo-massimo per singole prestazioni, il professionista, per regolare i rapporti economici con la propria clientela, è, dunque, incentivato a costruire un proprio tariffario di studio.
Anzi il cliente che entra in uno studio professionale e assegna un incarico si vedrà consegnare il contratto, magari a seguito di un preventivo di massima, oltre che alcune specifiche informazioni previste da leggi di settore (dalla privacy alla conciliazione).
Secondo il disegno del legislatore l'abolizione delle tariffe e la riconduzione dei compensi ai rapporti contrattuali dovrebbe incentivare la concorrenza tra professionisti, singoli e associati, e tra società professionali.
Non a caso i compensi possono essere oggetto della pubblicità informativa (su cui si veda il dpr 07/08/2012 n. 137, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 189 del 14.08.2012, regolamento di attuazione dei principi dettati dall'articolo 3, comma 5, del decreto legge n. 138 del 2011 in materia di professioni regolamentate).
Quindi lo studio professionale potrà preparare una brochure informativa con il proprio preziario e magari diffonderlo tramite il sito internet. Così sarà data al cliente la possibilità di scelta del professionista anche sulla base del fattore compenso praticato.
A questo proposito va richiamato il decreto ministeriale n. 137/2012 sulla disciplina delle professioni regolamentate, che dedica un apposito articolo alla libera concorrenza e alla pubblicità informativa. Innanzi tutto la pubblicità informativa è ammessa con ogni mezzo purché attinente l'attività delle professioni regolamentate, le specializzazioni, i titoli posseduti attinenti alla professione, la struttura dello studio professionale e anche i compensi richiesti per le prestazioni.
La pubblicità informativa deve essere funzionale all'oggetto, veritiera e corretta, non deve violare l'obbligo del segreto professionale e non dev'essere equivoca, ingannevole o denigratoria.
Infine, così si chiude l'articolo 4 del decreto 137, la violazione della disposizione sui principi della pubblicità informativa costituisce illecito disciplinare, oltre a integrare una violazione delle disposizioni previste dal codice del consumo e dalle norme sulla pubblicità ingannevole.
Questi ultimi riferimenti potrebbero però mettere in dubbio la qualifica del professionista e spostarla sul versante imprenditoriale, esito questo fortemente avversato dagli ordini. A parte queste considerazioni generali, va sottolineato che la possibilità di mettere a confronto le tariffe pratiche attraverso le forme lecite di pubblicità comparativa è ulteriore elemento che spinge alla individuazione di un tariffario di studio e di una contrattualistica standard a uso del singolo professionista, dello studio associato e della società tra professionisti (articolo ItaliaOggi Sette del 24.09.2012 - tratto da www.corteconti.it).

INCARICHI PROFESSIONALII COMPENSI DEI PROFESSIONISTI/ Gli avvocati potranno esporre i prezzi. Via la distinzione tra diritti e onorari in nota spese. Tariffario pubblico per i legali.
Gli avvocati potranno costruirsi il tariffario di studio e pubblicizzarlo. I parametri stabiliti con il decreto 140/2012 sono certo un punto di riferimento, ma il professionista potrà discostarsene nel contratto con il cliente. La struttura della nota spese presentata al cliente non prevede più la distinzione tra diritti e onorari, come nel vecchio tariffario. Sussiste, quindi, libertà sia nella modulazione delle voci di spesa sia nella quantificazione degli importi.
Le voci di spesa potranno essere individuate per fasi di attività con un importo onnicomprensivo per singola fase; oppure si potrà ricorrere al compenso orario. Altre possibilità sono quelle del patto di quota lite o del palmario. Con il palmario il cliente attribuisce all'avvocato un compenso aggiuntivo per la favorevole conclusione della pratica. Con il patto di quota lite l'avvocato viene pagato solo in caso di esito favorevole con una quota su quanto percepito dal cliente.
Lo schema di contratto elaborato dal Consiglio nazionale forense prevede il sistema del compenso per fasi in alternativa al compenso su base oraria. Il modello contiene, poi, una limitata forma di palmario in caso di conciliazione della controversia. Il modello del consiglio nazionale forense non disciplina, invece, una forma di quota lite. La liquidazione del compenso per fasi rispecchia l'impostazione del decreto sui parametri per la liquidazione giudiziale, anche se le fasi individuate nel modello di contratto proposto dal Consiglio nazionale forense sono diverse da quelle inserite nel decreto ministeriale sui parametri. Il modello di contratto prevede queste fasi: mediazione, studio, cautelare, fase introduttiva, istruttoria, decisoria ed esecutiva.
Peraltro è possibile articolare le fasi in maniera differente, senza essere vincolati a uno schema predefinito. Una questione particolare riguarda il rapporto tra il compenso stabilito nel contratto e le spese liquidate dal giudice al termine della causa. Ad esempio Tizio accetta di pagare all'avvocato Caio la somma di 100 per la rappresentanza in un determinato giudizio; la causa va bene, ma il giudice riconosce a Tizio la somma di 50 da chiedere all'avversario che ha perso; nel modello del Cnf in questo caso Tizio rimane obbligato a pagare all'avvocato a somma di 100 e recupererà 50 da controparte (rimane, quindi, a carico di Tizio la differenza di 50).
Altra ipotesi è quella in cui il giudice liquidi spese legali per un importo superiore a quello contrattuale: la somma eccedente viene assegnata nello schema di contratto all'avvocato, che la recupererà dalla controparte soccombente. Si tratta di una clausola per la quale si prevede una doppia sottoscrizione (articolo ItaliaOggi Sette del 24.09.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI: Atti difensivi sintetici e chiari. Processo amministrativo, la p.a. non avrà più vie di fuga. Le novità del correttivo al dlgs 104/2010 (sulla Gu n. 218).
P.a. condannata al rilascio del provvedimento utile al cittadino. Il processo amministrativo è un giudizio in cui la pubblica amministrazione non può sfruttare vie di fuga. Una volta il processo amministrativo era solo un processo finalizzato a ottenere l'annullamento di un atto illegittimo.
Ma questo non necessariamente corrispondeva agli interessi concreti del cittadino. Magari l'amministrazione rifaceva l'atto con un'altra motivazione o comunque, annullato l'atto, non ne seguiva in positivo una determinazione in grado di soddisfare chi aveva vinto la causa.
Il codice del processo amministrativo (dlgs 104/2010), invece, si preoccupa ora della effettiva tutela del cittadino e ha dedicato un apposito articolo alle domande che si possono formulare in giudizio.
Una di queste domande è in grado di soddisfare le esigenze effettive del cittadino: si tratta della domanda di condanna dell'amministrazione all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio (articolo 34, comma 1, lettera c).
Questo significa che al Tar si può chiedere non solo una pronuncia di annullamento di un atto, ma anche una pronuncia con cui si ordina all'ente pubblico di fare qualcosa per corrispondere ai diritti e agli interessi di chi fa il ricorso. L'oggetto della domanda è molto ampio (qualunque pronuncia idonea) e gli avvocati possono elaborare le richieste più consone.
Il secondo decreto correttivo del codice del processo amministrativo (decreto legislativo n. 160 del 14.09.2012, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 218 del 18.09.2012) ha aggiunto una prescrizione di carattere procedurale, che però spingerà a mettere l'amministrazione da subito di fronte alle sue responsabilità.
La novella legislativa integra l'articolo 34 prescrivendo che l'azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto è esercitata contestualmente all'azione di annullamento del provvedimento di diniego o all'azione avverso il silenzio.
Questo significa anticipare la richiesta di condanna dell'amministrazione e, anziché un trabocchetto per gli avvocati (che non devono dimenticarsi di inserire la domanda specifica), potrà diventare un pungolo in più verso le amministrazioni riottose.
Naturalmente il giudice non può sostituirsi all'amministrazione: il Tar avrà ampio spazio di azione quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione. In questo caso nella sentenza c'è già l'ordine all'amministrazione di adeguarsi.
Negli altri casi sarà l'amministrazione a dover emettere un nuovo provvedimento, esercitando la sua discrezionalità, ma nel rispetto della sentenza.
Il secondo correttivo interviene anche sulla formulazione degli atti rafforzando la regola per cui gli atti difensivi devono essere sintetici e chiari. Il codice del processo amministrativo detta, infatti, una disposizione rigorosa quanto a rispetto del principio di sinteticità degli atti. Richiamando il codice di procedura civile, l'articolo 26 del codice del processo amministrativo dispone che il giudice deve provvedere alla condanna alle spese del giudizio. La regola è che chi perde paga e le spese, anche per i giudici amministrativi, sono liquidate in base ai parametri del decreto del ministero della giustizia n. 140/2012. Il secondo correttivo prevede che la decisione sulle spese deve essere presa tenendo conto dell'obbligo che le parti hanno di redigere atti sintetici e chiari (articolo 3, comma 2 del cpa). Questo significa che gli atti difensivi troppo lunghi o troppo oscuri aumentano il rischio di dovere pagare un conto salato di spese di soccombenza.
Si tratta di una regola per giudice, che va ad aggiungersi ai parametri previsti dal decreto n. 140/2012, sulla liquidazione giudiziale dei compensi professionali.
Il decreto 140/2012 contiene la regola per cui costituisce elemento di valutazione negativa, in sede di liquidazione giudiziale del compenso, l'adozione di condotte abusive tali da ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli. E la prolissità degli atti difensivi potrebbe avere anche questo scopo: si pensi al fatto che la controparte possa essere indotta a chiedere un rinvio per poter analizzare e replicare a un atto lunghissimo.
La novella sul processo amministrativo prescinde da un intento dilatorio e colpisce la prolissità in sé degli atti e aggiunge un parametro non scritto nel decreto 140/2012, ma è direttamente applicabile. Dunque le difese troppo prolisse, con riferimento alle spese di lite sono un azzardo. Anche se si ritiene che i giudici distingueranno i casi in cui la prolissità è irragionevole, da quelli in cui la complessità della questione merita un approfondimento.
Gli atti, infine, dovranno essere informatizzati in un processo amministrativo telematico, che è ormai alle porte. Il decreto correttivo, infatti, stabilisce che tutti gli atti e i provvedimenti del giudice, dei suoi ausiliari, del personale degli uffici giudiziari e delle parti potranno essere sottoscritti con firma digitale (articolo ItaliaOggi Sette del 24.09.2012).

VARI: Autovelox solo a debita distanza. Almeno un chilometro tra il dispositivo e la segnalazione. Tre risoluzioni per allargare l'obbligo anche all'accertamento da parte di una pattuglia.
Almeno un chilometro tra autovelox e segnale che impone il limite di velocità. Presegnalamento e visibilità delle postazioni. Sono di grande rilievo e impatto le disposizioni introdotte dal legislatore negli ultimi anni per regolamentare l'uso dei dispositivi che controllano la velocità dei veicoli.
Ma in questi giorni le interpretazioni ministeriali su alcuni specifici aspetti dell'impiego degli autovelox, in particolare quelle sulla distanza dal segnale di velocità, sono state oggetto di critiche dagli organi parlamentari.
La commissione trasporti della camera nella seduta del 13.09.2012 ha infatti approvato tre risoluzioni che impegnano il governo a riconsiderare le indicazioni contenute nella circolare del 12.08.2010, nel senso di chiarire che la disposizione di cui all'art. 25 della legge n. 120/2010 relativa alla distanza non inferiore a un chilometro dei dispositivi di controllo rispetto al segnale che impone il limite di velocità è applicabile anche ai casi in cui l'accertamento dell'illecito è effettuato con la presenza di un organo di polizia stradale.
Distanza dal segnale di velocità. L'ultima modifica introdotta dall'art. 25 della legge 120/2010 prevede che con decreto del ministro delle infrastrutture e dei trasporti, devono essere definite le modalità di collocazione e uso dei dispositivi o mezzi tecnici di controllo, finalizzati al rilevamento a distanza delle violazioni delle norme di comportamento di cui all'art. 142 del codice della strada, che fuori dei centri abitati non possono comunque essere utilizzati o installati a una distanza inferiore a un chilometro dal segnale che impone il limite di velocità.
Ma con la circolare prot. n. 300/A/11310/10/10/101/3/3/9 del 12.08.2010, il ministero dell'interno, discostandosi dal dettato normativo e sostituendosi di fatto al previsto decreto attuativo mai emanato, ha affermato che fuori dai centri abitati solo gli autovelox fissi devono essere posizionati ad almeno un chilometro dal segnale stradale che impone il limiti di velocità.
L'obbligo di rispettare la distanza minima non riguarda invece i casi in cui l'accertamento dell'illecito è effettuato dalla polizia stradale. Di fronte a questa discrasia fra il dettato normativo e l'interpretazione del ministero dell'interno, la commissione trasporti della camera ha approvato le tre risoluzioni.
Presegnalamento e visibilità. Ai sensi dell'art. 3 del decreto legge n. 117 del 03.08.2007 tutti i dispositivi per il controllo elettronico della velocità in funzione sulla rete stradale devono essere ben visibili e segnalati. In attuazione di tale disposto, il decreto del ministero dei trasporti del 15.08.2007 ha specificato che le postazioni di controllo possono essere segnalate con cartelli stradali di indicazione temporanei o permanenti, con segnali stradali luminosi a messaggio variabile o con dispositivi di segnalazione luminosi installati su veicoli.
I segnali stradali di indicazione devono essere realizzati con un pannello rettangolare, di dimensioni e colore di fondo propri del tipo di strada sul quale sono installati. Sul pannello deve essere riportata l'iscrizione «controllo elettronico della velocità» oppure «rilevamento elettronico della velocità», eventualmente integrata con il simbolo o la denominazione dell'organo di polizia stradale che attua il controllo. I segnali stradali e i dispositivi di segnalazione luminosi devono essere installati con adeguato anticipo rispetto al luogo in cui viene effettuato il rilevamento della velocità, e in modo da garantirne il tempestivo avvistamento, in relazione alla velocità locale predominante.
La distanza fra i segnali o i dispositivi e la postazione di rilevamento della velocità deve essere valutata in relazione allo stato dei luoghi; in particolare è necessario che non vi siano tra il segnale e il luogo di effettivo rilevamento intersezioni stradali che comporterebbero la ripetizione del messaggio dopo le stesse, e comunque non superiore a 4 km. Come indicato dalla direttiva ministeriale del 14.08.2009, salvo casi particolari in cui l'andamento plano-altimetrico della strada o altre circostanze contingenti rendono consigliabile collocarlo a una distanza maggiore, come distanza minima adeguata fra il segnale e la postazione di controllo si può considerare quella indicata, per ciascun tipo di strada, dall'art. 79, c. 3, del regolamento di esecuzione e attuazione del codice della strada per la collocazione dei segnali di prescrizione. Questa distanza minima, infatti, consente di garantire il corretto avvistamento del segnale da parte degli utenti in transito.
Circa l'obbligo di piena visibilità delle postazioni di controllo, comunque, il riferimento deve essere fatto sempre solo alle strumentazioni e non anche agli agenti operanti. Questo aspetto è già stato chiarito anche dal ministero dei trasporti con un parere del 6 ottobre 2009. L'art. 183 del regolamento stradale, infatti, richiede che gli agenti del traffico siano ben percepibili quando effettuano segnalazioni in mezzo alla strada o si trovino ad operare in condizioni di scarsa visibilità, serali o notturne. L'obbligo di conoscibilità del controllo autovelox riguarda la sola postazione, e dunque gli agenti non sono tenuti a rendersi visibili.
E se l'accertamento della velocità viene effettuato utilizzando il telelaser? Con una circolare del 15.03.2010 il Ministero dell'interno ha chiarito che in caso di utilizzo di dispositivi che rilevano la velocità dei veicoli in avvicinamento, la distanza minima di posizionamento della segnaletica di preavviso va riferita alla distanza che deve almeno intercorrere fra il luogo di posizionamento della segnaletica e il punto di rilevamento delle infrazioni, senza dunque fare riferimento al punto in cui è collocata la strumentazione. Questo perché la distanza deve essere adeguata per garantire il tempestivo avvistamento della postazione (articolo ItaliaOggi Sette del 24.09.2012).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: I concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento, dovendo sussistere, come requisito di ammissione alla gara, una perfetta coincidenza tra quota dei lavori (o, nel caso di forniture o servizi, parti del servizio o della fornitura) eseguita dal singolo operatore economico e quota di effettiva partecipazione al raggruppamento.
Comunque, il disposto dell’art. 95, comma 2, d.P.R. n. 554 del 1999, secondo cui l’impresa mandataria in ogni caso possiede i requisiti in misura maggioritaria, deve essere riferito non all’entità del requisito minimo complessivo prescritto per la specifica gara di cui trattasi in relazione all’importo dei lavori da commettere, bensì alle quote effettive di partecipazione all’associazione, sicché può definirsi maggioritaria l’impresa che, avendo un qualifica adeguata, assuma concretamente una quota superiore o comunque non inferiore a quella di ciascuna delle altre imprese mandanti, a prescindere dai valori assoluti di classifica di ognuna delle altre; ciò perché, in caso diverso, si creerebbe un vincolo restrittivo al mercato, in contrasto con il principio della libertà di determinazione delle imprese in sede associativa, in quanto sarebbero privilegiate comunque le imprese di grande dimensione.
In mancanza, quindi, di ulteriori e diversi elementi, non può sostenersi che nel caso di specie la partecipazione paritaria (50%) all’A.T.I. aggiudicataria delle imprese che la costituiscono, implichi ex se la mancanza del possesso in capo alla capogruppo mandataria dei requisiti di partecipazione maggioritaria previsti dalla legge.

Sul punto, fermo restando l’indiscusso principio, più volte ribadito, secondo cui i concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento (tra le più recenti, C.d.S., sez. V, 14.12.2011, n. 6538; 08.11.2011, n. 5892), dovendo sussistere, come requisito di ammissione alla gara, una perfetta coincidenza tra quota dei lavori (o, nel caso di forniture o servizi, parti del servizio o della fornitura) eseguita dal singolo operatore economico e quota di effettiva partecipazione al raggruppamento (C.d.S., sez. III, 11.05.2011, n. 2805), la Sezione ritiene di non doversi discostare da quanto statuito da C.d.S., sez. V, 11.12.2007, n. 6363, ove è stato affermato che “Il disposto dell’art. 95, comma 2, d.P.R. n. 554 del 1999, secondo cui l’impresa mandataria in ogni caso possiede i requisiti in misura maggioritaria, deve essere riferito non all’entità del requisito minimo complessivo prescritto per la specifica gara di cui trattasi in relazione all’importo dei lavori da commettere, bensì alle quote effettive di partecipazione all’associazione, sicché può definirsi maggioritaria l’impresa che, avendo un qualifica adeguata, assuma concretamente una quota superiore o comunque non inferiore a quella di ciascuna delle altre imprese mandanti, a prescindere dai valori assoluti di classifica di ognuna delle altre; ciò perché, in caso diverso, si creerebbe un vincolo restrittivo al mercato, in contrasto con il principio della libertà di determinazione delle imprese in sede associativa, in quanto sarebbero privilegiate comunque le imprese di grande dimensione”.
In mancanza, quindi, di ulteriori e diversi elementi, non può sostenersi che nel caso di specie la partecipazione paritaria (50%) all’A.T.I. aggiudicataria delle imprese che la costituiscono, implichi ex se la mancanza del possesso in capo alla capogruppo mandataria dei requisiti di partecipazione maggioritaria previsti dalla legge (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.09.2012 n. 5120 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il vincolo di inedificabilità della "fascia di rispetto stradale" -che è una tipica espressione dell’attività pianificatoria della p.a. nei riguardi di una generalità di beni e di soggetti- non ha natura espropriativa, ma unicamente conformativa, perché ha il solo effetto di imporre alla proprietà l’obbligo di conformarsi alla destinazione impressa al suolo in funzione di salvaguardia della programmazione urbanistica, indipendentemente dall’eventuale instaurazione di procedure espropriative.
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In presenza di un vincolo conformativo previsto dalla legge (quale è la fascia di rispetto), non sono predicabili riferimenti di effettualità edificatoria “di fatto”, ma, ai fini del ristoro del proprietario inciso, rileva solo la distinzione tra aree edificabili “di diritto” ed aree “giuridicamente non edificabili".

La giurisprudenza ha correttamente concluso che il vincolo di inedificabilità della "fascia di rispetto stradale" -che è una tipica espressione dell’attività pianificatoria della p.a. nei riguardi di una generalità di beni e di soggetti- non ha natura espropriativa, ma unicamente conformativa, perché ha il solo effetto di imporre alla proprietà l’obbligo di conformarsi alla destinazione impressa al suolo in funzione di salvaguardia della programmazione urbanistica, indipendentemente dall’eventuale instaurazione di procedure espropriative (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 13.03.2008, n. 1095).
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Deve dunque concordarsi con la Cassazione che, in presenza di un vincolo conformativo previsto dalla legge (quale è la fascia di rispetto), non sono predicabili riferimenti di effettualità edificatoria “di fatto”, ma, ai fini del ristoro del proprietario inciso, rileva solo la distinzione tra aree edificabili “di diritto” ed aree “giuridicamente non edificabili" (cfr. infra multa: Cassazione civile, sez. I, 13.04.2006, n. 8707; Cassazione civile, sez. I, 28.10.2005, n. 21092) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.09.2012 n. 5113 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: La giustizia amministrativa (analogamente a quella civile, sia pure con diversità di strumenti e di criteri) non ha il compito di ripristinare la legalità in senso assoluto, ma quello di tutelare situazioni giuridiche soggettive qualificate. Ciò significa che può ricorrere al giudice amministrativo (come anche a quello civile) solo chi abbia una posizione giuridica legittimante. Del resto una selezione dei soggetti legittimati a ricorrere si impone anche da un punto di vista pratico, perché in caso contrario, essendo inevitabilmente limitate le risorse del sistema giustizia, quest’ultimo si troverebbe (più di quanto non lo sia già ora) nell’impossibilità di rispondere a tutte le domande e in definitiva, nell’intento di allargare oltre modo l’accesso alla giustizia, si finirebbe col negare giustizia anche a chi ha più titolo per chiederla.
Ciò comporta che in ogni causa è necessaria la verifica preliminare (sia pure sommaria e ordinariamente anche tacita, qualora l’esito sia pacificamente positivo) della legittimazione del richiedente. Tale verifica può essere fatta d’ufficio o su eccezione della controparte; l’eccezione, se del caso, può assumere anche quella forma che nel processo civile la dottrina chiama “eccezione riconvenzionale” e che nel processo amministrativo si chiama “ricorso incidentale”. Pertanto, qualora il ricorso incidentale abbia lo scopo di promuovere la verifica della legittimazione del ricorrente principale, è naturale che venga esaminato prioritariamente e che se fondato conduca a dichiarare inammissibile il ricorso principale.
Nell’ambito della giustizia amministrativa, com’è noto, la legittimazione non coincide necessariamente con l’interesse; non tutti gli interessi sono “legittimi”, ossia tutelati e non basta un interesse di mero fatto (per quanto, in ipotesi, di notevole importanza dal punto di vista di chi ne è portatore) a legittimare la proposizione di un ricorso.

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In materia di gare d’appalto, è opinione comune che i vizi determinatisi nel corso del relativo procedimento possano essere impugnati, in linea di principio, solo da chi ha partecipato alla gara. Ciò si dice anche nell’ipotesi che si tratti di vizi che possono essere rimediati solamente mediante l’indizione di una nuova gara e/o la riapertura dei termini per la presentazione delle domande. Chi si è volontariamente e liberamente astenuto dal partecipare ad una gara non è legittimato a chiederne l’annullamento, benché abbia di fatto interesse a che la gara venga nuovamente bandita e possa quindi parteciparvi. La gara infatti è per lui res inter alios acta e i vizi determinatisi nel corso di essa non lo riguardano; non sono cioè vizi che abbiano inciso sulla sua posizione giuridica soggettiva (altra questione è quella di chi non abbia partecipato perché ostacolato, o perché non vi è stato un bando, o perché il bando non è stato regolarmente pubblicato, o perché vi erano clausole di esclusione, etc.: questa è una problematica diversa da quella ora in considerazione).
Se tutto quanto detto sin qui si può ritenere comunemente accettato, si deve ora aggiungere che alla posizione di chi si è volontariamente e liberamente astenuto dal partecipare ad una gara va assimilata quella di chi abbia preso, bensì, l’iniziativa di parteciparvi, ma ne sia stato legittimamente escluso per causa a lui stesso imputabile (domanda tardiva, difetto di requisiti, vizi di forma, etc.). Anche per lui, infatti, a questo punto la gara è res inter alios acta. Può sperare che venga annullata e ripetuta, ma non ha titolo per richiederlo (a meno che, s’intende, non rimuova prima l’atto di esclusione impugnandolo; e riacquistando così lo status di partecipante alla gara).
In questo quadro, non si vede una sufficiente ragione logica per differenziare la posizione di chi sia stato escluso con atto legittimo dell’autorità appaltante e quella di chi, indebitamente ammesso, venga poi escluso per decisione del giudice in accoglimento del ricorso (incidentale) di una controparte. Il vizio dell’offerta è stato riconosciuto più tardi, ma inficiava sin dall’inizio la partecipazione di quel soggetto. Quest’ultimo dunque non ha (più) titolo per partecipare alla gara, e di conseguenza non ha titolo per impugnare i relativi atti, neppure con lo scopo di provocarne l’integrale riedizione.

La giustizia amministrativa (analogamente a quella civile, sia pure con diversità di strumenti e di criteri) non ha il compito di ripristinare la legalità in senso assoluto, ma quello di tutelare situazioni giuridiche soggettive qualificate. Ciò significa che può ricorrere al giudice amministrativo (come anche a quello civile) solo chi abbia una posizione giuridica legittimante. Del resto una selezione dei soggetti legittimati a ricorrere si impone anche da un punto di vista pratico, perché in caso contrario, essendo inevitabilmente limitate le risorse del sistema giustizia, quest’ultimo si troverebbe (più di quanto non lo sia già ora) nell’impossibilità di rispondere a tutte le domande e in definitiva, nell’intento di allargare oltre modo l’accesso alla giustizia, si finirebbe col negare giustizia anche a chi ha più titolo per chiederla.
Ciò comporta che in ogni causa è necessaria la verifica preliminare (sia pure sommaria e ordinariamente anche tacita, qualora l’esito sia pacificamente positivo) della legittimazione del richiedente. Tale verifica può essere fatta d’ufficio o su eccezione della controparte; l’eccezione, se del caso, può assumere anche quella forma che nel processo civile la dottrina chiama “eccezione riconvenzionale” e che nel processo amministrativo si chiama “ricorso incidentale”. Pertanto, qualora il ricorso incidentale abbia lo scopo di promuovere la verifica della legittimazione del ricorrente principale, è naturale che venga esaminato prioritariamente e che se fondato conduca a dichiarare inammissibile il ricorso principale.
Nell’ambito della giustizia amministrativa, com’è noto, la legittimazione non coincide necessariamente con l’interesse; non tutti gli interessi sono “legittimi”, ossia tutelati e non basta un interesse di mero fatto (per quanto, in ipotesi, di notevole importanza dal punto di vista di chi ne è portatore) a legittimare la proposizione di un ricorso.
In materia di gare d’appalto, è opinione comune che i vizi determinatisi nel corso del relativo procedimento possano essere impugnati, in linea di principio, solo da chi ha partecipato alla gara. Ciò si dice anche nell’ipotesi che si tratti di vizi che possono essere rimediati solamente mediante l’indizione di una nuova gara e/o la riapertura dei termini per la presentazione delle domande. Chi si è volontariamente e liberamente astenuto dal partecipare ad una gara non è legittimato a chiederne l’annullamento, benché abbia di fatto interesse a che la gara venga nuovamente bandita e possa quindi parteciparvi. La gara infatti è per lui res inter alios acta e i vizi determinatisi nel corso di essa non lo riguardano; non sono cioè vizi che abbiano inciso sulla sua posizione giuridica soggettiva (altra questione è quella di chi non abbia partecipato perché ostacolato, o perché non vi è stato un bando, o perché il bando non è stato regolarmente pubblicato, o perché vi erano clausole di esclusione, etc.: questa è una problematica diversa da quella ora in considerazione).
Se tutto quanto detto sin qui si può ritenere comunemente accettato, si deve ora aggiungere che alla posizione di chi si è volontariamente e liberamente astenuto dal partecipare ad una gara va assimilata quella di chi abbia preso, bensì, l’iniziativa di parteciparvi, ma ne sia stato legittimamente escluso per causa a lui stesso imputabile (domanda tardiva, difetto di requisiti, vizi di forma, etc.). Anche per lui, infatti, a questo punto la gara è res inter alios acta. Può sperare che venga annullata e ripetuta, ma non ha titolo per richiederlo (a meno che, s’intende, non rimuova prima l’atto di esclusione impugnandolo; e riacquistando così lo status di partecipante alla gara).
In questo quadro, non si vede una sufficiente ragione logica per differenziare la posizione di chi sia stato escluso con atto legittimo dell’autorità appaltante e quella di chi, indebitamente ammesso, venga poi escluso per decisione del giudice in accoglimento del ricorso (incidentale) di una controparte. Il vizio dell’offerta è stato riconosciuto più tardi, ma inficiava sin dall’inizio la partecipazione di quel soggetto. Quest’ultimo dunque non ha (più) titolo per partecipare alla gara, e di conseguenza non ha titolo per impugnare i relativi atti, neppure con lo scopo di provocarne l’integrale riedizione (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 27.09.2012 n. 5111 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIn presenza di atti plurimotivati, basati cioè su una pluralità di motivazioni, ciascuna delle quali sufficiente a reggere l’atto, l’omessa censura di una di esse determina l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse a ricorrere, rimanendo l’atto sorretto dall’ulteriore ragione giustificatrice non oggetto di censura.
Ove tutte le motivazioni poste a base dell’atto impugnato siano state censurate, ma che siano infondate le censure relative ad una delle motivazioni in grado da sola di reggere l’atto impugnato, il ricorso vada rigettato senza necessità di disamina delle ulteriori censure relative alle restanti motivazioni dell’atto, non potendo il ricorrente vantare alcun interesse all’analisi di tali censure.
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Non appare configurabile, in presenza di attività interamente vincolata, alcun vizio di eccesso di potere, essendo l’eccesso di potere ravvisabile per i soli atti discrezionali e non anche per gli atti vincolati.

Costituisce, infatti, ius receptum che, in presenza di atti plurimotivati, basati cioè su una pluralità di motivazioni, ciascuna delle quali sufficiente a reggere l’atto, l’omessa censura di una di esse determini l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse a ricorrere, rimanendo l’atto sorretto dall’ulteriore ragione giustificatrice non oggetto di censura (cfr., ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 2009; in senso analogo, TAR Liguria Genova, sez. I, 25.10.2010, n. 10015; TAR Campania Napoli, sez. VII, 02.10.2009, n. 5138).
Analogamente occorre ritenere che, ove tutte le motivazioni poste a base dell’atto impugnato siano state censurate, ma che siano infondate le censure relative ad una delle motivazioni in grado da sola di reggere l’atto impugnato, il ricorso vada rigettato senza necessità di disamina delle ulteriori censure relative alle restanti motivazioni dell’atto, non potendo il ricorrente vantare alcun interesse all’analisi di tali censure [ex multis, TAR Campania Salerno, sez. II, 17.01.2011, n. 63 secondo cui «per un atto c.d. "plurimotivato", anche l'eventuale fondatezza di una delle argomentazioni addotte non potrebbe in ogni caso condurre all'annullamento dell'impugnato provvedimento sindacale, che rimarrebbe sorretto dal primo versante motivazionale risultato immune ai vizi lamentati»; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 14.01.2011, n. 139 secondo cui «nel caso di provvedimento di esclusione da una gara d'appalto "plurimotivato", la riconosciuta legittimità di una delle ragioni dell'atto è sufficiente a reggere il provvedimento di estromissione»; TAR Campania Napoli, sez. VII, 14.01.2011, n. 164 secondo cui «nel caso in cui il provvedimento impugnato sia fondato su di una pluralità di autonomi motivi (c.d. provvedimento plrurimotivato), il rigetto della doglianza volta a contestare una delle sue ragioni giustificatrici comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni giustificatrici atteso che, seppure tali ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente»].
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Né appare configurabile, in presenza di attività interamente vincolata, alla luce del chiaro disposto normativo, alcun vizio di eccesso di potere, essendo l’eccesso di potere ravvisabile per i soli atti discrezionali e non anche per gli atti vincolati (ex multis, Consiglio Stato, sez. VI, 27.12.2007, n. 6658; Consiglio Stato, sez. IV, 12.08.2005, n. 4371; Consiglio Stato, sez. IV, 07.05.2004, n. 2842) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 27.09.2012 n. 4001 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'omessa corresponsione della seconda rata dell'oblazione computata con la domanda di condono edilizio, né nei termini stabiliti dall'art. 35 l. n. 47 del 1985, né in quelli fissati dall'art. 39, comma 6, l. n. 724 del 1994, rende improcedibile l'istanza di condono, a norma di quest'ultimo articolo, indipendentemente dal mancato versamento delle somme richieste a conguaglio con la determinazione, in via definitiva, dell'importo dell'oblazione, senza che all'uopo si richieda alcun provvedimento ulteriore (trattandosi di misura sanzionatoria fissata direttamente dalla legge) e senza che rilevi che l'Amministrazione abbia o meno richiesto il pagamento delle rate successive alla prima.
In considerazione di tanto, il Consiglio di Stato ha affermato che «l'omessa corresponsione della seconda rata dell'oblazione computata con la domanda di condono edilizio, né nei termini stabiliti dall'art. 35 l. n. 47 del 1985, né in quelli fissati dall'art. 39, comma 6, l. n. 724 del 1994, rende improcedibile l'istanza di condono, a norma di quest'ultimo articolo, indipendentemente dal mancato versamento delle somme richieste a conguaglio con la determinazione, in via definitiva, dell'importo dell'oblazione, senza che all'uopo si richieda alcun provvedimento ulteriore (trattandosi di misura sanzionatoria fissata direttamente dalla legge) e senza che rilevi che l'Amministrazione abbia o meno richiesto il pagamento delle rate successive alla prima» (Consiglio Stato, sez. V, 13.08.2007, n. 4441) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 27.09.2012 n. 4001 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANella motivazione dell’ordine di demolizione è necessaria e sufficiente l’analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione precisa della superficie occupata e dell’area di sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, potendo la specificazione intervenire nella successiva fase dell’accertamento dell’eventuale inottemperanza all’ordine di demolizione.
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L'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, costituisce atto vincolato, e che, quindi, non richiede alcuna previa specifica verifica circa la sussistenza di ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati: presupposto per la sua adozione è soltanto la constatata esecuzione dell’opera in totale difformità dal permesso di costruire o in assenza di questo, cosicché tale provvedimento –ricorrendo i predetti requisiti– è sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, essendo in re ipsa l’interesse pubblico alla sua rimozione.

