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AGGIORNAMENTO AL 31.10.2012 |
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GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
G.U. 30.10.2012 n. 254 "Disposizioni urgenti in materia
di trattamento di fine servizio dei dipendenti pubblici"
(D.L.
29.10.2012 n. 185).
---------------
Chi scrive comprende poco, spesso e volentieri, lo scrivere
del "legislatore romano" e, allora, si riporta di
seguito un breve commento esplicativo al suddetto D.L. ad
opera del sindacato C.S.A. di Milano e diramato con propria
newsletter del 30.10.2012:
Magia.... il
Governo Monti tira fuori dal cilindro un bel coniglio
bianco....
In merito alla sentenza della Corte Costituzionale n.
223/2012, che ha dichiarato incostituzionale la trattenuta a
carico del dipendente del 2,5% sull'80% della retribuzione
utile ai fini del TFS così come disciplinato dall'articolo
12, comma 10, del D.L. n. 78/2010, venerdì scorso il
Governo, con proprio D.L. in corso di pubblicazione (1 solo
articolo con 3 commi), ha abrogato, con effetto retroattivo
dal 01.01.2011 il succitato articolo 12, comma 10.
A seguito di tale disposizione viene gioco forza
ripristinata la previgente normativa in tema di TFS
(articolo 11 Legge n. 152/1968) che "guarda caso" prevedeva,
per coloro i quali si trovano in regime di TFS, una
trattenuta del 2,5% sull'80% della retribuzione imponibile.
Dopo tutta questa disamina di norme, arriviamo al
dunque........e il "dunque" è che NULLA cambia dal punto di
vista contributivo in tema di trattenuta del 2,5% a carico
del dipendente.
Ciò che invece cambia, e con effetto dall'01.01.2011, è la
prestazione erogata al dipendente da parte di Inpdap
(gestione ex Inadel) all'atto della cessazione, che diviene
più ricca.
Per coloro i quali sono in regime di TFR nulla è innovato in
quanto la norma che ne disciplina l'introduzione nel
comparto del pubblico impiego non è stata oggetto di
disamina da parte della Corte Costituzionale.
31.10.2012 - LA SEGRETERIA PTPL |
URBANISTICA:
Oggetto: PROPOSTA DI PROGETTO DI LEGGE "LEGGE FINANZIARIA
2013” (della Lombardia) (deliberazione
G.R. 26.10.2012 n. 4300).
---------------
Ecco l'ultimo regalo
della Giunta Formigoni in materia di P.G.T.. Di particolare
interesse l'art. 8 il quale così recita:
Art. 8 - (Modifiche alla l.r. 12/2005)
1. Alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il
governo del territorio) sono apportate le seguenti
modifiche:
a) dopo l’articolo 25 é aggiunto il seguente articolo:
“Art. 25-bis (Disposizioni transitorie a far tempo dal 1°
gennaio 2013)
1.
In deroga a quanto previsto dall’articolo 25, comma 1, primo
periodo, i comuni terremotati inclusi nell’elenco di cui al
decreto del Ministero dell’economia e delle finanze
01.06.2012 e successive modificazioni e integrazioni, nonché
quelli dichiarati in dissesto finanziario entro il
31.12.2012 continuano ad attuare le previsioni del vigente
PRG fino al 31.12.2013, fermo restando quanto disposto
dall’articolo 26, comma 3-quater. In caso di mancata
adozione del PGT entro il 31.12.2013, si applicano le
disposizioni di cui ai commi 4 e 5.
2.
In deroga a quanto previsto dall’articolo 25, comma 1, primo
periodo, nei comuni che entro il 31.12.2012 hanno adottato
il PGT si attuano le previsioni del vigente PRG, fermo
restando quanto disposto dagli articoli 13, comma 12, e 26,
comma 3-quater. Dal 1° gennaio 2013 i medesimi comuni non
possono in ogni caso dar corso a procedure di variante al
vigente PRG comunque denominate.
3.
In caso di mancata approvazione del PGT entro il 31.07.2013
da parte dei comuni di cui al comma 2, primo periodo, si
applicano le disposizioni previste ai commi 4 e 5.
4.
Nei comuni che entro il 31.12.2012 non hanno adottato il PGT,
dal 1° gennaio 2013 e fino all’approvazione del PGT, fermo
restando quanto disposto dall’articolo 13, comma 12, sono
ammessi unicamente i seguenti interventi:
a) nelle zone omogenee B, C e D individuate dal previgente PRG,
interventi sugli edifici esistenti nelle sole tipologie di
cui all’articolo 27, comma 1, lett. a), b) e c);
b) nelle zone omogenee A, E e F individuate dal previgente PRG, gli
interventi che erano consentiti dal PRG o da altro strumento
urbanistico comunque denominato;
c) gli interventi in esecuzione di piani attuativi approvati e
convenzionati entro il 31.12.2012, con convenzione non
scaduta.
5.
Ai comuni di cui al comma 4, dal 1° gennaio 2013 e fino
all’approvazione del PGT, non è consentito applicare le
disposizioni di cui agli articoli 3, 4, 5 e 6 della legge
regionale 13.03.2012, n. 4 (Norme per la valorizzazione del
patrimonio edilizio esistente e altre disposizioni in
materia urbanistico-edilizia); sono fatte salve le istanze
di permesso di costruire e le denunce di inizio attività
presentate entro il 31.12.2012.". |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
A. Bianco,
Uffici tecnici: gli incentivi per dipendenti e dirigenti
(link a www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com). |
VARI:
T. Iachipino,
Dipendenza da Internet, la sottile linea di confine fra
normalità e malattia (link a www.leggioggi.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
A. Monea,
Comunicazioni telematiche: più responsabilità per i
dirigenti (link a
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
L. Ramacci,
Responsabilità amministrativa degli enti collettivi e reati
ambientali (link a www.ipsoa.it). |
SINDACATI &
ARAN |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Area II (Dirigenza Regioni ed Autonomie
locali) - Raccolta sistematica.
La raccolta sistematica si propone di facilitare la lettura
dei diversi contratti collettivi nazionali di lavoro
vigenti, stipulati negli anni, offrendone una visione
unitaria e sistematica.
Essa è stata redatta attraverso la collazione delle clausole
contrattuali vigenti, raccolte all’interno di uno schema
unitario, per favorire una più agevole consultazione.
A tal fine, sono state aggregate tutte le clausole afferenti
a ciascun istituto contrattuale, anche quelle definite in
tempi diversi nell’ambito di differenti CCNL, conservando
tuttavia la numerazione vigente ed il riferimento al
contratto di origine.
Si tratta, pertanto, di un testo meramente compilativo che,
non avendo carattere negoziale, non può avere alcun effetto
né abrogativo, né sostitutivo delle clausole vigenti, le
quali prevalgono in caso di discordanza.
La riproduzione dei testi forniti nel formato elettronico è
consentita purché ne venga menzionata la fonte ed il
carattere gratuito. La raccolta è il frutto di una selezione
redazionale. L’Aran non è responsabile di eventuali errori o
imprecisioni, nonché di danni conseguenti ad azioni o
determinazioni assunte in base alla consultazione della
stessa.
---------------
Nota: navigando all’interno del documento PDF, per
tornare alla vista precedente utilizzare i tasti ALT + tasto
direzionale sx (ARAN,
settembre 2012). |
CORTE DEI
CONTI |
CONSIGLIERI
COMUNALI: Corte
dei conti Basilicata. Responsabilità penale.
Giunta, tre criteri per la copertura legale.
PRESUPPOSTI DEL RIMBORSO/
All'amministratore servono l'accordo sul legale,
l'assoluzione con formula ampia e la mancanza di conflitto
d'interesse.
Niente copertura "automatica" da parte dell'ente per le
spese legali dei propri amministratori, anche quando il
processo nasce da atti legati alla loro funzione.
Lo ha
stabilito la sezione giurisdizionale della Corte dei conti
per la Basilicata, con la
sentenza
15.10.2012 n. 165.
I giudici sono arrivati a questa decisione dopo avere
sottolineato la non applicabilità della disciplina in tema
di mandato prevista dall'articolo 1720 del Codice civile,
secondo cui il mandante deve rimborsare al mandatario i
danni subiti a causa dell'incarico, e dopo avere rilevato
che «non appaiono pertinenti i richiami all'analogia, che
risulta correttamente evocabile quando emerga un vuoto
normativo nell'ordinamento, vuoto che nella specie non è
configurabile, atteso che il legislatore si è limitato a
dettare una diversa disciplina per due situazioni non
identiche fra loro, in quanto gli amministratori pubblici
non sono dipendenti dell'ente, ma sono eletti dai
cittadini».
La sentenza offre una summa di tutte le problematiche
relative alla questione, in quanto non si limita ad
affrontare l'aspetto del rimborso agli amministratori degli
enti locali, ma si sofferma anche su tutti gli altri profili
che pure ineriscono alla questione citata in senso più
generale. Il tema del rimborso delle spese legali
(limitatamente agli enti locali) viene per la prima volta
affrontato nella sua interezza, prospettando soluzioni che
si collocano nel solco della giurisprudenza costituzionale e
di legittimità, non senza tenere conto di quella
amministrativa e contabile più avveduta.
In primis, con convincente motivazione e ampi richiami
giurisprudenziali viene affermato il principio secondo cui
il rimborso delle spese legali non può essere effettuato se
colui che lo chiede omette di sottoporre preventivamente la
scelta del difensore all'ente. Dispone, infatti, l'articolo
28 del Ccnl "Comparto Regioni ed autonomie locali" (che
sostituisce l'articolo 67 del Dpr 13.05.1987, n. 268),
che il legale che assumerà la difesa del dipendente sia di
comune gradimento con l'ente. Tra i presupposti, poi,
richiesti per la corresponsione del rimborso delle spese
legali, vi sono quelli di una sentenza di assoluzione ampia
e dell'assenza di conflitto d'interesse con l'ente.
I giudici lucani, dopo avere precisato che l'assoluzione con
la formula «il fatto non costituisce reato» non attesta
l'insussistenza di condotte censurabili ad altro titolo,
affermano che, anche se i fatti che dettero luogo al
procedimento penale non costituiscono illecito penale
perseguibile, pur tuttavia possono essere valutati dal
giudice contabile allo scopo di rilevare l'esistenza o meno
di conflitto di interessi.
Infine, viene ribadito che, al fine di assicurare una buona,
ragionevole e imparziale amministrazione delle risorse
pubbliche, l'ente pubblico, prima di farsi carico dell'onere
delle spese legali, è tenuto a procedere ad attento e
rigoroso esame delle istanze di rimborso, valutando la
veridicità e adeguatezza di quanto affermato dal
professionista, e verificando la conformità della parcella
alla tariffa professionale.
Quanto alla responsabilità degli indebiti rimborsi, i
giudici hanno ritenuto che essa vada addebitata non solo a
coloro che hanno deliberato il pagamento, ma anche a chi ha
espresso il parere di regolarità tecnica nonché ai
componenti del collegio dei revisori
(articolo Il Sole 24 Ore del
29.10.2012 - tratto da www.corteconti.it) |
QUESITI &
PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Come deve svolgersi la caratterizzazione ambientale dei
materiali da scavo ai sensi del D.M. n. 161/2012? (29.10.2012
- link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
In che modo si semplificheranno i trasporti dei rifiuti
agricoli? (29.10.2012 - link a
www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Quali le modifiche previste alla disciplina della gestione
delle acque sotterranee emunte? (29.10.2012 -
link a www.ambientelegale.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La pubblica amministrazione potrà rimanere inerte nel caso
in cui venga chiesto un permesso di costruire in presenza di
un vincolo ambientale? (29.10.2012 - link a
www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA: Residui
di lavorazione di pietre.
Domanda
Le terre e le rocce da scavo e i residui di lavorazione
delle pietre possono essere esclusi dalla categoria dei
rifiuti?
Risposta
La Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza
del 12.12.2011, numero 45947, ha affermato che, alla
luce dell'articolo 186 del decreto legislativo del 03.04.2006, numero 152, comma primo, le terre e le rocce da scavo
e i residui di lavorazione delle pietre, anche se
contaminati durante il ciclo produttivo, da sostanze
inquinanti, non costituiscono rifiuti e, quindi, essi devono
essere esclusi dal novero della relativa disciplina. Per i
Supremi giudici, per arrivare a detto risultato è necessario
che siano osservate le specifiche condizioni dettate dal
predetto articolo 186 del testo unico ambientale, e cioè:
-
obblighi di documentazione;
-
destinazione al riutilizzo senza trasformazioni preliminari;
-
rispetto dei limiti di concentrazione degli inquinanti.
Inoltre, alla luce del suddetto articolo 186, come
novellato dal decreto legislativo 16.01.2008, numero 4,
articolo 2, comma 23, per aversi l'assimilazione delle terre
e delle rocce da scavo ai rifiuti, è necessario che esse
siano impiegate direttamente nell'ambito di opere o
interventi preventivamente individuati e che, sin dalla fase
di produzione, vi sia la certezza del riutilizzo. In tal
modo viene garantita una più elevata tutela dell'ambiente.
È da dire che con la legge numero 28, del 2012, di
conversione del decreto legge ambiente, entrata in vigore 25.03.2012, alle terre e rocce da scavo viene attribuita la
qualifica di sottoprodotto. In tal modo il legislatore ha
subordinato la possibilità di utilizzo delle stesse per i reinterri, riempimenti, rimodellazioni
e rilevati, alla esistenza di diverse condizioni, quali
quelle previste dall'articolo 183, comma 1, lettera p) del
decreto legislativo su citato per qualificare una materia o
una sostanza come sottoprodotto e quelle ulteriori poste
dallo stesso novellato articolo 186, comma 1, del decreto
legislativo numero 152, del 2006.
Pertanto, per la citata legge del 2012 le matrici ambientali
da riporto rientrano nel concetto di suolo. E, quindi, essi
sono esclusi dalla disciplina sui rifiuti, ma devono essere
considerati sottoprodotti e possono essere, di conseguenza,
riutilizzati.
Però il riutilizzo deve esser conforme al codice
dell'ambiente, per cui deve essere originato da un processo
di produzione, di cui costituisce parte integrante,
utilizzato direttamente, senza alcun ulteriore trattamento.
Non deve, pure, dar luogo ad impatti complessivi negativi
sull'ambiente o sulla salute umana
(articolo ItaliaOggi Sette del
29.10.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Veicoli
fuori uso.
Domanda
I veicoli fuori uso abbandonati sono rifiuti?
Risposta
Il decreto legislativo numero 209, del 2003, recependo la
Direttiva 2000/53/Ce, fornisce una definizione, alquanto
puntuale, di veicoli fuori uso. Ai sensi dell'articolo 3,
comma 1, devono essere considerati veicoli fuori uso:
«veicoli a motore appartenenti alle categorie M1 ed N1 di
cui all'allegato II, parte A, della direttiva 70/156/Cee e i
veicoli a motore a tre ruote come definiti dalla direttiva
2002/24/Ce, con esclusione dei tricicli a motore, a fin
evita, che costituiscono un rifiuto ai sensi dell'articolo 6
del decreto legislativo 05.02.1997, numero 22, e
successive modifiche.
Alla luce di detto decreto, i veicoli
fuori uso vengono classificati:
a) con la consegna ad un
centro di raccolta, effettuata dal detentore direttamente o
tramite soggetto autorizzato al trasporto di veicoli fuori
uso o tramite il concessionario o il gestore
dell'automercato o della succursale della casa costruttrice
che ritira un veicolo destinato alla demolizione nel
rispetto delle disposizioni del presente decreto: è comunque
considerato rifiuto, sottoposto al relativo regime, anche
prima della consegna al centro di raccolta, il veicolo che
sia stato ufficialmente privato delle targhe di
immatricolazione, salvo il caso di esclusivo utilizzo in
aree private di un veicolo e per il quale è stata effettuata
la cancellazione dal Pra a cura del proprietario;
b) nei
casi previsti dalla vigente disciplina in materia di veicoli
a motore rinvenuti da organi pubblici e non reclamati;
c) a
seguito di specifico provvedimento dell'autorità
amministrativa o giudiziaria; d) in ogni altro caso in cui
il veicolo, ancorché giacente in area privata, risulta in
evidente stato di abbandono, e conclusivamente esclude
esplicitamente dalla riconducibilità alla categoria dei
«veicoli fuori uso-rifiuto» ai sensi del comma 1, lettera b)
–e quindi dalla applicabilità della relativa disciplina,
anche penale– i veicoli d'epoca».
Per veicoli d'epoca, ai dell'articolo 3, comma 2, devono
intendersi «i veicoli storici o di valore per i
collezionisti o destinati ai musei, conservati in modo
adeguato, pronti all'uso ovvero in pezzi smontati».
La Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza
del 12.12.2011, numero 45974, ha affermato che sono rifiuti
le auto fuori uso, in stato di evidente abbandono, rinvenuti
in un'area di pertinenza di una società. Ha aggiunto che, in
tema di rifiuti, la responsabilità per l'attività di
gestione non autorizzata non attiene necessariamente al
profilo della consapevolezza e volontarietà della condotta,
potendo scaturire da comportamenti che violino i doveri di
diligenza per la mancata adozione di tutte le misure
necessarie per evitare illeciti nella predetta gestione e
che legittimamente si richiedono ai soggetti preposti alla
direzione dell'azienda
(articolo ItaliaOggi Sette del
29.10.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Discarica
abusiva.
Domanda
Nel campo vicino al mio vengono con continuità abbandonati
rifiuti di ogni genere. Chiedo se nel caso possa configurasi
una discarica abusiva.
Risposta
L'articolo 2, comma 1, lettera g), del decreto legislativo
numero 36, del 2003, recante «attuazione della direttiva
1999/31/Ce, relativa alle discariche di rifiuti», definisce
la discarica come: «Un'area adibita a smaltimento dei
rifiuti mediante operazioni di deposito sul suolo o nel
suolo, compresa la zona interna al luogo di produzione dei
rifiuti adibita allo smaltimento dei medesimi da parte del
produttore degli stessi, nonché qualsiasi area ove i rifiuti
sono sottoposti a deposito temporaneo per più di un anno.
Sono esclusi da tale definizione gli impianti in cui i
rifiuti sono scaricati al fine di essere preparati per il
successivo trasporto in un impianto di recupero, trattamento
o smaltimento, e lo stoccaggio di rifiuti in attesa di
recupero o trattamento per un periodo inferiore a tre anni
come norma generale, o lo stoccaggio di rifiuti in attesa di
smaltimento per un periodo inferiore a un anno».
La Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza
del 16.01.2012, numero 1188, partendo da detta
definizione giuridica di discarica, ritiene che per la
configurazione della fattispecie di discarica abusiva sia
necessario appurare i seguenti requisiti, al fine di
intergare la condotta illecita di cui all'articolo 256,
comma 3, del decreto legislativo numero 152, del 2006:
-
accumulo, più o meno sistematico, ma comunque ripetuto e non
occasionale, di rifiuti;
-
accumulo dei predetti rifiuti in un'area determinata;
-
eterogeneità dell'ammasso dei rifiuti;
-
definitività dell'abbandono;
-
degrado, anche solo tendenziale, dello stato dei luoghi per
effetto della presenza di rifiuti.
Per la Suprema corte, per la sussistenza del reato in esame,
è necessario che sussistano almeno due dei requisiti su
indicati, e, cioè, l'accumulo ripetitivo nello stesso posto
di sostanze, che di per sé, sono destinate all'abbandono,
nonché lo stato di degrado, anche solo tendenziale, del
luogo dove sono abbandonati i rifiuti per effetto della loro
presenza.
La stessa Corte di cassazione, sezione III penale, con la
sentenza numero 8424, del 2004, ha affermato che «si
configura il reato di realizzazione e gestione di una
discarica quando materiali provenienti da demolizioni e
scavi, costituenti rifiuti, vengono scaricati in un'area
determinata attraverso una condotta ripetuta». Concetto
questo ripetuto con la sentenza del gennaio 2012, numero
1188, su citata. Quindi la condotta nell'abbandono dei
rifiuti in una determinata area deve essere abituale o,
almeno, deve avere una certa stabilità
(articolo ItaliaOggi Sette del
29.10.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Smaltimento
di rifiuti.
Domanda
Nel caso di mero abbandono o deposito incontrollato o
smaltimento di rifiuti si configura la fattispecie di
discarica abusiva?
Risposta
La Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza
del 16.01.2012, numero 1188, distingue, in tema di
abbandono di rifiuti, tra: a) mero abbandono; b) deposito
incontrollato; c) smaltimento.
Per la suprema Corte di cassazione non si è in presenza di
una discarica non autorizzata, che presuppone la ricorrenza
di atti plurimi di abbandono, per lo più abituali, quando si
è in presenza di un comportamento occasionale e discontinuo
di abbandono di rifiuti. È da dire, per inciso, che la
condotta di abbandono di rifiuti di cui all'articolo 255,
comma 1, del decreto legislativo numero 152, del 2006, è
sanzionata come illecito amministrativo, se posta in essere
da un privato, e come reato se tenuta da un responsabile di
enti o da un titolare di impresa.
Ora, per la Corte di cassazione si ha mero abbandono quando
si è in presenza di un unico scarico di rifiuti, limitato
nella quantità e avvenuto in modo del tutto occasionale.
Si ha deposito incontrollato, quando si è in presenza non di
un atto unico di abbandono di rifiuti, ma di abbandono di un
cumulo di rifiuti in un'area, con un quantità superiore
quantitativamente e qualitativamente al semplice abbandono,
che però non configura la fattispecie tipica della discarica
abusiva.
La discarica abusiva va, pure, distinta, dallo smaltimento
dei rifiuti, perché, secondo i Supremi giudici, nella
discarica abusiva «i rifiuti sono abbandonati a tempo
indeterminato, senza una precisa destinazione, mentre nello
smaltimento, essi sono «utilizzati» con diverse modalità,
quali, ad esempio, la cernita, la trasformazione, l'utilizzo
e il riciclo previo recupero».
In ogni caso, il fine di lucro non costituisce presupposto
per la configurabilità della contravvenzione di discarica
non autorizzata. Infatti, come scrive la Corte di
cassazione, sezione III penale, nella sentenza numero 20499,
del 2004: «_né il reato prevede quale elemento
costitutivo l'esistenza di un fine di lucro o comunque di un
guadagno da parte di colui che realizza o gestisce la
discarica abusiva»
(articolo ItaliaOggi Sette del
29.10.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Dirigente
e reintegrazione.
Domanda
Il dirigente pubblico illegittimamente licenziato ha diritto
alla reintegrazione nel posto di lavoro?