Infatti, secondo una consolidata giurisprudenza (ex multis, TAR Toscana Firenze, Sez. III, 06.02.2008, n. 117; TAR Campania Napoli, Sez. III, 17.12.2007, n. 16311), nella motivazione dell’ordine di demolizione è necessaria e sufficiente l’analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione precisa della superficie occupata e dell’area di sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, potendo la specificazione intervenire nella successiva fase dell’accertamento dell’eventuale inottemperanza all’ordine di demolizione.
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Invero, va premesso che l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, costituisce atto vincolato, e che, quindi, non richiede alcuna previa specifica verifica circa la sussistenza di ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati: presupposto per la sua adozione è soltanto la constatata esecuzione dell’opera in totale difformità dal permesso di costruire o in assenza di questo, cosicché tale provvedimento –ricorrendo i predetti requisiti– è sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, essendo in re ipsa l’interesse pubblico alla sua rimozione (cfr. Cons. di Stato sez. IV, n. 2227 del 10.04.2009; Cons. di Stato sez. IV, n. 4659 del 26.09.2008; Cons. di Stato sez. V, n. 4530 del 19.09.2008; Cons. di Stato sez. IV, n. 2529 del 27.04.2004; TAR Piemonte n. 752 del 16.03.2009; TAR Campania-Napoli n. 1376 dell’11.03.2009; TAR Basilicata n. 44 del 06.02.2009; TAR Campania-Napoli n. 18085 del 02.12.2004)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 27.09.2012 n. 4001 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVIIl ricorso allo strumento dell’ordinanza contingibile ed urgente (o anche avente soltanto valenza “ambientale”), giustifica l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento unicamente in presenza di un’”urgenza qualificata”, in relazione alle circostanze del caso concreto, che deve essere debitamente esplicitata in specifica motivazione sulla necessità e l’urgenza di prevenire il grave pericolo alla cittadinanza, anche perché sussiste un rapporto di conflittualità e di logica sovraordinazione tra l’esigenza di tutela immediata della pubblica incolumità e l’esigenza del privato inciso dall’atto amministrativo di avere conoscenza dell’avvio del procedimento; ciò in quanto il principio partecipativo alla base della comunicazione di avvio del procedimento ha carattere generalizzato ed impone, alla luce delle regole fissate dall’art. 7 L. n. 241/1990, che l’invio di essa abbia luogo in tutte quelle situazioni nelle quali la possibilità di coinvolgere il privato non sia esclusa da esigenze di celerità che caratterizzano la fattispecie e che devono essere puntualmente esplicitate nel provvedimento in concreto adottato.
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In caso di rinvenimento di rifiuti da parte di terzi ignoti, il proprietario o comunque il titolare in uso di fatto del terreno non può essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo carico l’elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo stesso soggetto non può essere destinatario di ordinanza sindacale di rimozione e rimessione in pristino.
Tanto perché l’art. 14 D.L. vo 05.02.1997, n. 22, in tema di divieto di abbandono incontrollato sul suolo e nel suolo, oltre a chiamare a rispondere dell’illecito ambientale l’eventuale “responsabile dell’inquinamento”, accolla in solido anche al proprietario dell’area la rimozione, l’avvio a recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei luoghi, ma ciò solo nel caso in cui la violazione fosse imputabile a titolo di dolo o di colpa.
Il Collegio non ignora quella giurisprudenza per la quale la rimozione dei rifiuti abbandonati su aree di pertinenza delle autostrade spetta al concessionario in quanto la normativa del Codice della Strada (art. 14, D.L. vo 30.04.1992, n. 285) si pone in rapporto di specialità rispetto alle disposizioni del Codice dell’ambiente (art. 192, D.L.vo 03.04.2006, n. 152), tuttavia, nel caso di specie, il Comune intimato ha adottato l’impugnata ordinanza con espresso e testuale richiamo all’art. 192, comma 3, del D.L.vo n. 152 del 03.04.2006, con la conseguenza che il potere esercitato resta condizionato ai presupposti ed agli effetti previsti da tale normativa.
Inoltre, in sede applicativa la giurisprudenza ha rilevato che: <<Il dovere di diligenza, che fa capo al titolare del fondo, non può arrivare al punto di richiedere una costante vigilanza, da esercitarsi giorno e notte, per impedire ad estranei di invadere l’area e, per quanto riguarda la fattispecie regolata dall’art. 14 citato di abbandonarvi rifiuti. La richiesta di un impegno di tale entità travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della diligenza media (o del buon padre di famiglia) che è alla base della nozione di colpa, quando questa è indicata in modo generico, come nella specie, senza ulteriori specificazioni>>.

Il Collegio ritiene di confermare, in relazione ai punti in diritto, quanto già ritenuto in una precedente decisione (Sentenza n. 2800/2011 Tar Campania Sez. V) avente ad oggetto analoga fattispecie.
Il ricorso è fondato in relazione ai dedotti profili di violazione dell’art. 192 D.L. vo n. 152/2006, in relazione agli artt. 7 ed 8 della L. n. 241/1990 ed in relazione all’art. 3 della L. n. 241 del 1990.
In relazione alla censura con cui la società ricorrente lamenta l’omessa comunicazione dell’avviso dell’avvio del procedimento con la conseguente inosservanza delle regole che garantiscono la partecipazione dell’interessato all’istruttoria amministrativa si deve ritenerne la fondatezza perché, nella fattispecie, anche in relazione alla obiezione sollevata dalla società ricorrente circa la mancanza di ogni suo coinvolgimento, a qualsiasi titolo, nell’illecito ambientale contestato, necessitava consentirle di partecipare in contraddittorio agli accertamenti ed alle verifiche per individuare una soluzione tecnica e logistica per la rimozione dei rifiuti depositati in maniera incontrollata sull’area e la messa in sicurezza della stessa.
Il Collegio condivide quanto rilevato in giurisprudenza secondo la quale il ricorso allo strumento dell’ordinanza contingibile ed urgente (o anche avente soltanto valenza “ambientale”), giustifica l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento unicamente in presenza di un’”urgenza qualificata”, in relazione alle circostanze del caso concreto, che deve essere debitamente esplicitata in specifica motivazione sulla necessità e l’urgenza di prevenire il grave pericolo alla cittadinanza (Cfr.: TAR Campania, Sez. V, 03.02.2005, n. 764), anche perché sussiste un rapporto di conflittualità e di logica sovraordinazione tra l’esigenza di tutela immediata della pubblica incolumità e l’esigenza del privato inciso dall’atto amministrativo di avere conoscenza dell’avvio del procedimento (Cfr: TAR Marche, 25.01.2002, n. 97; TAR Toscana, Sez. II, 14.02.2000, n. 168); ciò in quanto il principio partecipativo alla base della comunicazione di avvio del procedimento ha carattere generalizzato ed impone, alla luce delle regole fissate dall’art. 7 L. n. 241/1990, che l’invio di essa abbia luogo in tutte quelle situazioni nelle quali la possibilità di coinvolgere il privato non sia esclusa da esigenze di celerità che caratterizzano la fattispecie e che devono essere puntualmente esplicitate nel provvedimento in concreto adottato.
Pertanto, non accennandosi nell’impugnata ordinanza a quali siano stati i motivi di urgenza che abbiano reso obiettivamente impossibile la comunicazione di avvio del procedimento, non sussisteva alcuna concreta ragione, per adottare il provvedimento impugnato, in assoluta carenza di contraddittorio e senza il diretto coinvolgimento della società interessata che, nel caso di specie, sarebbe stato quanto mai opportuno, per consentirgli di dimostrare l’estraneità di qualsiasi elemento di colpevolezza a suo carico.
Inoltre, in relazione alla censura nella quale è stata dedotta la violazione dell’art. 192 D.L. vo n. 152/2006, stavolta in relazione all’art. 3 della L. n. 241 del 1990, come la giurisprudenza ha evidenziato in numerose occasioni (ex multis, cfr: TAR Campania, sez. V, 06.10.2008, n. 13004), in caso di rinvenimento di rifiuti da parte di terzi ignoti, il proprietario o comunque il titolare in uso di fatto del terreno non può essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo carico l’elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo stesso soggetto non può essere destinatario di ordinanza sindacale di rimozione e rimessione in pristino (cfr: TAR Campania, Sez. I; 19.03.2004, n. 3042, TAR Toscana, 12.05.2003, n. 1548, C. di S., IV Sez. 20.01.2003, n. 168).
Tanto perché l’art. 14 D.L. vo 05.02.1997, n. 22, in tema di divieto di abbandono incontrollato sul suolo e nel suolo, oltre a chiamare a rispondere dell’illecito ambientale l’eventuale “responsabile dell’inquinamento”, accolla in solido anche al proprietario dell’area la rimozione, l’avvio a recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei luoghi, ma ciò solo nel caso in cui la violazione fosse imputabile a titolo di dolo o di colpa (Cfr. TAR Lombardia, Sez. I, 26.01.2000, n. 292 e TAR Umbria 10.03.2000, n. 253).
Il Collegio non ignora quella giurisprudenza (Cfr. TAR Puglia, Lecce, 18.06.2008, n. 487) per la quale la rimozione dei rifiuti abbandonati su aree di pertinenza delle autostrade spetta al concessionario in quanto la normativa del Codice della Strada (art. 14, D.L. vo 30.04.1992, n. 285) si pone in rapporto di specialità rispetto alle disposizioni del Codice dell’ambiente (art. 192, D.L.vo 03.04.2006, n. 152), tuttavia, nel caso di specie, il Comune intimato ha adottato l’impugnata ordinanza con espresso e testuale richiamo all’art. 192, comma 3, del D.L.vo n. 152 del 03.04.2006, con la conseguenza che il potere esercitato resta condizionato ai presupposti ed agli effetti previsti da tale normativa.
Inoltre, in sede applicativa la giurisprudenza ha rilevato che: <<Il dovere di diligenza, che fa capo al titolare del fondo, non può arrivare al punto di richiedere una costante vigilanza, da esercitarsi giorno e notte, per impedire ad estranei di invadere l’area e, per quanto riguarda la fattispecie regolata dall’art. 14 citato di abbandonarvi rifiuti. La richiesta di un impegno di tale entità travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della diligenza media (o del buon padre di famiglia) che è alla base della nozione di colpa, quando questa è indicata in modo generico, come nella specie, senza ulteriori specificazioni>> (ex plurimis: C. di S., Sez. V, 08.03.2005, n. 935; TAR Campania, Napoli, sez. V, 05.08.2008, n. 9795).
Nel caso di specie le caratteristiche del bene ed, in particolare, la sua estensione e la sua difficile controllabilità, sono tali da non fare emergere in termini obiettivi i necessari elementi di colpevolezza a carico della società ricorrente.
Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema normativo attualmente vigente, quale quello del D.L. vo n. 152/2006 in tema di ambiente. In siffatto disposto normativo tutto incentrato su una rigorosa tipicità dell’illecito ambientale, alcun spazio v’è per una responsabilità oggettiva, nel senso che -ai sensi dell’art. 192- per essere ritenuto responsabile delle violazione dalla quale è scaturita la situazione di inquinamento, occorre quantomeno la colpa. E tale regola di imputabilità a titolo di dolo o colpa non ammette eccezioni anche in relazione ad un’eventuale responsabilità solidale del proprietario dell’area ove si è verificato l’abbandono ed il deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo.
Nel caso in esame, non emerge, come sovente accade la possibilità di risalire all’autore materiale dell’abbandono dei rifiuti sulla piazzola autostradale in questione e, non facendosi cenno nell’ordinanza impugnata ad accertamenti o a verifiche dai quali emerga che l’abbandono dei rifiuti sia ascrivibile alla società ricorrente, se ne fa derivare una responsabilità di quest’ultima per culpa in vigilando, per la mera qualità di concessionaria della rete autostradale con obbligo di manutenzione della stessa.
Ciò non è ammissibile. A diversamente ritenere verrebbe a configurarsi in capo al gestore un inesigibile obbligo di garanzia in concreto, per la mera qualità di custode, obbligo che, tuttavia, in quanto riconducibile ad una responsabilità oggettiva, esula dal dovere di custodia di cui all’art. 2051 cod. civ. il quale consente sempre la prova liberatoria in presenza di caso fortuito (da intendersi in senso ampio, comprensiva anche del fatto del terzo e della colpa esclusiva del danneggiato) (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 27.09.2012 n. 3987 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPresupposto per l'adozione dell’ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
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In sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive su area vincolata non è necessario acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia vigente e non costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio.

Va pure respinto il profilo, con il quale il ricorrente ha lamentato la mancata enucleazione, nella motivazione dell’atto, dell’interesse pubblico alla rimozione dell’opera.
Infatti, come costantemente affermato in giurisprudenza “...presupposto per l'adozione dell’ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi” (tra le molte, TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 1999).
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Infatti, come costantemente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, “... in sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive su area vincolata non è necessario acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia vigente e non costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio” (così, da ultimo, TAR Liguria, Genova, sez. I, 21.09.2011, n. 1393, nello stesso senso vedi pure TAR Campania, Napoli sez. VI, 05.03.2012, secondo cui “... in sede di emanazione di ordinanza di demolizione delle opere edilizie abusive su area vincolata non è necessario acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia vigente ...e in quanto non vi è alcun obbligo di far luogo ad accertamenti di danni ambientali, ovvero di applicazione di sanzioni pecuniarie alternative”) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 26.09.2012 n. 3951 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001.
Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato.

Quanto alla carenza di motivazione in ordine alla sanabilità delle opere, come si è ripetutamente espressa la sezione (cfr. da ultimo sentenza n. 2962 del 21.06.2012) e come costantemente affermato in giurisprudenza, condivisa dal collegio “… in presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001. Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato” (cfr. TAR Campania Napoli, sez. IV, 06.07.2007, n. 6552)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 26.09.2012 n. 3950 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento di demolizione, in quanto atto vincolato -al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia- non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati.
La misura repressivo-ripristinatoria costituisce un atto dovuto e rigorosamente vincolato, affrancato dalla ponderazione discrezionale del configgente interesse al mantenimento in loco della res, dove l’interesse pubblico risiede in re ipsa nella riparazione (tramite ripristino dello stato dei luoghi) dell'illecito edilizio. Pertanto, essa è da ritenersi sorretta da adeguata e autosufficiente motivazione, allorquando come nel caso di specie sia rinvenibile la compiuta descrizione degli interventi abusivi contestati e l’individuazione della violazione commessa.

Né può essere accolta la censura di difetto di motivazione (quarto e quinto motivo), atteso che il provvedimento di demolizione, in quanto atto vincolato -al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia- non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati (tra le molte, TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 29.01.2009, n. 501).
Ribadita la subordinazione delle opere al previo ottenimento di permesso di costruire, la cui omissione legittima l’adozione della sanzione ripristinatoria), deve rilevarsi come “... la misura repressivo-ripristinatoria costituisce un atto dovuto e rigorosamente vincolato, affrancato dalla ponderazione discrezionale del configgente interesse al mantenimento in loco della res, dove l’interesse pubblico risiede in re ipsa nella riparazione (tramite ripristino dello stato dei luoghi) dell'illecito edilizio. Pertanto, essa è da ritenersi sorretta da adeguata e autosufficiente motivazione, allorquando come nel caso di specie sia rinvenibile la compiuta descrizione degli interventi abusivi contestati e l’individuazione della violazione commessa” (tra le molte, TAR Campania, Napoli sez. VIII, 09.02.2012, n. 693, 09.02.2012, n. 696, sez. II, 06.02.2012, n. 580, sez. VI, 31.08.2011, n. 4253)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 26.09.2012 n. 3950 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza ha riconosciuto non solo che il parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo è "pregiudiziale ad ogni altra valutazione", ma ha anche rilevato che il “parere” previsto dall'art. 32 cit. ai fini del rilascio della sanatoria ha natura e funzioni identiche all'”autorizzazione paesaggistica” ai sensi dell’art. 7 della legge n. 1497/1939, in quanto entrambi gli atti costituiscono il presupposto per l’assentimento del titolo che legittima la trasformazione urbanistico-edilizia dell’area protetta, il quale deve ritenersi realizzato, quindi, solo con la conclusione della procedura di regolarizzazione (dal momento che l’autorizzazione paesaggistica deve essere inviata alla Sovrintendenza per l’esercizio dei suoi poteri, per l’eventuale annullamento, entro 60 giorni).
Il procedimento di sanatoria, in particolare, si compone di due procedure, autonome e distinte, quanto all'ambito degli interessi sottesi (di carattere ambientale che coinvolgono anche l’autorità statale e cioè la Soprintendenza, e di carattere urbanistico-edilizio propri del Comune), ma che confluiscono nel provvedimento finale di rilascio della concessione edilizia in sanatoria. In quel momento sono da ritenersi accertati gli abusi commessi (sia edilizi che ambientali), essendo stata valutata la possibilità di rilasciare il titolo che legittima quanto sino a quel momento illegittimamente realizzato; in particolare, nella fattispecie ora in esame ed ai fini che interessano, è stata valutata la compatibilità ambientale dell’opera dallo stesso Comune, la cui determinazione positiva non è stata oggetto di annullamento da parte della Soprintendenza.
In proposito la giurisprudenza ha riconosciuto non solo che il parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo è "pregiudiziale ad ogni altra valutazione" (C.d.S., sez. V, n. 177/2000), ma ha anche rilevato che il “parere” previsto dall'art. 32 cit. ai fini del rilascio della sanatoria ha natura e funzioni identiche all'”autorizzazione paesaggistica” ai sensi dell’art. 7 della legge n. 1497/1939, in quanto entrambi gli atti costituiscono il presupposto per l’assentimento del titolo che legittima la trasformazione urbanistico-edilizia dell’area protetta (Cons. Stato, VI, n. 114/1998), il quale deve ritenersi realizzato, quindi, solo con la conclusione della procedura di regolarizzazione (dal momento che l’autorizzazione paesaggistica deve essere inviata alla Sovrintendenza per l’esercizio dei suoi poteri, per l’eventuale annullamento, entro 60 giorni).
In definitiva, il momento dell’accertamento dell’illecito deve individuarsi con quello del compiuto rilascio della sanatoria edilizia e che determina altresì il venir meno della sua permanenza; ragionando diversamente, si dovrebbe giungere ad affermare che, anche dopo il rilascio della concessione in sanatoria, l’immobile potrebbe essere demolito perché non compatibile con gli interessi ambientali, non decorrendo mai il termine della pubblica amministrazione per esercitare i poteri sanzionatori ai fini ambientali; ma ciò si porrebbe in contraddizione logica col rilascio del titolo a sanatoria che a sua volta presuppone la compatibilità “ambientale” dell’opera.
D’altro canto la giurisprudenza amministrativa (si veda Cons. di Stato, sez. VI, 3184/2000) ha anche affermato che in generale la “permanenza” dell’illecito amministrativo de quo viene meno “solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni” (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 26.09.2012 n. 3949 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn presenza dell'esercizio della facoltà straordinaria di sanatoria prevista dalla legge (condono edilizio), il provvedimento repressivo (e quindi quello di accertamento della non conformità) “perde efficacia in quanto deve essere sostituito o dal permesso di costruire in sanatoria o da un nuovo procedimento sanzionatorio, essendo l’Amministrazione tenuta, in quest'ultimo caso, in base a quanto previsto dall'art. 40, comma 1, l. n. 47 del 1985, al completo riesame della fattispecie”, con conseguente “traslazione e differimento dell'interesse ad impugnare verso il futuro provvedimento che, eventualmente, respinga la domanda medesima, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva.
Il ricorso è improcedibile in quanto in data 04.03.2001 la ricorrente ha depositato, unitamente all’istanza di fissazione dell’udienza, copia della richiesta di concessione edilizia in sanatoria ai sensi dell’art. 39 della legge 724/1994 s.m.i. presentata in data 28.02.1995 (prot. n. 2204), sulla quale il Comune non risulta ancora essersi pronunciato.
Invero, per giurisprudenza risalente e consolidata, a tale definizione in rito della causa deve pervenirsi ove, in sede di decisione di un ricorso proposto avverso ordini di demolizione risulti successivamente presentata domanda per conseguire il condono edilizio. Ciò in quanto in presenza dell'esercizio della facoltà straordinaria prevista dalla legge, il provvedimento repressivo (e quindi quello di accertamento della non conformità) “perde efficacia in quanto deve essere sostituito o dal permesso di costruire in sanatoria o da un nuovo procedimento sanzionatorio, essendo l’Amministrazione tenuta, in quest'ultimo caso, in base a quanto previsto dall'art. 40, comma 1, l. n. 47 del 1985, al completo riesame della fattispecie”, con conseguente “traslazione e differimento dell'interesse ad impugnare verso il futuro provvedimento che, eventualmente, respinga la domanda medesima, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva” (si vedano, fra le molte, Cons. Stato, sezione V, 06.07.2007 n. 3855, Cons. Stato, sezione VI, 07.05.2009, n. 2833; TAR Campania, Napoli, questa sesta sezione, sentenze n. 3933 del 20.07.2011, n. 1645 del 23.03.2011; n. 15979 del 23.06.2010; 25.02.2010, n. 1158 e 09.11.2009, n. 7051; sezione VII, 09.02.2009, n. 645; TAR Lazio, Roma, sezione I, 09.02.2010, n. 1780; TAR Emilia Romagna, Bologna, sezione II, 12.01.2010, n. 20) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 26.09.2012 n. 3947 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVINessun dubbio sussiste in merito al fatto che nei confronti di Anas s.p.a., pur essendo soggetto di natura privatistica, sia esercitabile il diritto di accesso agli atti di cui ai citati artt. 22 e segg. della legge n. 241/1990.
Invero, Anas. s.p.a. rientra tra le pubbliche amministrazioni nei cui confronti è esercitatile il diritto di accesso. Difatti, anche l'attività degli enti pubblici economici e dei gestori di pubblici servizi, quando coinvolge interessi pubblici, rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 97 Cost., essendo svolta, pur se sottoposta di regola al diritto comune, oltre che nell'interesse proprio, anche per soddisfare quelli della collettività, con la conseguenza che i relativi atti sono soggetti all'accesso ex l. n. 241 del 1990.

Va invero rilevato che nessun dubbio sussiste in merito al fatto che nei confronti di Anas s.p.a., pur essendo soggetto di natura privatistica, sia esercitabile il diritto di accesso agli atti di cui ai citati artt. 22 e segg. della legge n. 241/1990.
In proposito si riporta quanto affermato dalla Sezione in una recente pronuncia: “Anas. s.p.a. rientra tra le pubbliche amministrazioni nei cui confronti è esercitatile il diritto di accesso. Difatti, anche l'attività degli enti pubblici economici e dei gestori di pubblici servizi, quando coinvolge interessi pubblici, rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 97 Cost., essendo svolta, pur se sottoposta di regola al diritto comune, oltre che nell'interesse proprio, anche per soddisfare quelli della collettività, con la conseguenza che i relativi atti sono soggetti all'accesso ex l. n. 241 del 1990” (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. III, 03.03.2010, n. 530).
Inoltre, nessun dubbio sussiste in merito all’interesse della ricorrente, peraltro adeguatamente illustrato nell’istanza d’accesso agli atti formulata ad Anas, in merito alla conoscenza del contenuto degli atti richiesti, trattandosi di documentazione afferente ad un procedimento espropriativo che riguarda terreni di sua proprietà.
Infine, non può ancora dubitarsi che sull’istanza si sia formato un tacito diniego, non essendosi Anas espressa su di essa entro il termine di trenta giorni dalla ricezione della domanda, di cui all’art. 25, comma 4, della legge n. 241/1990.
Per queste ragioni la domanda deve essere accolta e, per l’effetto, Anas s.p.a. deve essere condannata, ai sensi dell’art. 116 c.p.a., al rilascio, entro trenta giorni dalla comunicazione delle presente sentenza, della documentazione richiesta dalla ricorrente con nota del 24.01.2012 (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 26.09.2012 n. 2416 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 12 del d.P.R. n. 380 del 2001, in vista del rilascio del permesso di costruire è necessario che esistano almeno le opere di urbanizzazione primaria stimate in concreto necessarie, ivi comprese quelle relative alla viabilità ed alla rete fognaria, in modo che la zona possa dirsi sistemata per l'insediamento industriale in argomento. Compito primario della pianificazione urbanistica è, infatti, quello di coordinare armonicamente l’attività edificatoria privata con la predisposizione di un adeguato sistema infrastrutturale, che valga ad assicurare uno sviluppo edilizio del territorio ordinato e razionale.
A tal riguardo, vale poi aggiungere che le opere di urbanizzazione primaria sono elencate dall'art. 4 della l. 29.09.1964 n. 847 e comprendono spazi di sosta o di parcheggio, rete idrica, rete di distribuzione dell'energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato, strade residenziali nonché, per l’appunto, idonee fognature, ancor più indispensabili nel caso di reflui industriali.

Al riguardo, è sufficiente ribadire, in aderenza ad un orientamento già ripetutamente espresso dalla Sezione (cfr. TAR Campania, Napoli, Sezione Seconda, n. 694/2006 e n. 8894/2008) che, ai sensi dell’art. 12 del d.P.R. n. 380 del 2001, in vista del rilascio del permesso di costruire è necessario che esistano almeno le opere di urbanizzazione primaria stimate in concreto necessarie, ivi comprese quelle relative alla viabilità ed alla rete fognaria, in modo che la zona possa dirsi sistemata per l'insediamento industriale in argomento. Compito primario della pianificazione urbanistica è, infatti, quello di coordinare armonicamente l’attività edificatoria privata con la predisposizione di un adeguato sistema infrastrutturale, che valga ad assicurare uno sviluppo edilizio del territorio ordinato e razionale.
A tal riguardo, vale poi aggiungere che le opere di urbanizzazione primaria sono elencate dall'art. 4 della l. 29.09.1964 n. 847 e comprendono spazi di sosta o di parcheggio, rete idrica, rete di distribuzione dell'energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato, strade residenziali nonché, per l’appunto, idonee fognature, ancor più indispensabili nel caso di reflui industriali (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 25.09.2012 n. 3942 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio richiama il portato giurisprudenziale che nega l'effetto invalidante dell'omissione della comunicazione di avvio del procedimento, ai sensi del suindicato art. 7, rispetto alle sanzioni ripristinatorie in materia urbanistica, trattandosi di procedimenti sanzionatori basati su meri accertamenti tecnici e scanditi da disposizioni che escludono qualsiasi valutazione discrezionale, che deve a maggior ragione applicarsi per le ipotesi di violazione di normativa antisismica.
Per quanto riguarda le restanti censure, infondata risulta la dedotta violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990, per omessa comunicazione di avvio del procedimento (primo motivo di ricorso), il Collegio richiama il portato giurisprudenziale che nega l'effetto invalidante dell'omissione della comunicazione di avvio del procedimento, ai sensi del suindicato art. 7, rispetto alle sanzioni ripristinatorie in materia urbanistica, trattandosi di procedimenti sanzionatori basati su meri accertamenti tecnici e scanditi da disposizioni che escludono qualsiasi valutazione discrezionale (TAR Campania Napoli, sez. IV, 17.01.2007, n. 357; TAR Lombardia Milano, sez. II, n. 2378/2003; TAR Lombardia Milano, sez. II, n. 1278/2008), che deve a maggior ragione applicarsi per le ipotesi di violazione di normativa antisismica.
In ogni caso il Collegio, in considerazione di quanto indicato nella presente parte motiva, ritiene applicabile all'ipotesi in esame il disposto dell'art. 21-octies della legge n. 241/1990, secondo cui non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, vertendosi in ambito provvedi mentale vincolato e risultando che il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 25.09.2012 n. 3939 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOIn materia di pubblico impiego il dipendente è portatore di un interesse qualificato alla conoscenza degli atti e documenti che riguardano la propria posizione lavorativa, atteso che gli stessi esulano dal diritto alla riservatezza e che l'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, garantisce l'accesso ai documenti amministrativi relativi al rapporto di pubblico impiego «privatizzato», anche se le eventuali controversie attinenti ad detto rapporto sono devolute alla giurisdizione del Giudice ordinario.
Ora, il Collegio rileva, in via preliminare, come in materia di pubblico impiego il dipendente è portatore di un interesse qualificato alla conoscenza degli atti e documenti che riguardano la propria posizione lavorativa, atteso che gli stessi esulano dal diritto alla riservatezza e che l'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, garantisce l'accesso ai documenti amministrativi relativi al rapporto di pubblico impiego «privatizzato», anche se le eventuali controversie attinenti ad detto rapporto sono devolute alla giurisdizione del Giudice ordinario (TAR Lecce Puglia, sez. II, 09.02.2012, n. 245; Consiglio di Stato, sez. V, 18.10.2011, n. 5566; Consiglio di Stato, sez. VI, 19.04.2011, n. 2434) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 25.09.2012 n. 3938 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE’ principio generale previsto dall’allora vigente art. 7 della legge n. 47/1985 (come interpretato dalla giurisprudenza), e oggi trasposto nell’art. 31 D.P.R. 380/2001, che l’ordine di demolizione possa essere adottato nei confronti del responsabile dell’abuso e del proprietario delle aree anche se non responsabile.
Inoltre, l’art. 14 della legge n. 47/1985, applicabile ratione temporis alla fattispecie de qua, prescriveva che “qualora sia accertata l'esecuzione di opere da parte di soggetti diversi da quelli di cui al precedente articolo 5 in assenza di concessione ad edificare, ovvero in totale o parziale difformità dalla medesima, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici, il sindaco ordina, dandone comunicazione all'ente proprietario del suolo, previa diffida non rinnovabile al responsabile dell'abuso, la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi”.
L’ordinanza di cui all’art. 14 L. 47/1985 -a differenza di quella di cui all’art. 7 della medesima legge e oggi dell’art. 31 D.P.R. 380/2001 che può essere adottata anche nei confronti del proprietario non responsabile- è legittimamente adottata nei confronti del solo responsabile dell’abuso, ovvero di colui che ha realizzato le opere senza concessione edilizia.
La correttezza di siffatta interpretazione si evince anche dalla circostanza che il legislatore nel formulare l’art. 31 D.P.R. 380/2001, recependo gli indirizzi giurisprudenziali, ha fatto riferimento anche al proprietario dell’area come legittimato passivo dell’ingiunzione di demolizione e non solo al responsabile dell’abuso, mentre nel formulare l’art. 35 D.P.R. 380/2001 ha previsto come unico legittimato passivo il responsabile dell’abuso e non anche i soggetti che a qualunque titolo acquistino la disponibilità dell’area demaniale.
Illegittimo si presenta, pertanto, l’ordine di demolizione in quanto la mera circostanza della detenzione dell’area in forza di un contratto di locazione non era sufficiente a giustificare la legittimazione passiva del soggetto intimato rispetto alla ricevuta diffida di riduzione in pristino.

E’ principio generale previsto dall’allora vigente art. 7 della legge n. 47/1985 (come interpretato dalla giurisprudenza), e oggi trasposto nell’art. 31 D.P.R. 380/2001, che l’ordine di demolizione possa essere adottato nei confronti del responsabile dell’abuso e del proprietario delle aree anche se non responsabile.
Inoltre, l’art. 14 della legge n. 47/1985, applicabile ratione temporis alla fattispecie de qua, prescriveva che “qualora sia accertata l'esecuzione di opere da parte di soggetti diversi da quelli di cui al precedente articolo 5 in assenza di concessione ad edificare, ovvero in totale o parziale difformità dalla medesima, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici, il sindaco ordina, dandone comunicazione all'ente proprietario del suolo, previa diffida non rinnovabile al responsabile dell'abuso, la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi”.
L’ordinanza di cui all’art. 14 L. 47/1985 -a differenza di quella di cui all’art. 7 della medesima legge e oggi dell’art. 31 D.P.R. 380/2001 che può essere adottata anche nei confronti del proprietario non responsabile- è legittimamente adottata nei confronti del solo responsabile dell’abuso, ovvero di colui che ha realizzato le opere senza concessione edilizia.
La correttezza di siffatta interpretazione si evince anche dalla circostanza che il legislatore nel formulare l’art. 31 D.P.R. 380/2001, recependo gli indirizzi giurisprudenziali, ha fatto riferimento anche al proprietario dell’area come legittimato passivo dell’ingiunzione di demolizione e non solo al responsabile dell’abuso, mentre nel formulare l’art. 35 D.P.R. 380/2001 ha previsto come unico legittimato passivo il responsabile dell’abuso e non anche i soggetti che a qualunque titolo acquistino la disponibilità dell’area demaniale (TAR Campania Napoli, Sez. VII, 22.03.2012, n. 1445).
Illegittimo si presenta, pertanto, l’ordine di demolizione in quanto la mera circostanza della detenzione dell’area in forza di un contratto di locazione non era sufficiente a giustificare la legittimazione passiva del soggetto intimato rispetto alla ricevuta diffida di riduzione in pristino
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 25.09.2012 n. 3935 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI provvedimenti che irrogano sanzioni previste dalla legge in materia edilizia non necessitano di alcuna specifica motivazione in ordine all’interesse pubblico a disporre il ripristino della situazione conforme a legge, né il Comune ha discrezionalità nello stabilire le sanzioni derivanti dall’inosservanza della normativa urbanistica e di tutela ambientale.
Una volta accertata l'illecita esecuzione di opere abusive in mancanza di concessione (ora permesso di costruire), l’adozione dell'ordinanza di demolizione non necessita di alcuna specifica motivazione sull'interesse pubblico e ne deve essere disposta la demolizione indipendentemente dalla verifica della loro eventuale conformità allo strumento urbanistico e della loro sanabilità.
Infatti, l'abusività di un'opera edilizia costituisce già di per sé sola presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria.
Quanto al profilo del passaggio di un notevole lasso di tempo dalla commissione alla repressione dell’abuso, il Collegio ben conosce quel filone giurisprudenziale secondo cui la repressione dell'abuso edilizio, disposta a distanza di tempo ragguardevole, richiede una puntuale motivazione sull'interesse pubblico al ripristino dei luoghi.
Il Collegio ritiene però di non dover seguire l’indicato orientamento giurisprudenziale, a cui pure alcune volte questa sezione ha aderito, a fronte dell’orientamento giurisprudenziale prevalente, ormai anche di questa sezione, volto in senso contrario e della rilevanza delle argomentazioni che depongono in tal senso.
La giurisprudenza più recente si è espressa, difatti, nel senso che il provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
In ogni caso l’abuso edilizio rappresenta un illecito permanente integrato dalla violazione dell’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei luoghi, di talché ogni provvedimento repressivo dell’Amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un illecito ormai esaurito, bensì interviene su una situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento.

Quanto all’assenza di valutazioni sulla sussistenza dell’interesse pubblico alla demolizione, il Collegio osserva come, in generale i provvedimenti che irrogano sanzioni previste dalla legge in materia edilizia non necessitano di alcuna specifica motivazione in ordine all’interesse pubblico a disporre il ripristino della situazione conforme a legge, né il Comune ha discrezionalità nello stabilire le sanzioni derivanti dall’inosservanza della normativa urbanistica e di tutela ambientale (Consiglio Stato, VI, 28.06.2004, n. 4743; Consiglio Stato, sez. V, 10.07.2003, n. 4107; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 04.02.2003, n. 617; 15.07.2003, n. 8246).
Una volta accertata l'illecita esecuzione di opere abusive in mancanza di concessione (ora permesso di costruire), l’adozione dell'ordinanza di demolizione non necessita di alcuna specifica motivazione sull'interesse pubblico e ne deve essere disposta la demolizione indipendentemente dalla verifica della loro eventuale conformità allo strumento urbanistico e della loro sanabilità (Consiglio Stato, sez. V, 09.01.1996, n. 29).
Infatti, l'abusività di un'opera edilizia costituisce già di per sé sola presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria (Consiglio Stato, sez. V, 30.11.2000, n. 6357, nella specie, non è stata ritenuta necessaria una motivazione "ad hoc" sulla non sanabilità dell'opera stessa, se tale questione non è stata mai posta dal proprietario mercé la presentazione dell'istanza di sanatoria).
Quanto al profilo del passaggio di un notevole lasso di tempo dalla commissione alla repressione dell’abuso, il Collegio ben conosce quel filone giurisprudenziale secondo cui la repressione dell'abuso edilizio, disposta a distanza di tempo ragguardevole, richiede una puntuale motivazione sull'interesse pubblico al ripristino dei luoghi (per tutti Consiglio Stato, Sez. V, 29.05.2006, n. 3270; Consiglio Stato, Sez. V, 25.06.2002, n. 3443).
Il Collegio ritiene però di non dover seguire l’indicato orientamento giurisprudenziale, a cui pure alcune volte questa sezione ha aderito (cfr. TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n. 9620 del; TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 05.05.2009, n. 2357), a fronte dell’orientamento giurisprudenziale prevalente, ormai anche di questa sezione (TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 14.06.2012, n. 2822), volto in senso contrario e della rilevanza delle argomentazioni che depongono in tal senso.
La giurisprudenza più recente si è espressa, difatti, nel senso che il provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (Cons. Stato Sez. IV, 27.10.2011, n. 5758; Cons. Stato Sez. IV, 20.07.2011, n. 4403; Cons. Stato Sez. V, 27.04.2011, dalla n. 2497 alla n. 2527; Cons. Stato Sez. V, 11.01.2011, n. 79; TAR Lombardia Milano Sez. II, 08.09.2011, n. 2183; TAR Lazio Roma Sez. I-quater, 23.06.2011, n. 5582; TAR Campania Napoli Sez. III, 16.06.2011, n. 3211; TAR Campania Napoli Sez. VIII, 09.06.2011, n. 3029; Cons. Stato Sez. V, 09.02.2010, n. 628) e non potendo l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (Cons. Stato Sez. VI, 11.05.2011, n. 2781).
Inoltre, nel caso di specie, parte ricorrente non ha comprovato l’esistenza di un affidamento meritevole di tutela indotto da un comportamento dell’Amministrazione, in quanto non è stato dimostrato che l’immobile abusivo fosse stato menzionato quale oggetto di specifica locazione, ed anzi dal tenore della Delibera di G.M. n. 45 del 15.12.1972, che menziona solo il suolo, si evince il contrario, né è stato allegato agli atti alcun concreto elemento da cui dedurre che la situazione creatasi con la stipula del contratto fosse tale da consentire al medesimo ricorrente di confidare nella regolarità urbanistica del manufatto oggetto di demolizione.
In ogni caso l’abuso edilizio rappresenta un illecito permanente integrato dalla violazione dell’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei luoghi, di talché ogni provvedimento repressivo dell’Amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un illecito ormai esaurito, bensì interviene su una situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento (TAR Brescia, Sez. I, 22.02.2010, n. 860)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 25.09.2012 n. 3935 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Sulla legittimità -o meno- del provvedimento comunale che ha negato l’autorizzazione alla chiusura dell’area privata a uso pubblico destinata a parcheggio nell'ambito di un Piano di Lottizzazione.
(a) in via generale l’argomento del Comune secondo cui l’amministrazione non può rinunciare senza corrispettivo o indennizzo a un bene di uso pubblico appare corretto. Nello specifico il parcheggio al servizio dei negozi è stato realizzato e destinato all’uso pubblico nell’ambito di un piano di lottizzazione commerciale, e dunque il diritto di utilizzazione collettiva è entrato a far parte del demanio comunale al pari del resto del sistema della viabilità.
Il vantaggio per i lottizzanti è consistito nell’edificazione e nella possibilità di adibire le superfici edificate a spazi commerciali. L’equilibrio tra interesse privato e interesse pubblico stabilito nella convenzione urbanistica deve essere preservato, e se l’amministrazione rinuncia a una parte delle facoltà di utilizzazione del parcheggio è necessaria una compensazione in termini monetari o attraverso altre soluzioni giudicate utili per la collettività;
(b) non è invece condivisibile la tesi di segno opposto presentata nel ricorso, ossia che la destinazione pubblicistica del parcheggio sarebbe collegata agli orari dei negozi. In astratto è possibile che le convenzioni urbanistiche introducano un limite orario all’uso pubblico, ma se non viene stipulata una specifica regolamentazione in questo senso si deve ritenere che il diritto di utilizzazione acquisito dall’ente pubblico sia pieno e incondizionato. Solo l’amministrazione può quindi decidere sulle modalità con cui l’utilizzazione deve avvenire;
(c) dove la posizione del Comune appare debole e viziata da profili di illegittimità è nella parte in cui omette di considerare la presenza di un problema di sicurezza pubblica. Il ricorso descrive e documenta ampiamente gli atti di vandalismo perpetrati ai danni di alcuni negozi del centro commerciale da parte di ignoti che sono entrati nel parcheggio durante le ore notturne o di chiusura degli esercizi. Da questa situazione di pericolo e disagio deriva per chi gestisce il centro commerciale e per gli operatori che vi lavorano un’aspettativa a ottenere protezione dal Comune ai sensi dell’art. 54 del Dlgs. 267/2000 e del DM 05.08.2008;
(d) le modalità di tale protezione appartengono alla discrezionalità dell’amministrazione. Una soluzione ammissibile è certamente il blocco dell’accesso al parcheggio negli orari di chiusura del centro commerciale. Si tratterebbe di una misura contingibile e urgente, di durata limitata nel tempo ma estensibile qualora le circostanze lo richiedessero. Con apposita norma regolamentare tale soluzione potrebbe poi anche divenire definitiva. Le ore e le modalità di blocco del parcheggio e dei percorsi pedonali connessi rientrano parimenti nella sfera di discrezionalità dell’amministrazione, ferma restando la possibilità di proporre ricorso giurisdizionale contro scelte irragionevoli;
(e) altre soluzioni possono prevedere invece il mantenimento della piena accessibilità del parcheggio, bilanciata però da una sorveglianza rafforzata da parte della polizia locale, in aggiunta alla vigilanza privata normalmente attivata dai gestori dei centri commerciali;
(f) in ogni caso è necessario che gli uffici comunali effettuino un’attenta ricognizione dell’entità e della frequenza dei fenomeni di vandalismo resi possibili dall’accessibilità del parcheggio del centro commerciale. Parallelamente devono essere valutate, per garantire il contemperamento dei contrapposti interessi, le esigenze di utilizzo del suddetto parcheggio con le stesse modalità di un normale parcheggio pubblico (e quindi per tutte le 24 ore) da parte della collettività o di quanti risiedono nelle vicinanze oppure di quanti giungono nel territorio comunale per eventi particolari;
(g) nonostante l’ampia discrezionalità amministrativa non risulta percorribile la strada dell’imposizione di un canone quale corrispettivo per il blocco del parcheggio in alcune fasce orarie, soluzione inizialmente prospettata dal Comune. Anche se, come si è detto sopra, normalmente ogni rinuncia all’uso di un bene pubblico o di interesse pubblico deve essere accompagnata da una compensazione, questo schema non sembra applicabile nel caso in cui sia necessario tutelare la sicurezza delle persone che sono esposte al rischio di diventare vittime di reati.
L’obiettivo della sicurezza è sufficiente da solo a giustificare la restrizione dell’accesso a un parcheggio di uso pubblico. Al contrario, l’imposizione di un canone equivarrebbe a dare un prezzo alla sicurezza e finirebbe per subordinare a una condizione economica anche un diritto fondamentale, che deve invece essere garantito a tutti indistintamente.

... per l'annullamento della deliberazione giuntale n. 69 del 14.07.2011, con la quale è stata negata l’autorizzazione alla chiusura dell’area privata a uso pubblico destinata a parcheggio situata in via Milano.
...
Sulle questioni proposte nel ricorso si possono formulare le seguenti considerazioni:
(a) in via generale l’argomento del Comune secondo cui l’amministrazione non può rinunciare senza corrispettivo o indennizzo a un bene di uso pubblico appare corretto. Nello specifico il parcheggio al servizio dei negozi è stato realizzato e destinato all’uso pubblico nell’ambito di un piano di lottizzazione commerciale, e dunque il diritto di utilizzazione collettiva è entrato a far parte del demanio comunale al pari del resto del sistema della viabilità.
Il vantaggio per i lottizzanti è consistito nell’edificazione e nella possibilità di adibire le superfici edificate a spazi commerciali. L’equilibrio tra interesse privato e interesse pubblico stabilito nella convenzione urbanistica deve essere preservato, e se l’amministrazione rinuncia a una parte delle facoltà di utilizzazione del parcheggio è necessaria una compensazione in termini monetari o attraverso altre soluzioni giudicate utili per la collettività;
(b) non è invece condivisibile la tesi di segno opposto presentata nel ricorso, ossia che la destinazione pubblicistica del parcheggio sarebbe collegata agli orari dei negozi. In astratto è possibile che le convenzioni urbanistiche introducano un limite orario all’uso pubblico, ma se non viene stipulata una specifica regolamentazione in questo senso si deve ritenere che il diritto di utilizzazione acquisito dall’ente pubblico sia pieno e incondizionato. Solo l’amministrazione può quindi decidere sulle modalità con cui l’utilizzazione deve avvenire;
(c) dove la posizione del Comune appare debole e viziata da profili di illegittimità è nella parte in cui omette di considerare la presenza di un problema di sicurezza pubblica. Il ricorso descrive e documenta ampiamente gli atti di vandalismo perpetrati ai danni di alcuni negozi del centro commerciale da parte di ignoti che sono entrati nel parcheggio durante le ore notturne o di chiusura degli esercizi. Da questa situazione di pericolo e disagio deriva per chi gestisce il centro commerciale e per gli operatori che vi lavorano un’aspettativa a ottenere protezione dal Comune ai sensi dell’art. 54 del Dlgs. 267/2000 e del DM 05.08.2008;
(d) le modalità di tale protezione appartengono alla discrezionalità dell’amministrazione. Una soluzione ammissibile è certamente il blocco dell’accesso al parcheggio negli orari di chiusura del centro commerciale. Si tratterebbe di una misura contingibile e urgente, di durata limitata nel tempo ma estensibile qualora le circostanze lo richiedessero. Con apposita norma regolamentare tale soluzione potrebbe poi anche divenire definitiva. Le ore e le modalità di blocco del parcheggio e dei percorsi pedonali connessi rientrano parimenti nella sfera di discrezionalità dell’amministrazione, ferma restando la possibilità di proporre ricorso giurisdizionale contro scelte irragionevoli;
(e) altre soluzioni possono prevedere invece il mantenimento della piena accessibilità del parcheggio, bilanciata però da una sorveglianza rafforzata da parte della polizia locale, in aggiunta alla vigilanza privata normalmente attivata dai gestori dei centri commerciali;
(f) in ogni caso è necessario che gli uffici comunali effettuino un’attenta ricognizione dell’entità e della frequenza dei fenomeni di vandalismo resi possibili dall’accessibilità del parcheggio del centro commerciale. Parallelamente devono essere valutate, per garantire il contemperamento dei contrapposti interessi, le esigenze di utilizzo del suddetto parcheggio con le stesse modalità di un normale parcheggio pubblico (e quindi per tutte le 24 ore) da parte della collettività o di quanti risiedono nelle vicinanze oppure di quanti giungono nel territorio comunale per eventi particolari;
(g) nonostante l’ampia discrezionalità amministrativa non risulta percorribile la strada dell’imposizione di un canone quale corrispettivo per il blocco del parcheggio in alcune fasce orarie, soluzione inizialmente prospettata dal Comune. Anche se, come si è detto sopra, normalmente ogni rinuncia all’uso di un bene pubblico o di interesse pubblico deve essere accompagnata da una compensazione, questo schema non sembra applicabile nel caso in cui sia necessario tutelare la sicurezza delle persone che sono esposte al rischio di diventare vittime di reati.
L’obiettivo della sicurezza è sufficiente da solo a giustificare la restrizione dell’accesso a un parcheggio di uso pubblico. Al contrario, l’imposizione di un canone equivarrebbe a dare un prezzo alla sicurezza e finirebbe per subordinare a una condizione economica anche un diritto fondamentale, che deve invece essere garantito a tutti indistintamente (TAR Lombardia-Brescia, sez. II, sentenza 25.09.2012 n. 1549 - (link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARI: AL CARABINIERE/ «Invasato» si può dire.
Esclusa la diffamazione per l'automobilista che definisce «invasato in divisa» il carabiniere che, dopo averlo fermato perché parlava al cellulare, controlla tutti i suoi documenti, con chiaro intento vessatorio.
La Suprema corte si schiera con l'indisciplinato utente della strada, considerando lo sfogo un legittimo diritto di critica verso il militare andato oltre l'oggetto principale della contestazione (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 24.09.2012 n. 36741 - articolo Il Sole 24 Ore del 25.09.2012).

PUBBLICO IMPIEGO: Malattia prolungata e sospensione della retribuzione.
Il superamento del periodo di malattia retribuita (come contrattualmente previsto) determina -senza eccezione alcuna- la sospensione del trattamento economico in favore del dipendente, anche in ragione del cessato rapporto sinallagmatico tra prestazione lavorativa e sua remunerazione.
Del tutto eccezionale, di particolare favore e, quindi, di interpretazione restrittiva deve ritenersi una eventuale regolamentazione interna (o altra fonte) che preveda la retribuibilità dei giorni durante i quali il lavoratore si è sottoposto ad accertamenti sanitari richiesti dal datore di lavoro.
Certamente, questo non legittima una estensione del periodo retribuibile oltre queste limitate giornate in cui il dipendente è rimasto a disposizione dell'amministrazione al fine di contribuire ad accertare il proprio reale stato di salute. E' così raggiunto -ad avviso dell'Alto Consesso- un corretto punto di equilibrio.

La sentenza in epigrafe è infatti meritevole di conferma laddove afferma che, anche nell’ambito dell’impiego alle dipendenze di pubbliche amministrazioni, opera il generale principio di tendenziale sinallagmaticità fra la prestazione lavorativa e la controprestazione economica.
Si è condivisibilmente stabilito al riguardo che, in via di principio, il trattamento economico del pubblico dipendente, quale effetto sinallagmatico di un rapporto di servizio, è in diretta correlazione con la prestazione dell'attività di lavoro, per cui solo nel momento in cui detta prestazioni comincia ad essere eseguita decorre l'obbligo per l'amministrazione di corrispondere il trattamento economico, in tutte le sue componenti (Cons. Stato, IV, 22.06.2006, n. 3915).
Ne consegue che le ipotesi in cui al dipendente è comunque riconosciuta la continuità del trattamento stipendiale pure in assenza di una specifica prestazione lavorativa (ipotesi che, pure, sono poste sovente a presidio di interessi di primario rilievo costituzionale) costituiscono un numerus clausus e non possono trovare applicazione al di fuori delle ipotesi contemplate dalle discipline generali e di settore.
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Allo stesso modo, la sentenza in epigrafe risulta meritevole di conferma laddove ha statuito che l’articolo 35 del richiamato regolamento (a tenore del quale “il dipendente assente dal servizio per essere sottoposto ad accertamenti sanitari disposti dall’Amministrazione ai sensi dell’art. 32 –1° comma– ha titolo al trattamento retributivo a lui spettante (…)”) non può essere inteso nel senso di garantire l’integrale retribuibilità del periodo (comunque, non lavorato) necessario per svolgere gli adempimenti finalizzati ad accertare il reale stato di salute del dipendente.
Al contrario, conformemente al richiamato carattere di ius singulare delle disposizioni che ammettono la retribuibilità di tali periodi, deve ritenersi che la disposizione da ultimo richiamata sia da intendere nel senso di garantire la retribuzione relativa ai soli giorni nei quali gli accertamenti sanitari si siano in concreto svolti.
Diversamente opinando, dovrebbe ritenersi instaurata contra legem una inammissibile estensione del periodo di aspettativa di cui al richiamato articolo 31, ovvero l’enucleazione (per via parimenti contra legem) di un’ulteriore e diversa ipotesi di aspettativa di cui non è menzione alcuna nell’ambito della disciplina generale o di settore.
Del resto, anche a voler superare l’approccio fondato sul rapporto fra princìpi generali e normativa speciale (e a voler riguardare la questione secondo un’ottica di sistema), non si individua alcuna ragione logica o giuridica per ammettere in toto la retribuibilità dei periodi (comunque non lavorati) nel corso dei quali si siano svolti accertamenti finalizzati a stabilire il reale stato di salute del dipendente, laddove essi si siano conclusi –come nel caso di specie- nel senso della piena idoneità a svolgere le mansioni di assegnazione.
Sotto tale aspetto il Collegio ritiene che l’approccio volto ad ammettere la retribuibilità dei soli periodi effettivamente impiegati nelle attività diagnostiche e di indagine rappresenti un corretto punto di equilibrio fra –da un lato– l’esigenza di far comunque salvi i periodi in cui il dipendente è rimasto a disposizione dell’amministrazione al fine di contribuire ad accertare il proprio reale stato di salute e –dall’altro– l’esigenza di evitare atteggiamenti iper-protezionistici i quali potrebbero determinare comportamenti opportunistici da parte dei dipendenti, consapevoli del fatto che l’integrale retribuibilità potrebbe consentire loro di conseguire indebite remunerazioni a fronte di stati patologici insussistenti e a fronte di prestazioni lavorative comunque non rese
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.09.2012 n. 5068 - commento tratto da www.publika.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTICds e antitrust. Gare, le Ati monstre illegittime.
È illegittimo sotto il profilo della violazione delle norme Antitrust costituire raggruppamenti temporanei di imprese «sovradimensionate» per partecipare a una gara di appalto se si prova che ciò risulta strumentale all'attuazione di una intesa restrittiva della concorrenza.
Lo afferma il Consiglio di Stato (Sez. VI, sentenza 24.09.2012 n. 5067), ribaltando il giudizio del Tar del Lazio del 2007 sulla gara per la scelta del socio privato per la gestione dei servizi idrici integrati in Toscana.
Per il Consiglio di stato, infatti, non era in discussione la funzione economico-sociale del contratto di associazione temporanea di imprese (ati), né la tipicità legale dello stesso, ma il suo concreto utilizzo con finalità anticoncorrenziale e, quindi, per il perseguimento di interessi illeciti. Il Consiglio di stato afferma che «non è il sovradimensionamento dell'ati in sé ad essere illecito, ma l'inserirsi di tale sovradimensionamento in un contesto di elementi di fatto che denotano i fini illeciti perseguiti con uno strumento, quello dell'ati, in sé lecito».
Se in passato i giudici amministrativi avevano ammesso anche le ati sovradimensionate, dice la sentenza, ciò era avvenuto «senza alcuna presa di posizione, sul piano concorrenziale, se un'ati siffatta costituisca, o meno, intesa restrittiva della concorrenza o effetto di una siffatta intesa. In ogni caso, dice la sentenza, eventuali incentivi legislativi alle aggregazioni di imprese a che formino «massa critica», possono evidentemente giustificarsi solo per forme aggregative lecite e economicamente razionali, giammai illecite intese restrittive della concorrenza.
Per i giudici, «la costituzione di ati sovradimensionate rispetto ai requisiti previsti dai bandi di gara, viene a inserirsi in un più complesso contesto collusivo caratterizzato dall'esistenza di intese a monte rappresentate da accordi puntuali e macroaggregazioni, aventi quale loro oggetto esplicito la disciplina del comportamento delle imprese in vista della stagione di gare attese all'indomani dell'avvio del processo di liberalizzazione nel peculiare settore dei servizi idrici integrati».
E ciò configura un comportamento illecito sanzionabile sotto il profilo della violazione della legge Antitrust (articolo ItaliaOggi del 25.09.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Quanto alla collocazione temporale dell’opera abusiva, rilevante ai fini dell’individuazione della disciplina urbanistica dell’epoca e delle correlative eventuali ipotesi d’insanabilità, secondo i principi generali che presiedono alla determinazione del tempo di realizzazione delle opere ammesse a condono occorre aver riguardo alla data di ultimazione delle opere, da ancorare, per gli edifici, al momento di esecuzione del rustico e di completamento della copertura, e, per le opere interne agli edifici già esistenti ed a quelle non destinate alla residenza, al momento del loro completamento funzionale (v. artt. 1, comma 1, l. prov. n. 15 del 1995 e 25, comma 2, l. prov. n. 4 del 1987, corrispondenti alla previsione dell’art. 31, comma 2, l. n. 47 del 1985).
L’onere della prova dell’ultimazione dei lavori grava sul richiedente la sanatoria, in quanto, mentre l’amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla normativa sul condono, colui che lo richiede può, di regola, procurasi la documentazione da cui si possa desumere che l’abuso sia stato effettivamente realizzato entro la data rilevante (come ad es. fatture, ricevute, bolle di consegna, relative all’esecuzione dei lavori e/o all’acquisto dei materiali).
In tale contesto, la dichiarazione sostitutiva di notorietà dell’intervenuta ultimazione delle opere entro la data rilevante non ha alcuna valenza privilegiata e non preclude all’amministrazione, in sede di esame della pratica, la possibilità di raccogliere nel corso del procedimento elementi di segno contrario e di pervenire a risultanze diverse, senza che a ciò consegua, in sede processuale, l’inversione dell’onere della prova a carico dell’amministrazione medesima.

Quanto alla collocazione temporale dell’opera abusiva, rilevante ai fini dell’individuazione della disciplina urbanistica dell’epoca e delle correlative eventuali ipotesi d’insanabilità, secondo i principi generali che presiedono alla determinazione del tempo di realizzazione delle opere ammesse a condono occorre aver riguardo alla data di ultimazione delle opere, da ancorare, per gli edifici, al momento di esecuzione del rustico e di completamento della copertura, e, per le opere interne agli edifici già esistenti ed a quelle non destinate alla residenza, al momento del loro completamento funzionale (v. artt. 1, comma 1, l. prov. n. 15 del 1995 e 25, comma 2, l. prov. n. 4 del 1987, corrispondenti alla previsione dell’art. 31, comma 2, l. n. 47 del 1985).
Sotto il profilo processuale, secondo il criterio della vicinanza della fonte e dei mezzi di prova alla sfera delle rispettive parti processuali, l’onere della prova dell’ultimazione dei lavori grava sul richiedente la sanatoria (in termini, C.d.S., Sez. VI, 20.03.2012, n. 1563), in quanto, mentre l’amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla normativa sul condono, colui che lo richiede può, di regola, procurasi la documentazione da cui si possa desumere che l’abuso sia stato effettivamente realizzato entro la data rilevante (come ad es. fatture, ricevute, bolle di consegna, relative all’esecuzione dei lavori e/o all’acquisto dei materiali).
In tale contesto, la dichiarazione sostitutiva di notorietà dell’intervenuta ultimazione delle opere entro la data rilevante non ha alcuna valenza privilegiata e non preclude all’amministrazione, in sede di esame della pratica, la possibilità di raccogliere nel corso del procedimento elementi di segno contrario e di pervenire a risultanze diverse, senza che a ciò consegua, in sede processuale, l’inversione dell’onere della prova a carico dell’amministrazione medesima (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.09.2012 n. 5057 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl mutamento di destinazione d'uso di una porzione dell'immobile, portando ad un organismo in parte diverso dal precedente e contribuendo ad aumentare il carico urbanistico, deve ritenersi rientrante nell'ambito della categoria della "ristrutturazione edilizia".
Coerentemente, anche le attività che “non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”, non possono rientrare nella esimente di cui all’art. 149, 1° comma lett. a) d.lgs. n. 42/2004 (di cui –avuto riguardo alla natura eccezionale della relativa disposizione, in quanto prefigurativa di una specifica deroga al regime autorizzatorio ordinario– non pare lecito fornire arbitrarie interpretazioni estensive: arg. ex art. 14 prel.), per difetto del (concorrente e necessario) requisito tipologico (id est, per la argomentata non sussumibilità nella categoria di interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria, di consolidamento statico e restauro conservativo).

Contrariamente a quanto prospettato dal gravame, il mutamento di destinazione d'uso di una porzione dell'immobile, portando ad un organismo in parte diverso dal precedente e contribuendo ad aumentare il carico urbanistico, deve ritenersi rientrante nell'ambito della categoria della "ristrutturazione edilizia", come si evince, del resto, dall'esplicito riferimento a tale tipologia di intervento presente nell'art. 10 comma 1° lettera c) d.p.r. n. 380/2001 (in termini, TAR Lazio Roma, sez. I, 20.09.2011, n. 7432, TAR Sardegna, sez. II, 06.10.2008, n. 1822), come tale sussumibile nella tipologia 3 di cui all’allegato 1 della l. n. 326/2003, che preclude la possibilità di sanatoria per il caso di sussistenza del vincolo di cui all’art. 32 della legge 28.02.1985, n. 47.
Coerentemente, anche le attività che “non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”, non possono, come auspicato, rientrare nella esimente di cui all’art. 149, 1° comma lett. a) d.lgs. n. 42/2004 (di cui –avuto riguardo alla natura eccezionale della relativa disposizione, in quanto prefigurativa di una specifica deroga al regime autorizzatorio ordinario– non pare lecito fornire arbitrarie interpretazioni estensive: arg. ex art. 14 prel.), per difetto del (concorrente e necessario) requisito tipologico (id est, per la argomentata non sussumibilità nella categoria di interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria, di consolidamento statico e restauro conservativo) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.09.2012 n. 1683 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACirca il quadro normativo in materia di mutamenti di destinazione d'uso lo si può riassumere come di seguito riportato.
Prima della legge n. 47/1985, la giurisprudenza amministrativa si era attestata nel senso di ritenere illegittime le disposizioni contenute negli strumenti urbanistici che prevedessero limitazioni del mutamento di destinazione d'uso degli immobili attuato senza opere edilizie, con l'ulteriore corollario che il mutamento dell'uso così attuato non era soggetto alla preventiva acquisizione della concessione edilizia, né dell'autorizzazione edilizia.
Tale assetto mutava per effetto dell'entrata in vigore della legge n. 47/1985. Infatti, dal combinato disposto degli articoli 8, 25 e 26 di tale legge emergeva la seguente disciplina:
a) erano soggetti a regime concessorio soltanto i mutamenti di destinazione d'uso che intervenivano tra categorie funzionalmente autonome sotto il profilo urbanistico, atteso che all'interno della stessa categoria potevano realizzarsi mutamenti di fatto privi di incidenza sui carichi urbanistici;
b) il mutamento di destinazione d'uso accompagnato da qualsiasi intervento edilizio (per il quale non fosse altrimenti prevista la concessione), anche se solo interno, era assoggettato al regime dell'autorizzazione, stante l'espressa previsione dell'applicabilità del regime delle opere interne (di cui all'art. 26, comma 1, della legge n. 47/1985) alle opere che "non modifichino la destinazione d'uso delle costruzioni";
c) il mutamento di destinazione d'uso senza opere era regolato dall'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985, il quale demandava al legislatore regionale il compito di stabilire "criteri e modalità cui dovranno attenersi i comuni, all'atto della predisposizione di strumenti urbanistici, per l'eventuale regolamentazione, in ambiti determinati del proprio territorio, della destinazione d'uso degli immobili, nonché dei casi in cui, per la variazione di essa, sia richiesta la preventiva autorizzazione".
La situazione mutava ulteriormente a seguito della novella apportata all'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985, dall'art. 2, comma 60, della legge n. 662/1996, secondo il quale "le leggi regionali stabiliscono quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, subordinare a concessione, e quali mutamenti connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti siano subordinati ad autorizzazione".
La disposizione in esame, nel delegare definitivamente alle Regioni la disciplina dei mutamenti di destinazione d'uso -e così la facoltà di poter applicare una disciplina uniforme, tanto per quelli di carattere strutturale, quanto per quelli di carattere funzionale- introduceva la facoltà di sottoporre a concessione edilizia i mutamenti d'uso maggiormente significativi, ovvero quelli comportanti un maggiore impatto sull'assetto urbanistico-territoriale (secondo la suddivisione del territorio in zone residenziali ''A'', ''B'' e ''C'', produttive ''D'', agricole ''E'', e destinate ad attrezzature ed impianti di interesse generale ''F'', operata dal D.M. n. 1444/1968), ed a semplice autorizzazione, quelli attuati all'interno della medesima categoria funzionale.
Da ultimo l'art. 10 del D.P.R. 380/2001 ha previsto, al comma 2, che le Regioni stabiliscano con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività.

La conclusione che precede è, del resto, l’unica coerente con il quadro normativo di riferimento in materia di mutamenti di destinazione d'uso, che giova di seguito riassumere (in termini, da ultimo TAR Campania, Napoli, sez. VII, 22.02.2012, n. 885).
Prima della legge n. 47/1985, la giurisprudenza amministrativa (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 28.07.1982, n. 525) si era attestata nel senso di ritenere illegittime le disposizioni contenute negli strumenti urbanistici che prevedessero limitazioni del mutamento di destinazione d'uso degli immobili attuato senza opere edilizie, con l'ulteriore corollario che il mutamento dell'uso così attuato non era soggetto alla preventiva acquisizione della concessione edilizia, né dell'autorizzazione edilizia.
Tale assetto mutava per effetto dell'entrata in vigore della legge n. 47/1985. Infatti, dal combinato disposto degli articoli 8, 25 e 26 di tale legge emergeva la seguente disciplina:
a) erano soggetti a regime concessorio soltanto i mutamenti di destinazione d'uso che intervenivano tra categorie funzionalmente autonome sotto il profilo urbanistico, atteso che all'interno della stessa categoria potevano realizzarsi mutamenti di fatto privi di incidenza sui carichi urbanistici;
b) il mutamento di destinazione d'uso accompagnato da qualsiasi intervento edilizio (per il quale non fosse altrimenti prevista la concessione), anche se solo interno, era assoggettato al regime dell'autorizzazione, stante l'espressa previsione dell'applicabilità del regime delle opere interne (di cui all'art. 26, comma 1, della legge n. 47/1985) alle opere che "non modifichino la destinazione d'uso delle costruzioni";
c) il mutamento di destinazione d'uso senza opere era regolato dall'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985, il quale demandava al legislatore regionale il compito di stabilire "criteri e modalità cui dovranno attenersi i comuni, all'atto della predisposizione di strumenti urbanistici, per l'eventuale regolamentazione, in ambiti determinati del proprio territorio, della destinazione d'uso degli immobili, nonché dei casi in cui, per la variazione di essa, sia richiesta la preventiva autorizzazione".
La situazione mutava ulteriormente a seguito della novella apportata all'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985, dall'art. 2, comma 60, della legge n. 662/1996, secondo il quale "le leggi regionali stabiliscono quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, subordinare a concessione, e quali mutamenti connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti siano subordinati ad autorizzazione".
La disposizione in esame, nel delegare definitivamente alle Regioni la disciplina dei mutamenti di destinazione d'uso -e così la facoltà di poter applicare una disciplina uniforme, tanto per quelli di carattere strutturale, quanto per quelli di carattere funzionale- introduceva la facoltà di sottoporre a concessione edilizia i mutamenti d'uso maggiormente significativi, ovvero quelli comportanti un maggiore impatto sull'assetto urbanistico-territoriale (secondo la suddivisione del territorio in zone residenziali ''A'', ''B'' e ''C'', produttive ''D'', agricole ''E'', e destinate ad attrezzature ed impianti di interesse generale ''F'', operata dal D.M. n. 1444/1968), ed a semplice autorizzazione, quelli attuati all'interno della medesima categoria funzionale.
Da ultimo l'art. 10 del D.P.R. 380/2001 ha previsto, al comma 2, che le Regioni stabiliscano con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.09.2012 n. 1683 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 34 del D.Lgs. 31.03.1998 n. 80 (come sostituito dalla L. 21.07.2000 n. 205 ed in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale 06.07.2004 n. 204), nel devolvere alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto atti e provvedimenti dell’Amministrazione in materia urbanistica ed edilizia, comprende la totalità degli aspetti dell’uso del territorio, nessuno escluso: sicché, come già previsto dall’art. 16 della L. 28.01.1977 n. 10, devono ritenersi rientranti in tale giurisdizione anche le controversie relative alla determinazione, liquidazione e corresponsione degli oneri concessori che involgono diritti soggettivi delle parti, considerato anche che il contributo per oneri di urbanizzazione costituisce un corrispettivo posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione del concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione (in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae) connesso al rilascio della concessione edilizia e pertanto discendente dall’adozione di un provvedimento amministrativo.
In altri termini, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie attinenti alla corresponsione dei suddetti oneri concessori discende dallo stretto collegamento funzionale tra il rilascio delle suddette concessioni edilizie ed i contributi conseguenti a carico del privato, trattandosi appunto di pretesa del Comune fondata su provvedimenti amministrativi non gravati e divenuti inoppugnabili.
Tali argomentazioni sono state svolte anche dalla Corte di Cassazione, secondo cui “la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sussiste anche a prescindere dall'instaurazione di una controversia in via di impugnazione diretta del provvedimento amministrativo, di concessione o di determinazione del contributo, purché fra la controversia ed il provvedimento vi sia uno stretto collegamento funzionale”, aggiungendo inoltre che “rientrano quindi nell'ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in genere aventi ad oggetto l'inadempimento di obblighi nascenti da una concessione. Né rileva che il rapporto concessorio si sia esaurito per decorrenza del termine di durata di esso, poiché la riserva di giurisdizione operata dalla norma a favore del giudice amministrativo riguarda il rapporto di concessione indipendentemente dal fatto che esso sia ancora in vita o sia cessato, purché la controversia ponga in discussione il rapporto nel suo momento genetico o funzionale”.

Invero il Collegio ritiene che non sussistano ragioni valide per discostarsi dal prevalente orientamento giurisprudenziale (già ritenuta da questo Tribunale in fattispecie analoghe: cfr. TAR Salerno, sez. II, nn. 580, 581, 582, 583, e 594/2011) secondo cui l’art. 34 del D.Lgs. 31.03.1998 n. 80 (come sostituito dalla L. 21.07.2000 n. 205 ed in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale 06.07.2004 n. 204), nel devolvere alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto atti e provvedimenti dell’Amministrazione in materia urbanistica ed edilizia, comprende la totalità degli aspetti dell’uso del territorio, nessuno escluso (TAR Campania, Napoli, Sez. I, 26.06.2008 n. 6283, TAR Campania, Salerno, 04.04.2008 n. 475, TAR Piemonte, 17.07.2008 n. 1646): sicché, come già previsto dall’art. 16 della L. 28.01.1977 n. 10, devono ritenersi rientranti in tale giurisdizione anche le controversie relative alla determinazione, liquidazione e corresponsione degli oneri concessori che involgono diritti soggettivi delle parti, considerato anche che il contributo per oneri di urbanizzazione costituisce un corrispettivo posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione del concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione (in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae) connesso al rilascio della concessione edilizia e pertanto discendente dall’adozione di un provvedimento amministrativo (Consiglio di Stato, Sez. V, 21.04.2006 n. 2258).
In altri termini, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie attinenti alla corresponsione dei suddetti oneri concessori discende dallo stretto collegamento funzionale tra il rilascio delle suddette concessioni edilizie ed i contributi conseguenti a carico del privato, trattandosi appunto di pretesa del Comune fondata su provvedimenti amministrativi non gravati e divenuti inoppugnabili.
Tali argomentazioni sono state svolte anche dalla Corte di Cassazione, secondo cui “la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sussiste anche a prescindere dall'instaurazione di una controversia in via di impugnazione diretta del provvedimento amministrativo, di concessione o di determinazione del contributo, purché fra la controversia ed il provvedimento vi sia uno stretto collegamento funzionale”, aggiungendo inoltre che “rientrano quindi nell'ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in genere aventi ad oggetto l'inadempimento di obblighi nascenti da una concessione. Né rileva che il rapporto concessorio si sia esaurito per decorrenza del termine di durata di esso, poiché la riserva di giurisdizione operata dalla norma a favore del giudice amministrativo riguarda il rapporto di concessione indipendentemente dal fatto che esso sia ancora in vita o sia cessato, purché la controversia ponga in discussione il rapporto nel suo momento genetico o funzionale” (Cassazione civile, Sezioni Unite, 20.11.2007 n. 24009).
Il Collegio ritiene inoltre che le conclusioni esposte in ordine alla sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie relative ad oneri concessori non mutano a seconda della natura giuridica pubblica o privata del ricorrente, con la conseguenza che appare del tutto indifferente la circostanza che nel presente giudizio a ricorrere sia il Comune di Salerno e non un privato
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.09.2012 n. 1676 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIl termine prescrizionale relativo agli adempimenti scaturenti da una convenzione annessa ad un piano di lottizzazione, inizia a decorrere dal momento in cui si è esaurito il periodo temporale nel quale l’adempimento relativo aveva il carattere della spontaneità in colleganza con la volontaria concretizzazione di uno specifico obbligo pattizio.
Orbene, posta la validità della convenzione in anni 10 e l’efficacia della stessa per successivi ulteriori anni 10 la relativa prescrizione si consuma nei successivi ulteriori dieci anni.