Risposta
Il dirigente pubblico illegittimamente licenziato ha diritto
alla reintegrazione nel posto di lavoro. Va confermato in
materia l'orientamento dalla giurisprudenza della Corte di
cassazione che ha rilevato come le conseguenze
dell'illegittimità del recesso di dirigente pubblico siano
di carattere reintegratorio.
E ciò in considerazione di
quanto previsto dall'art. 51 del dlgs 165/2001 che, dopo
avere, al comma 1 affermato che il rapporto di lavoro dei
dipendenti delle amministrazioni pubbliche è disciplinato
secondo le disposizioni degli articoli successivi che
comprendono anche i dirigenti, prevede, al comma 2°, che la
Statuto dei lavoratori, si applichi alle pubbliche
amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti.
Al
riguardo è stato ritenuto che, poiché il rapporto
fondamentale stabile dei dipendenti pubblici con attitudine
dirigenziale è assimilato dal dlgs n. 165/2001, art. 21, a
quello della categoria impiegatizia e poiché la legge n.
604/1966 art. 10 si riferisce ai dirigenti privati, lo
Statuto dei lavoratori non si applichi con i limiti
categoriali di cui alla legge 604/1966 ma che l'estensione
operata dall'art. 51, comma 2 cit., si applichi anche al
rapporto fondamentale di lavoro dei dirigenti pubblici
(articolo ItaliaOggi Sette del
29.10.2012). |
NEWS |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Il
dl varato dal governo elimina la norma dall'origine per
evitare contenziosi. Prelievo sul tfr, tabula rasa. Estinti
i processi per la restituzione del contributo.
Estinti i processi per la restituzione
del contributo previdenziale obbligatorio del 2,5% sulla
base contributiva dei dipendenti pubblici.
Il decreto legge approvato lo scorso venerdì dal governo per
attuare la sentenza della Corte costituzionale 223/2012 non
si limita ad azzerare la norma considerata incostituzionale,
l'articolo 12, comma 10, del dl 78/2010, convertito in legge
122/2010, ma incide anche sulle vertenze attivate, con
l'intento di eliminare il contenzioso sorto nel frattempo.
L'estinzione dei processi potrà essere anche dichiarata
d'ufficio dal giudice e in ogni caso le sentenze emesse
resteranno prive di effetti.
La ragione della chiusura del contenzioso è semplice: il
governo, col decreto legge, non si limita ad attuare le
indicazioni della Consulta, ma azzera totalmente la norma «incriminata».
La sentenza 223/2010, a ben vedere, ha considerato
l'articolo 12, comma 10, del dl 78/2010 incostituzionale non
in quanto tale, ma poiché mentre fino al 31.12.2010 la
normativa imponeva al datore di lavoro pubblico un
accantonamento complessivo del 9,60% sull'80% della
retribuzione lorda, con una trattenuta a carico del
dipendente pari al 2,50%, calcolato sempre sull'80% della
retribuzione, l'articolo 12, comma 10, aveva imposto la
trasformazione del trattamento di fine servizio in vero e
proprio tfr.
La Consulta ha rilevato che la normativa antecedente
all'articolo 12, comma 10, imponeva «un accantonamento
determinato su una base di computo inferiore e, a fronte di
un miglior trattamento di fine rapporto, esigeva la rivalsa
sul dipendente, cioè il prelievo del 2,5%».
Il passaggio a una contribuzione del 6,91% operante
sull'intera retribuzione, mantenendo detto prelievo, aveva
comportato, spiega la Consulta, «una diminuzione della
retribuzione e, nel contempo, la diminuzione della quantità
del tfr maturata nel tempo», vulnerando gli articoli 3 e
36 della Costituzione, perché si era dettata una disciplina
peggiorativa dei lavoratori pubblici rispetto ai privati, a
parità di retribuzione.
Il decreto legge, dunque, elimina l'articolo 12, comma 10,
dal primo gennaio 2011 (esattamente la stessa data della sua
entrata in vigore) facendo tornare le cose com'erano prima.
Mancano, tuttavia, indicazioni ancora più strettamente
operative. È evidente che le amministrazioni dovranno
restituire le somme indebitamente trattenute ai dipendenti.
Sarebbe fondamentale, però, che Inps-Inpdap chiariscano
velocissimamente come le amministrazioni dovranno agire ai
fini dei versamenti successivi.
Essendo stata eliminata la disposizione che portava
l'aliquota contributiva al 6,91%, dovrebbe tornare
l'applicazione del precedente regime normativo.
Il decreto legge, in conseguenza della cancellazione
dell'articolo 12, comma 10, dispone anche di riliquidare i
trattamenti di fine servizio ai dipendenti che, nel
frattempo, erano cessati, nel rispetto alla disciplina
normativa antecedente. La riliquidazione deve avvenire entro
un anno e, comunque, si stabilisce di non recuperare nei
confronti dei dipendenti somme eventualmente erogate in
eccedenza
(articolo ItaliaOggi del 30.10.2012). |
COMPETENZE
GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Delibera
civit. Il sindaco nomina i valutatori.
È il sindaco l'organo comunale competente a incaricare e
nominare i componenti dell'organismo indipendente di
valutazione (Oiv).
Il chiarimento alla questione (per la verità piuttosto
scontato) proviene dalla Commissione per la valutazione, la
trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche (Civit),
che si è espressa con la
delibera 23.10.2012 n. 21.
Il dubbio espresso da non pochi comuni deriva dalla
formulazione dell'articolo 14, comma 3, del dlgs 150/2009 ai
sensi del quale l'Organismo indipendente di valutazione è
nominato, sentita la Commissione di cui all'articolo 13,
dall'organo di indirizzo politico–amministrativo: negli enti
locali operano tre organi di tale natura (consiglio, giunta
e sindaco o presidente della provincia), sicché potrebbero
darsi problemi per individuare quello al quale correttamente
attribuire la competenza. Esclusa la giunta, la quale altro
non è se non un supporto collegiale alle funzioni del
sindaco e non ha veri e propri compiti di indirizzo
politico, l'incertezza potrebbe riguardare l'alternativa tra
consigli e organi di vertice monocratici.
La Civit giunge alla conclusione che la competenza è del
sindaco sulla base di osservazioni trancianti. In primo
luogo, la commissione ricorda che esiste una norma già
risolutiva della questione: l'articolo 4, comma 2, lettera
g), della legge 15/2009 (la legge delega da cui è scaturito
il dlgs 150/2009) dispone che «i sindaci e i presidenti
delle province nominano i componenti dei nuclei di
valutazione», che poi il dlgs ha disciplinato come «Organismi
indipendenti di valutazione». Di per sé questo semplice
rilievo sarebbe sufficiente per escludere la competenza di
ogni altro soggetto.
La delibera 21/2012, comunque, ricorda che le competenze del
consiglio comunale e provinciale sono fissate dall'articolo
42 del dlgs 267/2000 in modo tassativo. I consigli possono
legittimamente esercitare esclusivamente le attribuzioni
elencate espressamente nell'articolo 42 e nelle altre
disposizioni di legge, contenute anche in altri articoli del
Testo unico degli enti locali. Tutte le altre competenze,
non rientranti nelle funzioni gestionali o nella sfera del
sindaco, cadono nelle competenze della giunta
(articolo ItaliaOggi del 30.10.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: In
consiglio dei ministri sbarca il ddl delega sui contratti
pubblici. Rotta sulle asseverazioni. Meno autorizzazioni
nell'edilizia. Verso procedure semplificate sui lavori di
trasformazione urbana.
Eliminare i provvedimenti autorizzatori per gli interventi
di trasformazione urbanistico-edilizia e di conservazione;
consultazione pubblica limitata alle grandi opere; eliminata
la corrispondenza fra quote di partecipazione al
raggruppamento temporaneo e quote dei lavori da svolgere.
Sono queste alcune delle norme proposte dal Governo nel
disegno di legge in materia di
infrastrutture, edilizia e trasporti che viene
esaminato oggi dal consiglio dei ministri.
Per quel che attiene all'attività edilizia e urbanistica
emerge con una certa chiarezza la scelta di semplificare
sempre più gli oneri procedurali, eliminando il ricorso a
provvedimenti autorizzatori per interventi di trasformazione
urbanistico-edilizia e di conservazione. Alla luce di questa
impostazione sarà dato inevitabilmente sempre maggiore
spazio alle asseverazioni dei professionisti chiamati ad
assumersi responsabilità e compiti sempre più delicati
rispetto a interventi che, per loro natura, investono una
pluralità di normative spesso complesse articolate di cui
tenere conto.
Nel disegno di legge non mancano però le novità rispetto al
testo che circolava la settimana scorsa (vedi Italia Oggi
del 23 ottobre).
In primo luogo scompare del tutto il Comitato dei ministri
per le infrastrutture strategiche che avrebbe dovuto
coordinare, unificare e rafforzare le linee di azione del
Governo per la realizzazione delle infrastrutture. Viene
espunta anche la norma che avrebbe consentito la
costituzione di un Fondo mobiliare chiuso per la
valorizzazione dei beni pubblici mobiliari e per favorire la
dismissione delle partecipazioni societarie al quale
avrebbero dovuto collaborare anche Anci e Upi. Sparisce
anche la norma di delega per l'ennesima revisione del Codice
della strada, mentre rimangono confermate le deleghe per il
«consolidamento» della normativa sui contratti
pubblici e per la revisione del codice della navigazione e
per i servizi di trasporto su autobus.
Vengono anche ritoccate le disposizioni in materia di
concessioni di costruzione e gestione, per le quali già il
testo della settimana scorsa prevedeva la possibilità di
indire una consultazione preliminare per verificare
eventuali criticità del progetto posto a base di gara di una
procedura ristretta, sul modello di alcune prassi
internazionali. In particolare i bandi per queste
concessioni, che in precedenza era previsto fossero
predisposti dall'Unità tecnica per la finanza di progetto,
saranno invece messi a punto sulla base di modelli forniti
dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici,
previo parere del ministero delle infrastrutture. In queste
operazioni le banche dovranno dare la loro «manifestazione
di interesse» (non più la «disponibilità») a
finanziare l'operazione di project finance.
Il nuovo testo all'esame oggi prevede poi l'abrogazione del
comma 13 dell'articolo 37 del Codice dei contratti pubblici,
con il risultato che neanche per il settore dei lavori sarà
più applicabile il principio di corrispondenza fra quote di
partecipazione nei raggruppamenti temporanei di imprese e
quota dei lavori svolti (corrispondenza che da agosto non
esisteva più per il settore dei servizi e delle forniture).
La nuova bozza prevede quindi che i lavori possano essere
svolti anche in percentuali diverse da quelle indicate nella
partecipazione al raggruppamento.
Un'altra significativa modifica riguarda la consultazione
pubblica (débat public) per la realizzazione di opere di
rilevante impatto ambientale, sociale ed economico che non
sarà più affidata a una «apposita Commissione» bensì
sarà gestita dal Provveditore interregionale per le opere
pubbliche competente per territorio, in coordinamento con il
prefetto.
Il nuovo testo elimina anche la possibilità di indire
commissioni per consultazioni pubbliche su opere di «interesse
locale» su proposta di regioni, province o enti locali.
Confermate le disposizioni in materia di svincolo cauzioni
per opere in esercizio da almeno un anno ma non ancora
collaudate e l'innalzamento all'80% della quota svincolabile
(articolo ItaliaOggi del 30.10.2012 -
tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Il
governo ha sanato il prelievo sanzionato dalla Consulta. Trattenuta del 2,5% sulle paghe, ora è legittima.
Al personale della scuola, come a tutti i lavoratori alle
dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il trattamento
di fine servizio (buonuscita) continuerà ad essere liquidato
secondo le norme previste dal decreto 1032/1973 (l'80 per
cento dello stipendio in godimento comprensivo della
indennità integrativa speciale e della quota di tredicesima
mensilità da moltiplicare per il numero degli anni utili ai
fini della buonuscita) e non secondo quanto stabiliva il
comma 10 dell'articolo 12 del decreto legge 31.05.2010,
n. 78, convertito con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122.
La legge citata prevedeva, con effetto sulle
anzianità contributive maturate a decorrere dal 01.01.2011, che il computo dei trattamento di fine servizio fosse
effettuato secondo le regole di cui all'articolo 2120 del
codice civile, con l'applicazione dell'aliquota del 6,91 per
cento a carico della sola amministrazione e nessun onere per
il dipendente.
Il governo ha infatti abrogato, con un decreto legge
approvato nella seduta dello scorso 26 ottobre, la
disposizione contenuta nel comma 10. Per effetto di tale
abrogazione e del conseguente ripristino delle disposizioni
di cui al decreto 1032/1973 rimane in vigore e riacquista
legittimità la ritenuta mensile del 2,50 per cento sull'80
per cento della retribuzione utile ai fini del calcolo della
buonuscita, ritenuta che, a seconda della qualifica del
personale della scuola (dirigente, docente o personale
amministrativo, tecnico e ausiliario) e dell'anzianità
posseduta è compresa indicativamente tra i 30 e i 50 euro al
mese.
Il governo insomma ha sanato il prelievo che la
consulta aveva dichiarato illegittimo. Con riferimento ai
processi pendenti aventi ad oggetto la restituzione del
predetto contributo previdenziale, il decreto legge precisa
che si estingueranno di diritto. L'estinzione sarà
dichiarata con decreto, anche d'ufficio. Le sentenze
eventualmente emesse che hanno accolto le richieste di
restituzione della ritenuta del 2,50 per cento, operata
sugli stipendi mensili a decorrere dal 01.01.2011,
resteranno quindi prive di effetti, fatta eccezione per
quelle passate in giudicato.
Quanto infine ai trattamenti di fine servizio(buonuscita),
liquidati prima dell'entrata in vigore del nuovo decreto
legge secondo le norme del Tfr, dovranno essere riliquidati
d'ufficio secondo le norme di cui al citato decreto
1032/1973. Non si provvederà, invece, al recupero a carico
del dipendente di eventuali somme già erogate in eccedenza,
in conseguenza dell'applicazione delle norme che regolano il
trattamento di fine rapporto, trattamento che in casi
particolari può essere stato più favorevole rispetto a
quello del trattamento di fine servizio.
Questo in sintesi il contenuto del decreto legge che il
Governo è stato costretto ad approvare in seguito alla
dichiarazione di illegittimità costituzionale del citato
comma 10 contenuta nella sentenza della Corte Costituzionale
n. 223/2012 e anche, presumibilmente, al fine di impedire la
inevitabile restituzione delle somme trattenute a decorrere
dal 01.01.2011. Spetterà ora ai deputati e ai senatori
trasformarlo in legge dello Stato entro sessanta giorni
dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale
(articolo ItaliaOggi del 30.10.2012). |
APPALTI:
Appalti, basta
l'autocertificazione.
Ok alla dichiarazione sostitutiva sulla responsabilità
solidale. Lo ha chiarito l'Agenzia
delle entrate nella circolare n. 40. Sanzioni fino a 200
mila euro.
Nuove responsabilità per committenti e appaltatori. Il
regime di solidarietà introdotto dal dl 223/2006, modificato
dall'art. 13-ter del dl 83/2012 (decreto sviluppo), ha
dettato ulteriori regole in materia di responsabilità
fiscale nell'ambito dei contratti di appalto e subappalto di
opere e servizi.
A decorrere dai contratti stipulati il 12.08.2012, è stato introdotto il principio della
responsabilità dell'appaltatore e del committente per il
versamento all'erario delle ritenute fiscali sui redditi di
lavoro dipendente e dell'Iva dovuta dal subappaltatore e
dall'appaltatore in relazione alle prestazioni effettuate
nell'ambito del contratto.
La responsabilità viene meno laddove
l'appaltatore/committente acquisisca la documentazione
attestante che i versamenti fiscali, scaduti alla data del
pagamento del corrispettivo, sono stati correttamente
eseguiti dal subappaltatore/appaltatore.
In assenza della documentazione il committente (verso
l'appaltatore) e l'appaltatore (verso il subappaltatore)
devono sospendere il pagamento dei corrispettivi.
L'attuale normativa ammette che la documentazione possa
consistere in una asseverazione rilasciata da Caf o da
professionisti abilitati oppure, come recentemente affermato
dalla
circolare 08.10.2012 n. 40/E dell'Agenzia delle entrate, anche
nell'autocertificazione dell'impresa. In caso di violazione
della norma scattano le sanzioni che possono variare da un
minimo di 5 mila a un massimo di 200 mila euro.
La normativa. Il comma 28 dell'art. 35 del dl 223/2006 è stato
integralmente sostituito dall'art. 13-ter del dl 83/2012
convertito. Sulla materia è intervenuta la
circolare 08.10.2012 n. 40/E
dell'Agenzia delle entrate, che ha
precisato che gli adempimenti da porre in essere per evitare
la corresponsabilità negli appalti si riferiscono ai
pagamenti effettuati a partire dall'11 ottobre, in relazione
ai contratti di appalto o subappalto stipulati a decorrere
dal 12.08.2012.
L'adempimento al quale gli appaltatori devono fare
riferimento è la verifica del corretto versamento all'Erario
delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente e
dell'Iva dovuta dal subappaltatore in relazione alle
prestazioni effettuate nell'ambito del rapporto di
subappalto.
In mancanza di tale controllo, l'appaltatore diviene
solidalmente responsabile con il subappaltatore, nei limiti
del corrispettivo dovuto, per i versamenti omessi. Inoltre
in mancanza della documentazione attestante la correttezza
dei versamenti dell'Iva e delle ritenute dell'appaltatore e
del subappaltatore, il committente, pur non essendo
corresponsabile, viene sanzionato, in caso di omissione del
versamento, con una sanzione amministrativa pecuniaria da 5
mila a 200 mila euro.
I soggetti interessati. L'ambito di applicazione della nuova
disposizione è ampio e abbraccia tutti i settori. La
disciplina infatti si applica alle obbligazioni nascenti dai
contratti di appalto e subappalto, di opere, forniture e
servizi, stipulati da soggetti nell'ambito di attività
rilevanti ai fini dell'Iva e, in ogni caso, dai soggetti
indicati agli artt. 73 e 74 del dpr n. 917/1986 («Testo
unico delle imposte sui redditi»). Rientrano pertanto nella
disciplina, ad esempio, i contratti aventi a oggetto la
costruzione di immobili e di impianti particolari, ma anche
quelli aventi a oggetto la pulizia periodica di uffici e
fabbriche.
Sono espressamente escluse dall'applicazione della
disposizione le (sole) stazioni appaltanti, di cui all'art.
3, comma 33, del dlgs n. 163/2006 («Codice degli appalti
pubblici»).
Le attestazioni. Il subappaltatore e l'appaltatore possono
attestare l'avvenuto adempimento degli obblighi fiscali
anche attraverso l'asseverazione rilasciata dai dottori
commercialisti, consulenti del lavoro, responsabili dei Caf-imprese. La circ. 40/2012 ha inoltre introdotto la
possibilità di rilasciare una dichiarazione sostitutiva di
atto notorio (dpr 445/2000), con cui
l'appaltatore/subappaltatore attesta l'avvenuto adempimento
degli obblighi richiesti dalla disposizione.
Il contenuto delle attestazioni. Per quanto riguarda la
dichiarazione sostitutiva (o l'attestazione da parte del
professionista o del Caf), tale documento deve contenere
l'indicazione:
- del periodo nel quale l'Iva relativa alle fatture
concernenti i lavori eseguiti è stata liquidata,
specificando se dalla liquidazione è scaturito un versamento
di imposta, ovvero se in relazione alle fatture oggetto del
contratto è stato applicato il regime dell'Iva per cassa
oppure la disciplina del reverse charge;
- del periodo nel quale le ritenute sui redditi di lavoro
dipendente sono state versate, mediante scomputo totale o
parziale; degli estremi del modello F24 con il quale i
versamenti dell'Iva e delle ritenute non scomputate,
totalmente o parzialmente, sono stati effettuati;
- dell'affermazione che l'Iva e le ritenute versate
includono quelle riferibili al contratto di
appalto/subappalto per il quale la dichiarazione viene resa.
I termini per i versamenti erariali.
La circ. 40 ha precisato che nell'autocertificazione deve
essere indicato «il periodo nel quale l'Iva relativa alle
fatture concernenti i lavori eseguiti è stata liquidata»
e «il periodo nel quale le ritenute sui redditi di lavoro
dipendente sono state versate», dando per certo che i
versamenti debbano già essere avvenuti alla data della
liquidazione del corrispettivo.
È indubbio che in assenza di correttivi futuri, se la
direttiva verrà applicata in base all'attuale versione,
molte imprese non potranno mai rispettare tali adempimenti,
dovendo incassare il corrispettivo per poter fare fronte
agli obblighi fiscali
(articolo ItaliaOggi Sette del
29.10.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA: Burocrazia verde in
versione light.
Alleggerimenti per la gestione di rifiuti e procedure Via e
Aia. Dai siti inquinanti alle terre
da scavo: le misure del ddl semplificazioni in materia di ambiente.
Nuovi alleggerimenti per la gestione di materiali da scavo e
rifiuti agricoli, rimodulazione del confine tra acque e
rifiuti, autorizzazione alla bonifica dei siti inquinati in
«silenzio-assenso», velocizzazione delle procedure «Via» e
«Aia». Promette di intervenire su tutte le principali
tematiche ambientali il disegno di legge in materia di
semplificazione (meglio noto come «Semplificazioni-bis»)
licenziato lo scorso 16.10.2012 dal governo e ora
all'esame del parlamento.
«Materiali di riporto». La prima delle novità in materia di
gestione di terre e rocce da scavo riguarda la
riformulazione della nozione di «materiali di riporto»
contenuta nel dl 2/2012, ossia dei materiali paragonati
dallo stesso decreto legge al suolo dal punto di vista della
gestione ambientale.
Pur conservando la definizione base
dell'articolo 3 del dl 2/2012 che li individua «quali
materiali eterogenei (...) utilizzati per la realizzazione di
riempimenti e rilevati, non assimilabili per caratteristiche
geologiche (...) al terreno (...) all'interno dei quali possono
trovarsi materiali estranei» il ddl in itinere interviene su
diversi aspetti nodali della loro gestione modificando
direttamente il citato dl 2/2012. In primo luogo il «Semplificazioni-bis»
rende autonoma la definizione generale di «materiali di
riporto» eliminando ogni rinvio al dm ambiente 161/2012 (il
nuovo provvedimento sull'utilizzo delle terre e rocce da
scavo come sottoprodotti, che appare dunque entrare in gioco
solo nel caso di gestione di detti materiali in deroga al
regime ordinario sui rifiuti).