Per giurisprudenza costante, va osservato che il termine prescrizionale relativo agli adempimenti scaturenti da una convenzione annessa ad un piano di lottizzazione, inizia a decorrere dal momento in cui si è esaurito il periodo temporale nel quale l’adempimento relativo aveva il carattere della spontaneità in colleganza con la volontaria concretizzazione di uno specifico obbligo pattizio.
Orbene, come insegna la giurisprudenza unanime, posta la validità della convenzione in anni 10 e l’efficacia della stessa per successivi ulteriori anni 10 (CdS Sez. IV 03.11.1998 n. 1412; CdS Sez. V 19.03.1991 n. 300) la relativa prescrizione si consuma nei successivi ulteriori dieci anni (C.G.A. 14.12.2009 n. 1187; TAR BS 03.02.2003 n. 65; Tar Veneto Sez. II 01.12.2010; Tar Campania Sez. II n. 2773 del 2007; Tar Marche n. 296 del 12.05.2004)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.09.2012 n. 1676 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - INCARICHI PROFESSIONALIAi fini della rappresentanza in giudizio del Comune, l’autorizzazione alla lite da parte della Giunta comunale non costituisce più, in linea generale, requisito necessario per la proposizione della domanda o la resistenza in giudizio.
Ciò, innanzitutto, perché alla Giunta sono state conferite le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo che non siano riservate dalla legge al Consiglio, mentre spettano ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli Statuti e dai regolamenti, nonché tutti i compiti, compresa l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l’Amministrazione verso l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo Statuto tra le menzionate funzioni di indirizzo (art. 48, 50 e 107 d.lgs. n. 267/2000).
In secondo luogo, perché nel nuovo ordinamento delle autonomie locali il Sindaco ha assunto, ancor più con la legge n. 81/1993, che ne ha previsto l'elezione diretta, un ruolo politico ed amministrativo centrale, in quanto titolare di funzioni di direzione e di coordinamento dell’esecutivo comunale; onde l’autorizzazione (del Consiglio prima e poi) della Giunta, se trovava ragione in un assetto in cui il Sindaco era eletto dal Consiglio e la Giunta costituiva espressione del Consiglio stesso, non ha più ragion d’essere in un sistema in cui il Sindaco trae direttamente la propria investitura dal corpo elettorale e costituisce egli stesso la fonte di legittimazione degli Assessori che compongono la Giunta, cui l’art. 48 d.lgs. n. 267/2000 affida il compito di collaborare con il capo dell’Amministrazione Municipale (salva restando, ovviamente, la possibilità per lo Statuto comunale -competente a stabilire i modi di esercizio della rappresentanza legale dell’ente, anche in giudizio ex art. 6, secondo comma, d.lgs. n. 267/2000- di prevedere l’autorizzazione della Giunta, ovvero di richiedere una preventiva determinazione del competente dirigente, ovvero, ancora, di postulare l’uno o l’altro intervento in relazione alla natura o all’oggetto della controversia).

Vale, con argomento assorbente, osservare come, alla luce del più recente orientamento giurisprudenziale (cfr. da ultimo TAR Sicilia, Catania, 28.05.2012, n. 1348), ai fini della rappresentanza in giudizio del Comune, l’autorizzazione alla lite da parte della Giunta comunale non costituisce più, in linea generale, requisito necessario per la proposizione della domanda o la resistenza in giudizio.
La competenza in materia della Giunta Comunale, come è noto, si fondava sull’art. 35, secondo comma, legge n. 142/1990, secondo cui a tale organo spettavano le attribuzioni residuali su tutti gli atti non riservati dalla legge o dallo Statuto alla competenza del Sindaco o del Consiglio.
Il nuovo quadro delle competenze degli organi del comune, già delineato dalla menzionata legge n. 142/1990 e completato dalle disposizioni successive fino all’approvazione del d.lgs. n. 267 del 2000, ha indotto, però, le Sezioni Unite della Corte (Cass., Sez. Un. n. 17550/2002 e n. 12868/2005) a rivedere il precedente orientamento, anche in considerazione del fatto che la modifica del titolo V della Costituzione, nonché la successiva legge n. 131/2003 di adeguamento dell’ordinamento della Repubblica al nuovo assetto costituzionale, hanno accentuato l’autonomia degli enti locali e nell’ambito di essa le potestà degli Statuti nella gerarchia delle fonti (ormai da considerarsi quali atti normativi atipici con caratteristiche di rango paraprimario o sub-primario).
La Suprema Corte ha, quindi, affermato che, ai fini della rappresentanza in giudizio del Comune, l’autorizzazione alla lite da parte della Giunta Comunale non costituisce più, in linea generale, atto necessario ai fini della proposizione o della resistenza all’azione (o all’impugnazione).
Ciò, innanzitutto, perché alla Giunta sono state conferite le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo che non siano riservate dalla legge al Consiglio, mentre spettano ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli Statuti e dai regolamenti, nonché tutti i compiti, compresa l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l’Amministrazione verso l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo Statuto tra le menzionate funzioni di indirizzo (art. 48, 50 e 107 d.lgs. n. 267/2000).
In secondo luogo, perché nel nuovo ordinamento delle autonomie locali il Sindaco ha assunto, ancor più con la legge n. 81/1993, che ne ha previsto l'elezione diretta, un ruolo politico ed amministrativo centrale, in quanto titolare di funzioni di direzione e di coordinamento dell’esecutivo comunale; onde l’autorizzazione (del Consiglio prima e poi) della Giunta, se trovava ragione in un assetto in cui il Sindaco era eletto dal Consiglio e la Giunta costituiva espressione del Consiglio stesso, non ha più ragion d’essere in un sistema in cui il Sindaco trae direttamente la propria investitura dal corpo elettorale e costituisce egli stesso la fonte di legittimazione degli Assessori che compongono la Giunta, cui l’art. 48 d.lgs. n. 267/2000 affida il compito di collaborare con il capo dell’Amministrazione Municipale (salva restando, ovviamente, la possibilità per lo Statuto comunale -competente a stabilire i modi di esercizio della rappresentanza legale dell’ente, anche in giudizio ex art. 6, secondo comma, d.lgs. n. 267/2000- di prevedere l’autorizzazione della Giunta, ovvero di richiedere una preventiva determinazione del competente dirigente, ovvero, ancora, di postulare l’uno o l’altro intervento in relazione alla natura o all’oggetto della controversia)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.09.2012 n. 1675 e sentenza 24.09.2012 n. 1674 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICALo strumento convenzionale” è fonte di obbligazioni propter rem ed è, pertanto, astrattamente idoneo a vincolare anche i successivi aventi causa del proprietario stipulante.
La giurisprudenza in materia di convenzioni urbanistiche è, infatti, consolidata nel ritenere che “lo strumento convenzionale” è fonte di obbligazioni propter rem ed è, pertanto, astrattamente idoneo a vincolare anche i successivi aventi causa del proprietario stipulante (v. in tal senso Cass., 26.11.1988, n. 6382) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.09.2012 n. 1675 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl carattere interlocutorio delle note dell’Amministrazione, implicante comunque assenza della manifestazione della volontà conclusiva della P.A., non è idoneo ad interrompere il silenzio serbato dalla stessa. Trattasi di atti soprassessori non impugnabili alla luce della loro natura meramente interlocutoria, inidonea a manifestare la volontà dell’Amministrazione.
Il decorso del termine previsto per la conclusione del procedimento non consuma il potere dell’Amministrazione di provvedere in senso satisfattivo o negativo o anche interlocutorio, purché ovviamente l’atto interlocutorio non sia meramente strumentale al superamento dell’inerzia, che in questa ipotesi è destinata a permanere.

Deve convenirsi con la ricorrente circa il carattere meramente soprassessorio della prefata nota, inidoneo, pertanto, a far cessare lo stato di denunziata inerzia da parte dell’Amministrazione, e tanto in conformità all’indirizzo, palesato nelle massime che seguono: “Il carattere interlocutorio delle note dell’Amministrazione, implicante comunque assenza della manifestazione della volontà conclusiva della P.A., non è idoneo ad interrompere il silenzio serbato dalla stessa. Trattasi di atti soprassessori non impugnabili alla luce della loro natura meramente interlocutoria, inidonea a manifestare la volontà dell’Amministrazione” (TAR Campania Napoli – Sez. VII – 07.06.2012, n. 2707); “Il decorso del termine previsto per la conclusione del procedimento non consuma il potere dell’Amministrazione di provvedere in senso satisfattivo o negativo o anche interlocutorio, purché ovviamente l’atto interlocutorio non sia meramente strumentale al superamento dell’inerzia, che in questa ipotesi è destinata a permanere” (Consiglio Stato – Sez. IV – 15.01.2009, n. 179) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.09.2012 n. 1668 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALILe assenze per mancato intervento dei Consiglieri alle sedute del Consiglio comunale non debbono essere giustificate preventivamente di volta in volta.
Le giustificazioni possono essere fornite successivamente, anche dopo la notificazione all’interessato della proposta di decadenza, ferma restando l’ampia facoltà di apprezzamento del Consiglio comunale in ordine alla fondatezza, serietà e rilevanza delle circostanze addotte.
I i presupposti dai quali consegue la decadenza vanno interpretati restrittivamente e con estremo rigore, data la limitazione che la stessa comporta all’esercizio di un “munus publicum”.
Le assenze danno luogo a revoca quando denotano un atteggiamento di disinteresse, ovvero motivi futili o inadeguati rispetto agli impegni presi con l’incarico pubblico elettivo.
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► le prerogative del Consigliere comunale non si esauriscono nella partecipazione alle sedute dell’organo cui appartiene, ma contemplano lo svolgimento di tutta una serie di attività individuali di carattere propulsivo, conoscitivo e di controllo;
► l’astensionismo ingiustificato di un Consigliere comunale costituisce legittima causa di decadenza sul presupposto del disinteresse e della negligenza che l’amministratore mostra nell’adempiere il proprio mandato, con ciò generando non solo difficoltà di funzionamento dell’organo collegiale cui appartiene, ma violando l’impegno assunto con il corpo elettorale che lo ha eletto e che ripone in lui la dovuta fiducia politico-amministrativa;
► rientra nel diritto del Consigliere comunale l’impiego di tutti gli strumenti giuridici offerti dall’ordinamento per opporsi a decisioni non condivise (quali, ad esempio, l’espressione di voto contrario, l’astensione dal voto o l’omessa partecipazione alla seduta anche al fine di impedire il formarsi del quorum strutturale).
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L’assenza di qualsivoglia attività istituzionale del Consigliere –anche in forme alternative– unita alla (pur motivata) decisione di non partecipare alle riunioni del Consiglio oscura oggettivamente il ruolo istituzionale assunto con il mandato, e giustifica la decisione di dichiarare la decadenza.
La manifestazione di dissenso politico può esprimersi in ambiti differenti, ma deve comunque estrinsecarsi in azioni capaci di dare attuazione (in qualsiasi modo) al mandato elettivo. L’inerzia totale non può –anche ove costituisca il frutto di una scelta mirata– protrarsi oltre un tempo ragionevole, poiché diversamente opinando verrebbe compromesso il rapporto eletti/elettori, dato che il ruolo dei primi risulta completamente azzerato.

Riepiloga il Collegio i principi enucleati dal Consiglio di Stato (sez. V – 09/10/2007 n. 5277), il quale ha in materia statuito che:
• le assenze per mancato intervento dei Consiglieri alle sedute del Consiglio comunale non debbono essere giustificate preventivamente di volta in volta;
• le giustificazioni possono essere fornite successivamente, anche dopo la notificazione all’interessato della proposta di decadenza, ferma restando l’ampia facoltà di apprezzamento del Consiglio comunale in ordine alla fondatezza, serietà e rilevanza delle circostanze addotte;
• i presupposti dai quali consegue la decadenza vanno interpretati restrittivamente e con estremo rigore, data la limitazione che la stessa comporta all’esercizio di un “munus publicum”;
• le assenze danno luogo a revoca quando denotano un atteggiamento di disinteresse, ovvero motivi futili o inadeguati rispetto agli impegni presi con l’incarico pubblico elettivo.
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Sulla natura di “protesta politica” delle assenze, da apprezzare politicamente e discrezionalmente da parte dell’organo consiliare, la giurisprudenza ha rilevato che l’unico profilo in relazione al quale è ammissibile il sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti della pubblica amministrazione è quello giuridico (Consiglio di Stato, sez. V – 24/03/2011 n. 1789). Nello specifico questo Tribunale, nella pronuncia 28/04/2011 n. 638 (che risulta appellata) ha richiamato un proprio precedente (sentenza 10/04/2006 n. 383), ai sensi del quale:
le prerogative del Consigliere comunale non si esauriscono nella partecipazione alle sedute dell’organo cui appartiene, ma contemplano lo svolgimento di tutta una serie di attività individuali di carattere propulsivo, conoscitivo e di controllo;
l’astensionismo ingiustificato di un Consigliere comunale costituisce legittima causa di decadenza sul presupposto del disinteresse e della negligenza che l’amministratore mostra nell’adempiere il proprio mandato, con ciò generando non solo difficoltà di funzionamento dell’organo collegiale cui appartiene, ma violando l’impegno assunto con il corpo elettorale che lo ha eletto e che ripone in lui la dovuta fiducia politico-amministrativa;
rientra nel diritto del Consigliere comunale l’impiego di tutti gli strumenti giuridici offerti dall’ordinamento per opporsi a decisioni non condivise (quali, ad esempio, l’espressione di voto contrario, l’astensione dal voto o l’omessa partecipazione alla seduta anche al fine di impedire il formarsi del quorum strutturale).
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L’assenza di qualsivoglia attività istituzionale del Consigliere –anche in forme alternative– unita alla (pur motivata) decisione di non partecipare alle riunioni del Consiglio oscura oggettivamente il ruolo istituzionale assunto con il mandato, e giustifica la decisione di dichiarare la decadenza.
La manifestazione di dissenso politico può esprimersi in ambiti differenti, ma deve comunque estrinsecarsi in azioni capaci di dare attuazione (in qualsiasi modo) al mandato elettivo. L’inerzia totale non può –anche ove costituisca il frutto di una scelta mirata– protrarsi oltre un tempo ragionevole, poiché diversamente opinando verrebbe compromesso il rapporto eletti/elettori, dato che il ruolo dei primi risulta completamente azzerato
 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 24.09.2012 n. 1541 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIIN AZIENDA/ «Incapace» non si dice.
Nel corso di un'assemblea aziendale non si può dire che un impiegato è stato rimosso perché inadeguato.
Per la Cassazione è diffamante la frase «per valutata incapacità a ricoprire il ruolo» pronunciata dal presidente di una società e riferita a un dipendente facilmente identificabile grazie all'indicazione dell'attività svolta.
È un apprezzamento «idoneo a ingenerare un'opinione sfavorevole e a ingenerare nel soggetto attinto un sentimento di frustrazione» (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 21.09.2012 n. 36371 - articolo Il Sole 24 Ore del 25.09.2012).

APPALTI: Sull'annotazione nei verbali di gara dell'orario di apertura e di chiusura dei lavori.
In materia di gare pubbliche di appalto l'indicazione della durata delle operazioni verbalizzate (e, quindi, dell'orario di inizio e di chiusura della seduta collegiale) in alcuni casi può essere considerato un elemento essenziale (ad esempio, per i verbali delle commissioni di concorso, perché tale dato può essere necessario per controllare la ponderatezza delle relative determinazioni); in altri casi, cioè nelle ipotesi in cui si evince altrimenti che la valutazione sia stata attenta e ponderata può risultare, invece, superflua.
In sostanza le lacune del verbale possano causare l'invalidità dell'atto verbalizzato solo nel caso in cui esse riguardino aspetti dell'azione amministrativa la cui conoscenza risulti necessaria per poterne verificare la correttezza; mentre quelle che riguardano aspetti diversi e non determinanti danno luogo a mere irregolarità formali non idonee a comportare l'illegittimità dell'atto che tali omissioni presenti (TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis, sentenza 21.09.2012 n. 8015 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTIIn materia di gare pubbliche di appalto l'indicazione della durata delle operazioni verbalizzate (e, quindi, dell'orario di inizio e di chiusura della seduta collegiale) in alcuni casi può essere considerato un elemento essenziale (ad esempio, per i verbali delle commissioni di concorso, perché tale dato può essere necessario per controllare la ponderatezza delle relative determinazioni); in altri casi, cioè nelle ipotesi in cui si evince altrimenti che la valutazione sia stata attenta e ponderata può risultare, invece, superflua.
In sostanza, le lacune del verbale possano causare l'invalidità dell'atto verbalizzato solo nel caso in cui esse riguardino aspetti dell'azione amministrativa la cui conoscenza risulti necessaria per poterne verificare la correttezza; mentre quelle che riguardano aspetti diversi e non determinanti danno luogo a mere irregolarità formali non idonee a comportare l'illegittimità dell'atto che tali omissioni presenti.

Per quanto concerne, invece, l’annotazione dell’orario la giurisprudenza amministrativa, evidenziata anche dalla difesa erariale, ha chiarito che "In materia di gare pubbliche di appalto l'indicazione della durata delle operazioni verbalizzate (e, quindi, dell'orario di inizio e di chiusura della seduta collegiale) in alcuni casi può essere considerato un elemento essenziale (ad esempio, per i verbali delle commissioni di concorso, perché tale dato può essere necessario per controllare la ponderatezza delle relative determinazioni); in altri casi, cioè nelle ipotesi in cui si evince altrimenti che la valutazione sia stata attenta e ponderata può risultare, invece, superflua. In sostanza le lacune del verbale possano causare l'invalidità dell'atto verbalizzato solo nel caso in cui esse riguardino aspetti dell'azione amministrativa la cui conoscenza risulti necessaria per poterne verificare la correttezza; mentre quelle che riguardano aspetti diversi e non determinanti danno luogo a mere irregolarità formali non idonee a comportare l'illegittimità dell'atto che tali omissioni presenti" (Cons. Stato V, 22.02.2011 n. 1094).
Nel caso di specie, la mancata indicazione dell’orario degrada a mera irregolarità non potendosi seriamente revocare in dubbio, in mancanza di concreti indizi di segno contrario, l’attendibilità della determinazione amministrativa ovvero la ponderatezza del relativo esame svolto dalla commissione (TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis, sentenza 21.09.2012 n. 8015 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa fase della valutazione sostanziale si svolge in seduta riservata, fermo l’obbligo di seduta pubblica per la apertura delle buste e per la verifica al loro interno della presenza della documentazione necessaria alla luce dei principi di correttezza, pubblicità, trasparenza e par condicio di cui all’art. 2, commi 1 e 3, D.lgs. n. 163/2006 e di cui all’art. 1, comma 1, legge n. 241/1990.
Deve essere, infine, respinto l’ultimo motivo di appello relativo alla illegittimità della verifica in seduta non pubblica della completezza e regolarità della documentazione presentata da ciascun concorrente.
Anche dai rigorosi principi deducibili dalla sentenza n. 13/2011 dell’Adunanza plenaria (che si riferisce al diverso caso della valutazione tecnico-discrezionale dell’offerta economicamente più vantaggiosa), può ricavarsi che la fase della valutazione sostanziale si svolge in seduta riservata, fermo l’obbligo di seduta pubblica per la apertura delle buste e per la verifica al loro interno della presenza della documentazione necessaria alla luce dei principi di correttezza, pubblicità, trasparenza e par condicio di cui all’art. 2, commi 1 e 3, D.lgs. n. 163/2006 e di cui all’art. 1, comma 1, legge n. 241/1990 (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 21.09.2012 n. 5048 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL’esercizio del potere di ordinanza extra ordinem presuppone la sussistenza di una situazione di particolare gravità, eccezionale e imprevista, che costituisca una minaccia per la pubblica incolumità, situazione per la quale non sia possibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall’ordinamento giuridico.
Il ricorso a questo tipo di provvedimento presuppone sempre un preventivo e puntuale accertamento della situazione di fatto che deve fondarsi su prove concrete e non su mere presunzioni.
Il ricorso a questo strumento si giustifica, in materia igienico-sanitaria, per ovviare a situazioni di grave degrado degli immobili, insalubrità dei luoghi, o per pericolo di contagio per le persone o gli animali.

E’ orientamento consolidato che l’esercizio del potere di ordinanza extra ordinem presuppone la sussistenza di una situazione di particolare gravità, eccezionale e imprevista, che costituisca una minaccia per la pubblica incolumità, situazione per la quale non sia possibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall’ordinamento giuridico (ex multis Cons. Stato IV, 24.03.2006 n. 1537).
Il ricorso a questo tipo di provvedimento presuppone sempre un preventivo e puntuale accertamento della situazione di fatto che deve fondarsi su prove concrete e non su mere presunzioni (Cons. Stato, sez. VI, 05.09.2005 n. 4252).
Il ricorso a questo strumento si giustifica, in materia igienico-sanitaria, per ovviare a situazioni di grave degrado degli immobili, insalubrità dei luoghi, o per pericolo di contagio per le persone o gli animali.
Nel caso di specie il Collegio ritiene che non ricorrano quelle condizioni di eccezionale urgenza e gravità da giustificare il ricorso al potere di cui all’art. 54 del D.L.gs 267/2000: l’ordinanza contestata è stata adottata in quanto il portico adibito a parcheggio risulterebbe “in cattivo stato di pulizia”, al fine di evitare “cattive esalazione o altri inconvenienti igienico-sanitari”, senza tuttavia che sia stata valutata l’incidenza di tale fenomeno sulla salute pubblica e sull’ambiente ed in carenza di istruttoria.
L’ASL stessa si è limitata a rilevare che “quanto lamentato sia sostanzialmente causato da azioni comportamentali eventualmente disciplinate dal Codice Civile, nonché da norme condominiali”, richiamando l’art. 3.3.28 del Regolamento Locale d’Igiene che impone ai proprietari degli spazi privati di tenerli puliti e sgomberi da materiali che possano causare umidità esalazioni o altri inconvenienti.
Si evince quindi dalla nota che non è mai stato neppure effettuato alcun sopralluogo da parte dell’Autorità sanitaria competente, ma il Sindaco ha adottato il provvedimento sulla base della sola segnalazione del privato, in cui si lamenta dello sporco lasciato dagli pneumatici e di “escrementi e piume di rondine”.
Appare evidente che l’ordinanza è viziata in relazione ai profili rilevati nel ricorso, per violazione degli artt. 54 del D.Lgs 267/2000: il Sindaco è ricorso ad uno strumento “eccedente” rispetto alla situazione di fatto, che non presentava né i presupposti di pericolosità, né di urgenza.
La situazione attiene ad una semplice controversia tra vicini e l’ordinanza pare proprio configurarsi come il caso di scuola di eccesso di potere per sviamento dalla causa tipica: è stato infatti emesso un atto, non solo in assenza dei presupposti di legge, ma al fine di dirimere una controversia tra proprietari limitrofi.
E l’uso di un potere pubblico a tale scopo risulta ancor più manifestamente in contrasto con il principio di buona amministrazione e di imparzialità se si considera che il procedimento è stato avviato a fronte di una segnalazione del coniuge di un vigile urbano del Comune, residente nel medesimo immobile (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 21.09.2012 n. 2368 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La portata dei requisiti soggettivi richiesti dalla lex specialis, in via di integrazione della disciplina legale in materia di qualificazione, deve essere interpretata in modo da evitare l'introduzione di barrriere selettive anticompetitive.
In omaggio al principio del favor partecipationis, la portata dei requisiti soggettivi richiesti dalla lex specialis, in via di integrazione della disciplina legale in materia di qualificazione, deve essere interpretata in modo da evitare l'introduzione di una barriera di ingresso anticompetitiva che restringa, in modo non ragionevole e non necessario, la platea dei potenziali competitori.
Il generico riferimento all'esperienza maturata nell'esecuzione di precedenti contratti di appalto deve essere quindi riempito di contenuto seguendo un approccio ermeneutico estensivo, idoneo a valorizzare i lavori che, pur se non perfettamente sovrapponibili a quello oggetto della specifica gara, rivelino la maturazione di capacità tecniche e operative utili, sul piano teleologico, a dimostrare la specifica affidabilità dell'impresa con riguardo all'oggetto delle prestazioni dedotte nel contratto di cui alla procedura di gara (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.09.2012 n. 5009 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATAVa riconosciuto come il Comune sia tenuto a rispondere espressamente alla domanda con la quale i proprietari di immobili terreni limitrofi a quello interessato da un supposto abuso edilizio chiedano l’adozione di provvedimenti repressivi e, ove sussistano le condizioni, anche ad assumere gli stessi ed, allo stesso modo, l’attività di verifica ed eventuale repressione deve essere posta in essere in presenza di una situazione complessa, come quella in questione, in cui vi è anche un aspetto relativo alla sicurezza e la necessità di uno specifico del parere Comitato Tecnico Regionale prevenzione incendi.
Ne deriva che il proprietario o detentore di un'area o di un fabbricato, nella cui sfera giuridica incida dannosamente il mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi da parte dell'organo preposto avverso abusi edilizi, è titolare di un interesse qualificato alla salvaguardia delle caratteristiche urbanistiche della zona, che si realizza non solo attraverso il potere di denuncia di cui al citato art. 27, ma anche attraverso la pretesa di una pronuncia, se non vengono adottate le misure richieste, e cioè di un provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni.
In conclusione, in materia edilizia, l’obbligo del Comune di provvedere sussiste non solo nei casi in cui i privati -che abbiano uno stabile collegamento con la zona interessata dall’abuso- chiedano un atto ampliativo a loro favore ma anche quando, come nel caso di specie, chiedano il rispetto dei titoli abilitativi rilasciati, degli strumenti urbanistici o della disciplina edilizia attraverso l’eliminazione di abusi (intendendo per tali gli interventi effettuati in violazione degli uni o dell’altra).

Viene in giurisprudenza generalmente riconosciuto come il Comune sia tenuto a rispondere espressamente alla domanda con la quale i proprietari di immobili terreni limitrofi a quello interessato da un supposto abuso edilizio chiedano l’adozione di provvedimenti repressivi e, ove sussistano le condizioni, anche ad assumere gli stessi (TAR Lazio-Latina, 24.10.2003, n. 876; Consiglio Stato, sez. V, 26.11.1994, n. 1381) ed, allo stesso modo, l’attività di verifica ed eventuale repressione deve essere posta in essere in presenza di una situazione complessa, come quella in questione, in cui vi è anche un aspetto relativo alla sicurezza e la necessità di uno specifico del parere Comitato Tecnico Regionale prevenzione incendi.
Ne deriva che il proprietario o detentore di un'area o di un fabbricato, nella cui sfera giuridica incida dannosamente il mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi da parte dell'organo preposto avverso abusi edilizi, è titolare di un interesse qualificato alla salvaguardia delle caratteristiche urbanistiche della zona, che si realizza non solo attraverso il potere di denuncia di cui al citato art. 27, ma anche attraverso la pretesa di una pronuncia, se non vengono adottate le misure richieste, e cioè di un provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni.
In conclusione, in materia edilizia, l’obbligo del Comune di provvedere sussiste non solo nei casi in cui i privati -che abbiano uno stabile collegamento con la zona interessata dall’abuso- chiedano un atto ampliativo a loro favore ma anche quando, come nel caso di specie, chiedano il rispetto dei titoli abilitativi rilasciati, degli strumenti urbanistici o della disciplina edilizia attraverso l’eliminazione di abusi (intendendo per tali gli interventi effettuati in violazione degli uni o dell’altra) (TAR Campania Napoli, Sez. IV, n. 2766/2012) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 20.09.2012 n. 3901 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo di rispetto ferroviario è sempre stato considerato come vincolo di inedificabilità relativa e non assoluta.
Tale qualificazione ha consentito, tra l’altro, di permettere l’utilizzo dell’autorizzazione in deroga anche in sanatoria di edificazioni già compiute, rendendo evidente come il mero ritardo nella richiesta, anche quando proposta tramite un soggetto terzo, e nel rilascio di tale autorizzazione, non possano portare all’illegittimità della concessione edilizia rilasciata.

Il citato d.P.R. 11.07.1980, n. 753 “Nuove norme in materia di polizia, sicurezza e regolarità dell'esercizio delle ferrovie e di altri servizi di trasporto”, all’art. 60, prevede: “Quando la sicurezza pubblica, la conservazione delle ferrovie, la natura dei terreni e le particolari circostanze locali lo consentano, possono essere autorizzate dagli uffici lavori compartimentali delle F.S., per le ferrovie dello Stato, e dai competenti uffici della M.C.T.C., per le ferrovie in concessione, riduzioni alle distanze prescritte dagli articoli dal 49 al 56.
I competenti uffici della M.C.T.C., prima di autorizzare le richieste riduzioni delle distanze legali prescritte, danno, mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento, comunicazione alle aziende interessate delle richieste pervenute, assegnando loro un termine perentorio di giorni trenta per la presentazione di eventuali osservazioni.
Trascorso tale termine, i predetti uffici possono autorizzare le riduzioni richieste
”.
Nel caso in esame, risulta agli atti come il soggetto preposto alla tutela, ossia RFI - Rete Ferroviaria Italiana, avesse effettivamente autorizzato il citato intervento relativo alla stazione autolinee, in deroga alle distanze minime previste dai binari e dalle rotatorie ferroviarie più vicine, con lettera del 25.10.2002, dove espressamente si legge: “autorizza l'intervento in oggetto alla distanza minima di mt. 9,60 dalla più vicina rotaia FS”.
Le parti appellate lamentano tuttavia come la detta autorizzazione in deroga non sia in ogni caso legittima, non potendo incidere sulla correttezza della concessione rilasciata, sia perché non comprendente tutte le opere realizzate, ed in specie l’ulteriore recinzione posta a distanza ancora inferiore dal tratto delle rotaie, sia per i vizi procedurali che la connotano.
Gli ulteriori profili di censura non possono essere condivisi.
In merito poi alla recinzione, non vi sono elementi che inficino l’affermazione del Comune per cui questa fosse un manufatto esistente e non di nuova costruzione, tanto da essere indicata nel progetto di cui alla concessione come mera ricostruzione, e quindi non integrante i presupposti per l’applicazione dell’autorizzazione in deroga di cui al citato art. 60 e, quindi, nemmeno a legittimare una richiesta di provvedimento in tal senso.
Rispetto poi ai profili procedurali di tale rilascio, e quindi in relazione al tema della tardività del rilascio ed al soggetto al quale la stessa è stata rilasciata, occorre ricordare come in giurisprudenza, il vincolo di rispetto ferroviario sia sempre stato considerato come vincolo di inedificabilità relativa e non assoluta. Tale qualificazione ha consentito, tra l’altro, di permettere l’utilizzo dell’autorizzazione in deroga anche in sanatoria di edificazioni già compiute (ad esempio in relazione ai profili di sanatoria di abusi edilizi, vedi da ultimo TAR Toscana, sez. III, 18.01.2010 n. 37), rendendo evidente come il mero ritardo nella richiesta, anche quando proposta tramite un soggetto terzo, e nel rilascio di tale autorizzazione, non possano portare all’illegittimità della concessione edilizia rilasciata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.09.2012 n. 4974 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'art. 83 del Codice degli Appalti inibisce alla Commissione giudicatrice di suddividere i criteri valutativi previsti dal bando in dettagliati sottocriteri cui attribuire specifici sottopunteggi, procedendo per questa via ad una formale e sostanziale integrazione e/o modificazione del bando stesso.
Ed invero, secondo l’insegnamento della giurisprudenza amministrativa richiamata dalla stessa appellante, l’invocato art. 83 del Codice degli Appalti inibisce alla Commissione giudicatrice di suddividere i criteri valutativi previsti dal bando in dettagliati sottocriteri cui attribuire specifici sottopunteggi, procedendo per questa via ad una formale e sostanziale integrazione e/o modificazione del bando stesso.
Nella specie, però, la Commissione di gara non ha introdotto formalmente alcun nuovo sottocriterio di valutazione né alcun specifico sottopunteggio da assegnare alle offerte, limitandosi a specificare i fattori che sarebbero stati considerati, nell’ambito dei criteri individuati in sede di lex specialis, per valutare le offerte stesse .
Infatti, come risulta dal verbale n. 3 del 25.07.2011, prima di aprire le buste contenenti le offerte tecniche, la Commissione ha semplicemente deliberato “che nella seduta odierna verrà anche esposto il metodo che la commissione giudicatrice utilizzerà per la valutazione delle offerte tecniche laddove il bando non è esaustivo; si allega al presente verbale pertanto la metodologia esposta per l’analisi dell’offerta tecnica”.
Correttamente, pertanto, il primo giudice ha osservato che “In realtà la commissione si è limitata ad esporre il metodo che avrebbe utilizzato per valutare le offerte tecniche laddove i criteri del bando erano eccessivamente ampi, sì da circoscrivere la propria discrezionalità nella (successiva) attribuzione del punteggio,fornendo sostanzialmente –mettendo in evidenza i fattori che sarebbero stati considerati– gli elementi della motivazione dei propri giudizi” .
Tale modus agendi, quindi, piuttosto che determinare una formale e sostanziale integrazione e/o modificazione del bando costituisce, sempre come correttamente osservato dal TAR, un’operazione con cui la Commissione ha aumentato la trasparenza della procedura, formalizzando “le operazioni retrostanti ai giudizi che sarebbero stati formulati” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.09.2012 n. 4971 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’ambito di applicazione del richiamato art. 38 va riferito ai soli amministratori della società e non anche all’institore.
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Quando il soggetto risulti in possesso di tutti i requisiti richiesti e la lex specialis non preveda espressamente la sanzione dell'esclusione a seguito della mancata osservanza delle puntuali prescrizioni sulle modalità e sull'oggetto delle dichiarazioni da fornire, l'omissione delle dichiarazioni stesse non produce alcun pregiudizio agli interessi presidiati dalla norma, ricorrendo al più un'ipotesi di falso innocuo , come tale inidoneo a legittimare l'esclusione del concorrente.
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L'avvalimento previsto dal Codice degli appalti non è imperativamente disciplinato dalla legge nei suoi aspetti formali e nel suo contenuto sostanziale.
Infatti, l’art. 49 del D.lgs 163/2006 si limita a disporre che il concorrente, in tale ipotesi, deve semplicemente allegare “una dichiarazione…….attestante l’avvalimento dei requisiti necessari per la partecipazione alla gara, con specifica indicazione dei requisiti stessi e dell’impresa ausiliaria”, nonché “una dichiarazione sottoscritta dall’impresa ausiliaria con cui quest’ultima si obbliga verso il concorrente e verso la stazione appaltante a mettere a disposizione per tutta la durata dell’appalto le risorse necessarie di cui è carente il concorrente.”
Ne deriva che per l’esistenza e l’operatività del contratto di avvalimento non sono necessari, in linea di principio, contenuti particolari e/o predeterminati, né specifiche tassative formalità, oltre a quelle specificate dalla norma.

Ed invero, osserva il Collegio come nella specie né il bando di gara né la lettera d’invito imponevano alle imprese ausiliarie di presentare la dichiarazione ex art. 38 del D.lgs. 163/2006 .
Ciò posto, atteso che l’obbligo di presentare la predetta dichiarazione non è –ex se- estensibile a soggetti terzi (in assenza di esplicito rinvio), ne consegue che le imprese ausiliarie erano tenute a fornire le sole dichiarazioni espressamente richieste dall’art. 49, comma 2, lett. c), del medesimo D.lgs. 163/2006 .
Infatti, nel regolamentare gli obblighi informativi che gravano sul concorrente che si avvalga di una impresa terza, il citato art. 49 prevede l’obbligo di fornire la sola “dichiarazione sottoscritta da parte dell’impresa ausiliaria attestante il possesso da parte di quest’ultima dei requisiti generali di cui all’articolo 38”, ricollegando la sanzione espulsiva al solo caso di dichiarazioni mendaci (di cui al comma 3 del citato art. 49).
Non v’è dubbio, pertanto, che la comminatoria di esclusione che la lex specialis di gara ricollega alla mancata presentazione delle dichiarazioni di cui all’art. 38, nell’assenza di una formale e specifica estensione all’impresa ausiliaria, non può ritenersi applicabile a quest’ultima, contrariamente a quanto erroneamente ritenuto dall’appellante.
A ciò aggiungasi che secondo il più recente insegnamento della Sezione, da cui il Collegio non ha motivo di discostarsi, l’ambito di applicazione del richiamato art. 38 va riferito ai soli amministratori della società e non anche all’institore (cfr. Sez. V, 21.10.2011, n. 6136; 25.01.2011, n. 513 ).
La società aggiudicataria, quindi, non avrebbe comunque dovuto presentare le dichiarazioni di cui all’art. 38 relativamente al Sig. Aniello, non rivestendo quest’ultimo la carica formale di amministratore della Ecologia Falzarano.
In ogni caso, come correttamente rilevato dal primo giudice, quando il soggetto risulti in possesso di tutti i requisiti richiesti (cfr. certificato del casellario penale del Sig. Aniello) e la lex specialis non preveda espressamente la sanzione dell'esclusione a seguito della mancata osservanza delle puntuali prescrizioni sulle modalità e sull'oggetto delle dichiarazioni da fornire, l'omissione delle dichiarazioni stesse non produce alcun pregiudizio agli interessi presidiati dalla norma, ricorrendo al più un'ipotesi di falso innocuo , come tale inidoneo a legittimare l'esclusione del concorrente (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 24.11.2011 n. 6240).
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Osserva il Collegio, sul piano generale, come l’avvalimento previsto dal Codice degli appalti non sia imperativamente disciplinato dalla legge nei suoi aspetti formali e nel suo contenuto sostanziale.
Per quanto qui rileva, infatti, l’art. 49 del D.lgs 163/2006 si limita a disporre che il concorrente, in tale ipotesi, deve semplicemente allegare “una dichiarazione…….attestante l’avvalimento dei requisiti necessari per la partecipazione alla gara, con specifica indicazione dei requisiti stessi e dell’impresa ausiliaria”, nonché “una dichiarazione sottoscritta dall’impresa ausiliaria con cui quest’ultima si obbliga verso il concorrente e verso la stazione appaltante a mettere a disposizione per tutta la durata dell’appalto le risorse necessarie di cui è carente il concorrente.”
Ne deriva che per l’esistenza e l’operatività del contratto di avvalimento non sono necessari, in linea di principio, contenuti particolari e/o predeterminati, né specifiche tassative formalità, oltre a quelle specificate dalla norma.
Nella specie, come risulta dal contratto depositato in atti, l’ausiliaria ha messo a disposizione il proprio requisito di iscrizione all’Albo nazionale dei gestori ambientali e la sua capacità economica secondo quanto prescritto dal richiamato art. 49, così rispondendo alla P.A., solidalmente con l’aggiudicatario, con tutta l’azienda per l’impegno assunto.
Pertanto, attesa l’operatività della clausola di generale (e solidale) responsabilità dell’ausiliaria e nell’assenza di specifiche prescrizioni normative, deve ritenersi irrilevante la mancanza di ulteriori formali impegni contrattuali (affitto ramo d’azienda, noleggio attrezzature etc..), ai fini della validità dell’intercorso avvalimento.
Per le stesse ragioni, deve ritenersi ammissibile anche la cessione del requisito dell’iscrizione all’Albo dei gestori ambientali, potendo il concorrente avvalersi di tutta l’organizzazione aziendale dell’ausiliaria in forza del contratto stipulato, anche con riferimento a detto requisito di qualificazione
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.09.2012 n. 4970 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La custodia in cassaforte deve ritenersi quale “adeguata cautela” per la salvaguardia dei plichi.
Dagli atti di causa, infatti, risulta che nella prima seduta il Presidente ha puntualmente specificato le modalità di custodia (in cassaforte) dei plichi, a cui il segretario doveva attenersi.
Tale accorgimento risulta pertanto oggettivamente idoneo a garantire l’integrità e la conservazione della documentazione di gara.
Come precisato infatti dalla più recente giurisprudenza di questa Sezione, richiamata dalla stessa appellante, la custodia in cassaforte deve ritenersi quale “adeguata cautela” per la salvaguardia dei plichi.
Né, peraltro, l’appellante contesta nello specifico alcun segno di concreta manomissione della documentazione di gara, risultando quindi la censura dedotta in via meramente formale vieppiù inconducente
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.09.2012 n. 4970 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Non v’è dubbio che ove la normativa di gara prescriva a pena di esclusione che tutte le consorziate sono tenute a rendere le dichiarazioni ex art. 38 del codice degli appalti il concorrente che non ottemperi a tale prescrizione debba necessariamente essere escluso dalla procedura di gara da parte della stazione appaltante.
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Il possesso dei requisiti generali e morali ex art. 38 codice appalti deve essere verificato non solo in capo al consorzio ma anche alle consorziate dovendosi ritenere cumulabili in capo al consorzio i soli requisiti di idoneità tecnica e finanziaria ai sensi dell’art. 35 codice appalti. La diversa opzione ermeneutica condurrebbe invero a conseguenze paradossali in quanto le stringenti garanzie di moralità professionale richieste inderogabilmente ai singoli imprenditori potrebbero essere eluse da cooperative che attraverso la costituzione di un consorzio con autonoma identità riuscirebbero di fatto ad eseguire lavori e servizi per le pubbliche amministrazioni alle cui gare non sarebbero state singolarmente ammesse.
Nel caso di consorzi i requisiti generali di partecipazione alla gara previsti dall’art. 38 devono essere posseduti dalle singole imprese consorziate; se infatti tali requisiti andassero accertati solo in capo al consorzio e non in capo ai consorziati che eseguono le prestazioni il consorzio potrebbe agevolmente diventare uno schermo di copertura consentendo la partecipazione di consorziati privi dei necessari requisiti; per gli operatori che non hanno requisiti dell’art. 38 basterebbe anziché concorrere direttamente andando incontro a sicura esclusione aderire ad un consorzio da utilizzare come copertura.

Ed infatti a prescindere dalla tesi formalistica o sostanzialistica formatasi in giurisprudenza sulla questione, non v’è dubbio che ove la normativa di gara prescriva a pena di esclusione che tutte le consorziate sono tenute a rendere le dichiarazioni ex art. 38 del codice degli appalti il concorrente che non ottemperi a tale prescrizione debba necessariamente essere escluso dalla procedura di gara da parte della stazione appaltante.
Tanto premesso in via di principio osserva il Collegio che nel caso di specie il disciplinare di gara (pag. 4) nel paragrafo “Requisiti di carattere generale” dispone espressamente che “I requisiti di carattere generale devono essere posseduti a pena di esclusione da tutti i concorrenti singoli e raggruppati dai consorzi e dai consorziati e per i soggetti richiamati dall’art. 38 del D.Lgs. 163/2006; altresì tutti i soggetti partecipanti sia singoli sia consorziati o raggruppati devono rendere a pena di esclusione le ulteriori dichiarazioni prescritte come innanzi.”
Detta prescrizione pertanto è chiara inequivoca e perentoria nel prevedere che nel caso in cui il concorrente sia un consorzio tutti i singoli soggetti che ne fanno parte sono tenuti a presentare a pena di esclusione le dichiarazioni ex art. 38 del codice dei contratti pubblici.
È evidente quindi che tutte le consorziate per le quali il consorzio Mythos ha attestato di concorrere dovessero rendere le dichiarazioni previste dal disciplinare di gara contrariamente a quanto avvenuto.
Né al riguardo può accedersi alla tesi sostenuta da Mythos secondo cui i modelli (modello 1 e modello 2) richiamati nel bando di gara (pagg. 5 e 6) ed allegati al bando stesso in ragione della loro formulazione giustificherebbero la rilevata omissione da parte delle consorziate .
Per un verso infatti gli invocati modelli non precisano affatto che le dichiarazioni ivi previste debbano essere rese solo dal consorzio e tantomeno escludono che le stesse debbano essere rese anche dalle singole consorziate .
Per altro verso poi non v’è dubbio che detti modelli debbano essere letti ed interpretati alla stregua degli ordinari criteri ermeneutici in modo da essere conformi a quanto espressamente disposto dal bando di gara a cui sono ontologicamente connessi e quindi nel senso che tutte le consorziate (e non solo il consorzio) siano tenute a rendere a pena di esclusione le dichiarazioni ivi previste ex art. 38 del D.lgs. 163/2006.
Del resto sulla questione si è di recente espressa l’Adunanza Plenaria precisando con sentenza 04.05.2012 n. 8 che “il possesso dei requisiti generali e morali ex art. 38 codice appalti deve essere verificato non solo in capo al consorzio ma anche alle consorziate dovendosi ritenere cumulabili in capo al consorzio i soli requisiti di idoneità tecnica e finanziaria ai sensi dell’art. 35 codice appalti. La diversa opzione ermeneutica condurrebbe invero a conseguenze paradossali in quanto le stringenti garanzie di moralità professionale richieste inderogabilmente ai singoli imprenditori potrebbero essere eluse da cooperative che attraverso la costituzione di un consorzio con autonoma identità riuscirebbero di fatto ad eseguire lavori e servizi per le pubbliche amministrazioni alle cui gare non sarebbero state singolarmente ammesse”.
Ed in questo senso peraltro si è espressa più volte anche la giurisprudenza della Sezione precisando che nel caso di consorzi i requisiti generali di partecipazione alla gara previsti dall’art. 38 devono essere posseduti dalle singole imprese consorziate; se infatti tali requisiti andassero accertati solo in capo al consorzio e non in capo ai consorziati che eseguono le prestazioni il consorzio potrebbe agevolmente diventare uno schermo di copertura consentendo la partecipazione di consorziati privi dei necessari requisiti; per gli operatori che non hanno requisiti dell’art. 38 basterebbe anziché concorrere direttamente andando incontro a sicura esclusione aderire ad un consorzio da utilizzare come copertura (cfr. Cons. Stato sez. V 15.06.2010 n. 3759; Id. sez. V 05.09.2005 n. 4477; Id. sez. V 30.01.2002 n. 507).
Ne consegue quindi che non avendo le consorziate reso le dichiarazioni sui requisiti generali ex art. 38 il RTI consorzio stabile Mythos doveva essere escluso dalla gara contrariamente a quanto avvenuto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.09.2012 n. 4969 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’adozione dell’ordinanza contingibile è la sussistenza e l’attualità del pericolo, cioè del rischio concreto di un danno grave e imminente per l’incolumità pubblica e per l’igiene, a nulla rilevando neppure che la situazione di pericolo fosse, come nel caso di specie, nota da tempo.
Neppure può trovare ingresso la censura relativa alla violazione delle garanzie procedimentali, ex art. 7 della legge 07.08.1990, n. 241, essendo queste incompatibili con l’urgenza di provvedere, anche in ragione della perdurante attualità dello stato di pericolo, aggravantesi con il trascorrere del tempo.
Di fatto la comunicazione di avvio del procedimento nelle ordinanze contingibili e urgenti del Sindaco non può che essere di pregiudizio per l’urgenza di provvedere.

Non vi sono poi motivi per discostarsi da quanto ritenuto dal TAR in ordine alla possibilità da parte del Comune di ricorrere allo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente per eliminare definitivamente la situazione di pericolo rilevata, nella considerazione che “nella fattispecie, in particolare, il concorso dei rischi legati a possibili ulteriori crolli del fabbricato fatiscente e agli effetti pregiudizievoli per la salute pubblica derivanti dal pericolo di dispersione di fibre di amianto oltre che dalle conseguenze della presenza nei pressi della strada comunale di un contenitore di stoccaggio di deiezioni zootecniche parzialmente privo di copertura, come è evidente, palesa una situazione di concreta e immediata minaccia per la sanità e l’incolumità pubbliche, indice della necessità di interventi solleciti e indilazionabili.”
La scelta dell’amministrazione di provvedere a porre rimedio a tale situazione con l’emanazione di una ordinanza contingibile ed urgente a tutela dell’igiene e della sanità pubblica, nonché della sicurezza dei cittadini, “impinge nel merito dell’azione amministrativa che sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, non risultando manifestamente inficiata da illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza, oltre che da travisamento dei fatti” (Cons. St., sez. V, 28.09.2009, n. 5807).
L’attualità della minaccia per incolumità pubblica e l’igiene, esclude rilevanza al fatto che la situazione di pericolo fosse nota da tempo.
La giurisprudenza ha precisato più volte che presupposto per l’adozione dell’ordinanza contingibile è la sussistenza e l’attualità del pericolo, cioè del rischio concreto di un danno grave e imminente per l’incolumità pubblica e per l’igiene, a nulla rilevando neppure che la situazione di pericolo fosse, come nel caso di specie, nota da tempo (C.d.S. sez. V, 28.03.2008, n. 1322).
Neppure può trovare ingresso la censura relativa alla violazione delle garanzie procedimentali, ex art. 7 della legge 07.08.1990, n. 241, essendo queste incompatibili con l’urgenza di provvedere, anche in ragione della perdurante attualità dello stato di pericolo, aggravantesi con il trascorrere del tempo (C.d.S., sez. V, 02.04.2001, n. 1904).
Di fatto la comunicazione di avvio del procedimento nelle ordinanze contingibili e urgenti del Sindaco non può che essere di pregiudizio per l’urgenza di provvedere (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.09.2012 n. 4968 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOrdinanze sindacali. Caso Ilva, il Sindaco non può ordinare la messa in sicurezza
E' illegittima, in quanto adottata in difetto del necessario presupposto della concreta sussistenza di una situazione di emergenza imprevista, un'ordinanza contingibile e urgente con la quale il Sindaco, al fine di scongiurare pericoli per la salute pubblica, ha ingiunto al legale rappresentante di un'industria siderurgica di porre in essere nel proprio stabilimento tutte le misure idonee a scongiurare detto pericolo.

La ricorrente, nota società operante nel settore siderurgico, ha impugnato l’ordinanza contingibile e urgente con cui il Sindaco ha ingiunto alla medesima l’adozione, nel proprio stabilimento, di misure idonee a scongiurare il pericolo alla salute pubblica, pena la sospensione dell’attività degli impianti.
In particolare, ha esposto che il menzionato provvedimento era stato adottato a seguito di una comunicazione del competente Procuratore della Repubblica, nonché della relazione dei periti nominati dal G.I.P. nell’ambito dell’indagine condotta nei confronti dei responsabili dello stabilimento, dalla quale erano emersi "elementi conoscitivi tali da destare particolare allarme".
Su tale presupposto, nelle more della predisposizione degli strumenti ordinari a opera delle altre Autorità, attesa la sussistenza di "condizioni di eccezionale e urgente necessità di tutela della salute pubblica e dell’ambiente", il Sindaco ha emanato la contestata ordinanza, richiamando l’art. 217 T.U.L.S., l’art. 50 T.U.E.L. e l’art. 117, D.Lgs. n. 112/1998.
Per siffatte ragioni, la ricorrente ha contestato la legittimità dell’ordinanza sindacale, all’uopo eccependo la violazione delle menzionate disposizioni di legge, nonché degli artt. 3 e 7, L. n. 241/1990.
Il Collegio di Lecce, in via preliminare, ha evidenziato che la questione a esso demandata verte sulla legittimità dell’ordinanza contingibile e urgente, con cui il Sindaco ha fatto ricorso al potere "extra ordinem" per fronteggiare con immediatezza la situazione di pericolo determinata dalla mancata osservanza, nello stabilimento siderurgico, di "tutte le misure idonee a evitare la dispersione incontrollata di fumi e polveri nocive alla salute di lavoratori e di terzi".
Orbene, il giudicante, al fine di stabilire se, nella vicenda, fosse stato correttamente esercitato il potere straordinario, ha riepilogato i fatti che hanno connotato la notoria vicenda dello stabilimento ricorrente.
In primis, ha rammentato che il Ministero dell’Ambiente nell’anno 2011 aveva rilasciato l’autorizzazione ambientale integrata per l’esercizio dello stabilimento siderurgico, all’esito di un complesso procedimento, nel corso del quale si era svolta un’approfondita istruttoria da parte della Commissione AIA-IPPC di cui all’art. 10, D.P.R. 14.05.2007, n. 90.
Nella successiva Conferenza di servizi i rappresentanti del Ministero, della Regione, degli Enti locali interessati e dell’A.R.P.A. avevano espresso parere favorevole al rilascio dell’autorizzazione ambientale integrata.
La ricorrente, tuttavia, in sede giurisdizionale (in altro giudizio) aveva censurato una serie di prescrizioni dettate dall’AIA, tra cui l’installazione di sistemi di abbattimento dedicati alle emissioni di macro e microinquinanti dai camini.
Sicché, era stato disposto il complessivo riesame da parte dell’AIA al fine di adeguare il provvedimento alle ''conclusioni sulle BAT'' relative al settore siderurgico di cui alla decisione della Commissione Europea 2012/135/UE..
Tanto precisato in punto di fatto, l’adito G.A. ha considerato insussistenti i presupposti per l’intervento dell’autorità comunale, a mezzo dello strumento dell’ordinanza contingibile e urgente.
Al riguardo, infatti, ha rilevato che, in linea di principio, le predette ordinanze appartengono al novero degli atti necessitati e costituiscono il rimedio, approntato dall’ordinamento, per far fronte a situazioni di emergenza e urgenza impreviste, espressione di un potere "extra ordinem", derogatorio e dal contenuto libero, con il solo rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico.
Per siffatta ragione, ha ritenuto che, nella vicenda, l’ordinanza sindacale non possedeva gli indefettibili presupposti per la sua emanazione, non essendo la medesima diretta a fronteggiare un’emergenza sanitaria, ma piuttosto a imporre l’esecuzione di obblighi derivanti dalle prescrizioni contenute nell’autorizzazione integrata ambientale.
A non differente conclusione è pervenuto anche in relazione alle misure imposte nel provvedimento impugnato, riguardanti l’obbligo di adottare sistemi di campionamento delle emissioni, di contenimento dello scarico delle polveri e di minimizzazione delle emissioni fuggitive, oltre che di limitazione della produzione effettiva.
Sul punto, non a caso, ha osservato che le suddette precauzioni erano ulteriori rispetto alle previsioni contenute nell’autorizzazione integrata ambientale e non apparivano finalizzate a fronteggiare nell’immediato un’emergenza sanitaria, bensì a prevenire danni derivanti dall’esercizio dello stabilimento in violazione delle norme vigenti e di quelle di futura applicazione contenute nella Direttiva 2010/75/UE.
Senza del resto tralasciare la circostanza per cui dal complesso degli atti posti a fondamento dell’ordinanza impugnata, l’autorità procedente non aveva desunto l’accertamento della violazione delle prescrizioni imposte dall’AIA, ma piuttosto la necessità dell’adozione di ulteriori cautele, la cui competenza sarebbe spettata ad altre autorità.
Inoltre, ha rilevato l’assenza di un ulteriore elemento tipico che deve sorreggere l’ordinanza contingibile e urgente, non palesandosi l’insorgenza improvvisa di una situazione di danno alla salute della collettività.
Alla luce di tali considerazioni, il Tribunale amministrativo di Lecce, non ravvisando la ricorrenza dei presupposti ex lege previsti per l’adozione di un’ordinanza contingibile e urgente, ha accolto il ricorso con conseguente annullamento dell’impugnato provvedimento sindacale (commento tratto da www.ispoa.it - TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 19.09.2012 n. 1550 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTUALICosa accade se la parcella del tecnico “lievita” rispetto al preventivo?
In seguito all’abolizione delle tariffe professionali il compenso per le prestazioni va pattuito al momento del conferimento dell'incarico, con un preventivo di massima basato esclusivamente sulla contrattazione tra professionista e committente.
Il professionista deve rendere noto al cliente il grado di complessità dell'incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa la complessità dell’incarico e gli oneri ipotizzabili, dal momento del conferimento fino alla conclusione dell'incarico.

A tal riguardo si esprime la II Sez. civile della Corte di Cassazione che, con la sentenza 18.09.2012 n. 15628, respinge il ricorso presentato da un professionista che aveva richiesto un compenso più alto rispetto a quello pattuito inizialmente con il cliente, avendo svolto ulteriori e più costose prestazioni rispetto a quelle concordate.
La Cassazione stabilisce che il compenso non può essere ritoccato; in caso di incremento delle prestazioni il professionista è tenuto ad informare tempestivamente il cliente, altrimenti si potrebbe configurare un comportamento non corretto da parte del tecnico (commento tratto da www.acca.it).

LAVORI PUBBLICIIn tema di revoca della procedura di project financing l’indennizzo può essere riconosciuto solo allorquando si tratti di rapporti destinati a persistere nel tempo, il che non ricorre nella presente fattispecie, mancando il necessario presupposto dell’intervento di un’aggiudicazione definitiva: infatti, la circostanza che la procedura sia stata revocata prima del sorgere del vincolo sull’affidamento della concessione –coincidente con la conclusione della procedura negoziata per la scelta del concessionario e non con la semplice individuazione della proposta di pubblico interesse da porre a base di gara– impedisce che possa venire ad esistenza il diritto all’indennizzo in difetto di una situazione giuridica stabile e consolidata a cui possa ricollegarsi.
L’obbligo di indennizzo dei pregiudizi arrecati ai soggetti interessati in conseguenza della revoca di atti amministrativi sussiste esclusivamente in caso di revoca di provvedimenti definitivi e non anche in caso di revoca di atti ad effetti instabili e interinali, quali l’aggiudicazione provvisoria o l’indizione di una procedura di gara.

 - in secondo luogo, ed in via assorbente, in tema di revoca della procedura di project financing l’indennizzo può essere riconosciuto solo allorquando si tratti di rapporti destinati a persistere nel tempo, il che non ricorre nella presente fattispecie, mancando il necessario presupposto dell’intervento di un’aggiudicazione definitiva: infatti, la circostanza che la procedura sia stata revocata prima del sorgere del vincolo sull’affidamento della concessione –coincidente con la conclusione della procedura negoziata per la scelta del concessionario e non con la semplice individuazione della proposta di pubblico interesse da porre a base di gara– impedisce che possa venire ad esistenza il diritto all’indennizzo in difetto di una situazione giuridica stabile e consolidata a cui possa ricollegarsi (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. I, 18.03.2011 n. 1500; nello stesso senso TAR Lazio Latina, Sez. I, 24.03.2011 n. 286);
- in termini più generali ed in adesione ad un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, l’obbligo di indennizzo dei pregiudizi arrecati ai soggetti interessati in conseguenza della revoca di atti amministrativi sussiste esclusivamente in caso di revoca di provvedimenti definitivi e non anche in caso di revoca di atti ad effetti instabili e interinali, quali l’aggiudicazione provvisoria o l’indizione di una procedura di gara (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 05.04.2012 n. 2007; Consiglio di Stato, Sez. VI, 17.03.2010 n. 1554) (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 18.09.2012 n. 3888 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Consigli comunali da convocare con anticipo ampio. L'iter. Le regole per le raccomandate
IL RICEVIMENTO/ Secondo Palazzo Spada fa fede la data della ricezione dell'avviso e non quella della sua spedizione.

La notifica dell'avviso di convocazione del Consiglio comunale a mezzo raccomandata si perfeziona per il consigliere comunale destinatario non con la spedizione della raccomandata informativa ma con il ricevimento della stessa, in base all'articolo 140 del codice di procedura civile.
Con la sentenza 14.09.2012 n. 4892 il Consiglio di Stato, Sez. V, intervenendo sulle notifiche degli avvisi di convocazione del Consiglio comunale ha ritenuto applicabili, ove si ricorra allo strumento della raccomandata in base all'articolo 140 del codice di procedura civile, i principi garantisti sanciti dalla sentenza della Corte costituzionale 14.01.2010, n. 3.
Questa sentenza aveva dichiarato dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 140 nella parte in cui prevedeva che la notifica si perfeziona per il destinatario con la spedizione della raccomandata informativa, anziché con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla spedizione.
Dopo aver effettuato un excursus sulla funzione dell'avviso di convocazione (strumento fondamentale per assicurare il regolare funzionamento del consiglio comunale) il Consiglio di stato si sofferma sulla incidenza dei principi della pronuncia della Consulta sul procedimento di convocazione del Consiglio comunale.
Per i giudici questi principi devono estendersi anche al procedimento di convocazione del consiglio comunale (nonostante non abbia carattere giurisidizionale) laddove si usi il mezzo della raccomandata in quanto non è sufficiente che l'avviso di convocazione sia solo regolarmente inviato al consigliere comunale, ma è necessario che lo stesso lo abbia effettivamente ricevuto e che tra il momento della ricezione e quello della seduta consiliare intercorra un ragionevole lasso temporale affinché il mandato consiliare possa essere effettivamente svolto in modo serio, completo e consapevole. Non vi è del resto, ad avviso della Sezione, alcun argomento, logico o sistematico, per restringere il campo di applicabilità di tale pronuncia, che mira a salvaguardare la posizione di un soggetto destinatario di una notificazione per consentirne l'effettivo esercizio dei diritti/doveri riconosciutigli dalla legge, ai soli procedimenti giurisdizionali: anche per quanto riguardo il corretto e regolare funzionamento degli organi rappresentativi delle comunità locali vengono in rilievo peculiari principi costituzionali, quali, oltre quello generale di legalità, di cui all'articolo 97 della Costituzione, l'effettivo riconoscimento delle autonomie locali, di cui agli articoli 5 e 114, comma 2, oltre a quello dell'effettiva rappresentanza politica.
Le conseguenze di una convocazione irregolare sono particolarmente gravi: l'irregolarità (trattandosi di violazione dello ius ad officium del consigliere) travolge le delibere adottate mentre eventuali comportamenti ostruzionistici possono rilevare soltanto sul piano etico o politico, ma non certo sotto quello strettamente giuridico (articolo Il Sole 24 Ore del 24.09.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIDeve negarsi che i consiglieri comunali, in quanto tali, possano essere considerati controinteressati, atteso che nel processo amministrativo sono notoriamente legittimi e necessari contraddittori solo i soggetti originariamente contemplati nel provvedimento amministrativo impugnato ovvero che siano facilmente identificabili come soggetti cui l’atto specificamente si riferisce e abbiano la titolarità di una posizione qualificata alla conservazione dello stesso.
I consiglieri comunali non sono soggetti contemplati nel provvedimento amministrativo, concorrendo essi, con la loro manifestazione di volontà, a formare la volontà dell’ente di cui fanno invece parte, inteso nella sua unitarietà e nella sua significazione pubblica: essi sono pertanto legittimati a ricorrere (e di conseguenza anche a contraddire) solo nell’ipotesi di violazione del loro jus ad officium.
Conseguentemente essi non hanno (neppure) un interesse protetto e differenziato all’impugnazione delle deliberazioni dell’ente del quale fanno parte, salvo il caso in cui venga lesa in modo diretto ed immediato la propria sfera giuridica per effetto di atti direttamente incidenti sul diritto all’ufficio o sullo status ad essi spettante, che compromettano il corretto esercizio del loro mandato (come nel caso di erronee modalità di convocazione dell’organo, violazione dell’ordine del giorno, inosservanza del termine della documentazione necessaria per poter consapevolmente deliberare, etc.): del resto il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organo di uno stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive.

Sotto altro profilo deve poi negarsi che i consiglieri comunali, in quanto tali, possano essere considerati controinteressati, atteso che nel processo amministrativo sono notoriamente legittimi e necessari contraddittori solo i soggetti originariamente contemplati nel provvedimento amministrativo impugnato ovvero che siano facilmente identificabili come soggetti cui l’atto specificamente si riferisce e abbiano la titolarità di una posizione qualificata alla conservazione dello stesso.
I consiglieri comunali non sono soggetti contemplati nel provvedimento amministrativo, concorrendo essi, con la loro manifestazione di volontà, a formare la volontà dell’ente di cui fanno invece parte, inteso nella sua unitarietà e nella sua significazione pubblica: essi sono pertanto legittimati a ricorrere (e di conseguenza anche a contraddire) solo nell’ipotesi di violazione del loro jus ad officium (tra le più recenti, C.d.S., sez. V, 21.03.2012, n. 1610; 29.04.2010, n. 2457; sez. IV, 26.01.2012, n. 351, 16.10.2007, n. 5396).
Conseguentemente (C.d.S., sez. V, 24.03.2011, n. 1771) essi non hanno (neppure) un interesse protetto e differenziato all’impugnazione delle deliberazioni dell’ente del quale fanno parte, salvo il caso in cui venga lesa in modo diretto ed immediato la propria sfera giuridica per effetto di atti direttamente incidenti sul diritto all’ufficio o sullo status ad essi spettante, che compromettano il corretto esercizio del loro mandato (come nel caso di erronee modalità di convocazione dell’organo, violazione dell’ordine del giorno, inosservanza del termine della documentazione necessaria per poter consapevolmente deliberare, etc.): del resto il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organo di uno stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive (C.d.S., sez. VI, 19.05.2010, n. 3130; sez. V, 15.12.2005, n. 7122; 23.05.1994, n. 437).
Il ricorso introduttivo del presente giudizio non doveva pertanto essere notificato agli altri consiglieri comunali, avendo l’interessato denunciato esclusivamente la violazione del proprio jus ad officium per non essere stato asseritamente posto in condizione di partecipare alla riunione dell’organo consiliare, fattispecie rispetto alla quale non è ipotizzabile l’esistenza di un interesse protetto e qualificato (oltre che diretto e contrario) degli altri consiglieri alla conservazione delle delibere così invalidamente assunte (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.09.2012 n. 4892 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Riscossione, la gara può richiedere un fatturato elevato. Consiglio di Stato. Restrizione ammessa.
IL DISTINGUO È SULL'AGGIO/ I ricavi da fornire in base ai bandi non riguardano la movimentazione di tutte le somme gestite ma solo il compenso per l'attività.

È legittimo il bando di gara per l'affidamento del servizio di accertamento e riscossione dei tributi locali che impone alle società partecipanti di aver realizzato un fatturato consistente.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato -Sez. V- con la sentenza 14.09.2012 n. 4889, evidenziando in primo luogo che il fatturato non riguarda la movimentazione globale delle somme gestite, ma solo il compenso percepito per l'attività (aggio).
Sarebbe quindi opportuno utilizzare nei bandi di gara il termine «volume d'affari», riferito alle somme incassate come compenso per il proprio servizio.
I giudici amministrativi hanno inoltre affermato che il requisito richiesto dal bando di gara -aver realizzato un volume d'affari di 40 milioni di euro nel triennio- non è eccessivamente elevato in quanto il gestore del servizio è tenuto ad anticipare annualmente 38 milioni di euro come minimo garantito. Viene così confermato l'orientamento favorevole all'introduzione nei bandi di gara di requisiti più rigorosi di quelli richiesti per legge (iscrizione all'albo ministeriale).
La questione delle clausole restrittive è sempre stata piuttosto controversa in giurisprudenza. Inizialmente alcune pronunce (tra cui Tar Lecce 2499/04 e Tar Milano 2676/04) hanno escluso la possibilità di richiedere, per la partecipazione alle gare, il possesso di requisiti ulteriori rispetto all'iscrizione all'albo, tra cui l'espletamento di analoghi servizi in comuni di pari dimensioni e il volume minimo d'affari nell'ultimo triennio.
Si è poi sviluppato un orientamento favorevole alla richiesta di requisiti aggiuntivi (Tar Bologna 100/2004, Tar Puglia, sezione Bari 995/2005, Tar L'Aquila 454/2005), confermato dal Consiglio di Stato con diverse pronunce (5318/2005, 7247/2009, 3809/2011) ed ora anche con questa sentenza. Alcuni Tar sono comunque rimasti fermi sulle loro posizioni.
In particolare il Tar Lombardia, sezione di Milano, con la sentenza 7590/2010, ha annullato un bando di gara che imponeva alle società partecipanti di aver gestito negli ultimi cinque anni servizi identici a quelli posti in gara e in almeno tre comuni da 30mila fino a 100mila abitanti, ritenendo irrilevanti -al fine di assicurare l'idoneità tecnica dei partecipanti- le dimensioni dei comuni precedentemente gestiti. Allo stesso modo il Tar Puglia, sezione di Lecce, ha ritenuto illegittimo un bando che richiedeva la pregressa esperienza in almeno due comuni sopra i 90mila abitanti (sentenza 677/2010), ovvero in almeno tre comuni da 30mila a 100mila abitanti (decisione 499/2011).
Ora deve tuttavia prevalere la linea possibilista del Consiglio di Stato. Ma con alcune condizioni. Si deve trattare di clausole non arbitrarie o sproporzionate rispetto all'oggetto e al valore del contratto, tali cioè da non restringere -oltre lo stretto indispensabile- la platea dei concorrenti (articolo Il Sole 24 Ore del 24.09.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Diniego autorizzazione impianto di compostaggio e riciclaggio rifiuti inerti non pericolosi.
Non è necessario che gli impianti di smaltimento o di recupero rifiuti debbano essere allocati esclusivamente in zone a vocazione industriale, ma è altrettanto vero che, non per questo, la localizzazione dell'insediamento può essere del tutto indifferente, prescindendo dalla considerazione e comparazione degli interessi in gioco.
In altri termini, la sola circostanza che l'area di insediamento abbia una determinata destinazione urbanistica non è di per sé circostanza ostativa e non è valida giustificazione per il diniego di approvazione del progetto, in quanto l' approvazione costituisce un'ipotesi di variante automatica alla disciplina urbanistico-territoriale dell'area interessata.
Ma non per questo in sede di autorizzazione si può prescindere dalla considerazione delle esigenze di carattere (anche) urbanistico-territoriale e degli interessi comunque legati alla localizzazione dell'impianto, in quanto rilevanti (tratto da www.lexambiente.it - TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 12.09.2012 n. 7725 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Opere preordinate alla lottizzazione abusiva.
L’individuazione della lottizzazione abusiva presuppone l’accertamento di una serie di elementi, comprese indagini complesse che impongono la necessaria partecipazione dei soggetti interessati al relativo procedimento (ex art. 7 della l. 241/1990), per cui deve essere consentita ad essi la proposizione delle rispettive osservazioni e deduzioni, anche se al provvedimento di cui all’art. 18 della l. n. 47/1985 deve comunque riconoscersi una indubbia natura vincolata.
L’ipotesi di lottizzazione abusiva è contestabile solamente quando sussistono elementi precisi ed univoci da cui possa ricavarsi oggettivamente l’intento di asservire all'edificazione un’area non urbanizzata. Ai fini dell’accertamento di cui all’art. 18 della l. n. 47/1985 non è sufficiente il mero riscontro del frazionamento di un terreno collegato a plurime vendite, ma sussiste anche la necessità di acquisire un sufficiente quadro indiziario dal quale sia possibile desumere in maniera non equivoca la destinazione a scopo edificatorio degli atti posti in essere dalle parti (tratto da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 10.09.2012 n. 4795 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare, quando la cauzione provvisoria può diventare una sanzione.
In caso di esclusione dalla gara per mancata dimostrazione del possesso dei requisiti di capacità, l'incameramento della cauzione provvisoria costituisce una conseguenza sanzionatoria automatica.