Ancora, il ddl in esame specifica a monte il novero dei
materiali «estranei» che identificano i «materiali di
riporto» come tali, individuandoli come residui di
lavorazione industriale e residui generali, e indicandoli (a
titolo esemplificativo) quali materiali di demolizione, litoidi, pietrisco tolto d'opera, conglomerati bituminosi e
non, scorie spente, loppe di fonderia, detriti e fanghi di
lavorazione e lavaggio di inerti. Lo stesso ddl prevede
l'obbligo, in caso di potenziale contaminazione del suolo
contenente «materiali di riporto» di procedere alla sua
caratterizzazione con le modalità previste dall'allegato V
al dlgs 152/2006 e, in caso di superamento di determinate
concentrazioni, di effettuare ulteriori approfondimento
mediante test di cessione.
Le novità previste dal ddl governativo si innestano nel
restyling normativo sulla gestione delle terre e rocce da
scavo avviato dal citato dl 2/2012 (mediante la
parificazione dei «materiali di riporto» al suolo) e portato
avanti dal dm ambiente 161/2012 (che dallo scorso 6 ottobre
costituisce la nuova disciplina di riferimento per la
gestione delle stesse come sottoprodotti in sostituzione
delle regole ex articolo 186 del «Codice ambientale»). In
base all'attuale e vigente disciplina, è utile ricordarlo,
il suolo «non scavato» (contaminato o meno, salvo gli
obblighi di bonifica e anche se contenente i citati
«materiali di riporto» ex dl 2/2012) non rientra nel campo
di applicazione delle norme sui rifiuti, quello «scavato» è
invece suscettibile di diversa valutazione.
In particolare, il suolo scavato contaminato deve essere
gestito come rifiuto; quello scavato non contaminato può
essere considerato non rifiuto, rifiuto o sottoprodotto.
Precisamente, non è rifiuto se è riutilizzato in attività di
costruzione nello stesso sito. È invece rifiuto (salvo
riabilitazione all'esito del successivo recupero) se il
detentore decide a monte di «disfarsene» o se, pur volendolo
avviare a reimpiego in sito diverso da quello di origine,
non rispetta i parametri per i sottoprodotti dettati dal dm
161/2012. È, infine, sottoprodotto se reimpiegabile (e poi
realmente reimpiegato) in altro sito nell'osservanza delle
condizioni dettate dal citato dm 161/2012.
Gestione «semplificata» delle terre da piccoli cantieri.
Nell'ambito del descritto quadro normativo si inserisce
l'altra novità prevista dal ddl «Semplificazioni-bis», ossia
l'insieme delle regole che permette di gestire sempre come
sottoprodotti, ma con ulteriori semplificazioni, i materiali
da scavo provenienti da cantieri la cui produzione non
superi in totale i 6 mila metri cubi di materiale. Per
gestire tali materiali come sottoprodotti in deroga al dm
161/2012 (ma salva l'osservanza delle regole generali
dettate dall'articolo 184-bis del dlgs 152/2006) i relativi
produttori dovranno dimostrare (anche mediante
autodichiarazione alla provincia competente): che la
destinazione all'utilizzo sia certa e diretta in un
determinato sito o ciclo produttivo; che i materiali
derivanti dallo scavo non superano le concentrazioni soglia
di contaminazione (ex colonne «A» e «B», tabella 1, allegato
5 al Titolo V, Parte IV del Codice ambientale); che
l'utilizzo non comporta rischi per la salute né variazioni
di emissioni rispetto al normale utilizzo di materie prime.
Il deposito dei materiali destinati al riutilizzo non dovrà
però superare un anno e l'avvenuta reimmissione nel ciclo
produttivo dovrà esser comunicata alla provincia. Ancora, il
trasporto dovrà esser accompagnato dal relativo documento,
dalla copia del contratto di trasporto o dalla scheda
prevista dal dlgs 286/2005 (autotrasporto per conto terzi).
Nella logica del «Semplificazioni-bis» tali regole
costituiscono attuazione dell'articolo 266, comma 7 del dlgs
152/2006 che prevede la facoltà per il legislatore
(individuato dall'articolo in parola nel Minambiente, ma ora
sostituito dal consiglio dei ministri) di stabilire deroghe
al regime dei rifiuti per i materiali dai suddetti cantieri
di piccole dimensioni. A tal proposito è altresì utile
ricordare che il Minambiente aveva già dato attuazione al
dettato del «Codice ambientale» mediante dm 02.05.2006,
decreto poi dichiararlo in autotutela privo di ogni effetto
per un difetto di registrazione presso la Corte dei conti.
Gestione acque. Il confine tra regime delle acque e quello
dei rifiuti viene dal «Semplificazioni-bis» rivisitato
mediante un intervento sulla gestione delle acque
sotterranee emunte, ossia delle acque di falda estratte
nell'ambito di interventi di bonifica. Il ddl chiarisce,
attraverso la riformulazione del dlgs 152/2006, che sono
assimilate alle acque reflue industriali (e dunque
sottoposte al relativo regime delle «acque» previsto dalla
parte III del dlgs 152/2006) le acque sotterranee emunte e
convogliate tramite un sistema stabile di collettamento che
collega senza soluzione di continuità il punto di prelievo
delle stesse con il punto di immissione (previa depurazione)
nel corpo ricettore. Ragionando a contrario la disposizione
appare dunque ricondurre al regime dei rifiuti (liquidi) le
sole acque emunte non convogliate direttamente tramite
tubatura dal prelievo al corpo ricettore.
Bonifica siti inquinati. In base al «Semplificazioni-bis»
(che sul punto prevede la modifica diretta del dlgs
152/2006) l'operatore interessato all'intervento può
iniziare la bonifica trascorsi 90 giorni dalla presentazione
del progetto completo di «crono programma»
all'Amministrazione competente ove nello stesso termine non
sia intervenuto il rigetto dell'istanza. Ancora, ultimati
gli interventi, effettuata la caratterizzazione e comunicata
la stessa all'Agenzia ambientale regionale e all'Autorità
competente di cui sopra, l'operatore potrà autocertificare
l'avvenuta bonifica se entro 45 giorni da detta
comunicazione non interviene atto amministrativo contrario.
Dandone successiva comunicazione alla stessa Amministrazione
competente l'operatore acquisirà altresì la disponibilità
dell'area per gli usi legittimi. Altra novità è la
limitazione ai soli siti industriali dello strumento di
«messa in sicurezza operativa», riservando agli altri siti
(come i residenziali, commerciali e verdi) le meno grevi
procedure previste dal titolo V del dlgs 152/2006
(articolo ItaliaOggi Sette del
29.10.2012). |
CONDOMINIO: Immobili.
Difettosa realizzazione delle parti comuni.
Danni da infiltrazioni, risponde il condominio.
LA DECISIONE/
Si tratta di responsabilità del custode che deve eliminare
le caratteristiche lesive insite nella cosa propria.
Se i danni lamentati dal singolo condomino sui beni di
proprietà esclusiva derivano da difettosa realizzazione
delle parti comuni dell'edificio, nei confronti del
condomino è responsabile –in via autonoma in base
all'articolo 2051 del Codice civile– il condominio.
Quest'ultimo, infatti, come custode, deve eliminare le
caratteristiche lesive insite nella cosa propria.
Lo ha ribadito la II Sez. civile della Corte di Cassazione che, con la
sentenza
n. 17268/2012, ha affrontato il caso di due coniugi che, per le
infiltrazioni d'acqua nella loro cantina, avevano chiesto al
tribunale la condanna del condominio a eseguire le opere
necessarie per eliminare gli inconvenienti e a risarcire i
danni.
La domanda del condomino, respinta dal tribunale, è
stata invece accolta dalla Corte d'appello, che ha
condannato il condominio a eseguire le opere descritte nella
consulenza tecnica d'ufficio. La Corte ha infatti
evidenziato che, pur avendo la Ctu appurato che a generare
il danno erano stati i vizi di progettazione e di esecuzione
imputabili al costruttore, doveva comunque essere ravvisata
la responsabilità del condominio in base all'articolo 2051
del Codice civile: il danno era stato causato non da un
comportamento del custode, ma dalla cosa in custodia; e la
responsabilità era superabile solo dalla prova liberatoria
del superamento della presunzione di colpa o del caso
fortuito.
La Cassazione, a sua volta, nel respingere il ricorso del
condominio, ha precisato che se il fenomeno dannoso
lamentato dal singolo condomino sui beni di proprietà
esclusiva è originato da difettosa realizzazione delle parti
comuni dell'edificio (nella specie precaria situazione della
muratura perimetrale adiacente il giardino condominiale e
dei pozzetti), nei confronti di questi è responsabile, in
via autonoma, il condominio, che è tenuto, quale custode, a
eliminare le caratteristiche lesive insite nella cosa
propria.
Non si tratta di una responsabilità a titolo derivativo: il
condominio, pur successore a titolo particolare del
costruttore-venditore, non subentra nella sua personale
responsabilità, legata alla sua attività e fondata
sull'articolo 1669 del Codice civile. Ma si tratta di
autonoma fonte di responsabilità in base all'articolo 2051
del Codice civile, che non preclude, però, al condominio la
possibilità di agire nei confronti della società
costruttrice in base all'articolo 1669 del Codice civile se
sussistano i presupposti
(articolo Il Sole 24 Ore del
29.10.2012). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA
PRIVATA:
Il silenzio-rifiuto può formarsi esclusivamente
in ordine ad un'attività dell'amministrazione ad emanazione
vincolata ma di contenuto discrezionale, e quindi
necessariamente incidente su posizioni di interesse
legittimo, e non già nell'ipotesi in cui viene chiesto il
soddisfacimento di posizioni aventi natura sostanziale di
diritti soggettivi.
La formazione del silenzio-rifiuto e lo speciale
procedimento giurisdizionale oggi disciplinato dall’art. 117
c.p.a., non risulta infatti compatibile con le pretese che
solo apparentemente abbiano per oggetto una situazione di
inerzia, in quanto concernono diritti soggettivi la cui
eventuale lesione è direttamente accertabile dall'autorità
giurisdizionale competente.
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La legge n. 47 del 1985 dispone che, qualora dall’esame
della documentazione risulti un credito a favore del
presentatore della domanda di concessione in sanatoria,
certificato con l’attestazione rilasciata dal Sindaco,
l’interessato può presentare istanza di rimborso
“all’intendenza di finanza territorialmente competente”.
Alle Intendenze di Finanza, peraltro, sono dapprima
subentrate, in forza della l. 29.10.1991 n. 358, le
Direzione Regionali delle Entrate, alle quali, per quanto
qui interessa, in forza del d.m. 07.03.1997 (recante le
“Modalità di rimborso delle differenze non dovute e versate
a titolo di oblazione per la sanatoria degli abusi
edilizi”), è stato espressamente attribuito il compito di
disporre i rimborsi a favore degli aventi diritto.
E’ noto, poi che, ai sensi del d.lgs. n. 300 del 1999, è
stata creata l’Agenzia delle Entrate, cui è stata
attribuita, tra le altre, la competenza “a svolgere i
servizi relativi alla amministrazione, alla riscossione e al
contenzioso dei tributi diretti e dell'imposta sul valore
aggiunto, nonché di tutte le imposte, diritti o entrate
erariali o locali, entrate anche di natura extratributaria,
già di competenza del dipartimento delle entrate del
ministero delle finanze o affidati alla sua gestione in base
alla legge o ad apposite convenzioni stipulate con gli enti
impositori o con gli enti creditori”.
Non vi è dubbio, pertanto, che l’Agenzia sia competente
anche a disporre i rimborsi delle differenze non dovute e
versate a titolo di oblazione per la sanatoria di abusi
edilizi.
La controversia in esame -ancorché veicolata attraverso l’impugnativa
del silenzio–rifiuto opposto dall'amministrazione- è
diretta alla declaratoria del diritto alla restituzione di
somme che si sostengono versate in eccedenza a titolo di
oblazione per sanatoria edilizia.
Essa concerne quindi, diritti soggettivi di credito in
materia in cui sussiste la giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo (art. 35, comma 16, l. 28.02.1985, n. 47, richiamato, per quanto qui interessa, dall’art.
39 della l. 724 del 1994, applicata nella fattispecie; cfr.,
da ultimo, TAR Lazio, sez. II, sentenza n. 945 del 02.02.2011).
Per quanto occorrer possa, è bene precisare che parte
ricorrente ha comunque espressamente spiegato anche
un’azione di accertamento e di condanna alla restituzione
delle somme versate in eccedenza.
Al riguardo, il Collegio ricorda che il silenzio-rifiuto può
formarsi esclusivamente in ordine ad un'attività
dell'amministrazione ad emanazione vincolata ma di contenuto
discrezionale, e quindi necessariamente incidente su
posizioni di interesse legittimo, e non già nell'ipotesi in
cui viene chiesto il soddisfacimento di posizioni aventi
natura sostanziale di diritti soggettivi.
La formazione del silenzio-rifiuto e lo speciale
procedimento giurisdizionale oggi disciplinato dall’art. 117 c.p.a., non risulta infatti compatibile con le pretese che
solo apparentemente abbiano per oggetto una situazione di
inerzia, in quanto concernono diritti soggettivi la cui
eventuale lesione è direttamente accertabile dall'autorità
giurisdizionale competente (TAR Lazio, sez. II, 07.11.2011, n. 8531).
Ciò premesso -quanto alla sussistenza, in materia,
della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo-
deve essere respinta l’unica eccezione svolta dall’intimata
Agenzia delle Entrate, la quale ha invocato il proprio
difetto di legittimazione passiva.
Ricorda infatti il Collegio che la legge n. 47 del 1985,
sopra richiamata, dispone che, qualora dall’esame della
documentazione risulti un credito a favore del presentatore
della domanda di concessione in sanatoria, certificato con
l’attestazione rilasciata dal Sindaco, l’interessato può
presentare istanza di rimborso “all’intendenza di finanza
territorialmente competente”.
Alle Intendenze di Finanza, peraltro, sono dapprima
subentrate, in forza della l. 29.10.1991 n. 358, le
Direzione Regionali delle Entrate, alle quali, per quanto
qui interessa, in forza del d.m. 07.03.1997 (recante le
“Modalità di rimborso delle differenze non dovute e versate
a titolo di oblazione per la sanatoria degli abusi
edilizi”), è stato espressamente attribuito il compito di
disporre i rimborsi a favore degli aventi diritto.
E’ noto, poi che, ai sensi del d.lgs. n. 300 del 1999, è
stata creata l’Agenzia delle Entrate, cui è stata
attribuita, tra le altre, la competenza “a svolgere i
servizi relativi alla amministrazione, alla riscossione e al
contenzioso dei tributi diretti e dell'imposta sul valore
aggiunto, nonché di tutte le imposte, diritti o entrate
erariali o locali, entrate anche di natura extratributaria,
già di competenza del dipartimento delle entrate del
ministero delle finanze o affidati alla sua gestione in base
alla legge o ad apposite convenzioni stipulate con gli enti
impositori o con gli enti creditori”.
Non vi è dubbio, pertanto, che l’Agenzia sia competente
anche a disporre i rimborsi delle differenze non dovute e
versate a titolo di oblazione per la sanatoria di abusi
edilizi.
L’eccezione, peraltro, è stata genericamente svolta dalla
difesa erariale, la quale si è limitata a sostenere, per
converso, la legittimazione passiva del Comune di Campagnano
Romano.
Al riguardo, si osserva peraltro che l’istanza di condono è
stata definita dal Comune ai sensi della l. n. 724 del 1994,
non trovando pertanto applicazione l’art. 32, comma 41, del
d.l. n. 269/2003, conv. in l. 326/2003, il quale prevede
che, al fine di incentivare la definizione da parte dei
comuni delle domande di sanatoria per gli abusi edilizi, il
50 per cento delle somme riscosse a titolo di conguaglio
dell'oblazione, in origine versato interamente all’Erario,
venga devoluto ai Comuni medesimi (secondo le modalità
stabilite con decreto del Ministro delle Infrastrutture e
dei Trasporti in data 28.2.2005)
Nel merito, il ricorso è fondato.
Il Collegio rileva che vi è, in atti, il provvedimento con
cui l’amministrazione comunale ha determinato, in via
definitiva, l’importo dell’oblazione, e ha, contestualmente,
certificato che il sig. Messina deve avere, “a conguaglio,
la somma di euro 3.160,942”, da richiedersi alla “sezione
staccata della direzione regionale delle Entrate, secondo le
modalità indicate nel d.m. 07.03.1997 (G.U. 22.04.1997, n. 93)”.
Nel costituirsi in giudizio, come già accennato, l’Agenzia
delle Entrate non ha contestato tali presupposti di fatto.
Va infine soggiunto che la somma dovuta inerisce ad un
indebito oggettivo (cfr. l’art. 2033 c.c.) e dovrà perciò
essere maggiorata dei soli interessi legali decorrenti dalla
data della domanda (TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 24.10.2012 n. 8767 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il Cds estende l'applicazione dell'istituto. Gare, avvalimento
anche sulla qualità.
In una gara di appalto pubblico l'istituto dell'avvalimento
può essere utilizzato anche con riguardo alla certificazione
di qualità aziendale; in quanto requisito di capacità
tecnico-organizzativa che, quindi, può essere «prestato» ad
altro soggetto che ne sia sprovvisto.
È quanto afferma il
Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 23.10.2012 n. 5408 che affronta il tema
dell'utilizzabilità dell'istituto dell'avvalimento (il c.d.
«prestito» dei requisiti previsto dall'articolo 49 del
Codice dei contratti pubblici) rispetto alla certificazione
di qualità aziendale.
Il tema, da ultimo, è stato trattato
anche dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici
(determinazione n. 2 del 01.08.2012) che si è espressa
«nel senso dell'inammissibilità del ricorso all'avvalimento
per la certificazione di qualità» riconoscendo ad essa la
natura di requisito soggettivo e non tecnico-organizzativo.
Il Consiglio di stato, invece, sposa la tesi opposta,
partendo dall'analisi della portata generale dell' art. 49
del Codice dei contratti pubblici che «è molto ampia e non
prevede alcun divieto, sicché ben può l'avvalimento
riferirsi anche alla certificazione di qualità di altro
operatore economico». In altre parole per i giudici di
Palazzo Spada la certificazione di qualità ha la sua ragione
d'essere nella valorizzazione degli elementi di eccellenza
dell'organizzazione complessiva, e quindi deve essere
considerata «anch'essa requisito di idoneità tecnico
organizzativa dell'impresa, da inserirsi tra gli elementi
idonei a dimostrare la capacità tecnico professionale di
un'impresa».
Attraverso la certificazione di qualità
aziendale la stazione appaltante vede così assicurata
l'esigenza che l'impresa cui sarà affidato il servizio o la
fornitura sarà in grado di effettuare la prestazione nel
rispetto di un livello minimo di qualità accertato da un
organismo a ciò predisposto. Si tratta di considerazioni di
carattere generale che hanno rilievo soprattutto nell'ambito
del settore dei servizi e delle forniture, in ragione della
qualificazione del requisito della certificazione di qualità
come elemento tecnico-organizzativo e non soggettivo.
Nel
caso di specie, infatti, viene ammesso l'avvalimento della
certificazione di qualità in quanto elemento sulla base del
quale viene emesso l'attestato Soa a sua volta «ceduto»
all'impresa partecipante alla gara
(articolo ItaliaOggi del 30.10.2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA
PRIVATA: L'obbligo
giuridico di provvedere -ai sensi dell'art. 2 della legge
07.08.1990, n. 241, come modificato dall’art. 7 della legge
18.06.2009, n. 69- sussiste in tutte quelle fattispecie
particolari nelle quali ragioni di giustizia e di equità
impongano l'adozione di un provvedimento e quindi, tutte
quelle volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e
di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il
privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e
le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano)
dell'Amministrazione.
In particolare, poi, il proprietario confinante con
l’immobile, nel quale si assuma essere stato realizzato un
abuso edilizio, ha comunque un interesse alla definizione
dei procedimenti relativi all’immobile medesimo entro il
termine previsto dalla legge, tenendo conto dell’interesse
sostanziale che, in relazione alla vicinanza, egli può
nutrire in ordine all’esercizio dei poteri repressivi e
ripristinatori da parte dell’organo competente.
La controversia sottoposta alla Sezione dall’appello in
esame verte sulla legittimità di un silenzio serbato da
amministrazione comunale su istanza sollecitatoria dei
poteri repressivi nei confronti di un intervento edilizio,
realizzato da proprietario confinante, ritenuto abusivo
perché lesivo delle prerogative della proprietà limitrofa.
Con la decisione impugnata il TAR si è espresso
negativamente sul dovere dell’amministrazione di
pronunziarsi, facendo riferimento al presupposto sostanziale
per ottenere la repressione dell’abuso, costituito dalla
effettiva lesione delle prerogative dominicali del soggetto
che sollecita l’esercizio dei poteri repressivi in
questione. Il giudice di prime cure ha escluso la
sussistenza di detto presupposto (sostenuto invece con
riferimento agli elementi addotti dal ricorrente) sulla base
di argomentazioni riassumibili come segue:
- quanto alla esistenza della strada pubblica, risulta
smentita dai documenti versati in atti, sicché il passaggio
potrebbe al più rappresentare una strada vicinale-privata,
sulla quale può discutersi della sussistenza di un uso
pubblico; peraltro risulta che “altro soggetto
proprietario di terreni siti in zona abbia intentato una
causa possessoria civile avverso l’odierna controinteressata,
rivendicando la sussistenza di un passaggio a proprio favore
sul contestato percorso, passaggio asseritamente precluso
dal cancello. Dal doppio grado di giudizio della vertenza
possessoria è per contro emerso che tale tipo di passaggio
non è stato comprovato né in termini generali e pubblici né
a favore del ricorrente in possessoria”;
- in merito alla sostenuta destinazione pubblica della
strada, la sua larghezza non costituisce elemento
sufficiente a dimostrarla, trattandosi di previsione
caratteristica che può connotare anche le strade private.
L’appello in trattazione contrasta queste motivazioni ed in
particolare il principio sotteso alla decisione, per il
quale l’interesse a promuovere l’azione sollecitatoria non
sussiste allorché la controversia, essendo stata proposta a
tutela di un diritto privato, ha natura privatistica. Il
gravame, alla luce della giurisprudenza di questo Consiglio
formatasi in materia, è meritevole di accoglimento, non
potendosi condividere, per le ragioni che seguono,
l’interpretazione restrittiva adottata dal TAR sul dovere di
pronunziarsi sull’istanza.
In effetti, ricostruiti come sopra i termini della
controversia, e ribadito (come già ammesso dalla sentenza)
che la stessa verte esclusivamente sulla sussistenza di un
obbligo del Comune di pronunziarsi sulla domanda, e non sul
merito della controversia (la regolarità o meno
dell’intervento edilizio), viene qui in rilievo la
giurisprudenza amministrativa per la quale, in via generale,
“l'obbligo giuridico di provvedere -ai sensi dell'art. 2
della legge 07.08.1990, n. 241, come modificato dall’art. 7
della legge 18.06.2009, n. 69- sussiste in tutte quelle
fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia e
di equità impongano l'adozione di un provvedimento e quindi,
tutte quelle volte in cui, in relazione al dovere di
correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica,
sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere
il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque
esse siano) dell'Amministrazione (cfr. Cons. Stato, Sez. V,
03.06.2010, n. 3487).
In particolare, poi, il proprietario confinante con
l’immobile, nel quale si assuma essere stato realizzato un
abuso edilizio, ha comunque un interesse alla definizione
dei procedimenti relativi all’immobile medesimo entro il
termine previsto dalla legge, tenendo conto dell’interesse
sostanziale che, in relazione alla vicinanza, egli può
nutrire in ordine all’esercizio dei poteri repressivi e
ripristinatori da parte dell’organo competente (cfr. Cons.
Stato, Sez. VI, 20.07.2006, n. 4609; Id., IV Sez.,
07.07.2008, n. 3384)” (Cons. di Stato, sez. IV, n.
2468/2012)”.
Ciò considerato, rileva il Collegio che la decisione del TAR
opera una commistione tra le due distinte questioni
giuridiche (pronunzia o meno sull’istanza ed esercizio o
meno dei poteri repressivi), obliterando che oggetto del
ricorso era solo la prima. E con riferimento a questa
sussistevano gli elementi legittimanti minimali per ottenere
la pronunzia del Comune, costituiti dalla incontestata
proprietà da parte istante e dallo stato dei luoghi esposto
dal ricorrente.
Come già condivisibilmente affermato in analoga fattispecie
(Cons. di Stato n. 2468/2012, cit.), resta poi irrilevante
la prospettiva di un esperimento dell’azione possessoria in
sede civile, ben potendo la tutela (rimozione del presunto
abuso), non conseguita in sede civile, essere realizzarsi
mediante il richiesto esercizio dei poteri pubblicistici in
materia edilizia.
Diversamente da quanto ritenuto dal TAR, dunque, l’azione
proposta dal sig. Rizzo contro il silenzio era meritevole di
accoglimento; conseguentemente l’appello in trattazione, in
riforma sul punto della sentenza impugnata, deve essere
accolto, dovendosi annullare il silenzio formatosi sulla
domanda e dichiarare il dovere dell’amministrazione di
pronunziarsi sull’istanza del sig. Rizzo, a norma dell’art.
117, comma 2, del c.p.a..
Conseguentemente l’appello in trattazione, in riforma sul
punto della sentenza impugnata, deve essere accolto
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.10.2012 n. 5347 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Cassazione.
Il diritto del vincitore è subordinato alla permanenza
dell'assetto in forza del quale era stato emesso il bando.
Il concorso non fissa il posto.
Sì all'inquadramento in un ruolo diverso rispetto a quello
oggetto di selezione.
LA CONDIZIONE/
Il comportamento è lecito se, in seguito a riorganizzazione
e prima della nomina formale, si sopprime la qualifica per
cui il candidato ha partecipato.
Il diritto del candidato vincitore ad assumere
l'inquadramento previsto dal bando di concorso, espletato
dall'amministrazione per il reclutamento dei propri
dipendenti, è subordinato alla permanenza, al momento del
l'adozione del provvedimento di nomina, dell'assetto
organizzativo degli uffici in forza del quale il bando era
stato emesso.
Questo l'importante e innovativo principio
sancito dalle sezioni unite civili della Corte di Cassazione
che, con la
sentenza 02.10.2012 n. 16728, hanno
risolto una questione di particolare importanza.
Una candidata che aveva vinto il concorso da dirigente in
una Pa era stata assunta come funzionaria, in quanto, al
momento della nomina, l'organico degli uffici previsto dal
bando era stato soppresso. L'interessata aveva presentato
ricorso contro l'atto di assegnazione, ma sia il giudice del
lavoro che la Corte d'appello l'avevano respinto, ragion per
cui la candidata ha impugnato la pronuncia di secondo grado
di fronte alla Cassazione.
I giudici di legittimità hanno preliminarmente ricordato che
il bando di concorso, essendo preordinato alla stipulazione
del contratto, costituisce, ove contenga gli elementi del
contratto alla cui conclusione è diretto, un'offerta al
pubblico, ai sensi dell'articolo 1336 del Codice civile, la
quale è revocabile solo finché non sia intervenuta
l'accettazione da parte degli interessati. Tale offerta si
perfeziona con l'accettazione del candidato utilmente
inserito nella graduatoria degli idonei.
La Pa, nell'ambito del pubblico impiego privatizzato, non
esercita più poteri di supremazia speciale e opera, anzi,
con la capacità del datore di lavoro privato, nell'ambito di
un rapporto di lavoro paritario. In particolare, per
l'assunzione di nuovo personale, il bando indica il
contratto di lavoro che l'amministrazione intende
concludere, nonché il tipo e le modalità della procedura
concorsuale, partecipando agli interessati l'intento di
giungere alle assunzioni.
Nel caso specifico, tuttavia, successivamente all'emanazione
del bando e prima della conclusione delle operazioni
concorsuali, è cambiato il quadro normativo e la posizione
funzionale, in cui il vincitore avrebbe dovuto essere
collocato, è stata soppressa.
Secondo la Corte, è legittimo il diverso inquadramento del
vincitore del concorso nel caso in cui, a seguito di
riorganizzazione interna, e prima del formale provvedimento
di nomina, venga soppressa la qualifica funzionale per cui
il candidato ha partecipato. Il diritto del vincitore
all'inquadramento nel livello previsto dal bando di concorso
è, infatti, subordinato al mantenimento dell'organizzazione
interna, in quanto l'intervenuta soppressione dell'area di
attività per cui il concorrente ha partecipato alla
selezione esime l'ente dal rispetto degli obblighi che
scaturivano dall'avviso.
In presenza di una circostanza di questo tipo, secondo le
sezioni riunite, l'obbligo di assunzione nelle condizioni
fissate dal nuovo assetto organizzativo non impone la
valutazione alla luce dei principi di buona fede e di
correttezza, che non operano come fonti autonome e ulteriori
di diritti se non nei limiti della previsione contrattuale.
Tale interpretazione è conforme all'articolo 97 della
Costituzione, secondo cui la Pa, nell'organizzare i suoi
uffici, è tenuta a conformare la propria azione ai principi
di imparzialità, efficienza e legalità.
Sussiste, pertanto, un potere-dovere dell'ente pubblico di
annullare i provvedimenti che abbiano disposto eventuali
inquadramenti illegittimi. Tale obbligo, secondo la
Cassazione, nel caso di ius superveniens, impone
all'amministrazione –ove non abbia ritenuto di ricorrere
alla revoca o all'annullamento della procedura concorsuale,
intervenuta prima della nomina dei vincitori– di adottare
il provvedimento di inquadramento del vincitore del concorso
sulla base della norma (di natura legislativa o collettiva)
vigente al momento dell'adozione dell'atto.
---------------
La vicenda
01|IL FATTO
Una candidata che aveva vinto il concorso da dirigente in
una Pa era stata assunta come funzionaria, in quanto,
al momento della nomina, l'organico degli uffici previsto
dal bando era stato soppresso.
02|LA PRONUNCIA
Secondo la Cassazione,
la soppressione della qualifica funzionale messa a concorso,
decisa in seguito a riorganizzazione interna e intervenuta
prima del formale provvedimento di nomina, rende legittimo
il diverso inquadramento del vincitore
(articolo Il Sole 24 Ore del
29.10.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO - VARI: Finta
infermità. Violate correttezza e buona fede.
Attività limitate per chi è in malattia.
È legittimo il licenziamento del dipendente che lavora,
anche per un solo giorno, durante il periodo di malattia.
Lo
ha precisato la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la
sentenza
26.09.2012 n. 16375.
La vicenda coinvolge un lavoratore licenziato a seguito di
provvedimento disciplinare per aver ripetutamente svolto
attività lavorativa come addetto alla sicurezza presso
alcune discoteche locali mentre si trovava in congedo per
ragioni di malattia. Se la sentenza del Tribunale è
favorevole al lavoratore, la Corte d'appello ritiene
legittimo il licenziamento. Così, il lavoratore ricorre in
Cassazione, che respinge il ricorso richiamando un
consolidato indirizzo interpretativo (Cassazione 9474/2009).
La sentenza precisa che nel nostro ordinamento non sussiste
un divieto assoluto per il dipendente di lavorare, anche a
favore di terzi, durante l'assenza per malattia. Tuttavia,
l'eventuale licenziamento è legittimo se il comportamento
del lavoratore integra una violazione dei doveri generali di
correttezza e buona fede e degli obblighi contrattuali di
diligenza e fedeltà. E ciò può avvenire, prosegue la
pronuncia, quando lo svolgimento di altra attività
lavorativa da parte del dipendente assente per malattia è di
per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza
dell'infermità adotta per giustificare l'assenza dal posto
di lavoro; o quando l'attività svolta sia tale da
pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la
guarigione e il rientro in servizio del lavoratore.
La Corte
precisa infine che non è rilevante la considerazione del
l'assenza dal lavoro per un solo giorno perché anche il
lavoro prestato durante i giorni festivi o in quelli in cui
non era previsto un turno lavorativo possono incidere sulla
convalescenza del lavoratore e quindi sulla sua ripresa in
servizio.
La pronuncia apparentemente si pone in contrasto con quanto
affermato dalla sentenza 15476 depositata dalla Cassazione
lo scorso 14 settembre, relativa a un lavoratore sorpreso a
lavorare nel chiosco della moglie durante l'assenza per
infortunio alla caviglia. La Suprema corte ritiene
illegittimo il licenziamento poiché l'aiuto che il
lavoratore prestava all'interno del chiosco è di gran lunga
più leggero rispetto all'attività di giuntista svolta per il
datore di lavoro. Un'attività, precisa l'estensore, che
costringe a continui spostamenti su scale alte anche 10
metri per operare su linee telefoniche aeree.
Inoltre,
conclude la pronuncia, la prescrizione di astensione e
riposo dal lavoro del medico curante non determina
l'inibizione da qualsiasi attività personale e privata,
soprattutto se comparata con l'attività lavorativa svolta
(articolo Il Sole 24 Ore del
29.10.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’assenza di una definizione normativa di
“pergolato” non esclude la valutazione dell’amministrazione
in ordine alla riconducibilità di un manufatto a tale
tipologia, né il successivo sindacato del giudice sulla
legittimità della stessa, sotto il profilo del vizio di
eccesso di potere per illogicità, irragionevolezza,
insufficienza e/o contraddittorietà della motivazione.
Orbene, il “pergolato”, rilevante ai fini edilizi, può
essere inteso come un manufatto avente natura ornamentale,
realizzato in struttura leggera di legno o altro materiale
di minimo peso, facilmente amovibile in quanto privo di
fondamenta, che funge da sostegno per piante rampicanti,
attraverso le quali realizzare riparo e/o ombreggiatura di
superfici di modeste dimensioni.
Questo Consiglio di Stato, proprio sulla base degli elementi
ora riportati, ha avuto modo di escludere che una struttura
costituita da pilastri e travi in legno di importanti
dimensioni, tali da rendere la struttura solida e robusta e
da farne presumere una permanenza prolungata nel tempo,
possa essere ricondotta alla nozione di “pergolato”.
Al contrario, è stata ritenuta rientrare nella nozione di
“pergolato” una struttura precaria, facilmente rimovibile,
costituita da una intelaiatura in legno non infissa al
pavimento né alla parete dell’immobile (cui è solo
addossata), non chiusa in alcun lato, compreso quello di
copertura.
L’appellante ritiene che, nel caso di specie, trattandosi di
un “pergolato” -così definito dall’amministrazione
con valutazione riportabile, in difetto di definizione
normativa, al merito amministrativo (pag. 11 app.), ovvero
alla discrezionalità tecnica, (pag. 12), e comunque non
sindacabile in sede di legittimità-, lo stesso è
perfettamente assentibile e realizzabile, in quanto, avendo
un ingombro inferiore a 25 mq., rientra nelle “opere non
rilevanti sotto il profillo edilizio”.
Alla luce di quanto esposto, la definizione della presente
controversia consegue, in sostanza, alla verifica della
natura (o meno) di “pergolato” del manufatto
realizzato.
A tal fine, occorre innanzi tutto osservare che l’assenza di
una definizione normativa di “pergolato” non esclude
la valutazione dell’amministrazione in ordine alla
riconducibilità di un manufatto a tale tipologia, né il
successivo sindacato del giudice sulla legittimità della
stessa, sotto il profilo del vizio di eccesso di potere per
illogicità, irragionevolezza, insufficienza e/o
contraddittorietà della motivazione.
Orbene, il “pergolato”, rilevante ai fini edilizi,
può essere inteso come un manufatto avente natura
ornamentale, realizzato in struttura leggera di legno o
altro materiale di minimo peso, facilmente amovibile in
quanto privo di fondamenta, che funge da sostegno per piante
rampicanti, attraverso le quali realizzare riparo e/o
ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni.
Questo Consiglio di Stato (sez. IV, 02.10.2008 n. 4793),
proprio sulla base degli elementi ora riportati, ha avuto
modo di escludere che una struttura costituita da pilastri e
travi in legno di importanti dimensioni, tali da rendere la
struttura solida e robusta e da farne presumere una
permanenza prolungata nel tempo, possa essere ricondotta
alla nozione di “pergolato”.
Al contrario, è stata ritenuta (Cons. Stato, sez. V,
07.11.2005 n. 6193) rientrare nella nozione di “pergolato”
una struttura precaria, facilmente rimovibile, costituita da
una intelaiatura in legno non infissa al pavimento né alla
parete dell’immobile (cui è solo addossata), non chiusa in
alcun lato, compreso quello di copertura
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 29.09.2011 n. 5409 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Utilizzazione
dell'edificio prima del rilascio del certificato di collaudo
- Responsabilità del direttore dei lavori - Sussistenza -
Art. 75, D.P.R. n. 380/2001.
Il Direttore dei lavori, in quanto primo garante della
sicurezza, è certamente tenuto all'osservanza delle
prescrizioni imposte dall'art. 75 del D.P.R. n. 380/2001
attraverso lo specifico obbligo di inibire l'utilizzazione
dell'edificio prima del rilascio del certificato di
collaudo.
Certificato di collaudo - Utilizzo
dell’edificio in assenza - Costruttore, committente,
proprietario e direttore dei lavori - Responsabilità - Reato
di cui all'art. 75, D.P.R. n. 380/2001 - Configurabilità.
Il reato di cui all'art. 75, D.P.R. n. 380/2001 è
configurabile -tra gli altri- anche a carico del
costruttore, del committente o del proprietario (Cass. Sez.
3^ 24.11.2010 n. 1802, Marrocco).
Tale tesi giustifica anche -pur in assenza di una
affermazione esplicita- l'estensione della responsabilità a
soggetti quali il direttore dei lavori, non espressamente
indicati nel testo normativo, in correlazione con la
ratio incriminatrice della norma urbanistica la quale
mira a salvaguardare la sicurezza pubblica in modo assoluto
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.06.2011 n. 22291 - link a
www.ambientediritto.it). |
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gratuitamente a portata di click.
Tutta la legge a misura di cittadino. A partire
dall'01.01.2013, il Ministero dell’Economia e
Finanze, d'intesa con il Ministero della Giustizia
–con l’apporto dell’Istituto Poligrafico e Zecca
dello Stato– metterà a disposizione gratuitamente la
Gazzetta Ufficiale telematica nel formato autentico
dato alle stampe.
Il tradizionale servizio a pagamento –rivolto perlopiù
agli addetti ai lavori del ramo giuridico– cambia
dunque pelle, con il preciso obiettivo di avvicinare
ogni singolo cittadino alla legge dello Stato: tutte
le nuove edizioni, le serie storiche e la banca dati
a partire dal 1946 saranno rese disponibili sul sito
www.gazzettaufficiale.it, graficamente
rivisitato per l’occasione e dotato di comandi
intuitivi per ogni tipo di ricerca (comunicato
26.10.2012 - link a www.mef.gov.it). |
Finalmente, qualche cervellone ministeriale ce l'ha
fatta a capire che lo Stato non può pretendere che
il Cittadino rispetti la "Legge" quando conoscere la
"Legge" costa, cioè bisogna pagare per leggere la
Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana.
Non c'è che dire: una piccola cosa ma il 2013 inizierà
con le migliori intenzioni ...
29.10.2012 - LA SEGRETERIA PTPL |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
APPALTI:
Oggetto: Responsabilità solidale negli appalti. Vademecum
Ance (ANCE di Bergamo,
circolare 26.10.2012 n. 252). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto:
Sentenza Corte Costituzionale n. 223 dell'08.10.2012 -
Illegittimità costituzionale degli articoli 9, comma 2, e
12, comma 10, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78,
convertito in legge 30.07.2010, n. 122 (Ministero
dell'Interno, Dipartimento della Pubblica Sicurezza,
Direzione Centrale per le Risorse Umane,
nota 24.10.2012 n. 333 di prot.). |
APPALTI:
Oggetto: direttiva in
materia di procedimenti arbitrali emanata ai sensi
dell'articolo 4 del decreto legislativo 30.03.2001 n. 165
(Ministero delle Infrastrutture e Trasporti,
nota 27.06.2012 n. 24189 di prot.). |
SINDACATI &
ARAN |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Illegittima la trattenuta del 2,5% sulle
retribuzioni dei dipendenti pubblici per finanziare il
T.F.S. (CGIL-FP
di Bergamo,
nota 15.10.2012). |
SEGRETARI
COMUNALI:
Regioni ed Autonomie Locali-Raccolta
sistematica.
La raccolta sistematica si propone di facilitare la lettura
dei diversi contratti collettivi nazionali di lavoro
vigenti, stipulati negli anni, offrendone una visione
unitaria e sistematica.
Essa è stata redatta attraverso la collazione delle clausole
contrattuali vigenti, raccolte all’interno di uno schema
unitario, per favorire una più agevole consultazione.
A tal fine, sono state aggregate tutte le clausole afferenti
a ciascun istituto contrattuale, anche quelle definite in
tempi diversi nell’ambito di differenti CCNL, conservando
tuttavia la numerazione vigente ed il riferimento al
contratto di origine.
Si tratta, pertanto, di un testo meramente compilativo che,
non avendo carattere negoziale, non può avere alcun effetto
né abrogativo, né sostitutivo delle clausole vigenti, le
quali prevalgono in caso di discordanza.
La riproduzione dei testi forniti nel formato elettronico è
consentita purché ne venga menzionata la fonte ed il
carattere gratuito. La raccolta è il frutto di una selezione
redazionale. L’Aran non è responsabile di eventuali errori o
imprecisioni, nonché di danni conseguenti ad azioni o
determinazioni assunte in base alla consultazione della
stessa.
---------------
Nota: navigando all’interno del documento PDF, per
tornare alla vista precedente utilizzare i tasti ALT + tasto
direzionale sx (ARAN,
settembre 2012). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 29.10.2012, "Direttive
per la costituzione e il riconoscimento dei consorzi
forestali, ai sensi dell’art. 56, comma 7, della l. r.
31/2008 - Contestuale revoca delle deliberazioni n.
20554/2005 e n. 3621/2006" (delibera
G.R. 25.10.2012 n. 4217). |
EDILIZIA
PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 43 del 26.10.2012, "Sostituzione
della firma elettronica alla firma manuale del certificatore
energetico nell’attestato di certificazione energetica, di
cui alla d.g.r. 8745 del 22.12.2008" (decreto
D.U.O. 23.10.2012 n. 9433). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA
PRIVATA: M.
Acquasaliente,
L’autorizzazione paesaggistica può essere rilasciata se
l'intervento contrasta con la disciplina
urbanistico-edilizia? (link a
http://venetoius.myblog.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
S. Fifi,
TASSATIVITÀ DELLE CAUSE ESTINTIVE DEI REATI VERSO I VINCOLI
PAESAGGISTICI (Gazzetta Amministrativa n. 3/2012). |
LAVORI PUBBLICI:
G. Napolitano,
IL CONTRATTO DI DISPONIBILITÀ: UN NUOVO
MODELLO CONTRATTUALE PER RILANCIARE IL PARTENARIATO
PUBBLICO-PRIVATO (Gazzetta Amministrativa n. 2/2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
T. Ajello,
ABUSO DEL DIRITTO ED ECCESSO DI POTERE (Gazzetta
Amministrativa n. 2/2012). |
INCARICHI
PROGETTUALI:
M. De Cilla,
INADEMPIMENTO DEL PROGETTISTA - DIRETTORE DEI
LAVORI: QUALE GIURISDIZIONE? (Gazzetta Amministrativa n.
2/2012). |
APPALTI:
M. Dell'Unto,
L’AVVALIMENTO NELLE PROCEDURE DI GARA
(Gazzetta Amministrativa n. 2/2012). |
APPALTI:
E. Grattacaso,
L'ISTITUTO DEL RECESSO NEI RAGGRUPPAMENTI
TEMPORANEI DI IMPRESE (Gazzetta Amministrativa n. 2/2012). |
APPALTI:
M. De Cilla,
IL CORRISPETTIVO DEL CONTRATTO A CORPO
NELL'EVOLUZIONE NORMATIVA E GIURISPRUDENZIALE (Gazzetta
Amministrativa n. 2/2012). |
APPALTI:
S. Napolitano,
LA RIPARTIZIONE DELLA QUOTA DI PARTECIPAZIONE
E DI ESECUZIONE NELL’AMBITO DELLE ATI: LA DIFFICILE
CONVIVENZA TRA I PRINCIPI DELL’AUTONOMIA NEGOZIALE E GLI
INTERESSI PUBBLICI COINVOLTI (Gazzetta Amministrativa n.
2/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
A. C. Bartoccioni,
DISCREZIONALITÀ TECNICA ED AMMINISTRATIVA
IN TEMA DI VALUTAZIONI D’IMPATTO AMBIENTALE (Gazzetta
Amministrativa n. 2/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
F. Pagniello,
BREVI CENNI SULL’INFLUENZA DEL FATTORE TEMPO SULL’ILLECITO
URBANISTICO NEL DIRITTO PENALE E AMMINISTRATIVO
(Gazzetta Amministrativa n. 2/2012 - link a
www.gazzettaamministrativa.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
I. Di Toro,
CONFERIMENTO DEL PATROCINIO LEGALE PER LA DIFESA
DEGLI ENTI LOCALI: IL CONSIGLIO DI STATO AMMETTE
L’AFFIDAMENTO DIRETTO (Gazzetta Amministrativa n. 2/2012). |
APPALTI:
A. Cordasco e E. Gai,
LA DISCIPLINA DEL DIRITTO DI ACCESSO
NELL’AMBITO DELLE GARE DI APPALTI PUBBLICI (Gazzetta
Amministrativa n. 2/2012). |
QUESITI &
PARERI |
APPALTI:
Obbligo di solidarietà della stazione appaltante.