Il Consiglio di Stato ha affermato che nel caso di esclusione dalla gara d'appalto per mancata dimostrazione del possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa indicati nel bando, l'incameramento della cauzione provvisoria prevista ai sensi dell'art. 48 D.L.vo 12.04.2006 n. 163 deve intendersi come conseguenza sanzionatoria del tutto automatica, in quanto tale non suscettibile di alcuna valutazione discrezionale con riguardo ai singoli casi concreti e in particolare alle ragioni meramente formali ovvero sostanziali che l'Amministrazione ha ritenuto di porre a giustificazione dell'esclusione medesima.
Quindi, ai fini dell'applicazione di detta sanzione - è determinante e dunque assorbente l'esito finale (dell'esclusione) e non la sottostante ragione concreta che in particolare sia stata posta a suo fondamento. Infatti, il citato articolo 48 prevede che, quando le dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o nell’offerta circa il possesso dei requisiti di capacità non siano state comprovate dalla documentazione all’uopo presentata, e per ciò stesso, “le stazioni appaltanti procedono all’esclusione del concorrente dalla gara, alla escussione della relativa cauzione provvisoria e alla segnalazione del fatto all’Autorità”.
Con il che si rende sufficientemente chiaro che le dette misure discendenti dall’esclusione si rivelano strettamente vincolate e consequenziali alla verifica dell’omissione probatoria di cui si tratta, e prive di qualsivoglia contenuto discrezionale.
Inoltre, sempre in tema di cauzione provvisoria, in sede di gara d'appalto, l'incameramento è possibile non solo per la mancata stipula del contratto, ma anche per dichiarazioni comunque non veritiere poiché la detta cauzione si profila come garanzia del rispetto dell'ampio patto d'integrità cui si vincola chi partecipa alla procedura.
Nel caso di specie, nella propria offerta la ricorrente aveva dichiarato di possedere il requisito di capacità tecnica costituito dall’aver effettuato servizi simili, nel periodo 01.08.2007–31.07.2010, per almeno euro 600.000 oltre IVA, compilando l’elenco nel quale si sostanziava il paragrafo A) della propria scheda di rilevazione dei requisiti, mediante l’indicazione di due specifici contratti.
Rispetto a questi ultimi aveva quindi contestualmente fornito, come prescritto, la descrizione del servizio prestato, specificando l’importo contrattuale eseguito nel periodo in rilievo, la tempistica di esecuzione del contratto e la relativa controparte. Successivamente è emerso, tuttavia, che i servizi così indicati nel paragrafo A) della scheda non erano stati prestati dalla stessa ricorrente, ma solo da una sua controllata) (commento tratto da www.ispoa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.09.2012 n. 4778 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi e prove orali, tempus (non) fugit?
Le procedure selettive indette per il reclutamento del personale pubblico devono garantire la parità di trattamento tra i candidati, anche per quanto concerne la durata della prova orale, che deve essere la medesima per tutti i partecipanti. In mancanza, l'amministrazione procedente rischia l'annullamento della gara, mentre al candidato sfavorito dovrà essere concessa una nuova chance.

E’ quanto sembrerebbe emergere dall’ordinanza 08.09.2012 n. 513, emessa dal TAR Piemonte, Sez.   .
Nel caso di specie è stata indetta una selezione per il reclutamento, nell’ambito dell’amministrazione scolastica periferica, di alcuni dirigenti scolastici dei ruoli regionali.
Per ottenere il posto, i candidati dovevano superare alcune prove scritte e un successivo colloquio della durata di “30/35 minuti”.
Tutti i partecipanti che hanno superato le prove scritte hanno potuto godere del termine poc’anzi citato previsto per la prova orale.
Tutti, tranne uno. Per quest’ultimo, infatti, il colloquio è durato soli 25 minuti (ben dieci minuti in meno rispetto a quelli previsti), peraltro con esito negativo, anche se si poco (il punteggio conseguito è stato di 18/30).
Ritenutosi leso, il candidato ha deciso di adire il giudice amministrativo al fine di ottenere la declaratoria di annullamento della graduatoria pubblicata stilata dalla stessa amministrazione procedente e di tutti gli atti riconducibili alla stessa, con contestuale istanza di sospensione in via cautelare.
Tra le varie censure, la difesa del ricorrente ha paventato l’illegittimità della procedura, asserendo come l’abbreviazione dei termini previsti per la prova orale avesse violato la parità di trattamento a garanzia dei candidati come anche il principio di buona amministrazione, principio cui avrebbe dovuto ispirarsi la commissione d’esame al fine di pronunciarsi correttamente sull’effettiva preparazione dei partecipanti alla selezione.
Alla luce di tali argomenti è stato chiesto al giudice amministrativo di ripetere la prova orale, questa volta osservando i giusti termini.
La domanda cautelare del ricorrente è stata accolta dal tribunale amministrativo piemontese il quale, con l’ordinanza in epigrafe, ha sospeso i provvedimenti impugnati disponendo parallelamente la ripetizione del colloquio per il candidato.
Sebbene la pronuncia abbia carattere precario, stante la possibilità, per lo stesso tribunale, di rideterminare in senso contrario il suo pronunciamento, deve sottolinearsi il suo carattere innovativo concernente un aspetto (quello della durata prevista per l’espletamento della prova orale ai concorsi pubblici) che in passato non ha trovato particolare interesse nella giurisprudenza amministrativa, poiché ritenuto agganciato all’orbita della discrezionalità delle commissioni, come tale insindacabile in sede di legittimità (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso di opere interne abusive con "cambio di destinazione d'uso" ciò che rileva ai fini del rilascio del condono edilizio di cui art. 32, comma 25, d.l. 30.09.2003 n. 269, conv. l. 24.11.2003 n. 326, è che sia intervenuto il completamento funzionale entro i termini di legge, intendendosi con tale espressione una situazione per cui le opere, pur non perfette nelle finiture, possano dirsi individuabili nei loro elementi strutturali e con caratteristiche necessarie e sufficienti ad assolvere la funzione cui sono destinate; cioè, l'immobile deve risultare già fornito di opere indispensabili a rendere effettivamente possibile un uso diverso da quello asserito, in modo tale da risultare "incompatibile con l'originaria destinazione.
Infatti, ai fini dell’applicabilità della normativa in materia di condono edilizio, in caso di mutamento della destinazione d’uso, la locuzione “ultimazione” riferita alle opere abusive va intesa in senso funzionale, con riguardo cioè al momento in cui l’immobile ha acquisito caratteristiche oggettivamente e univocamente idonee alla nuova destinazione, anche se i lavori non risultino completati con gli interventi di finitura.

Sul piano prettamente giuridico, si osserva, in accordo con quanto affermato dalla giurisprudenza, che «nel caso di opere interne abusive con "cambio di destinazione d'uso" ciò che rileva ai fini del rilascio del condono edilizio di cui art. 32, comma 25, d.l. 30.09.2003 n. 269, conv. l. 24.11.2003 n. 326, è che sia intervenuto il completamento funzionale entro i termini di legge, intendendosi con tale espressione una situazione per cui le opere, pur non perfette nelle finiture, possano dirsi individuabili nei loro elementi strutturali e con caratteristiche necessarie e sufficienti ad assolvere la funzione cui sono destinate; cioè, l'immobile deve risultare già fornito di opere indispensabili a rendere effettivamente possibile un uso diverso da quello asserito, in modo tale da risultare "incompatibile con l'originaria destinazione» (cfr. TAR Pescara Abruzzo sez. I 22.10.2007, n. 837, TAR Lazio, Roma sez. I, 01.12.2005, n. 12734).
Infatti, «ai fini dell’applicabilità della normativa in materia di condono edilizio, in caso di mutamento della destinazione d’uso, la locuzione “ultimazione” riferita alle opere abusive va intesa in senso funzionale, con riguardo cioè al momento in cui l’immobile ha acquisito caratteristiche oggettivamente e univocamente idonee alla nuova destinazione, anche se i lavori non risultino completati con gli interventi di finitura» (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.01.2009, n. 393; Id., sez. V, 23.05.2005, n. 2578)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.09.2012 n. 3804 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha messo in luce la specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all’ordinario procedimento di rilascio della concessione edilizia, nonché l’assenza di una specifica previsione della necessaria acquisizione del parere della Commissione Edilizia Integrata.
Pertanto l’acquisizione di tale parere ai fini del rilascio del condono non è obbligatoria, bensì facoltativa, mentre il parere dell’autorità preposta alla gestione del vincolo paesaggistico non è necessario laddove l’amministrazione ravvisi, come nella fattispecie, la sussistenza di ulteriori ragioni ostative al rilascio della concessione in sanatoria non connesse alla valutazione di compatibilità dell’abuso con il vincolo paesaggistico.

Deve essere disatteso anche il secondo motivo relativo alla omessa acquisizione del parere della Commissione Edilizia Integrata e della Soprintendenza. La giurisprudenza ha, infatti, messo in luce la specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all’ordinario procedimento di rilascio della concessione edilizia, nonché l’assenza di una specifica previsione della necessaria acquisizione del parere della Commissione Edilizia Integrata.
Pertanto l’acquisizione di tale parere ai fini del rilascio del condono non è obbligatoria, bensì facoltativa, mentre il parere dell’autorità preposta alla gestione del vincolo paesaggistico non è necessario laddove l’amministrazione ravvisi, come nella fattispecie, la sussistenza di ulteriori ragioni ostative al rilascio della concessione in sanatoria non connesse alla valutazione di compatibilità dell’abuso con il vincolo paesaggistico (cfr. TAR, Campania, Napoli, sez. VII, 14.01.2011, n. 164)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.09.2012 n. 3804 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La L. n. 47, all’art. 31, comma 2, stabilisce che "si intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura”.
A sua volta la definizione di "rustico" non può prescindere, secondo la costante giurisprudenza ordinaria ed amministrativa, dall’intervenuto completamento di tutte le strutture essenziali, tra le quali anche le "tamponature esterne".
Tale interpretazione –come ha evidenziato la Corte costituzionale nella sentenza 27.02. 2009 n. 54- è rafforzata dalla circolare del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti 07.12.2005 n. 2699, che riconosce, sulla base della giurisprudenza in materia, "che l’esecuzione del rustico implica la tamponatura dell’edificio stesso, con conseguente non sanabilità di quelle opere ove manchino in tutto o in parte i muri di tamponamento".
Invero, la giurisprudenza ha rilevato che:
- l'esecuzione del c.d. rustico è riferita al completamento di tutte le strutture essenziali, tra le quali vanno annoverate le tamponature esterne, che determinano l'isolamento dell''immobile dalle intemperie e configurano l'opera nella sua fondamentale volumetria;
- la mancanza di tamponature esterne e la presenza di semplici tavole sovrapposte finalizzate a proteggere l''immobile da incursioni estranee non determina il completamento della copertura.
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Non costituisce fattore ostativo la nozione di completamento funzionale dell’immobile, requisito che viene in rilievo per l’ipotesi di condono con mutamento di destinazione di uso dell’immobile; in contrario, per gli abusi a carattere residenziale deve farsi riferimento solo alla nozione di completamento al rustico di cui all’art. 31 legge 47/1985; la giurisprudenza sul punto ha avuto modo di precisare che la nozione di ultimazione delle opere, cui occorre far riferimento ai fini dell’applicabilità della disciplina sul condono edilizio, coincide con l’esecuzione del rustico [da intendersi come muratura priva di rifinitura e da non confondere con lo scheletro, le pareti esterne non potendo considerarsi mere rifiniture] .
A tal riguardo anche la Suprema Corte ritiene che: ”La disposizione (di favore) di cui all’art. 31, c. 2, della L. n. 47 del 1985, che non può trovare applicazione al di fuori del limitato ambito di operatività assegnatole dal legislatore con riferimento al condono, è stata interpretata dalla giurisprudenza nel senso che la realizzazione al rustico del manufatto comporta che la copertura deve essere completata e i muri perimetrali debbono essere tamponati. Non costituisce completamento della costruzione al rustico la semplice realizzazione delle strutture portanti in cemento armato, senza le tamponature laterali“.
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Per ottenere il condono edilizio in caso di mutamento di destinazione d'uso di un fabbricato è sufficiente (in base al combinato disposto degli art. 4, comma 1, e 18, comma 1 e 5, l. 28.01.1977 n. 10 e dell'art. 31, comma 2, l. 28.02.1985 n. 47) che quest'ultimo venga funzionalmente completato entro il 01.10.1983, ossia che entro tale data, pur se le attività costruttive siano ancora in corso, il fabbricato sia comunque già fornito delle opere indispensabili a renderne effettivamente possibile un uso diverso da quello a suo tempo assentito...cioè di opere del tutto incompatibili con l'originaria destinazione d'uso, e ciò per l'evidente ragione di non incorrere nell'eventuale disparità di trattamento, che potrebbe scaturire tra le ipotesi di nuova costruzione totalmente abusiva -per la cui sanabilità bastano l'esecuzione del rustico ed il completamento della copertura- e i casi di opere interne con mutamento di destinazione d'uso, per le quali è appunto sufficiente il completamento funzionale”.
Inoltre: “per il condono dell'abusivo mutamento della destinazione d'uso di un immobile è sufficiente che, ai sensi dell'art. 31 comma 2 l. 28.02.1985 n. 47, lo stesso sia stato "completato funzionalmente" entro il termine del 01.10.1983, vale a dire che entro tale data (anche se le attività costruttive siano ancora in corso) l'immobile deve essere comunque già fornito delle opere indispensabili a rendere effettivamente possibile un uso diverso da quello assentito".

Invero, sotto un profilo per così dire “sostanziale”, va rilevato che il condono edilizio del 2003 (il D.L. 30.09.2003, art. 32, comma 25, convertito nella L. 24.11.2003, n. 326), rinvia alla L. 28.02.1985, n. 47.
In particolare, la L. n. 47, all’art. 31, comma 2, stabilisce che "si intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura”.
A sua volta la definizione di "rustico" non può prescindere, secondo la costante giurisprudenza ordinaria ed amministrativa, dall’intervenuto completamento di tutte le strutture essenziali, tra le quali anche le "tamponature esterne".
Tale interpretazione –come ha evidenziato la Corte costituzionale nella sentenza 27.02. 2009 n. 54- è rafforzata dalla circolare del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti 07.12.2005 n. 2699, che riconosce, sulla base della giurisprudenza in materia, "che l’esecuzione del rustico implica la tamponatura dell’edificio stesso, con conseguente non sanabilità di quelle opere ove manchino in tutto o in parte i muri di tamponamento".
Invero, la giurisprudenza ha rilevato che:
- l'esecuzione del c.d. rustico è riferita al completamento di tutte le strutture essenziali, tra le quali vanno annoverate le tamponature esterne, che determinano l'isolamento dell''immobile dalle intemperie e configurano l'opera nella sua fondamentale volumetria (cfr. TAR Salerno, sez. II, 13.10.2006 n. 1745);
- la mancanza di tamponature esterne e la presenza di semplici tavole sovrapposte finalizzate a proteggere l''immobile da incursioni estranee non determina il completamento della copertura (cfr. Cassazione penale, sez. III, 02.12.2008 n. 8064).
Venendo a fare applicazione dei suddetti principi alla fattispecie all’esame, deve rilevarsi che la documentazione esistente in atti (cfr. verbali di sequestro del 23.08.2002) comprova che le opere eseguite dalla ricorrente, e di cui viene chiesto il condono, risultano completate al rustico, in quanto a tale data l’opera viene così descritta: ”Manufatto di circa 160 mq racchiuso perimetralmente con blocchi in laterizi e presenta copertura con lamiere coibentate coperto da pilastrini in ferro impostati a circa mt. 3 dal calpestio. Internamente si presenta parzialmente tramezzato ....”.
Ciò integra la definizione dell’ingombro volumetrico del fabbricato idonea a consentire la ammissibilità della domanda di condono.
Diversamente da quanto sostenuto dal Comune, non costituisce fattore ostativo la nozione di completamento funzionale dell’immobile, requisito che viene in rilievo per l’ipotesi di condono con mutamento di destinazione di uso dell’immobile; in contrario, per gli abusi a carattere residenziale deve farsi riferimento solo alla nozione di completamento al rustico di cui all’art. 31 legge 47/1985; la giurisprudenza sul punto ha avuto modo di precisare che la nozione di ultimazione delle opere, cui occorre far riferimento ai fini dell’applicabilità della disciplina sul condono edilizio, coincide con l’esecuzione del rustico [da intendersi come muratura priva di rifinitura (Cass. pen., sez. III, 02.12.1998, n. 10082) e da non confondere con lo scheletro, le pareti esterne non potendo considerarsi mere rifiniture (C.d.S., sez. IV, 12.03.2009, n. 1474)] .
A tal riguardo anche la Suprema Corte (cfr. Cassazione penale sez. III - 18.07.2011, n. 28233) ritiene che: ”La disposizione (di favore) di cui all’art. 31, c. 2, della L. n. 47 del 1985, che non può trovare applicazione al di fuori del limitato ambito di operatività assegnatole dal legislatore con riferimento al condono, è stata interpretata dalla giurisprudenza nel senso che la realizzazione al rustico del manufatto comporta che la copertura deve essere completata e i muri perimetrali debbono essere tamponati. Non costituisce completamento della costruzione al rustico la semplice realizzazione delle strutture portanti in cemento armato, senza le tamponature laterali“ (Sez. 3 n. 5452, 17.03.1999).
Poiché, conclusivamente, nella specie, le tomponature laterali erano tutte realizzate alla data dell’agosto 2002, è ininfluente il mancato completamento cd. funzionale dell’immobile, ossia il fatto che al luglio 2003 le opere non fossero concretamente utilizzabili per l’uso cui sono state destinate, come contestato dal Comune con riferimento ai lavori in corso per le rifiniture interne.
Tale diverso requisito attiene invero alla possibilità di condono per i mutamenti di destinazione di uso, come ritenuto dalla concorde giurisprudenza amministrativa: “per ottenere il condono edilizio in caso di mutamento di destinazione d'uso di un fabbricato è sufficiente (in base al combinato disposto degli art. 4, comma 1, e 18, comma 1 e 5, l. 28.01.1977 n. 10 e dell'art. 31, comma 2, l. 28.02.1985 n. 47) che quest'ultimo venga funzionalmente completato entro il 01.10.1983, ossia che entro tale data, pur se le attività costruttive siano ancora in corso, il fabbricato sia comunque già fornito delle opere indispensabili a renderne effettivamente possibile un uso diverso da quello a suo tempo assentito...cioè di opere del tutto incompatibili con l'originaria destinazione d'uso, e ciò per l'evidente ragione di non incorrere nell'eventuale disparità di trattamento, che potrebbe scaturire tra le ipotesi di nuova costruzione totalmente abusiva -per la cui sanabilità bastano l'esecuzione del rustico ed il completamento della copertura- e i casi di opere interne con mutamento di destinazione d'uso, per le quali è appunto sufficiente il completamento funzionale” (V, 14.07.1995, n. 1071); ed inoltre: “per il condono dell'abusivo mutamento della destinazione d'uso di un immobile è sufficiente che, ai sensi dell'art. 31 comma 2 l. 28.02.1985 n. 47, lo stesso sia stato "completato funzionalmente" entro il termine del 01.10.1983, vale a dire che entro tale data (anche se le attività costruttive siano ancora in corso) l'immobile deve essere comunque già fornito delle opere indispensabili a rendere effettivamente possibile un uso diverso da quello assentito” (V, 16.12.1994, n. 1514).
Ne discende, quindi, che entro il termine stabilito dalla legge, anche se le attività edilizie siano ancora in corso, l’immobile deve essere già fornito degli elementi indispensabili a rendere effettivamente possibile un uso diverso da quello assentito –in modo tale da risultare incompatibile con l’originaria destinazione (cfr. TAR Abruzzo Pescara, 22.10.2007 n. 837)– pur se non siano stati ancora realizzati gli impianti e le rifiniture di carattere complementare ed accessorio (cfr. TAR Veneto, sez. II, 28.05.2008 n. 1631).
Tuttavia la fattispecie in esame non integra una richiesta di condono per cambio di destinazione, ma un abuso consistente in sopraelevazione su immobile residenziale , per il quale va applicato il criterio indicato dalla prima parte dell’ art. 31, comma 2, della legge n. 47/1985 -richiamato dall'art. 39 della legge n. 724/1994-, il quale stabilisce che, ai fini dell'applicazione delle regole sul condono , «si intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente».
Il criterio del "completamento funzionale" anticipa la data di ultimazione delle opere ai fini dell'ammissione al condono, per cui un intervento non ancora completato può tuttavia essere giudicato sanabile dal punto di vista funzionale se la costruzione è idonea alle funzioni cui l'opera è destinata (cfr. Consiglio di Stato, sez. V – 21.06.2007 n. 3315). Tuttavia ciò non si configura nel caso di specie, in cui già alla data dell’agosto 2002, esisteva il rustico con definizione dell’ingombro volumetrico.
Né assume valore ostativo la sentenza penale della VII sezione penale del Tribunale di Napoli in data 20.06.2008 che ha condannato gli odierni ricorrenti per il reato di costruzione abusiva , ordinando la demolizione del manufatto (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 07.09.2012 n. 3803 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa preesistenza della domanda di sanatoria rende illegittima la successiva irrogazione della sanzione demolitoria, per non essersi l'Amministrazione comunale preventivamente pronunciata sulla domanda stessa, volta, in caso di suo accoglimento, a privare le opere del loro carattere di abusività, ovvero, in caso di suo rigetto, a consentire nuovamente l’esercizio del potere repressivo.
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L’ordine di demolizione adottato in pendenza di istanza di condono edilizio è illegittimo perché in contrasto con l’art. 38 della legge n. 47 del 1985 (richiamato dall’art. 32, comma 25, del decreto-legge n. 269 del 2003), il cui disposto impone all’Amministrazione di astenersi, sino alla definizione del procedimento attivato per il rilascio della concessione in sanatoria, da ogni iniziativa repressiva che vanificherebbe a priori il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria.
Pertanto, l’amministrazione ha l’obbligo di pronunciarsi sulla condonabilità o meno dell’opera edilizia abusiva, anche perché il provvedimento di demolizione non può costituire implicito rigetto della domanda di condono, stante l’art. 35 comma 15, delle legge n. 47 del 1985 che impone la notificazione espressa del diniego al richiedente.

Considerato in diritto che:
A] per giurisprudenza pressoché costante, la preesistenza della domanda di sanatoria rende illegittima la successiva irrogazione della sanzione demolitoria, per non essersi l'Amministrazione comunale preventivamente pronunciata sulla domanda stessa, volta, in caso di suo accoglimento, a privare le opere del loro carattere di abusività, ovvero, in caso di suo rigetto, a consentire nuovamente l’esercizio del potere repressivo [cfr., ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VII, 30.05.2012, n. 2574].
B) a ciò si aggiunga che, secondo la giurisprudenza di questa sezione, l’ordine di demolizione adottato in pendenza di istanza di condono edilizio è illegittimo perché in contrasto con l’art. 38 della legge n. 47 del 1985 (richiamato dall’art. 32, comma 25, del decreto-legge n. 269 del 2003), il cui disposto impone all’Amministrazione di astenersi, sino alla definizione del procedimento attivato per il rilascio della concessione in sanatoria, da ogni iniziativa repressiva che vanificherebbe a priori il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria.
Pertanto, l’amministrazione ha l’obbligo di pronunciarsi sulla condonabilità o meno dell’opera edilizia abusiva, anche perché il provvedimento di demolizione non può costituire implicito rigetto della domanda di condono, stante l’art. 35 comma 15, delle legge n. 47 del 1985 che impone la notificazione espressa del diniego al richiedente [così TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.07.2011, n. 36459] (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 07.09.2012 n. 3802 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Ai pericoli pensa l'amministratore. Risponde per la mancata messa in sicurezza di aree comuni. La Cassazione: non può addurre a sua difesa di non aver avuto l'autorizzazione dall'assemblea.
È dovere dell'amministratore di condominio impegnarsi per tutelare i diritti inerenti le parti comuni. Anche senza autorizzazione diretta dei condomini. E quindi, risponde penalmente l'amministratore che non si sia attivato per eliminare una sconnessione presente sul marciapiede di un'area condominiale che abbia poi causato la caduta di un passante. È proprio in casi del genere che l'amministratore non può difendersi eccependo di non essere stato autorizzato dall'assemblea.
Lo ha chiarito la IV Sez. penale della Corte di Cassazione nella sentenza 06.09.2012 n. 34147.
Il caso concreto. Un'anziana signora era caduta rovinosamente a terra a causa dell'avvallamento venutosi a creare tra il pavimento e il tombino per la raccolta delle acque reflue condominiali posto sul marciapiede che dava accesso all'edificio. La donna si era quindi procurata una frattura giudicata guaribile in un tempo superiore ai 40 giorni.
Per l'accaduto era stato quindi avviato un procedimento penale nei confronti dell'amministratore condominiale, giudicato responsabile per non essersi prontamente attivato per evitare il rischio di incidenti dovuti all'avvallamento e lo stesso era stato condannato alla pena della multa e al risarcimento dei danni sofferti dall'anziana signora, costituitasi parte civile, liquidati in 5.000,00 euro. L'amministratore aveva quindi impugnato la sentenza direttamente in Cassazione, ritenendo di non avere alcuna responsabilità nel caso in questione.
La decisione della Suprema corte. L'amministratore condominiale sosteneva che nella specie la sua condotta non fosse penalmente rilevante, difettando nell'ordinamento una norma che lo obbligasse ad attivarsi in casi del genere. In altre parole, l'amministratore contestava di non avere mai avuto alcun incarico dall'assemblea di provvedere alla sistemazione della predetta area né di aver mai ricevuto alcuna segnalazione, da parte dei condomini o di terzi, relativamente alla situazione di pericolo che si era venuta a creare sul marciapiede in questione.
Quest'ultimo, inoltre, lamentava il fatto che, secondo l'ordinamento vigente, all'amministratore condominiale sia possibile porre in essere lavori di manutenzione straordinaria soltanto ove connotati dal requisito dell'assoluta urgenza, tanto più che detto dislivello era del tutto visibile e, quindi, non poteva essere qualificato come insidia o trabocchetto.
Di tutt'altro avviso si è mostrata però la quarta sezione penale della Corte di cassazione, che ha integralmente confermato la sentenza di condanna. I giudici di legittimità hanno infatti configurato un'ipotesi di responsabilità omissiva colposa in carico all'amministratore condominiale, che riveste per legge una specifica posizione di garanzia rispetto ai pregiudizi che possono derivare ai condomini e ai terzi dalle parti comuni. Secondo la Suprema corte detto obbligo di intervenire per evitare situazioni di pericolo prescinde assolutamente da qualsiasi preventiva autorizzazione da parte dell'assemblea condominiale, così come da qualsiasi preliminare segnalazione proveniente dai condomini, dalla pubblica amministrazione o dai terzi.
Inoltre, sempre secondo la Cassazione, dall'ultimo comma dell'art. 1135 del codice civile si ricava la conclusione che l'amministratore ha facoltà di provvedere alle opere di manutenzione straordinaria che rivestano carattere urgente, dovendo in seguito informarne l'assemblea. Per i giudici di legittimità è indubitabile il fatto che l'eliminazione di un'insidia o di un trabocchetto esistente su una parte comune rientri nel novero degli interventi urgenti, con conseguente sanzione dell'eventuale condotta omissiva dell'amministratore.
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Tra obblighi e doveri, gli interventi di riparazione urgenti.
L'amministratore di condominio non solo ha il compito di affrontare le spese attinenti alla manutenzione ordinaria e alla conservazione delle parti e servizi comuni dell'edificio, ma anche il potere-dovere di ordinare lavori di manutenzione straordinaria che rivestano carattere urgente, con l'obbligo di riferirne nella prima assemblea dei condomini.
Quindi, nell'adempiere agli obblighi sanciti dalla legge in materia di manutenzione straordinaria, l'amministratore non deve attendere la deliberazione dell'assemblea, trattandosi di atti urgenti e che lo espongono direttamente, e personalmente, a responsabilità penale. In ogni caso non rileva l'ignoranza dello stato di pericolo in cui si trova il caseggiato, né una preventiva diffida, con specifica previsione di un termine perentorio entro cui provvedere alla manutenzione dell'immobile pericolante, da parte della pubblica autorità: l'obbligo di mettere mano all'esecuzione dei lavori necessari a rimuovere il pericolo per l'incolumità dei condomini o dei terzi sorge infatti indipendentemente da qualsiasi provvedimento della pubblica amministrazione.
La responsabilità penale dell'amministratore: casi pratici. Alla luce di quanto sopra si può affermare che, in linea generale, ogni evento dannoso conseguente a un mancato tempestivo intervento di riparazione è ascrivibile all'amministratore, il quale può addirittura incorrere in responsabilità penale. Nella predetta sentenza n. 34147 dello scorso 06.09.2012 della Suprema corte, come detto, l'amministratore condominiale è stato ritenuto responsabile per le gravi lesioni subite da un'anziana donna che è inciampata rovinando a terra causata a causa di avvallamenti e sconnessioni della pavimentazione in prossimità di un tombino: è certo infatti che l'eliminazione di un'insidia o trabocchetto derivante dal mancato livellamento della pavimentazione rappresenti intervento di ordine urgente a carico dell'amministratore.
In un altro caso deciso dalla giurisprudenza un amministratore è stato invece chiamato a rispondere penalmente per le lesioni causate a un passante dalla caduta di una tegola da un tetto in stato di cattiva manutenzione. Allo stesso modo l'amministratore può essere ritenuto responsabile (per violazione dell'obbligo giuridico di vigilanza) per le conseguenze di un incendio riconducibile a un difetto di installazione di una canna fumaria di proprietà di un terzo estraneo al condominio che attraversi parti comuni dell'edificio. Infine, è certamente responsabile se ignora il contenuto di un'ordinanza del sindaco che gli imponga l'esecuzione di urgenti riparazioni dell'immobile, stante il pericolo di crollo di alcune parti comuni.
I limiti della responsabilità penale dell'amministratore. È importante precisare che la responsabilità dell'amministratore per omissione di lavori deve essere accertata in concreto. Ad esempio qualora vi sia un mancato stanziamento dei fondi necessari per porre rimedio al degrado che dà luogo al pericolo, per parte della giurisprudenza non potrebbe ipotizzarsi alcuna responsabilità dell'amministratore per non avere attuato interventi in quanto, in tale situazione, la responsabilità è di ciascun singolo condomino. Quindi l'amministratore non potrà considerarsi colpevole se, nonostante il costante interessamento per la soluzione del problema verificatosi nello stabile, ci sia una inerzia dell'organo assembleare che non abbia dotato l'amministratore di fondi necessari per la copertura finanziaria dei lavori urgenti utili alla eliminazione del pericolo.
Del resto, poiché la responsabilità penale sorge allorché dall'omissione dei lavori derivi un concreto pericolo per l'incolumità delle persone, è sufficiente per l'amministratore, al fine di andare esente da responsabilità, intervenire sugli effetti anziché sulla causa della rovina, ovverosia prevenire la specifica situazione di pericolo interdicendo, ove ciò sia possibile, l'accesso o il transito nelle zone pericolanti (ad esempio facendo mettere una recinzione nella zona in cui si è verificata la caduta di calcinacci).
In ogni caso il rifiuto dell'assemblea condominiale di deliberare lavori urgenti, pur in presenza di un obbligo di legge o di un provvedimento dell'autorità, legittima l'amministratore, in forza dei poteri di legge, a denunciare la decisione assembleare alternativamente alla pubblica amministrazione o all'autorità giudiziaria che, con il loro potere, possono porre in atto ogni rimedio affinché non vi siano danni e la situazione non possa procurare ulteriori e più gravi conseguenze.
Infine, merita di essere ricordato che la giurisprudenza ha escluso la responsabilità dell'amministratore in relazione all'inottemperanza a un provvedimento del sindaco che gli imponga di effettuare lavori per l'eliminazione di infiltrazioni di acqua nell'appartamento di un solo condomino: tali provvedimenti infatti son invalidi, in quanto relativi alla proprietà esclusiva (articolo ItaliaOggi Sette del 24.09.2012).

APPALTIGare, informativa prefettizia sempre ok.
Nelle gara pubbliche l'informativa Prefettizia è una tipica misura cautelare di Polizia, preventiva e interdittiva, che si aggiunge alle misure di prevenzione antimafia di natura giurisprudenziale. Non occorre, quindi, la prova di fatti di reato e dell'effettiva infiltrazione mafiosa nell'impresa, né la prova del reale condizionamento delle scelte dell'impresa.