Domanda
La stazione
appaltante ha l'obbligo di solidarietà con l'appaltatore per
quanto riguarda le inadempienze contributive?
Risposta
Il recente D.P.R.
05-10-2010, n. 207 all'art. 4 ha prescritto che, in caso di
ottenimento da parte del Responsabile del procedimento del
Documento Unico di Regolarità Contributiva che segnali
un'inadempienza contributiva relativa ad uno o più soggetti
impiegati nell'esecuzione del contratto, il medesimo
trattenga dal certificato il pagamento dell'importo
corrispondente all'inadempienza (24.10.2012 - tratto
da www.ipsoa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Saranno
previste deroghe al regime delle terre e rocce da scavo per
i cantieri di piccole dimensioni?
(22.10.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Chi
è obbligato all’iscrizione all’Albo Gestori Ambientali?
(22.10.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Come
sono classificati i rifiuti costituiti da mozziconi di
sigaretta e gomme da masticare?
(22.10.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI: Le multe non sono un
bancomat.
I proventi non possono essere utilizzati per spese personali.
Corte
conti condanna il comandante dei vigili, il sindaco e gli
amministratori di un ente calabrese.
Gli amministratori che utilizzano la cassa della polizia
municipale per effettuare spese di qualsiasi tipo senza
alcun controllo rispondono personalmente per danno erariale
assieme al comandante dei vigili urbani. E non importa se
parte dei proventi è stato impiegato per reali finalità
istituzionali.
Il maneggio di denaro pubblico attrae infatti
irrimediabilmente tutti i soggetti coinvolti in una
necessaria responsabilità contabile.
Lo ha messo nero su
bianco la Corte dei Conti, Sez. I giurisdizionale centrale,
con la
sentenza
14.09.2012 n. 482.
Sindaci e assessori di un piccolo comune calabrese hanno
trovato un rimedio molto semplificato alla cronica mancanza
di fondi. Per qualche anno una consistente parte delle somme
riscosse dal comando della polizia municipale (per multe
stradali, Tosap e violazioni edilizie) è stato materialmente
prelevato dagli amministratori senza alcuna registrazione
contabile, per l'effettuazione di cene, elargizioni e non
meglio precisate attività.
Il meccanismo era molto semplice. I richiedenti si
presentavano alla cassa dei vigili firmando degli ingegnosi
«buoni di anticipazione» e prelevando il denaro necessario
ad effettuare missioni, spettacoli, viaggi e cene. Agli atti
dell'indagine dei giudici contabili risultano però anche
richieste di anticipazioni per acquisti di libri, materiale
elettrico, riparazioni e acquisto di segnaletica stradale.
Ma anche addobbi natalizi, alberi di natale e missioni
speciali a Roma. Il tutto, specifica la sentenza, «è
avvenuto mediante diretto e personale maneggio di denaro
pubblico da parte dei veri soggetti coinvolti, così
realizzandosi, ad ogni effetto giuridico, una gestione
contabile del tutto estranea e parallela rispetto a quella
istituzionale del bilancio comunale e del tesoriere».
In buona sostanza gli ingegnosi amministratori locali hanno
utilizzato per alcuni anni la cassa comunale dei vigili
urbani come un cassetto privato dove ogni soggetto poteva
procedere ad effettuare prelievi con semplice annotazione. A
parte il parallelo procedimento penale i giudici contabili
hanno riconosciuto in primo grado la responsabilità dei
soggetti coinvolti ripartendo la responsabilità
amministrativa tra il comandante dei vigili (50% di
responsabilità), il sindaco (25%) e gli altri
amministratori. In pratica tutti i convenuti hanno proposto
appello ma senza successo. Tutti i soggetti a parere del
collegio sono responsabili per avere materialmente
maneggiato denaro pubblico senza alcuna contabilizzazione
formale dello stesso con le modalità previste
dall'ordinamento.
La figura dell'agente contabile di fatto,
prosegue la sentenza, comprende infatti anche persone
estranee alla pubblica amministrazione ovvero può riguardare
qualsiasi soggetto che in qualche modo entra in contatto con
la gestione delle risorse pubbliche. È in pratica il mero
maneggio di denaro pubblico che attrae qualsiasi persona
nell'alveo di controllo della corte dei conti. L'agente
contabile, anche se di fatto, deve conseguentemente provare
l'uso legittimo dei valori ricevuti in carico, proseguono i
giudici contabili.
Nel caso esaminato dal collegio gli
amministratori ed i funzionari del comune calabrese si sono
«reiteratamente e per lungo periodo ingeriti in personale
maneggio di denaro pubblico, riscosso a vario titolo ma non
versato nella tesoreria comunale né transitante in bilancio.
Per cui si è di fronte a responsabilità contabile con
conseguente obbligo della restituzione delle somme da
ciascuno prese in carico e delle quali ha avuto materiale
disponibilità».
In buona sostanza l'utilizzo disinvolto di risorse pubbliche
senza alcuna rendicontazione formale è sicuramente
fuorilegge. Ma non si tratta di una semplice irregolarità
formale. La condotta degli appellanti, conclude la sentenza
«è stata improntata alla piena consapevolezza di agire
nella integrale inosservanza delle regole contabili
minimali, con l'ideazione di un autonomo ed originale
sistema» di rendicontazione
(articolo ItaliaOggi del 26.10.2012
- link a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
Circa la possibilità di erogare contributi in denaro alle
Pro Loco ed Associazioni culturali/sportive per il sostegno
alle iniziative di carattere sociale-culturale-sportivo, per
l'anno 2012.
...
Con la richiamata nota il Sindaco del Comune di Campli (TE),
sottopone al parere di questa Sezione un quesito circa la
possibilità “di erogare contributi in denaro alle Pro
Loco ed Associazioni culturali/sportive per il sostegno alle
iniziative di carattere sociale-culturale-sportivo, per
l’anno 2012”.
Chiede altresì di conoscere “se il patrocinio di sagre,
feste patronali o iniziative organizzate in collaborazione
con associazioni culturali-sportivo-ricreative del
territorio, che comportino unicamente contributi indiretti,
rientrino nella limitazione prevista dalle attuali
normative, oppure per sponsorizzazione si deve invece
intendere uno specifico contratto sottoscritto tra le parti”.
...
Nel merito occorre tener anzitutto presente che il comma 8,
art. 6, del D.L. n. 78, convertito nella legge n. 122/2010,
prevede che la spesa annua per mostre, pubblicità e
rappresentanza non può essere superiore al 20% di quella
sostenuta nell’anno 2009 per le medesime finalità.
Con il suddetto comma, il Legislatore ha previsto una
generale limitazione della spesa per relazioni pubbliche,
mostre, convegni, pubblicità e rappresentanza stabilendo, da
un lato che gli impegni non potranno superare il 20% di
quanto destinato a queste finalità nel 2009 e precisando
dall’altro che la norma si applica a tutte le
amministrazioni che rientrano nel conto consolidato delle
amministrazioni pubbliche predisposto dall’ISTAT, ai sensi
dell’art. 1, comma 3, della legge 31/12/2009 n. 196.
Il successivo comma 9 dell’art. 6 del D.L. 78, prevede che a
partire dal 2011, le citate amministrazioni pubbliche,
incluse le autorità indipendenti, non possono effettuare
spese per sponsorizzazioni.
Da quanto sopra risulta evidente che il legislatore,
nell'ambito di un progressivo processo di contenimento della
spesa pubblica, ha ritenuto che “le spese per
sponsorizzazioni” dovessero essere limitate da parte di
tutte le amministrazioni pubbliche, lasciando però a
Regioni, Province e Comuni la facoltà di provvedere, in
concreto, a disciplinare questa riduzione nel più generale
ambito della loro organizzazione finanziaria.
Quale naturale svolgimento di detta situazione, considerata
la progressiva diminuzione delle risorse finanziarie
disponibili e la necessità del rispetto dei vincoli
finanziari derivanti dal Patto di Stabilità, la linea
tendenziale di diminuzione della spesa in misura
significativa rispetto alle spese effettuate negli anni
precedenti è oggi sfociata proprio nel divieto di effettuare
spese per sponsorizzazioni.
Occorre però precisare che la disposizione citata utilizza
il termine “sponsorizzazioni” in senso atecnico,
risultando chiaro dal contesto normativo che
è vietata
qualsiasi forma di contribuzione intesa a valorizzare il
nome o caratteristica del Comune ovvero eventi di interesse
per la collettività locale.
Non rientra invece nella nozione di “sponsorizzazione” la
spesa sostenuta dall’ente al fine di erogare o ampliare un
servizio pubblico, costituendo in tal caso il contributo
erogato a terzi una modalità di svolgimento del servizio.
Occorre, a questo punto, precisare meglio l’effettiva
portata del concetto di sponsorizzazione.
Come ha messo in luce la Sezione Regionale di Controllo per
la Lombardia (parere n. 1075/2010), ciò che assume rilievo
per qualificare una contribuzione comunale quale spesa di
sponsorizzazione, è la relativa funzione: essa presuppone la
finalità di segnalare ai cittadini la presenza del Comune,
così da promuoverne l’immagine.
Non si configura, invece, quale sponsorizzazione il sostegno
di iniziative di un soggetto terzo, rientranti nei compiti
del Comune, nell’interesse della collettività anche sulla
scorta dei principi di sussidiarietà orizzontale ex art. 118
della Costituzione.
In sintesi, tra le molteplici forme di sostegno di soggetti
terzi in ambito locale, l’elemento che connota,
nell’ordinamento giuscontabile, la contribuzione tuttora
ammessa, (distinguendola dalle spese di sponsorizzazioni
ormai vietate) è lo svolgimento, da parte del privato, di
un’attività propria del Comune in forma sussidiaria.
L’attività, perciò, deve rientrare nelle competenze
dell’Ente locale e viene esercitata, in via mediata, da
soggetti privati destinatari di risorse pubbliche piuttosto
che direttamente da parte di Comuni e Provincie,
rappresentando una modalità alternativa di erogazione del
servizio pubblico e non una forma di promozione
dell’immagine dell’Amministrazione.
Ad esser vietate sarebbero dunque le spese, da parte delle
Amministrazioni pubbliche, relative ad iniziative di
soggetti terzi (esempio sponsorizzazione di una squadra di
calcio) mentre resterebbero ancora consentite le spese per
iniziative organizzate dalle Amministrazioni pubbliche, sia
informa diretta che indiretta, purché per il tramite di
soggetti istituzionalmente preposti allo svolgimento di
attività di valorizzazione del territorio.
Nelle determinazioni che in tal caso gli enti dovranno
assumere dovrà, perciò, risultare, nell’impianto
motivazionale, il fine pubblico perseguito e la rispondenza
delle modalità in concreto adottate al raggiungimento della
finalità sociale (delibera n. 1075/2010 Sezione Regionale
Lombardia) (Corte dei Conti, Sez. controllo Abruzzo,
parere 10.09.2012 n. 346). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Riduzione spese per formazione.
La Corte dei Conti, sezione regionale Friuli-Venezia Giulia,
con
parere 27.07.2012 n. 106,
risponde al Comune di Trieste che chiede chiarimenti
sull'interpretazione dell'art. 6, comma 13, del d.l.
78/2010, convertito in legge n. 122/2010, che impone la
riduzione delle spese per attività esclusivamente di
formazione in misura non superiore al 50% di quella
sostenuta nel 2009.
In particolare, se sia possibile ritenere escluse dal citato
limite le spese per attività di formazione obbligatoria in
materia di sicurezza sul lavoro (d.lgs. 81/2008), di
sicurezza alimentare (d.lgs. 193/2007), di trattamento dei
dati personali (d.lgs. 196/2003) (tratto da www.publika.it). |
NEWS |
PUBBLICO
IMPIEGO: CONSIGLIO
DEI MINISTRI/ Un decreto legge dà attuazione alla sentenza
della Consulta. Dipendenti pubblici, Tfr al 100%. Stop al
prelievo forzoso del 2,50% sull'80% delle somme.
Ripristinato il trattamento di fine servizio dei dipendenti
pubblici. Il Consiglio dei ministri ha approvato ieri un
decreto legge che, in attuazione della recente sentenza
della Corte costituzionale n. 223 del 2012, ripristina la
disciplina del trattamento di fine servizio nei riguardi del
personale interessato dalla pronuncia.
Per quanto riguarda le altre parti della sentenza della
Consulta, il Consiglio ha stabilito che si procederà in via
amministrativa attraverso un dpcm ai sensi della
legislazione vigente.
La Consulta, con la pronuncia citata, ha azzerato gli
effetti della legge 122/2010 intervenendo su due punti.
In primo luogo ha dichiarato costituzionalmente illegittimo
il prelievo del 2,5% sull'80% della retribuzione fissato
dall'articolo 12, comma 10, nella parte in cui non era stata
esclusa l'applicazione a carico del dipendente della rivalsa
pari al 2,5% della base contributiva. Una disposizione che
aveva, in sostanza, modificato i rapporti tra datore di
lavoro e lavoratore, scaricando su di questo oneri tipici
del primo.
Sul piano finanziario, l'annullamento della norma dichiarata
costituzionalmente illegittima vale circa 3,8 miliardi di
euro, che dovranno essere restituiti al personale pubblico,
a carico delle casse dell'Inpdap.
Il decreto legge si è reso necessario sia per attuare le
indicazioni della Consulta, sia, soprattutto per uniformare
i comportamenti delle amministrazioni, che si sono trovate
disorientate su come operare e sono fin qui andate in ordine
sparso, anche perché i singoli dipendenti stanno richiedendo
ciascuno la restituzione delle trattenute.
Il Consiglio dei ministri, col decreto legge, agisce
sull'articolo 9, comma 10, della legge 122/2010, dichiarato
costituzionalmente illegittimo, allo scopo di cancellarlo
definitivamente.
La sentenza 223/2012 della Corte costituzionale ha inoltre
dichiarato l'illegittimità costituzionale del «contributo di
solidarietà» posto a carico dei dirigenti pubblici e del
blocco degli incrementi stipendiali dei magistrati.
L'articolo 9, comma 2, della legge 122/2012, dichiarato
incostituzionale, aveva posto a carico degli stipendi dei
dirigenti pubblici un prelievo del 5% sui redditi superiori
ai 90 mila euro; prelievo che andava al 10% per i redditi
superiori ai 150 mila euro.
Per quanto riguarda i magistrati, a saltare è il blocco
dell'avanzamento stipendiale automatico, blocco considerato
incompatibile con l'indipendenza della magistratura.
Per questo secondo aspetto, non parrebbe necessario un
intervento di natura normativa. In effetti, la sentenza
della Corte costituzionale produce automaticamente l'effetto
di ripristinare lo stato antecedente alla norma dichiarata
illegittima. Infatti, le sentenze che dichiarano
l'illegittimità costituzionale delle norme hanno efficacia
retroattiva, in modo da eliminare dall'ordinamento giuridico
sin dall'inizio una norma contrastante con l'ordinamento
stesso.
Il Consiglio dei ministri come detto ha comunque deciso di
dare corso all'attuazione delle ricadute della pronuncia
della Consulta per via amministrativa, mediante un decreto
del presidente del Consiglio dei ministri.
Anche in questo caso lo scopo è fornire alle amministrazioni
un sistema univoco per fare fronte alle richieste di
restituzione degli arretrati, che intanto i singoli
dipendenti stanno muovendo alle amministrazioni
(articolo ItaliaOggi del 27.10.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO: La
Polizia anticipa i tempi, trattenuta addio.
Già nel prossimo stipendio di novembre, il personale della
Polizia di stato non troverà più la trattenuta del 2,5%
sull'80% della retribuzione, oggetto della dichiarata
illegittimità da parte della Corte costituzionale con la
recente sentenza n. 223/2012. Sul versante opposto, però, si
registra il grido d'allarme lanciato dall'Associazione
nazionale dei comuni italiani sugli effetti di tale
pronuncia, in quanto potrebbe avere effetti devastanti sui
bilanci dei comuni che rischierebbero seriamente il dissesto
finanziario. Preoccupazioni che hanno portato il presidente
Anci, Graziano Delrio, a inviare una lettera al ministro
dell'economia, Vittorio Grilli, chiedendo un parere in
merito alle determinazioni da assumere.
Gli effetti della citata decisione della Consulta (si veda
ItaliaOggi del 12 e 16.10.2012), come si vede, stanno
lasciando lo spazio a non pochi strascichi. Ma andiamo con
ordine.
La prima amministrazione centrale che si adegua alla
decisione della Consulta è senza dubbio il Dipartimento
della sicurezza del ministero dell'interno che, con la
circolare 24.10.2012 n. 333 di prot., ha informato il personale
amministrato che sul trattamento stipendiale di novembre non
sarà più operata la trattenuta dichiarata illegittima dalla
Consulta, oltre a non effettuare più le decurtazioni della
trattenuta nella misura del 5 o 10%, sui trattamenti
economici complessivi superiori, rispettivamente, a 90 mila
e 150 mila euro (anche queste oggetto della bocciatura della
Consulta nella stessa sentenza).
Quindi, oltre a rendere più
«pesante» la paga del personale della Polizia di stato dal
prossimo mese, il Viminale rassicura anche sulla
corresponsione delle illegittime trattenute sino ad oggi
operate. Infatti, si legge nella circolare, non appena
perverranno le assegnazioni finanziarie e le relative
istruzioni da parte del Mineconomia, sarà cura del dicastero
retto da Annamaria Cancellieri provvedere alla restituzione
degli importi per il periodo gennaio 2011-ottobre 2012.
Ma è proprio sotto il profilo della restituzione che si
registra la preoccupazione dei vertici Anci. Una lettera
inviata nei giorni scorsi dal presidente dell'Associazione
dei comuni, Graziano Delrio, al titolare di via XX
Settembre, Vittorio Grilli, evidenzia il fatto che sia
indiscutibile che «gli effetti di tale pronuncia hanno un
impatto fortissimo sui bilanci dei comuni».
Delrio quantifica in 200 milioni di euro l'esborso
complessivo cui saranno chiamate le amministrazioni comunali
nei confronti dei propri dipendenti. Una somma
considerevole, si legge, che rischia di portare al dissesto
i piccoli comuni e la cui restituzione, a ben vedere, «si
scontra con i limiti oggi vigenti in materia di spese di
personale e con quelli relativi al Patto di stabilità».
La lettera, pertanto, si conclude con l'espresso invito a «volersi
esprimere in merito alle conseguenti determinazioni da
assumere, data la rilevanza della situazione e i profili di
responsabilità ad essa connessi»
(articolo ItaliaOggi del 27.10.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Liquidazione
statali, ritorno al passato Il Governo si allinea alla
Consulta e rispolvera il Tfs - Gli arretrati arriveranno con
un Dpcm.
CONTRIBUTO DI SOLIDARIETÀ/ Restituzione anche per la «tassa»
sulle retribuzioni superiori a 90mila euro, pure dichiarata
illegittima dalla Corte costituzionale.
Per le liquidazioni dei dipendenti pubblici il Governo torna
all'antico e rispolvera il «trattamento di fine servizio». È
quanto prevede il decreto legge approvato ieri a Palazzo
Chigi per dare piena attuazione alla sentenza della Corte
Costituzionale (n. 223/2012) che ha dichiarato
incostituzionale sia il prelievo contributivo del 2,5% sul
Tfr dei dipendenti pubblici, sia il contributo di
solidarietà del 5 e del 10% sulla parte di retribuzione che
eccede, rispettivamente, i 90 e i 150mila euro lordi annui.
A introdurre le misure che la Consulta ha bocciato era stato
il decreto 78 del 2010 quando a Palazzo Chigi c'era Silvio
Berlusconi e a via Venti settembre Giulio Tremonti. Ma il
compito di correre ai ripari è toccato al Governo Monti. Per
gestire gli effetti della sentenza, il Consiglio dei
ministri di ieri ha deciso di imboccare due strade distinte.
Per l'abolizione della trattenuta del 2,5% sulle
liquidazioni è stato utilizzato il decreto legge. Per la
ripresa delle trattenute e le restituzioni delle somme
indebitamente prelevate ai dipendenti si procederà in via
amministrativa con un decreto del presidente del Consiglio (Dpcm).
E questo facendo leva sulla legislazione vigente, applicando
una sorta di clausola di salvaguardia secondo cui, se in
determinate circostanze dovessero venire meno le entrate
della manovra (da leggere anche con possibile pronunce
giurisdizionali), il Governo può procedere con un taglio
lineare sulle spese delle pubbliche amministrazioni. Al Dpcm
sarà demandata anche la definizione delle modalità operative
di erogazione dei rimborsi dovuti.
La partita più delicata resta comunque quella relative alle
liquidazioni dei dipendenti pubblici. Il decreto legge di un
solo articolo, inviato al Capo dello Stato, prevede che
l'articolo 12, comma 10, del Dl anticrisi del 2010 venga
abrogato a decorrere dal 01.01.2011. Per salvaguardare
la tenuta dei conti pubblici, lo stesso testo prevede il
ritorno al trattamento di fine servizio (Tfs) che –in virtù
della quota trattenuta direttamente sul dipendente– per il
datore di lavoro (pubbliche amministrazioni centrali e
locali) è meno oneroso rispetto al trattamento di fine
rapporto.
Sempre secondo il decreto legge approvato ieri gli oneri che
dovrà sostenere lo Stato per la riliquidazione dei "Tfs"
ammontano a 21 milioni complessivi per il 2012 (1 milione),
2103 (7 milioni) e 2014 (13 milioni), e in 20 milioni a
decorrere dal 2015.
Per le riliquidazioni dei trattamenti di fine servizio il
Governo si dà ora un anno di tempo. Infatti viene previsto
che i Tfs «comunque denominati», che sono stati liquidati
prima dell'entrata in vigore del nuovo Dl secondo quando
prevedeva il decreto 78, saranno riliquidati d'ufficio entro
un anno dall'entrata in vigore del decreto legge approvato
ieri. Si applicheranno cioè le regole in vigore prima della
stretta sugli statali introdotta dal Governo Berlusconi. E,
comunque sia, la rideterminazione delle liquidazioni
spettanti non potrà dare luogo ad alcun recupero delle somme
erogate in precedenza nei confronti del dipendente.
Per quanto riguarda, infine, le cause pendenti avviate dai
dipendenti pubblici per ottenere la restituzione del
contributo previdenziale obbligatorio del 2,5%, il
provvedimento messo a punto dall'Esecutivo ne dispone
l'estinzione di diritto. Un'estinzione che potrà essere
dichiarata anche d'ufficio. Al tempo stesso vengono
sterilizzati del tutto gli effetti di eventuali sentenze già
emesse, fatta eccezione per quelle nel frattempo passate in
giudicato
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.10.2012
- link a www.ecostampa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Per i dipendenti la
busta paga sale di oltre 300 euro.
IL PASSO SUCCESSIVO/ Per la restituzione del maxi-arretrato
del 2011 e 2012 si dovrà aspettare il Dpcm annunciato sempre
ieri dal Governo.
Il decreto legge lampo varato ieri dal Governo comincia a
fare ordine nel polverone degli stipendi pubblici sollevato
dalla bocciatura inferta dalla Consulta ai pilastri
dell'austerità in busta paga innalzati dalla manovra estiva
del 2010. Il trattamento economico, in sostanza, dovrebbe
tornare in formula piena a partire dal prossimo mese, senza
più la trattenuta del 2,5% relativa al Tfr dichiarata
illegittima dalla Corte costituzionale.
Questo primo
tassello risolve soprattutto i problemi ai responsabili
degli uffici paghe, disorientati dopo che la sentenza
costituzionale aveva tolto base normativa alla trattenuta:
per disciplinare il nodo vero, cioè quello relativo alla
restituzione del maxi-arretrato accumulato con le trattenute
del 2011 e 2012, bisognerà aspettare il Dpcm annunciato
sempre ieri dal Governo per affrontare «le altre parti della
sentenza della Consulta».
L'intervento riporta dunque gli stipendi dei dipendenti
pubblici ai livelli pre-trattenuta. Le somme recuperate sono
a conti fatti più interessanti di un rinnovo contrattuale:
per un impiegato di un ente locale si tratta di 307 euro
netti all'anno, mentre per un dirigente si arriva a mille
euro. Il beneficio è naturalmente proporzionale ai livelli
stipendiali dell'interessato, e di conseguenza cresce
nell'amministrazione centrale dove gli stipendi sono un po'
più alti: un funzionario si attende il ritorno di quasi 340
euro all'anno se lavora nei ministeri e di quasi 370 se il
suo ufficio è in un ente pubblico non economico (Inps, Aci e
così via), per un dirigente di seconda fascia la partita
vale circa 690 euro all'anno mentre chi occupa i vertici
della scala gerarchica può contare su quasi 1.050 euro in
più.
L'arretrato da restituire, invece, ammonta a due volte
abbondanti le cifre annue appena citate; questo perché nel
2011 il Tfr era soggetto a tassazione separata, più leggera
di quella ordinaria, e di conseguenza la somma relativa al
2011 di cui gli interessati attendono il ritorno è più alta
del «netto in busta» del 2012. La partita degli arretrati,
però, mette a dura prova i bilanci degli enti pubblici, e in
particolare quelli dei piccoli Comuni dove la partita può
mandare in crisi i conti. Giovedì lo stesso presidente dell'Anci
Graziano Delrio ha parlato espressamente di «rischio
dissesto» nei Comuni più piccoli, chiedendo al Governo di
studiare modalità applicative in grado di garantire i
diritti dei dipendenti interessati senza mettere a rischio
gli equilibri dei conti. Un rompicapo, ma non è l'unico.
Le «altre parti della sentenza» citate dal comunicato stampa
del Governo riguardano anche la restituzione del contributo
di solidarietà che ha tagliato del 5% le quote di stipendio
superiore a 90mila euro e del 10% quelle sopra i 150mila. La
platea interessata è in questo caso molto più piccola,
composta dalle 26mila persone (divise a metà fra Stato ed
enti territoriali). Il problema, però, non è la copertura
finanziaria (29 milioni di euro all'anno): la trattenuta
riduceva il reddito degli interessati, per cui la sua
restituzione impone di ricostruire il vecchio imponibile
Irpef e chiedere le quote d'imposta che non sono state
pagate a causa della tagliola. Una ricostruzione della
storia fiscale recente da attuare caso per caso, senza
dimenticare gli effetti sulle addizionali regionali e
locali
(articolo ItaliaOggi del 27.10.2012
- link a www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: I
comuni devono convenzionarsi col Mef per pagare gli stipendi.
Anche i comuni sono soggetti all'obbligo di convenzionarsi
con il Mef per la gestione degli stipendi ovvero, in
alternativa, di utilizzare i parametri di qualità e di
prezzo da esso stabiliti per l'acquisizione dei medesimi
servizi sul mercato di riferimento.
Con la
nota 12.10.2012, infatti, Via XX Settembre, rispondendo a una
richiesta dell'Anci, ha confermato che l'art. 5, comma 10,
del dl 95/2012 si applica anche agli enti locali. La
formulazione della norma, in effetti, non è chiarissima:
essa rinvia ad altre precedenti disposizioni (art. 1, comma
447, della legge 296/2006 e art. 2, comma 197, della legge
191/2009) che riguardavano le sole amministrazioni statali.
Il Mef, tuttavia, ha ritenuto che «sotto il profilo
soggettivo, i comuni sono sottoposti alla disciplina in
quanto inclusi tra le pubbliche amministrazioni (art. 1,
comma 2, del dlgs 165/2001), diverse da quelle statali già
obbligate dalla previgente normativa». La nota ha anche
chiarito che lo schema di convenzione per ora reso
disponibile costituisce «uno standard, da adattare e
utilizzare in relazione alle specificità e caratteristiche
delle singole amministrazioni».
Come evidenziato da ItaliaOggi del 7 settembre, in effetti, tale convenzione non
include alcune tipologie di servizi normalmente gestiti in
forma integrata con quelli prettamente riferiti agli
stipendi. Si tratta, in primo luogo, delle attività svolte
tipicamente dagli uffici del personale degli enti, o, presso
quelli più piccoli, da esperti/service esterni come, per
esempio, l'immissione di giustificativi di assenza,
l'aggiornamento degli anagrafici o le comunicazioni ai
centri per l'impiego. Rimangono fuori, inoltre, le attività
relative ad alcune tipologie di reddito quali quelli
assimilati, autonomi e diversi (dipendenti altra p.a.,
amministratori locali, collaboratori coordinati e
continuativi, Lsu, cantieri di lavoro, borse di lavoro,
borse di studio, forestali, professionisti, indennità di
esproprio, contributi ad enti e associazioni ecc.).
Un
problema ulteriore nasce dal fatto che, nella maggior parte
dei casi, gli enti hanno acquistato sul mercato un
«pacchetto» onnicomprensivo, il che rende non sempre agevole
il confronto di convenienza con i servizi offerti dal Mef.
Tali fattori inizialmente avevano disorientato molti enti,
spingendo l'Anci a richiedere una revisione della normativa.
Anche le difficoltà tecniche legate all'esigenza di far
dialogare le procedure gestionali in essere con quelle in
uso presso il Mef non sembrerebbero insuperabili.
Criticità
maggiori sembrano porsi per i piccoli comuni, anche a causa
dell'obbligo imposto dalla convezione del Mef di nominare un
referente tecnico-informatico e di un referente tecnico
amministrativo. Gli enti di minori dimensioni, infatti, sono
sprovvisti di simili figure, in quanto si avvalgono perlopiù
di consulenti esterni, né potrebbero agevolmente
procurarsele, visti i limiti al turnover
(articolo ItaliaOggi del 26.10.2012
- link a www.ecostampa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Una
valanga di controlli si abbatte sugli enti locali.
Una valanga di controlli si abbatte sugli enti locali in
seguito all'entrata in vigore del decreto-legge 174 del 10
ottobre.
Con riferimento ai comuni e alle province vengono
introdotte numerose e sostanziali modifiche alle
disposizioni vigenti in materia contenute nel testo unico
267/2000 estendendo la gamma dei controlli interni alle
seguenti forme: controllo di regolarità amministrativa e
contabile, controllo degli equilibri finanziari della
gestione e dell'osservanza del patto di stabilità interno,
controllo di gestione, controllo strategico e, negli enti
con popolazione superiore a 10 mila abitanti, controllo
dello stato di attuazione di indirizzi e degli obiettivi da
parte degli organismi gestionali esterni, controllo della
qualità dei servizi erogati e controllo sulle società
partecipate. A tali controlli occorre poi aggiungere quelli
esercitati dai servizi finanziari e dagli organi di
revisione degli enti locali. Non tutte le indicate forme di
controllo sono nuove nell'ordinamento degli enti locali.
Il
decreto-legge 174, inoltre, potenzia i controlli esterni
sugli enti locali e, in primo luogo, quelli della Corte dei
conti. La verifica semestrale da parte delle sezioni
regionali della Corte riguarderà: la legittimità e la
regolarità delle gestioni, il funzionamento dei controlli
interni, il rispetto delle regole contabili e del pareggio
di bilancio, il piano esecutivo di gestione, i regolamenti e
gli atti di programmazione e pianificazione. Un area vasta
che si estende anche a documenti privi di efficacia esterna
e di grande rilevanza interna come il Peg che è un budget
operativo della gestione.
Per l'esercizio di tale forma di
controllo, il sindaco dei comuni con più di 10 mila abitanti
è tenuto a trasmettere ogni sei mesi alla Corte un referto
sulla regolarità della gestione e sull'efficacia e
adeguatezza del sistema dei controlli interni adottato.
Addirittura il referto non è libero, ma va compilato secondo
linee-guida deliberate dalla Corte medesima. Per gli stessi
fini, la Corte potrà disporre, oltre a tale informativa, di
altri strumenti e in particolare degli accertamenti e delle
verifiche del Corpo della Guardia di finanza che potrà agire
con gli stessi poteri ad esso attribuiti ai fini degli
accertamenti relativi all'Iva e alle imposte sui redditi.
Sono inoltre previste verifiche da parte dei Servizi
ispettivi di finanza pubblica del Mef che si aggiungono ai
controlli del ministero della funzione pubblica. La norma è
accompagnata da una sanzione che va da cinque a venti volte
la retribuzione mensile. È questa una novità che conferma il
carattere centralista della riforma
(articolo ItaliaOggi del 26.10.2012
- link a www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Commissioni come consigli.
Vanno rappresentate tutte le forze politiche.
Il sindaco è ricompreso nel computo per la
determinazione degli organi.
È possibile ricomprendere il sindaco nella compagine delle
forze politiche presenti nel consiglio comunale ai fini
della composizione delle commissioni consiliari, considerato
che il consiglio è composto da due soli gruppi con lo stesso
numero di consiglieri?
In base a quanto disposto dall'articolo 38, comma 6, del
dlgs n. 267/2000, le commissioni consiliari, una volta
istituite sulla base di una facoltativa previsione
statutaria, sono disciplinate dall'apposito regolamento
comunale con l'inderogabile limite, posto dal legislatore,
relativo al rispetto del criterio proporzionale nella
composizione. Ciò significa che le forze politiche presenti
in consiglio devono essere il più possibile rappresentate
anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia
riprodotto il peso numerico e di voto.
Il legislatore non
precisa come debba essere applicato tale criterio di
proporzionalità. È da ritenersi che spetti al regolamento,
cui sono demandate la determinazione dei poteri delle
commissioni nonché la disciplina dell'organizzazione e delle
forme di pubblicità dei lavori, stabilire i meccanismi
idonei a garantirne il rispetto.
In merito, la Corte
costituzionale, nella sentenza n. 44/1997, ha precisato che
il sindaco «viene computato ad ogni fine tra i componenti
del consiglio stesso», con diritto di voto, e pertanto va
ricompreso nel computo per la determinazione dei
rappresentanti consiliari nelle commissioni nel rispetto,
ovviamente, del criterio proporzionale recato dal citato
art. 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000
(articolo ItaliaOggi del 26.10.2012). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Composizione commissioni.
Qual è la procedura da applicare per la sostituzione, nelle
commissioni consiliari, di un consigliere uscito da un
gruppo e transitato ad un altro?
In base a quanto disposto dall'articolo 38, comma 6, del
dlgs n. 267/2000, le commissioni consiliari, una volta
istituite sulla base di una facoltativa previsione
statutaria, sono disciplinate dall'apposito regolamento
comunale con l'inderogabile limite, posto dal legislatore,
riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella
composizione. Ciò significa che le forze politiche presenti
in consiglio devono essere il più possibile rispecchiate
anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia
riprodotto il peso numerico e di voto.
Il legislatore non
precisa come debba essere applicato tale criterio di
proporzionalità. È da ritenersi che spetti al regolamento,
cui sono demandate la determinazione dei poteri delle
commissioni nonché la disciplina dell'organizzazione e delle
forme di pubblicità dei lavori, stabilire i meccanismi
idonei a garantirne il rispetto. Secondo l'univoco e
consolidato indirizzo giurisprudenziale, il criterio
proporzionale può dirsi rispettato ove sia assicurata, in
ogni commissione, la presenza di ciascun gruppo presente in
consiglio in modo che, se una lista è rappresentata da un
solo consigliere, questi deve essere presente in tutte le
commissioni costituite assicurando una composizione delle
commissioni proporzionata all'entità di ciascun gruppo
consiliare.
Nel caso di specie, se lo statuto, nel
disciplinare le commissioni, stabilisce che queste debbano
essere costituite con criterio proporzionale e il
regolamento comunale fissa la determinazione numerica dei
commissari, demanda ai gruppi consiliari la designazione dei
consiglieri incaricati di far parte delle commissioni
consiliari in rappresentanza dei singoli gruppi -in modo da
garantire adeguata rappresentanza a ciascuno di essi- e
stabilisce il diritto di ogni consigliere a far parte di
almeno una commissione, ne consegue che gli eventuali
mutamenti in corso di consiliatura nel rapporto tra
maggioranza e minoranza consiliare, ovvero nella consistenza
numerica dei gruppi, dovrebbero implicare una revisione, a
cura del consiglio comunale, degli assetti preesistenti
nelle commissioni consiliari, al fine di ripristinare il
rispetto dei criteri a cui le stesse devono essere
conformate.
In tale prospettiva, l'ipotesi del distacco di
uno o più consiglieri dal gruppo di appartenenza originaria
per aderire o formare altro gruppo, va inquadrata
nell'ambito di un riequilibrio generale degli assetti
presenti nelle commissioni, e non già di mera sostituzione
degli stessi. Resta rimessa all'autonomia organizzativa
dell'ente locale l'individuazione, anche mediante opportune
integrazioni del regolamento comunale, del meccanismo
tecnico -quale voto plurimo, voto ponderato o altro-
reputato maggiormente idoneo ad assicurare a ciascun
commissario un peso corrispondente a quello del gruppo che
rappresenta.
Come rilevato dal Tar Lombardia nella sentenza
n. 567/1996, infatti, il criterio proporzionale «è posto dal
legislatore come direttiva suscettibile di svariate opzioni
applicative, egualmente legittime purché coerenti con la ratio
che quel principio sottende, e che consiste nell'assicurare
in seno alle commissioni la maggiore rappresentatività
possibile»
(articolo ItaliaOggi del 26.10.2012). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Enti
locali. Dopo lo stop della Consulta. I sindaci: «Dal Tfr
rischi di dissesto»
L'ALLARME/ Il presidente dell'Anci chiede l'intervento di
Grilli per chiarire come restituire le trattenute senza far
saltare i conti.
La restituzione ai dipendenti pubblici delle trattenute del
2,5% per il trattamento di fine servizio dichiarate
illegittime dalla Corte costituzionale rischia di far
saltare i conti dei Comuni, soprattutto quelli medio-piccoli.
La partita, ha scritto ieri il presidente del l'Anci
Graziano Delrio al ministro dell'Economia Vittorio Grilli,
vale almeno 200 milioni di euro, e per evitare ai sindaci
uno "sforamento obbligato" del Patto di stabilità e
dei vincoli di spesa sul personale bisogna subito mettere
mano a una soluzione. Anche perché, si legge nella lettera,
«la rilevanza della situazione e i profili di
responsabilità a essa connessi» non consentono ritardi,
tanto più che nei piccoli Comuni l'obbligo di restituzione
può addirittura «portare al dissesto».
Il problema è quello sollevato dalla sentenza 223/2012, con
cui la Corte costituzionale ha bocciato «per evidenti
ragioni di equità» una serie sacrifici imposti solo ai
dipendenti pubblici e non a quelli privati. Tra le regole
cadute sotto le forbici della Consulta, il «contributo di
solidarietà» (taglio del 5% della quota di stipendio
superiore ai 90mila euro annui e del 10% di quella superiore
a 150mila euro) interessa soprattutto i vertici di Stato e
Regioni, mentre la trattenuta del 2,5% per il Tfr si fa
sentire parecchio anche dalla parte dei Comuni. A un
impiegato di un ente locale, la cancellazione della
trattenuta offre circa 24 euro netti al mese in più, e
impone la restituzione di 670 euro prelevati fra 2011 e
2012: nel caso di un dirigente, gli euro al mese in più
possono salire a 78 e gli arretrati netti a 2.238 (si veda
Il Sole 24 Ore del 22 ottobre).
Gli amministratori locali naturalmente non contestano il
merito della sentenza, ma lanciano l'allarme sulle
conseguenze contabili dell'obbligo di restituzione. Oltre al
rischio-dissesto dei piccoli enti, dove i bilanci sono più
tirati, l'aumento di spesa impatta ovviamente anche sui
limiti alle uscite per il personale e sui vincoli del Patto
di stabilità.
Intanto, nonostante le obiezioni parlamentari (si vedano gli
articoli in primo piano), si stringe la maglia dei controlli
aggiuntivi introdotti dal Dl 174/2012. La sezione Autonomie
della Corte dei conti ieri ha fissato il calendario e i
primi indirizzi attuativi delle nuove norme: in particolare,
sono state definite le modalità applicative sull'esame dei
bilanci preventivi delle Regioni e sul controllo preventivo
di regolarità degli atti regionali, mentre per i Comuni le
verifiche puntano soprattutto sugli appuntamenti semestrali
di controllo delle gestioni sulla base delle relazioni
inviate dai sindaci
(articolo Il
Sole 24 Ore del 26.10.2012
- link a www.corteconti.it). |
APPALTI: Responsabilità
negli appalti dopo il decreto sviluppo 83/2012.
Responsabilità in solido: così la difesa L'impresa può
tutelarsi dall'obbligo che coinvolge versamenti fiscali,
paghe, contributi e sicurezza.
Lo scenario normativo che disciplina gli appalti è in
continua evoluzione ed è costituito da un puzzle di
disposizioni di difficile raccordo tra loro: un groviglio di
regole tra le quali i soggetti coinvolti sono costretti a
districarsi, rischiando pesanti conseguenze in tema di
responsabilità solidale e sotto il profilo sanzionatorio. La
mancanza di un testo unitario che faccia da contenitore
delle diverse norme intervenute in questo ambito ha spesso
avuto come risultato l'aumento dei vincoli solidaristici
della filiera dell'appalto, senza adeguati strumenti che
possano manlevare –in maniera agevole– il responsabile in
solido.
La finalità di questa Guida è proprio quella di mettere
ordine nella recente evoluzione legislativa e di fornire a
committenti e appaltatori gli spunti operativi per evitare
il coinvolgimento nel regime di solidarietà, che si estende
ormai a 360 gradi ai profili retributivi, contributivi,
fiscali e di sicurezza sul lavoro: un'esigenza sempre più
sentita dal momento che le aziende ricorrono con frequenza
all'outsourcing di processi produttivi o di servizi,
attraverso contratti di appalto.
Il fronte fiscale
Sono essenzialmente due i fronti interessati dalle recenti
modifiche. Il primo, sugli aspetti fiscali, è quello che
riguarda l'obbligazione in solido, in caso di appalto di
opere o di servizi, che lega l'appaltatore e il
subappaltatore, nei limiti dell'ammontare del corrispettivo
dovuto, a versare le ritenute sui redditi di lavoro
dipendente e l'Iva riferite alle prestazioni effettuate
nell'ambito dell'appalto: dopo il vero e proprio vuoto
legislativo che si era creato con la modifica al comma 28
dell'articolo 35 del Dl 223/2006 a opera del decreto sulle
semplificazioni fiscali (Dl 16/2012), è intervenuto il primo
decreto sullo sviluppo (Dl 83/2012). Infatti, la versione
previgente del testo consentiva –attraverso una formulazione
alquanto generica– l'esonero dal regime della solidarietà
solo nel caso in cui l'appaltatore avesse dimostrato «di
aver messo in atto tutte le cautele possibili per evitare
l'inadempimento».
Il Dl 83/2012 ha in parte corretto questa criticità con
l'indicazione di alcuni strumenti di verifica
(attestazione/asseverazione) propedeutici al pagamento del
corrispettivo, sebbene – all'atto pratico – presentino delle
difficoltà di attuazione, con il rischio di inciampi nei
pagamenti.
Il fronte del lavoro
La seconda modifica alla materia della responsabilità
solidale (articolo 29 della legge Biagi) è invece avvenuta
con il decreto sulle semplificazioni varato a inizio anno
(Dl 5/2012), poi ridisegnato dalla riforma del lavoro (comma
31, articolo 4, della legge 92/2012). In primo luogo, il
legislatore ha puntato a precisare che il vincolo della
solidarietà sui profili retributivi (comprese le quote di
Tfr), previdenziali e assicurativi si riferisce al periodo
di esecuzione dell'appalto.
Sono state introdotte poi alcune esimenti dall'alveo della
responsabilità, escludendo le sanzioni civili che possono
essere ascritte al solo responsabile dell'adempimento e
infine attenuando con qualche garanzia il previgente regime,
secondo il quale il mero affidamento di un appalto comporta
la responsabilità in capo al committente, sebbene non abbia
commesso alcuna irregolarità. Queste tutele consistono
nell'attribuzione ai Ccnl del compito di individuare
procedure ad hoc di verifica della regolarità degli appalti,
e nel coinvolgimento dei soggetti chiamati a rispondere per
incapienza dei beni di chi esegue l'opera, in caso di
contenzioso nella materia.
Secondo questa disposizione, il debitore solidale
(committente imprenditore o datore di lavoro), chiamato a
rispondere in sede giudiziale del pagamento con
l'appaltatore e con gli eventuali subappaltatori, può
proporre un'eccezione con la quale chiede che sia
preventivamente escusso il patrimonio di questi ultimi.
In queste ipotesi, anche se il giudice accerta la
responsabilità solidale, l'azione esecutiva può essere
promossa nei confronti del committente solo dopo che
l'esecuzione verso il patrimonio del responsabile ha dato
esito infruttuoso. Inoltre, la norma conferma una procedura
già esperibile nei casi di responsabilità solidale, che
consiste nella possibilità da parte del committente,
chiamato a rispondere al posto del responsabile, di
richiedere la restituzione di quanto pagato attraverso
l'azione di regresso.