Per i giudici del Consiglio di Stato l'informativa prefettizia non viola la Costituzione, né la normativa antimafia e la legge sul procedimento amministrativo.
La vicenda
Una ditta era ricorsa contro la Prefettura sostenendo una serie di censure nei suoi confronti riguardanti la violazione dell’art. 24 della Costituzione, la violazione della normativa in tema di informazioni antimafia e della legge sul procedimento amministrativo, nonché l’eccesso di potere sotto svariati profili; la ditta impugnava l’informativa prefettizia interdittiva del 13.09.2010, emessa a suo carico in occasione dell’aggiudicazione di una gara e relativo affidamento dei lavori di sistemazione e ripristino della funzionalità di una strada rurale appartenente ad un ente locale.
Il tribunale amministrativo aveva ritenuto il ricorso della ditta non fondato poiché la presenza di fatti obiettivi era tale da giustificare l’informativa prefettizia.
La difesa in Cassazione
La difesa della SRL in secondo grado, che l’ha vista soccombere, si basava sul fatto che non sussisteva alcuna circostanza di fatto oggettivamente sintomatica del pericolo concreto di condizionamento mafioso essendosi la amministrazione, attestata su un piano astratto ed ipotetico e che comunque, rispetto al quadro indiziario tenuto presente dal primo giudice all’atto della pronunzia, vi sarebbero stati successivi sviluppi che porterebbero a delineare un quadro di ancor minore consistenza e anzi di affievolimento delle ipotesi indiziarie della Prefettura.
L’analisi della Cassazione
La Corte di Cassazione osserva che i tratti caratterizzanti dell’istituto dell’informativa prefettizia, di cui agli artt. 4 del D.Lgs. n. 490/1994 e 10 del DPR n. 252/1998, si spiegano nella logica di una anticipazione della soglia di difesa sociale ai fini di una tutela avanzata nel campo del contrasto della criminalità organizzata, in modo da prescindere da soglie di rilevanza probatorie tipiche del diritto penale, per cercare di cogliere l’affidabilità dell’impresa affidataria dei lavori.
Di conseguenza le cautele antimafia non rispondono a finalità di accertamento di responsabilità, bensì di massima anticipazione dell’azione di prevenzione rispetto alla quale sono per legge rilevanti fatti e vicende anche solo sintomatici ed indiziari, al di là dell’individuazione di responsabilità penali.
La giurisprudenza ha più volte evidenziato che si tratta di una tipica misura cautelare di polizia, preventiva e interdittiva, che si aggiunge alle misure di prevenzione antimafia di natura giurisdizionale e che prescinde dall’accertamento in sede penale di uno o più reati connessi all’associazione di tipo mafioso; non occorre quindi la prova di fatti di reato e dell’effettiva infiltrazione mafiosa nell’impresa, né la prova del reale condizionamento delle scelte dell’impresa da parte di associazioni o soggetti mafiosi, essendo sufficiente il tentativo o il rischio di infiltrazione, l’influenza o il condizionamento latente, la possibilità di condizionare le scelte dell’impresa.
In particolare, con riferimento agli elementi di fatto idonei a sorreggere l’impianto probatorio delle informative prefettizie, la giurisprudenza ha rilevato che in tali ipotesi il Prefetto, anziché limitarsi a riscontrare la sussistenza di specifici elementi (come avviene per gli accertamenti eseguiti ai sensi dell’art. 10, comma 7, lettere a) e b), del DPR n. 252/1998), deve effettuare la propria valutazione sulla scorta di uno specifico quadro indiziario, ove assumono rilievo prevalente i fattori induttivi della non manifesta infondatezza che i comportamenti e le scelte dell’imprenditore possano rappresentare un veicolo di infiltrazione delle organizzazioni criminali nelle funzioni della pubblica amministrazione; pertanto, si può ravvisare l’emergenza di tentativi di infiltrazione mafiosa in fatti in sé e per sé privi dell’assoluta certezza quali una condanna non irrevocabile, l’irrogazione di misure cautelari, collegamenti parentali, cointeressenze societarie e/o frequentazioni con soggetti malavitosi, dichiarazioni di pentiti, ma che, nel loro insieme, siano tali da fondare un giudizio di possibilità che l’attività d’impresa possa, anche in maniera indiretta, agevolare le attività criminali o esserne in qualche modo condizionata per vicinanza, nei centri decisionali, di soggetti legati ad organizzazioni mafiose.
Per i giudici di legittimità le valutazioni della Prefettura risultano sostenute da un quadro indiziario sufficiente che non trae forza da semplici sospetti o congetture, ma risulta influenzato in via cautelativa dalla esigenza di anticipazione della soglia di difesa sociale e, quindi, prescinde dalla rilevanza probatoria tipica del diritto penale.
Per le motivazioni suesposte la Corte di Cassazione ritiene, pertanto, che il ricorso della SRL è infondato (commento tratto da www.ispoa.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 05.09.2012 n. 4709 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL’amministrazione non è tenuta a comunicare i propri atti secondo le regole specificamente previste per la notificazione degli atti giudiziari e, quindi, non deve necessariamente indirizzare i propri atti, prioritariamente, nel luogo di residenza del destinatario.
Invero, ove non sia possibile la comunicazione diretta in mani del destinatario dell'avviso di avvio del procedimento, l'Amministrazione può avvalersi del servizio postale e non deve necessariamente osservare il sistema di notificazione degli atti giudiziari a mezzo di ufficiale giudiziario. Il recapito del plico a mezzo lettera raccomandata avviene con consegna diretta al destinatario o alle persone abilitate a riceverlo in suo luogo, indicate dall'art. 38 comma 2, del regolamento di esecuzione del Codice Postale approvato con d.P.R. 29.05.1982 n. 655. Il successivo art. 40, comma 4, prevede che sia dato avviso di giacenza tutte le volte in cui non sia stata possibile la distribuzione con consegna al destinatario. In tale seconda ipotesi, si presume la conoscenza alla data di rilascio dell' avviso di giacenza presso l'ufficio postale.
Si realizza, quindi, un sistema che, sia nei casi di consegna diretta, sia a mezzo del succedaneo avviso di giacenza in caso di mancato diretto recapito per assenza del destinatario, è idoneo a rendere edotto l'interessato che, in ogni caso, versa in condizione, ove si allontani dallo stabile luogo di residenza, di approntare strumenti minimi per essere informato o per verificare l'esistenza di comunicazioni a lui indirizzate.
In tal senso, è quindi possibile per l’amministrazione effettuare le comunicazioni dei propri atti nel luogo di domicilio del destinatario o, comunque, in altro luogo la cui indicazione risulti fornita all’amministrazione direttamente dallo stesso destinatario. Infatti, in base al disposto di cui all'art. 1335 c.c., applicabile in materia di comunicazioni di atti recettizi anche al di fuori dell'ambito contrattuale, ove il documento non venga consegnato al destinatario personalmente, la presunzione di conoscenza può aversi solo quando la consegna sia avvenuta presso il domicilio del destinatario, tranne che costui non provi di essere stato, senza sua colpa, nella impossibilità di averne notizia. E per indirizzo, al fine della presunzione di conoscenza dell'atto che vi perviene, deve considerarsi il luogo che per il collegamento ordinario, quale la dimora o il domicilio, o per normale frequentazione, come posto di esplicazione dell'attività lavorativa, o per preventiva indicazione, risulti in concreto nella sfera di dominio e controllo del destinatario dell'atto.
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Quanto alle ulteriori formalità e con specifico riguardo alla comunicazione a mezzo posta, va richiamata la L. 20.11.1982 n. 890 (che disciplina le <<Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari>>), che all’art. 8, così dispone per il caso in cui l'agente postale non possa recapitare la comunicazione “per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone sopra menzionate”; ebbene, in siffatte evenienze: “il piego è depositato lo stesso giorno presso l'ufficio postale preposto alla consegna o presso una sua dipendenza. Del tentativo di notifica del piego e del suo deposito presso l'ufficio postale o una sua dipendenza è data notizia al destinatario, a cura dell'agente postale preposto alla consegna, mediante avviso in busta chiusa a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento che, in caso di assenza del destinatario, deve essere affisso alla porta d'ingresso oppure immesso nella cassetta della corrispondenza dell'abitazione, dell'ufficio o dell'azienda”.
Lo stesso articolo precisa, poi, al comma IV che: “La notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al secondo comma ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore”; aggiungendo, infine, all’ultimo comma, che: “Qualora la data delle eseguite formalità manchi sull'avviso di ricevimento o sia, comunque, incerta, la notificazione si ha per eseguita alla data risultante dal bollo di spedizione dell'avviso stesso”.

Al riguardo, giova considerare che l’amministrazione non è tenuta a comunicare i propri atti secondo le regole specificamente previste per la notificazione degli atti giudiziari e, quindi, non deve necessariamente indirizzare i propri atti, prioritariamente, nel luogo di residenza del destinatario (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 09.03.2011, n. 1468, ove si chiarisce che: "Ove non sia possibile la comunicazione diretta in mani del destinatario dell'avviso di avvio del procedimento, l'Amministrazione può avvalersi del servizio postale e non deve necessariamente osservare il sistema di notificazione degli atti giudiziari a mezzo di ufficiale giudiziario. Il recapito del plico a mezzo lettera raccomandata avviene con consegna diretta al destinatario o alle persone abilitate a riceverlo in suo luogo, indicate dall'art. 38 comma 2, del regolamento di esecuzione del Codice Postale approvato con d.P.R. 29.05.1982 n. 655. Il successivo art. 40, comma 4, prevede che sia dato avviso di giacenza tutte le volte in cui non sia stata possibile la distribuzione con consegna al destinatario. In tale seconda ipotesi, si presume la conoscenza alla data di rilascio dell' avviso di giacenza presso l'ufficio postale. Si realizza, quindi, un sistema che, sia nei casi di consegna diretta, sia a mezzo del succedaneo avviso di giacenza in caso di mancato diretto recapito per assenza del destinatario, è idoneo a rendere edotto l'interessato che, in ogni caso, versa in condizione, ove si allontani dallo stabile luogo di residenza, di approntare strumenti minimi per essere informato o per verificare l'esistenza di comunicazioni a lui indirizzate"; analogamente cfr. Cons. Stato Sez., V, 25.01.2005, nonché la giurisprudenza richiamata nella memoria di parte resistente del 14.05.2012).
In tal senso, è quindi possibile per l’amministrazione effettuare le comunicazioni dei propri atti nel luogo di domicilio del destinatario o, comunque, in altro luogo la cui indicazione risulti fornita all’amministrazione direttamente dallo stesso destinatario (Cfr. Cassazione civile, Sent. n. 10564 del 24-10-1998, secondo cui: “in base al disposto di cui all'art. 1335 c.c., applicabile in materia di comunicazioni di atti recettizi anche al di fuori dell'ambito contrattuale, ove il documento non venga consegnato al destinatario personalmente, la presunzione di conoscenza può aversi solo quando la consegna sia avvenuta presso il domicilio del destinatario, tranne che costui non provi di essere stato, senza sua colpa, nella impossibilità di averne notizia. E per indirizzo, al fine della presunzione di conoscenza dell'atto che vi perviene, deve considerarsi il luogo che per il collegamento ordinario, quale la dimora o il domicilio, o per normale frequentazione, come posto di esplicazione dell'attività lavorativa, o per preventiva indicazione, risulti in concreto nella sfera di dominio e controllo del destinatario dell'atto”).
Quanto alle ulteriori formalità e con specifico riguardo, per quel che qui rileva, alla comunicazione a mezzo posta, va richiamata la L. 20-11-1982 n. 890 (che disciplina le <<Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari>>), che all’art. 8, così dispone per il caso in cui l'agente postale non possa recapitare la comunicazione “per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone sopra menzionate”; ebbene, in siffatte evenienze: “il piego è depositato lo stesso giorno presso l'ufficio postale preposto alla consegna o presso una sua dipendenza. Del tentativo di notifica del piego e del suo deposito presso l'ufficio postale o una sua dipendenza è data notizia al destinatario, a cura dell'agente postale preposto alla consegna, mediante avviso in busta chiusa a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento che, in caso di assenza del destinatario, deve essere affisso alla porta d'ingresso oppure immesso nella cassetta della corrispondenza dell'abitazione, dell'ufficio o dell'azienda”.
Lo stesso articolo precisa, poi, al comma IV che: “La notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al secondo comma ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore”; aggiungendo, infine, all’ultimo comma, che: “Qualora la data delle eseguite formalità manchi sull'avviso di ricevimento o sia, comunque, incerta, la notificazione si ha per eseguita alla data risultante dal bollo di spedizione dell'avviso stesso” (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.09.2012 n. 2239 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Diniego concessione edilizia relativa ad allargamento di un cancello.
E’ legittimo il diniego di concessione edilizia per l’allargamento di un cancello d’accesso e la consequenziale ordinanza sindacale di demolizione emessa in caso accertato ampliamento del passo carraio mediante demolizione di un pilastro del muretto di confine e il suo spostamento.
In sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio sussiste l’obbligo per il comune di verificare il rispetto da parte dell’istante dei limiti privatistici, a condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili e/o non contestati, di modo che il controllo da parte dell’ente locale si traduca in una semplice presa d’atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad un’accurata e approfondita disanima dei rapporti civilistici.
Se, dunque, l’amministrazione normalmente non è tenuta a svolgere indagini particolari in presenza di una richiesta edificatoria, al contrario, qualora uno o più controinteressati (siano essi comproprietari o, confinanti) si attivino per denunciare il proprio dissenso rispetto al rilascio del titolo edificatorio, il comune dovrà verificare se, a base dell’istanza edificatoria, sia riconoscibile l’effettiva sussistenza della disponibilità del bene oggetto dell’intervento edificatorio, la legittimazione attiva all’ottenimento della concessione edilizia al proprietario dell’area o a chi abbia il titolo per richiederla, ai sensi dell’art. 11 del d.P.R. 380/2001 (tratto da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.09.2012 n. 4676 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Requisiti necessari per la voltura di concessioni in zona agricola.
Per la edificazione in zona agricola il titolo abilitativo viene concesso ad un soggetto non esclusivamente in quanto titolare di un diritto di proprietà, ma in ragione del possesso da parte sua di una delle necessarie qualifiche, perché la caratterizzazione di imprenditore agricolo viene ritenuta l'unica garanzia della prescritta destinazione delle opere all'agricoltura (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.08.2012 n. 33381 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Una piscina di mq. 45 ha dimensioni comunque tali da assumere un proprio, autonomo valore di mercato, incidente sul pregio dell’immobile, sicché ne è esclusa la qualificazione in termini di pertinenza.
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Un gazebo di dimensioni non trascurabili (m. 2,45 per 2,45 con altezza di m. 2,55), per quanto non stabilmente infisso al suolo, tuttavia viene a soddisfare un’esigenza di carattere non precario.

Il ricorrente, proprietario di area sita in via Boccapiana n. 14 del Comune di Palestrina, impugna l’ordine di demolizione n. 84 del 2006, avente ad oggetto le seguenti opere eseguite senza permesso di costruire: a) ampliamento di fabbricato A già oggetto di concessione in sanatoria per mq 68 al piano terra e mq 105 al primo piano; b) tamponatura di fabbricato F destinato a tettoia e trasformato in deposito; c) realizzazione di un gazebo in legno e di una piscina di mq 45.
Il Tribunale premette che tutti questi interventi sono stati esattamente ritenuti soggetti a permesso di costruire da parte dell’amministrazione, con riferimento anche alla piscina prefabbricata ed al gazebo il legno, per i quali il ricorrente ritiene, invece, fosse necessaria la sola DIA.
Quanto alla piscina, infatti, essa ha dimensioni (mq 45) comunque tali da assumere un proprio, autonomo valore di mercato, incidente sul pregio dell’immobile, sicché, sulla base della costante giurisprudenza di questo Tribunale, ne è esclusa la qualificazione in termini di pertinenza.
Quanto al gazebo, si è in presenza anche in tal caso di una nuova costruzione, di dimensioni non trascurabili (m. 2,45 per 2,45 con altezza di m. 2,55), che, per quanto non stabilmente infissa al suolo, tuttavia viene a soddisfare un’esigenza di carattere non precario del ricorrente.
È perciò infondato il secondo motivo di ricorso, con cui si è sostenuto che gazebo e piscina fossero soggetti a DIA.
Ciò premesso, va rilevato che erroneamente il ricorrente ritiene che l’atto impugnato si basi sull’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, atteso che non si vede, né viene indicato dal ricorrente stesso, quale permesso di costruire sarebbe stato eseguito in parziale difformità: si è invece in presenza di una nuova attività abusiva, eseguita in parte su immobili già oggetto di sanatoria (fabbricato A e B), in parte no (gazebo e piscina).
Con riferimento a queste ultime opere, una volta acquisita la necessità del permesso di costruire, segue la legittimità dell’ordine di demolizione ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, espressamente indicato dall’atto impugnato quale base normativa del provvedimento.
Con riguardo agli interventi eseguiti sui fabbricati preesistenti, quand’anche essi dovessero valutarsi alla luce dell’art. 33 del d.P.R. n. 380 del 2001, anziché dell’art. 31 (ma su questo profilo il ricorrente non ha svolto alcuna censura), in ogni caso, per costante giurisprudenza di questo Tribunale, l’eventuale impossibilità di ripristino dello stato originario non ha alcuna incidenza sulla legittimità dell’ordine di demolizione, poiché si tratta di circostanza rilevabile dall’amministrazione nella fase esecutiva: è quindi infondato il primo motivo di ricorso, con cui si lamenta che l’amministrazione non avrebbe potuto ordinare la demolizione delle opere, senza motivare previamente su di un simile profilo.
È infine infondato il terzo motivo: a fronte di un abuso edilizio, l’attività repressiva della pubblica amministrazione è vincolata dalla legge nell’an e nel quomodo, sicché è incongruo evocare in tali casi il principio di proporzionalità; né la circostanza che l’area del ricorrente sia già gravemente compromessa dall’abusivismo e rientri nella perimetrazione dei nuclei abusivi esime dal munirsi nei necessari titoli abilitativi.
Quanto, infine, alla risalenza nel tempo delle opere, neppure comprovata in fatto, è costante giurisprudenza di questo Tribunale che si tratti di profilo irrilevante, poiché il solo affidamento che l’ordinamento protegge è quello legittimo, e non certo quello derivante da condotte lesive della legge (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 13.06.2012 n. 5386 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’eventuale impossibilità di ripristino dello stato originario non ha alcuna incidenza sulla legittimità dell’ordine di demolizione, poiché si tratta di circostanza rilevabile dall’amministrazione nella fase esecutiva: è quindi infondato il primo motivo di ricorso, con cui si lamenta che l’amministrazione non avrebbe potuto ordinare la demolizione delle opere, senza motivare previamente su di un simile profilo.
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A fronte di un abuso edilizio, l’attività repressiva della pubblica amministrazione è vincolata dalla legge nell’an e nel quomodo, sicché è incongruo evocare in tali casi il principio di proporzionalità; né la circostanza che l’area del ricorrente sia già gravemente compromessa dall’abusivismo e rientri nella perimetrazione dei nuclei abusivi esime dal munirsi nei necessari titoli abilitativi.
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Quanto, infine, alla risalenza nel tempo delle opere, neppure comprovata in fatto, è costante giurisprudenza di questo Tribunale che si tratti di profilo irrilevante, poiché il solo affidamento che l’ordinamento protegge è quello legittimo, e non certo quello derivante da condotte lesive della legge

Il ricorrente, proprietario di area sita in via B... n. 14 del Comune di Palestrina, impugna l’ordine di demolizione n. 84 del 2006, avente ad oggetto le seguenti opere eseguite senza permesso di costruire: a) ampliamento di fabbricato A già oggetto di concessione in sanatoria per mq 68 al piano terra e mq 105 al primo piano; b) tamponatura di fabbricato F destinato a tettoia e trasformato in deposito; c) realizzazione di un gazebo in legno e di una piscina di mq 45.
Il Tribunale premette che tutti questi interventi sono stati esattamente ritenuti soggetti a permesso di costruire da parte dell’amministrazione, con riferimento anche alla piscina prefabbricata ed al gazebo il legno, per i quali il ricorrente ritiene, invece, fosse necessaria la sola DIA.
Quanto alla piscina, infatti, essa ha dimensioni (mq 45) comunque tali da assumere un proprio, autonomo valore di mercato, incidente sul pregio dell’immobile, sicché, sulla base della costante giurisprudenza di questo Tribunale, ne è esclusa la qualificazione in termini di pertinenza.
Quanto al gazebo, si è in presenza anche in tal caso di una nuova costruzione, di dimensioni non trascurabili (m. 2,45 per 2,45 con altezza di m. 2,55), che, per quanto non stabilmente infissa al suolo, tuttavia viene a soddisfare un’esigenza di carattere non precario del ricorrente.
È perciò infondato il secondo motivo di ricorso, con cui si è sostenuto che gazebo e piscina fossero soggetti a DIA.
Ciò premesso, va rilevato che erroneamente il ricorrente ritiene che l’atto impugnato si basi sull’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, atteso che non si vede, né viene indicato dal ricorrente stesso, quale permesso di costruire sarebbe stato eseguito in parziale difformità: si è invece in presenza di una nuova attività abusiva, eseguita in parte su immobili già oggetto di sanatoria (fabbricato A e B), in parte no (gazebo e piscina).
Con riferimento a queste ultime opere, una volta acquisita la necessità del permesso di costruire, segue la legittimità dell’ordine di demolizione ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, espressamente indicato dall’atto impugnato quale base normativa del provvedimento.
Con riguardo agli interventi eseguiti sui fabbricati preesistenti, quand’anche essi dovessero valutarsi alla luce dell’art. 33 del d.P.R. n. 380 del 2001, anziché dell’art. 31 (ma su questo profilo il ricorrente non ha svolto alcuna censura), in ogni caso, per costante giurisprudenza di questo Tribunale, l’eventuale impossibilità di ripristino dello stato originario non ha alcuna incidenza sulla legittimità dell’ordine di demolizione, poiché si tratta di circostanza rilevabile dall’amministrazione nella fase esecutiva: è quindi infondato il primo motivo di ricorso, con cui si lamenta che l’amministrazione non avrebbe potuto ordinare la demolizione delle opere, senza motivare previamente su di un simile profilo.
È infine infondato il terzo motivo: a fronte di un abuso edilizio, l’attività repressiva della pubblica amministrazione è vincolata dalla legge nell’an e nel quomodo, sicché è incongruo evocare in tali casi il principio di proporzionalità; né la circostanza che l’area del ricorrente sia già gravemente compromessa dall’abusivismo e rientri nella perimetrazione dei nuclei abusivi esime dal munirsi nei necessari titoli abilitativi.
Quanto, infine, alla risalenza nel tempo delle opere, neppure comprovata in fatto, è costante giurisprudenza di questo Tribunale che si tratti di profilo irrilevante, poiché il solo affidamento che l’ordinamento protegge è quello legittimo, e non certo quello derivante da condotte lesive della legge (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 13.06.2012 n. 5386 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 9 della l. n. 122 del 1989 ha per oggetto i soli parcheggi interamente interrati, mentre, nel caso di specie, la stessa ricorrente ammette che il proprio è parcheggio solo semi-interrato: la giurisprudenza si è oramai attestata nel senso che, al di fuori della eccezionale ipotesi prevista dalla legge Tognoli, il parcheggio sia soggetto all’ordinaria disciplina edilizia.
Esso, pertanto, in ragione dell’autonomo valore di mercato che gli è proprio, non costituisce pertinenza a fini urbanistici, ed è soggetto a permesso di costruire.
La censura è perciò infondata: a nulla rileva accertare in causa se l’amministrazione, nel descrivere l’abuso, abbia omesso di qualificarlo quale parcheggio, poiché anche in tale ipotesi il manufatto abusivo è soggetto a demolizione.

La ricorrente, proprietaria di area sita in via Borgo valle Vergine Campagna del Comune di Rocca di Papa, impugna l’ordine di demolizione n. 88 del 2007, avente ad oggetto la realizzazione, senza permesso di costruire, di un parcheggio di m. 7 per 6, con altezza da m 2,60 a m. 3,60.
Con il secondo motivo di ricorso, da esaminarsi in via prioritaria, viene dedotto che il parcheggio, alla luce dell’art. 9 della l. n. 122 del 1989, può essere eseguito con denuncia di inizio attività, sicché, in difetto di essa, non sarebbe comunque possibile ordinare la demolizione, ma sarebbe necessario procedere ai sensi dell’art. 37 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Il Tribunale osserva che l’art. 9 della l. n. 122 del 1989, a tutt’oggi in vigore secondo quanto disposto dall’art. 144, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 ha per oggetto i soli parcheggi interamente interrati, mentre, nel caso di specie, la stessa ricorrente ammette che il proprio è parcheggio solo semi-interrato: la giurisprudenza si è oramai attestata nel senso che, al di fuori della eccezionale ipotesi prevista dalla legge Tognoli, il parcheggio sia soggetto all’ordinaria disciplina edilizia (da ultimo, Tar Liguria, n. 1176 del 2011).
Esso, pertanto, in ragione dell’autonomo valore di mercato che gli è proprio, non costituisce pertinenza a fini urbanistici, ed è soggetto a permesso di costruire.
La censura è perciò infondata: a nulla rileva accertare in causa se l’amministrazione, nel descrivere l’abuso, abbia omesso di qualificarlo quale parcheggio, poiché anche in tale ipotesi il manufatto abusivo è soggetto a demolizione (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 13.06.2012 n. 5369 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'aver presentato domanda di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 non si riflette sulla legittimità dell’ordine di demolizione; tanto meno l’amministrazione è tenuta a valutare in anticipo se l’opera possa usufruire di sanatoria, oppure no, come la ricorrente sembra credere, nello sviluppo dell’ultimo motivo di ricorso.
Infondato è anche il primo motivo di ricorso, con cui si deduce che la ricorrente ha presentato domanda di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001: per costante giurisprudenza di questo Tribunale, tale circostanza non si riflette sulla legittimità dell’ordine di demolizione; tanto meno l’amministrazione è tenuta a valutare in anticipo se l’opera possa usufruire di sanatoria, oppure no, come la ricorrente sembra credere, nello sviluppo dell’ultimo motivo di ricorso (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 13.06.2012 n. 5369 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
Sul presunto difetto di motivazione si osserva che l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (C.d.S., sez. IV, 01.10.2007, n. 5049; 10.12.2007, n. 6344; 31.08.2010, n. 3955; sez. V, 07.09.2009, n. 5229) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 13.06.2012 n. 5365 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo, il che rende contra ius la determinazione espressa dalla Regione, nella misura in cui ritiene non esaminabile l’istanza di sanatoria rispetto alla quale l’Amministrazione era tenuta a dar contezza mediante un processo valutativo di compatibilità dell’opera con il vincolo ex lege n. 1497/1939.
Difatti, l’autorizzazione paesistica può essere rilasciata in via posticipata rispetto alla realizzazione dell’intervento edilizio in zona paesisticamente vincolata al fine di consentire la sanatoria ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47/1985, mediante valutazione concernente la compatibilità paesistica eseguibile anche successivamente alla realizzazione del manufatto.

La questione oggetto di controversia attiene alla pretesa illegittimità dell’assunto espresso dall’Assessorato regionale nella nota oggetto di impugnativa che sull’istanza di autorizzazione a sanatoria delle opere realizzate dalla ricorrente in area sottoposta a vincolo ex lege n. 1497/1939 si è pronunziata nel senso che “la legislazione vigente non prevede allo stato l’istituto dell’autorizzazione ex art. 7 L. 1497/1939 a sanatoria di opere realizzate negli ambiti vincolati ai sensi della predetta legge. In tali ambiti, pertanto, vige il principio generale dell’inapplicabilità dell’art. 13 della L. 28.02.1985, n. 47”.
Parte ricorrente deduce che tale interpretazione resa in relazione alla disposizione normativa contenuta nell’art. 7 della legge n. 1497/1939 contrasterebbe, ai fini del rilascio dell’accertamento di conformità sull’istanza presentata ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985, con la norma di cui al successivo art. 32, che ammette il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria, previa acquisizione del parere favorevole reso dall’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo insistente sull’area interessata dalla realizzazione del manufatto.
Orbene, al fine del decidere, il Collegio ritiene che decisiva valenza assume, ai fini del conseguimento o meno dell’accertamento di conformità, il parere formulato nei termini sopra espressi dalla Regione Lazio sull’istanza presentata dalla stessa sig.ra Maggi sull’opera eseguita in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, il quale risulta essere di contenuto sostanzialmente negativo, in ragione però non di una valutazione nel merito dell’istanza, bensì della ritenuta inapplicabilità della disposizione di cui all’art. 13 della legge n. 47/1985 alle zone sottoposte a vincolo ex lege n. 1497/1939.
Ebbene, il provvedimento impugnato deve ritenersi affetto dal prospettato vizio di legittimità, in considerazione di quanto previsto a norma dell’art. 32, comma 1, della legge n. 47/1985 secondo cui il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo, il che rende contra ius la determinazione espressa dalla Regione, nella misura in cui ritiene non esaminabile l’istanza di sanatoria rispetto alla quale l’Amministrazione era tenuta a dar contezza mediante un processo valutativo di compatibilità dell’opera con il vincolo ex lege n. 1497/1939.
Difatti, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale l’autorizzazione paesistica può essere rilasciata in via posticipata rispetto alla realizzazione dell’intervento edilizio in zona paesisticamente vincolata al fine di consentire la sanatoria ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47/1985, mediante valutazione concernente la compatibilità paesistica eseguibile anche successivamente alla realizzazione del manufatto (ex multis, TAR Latina 28.03.2008, n. 269; TAR Puglia, Bari, Sez. II, 09.02.2011, n. 228; C. Stato, Sez. VI, 10.03.2004, n. 1205) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter, sentenza 11.06.2022 n. 5299 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di omissione della comunicazione dell'avvio del procedimento (strumento principale di partecipazione), l'adozione di provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non deve essere preceduta dal suddetto avviso, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati emessi all'esito di un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime.
La violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento non costituisce un motivo idoneo a determinare l'annullabilità dei provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi, in quanto è palese, attesa l'assenza di qualsivoglia titolo abilitativo all'edificazione, che il contenuto dispositivo del provvedimento "non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato", sicché sussiste la condizione prevista dall'art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241 del 1990 per determinare la non annullabilità del provvedimento impugnato.
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L'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.

b). per consolidata regola giurisprudenziale, ampiamente condivisa da questo TAR, in tema di omissione della comunicazione dell'avvio del procedimento (strumento principale di partecipazione), l'adozione di provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non deve essere preceduta dal suddetto avviso, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati emessi all'esito di un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime (Cons. Stato, sez. IV, 30.03.2000, n. 1814; TAR Campania, sez. IV, 28.03.2001, n. 1404, 14.06.2002, n. 3499, 12.02.2003, n. 797).
Più recentemente è stato precisato che la violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento non costituisce un motivo idoneo a determinare l'annullabilità dei provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi, in quanto è palese, attesa l'assenza di qualsivoglia titolo abilitativo all'edificazione, che il contenuto dispositivo del provvedimento "non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato", sicché sussiste la condizione prevista dall'art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241 del 1990 per determinare la non annullabilità del provvedimento impugnato (Consiglio di Stato, sez. IV, 15.05.2009, n. 3029).
c). infine, sul presunto difetto di motivazione si osserva che l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (C.d.S., sez. IV, 01.10.2007, n. 5049; 10.12.2007, n. 6344; 31.08.2010, n. 3955; sez. V, 07.09.2009, n. 5229) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 21.05.2012 n. 4526 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il diritto di accesso ai documenti amministrativi di cui all’art. 22, L. 07.08.1990, n. 241, posto a garanzia della trasparenza ed imparzialità della P.A., trova applicazione in ogni tipologia di attività della pubblica amministrazione.
L’Amministrazione detentrice dei documenti amministrativi, purché direttamente riferibili alla tutela di un interesse personale e concreto, non può limitare il diritto di accesso, se non per motivate esigenze di riservatezza.
La conoscenza degli atti amministrativi può essere realizzata pienamente attraverso il diritto di accesso normativamente previsto, costituendo il presupposto per il corretto ed imparziale esercizio dei pubblici poteri, in quanto rende possibile il controllo degli amministrati sugli atti che li riguardano.
Il diritto di accesso consente una indefettibile tutela accessoria dei soggetti privati che interloquiscono con le pubbliche amministrazioni, nel presupposto che, come nel caso in esame, i soggetti titolari di interesse giuridicamente qualificato non abbiano altra possibilità per conoscere il contenuto dei documenti amministrativi.

E’ ormai principio consolidato che il diritto di accesso ai documenti amministrativi di cui all’art. 22, L. 07.08.1990, n. 241, posto a garanzia della trasparenza ed imparzialità della P.A., trova applicazione in ogni tipologia di attività della pubblica amministrazione.
In linea di principio, dunque, l’Amministrazione detentrice dei documenti amministrativi, purché direttamente riferibili alla tutela di un interesse personale e concreto, non può limitare il diritto di accesso, se non per motivate esigenze di riservatezza.
Ed invero, osserva il Collegio che la conoscenza degli atti amministrativi può essere realizzata pienamente attraverso il diritto di accesso normativamente previsto, costituendo il presupposto per il corretto ed imparziale esercizio dei pubblici poteri, in quanto rende possibile il controllo degli amministrati sugli atti che li riguardano.
Osserva, ulteriormente, il Collegio che il diritto di accesso consente una indefettibile tutela accessoria dei soggetti privati che interloquiscono con le pubbliche amministrazioni, nel presupposto che, come nel caso in esame, i soggetti titolari di interesse giuridicamente qualificato non abbiano altra possibilità per conoscere il contenuto dei documenti amministrativi.
Tanto precisato, rileva il Collegio, con riferimento specifico alla controversia in esame, che non sussistono ragioni legittimamente ostative all’esercizio del diritto fatto valere dalle ricorrenti con l’istanza tesa ad ottenere copia degli atti ivi indicati, attenendo la richiesta ad atti certamente formati e detenuti dall'Amministrazione regionale, in relazione ai quali non risulta l'esclusione dall'accesso.
E’ indubbio, peraltro, che la posizione delle ricorrenti, titolari di autorizzazione all’esercizio dell’attività sanitaria, sia da sola sufficiente a ché le stesse possano vantare un interesse personale e concreto per la tutela della loro posizione a conoscere atti concernenti l’esercizio del potere autorizzatorio da parte dell’Ente pubblico a ciò preposto, attinente alla medesima attività sanitaria posta in essere nello stesso ambito territoriale.
D’altro canto, le perplessità espresse dalle ricorrenti in ordine ad irregolarità sull’attività sanitaria svolta dal controinteressato ha trovato riscontro negli atti di decadenza e sospensione dell’autorizzazione, successivamente adottati dalla Regione medesima.
Pertanto, ritenuta la fondatezza della pretesa al rilascio di copia degli atti sopra indicati, va dichiarato illegittimo il silenzio osservato in ordine all'istanza di accesso, con obbligo, per l'effetto, dell'Amministrazione competente, individuata nella Regione Lazio, di esibizione, ai fini della visione e dell’estrazione di copia, dei documenti di cui alla istanza del 27.10.2011, all'uopo presentata dalle ricorrenti (TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater, sentenza 16.05.2012 n. 4441 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'’irrogazione della sanzione demolitoria costituisce esercizio di attività vincolata, per cui i profili di eccesso di potere dedotti in questa sede non sono configurabili, atteso che essi presuppongono il carattere discrezionale dell’attività medesima.
L’abuso edilizio integra un illecito permanente e pertanto può essere perseguito in ogni tempo, senza che a corredo della sanzione comminata sia richiesta l’esplicitazione di una specifica motivazione, anche in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico al riguardo.

Considerato:
- che i due suindicati manufatti integrano interventi di nuova costruzione, i quali avrebbero richiesto, per la loro legittima realizzazione, la previa acquisizione del permesso di costruire, la cui assenza, nella specie pacifica, determina la sanzione demolitoria in concreto comminata, implicante l’obbligo, per i destinatari, di darvi esecuzione entro il termine indicato, a pena di acquisizione gratuita ex lege al patrimonio comunale delle opere stesse, nonché dell’area di sedime fino a 10 volte la superficie dell’opera abusiva;
- che l’irrogazione della sanzione di che trattasi costituisce esercizio di attività vincolata, per cui i profili di eccesso di potere dedotti in questa sede non sono configurabili, atteso che essi presuppongono il carattere discrezionale dell’attività medesima;
- che l’abuso edilizio integra un illecito permanente e pertanto può essere perseguito in ogni tempo, senza che a corredo della sanzione comminata sia richiesta l’esplicitazione di una specifica motivazione, anche in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico al riguardo;
- che, a fronte di quanto appena evidenziato, la perimetrazione dei nuclei abusivi, che ex se non determina alcuna variante urbanistica, non fa venir meno il potere dell’Amministrazione comunale di sanzionare gli abusi edilizi individuati nell’area oggetto della stessa;
- che peraltro la ratio sottesa alla L.r. n. 28/1980, in base alla quale il Comune ha proceduto alla perimetrazione dei nuclei abusivi, che è quella di consentire la sanatoria di tutti quei manufatti abusivi altrimenti non sanabili per contrasto con la destinazione di zona, deve intendersi superata dalle successive leggi statali in materia di condono edilizio, che hanno consentito di sanare gli abusi non solo formali, ma anche sostanziali;
- che, stante l’efficacia dell’ordinanza demolitoria, non essendo la stessa stata sospesa né in primo né in secondo grado nel corso del giudizio impugnatorio, l’effetto acquisitivo si è determinato automaticamente ex lege, una volta accertata l’inottemperanza all’ingiunzione di demolizione nel termine assegnato ai destinatari;
- che conseguentemente rispetto al verbale di accertamento di inottemperanza non possono riproporsi i motivi di doglianza già dedotti nei confronti della menzionata ordinanza;
- che, quanto agli altri vizi denunciati, deve precisarsi che il verbale de quo è stato correttamente redatto dalla Polizia municipale, quale organo di polizia giudiziaria, ed è stato notificato ai responsabili perché l’art. 31, comma 4, del d.P.R. n. 380/2001 e l’art. 15, comma 3, della L.r. n. 15/2008 ne richiedono la notifica affinché detto verbale possa costituire titolo per l’immissione in possesso dell’area da parte dell’Ente locale (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 23.04.2012 n. 3640 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per quanto riguarda la denunciata incongruità del termine assegnato per demolire –30 giorni dalla notifica del provvedimento–, la disposizione in concreto applicata, rappresentata dall’art. 33 del d.P.R. n. 380/2001 nulla dispone circa la durata di detto termine, stabilendo soltanto che esso sia congruo, laddove in altre ipotesi (cfr. art. 31 del medesimo decreto) esso viene fissato in un ben più lungo numero di giorni; in tal modo si lascia all'Amministrazione il potere di determinarlo.
Infine, per quanto riguarda la denunciata incongruità del termine assegnato per demolire –30 giorni dalla notifica del provvedimento– di cui alla doglianza sub 4), la disposizione in concreto applicata, rappresentata dall’art. 33 del d.P.R. n. 380/2001 nulla dispone circa la durata di detto termine, stabilendo soltanto che esso sia congruo, laddove in altre ipotesi (cfr. art. 31 del medesimo decreto) esso viene fissato in un ben più lungo numero di giorni; in tal modo si lascia all'Amministrazione il potere di determinarlo.
Quanto poi all’asserita sua incongruità rispetto a quello di 60 giorni per proporre ricorso giurisdizionale amministrativo, deve ritenersi che essa concretamente non sussiste, atteso che, per procedere alla demolizione d’ufficio, previa individuazione della ditta incaricata, è necessario un sopralluogo successivo alla scadenza del termine teso ad accertare l'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, senza considerare che in ultima ipotesi è possibile avanzare domanda risarcitoria, ove già fosse intervenuta una demolizione d'ufficio a fronte di una sanzione demolitoria ritenuta illegittima (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 23.04.2012 n. 3632 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa l'abusiva costruzione di un manufatto delle dimensioni di mq 8,00 per 2,00 mt. circa, con copertura, realizzato a ridosso del muro di altro organismo edilizio, va ricordato che, come è noto, in area vincolata tale genere di intervento necessità di autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, atteso che esso introduce modificazioni nell’assetto paesaggistico, sulla cui valutazione di compatibilità con il paesaggio non può che pronunciarsi in via preventiva l’Autorità preposta alla tutela del vincolo.
Parimenti, esso neppure può divenire oggetto di accertamento ex post della compatibilità, ai sensi dell’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004, giacché, comportando aumento volumetrico, per quanto modesto, non rientra in alcuno dei casi indicati a tale scopo da questa ultima disposizione di legge.
È altrettanto noto che la nozione di volume tecnico, ovvero pertinenziale, valevole in urbanistica non spiega invece effetti sul piano ambientale, laddove tutte le modifiche aventi un impatto sul territorio, anche di natura visiva, debbono essere oggetto di preventiva autorizzazione, quand’anche abbiano natura di pertinenza.

La ricorrente impugna l’ordine di demolizione n. 313 del 2007 del Comune di Roma, avente ad oggetto un manufatto delle dimensioni di mq 8,00 per 2,00 mt. circa, con copertura, realizzato a ridosso del muro di altro organismo edilizio: l’opera sorge su area di proprietà della ricorrente.
La demolizione è stata ordinata ai sensi dell’art. 33 del d.P.R. n. 380 del 2001. L’immobile è vincolato ai sensi dell’art. 1 della l. n. 1497 del 1933, ora art. 157 del d.lgs. n. 42 del 2004: si è perciò contestato il difetto di permesso di costruire, in relazione al vincolo archeologico e paesaggistico, di cui dà conto la relazione tecnica del 28.09.2006 acquisita agli atti del procedimento.
Il Tribunale premette, a tale proposito, che la natura del vincolo, nei termini sopra indicati e con riferimento specifico a quello paesaggistico, è ammessa dalla stessa ricorrente, la quale, nel presentare dopo la contestazione domanda di accertamento della compatibilità paesistica ex art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, e nell’allegarvi relazione tecnica (doc. 5, pag. 7) ha appunto dichiarato l’inclusione dell’area negli elenchi operativi fin dall’art. 1 della l. n. 1497 del 1933.
Ne segue che in causa, per quanto interessa ai fini della decisione, non assume rilievo l’art. 142 del d.lgs. n. 42 del 2004, ed in particolare l’eventuale sussistenza del vincolo archeologico ivi indicato alla lett. m): l’immobile deve ritenersi, infatti, vincolato non già dalla legge, ma in base alla legge, con riguardo all’art. 157 del d.lgs. n. 42 del 2004.
Va aggiunto che l’intervento per cui è causa ha i caratteri propri della ristrutturazione edilizia, giacché trasforma un organismo preesistente, sfruttandone il muro, per creare un ambiente chiuso, che sviluppa volume e superficie.
Come è noto, in area vincolata tale genere di intervento necessità di autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, atteso che esso introduce modificazioni nell’assetto paesaggistico, sulla cui valutazione di compatibilità con il paesaggio non può che pronunciarsi in via preventiva l’Autorità preposta alla tutela del vincolo.
Parimenti, esso neppure può divenire oggetto di accertamento ex post della compatibilità, ai sensi dell’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004, giacché, comportando aumento volumetrico, per quanto modesto, non rientra in alcuno dei casi indicati a tale scopo da questa ultima disposizione di legge.
È altrettanto noto che la nozione di volume tecnico, ovvero pertinenziale, valevole in urbanistica non spiega invece effetti sul piano ambientale, laddove tutte le modifiche aventi un impatto sul territorio, anche di natura visiva, debbono essere oggetto di preventiva autorizzazione (in termini, da ultimo, Tar Napoli, n. 5069 del 2011; Tar Salerno, n. 1642 del 2011), quand’anche abbiano natura di pertinenza.
Nel caso di specie, si può convenire con la ricorrente che il modesto manufatto che ella ha realizzato perché fungesse da box per attrezzi (ricorso, pag. 3), in ragione dell’inabitabilità, dello scarso volume prodotto, del difetto di un accesso autonomo dall’abitazione principale, dell’assenza di finestre, possa costituire pertinenza soggetta, sul piano edilizio, a DIA.
Ciò non toglie, tuttavia, che esso richiedesse comunque l’autorizzazione paesaggistica, e che, in difetto di essa, debba venire demolito ai sensi dell’art. 33, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001 (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 23.04.2012 n. 3629 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il decorso del tempo non spiega alcuna efficacia sanante nei confronti dell’abuso edilizio, che ha carattere permanente e può essere perseguito senza limiti di tempo.
Posto che è incontestata la qualità di proprietario dell’area in capo alla ricorrente, quest’ultima è tenuta alla demolizione degli abusi contestateli in tale veste, quale che sia l’epoca di esecuzione delle opere.
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L’ordine di demolizione, in quanto atto dovuto a contenuto vincolato, non necessiti di alcuna motivazione, che ecceda la descrizione dell’abuso e l’indicazione del titolo edilizio carente. In particolare, ciò vale anche con riguardo ad abusi risalenti nel tempo, atteso che la reintegrazione dell’assetto del territorio violato costituisce di per sé ragione sufficiente e necessaria a sostenere il provvedimento repressivo: dall’altro canto, nessun affidamento tutelabile può nascere da situazioni contrarie alla legge
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La censura è infondata: anzitutto, il Tribunale aderisce all’orientamento giurisprudenziale secondo cui il decorso del tempo non spiega alcuna efficacia sanante nei confronti dell’abuso edilizio, che ha carattere permanente e può essere perseguito senza limiti di tempo. Posto che è incontestata la qualità di proprietario dell’area in capo alla ricorrente, quest’ultima è tenuta alla demolizione degli abusi contestateli in tale veste, quale che sia l’epoca di esecuzione delle opere.
Al contempo, la ricorrente si limita a depositare in causa gli atti di compravendita dell’immobile, senza tuttavia provare la sussistenza di alcun titolo edilizio abilitativo avente ad oggetto il manufatto. Anzi, tali atti danno conto della sussistenza di un vano adibito a ripostiglio e garage, mentre l’edificio di cui ordinata la demolizione, come risulta evidente dalle fotografie in atti, ha funzione abitativa: è perciò mancata la prova, di cui era onerata parte ricorrente, anche in riferimento all’identità fisica dei manufatti. Né l’opera può ritenersi equivalente ad una pertinenza dell’immobile principale, rispetto a cui ha una propria autonomia funzionale e di valore.
Ciò determina l’infondatezza anche del terzo motivo di ricorso, con cui si sostiene che la ricorrente si sarebbe limitata a sostituire una serranda in metallo con una porta in legno nel vano destinato a deposito attrezzi: non solo si è già osservato che la proprietaria deve demolire opere abusive, quand’anche eseguite da terzi, ma va aggiunto che non si vede come con simile impiego possa essere compatibile la realizzazione di un lavabo, di un WC e di finiture per alloggio.
Tali considerazioni rendono infondati anche il secondo ed il quarto motivo di ricorso: è giurisprudenza del tribunale che l’ordine di demolizione, in quanto atto dovuto a contenuto vincolato, non necessiti di alcuna motivazione, che ecceda la descrizione dell’abuso e l’indicazione del titolo edilizio carente. In particolare, ciò vale anche con riguardo ad abusi risalenti nel tempo, atteso che la reintegrazione dell’assetto del territorio violato costituisce di per sé ragione sufficiente e necessaria a sostenere il provvedimento repressivo: dall’altro canto, nessun affidamento tutelabile può nascere da situazioni contrarie alla legge (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 23.04.2012 n. 3626 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione dell'istanza di permesso di costruire in sanatoria per la definizione di illeciti edilizi ai sensi dell'art. 32 d.l. n. 269/2003, convertito dalla legge n. 326/2003, in epoca successiva all’adozione del provvedimento impugnato, comporta la perdita di efficacia dello stesso.
Infatti, una volta presentata la predetta domanda di sanatoria, il provvedimento repressivo perde efficacia in quanto deve essere sostituito o dal permesso di costruire in sanatoria o da un nuovo procedimento sanzionatorio essendo l’amministrazione tenuta, in quest’ultimo caso, al completo riesame della fattispecie assumendo, ove del caso, nuovi e definitivi provvedimenti sanzionatori.

Il Tribunale ritiene che la presentazione dell'istanza di permesso di costruire in sanatoria per la definizione di illeciti edilizi ai sensi dell'art. 32 d.l. n. 269/2003, convertito dalla legge n. 326/2003, in epoca successiva all’adozione del provvedimento impugnato, comporti la perdita di efficacia dello stesso.
Infatti, una volta presentata la predetta domanda di sanatoria, il provvedimento repressivo perde efficacia in quanto deve essere sostituito o dal permesso di costruire in sanatoria o da un nuovo procedimento sanzionatorio essendo l’amministrazione tenuta, in quest’ultimo caso, al completo riesame della fattispecie assumendo, ove del caso, nuovi e definitivi provvedimenti sanzionatori.
Ne consegue che nel primo caso il ricorrente non ha interesse a proporre il ricorso avverso l'ingiunzione a demolire mentre nel secondo caso dovrà impugnare il nuovo provvedimento repressivo.
In questo senso si esprime l’orientamento giurisprudenziale assolutamente prevalente (Cons. Stato sez. IV n. 756/2008; Cons. Stato sez. IV n. 3546/2008; Cons. Stato sez. V n. 3659/2007; TAR Marche n. 960/2008) il quale ha avuto modo di precisare che in fattispecie quali quella in esame, dovendo l'Amministrazione emettere –se del caso- il diniego esplicito dell’istanza di condono e, successivamente, un nuovo provvedimento sanzionatorio, l'interesse del responsabile dell'abuso edilizio è quello di richiedere la caducazione giurisdizionale di tali atti e non già dell’originario provvedimento repressivo che ha perso efficacia in conseguenza dell’avvenuta tempestiva presentazione della domanda di condono edilizio (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 23.04.2012 n. 3623 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini dell’individuazione della nozione di volume tecnico, assumono valore tre ordini di parametri ovvero il primo, positivo, di tipo funzionale, ossia che il manufatto abbia un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione, il secondo ed il terzo, negativi, ricollegati da un lato all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel senso che tali costruzioni non devono poter essere ubicate all'interno della parte abitativa, e dall'altro ad un rapporto di necessaria proporzionalità fra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti.
Tale nozione può essere applicata solo alle opere edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti serventi di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa.

- Considerato, infatti, che secondo il costante orientamento giurisprudenziale, ai fini dell’individuazione della nozione di volume tecnico, assumono valore tre ordini di parametri ovvero il primo, positivo, di tipo funzionale, ossia che il manufatto abbia un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione, il secondo ed il terzo, negativi, ricollegati da un lato all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel senso che tali costruzioni non devono poter essere ubicate all'interno della parte abitativa, e dall'altro ad un rapporto di necessaria proporzionalità fra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti;
- Considerato, pertanto, che tale nozione può essere applicata solo alle opere edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti serventi di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa (Cons. Stato sez. IV n. 2565/2010; TAR Campania–Napoli n. 4076/2011; TAR Puglia–Lecce n. 2170/2011);
- Considerato che nella fattispecie non ricorrono i requisiti per la qualificazione come volume tecnico delle opere contestate in quanto non sono stati dimostrati il rapporto di strumentalità necessaria delle stesse con l’utilizzo della costruzione principale, l’impossibilità (in senso assoluto) di soluzioni progettuali diverse (potendosi ragionevolmente ipotizzare l’allocazione del volume all’interno del manufatto principale o sottoterra) e la necessaria proporzionalità tra volume ed esigenze tecniche laddove le opere realizzate comportano un congruo aumento di superficie e volumetria, come emerge anche dalla documentazione fotografica prodotta dal Comune;
- Considerato che proprio il rilevante impatto edilizio ed urbanistico desumibile dalle dimensioni e dalla natura delle opere realizzate induce il Tribunale ad escludere che le stesse siano qualificabili come mera pertinenza e, quindi, siano sottratte al necessario assenso tramite permesso di costruire (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 20.04.2012 n. 3613 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha analiticamente affrontato i rapporti tra la scelta di indire un nuovo concorso e quella di attingere ad una graduatoria ancora efficace, evidenziando quanto segue:
a) Va superata la tesi tradizionale, secondo cui la determinazione di indizione di un nuovo concorso non richiede alcuna motivazione. A maggiore ragione, è da respingersi la tesi “estrema”, secondo cui si tratterebbe di una decisione insindacabile dal giudice amministrativo.
b) Simmetricamente, però, non è condivisibile l’idea opposta, in forza della quale, la disciplina in materia di scorrimento assegnerebbe agli idonei un diritto soggettivo pieno all’assunzione, mediante lo scorrimento, che sorgerebbe per il solo fatto della vacanza e disponibilità di posti in organico. Infatti, in tali circostanze l’amministrazione non è incondizionatamente tenuta alla loro copertura, ma deve comunque assumere una decisione organizzativa, correlata agli eventuali limiti normativi alle assunzioni, alla disponibilità di bilancio, alle scelte programmatiche compiute dagli organi di indirizzo e a tutti gli altri elementi di fatto e di diritto rilevanti nella concreta situazione, con la quale stabilire se procedere, o meno, al reclutamento del personale.
c) Ferma restando, quindi, la discrezionalità in ordine alla decisione sul “se” della copertura del posto vacante, l’amministrazione, una volta stabilito di procedere alla provvista del posto, deve sempre motivare in ordine alle modalità prescelte per il reclutamento, dando conto, in ogni caso, della esistenza di eventuali graduatorie degli idonei ancora valide ed efficaci al momento dell’indizione del nuovo concorso.
d) Nel motivare l’opzione preferita, l’amministrazione deve tenere nel massimo rilievo la circostanza che l’ordinamento attuale afferma un generale favore per l’utilizzazione delle graduatorie degli idonei, che recede solo in presenza di speciali discipline di settore o di particolari circostanze di fatto o di ragioni di interesse pubblico prevalenti, che devono, comunque, essere puntualmente enucleate nel provvedimento di indizione del nuovo concorso.
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L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha, da un lato, affermato che «sul piano dell’ordinamento positivo, si è ormai realizzata la sostanziale inversione del rapporto tra l’opzione per un nuovo concorso e la decisione di scorrimento della graduatoria preesistente ed efficace. Quest’ultima modalità di reclutamento rappresenta ormai la regola generale, mentre l’indizione del nuovo concorso costituisce l’eccezione e richiede un’apposita e approfondita motivazione, che dia conto del sacrificio imposto ai concorrenti idonei e delle preminenti esigenze di interesse pubblico».
La riconosciuta prevalenza delle procedure di scorrimento non è comunque assoluta e incondizionata. Sono tuttora individuabili casi in cui la determinazione di procedere al reclutamento del personale, mediante nuove procedure concorsuali, anziché attraverso lo scorrimento delle preesistenti graduatorie, risulta pienamente giustificabile, con il conseguente ridimensionamento dell’obbligo di motivazione. In tale contesto si situano, in primo luogo, le ipotesi in cui speciali disposizioni legislative impongano una precisa cadenza periodica del concorso, collegata anche a peculiari meccanismi di progressioni nelle carriere, tipiche di determinati settori del personale pubblico. In tali eventualità emerge il dovere primario dell’amministrazione di bandire una nuova procedura selettiva, in assenza di particolari ragioni di opportunità per l’assunzione degli idonei collocati nelle preesistenti graduatorie.
In aggiunta a tali casi vengono poi segnalate alcune ipotesi di fatto, in cui si manifesta l’opportunità, se non la necessità, di procedere all’indizione di un nuovo concorso, pur in presenza di graduatorie ancora efficaci, con la conseguente attenuazione dell’obbligo di motivazione, e a tal fine la vicenda in esame fornisce un esempio significativo. In particolare, secondo la Plenaria, «può assumere rilievo l’esigenza preminente di determinare, attraverso le nuove procedure concorsuali, la stabilizzazione del personale precario, in attuazione delle apposite regole speciali in materia. Tale finalità, tuttavia, non esime l’amministrazione dall’obbligo di valutare, comparativamente, in ogni caso, anche le posizioni giuridiche e le aspettative dei soggetti collocati nella graduatoria come idonei. La normativa speciale in materia, infatti, non risulta formulata in modo da imporre la indiscriminata prevalenza delle procedure di stabilizzazione, ma lascia all’amministrazione un rilevante potere di valutazione discrezionale in ordine ai contrapposti interessi coinvolti».
Inoltre «può acquistare rilievo l’intervenuta modifica sostanziale della disciplina applicabile alla procedura concorsuale, rispetto a quella riferita alla graduatoria ancora efficace, con particolare riguardo al contenuto delle prove di esame e ai requisiti di partecipazione».
Infine «deve attribuirsi risalto determinante anche all’esatto contenuto dello specifico profilo professionale per la cui copertura è indetto il nuovo concorso e alle eventuali distinzioni rispetto a quanto descritto nel bando relativo alla preesistente graduatoria».

l’articolo 3, comma 87, della legge 24.12.2007, n. 244 (legge finanziaria 2008), ha aggiunto, all’articolo 35 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, il comma 5-ter, in forza del quale “Le graduatorie dei concorsi per il reclutamento del personale presso le amministrazioni pubbliche rimangono vigenti per un termine di tre anni dalla data di pubblicazione. Sono fatti salvi i periodi di vigenza inferiori previsti da leggi regionali”.
Da ultimo l’articolo 1, comma 4, del decreto legge n. 216 del 09.12.2011, convertito dalla legge 24.02.2012, n. 14, dispone che “L’efficacia delle graduatorie dei concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato, relative alle amministrazioni pubbliche soggette a limitazioni delle assunzioni, approvate successivamente al 30.09.2003, è prorogata fino al 31.12.2012, compresa la Presidenza del Consiglio dei Ministri”. Ne consegue che non sussistono dubbi in merito alla perdurante vigenza delle graduatorie sulle quali si fondano le pretese di parte ricorrente;
a tal riguardo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza 28.07.2011, n. 14, invocata dalle ricorrenti, ha posto in rilievo che «L’intervento normativo del 2007 abbandona la struttura formale della disciplina di mera proroga, a carattere contingente, e si caratterizza per alcuni elementi di novità:
- è definitivamente confermato che la vigenza delle graduatorie, ora determinata in tre anni, decorrenti dalla pubblicazione, è un istituto ordinario (“a regime”) delle procedure di reclutamento del personale pubblico, disciplinato da una fonte di rango legislativo e non più dal solo regolamento generale dei concorsi (d.P.R. n. 487/1994);
- l’ambito oggettivo di applicazione dell’istituto generale dello “scorrimento” è riferito, indistintamente, a tutte le amministrazioni, senza limitazioni di carattere soggettivo od oggettivo. Fermi restando questi importanti profili innovativi, tuttavia, la disciplina, per la sua ratio e per la sua formulazione letterale, va estesa anche alle procedure concorsuali svolte in epoca precedente alla sua entrata in vigore
» (punto 16 della motivazione);
stante quanto precede, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella medesima sentenza ha analiticamente affrontato i rapporti tra la scelta di indire un nuovo concorso e quella di attingere ad una graduatoria ancora efficace, evidenziando quanto segue: «a) Va superata la tesi tradizionale, secondo cui la determinazione di indizione di un nuovo concorso non richiede alcuna motivazione. A maggiore ragione, è da respingersi la tesi “estrema”, secondo cui si tratterebbe di una decisione insindacabile dal giudice amministrativo.
b) Simmetricamente, però, non è condivisibile l’idea opposta, in forza della quale, la disciplina in materia di scorrimento assegnerebbe agli idonei un diritto soggettivo pieno all’assunzione, mediante lo scorrimento, che sorgerebbe per il solo fatto della vacanza e disponibilità di posti in organico. Infatti, in tali circostanze l’amministrazione non è incondizionatamente tenuta alla loro copertura, ma deve comunque assumere una decisione organizzativa, correlata agli eventuali limiti normativi alle assunzioni, alla disponibilità di bilancio, alle scelte programmatiche compiute dagli organi di indirizzo e a tutti gli altri elementi di fatto e di diritto rilevanti nella concreta situazione, con la quale stabilire se procedere, o meno, al reclutamento del personale.
c) Ferma restando, quindi, la discrezionalità in ordine alla decisione sul “se” della copertura del posto vacante, l’amministrazione, una volta stabilito di procedere alla provvista del posto, deve sempre motivare in ordine alle modalità prescelte per il reclutamento, dando conto, in ogni caso, della esistenza di eventuali graduatorie degli idonei ancora valide ed efficaci al momento dell’indizione del nuovo concorso.
d) Nel motivare l’opzione preferita, l’amministrazione deve tenere nel massimo rilievo la circostanza che l’ordinamento attuale afferma un generale favore per l’utilizzazione delle graduatorie degli idonei, che recede solo in presenza di speciali discipline di settore o di particolari circostanze di fatto o di ragioni di interesse pubblico prevalenti, che devono, comunque, essere puntualmente enucleate nel provvedimento di indizione del nuovo concorso
» (punto 31 della motivazione);
sulla base di tali considerazioni l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha, da un lato, affermato che «sul piano dell’ordinamento positivo, si è ormai realizzata la sostanziale inversione del rapporto tra l’opzione per un nuovo concorso e la decisione di scorrimento della graduatoria preesistente ed efficace. Quest’ultima modalità di reclutamento rappresenta ormai la regola generale, mentre l’indizione del nuovo concorso costituisce l’eccezione e richiede un’apposita e approfondita motivazione, che dia conto del sacrificio imposto ai concorrenti idonei e delle preminenti esigenze di interesse pubblico» (punto 50 della motivazione).
Peraltro, nei successivi passaggi della motivazione, è stato posto in rilievo che «la riconosciuta prevalenza delle procedure di scorrimento non è comunque assoluta e incondizionata. Sono tuttora individuabili casi in cui la determinazione di procedere al reclutamento del personale, mediante nuove procedure concorsuali, anziché attraverso lo scorrimento delle preesistenti graduatorie, risulta pienamente giustificabile, con il conseguente ridimensionamento dell’obbligo di motivazione. In tale contesto si situano, in primo luogo, le ipotesi in cui speciali disposizioni legislative impongano una precisa cadenza periodica del concorso, collegata anche a peculiari meccanismi di progressioni nelle carriere, tipiche di determinati settori del personale pubblico. In tali eventualità emerge il dovere primario dell’amministrazione di bandire una nuova procedura selettiva, in assenza di particolari ragioni di opportunità per l’assunzione degli idonei collocati nelle preesistenti graduatorie» (punto 51 della motivazione).
In aggiunta a tali casi vengono poi segnalate alcune ipotesi di fatto, in cui si manifesta l’opportunità, se non la necessità, di procedere all’indizione di un nuovo concorso, pur in presenza di graduatorie ancora efficaci, con la conseguente attenuazione dell’obbligo di motivazione, e a tal fine la vicenda in esame fornisce un esempio significativo. In particolare, secondo la Plenaria, «può assumere rilievo l’esigenza preminente di determinare, attraverso le nuove procedure concorsuali, la stabilizzazione del personale precario, in attuazione delle apposite regole speciali in materia. Tale finalità, tuttavia, non esime l’amministrazione dall’obbligo di valutare, comparativamente, in ogni caso, anche le posizioni giuridiche e le aspettative dei soggetti collocati nella graduatoria come idonei. La normativa speciale in materia, infatti, non risulta formulata in modo da imporre la indiscriminata prevalenza delle procedure di stabilizzazione, ma lascia all’amministrazione un rilevante potere di valutazione discrezionale in ordine ai contrapposti interessi coinvolti» (punto 53 della motivazione).
Inoltre «può acquistare rilievo l’intervenuta modifica sostanziale della disciplina applicabile alla procedura concorsuale, rispetto a quella riferita alla graduatoria ancora efficace, con particolare riguardo al contenuto delle prove di esame e ai requisiti di partecipazione» (punto 54 della motivazione).
Infine «deve attribuirsi risalto determinante anche all’esatto contenuto dello specifico profilo professionale per la cui copertura è indetto il nuovo concorso e alle eventuali distinzioni rispetto a quanto descritto nel bando relativo alla preesistente graduatoria» (punto 55 della motivazione);
a fronte delle articolate considerazioni svolte dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, al Collegio non resta che rilevare, da un lato, come la fattispecie in esame rientri tra quelle «in cui la determinazione di procedere al reclutamento del personale, mediante nuove procedure concorsuali, anziché attraverso lo scorrimento delle preesistenti graduatorie, risulta pienamente giustificabile, con il conseguente ridimensionamento dell’obbligo di motivazione» (punto 51 della motivazione della sentenza n. 14/2011) e, dall’altro, che la scelta amministrativa di indire la procedura concorsuale di cui trattasi, anziché procedere allo scorrimento della graduatoria, in realtà è stata compiuta dall’organo competente in materia, ossia dalla Giunta capitolina;
quanto al primo aspetto, il Collegio osserva innanzi tutto che, a seguito dell’adozione della delibera n. 194 in data 01.06.2011, con la quale è stato approvato il nuovo sistema di classificazione della dirigenza di Roma Capitale, con conseguente rideterminazione della dotazione organica e approvazione del piano di assunzioni per il periodo 2011-2013, la Giunta capitolina con la delibera n. 205 in data 15.06.2011 ha dapprima approvato il “regolamento per l’accesso alla qualifica di dirigente a tempo indeterminato”, ove si prevede che “l’accesso alla qualifica di dirigente a tempo indeterminato nell’Amministrazione di Roma Capitale avviene mediante una procedura selettiva pubblica, per titoli ed esami” (art. 2, comma 1) e che “sino al cinquanta per cento dei posti può essere riservato al personale interno dell’Amministrazione di Roma Capitale, in possesso dei requisiti previsti nel presente Regolamento” (art. 2, comma 2), ma con la successiva delibera n. 331 in data 28.09.2011 ha modificato la prima disposizione, prevedendo che il concorso sia solo per esami.
Risulta, quindi, evidente che ricorre la situazione delineata al punto 54 della motivazione della sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 14/2011 -ove viene fatto espresso riferimento alla «intervenuta modifica sostanziale della disciplina applicabile alla procedura concorsuale, rispetto a quella riferita alla graduatoria ancora efficace, con particolare riguardo al contenuto delle prove di esame e ai requisiti di partecipazione»- quale circostanza che giustifica ex se la scelta dell’Amministrazione di non procedere allo scorrimento delle graduatorie e di bandire un nuovo concorso «con il conseguente ridimensionamento dell’obbligo di motivazione».
Infatti da un semplice confronto tra il bando impugnato ed il bando del 2004, relativo al concorso al quale ha partecipato il dottor Giovanni Caruso, emergono chiaramente le differenze relative ai requisiti di partecipazione ed alle prove di esame (differenze evidentemente determinate dalla necessità di conformare la lex specialis del concorso alla nuova disciplina regolamentare), perché il bando del 2004 si riferiva ad un concorso, per titoli ed esami, riservato ai dipendenti dell’amministrazione comunale, mentre il nuovo bando si riferisce ad un concorso, solo per esami, aperto a tutti i soggetti in possesso dei requisiti indicati dall’art. 3 del nuovo “regolamento per l’accesso alla qualifica di dirigente a tempo indeterminato”.
Ne consegue che il ricorrente non ha motivo di dolersi del fatto che l’impugnato bando di concorso non rechi una puntuale motivazione in ordine alla decisione di non procedere allo scorrimento della graduatoria del precedente concorso perché -a ben vedere- tale motivazione è contenuta nell’esplicito richiamo, operato dal bando, alle delibere della Giunta capitolina n. 205/2011 e n. 331/2011;
inoltre, posto che l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, nell’affermare la preferenza per lo scorrimento delle graduatorie, ha attribuito «risalto determinante anche all’esatto contenuto dello specifico profilo professionale per la cui copertura è indetto il nuovo concorso e alle eventuali distinzioni rispetto a quanto descritto nel bando relativo alla preesistente graduatoria» (punto 55 della motivazione della sentenza n. 14/2011), nel caso in esame non può farsi a meno di rilevare che il concorso al quale il ricorrente ha partecipato si riferiva al profilo professionale di Dirigente Beni e Attività Culturali, mentre il bando impugnato si riferisce al profilo professionale di Dirigente Beni Culturali e Ambientali, previsto dalla Giunta capitolina con la delibera n. 194 in data 01.06.2011.
Pertanto, stante la maggiore ampiezza delle competenze relative al profilo professionale di Dirigente Beni Culturali e Ambientali, anche per tale ragione il ricorrente non ha motivo di dolersi del fatto che l’impugnato bando di concorso non rechi una puntuale motivazione in ordine alla decisione di non procedere allo scorrimento della graduatoria (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 17.04.2012 n. 3450 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il diritto di accesso ai documenti amministrativi costituisce un principio generale dell'attività amministrativa, volto a favorire diffusamente la partecipazione al procedimento, al fine di assicurarne imparzialità e trasparenza.
Per tale finalità, tutti i documenti amministrativi sono, in via generale, da ritenere accessibili, salvo le eccezioni espressamente stabilite dall'art. 24 della legge n. 241/1990 e da norme di settore. Gli articoli 22 e seguenti della L. n. 241 del 1990 riconoscono, a tutela di un personale interesse, concretamente collegato alle esigenze specifiche del richiedente, l’accesso agli atti che direttamente lo riguardano.
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Il fatto legittimante l'accesso alla documentazione, ossia il possesso dell’interesse definito all'art. 22 della L. n. 241 del 1990, non presuppone una predeterminazione rigida delle situazioni giuridicamente tutelate, in quanto la loro individuazione è data dal raccordo tra queste e il documento per il quale è chiesto l'accesso.

Va premesso che il diritto di accesso ai documenti amministrativi costituisce un principio generale dell'attività amministrativa, volto a favorire diffusamente la partecipazione al procedimento, al fine di assicurarne imparzialità e trasparenza.
Per tale finalità, tutti i documenti amministrativi sono, in via generale, da ritenere accessibili, salvo le eccezioni espressamente stabilite dall'art. 24 della legge n. 241/1990 e da norme di settore (Cons. Stato Sez. V, Sent., 20.12.2011, n. 6682). Gli articoli 22 e seguenti della L. n. 241 del 1990 riconoscono, a tutela di un personale interesse, concretamente collegato alle esigenze specifiche del richiedente, l’accesso agli atti che direttamente lo riguardano.
Nella specie, la ricorrente, avendo partecipato alla selezione pubblica “de qua” e avendo l’intenzione di impugnarne le risultanze, non appare determinante se innanzi al giudice amministrativo ovvero a quello ordinario, ha un interesse giuridicamente rilevante a conoscere analiticamente le ragioni che hanno portato all’attribuzione del punteggio e, quindi, a visionare atti e documenti della procedura, ivi compresi quelli che riguardano i concorrenti che la precedono nella graduatoria finale, atteso che tali atti, per pacifica giurisprudenza, esulano dal diritto alla riservatezza (Cons. Stato Sez. IV, 26.03.2012, n. 1768).
Il Collegio condivide un ormai consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa dal quale emerge con chiarezza che il fatto legittimante l'accesso alla documentazione, ossia il possesso dell’interesse definito all'art. 22 della L. n. 241 del 1990, non presuppone una predeterminazione rigida delle situazioni giuridicamente tutelate, in quanto la loro individuazione è data dal raccordo tra queste e il documento per il quale è chiesto l'accesso (Consiglio di Stato, sez. VI, 18.09.2009, n. 5625).
Nel caso di specie, ciò implica che l'accesso possa essere riconosciuto facendo perno sulla situazione sostanziale vantata dalla richiedente, e sul fatto lesivo che ne deriverebbe, prescindendo dalla natura giuridica dell’ente i cui atti si chiedono di ispezionare (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 16.04.2012 n. 3422 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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