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I risvolti fiscali.
Pagamenti vincolati alla regolarità. Salta il corrispettivo
del subappaltatore che non dimostra di aver versato le
imposte.
Il regime
della responsabilità solidale tra committente, appaltatore
ed eventuali subappaltatori per le ritenute Irpef e Iva
relative ai contratti di appalto o di subappalto di opere,
forniture e servizi è stato modificato dal decreto legge
83/2012 che ha sostituito il comma 28 dell'articolo 35 del
Dl 223/2006.
Con le nuove disposizioni, in vigore dal 12 agosto scorso,
viene meno la responsabilità in solido del committente con
l'appaltatore e gli eventuali subappaltatori, legata al
versamento all'erario delle ritenute fiscali sul lavoro
dipendente dovute dall'appaltatore o dal subappaltatore in
relazione all'appalto.
La responsabilità solidale per gli obblighi fiscali, è bene
precisarlo, si applica nei contratti di appalto e di
subappalto di opere, forniture e servizi conclusi da
soggetti Iva e, in ogni caso, dai contribuenti Ires indicati
dagli articoli 73 e 74 del Tuir (enti non commerciali),
mentre da questo fronte sono escluse le stazioni appaltanti
dei contratti pubblici (Dlgs 163/2006).
Questa responsabilità, che rimane circoscritta al solo
rapporto tra appaltatore e subappaltatore, è limitata all'«ammontare
del corrispettivo dovuto» e non ha più il limite
temporale dei «due anni dalla cessazione dell'appalto»,
precedentemente fissato dal Dl 16/2012.
Nello specifico, le modifiche al comma 28 stabiliscono che i
soggetti responsabili in solido dei versamenti sono
l'appaltatore e il subappaltatore e prevedono che la
responsabilità riguardi, oltre alle ritenute sul lavoro
dipendente, l'Iva dovuta dal subappaltatore per le
prestazioni effettuate nel rapporto di subappalto.
Il vincolo solidale in capo all'appaltatore viene meno se
questi verifica, prima del pagamento del corrispettivo, che
il subappaltatore ha correttamente adempiuto gli obblighi
fiscali scaduti alla data del pagamento del compenso.
Anziché controllare materialmente i versamenti,
l'appaltatore può richiedere al subappaltatore
un'attestazione dell'avvenuto adempimento degli obblighi,
anche tramite un'asseverazione rilasciata da un
professionista abilitato o da un Caf Imprese. Nel frattempo,
può sospendere il pagamento del corrispettivo fino
all'esibizione della documentazione da parte del
subappaltatore.
Il ruolo del committente
Il committente è invece vincolato al solo controllo
degli adempimenti fiscali: pertanto, deve richiedere
all'appaltatore, sempre prima del pagamento del
corrispettivo, l'esibizione della documentazione citata che
attesta l'assolvimento degli obblighi fiscali sia da parte
di quest'ultimo sia dagli eventuali subappaltatori, scaduti
alla data del pagamento del compenso. Se l'appaltatore non
produce i documenti che provano gli avvenuti versamenti, il
committente può sospendere il pagamento di quanto dovuto per
gli avvenuti lavori. Per effetto della nuova disciplina, il
committente diventa destinatario di una sanzione
amministrativa che va da un minimo di 5mila euro a un
massimo di 200mila euro, che scatta qualora questi abbia
provveduto al pagamento del corrispettivo all'appaltatore
senza aver prima eseguito i necessari controlli sulla
regolarità dei versamenti fiscali, che risultino poi
irregolari.
I chiarimenti delle Entrate
Con la circolare 40/2012, l'agenzia delle Entrate ha fornito
i chiarimenti sugli aspetti più critici delle nuove
disposizioni, come la decorrenza dei relativi effetti e la
certificazione idonea ad attestare la regolarità dei
versamenti delle ritenute e dell'Iva.
La circolare specifica che le disposizioni relative alla
verifica da parte del committente/appaltatore
sull'esecuzione dei corretti obblighi fiscali trovano
applicazione solo per i contratti di appalto/subappalto
stipulati dal 12 agosto 2012 e per i pagamenti effettuati a
partire dall'11 ottobre 2012.
Sulla documentazione che l'appaltatore/subappaltatore deve
produrre per dimostrare la regolarità dei versamenti, la
circolare afferma che, in alternativa alle asseverazioni
rilasciate dai professionisti e dai Caf, è valida anche una
dichiarazione sostitutiva (in base al Dpr 445/2000) con cui
l'appaltatore/subappaltatore attesta l'avvenuto adempimento
degli obblighi richiesti (si veda la pagina a fianco)
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.10.2012). |
ENTI LOCALI: P.a., ecco i costi da tagliare.
Fuori dal paniere le indennità e i buoni pasto.
Nota Rgs spiega cosa sono i consumi su cui si abbatterà la
spending review.
Dentro le spese per missioni, le manutenzioni ordinarie
degli immobili istituzionali, le consulenze legali, le spese
per il servizio mensa e i costi sostenuti per mantenere in
piedi il parco macchine. Fuori le spese per indennità e i
compensi agli organi di amministrazione e controllo, le
manutenzioni ordinarie sugli immobili messi a reddito e le
manutenzioni straordinarie, le spese per la tutela legale
dell'ente e quelle per i buoni pasto.
A fare chiarezza sulle
voci che rientreranno nella categoria dei consumi intermedi
su cui si abbatterà la scure della spending review è la
circolare n. 31/2012 firmata ieri dal ragioniere generale
dello stato Mario Canzio.
La nota, indirizzata alle amministrazioni centrali dello
stato (palazzo Chigi e ministeri) e per conoscenza alla
Corte dei conti, circoscrive il parametro di spesa preso in
considerazione dal dl 95. I consumi intermedi, secondo
quanto già chiarito dal Mef in una circolare del 2009 (n.
5), «rappresentano il valore dei beni e servizi consumati
quali input di un processo di produzione, escluso il
capitale fisso, il cui consumo è registrato come
ammortamento». Che per i non esperti di economia significa
che saranno considerati consumi intermedi «tutti i beni e
servizi consumati o ulteriormente trasformati nel processo
produttivo» della p.a.
Se questa è la regola generale, le declinazioni particolari
sono quelle viste sopra. Andranno quindi escluse dal paniere
le spese per indennità, i compensi degli organi di
amministrazione e controllo, gli oneri tributari, le
manutenzioni straordinarie e pure quelle ordinarie se
riguardano immobili messi a reddito da cui l'ente
proprietario acquisisce una rendita. Fuori anche le spese
per la tutela legale dell'amministrazione e i costi
sostenuti per i buoni pasto, mentre vanno incluse le spese
per il servizio mensa. Rientrano nella base di calcolo (che
terrà conto dei dati 2010) anche quelle spese, per esempio
per l'esercizio di autovetture, che siano già oggetto di
precise riduzioni.
Infine, si precisa che gli enti costituiti dopo il 2010
dovranno prendere in considerazione i dati contabili
risultanti dal primo bilancio approvato
(articolo ItaliaOggi del 24.10.2012
- link a www.corteconti.it). |
APPALTI: Verso
il Cdm. In arrivo un pacchetto di interventi destinati a
rivedere le regole sui contratti.
Appalti, operazione riordino.
Dalla delega per la revisione del codice alla consultazione
pubblica.
IL QUADRO/
Il disegno di legge punta su semplificazione, anticipazione
delle regole Ue e partenariato fra pubblico e privato.
Non c'è soltanto la delega al riordino del codice appalti
nel disegno di legge del ministero delle Infrastrutture che
ieri è passato in pre-Consiglio dei ministri e oggi avrà
un'ulteriore messa a punto a Palazzo Chigi.
Nel testo diretto verso il Consiglio dei ministri di domani
o venerdì ci sono anche altre innovazioni di cui si è
parlato in questi ultimi mesi e che non avevano trovato
ancora posto in alcun provvedimento. È il caso
dell'introduzione in Italia del debat public, «la
consultazione pubblica –si legge nella relazione
illustrativa del Ddl– con gli attori locali che ha la
finalità di elevare il grado di tempestività e accuratezza
dell'informazione pubblica sugli interventi infrastrutturali
e di promuovere un più alto livello di consenso sociale e di
partecipazione delle popolazioni interessate alle scelte
progettuali e insediative effettuate dall'organo politico».
Una commissione composta di tre esperti avvierà e gestirà i
procedimenti e sarà «organismo di natura tecnica dotato di
alto grado di indipendenza, in quanto non deve essere
percepito come portatore di interesse di parte».
Il procedimento dovrà sempre prendere in considerazione
anche la «opzione zero» e dovrà concludersi in 120 giorni
con un documento non vincolante della commissione che darà
conto con oggettività di tutte le posizioni e potrà
contenere proposte di integrazione, modifica o
accompagnamento dell'opera.
Nel Ddl appalti ci sarà anche la gara di appalto «modello
World bank» proposta a suo tempo dal presidente dell'Ance,
Paolo Buzzetti, come modello di efficienza e di oggettività
nella selezione dell'appaltatore. Tra le innovazioni di cui
si dibatte da mesi e anni c'è anche la consultazione
preliminare delle imprese invitate a partecipare a una gara
per l'affidamento in concessione di un'opera. Oppure una
norma per le Ati (associazioni temporanee di imprese) che
impone la corrispondenza delle quote di partecipazione e
quelle di effettiva esecuzione dei lavori.
Per quel che riguarda il riordino del codice appalti, tre
sono i principi contenuti nella delega al Governo:
semplificazione, anticipazione degli orientamenti comunitari
e creazione di «condizioni favorevoli per il partenariato
pubblico-privato e la finanza di progetto, anche attraverso
disposizioni volte a dare certezza al quadro regolatorio
vigente alla stipula del contratto».
Il disegno di legge prevede anche tre altre deleghe per il
riordino dei codici dell'edilizia, della strada e della
navigazione.
In pre-Consiglio dei ministri ieri è arrivato anche il
decreto correttivo del codice antimafia (150/2011) che
prevede due novità: la stretta sugli obblighi di
tracciabilità dei flussi finanziari e le informative
atipiche. Per il resto, i suoi dieci articoli hanno il
merito di mandare finalmente in vigore tutta la sezione del
codice dedicata alle comunicazioni antimafia e alla banca
dati ad esse dedicata.
Solo il vertice di oggi a Palazzo Chigi permetterà di capire
se effettivamente questo pacchetto di provvedimenti andrà
all'esame del prossimo Consiglio dei ministri
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.10.2012
- link a www.corteconti.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Grandi opere con consultazione. Le popolazioni
locali saranno sentite per evitare effetti Tav.
In arrivo in Consiglio dei ministri un ddl che
punta a ridisegnare tutti i contratti pubblici.
Al via le consultazioni pubbliche sulle
opere infrastrutturali per gestire il consenso a livello
locale, sulla scia del «débat public» francese con oggetto
lo studio di fattibilità; deleghe per riordinare entro 180
giorni la normativa sui contratti pubblici (Codice e
regolamento), sull'edilizia, sui trasporti pubblici e sulla
navigazione; bandi- tipo dell'Utfp per le concessioni di
lavori pubblici; consultazione sul progetto preliminare
anche per le concessioni; svincolo delle cauzioni anche
sulle opere in esercizio.
È quanto previsto nello
schema di disegno di legge esaminato che viene esaminato
oggi dal pre-Consiglio dei ministri.
Nella bozza che viene illustrata e discussa oggi è contenuta
anche una corposa e impegnativa norma di delega che tocca
l'intera disciplina in materia di contratti pubblici;
difficile però immaginare che possa essere portata a termine
prima della fine della legislatura. In particolare si
prevede che entro sei mesi si porti a compimento il «consolidamento
delle disposizioni nella materia dei contratti pubblici»
e «l'assestamento del quadro normativo di riferimento».
Ne dovrebbe uscire un nuovo Codice dei contratti diviso in
due parti, una legislativa e l'altra regolamentare, evitando
la dispersione in diverse fonti normative, nonché la
sovrapposizione e la duplicazione tra disposizioni di rango
legislativo e regolamentare.
L'operazione dovrà servire anche ad adeguare il quadro
regolatorio ai principi e agli orientamenti comunitari
emersi in sede di aggiornamento delle direttive in materia
di appalti pubblici e concessioni, ma anche a semplificare
le procedure e creare le condizioni favorevoli per il
partenariato pubblico-privato e la finanza di progetto.
Altre deleghe, peraltro, riguardano la materia della
circolazione stradale. Analoga operazione viene prevista per
la materia edilizia puntando, fra le altre cose, a toccare i
diritti edificatori, la semplificazione delle procedure, la
premialità fiscale e finanziaria.
Ma non basta, perché sono previste deleghe per riordinare
anche le norme sulla circolazione stradale, la navigazione e
il trasporto pubblico su autobus.
Nell'attesa dell'attuazione delle deleghe, intanto, si
propongono ulteriori norme di modifica dell'attuale Codice
dei contratti pubblici che in passato non erano poi entrate
nei diversi decreti-legge proposti dal governo e convertiti
dal parlamento. Fra queste spicca l'introduzione della
Consultazione pubblica per gestire il consenso relativo alla
realizzazione delle opere infrastrutturali di rilevante
impatto ambientale, sociale ed economico indicate nel Def
infrastrutture, una proposta già in passato avanzata dalle
Fondazioni Astrid, Italiadecide e Respublica e tesa ad
adattare l'istituto del «débat public» francese, una sorta
di referendum, limitato alle grandi opere, per gestire il
consenso sul territorio. La consultazione, prevista nella
fase iniziale dell'iter di individuazione delle
caratteristiche dell'infrastruttura con oggetto, di regola,
lo studio di fattibilità dell'opera, potrà essere richiesta
dal soggetto aggiudicatore, dal promotore o da un consiglio
regionale, o da un numero di consigli comunali o provinciali
rappresentativi di almeno 150 mila abitanti, ovvero 50 mila
cittadini residenti nel comune o nei comuni interessati
dalla realizzazione dell'opera.
Sarà una commissione istituita presso il Provveditorato
interregionale alle opere pubbliche a gestire la
consultazione che non potrà avere durata, prefissata,
superiore a 120 giorni; al termine della consultazione sarà
predisposto un documento che darà conto delle ipotesi
alternative emerse e del grado di consenso raggiunto e potrà
prevedere l'istituzione di un meccanismo permanente di
comunicazione e dialogo pubblico.
Sul fronte della disciplina delle concessioni si prevede la
possibilità che l'ente finanziatore, entro 180 giorni,
indichi un subentrante (nuovo concessionario) al posto del
concessionario affidatario a seguito della gara; si prevede
anche che sia attivabile anche per le concessioni la
consultazione preliminare sul progetto (prevista finora solo
per gli appalti) e che i bandi e i relativi allegati (da
definire sulla base di modelli che dovrà mettere a punto
l'Unità tecnica per la finanza di progetto) siano
predisposti in modo da prevedere il preventivo e graduale
coinvolgimento del sistema bancario nell'operazione e
assicurare la massima «bancabilità» del progetto. Ridotti
ulteriormente i tempi per l'approvazione dei progetti da
parte del Cipe, il testo promuove anche un maggiore ricorso
alle centrali di committenza che potranno riguardare anche
le concessioni e i contratti di Ppp (partenariato
pubblico-privato).
Modificando l'articolo 92 del dpr 207/2010, si consente poi
alle imprese di costruzioni che partecipano in
raggruppamento temporaneo di eseguire i lavori anche in
percentuali diverse da quelle previste a condizione che
siano qualificate per i singoli lavori da eseguire.
Riproposte le norme sullo svincolo delle cauzioni per opere
in esercizio da un anno e l'innalzamento all'80% della quota
svincolabile. Infine, fra le altre cose, si prevede un Fondo
mobiliare chiuso, da costituirsi da Cassa depositi e
prestiti, con la collaborazione dell'Anci e dell'Upi, per la
valorizzazione dei beni pubblici mobiliari (articolo
ItaliaOggi del 23.10.2012 - link a
www.corteconti.it). |
APPALTI:
Il ricorso all'arbitrato va limitato. Passera
avverte: amministrazioni quasi sempre soccombenti. La
direttiva del ministro alle infrastrutture. Clausole
compromissorie solo se funzionali all'appalto.
Limitare il ricorso agli arbitrati, che
vedono quasi sempre soccombenti le amministrazioni,
inserendo la clausola compromissoria soltanto se funzionale
alla specificità dell'appalto e se è opportuno il ricorso
alla giustizia arbitrale; i limiti devono essere tenuti
presenti anche per i contratti già affidati in cui è
possibile, in base alle vecchie norme, optare a controversia
in corso, per l'arbitrato.
È questo l'invito contenuto nella
nota 27.06.2012 n. 24189 di prot.
del ministro delle infrastrutture e trasporti, Corrado
Passera, registrata dalla Corte dei conti il 02.08.2012 e
resa nota in questi giorni.
L'atto ministeriale, indirizzato ai dipartimenti del
dicastero di Porta Pia, ai provveditorati interregionali
alle opere pubbliche e alle Capitanerie di porto, assume una
sua rilevanza di carattere generale per l'azione
amministrativa e per la gestione degli appalti pubblici. La
direttiva di Passera prende le mosse dalle considerazioni
che ormai da anni formula l'Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici rispetto alle risultanze dell'impiego
degli arbitrati nel settore degli appalti pubblici. I
n base a questi dati è stato introdotto ad opera
dell'articolo 3, comma 19, della legge 244/2007 il divieto
di fare ricorso alla procedura arbitrale, più volte rinviato
nella sua entrata in vigore, fino a che il decreto
legislativo 53/2010, eliminando la norma-divieto del 2007,
ha ammesso l'arbitrabilità delle controversie, vietando,
relativamente ai contratti pubblici, il compromesso (art.
807 cpc) una volta insorta la controversia.
Sono pertanto arbitrabili solo le controversie relative a
contratti già contenenti la clausola compromissoria. Nella
direttiva si ricorda, quindi, che nella relazione del 2009
l'Autorità oggi presieduta da Sergio Santoro, aveva
stigmatizzato il fatto che i giudizi arbitrali «comportano
costi elevati per le pubbliche amministrazioni, anche in
ragione delle alte percentuali di soccombenza rilevate».
In particolare il dato diffuso all'epoca dall'Autorità
vedeva una soccombenza, con riferimento complessivo agli
arbitrati liberi e amministrati, pari a circa il 94%, mentre
soltanto nel 6% dei casi le domande delle imprese erano
state rigettate. Anche con la relazione del 2010 l'organismo
di vigilanza, come si legge nella direttiva del ministero
delle infrastrutture, avevano avuto modo di evidenziare che
negli arbitrati liberi le stazioni appaltanti, nella quasi
totalità, sono risultate in tutto o in parte soccombenti.
A ciò si deve aggiungere il fatto, sempre riportato nella
direttiva, che «solo una minoranza dei procedimenti si
conclude entro il termine ordinatorio previsto per
l'emissione del lodo» (240 giorni). Da qui l'invito,
contenuto nella direttiva di «limitare al massimo la
previsione della clausola compromissoria in considerazione
della specifica natura e delle caratteristiche dell'appalto
e dell'opportunità rispetto alla singola fattispecie, del
ricorso alla giustizia arbitrale.
Il ministro chiede alle stazioni appaltanti di regolarsi nei
termini descritti anche per le fattispecie regolate dalla
normativa precedente al 2010, quando era prevista la facoltà
di declinare la competenza arbitrale (articolo
ItaliaOggi del 23.10.2012 - link a
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Maggiore tutela al responsabile servizi finanziari.
LA QUALIFICAZIONE/
Da valutare l'ipotesi di prevedere un albo di soggetti
idonei a ricoprire questo delicato ruolo.
Già nei primi mesi del 2008, su questo giornale, erano
usciti alcuni articoli che segnalavano i rischi insiti nella
debolezza del responsabile dei servizi finanziari e, per
questo, proponevano alcune soluzioni. Le norme introdotte
nel decreto enti locali (174/2012) vanno in quella direzione
e non possono che essere apprezzate.
Il ragioniere vede arricchirsi i suoi compiti, acquisendo un
ruolo di fatto sempre più di tutela della Repubblica prima
che di servizio al sindaco. Era già, certo, responsabile
della veridicità dei conti e tutore degli equilibri; oggi
diventa anche e soprattutto un importante presidio di
finanza pubblica. Da qui un aumento dei poteri (e delle
responsabilità). Il ragioniere dovrà apporre il suo visto su
ogni atto dell'ente locale che «comporti riflessi diretti o
indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul
patrimonio dell'ente». Praticamente su tutto.
È chiaro che, che a fronte di ciò, è necessario prevedere
una maggiore tutela di questa figura, che ha spesso
rischiato di diventare il vaso di coccio tra la prepotenza
di politici irresponsabili e la rigidità delle norme di
finanza pubblica.
Grazie al decreto, l'incarico di responsabile dei servizi
finanziari può essere revocato esclusivamente in caso di
gravi irregolarità nell'esercizio delle funzioni assegnate.
Non solo, la revoca può essere disposta solo previo parere
obbligatorio del ministero dell'Interno e della Ragioneria
generale dello Stato.
Non si può che essere d'accordo con una norma coraggiosa e
incisiva. Però tutto ciò non è ancora sufficiente: resta
comunque possibile, per limitarne l'effettività, disporre un
incarico a contratto a tempo determinato annuale (l'articolo
110 del Tuel prevede un tempo massimo pari a quello di
mandato, ma non uno minimo), così da poter tenere comunque
il dirigente sotto scacco.
Ancora si pensi all'assurdità (per altro non poco frequente)
del fatto che il comma 4 dell'articolo 110, preveda che il
contratto a tempo determinato è risolto di diritto nel caso
in cui l'ente locale dichiari il dissesto o venga a trovarsi
nelle situazioni strutturalmente deficitarie. In questo
caso, in pratica, è il ragioniere stesso, dopo aver avuto il
coraggio di denunciare la cosa a determinare il proprio
"licenziamento". Un evidente paradosso, che ha come
conseguenza il lasciare scoperta una posizione cruciale
proprio negli enti più in difficoltà.
Sarebbe giusto, piuttosto, prevedere una sanzione che
punisca tutti i dirigenti che hanno condotto l'ente in tale
stato, vietando l'inserimento di risorse aggiuntive nei
fondi per il trattamento accessorio del personale, anche di
livello dirigenziale, in modo da punire l'intero gruppo
dirigente del comune in crisi (e non solo il personale a
tempo determinato) e da rendere chiaro ai dipendenti per
primi i costi di una politica irresponsabile. Ancora,
dovrebbe essere assicurata una posizione di apicalità al
responsabile dei servizi finanziari. Oggi spesso si trovano
collocazioni strane e si ritrovano perfino interim a
dirigenti che fanno tutt'altro.
Infine occorre affrontare il tema della qualificazione
professionale dei ragionieri. A oggi, infatti, la scelta del
responsabile finanziario può essere fatta a completa
discrezione dell'ente, con il rischio di trovarsi in questa
posizione dentisti ed architetti. È dunque necessario
riflettere sulla opportunità di predisporre un registro di
idonei alla funzione, da cui i sindaci debbano attingere al
momento della nomina. Occorre gradualità, certo, ma il nodo
va affrontato.
Lo si è fatto per i revisori dei Comuni, i quali devono
avere una qualificazione professionale e frequentare dei
corsi di aggiornamento. Non si comprende perché non si possa
fare per i ragionieri degli enti locali (articolo Il Sole 24 Ore del 22.10.2012
- link a www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Aumenti
(a sorpresa) per gli stipendi della Pa.
La Consulta boccia anche la trattenuta del 2,5% sul Tfr: da
20 a 80 euro netti in più al mese, oltre agli arretrati
LA MOTIVAZIONE/
Ingiustificata la disparità di trattamento tra i lavoratori
di enti e amministrazioni e quelli del settore privato.
Gli stipendi pubblici e i rinnovi contrattuali sono
congelati da più di due anni, ma mentre il Governo lavora
per prolungare il blocco totale (indennità di vacanza
contrattuale compresa) almeno fino al 2015, arriva una
stecca pesante nel coro dell'austerità: a farla è la Corte
costituzionale, che nella sentenza 223/2012 non si è
limitata a cancellare il "contributo di solidarietà" a
carico degli statali e a tagliare le indennità speciali dei
magistrati, ma ha bocciato anche la trattenuta del 2,5% sul
Tfr dei dipendenti pubblici, non imposta, invece, ai
lavoratori del settore privato. Con un duplice risultato:
l'obbligo di restituzione degli arretrati, e un aumento in
busta paga rispetto ai livelli previsti dalla manovra estiva
del 2010 che aveva ingabbiato gli stipendi pubblici.
Il 2,5%
caduto sotto le forbici dei giudici delle leggi si calcola
infatti sulla retribuzione del dipendente, comprese le
indennità di posizione, e non sul solo accantonamento per il
trattamento di fine rapporto o di fine servizio, per cui la
novità può valere per i 3,3 milioni di dipendenti pubblici
più di molti rinnovi contrattuali anche siglati in tempi più
generosi degli attuali.
Per rendersene conto basta dare un'occhiata alle tabelle
pubblicate qui a fianco, che fanno i conti in tasca alle
figure-tipo che lavorano negli uffici dell'amministrazione
centrale o negli enti locali. Per un impiegato di un ente
territoriale, per esempio, la pronuncia costituzionale vale
332 euro netti di arretrati del 2011, 307 di competenza 2012
(i due valori sono diversi perché nel 2011 il Tfr era
soggetto a tassazione separata, più leggera di quella
ordinaria) e un incremento netto in busta paga da quasi 24
euro al mese. Le cifre, naturalmente, salgono insieme alla
posizione occupata dall'interessato nella gerarchia
dell'amministrazione, e non solo per l'aumento dello
stipendio di base. Se il dipendente è anche titolare di
«posizione organizzativa», cioè in pratica ha la
responsabilità di un ufficio, pur non essendo un dirigente,
nel calcolo entrano anche i 12.911 euro dell'indennità di
posizione, e il conto si gonfia: tra 2011 e 2012 l'arretrato
vale mille euro, e l'aumento netto in busta si attesta poco
sopra i 34 euro al mese.
Per un dirigente, la cifra in gioco raddoppia
abbondantemente. Gli stessi calcoli si replicano
nell'amministrazione centrale, dove a parità di qualifica
gli stipendi sono più alti di quelli che si incassano nel
territorio. Al vertice della piramide si incontrano i
dirigenti di prima fascia, che dalla novità attendono 2.300
euro di arretrati e 80 euro al mese in più rispetto alla
retribuzione ricevuta fino al mese scorso. Un'ottima
notizia, che soprattutto per questa categoria si accompagna
all'addio, anch'esso retroattivo, al contributo di
solidarietà che chiedeva il 5% della quota di retribuzione
superiore a 90mila euro e il 10% di quella che supera quota
150mila euro. Pessima, invece, è la notizia letta con gli
occhi delle amministrazioni e dei conti pubblici (si veda
anche l'altro articolo in pagina): negli uffici si è già
avviata la macchina delle richieste di restituzione delle
trattenute diventate illegittime ex post, le amministrazioni
in genere prendono tempo in attesa di istruzioni
ministeriali ma presto occorrerà mettere mano alla cassa.
A motivare la presa di posizione dei giudici costituzionali,
che in un colpo solo hanno abbattuto tre pilastri centrali
nella gabbia con cui la manovra estiva 2010 ha provato a
imbrigliare i costi del pubblico impiego, ci sono ovvie
ragioni di equità. La Corte ha richiamato gli articoli 3 e
53 della Costituzione, che tutelano la parità dei cittadini
davanti alla legge e la proporzionalità fra le richieste
fiscali e la capacità contributiva del singolo. Un euro,
spiegano i giudici, Costituzione alla mano, ha lo stesso
valore sia quando va in tasca a uno statale sia quando
finisce a un lavoratore privato, per cui deve essere
sottoposto a una tassazione identica. Un principio chiaro,
che ora impone al Governo di trovare strade nuove se vuole
recuperare i risparmi caduti sotto i colpi della Corte
(articolo Il Sole 24 Ore del
22.10.2012 - link a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Busta più pesante da novembre. Occorre riconoscere anche il pregresso.
La sentenza della Corte Costituzionale 223/2012 che ha
dichiarato illegittima la norma del Dl 78/2010 relativa alla
trattenuta sul Tfr rischia di far saltare i conti delle
amministrazioni pubbliche in materia di personale. I giudici
costituzionali non hanno portato solo vantaggi nelle tasche
dei dipendenti pubblici, ma hanno anche inflitto un duro
colpo alle casse comunali.
La norma bocciata
Da dove nasce il pasticcio? Nasce dall'obiettivo di togliere
un beneficio di cui i dipendenti pubblici godevano in
materia di trattamento di fine servizio, se assunti prima
del 2001, estendendo anche a questi lavoratori il regime del
Tfr previsto nel Codice civile. In sostanza, fino al 2010,
la normativa imponeva al datore di lavoro un accantonamento
sull'80% della retribuzione lorda (che è la base su cui si
calcola l'accantonamento del Tfr), con una trattenuta a
carico del dipendente pari al 2,5%, calcolata sempre sul
l'80% della retribuzione. La normativa pregressa prevedeva
dunque un accantonamento determinato su una base di computo
ridotta, e, a fronte di un miglior Tfr, esigeva la rivalsa
sul dipendente.
Nell'assetto che si è determinato in seguito alla norma
impugnata (Dl 78/2010, articolo 12, comma 10), la
percentuale di accantonamento opera sull'intera
retribuzione, con la conseguenza che il mantenimento della
rivalsa sul dipendente, solo per i dipendenti pubblici, in
assenza della «fascia esente», determina in un sol colpo una
riduzione della retribuzione e la riduzione della quantità
di Tfr maturata nel tempo.
Il legislatore aveva dunque dimenticato che, nel privato,
tutti gli oneri sono a carico del datore di lavoro, mentre
nei regimi pubblicistici era prevista appunto la ritenuta a
carico del dipendente (il 2,5% sull'80% della retribuzione).
L'illegittimità costituzionale si fonda sul principio di
parità di trattamento fra i dipendenti pubblici e quelli
privati, non sottoposti a rivalsa da parte del datore di
lavoro.
L'impatto della sentenza
Che cosa succede a questo punto? Le pubbliche
amministrazioni non sono più legittimate a trattenere ai
dipendenti la trattenuta ex Enpas, ex Inadel, e così via.
Inoltre, dovranno restituire le stesse ritenute effettuate
dal 01.01.2011 fino a oggi. Infatti, l'articolo 136
della Costituzione prevede che la norma dichiarata
incostituzionale cessa di avere effetto dal giorno
successivo alla pubblicazione della decisione. Considerando
che la sentenza è stata pubblicata il 17.10.2012
(Gazzetta ufficiale, prima serie speciale, n. 41),
l'applicazione inizierà con gli stipendi del mese di
novembre, poiché gli stipendi di ottobre sono già stati
elaborati.
Peraltro, sembra non si possa sfuggire nemmeno al
riconoscimento degli arretrati, poiché le sentenze hanno
efficacia anche nei confronti dei rapporti sorti prima della
dichiarazione di illegittimità, con la sola eccezione dei
rapporti esauriti. Gli enti dovranno dunque fare una
variazione di bilancio per far fronte a questi oneri
sopravvenuti, che sono quantificabili in una quota pari al
2% delle retribuzioni annue utili ai fini Tfr (che equivale
al 2,5% dell'80% della retribuzione).
Questo vuol dire che,
nel 2012, dovranno essere reperite le risorse per rimborsare
le trattenute effettuate nel 2011, quelle già trattenute
nella prima parte del 2012 e quelle non più recuperabili nel
2012 a fronte della sentenza. In pratica si tratta di circa
il 4%, da calcolare non solo sullo stipendio tabellare ma
anche sulle altre voci utili (come indennità di
amministrazione e retribuzione di posizione). Gli enti si
troveranno in enorme difficoltà o, più probabilmente, nella
impossibilità di rispettare i vincoli sul contenimento della
spesa di personale
(articolo Il Sole 24 Ore del
22.10.2012 - link a www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
URBANISTICA: La
variante di uno strumento urbanistico primario che imprime
una nuova destinazione ad aree che sono state già
urbanisticamente classificate per effetto della
strumentazione urbanistica previgente necessita di apposita
motivazione soltanto se le classificazioni preesistenti
siano assistite da specifiche aspettative in capo ai
rispettivi titolari che risultano fondate su atti di
contenuto concreto, nel senso che deve trattarsi di scelte
che incidano su particolari situazioni di affidamento, come
quelle derivanti da un piano di lottizzazione approvato, da
un giudicato di annullamento di un diniego di concessione
edilizia o dalla reiterazione di un vincolo scaduto.
---------------
Le osservazioni formulate dai proprietari interessati
costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione
degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari
aspettative, con la conseguenza che il loro rigetto non
richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente
che siano state esaminate e ragionevolmente ritenute in
contrasto con gli interessi e le considerazioni generali
poste a base della formazione del piano regolatore o della
sua variante, e che il merito della scelta relativa alla
localizzazione di un’opera pubblica è sottratto al sindacato
del giudice amministrativo, salvo profili di illogicità,
travisamento e contraddittorietà, con la conseguenza che la
P.A. non è tenuta a fornire al riguardo le specifiche
ragioni della scelta di un luogo piuttosto che di un altro,
rimanendo inibita al sindacato giurisdizionale sull’eccesso
di potere ogni possibilità di sovrapporre una nuova
graduazione di interessi in conflitto alla valutazione che
di essi sia stata già compiuta dall’organo competente, in
quanto profilo attinente alla discrezionalità tecnica e,
quindi, al merito dell’azione amministrativa, salvo che la
scelta risulti manifestamente illogica o abnorme e tale
vizio sia rilevabile prima facie.
A tale riguardo il Collegio ribadisce che la variante di uno
strumento urbanistico primario che imprime una nuova
destinazione ad aree che sono state già urbanisticamente
classificate per effetto della strumentazione urbanistica
previgente necessita di apposita motivazione soltanto se le
classificazioni preesistenti siano assistite da specifiche
aspettative in capo ai rispettivi titolari che risultano
fondate su atti di contenuto concreto, nel senso che deve
trattarsi di scelte che incidano su particolari situazioni
di affidamento, come quelle derivanti da un piano di
lottizzazione approvato, da un giudicato di annullamento di
un diniego di concessione edilizia o dalla reiterazione di
un vincolo scaduto (cfr. sul punto, ex plurimis,
Cons. Stato, Sez. IV, 04.05.2010 n. 2545).
---------------
A tale riguardo va innanzitutto
ricordato che le osservazioni formulate dai proprietari
interessati costituiscono un mero apporto collaborativo alla
formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a
peculiari aspettative, con la conseguenza che il loro
rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo
sufficiente che siano state esaminate e ragionevolmente
ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni
generali poste a base della formazione del piano regolatore
o della sua variante (cfr. sul punto, ex plurimis,
Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2010 n. 6911), e che il merito
della scelta relativa alla localizzazione di un’opera
pubblica è sottratto al sindacato del giudice
amministrativo, salvo profili di illogicità, travisamento e
contraddittorietà (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato,
Sez. IV, 03.08.2010 n. 6155), con la conseguenza che la P.A.
non è tenuta a fornire al riguardo le specifiche ragioni
della scelta di un luogo piuttosto che di un altro,
rimanendo inibita al sindacato giurisdizionale sull’eccesso
di potere ogni possibilità di sovrapporre una nuova
graduazione di interessi in conflitto alla valutazione che
di essi sia stata già compiuta dall’organo competente, in
quanto profilo attinente alla discrezionalità tecnica e,
quindi, al merito dell’azione amministrativa, salvo che la
scelta risulti manifestamente illogica o abnorme e tale
vizio sia rilevabile prima facie (cfr. ibidem)
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.10.2012 n. 5492 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Per
un verso, come tale, la determinazione dell'an e del
quantum del contributo concessorio non ha natura
autoritativa, giacché si tratta di un mero accertamento
dell'obbligazione contributiva, effettuato dalla p.a. in
base a rigidi parametri prefissati dalla legge e dai
regolamenti in tema di criteri impositivi, nei cui riguardi
essa è sfornita di potestà autoritative; conseguentemente,
la posizione del soggetto nei cui confronti è richiesto il
pagamento è di diritto soggettivo, non di interesse
legittimo e l'impugnazione del provvedimento del Comune è
soggetta all'ordinario termine di prescrizione.
Per un altro verso, ai sensi dell'art. 28, l.
24.11.1981 n. 689, applicabile ex art. 12 della stessa legge
a tutte le sanzioni amministrative di tipo affittivo, il
termine di prescrizione della sanzione irrogata per
ritardato pagamento del contributo dovuto per gli oneri di
urbanizzazione e per il costo di costruzione è di cinque
anni, e decorre dal giorno in cui è stata commessa la
violazione.
Preliminarmente, a superamento delle infondate eccezioni di
inammissibilità formulate dalla difesa comunale, va ribadito
che le controversie in materia di oneri d'urbanizzazione,
costo di costruzione e relative sanzioni per l'eventuale
ritardato pagamento, comprese quelle attinenti a domanda di
condono e relativa oblazione, sono attribuite alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e vertono
sull'esistenza o sulla misura di un'obbligazione
direttamente stabilita dalla legge.
In tale contesto per un verso, come tale, la
determinazione dell'an e del quantum del
contributo concessorio non ha natura autoritativa, giacché
si tratta di un mero accertamento dell'obbligazione
contributiva, effettuato dalla p.a. in base a rigidi
parametri prefissati dalla legge e dai regolamenti in tema
di criteri impositivi, nei cui riguardi essa è sfornita di
potestà autoritative; conseguentemente, la posizione del
soggetto nei cui confronti è richiesto il pagamento è di
diritto soggettivo, non di interesse legittimo e
l'impugnazione del provvedimento del Comune è soggetta
all'ordinario termine di prescrizione.
Per un altro verso, ai sensi dell'art. 28, l.
24.11.1981 n. 689, applicabile ex art. 12 della stessa legge
a tutte le sanzioni amministrative di tipo affittivo, il
termine di prescrizione della sanzione irrogata per
ritardato pagamento del contributo dovuto per gli oneri di
urbanizzazione e per il costo di costruzione è di cinque
anni, e decorre dal giorno in cui è stata commessa la
violazione (cfr., tra le altre, TAR Basilicata, 39/04/2008
n. 141; TAR Campania, Salerno, Sez, II, 22.04.2005 n. 647;
TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 08.10.2001 n. 1514; TAR
Sicilia, Catania, Sez. I, 08.05.2006 n. 701 e 08.03.2012, n.
600)
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 26.10.2012 n. 641 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: In
condominio ci vuole «solidarietà». Per l'ascensore il voto
unanime non è necessario.
Non ci si può opporre all'installazione dell'ascensore,
anche quando questo configura un'innovazione e il voto in
assemblea non è stato unanime. Questo perché la legge 13/89
di sostegno alla disabilità prevede la maggioranza che
rappresenti almeno un terzo dei condomini e dei millesimi e
non ha rilevanza il fatto che l'eliminazione delle barriere
architettoniche non sia citata nella delibera, «posto che la
delibera di messa in opera di un'installazione si muove
sostanzialmente all'evidenza in tale direzione».
Lo ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. II, con la
sentenza 25.10.2012 n. 18334.
Un condominio aveva votato a maggioranza (nel 1994!) la
messa in opera di un ascensore, la cui installazione avrebbe
però provocato il restringimento della luce del passaggio
sulla prima rampa e costituendo, in sostanza,
un'innovazione. Un condomino aveva impugnato la delibera per
nullità, ottenendo ragione dal Tribunale e dalla corte
d'Appello, sostenendo che la delibera non era stata fatta
esplicitamente per eliminare le barriere architettoniche e
che nel condominio non vi erano disabili.
Il Condominio aveva quindi presentato ricorso in Cassazione,
che però ha ribaltato il giudizio delle corti di merito,
affermando che:
e È irrilevante la circostanza che l'assemblea non avesse
avuto a oggetto una delibera attinente all'eliminazione
delle barriere architettoniche, dato che la decisione va di
fatto in quel senso;
r È irrilevante, ai fini dell'applicabilità della
maggioranza semplice prevista dalla legge 13/1989, la
presenza di disabili nel condominio, dato che la legge mira
a consentire a tutti i disabili di accedere negli edifici, e
non solo presso la propria abitazione e del resto il
riferimento alla presenza di disabili nella legge solo in
quanto consente ai disabili di installare servoscala o
strutture mobili a loro spese in caso di rifiuto da parte
del condominio;
t Anche il pregiudizio del decoro architettonico, invocato
dal resistente, va valutato nel senso di accertare se
determini o meno un effettivo deprezzamento dell'intero
fabbricato «essendo lecito il mutamento estetico che non
cagioni un pregiudizio economicamente valutabile o che, pur
arrecandolo, si accompagni a un'utilità la quale compensi
l'alterazione architettonica», cioè in sostanza
l'ascensore stesso.
La Cassazione, però conclude con l'affermazione di un
principio importante: quello della solidarietà condominiale.
Le norme di vicinato, per la Cassazione, vanno invocate in
quanto compatibili con la concreta struttura dell'edificio
e, nel caso del condominio, va valutato quando la loro
osservanza non sia «irragionevole» ai fini «dell'ordinato
svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti
condominiali». A maggior ragione, sottolinea la Corte,
si sarebbe dovuto tener conto di questa considerazione in
presenza di una decisione che «coinvolgeva i diritti
fondamentali dei disabili», come la stessa legge 13/1989
suggerisce, imponendo la diversa prospettiva di considerare
i problemi della disabilità non solo individuali ma come
parte di un carico della collettività.
---------------
Le indicazioni
01 | BARRIERE
È irrilevante il fatto che l'assemblea non abbia deliberato
esplicitamente sull'eliminazione delle barriere
architettoniche
02 | DISABILI
È irrilevante anche la presenza di disabili nel condominio,
ai fini dell'applicabilità della maggioranza di un terzo dei
condomini e dei millesimi prevista dalla legge 13/1989 al
posto dell'unanimità, in caso di installazione di ascensore
che costituisca un'innovazione
03 | IL DECORO
Il pregiudizio al decoro architettonico va valutato in
relazione al danno economico effettivo
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.10.2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Occorre convenire che è stato sancito l’obbligo
della partecipazione alla conferenza delle amministrazioni
convocate nonché l’impossibilità di esprimere al di fuori di
tale sede il proprio consenso o dissenso, di talché l’unica
maggioranza utile ai fini della validità delle decisioni che
si vanno ad assumere è quella che risulta fisicamente
presente alla adunanza.
Ratio dell’istituto è dunque anche quella di mediare e
contemperare “de visu” le diverse posizioni e
discrezionalità amministrative, così garantendo la
contestuale valutazione di tutti gli interessi in gioco e
del confronto reciproco. Obiettivi questi che sono utilmente
perseguibili –si ribadisce–soltanto attraverso la necessaria
presenza fisica di tutti i rappresentanti delle
amministrazioni convocate.
---------------
E' ammessa l’impugnativa da parte di una pubblica
amministrazione, nei confronti di un atto adottato da altre
PA, soltanto qualora l'organo ricorrente impugni un atto
ritenuto lesivo delle proprie competenze, in quanto, ad
esempio, invasivo e/o limitativo delle proprie attribuzioni.
La differenza tra la legittimazione e l’interesse del
privato ricorrente e quella del soggetto pubblico titolare
del potere sta nel fatto che mentre il primo, eccettuate le
ipotesi tassative di azione popolare, può agire in giudizio
solo a tutela di interessi privati, la p.a. agisce, anche
tramite gli strumenti processuali, a tutela di interessi
pubblici, che non sono però astratti interessi alla
legalità, ma quegli interessi pubblici particolari e
concreti che essa, di volta in volta, è chiamata a
perseguire, e in vista dei quali l'ordinamento le
attribuisce il potere amministrativo.
Ne discende che l’Amministrazione, quando ritiene che quegli
interessi pubblici particolari siano ostacolati o
compromessi, può senz'altro intraprendere le opportune
iniziative giurisdizionali ritenute opportune o necessarie
alla loro difesa.
Quanto al primo motivo del ricorso originariamente
interposto osserva il Collegio che il comma 1 dell'art.
14-quater della legge n. 241 del 1990 prevede che “il
dissenso di uno o più rappresentanti delle amministrazioni
ivi comprese quelle preposte alla tutela ambientale … a pena
di inammissibilità, deve essere manifestato nella conferenza
di servizi”.
Tale disposizione reca il principio dell'acquisizione del “dissenso
in conferenza”.
Il Collegio, pur consapevole di un diverso orientamento in
materia, ritiene di aderire a quella parte della
giurisprudenza (cfr. TAR Toscana, 01.03.2005, n. 978)
secondo cui “occorre convenire che è stato sancito
l’obbligo della partecipazione alla conferenza delle
amministrazioni convocate nonché l’impossibilità di
esprimere al di fuori di tale sede il proprio consenso o
dissenso, di talché l’unica maggioranza utile ai fini della
validità delle decisioni che si vanno ad assumere è quella
che risulta fisicamente presente alla adunanza”.
Ratio dell’istituto è dunque anche quella di mediare
e contemperare “de visu” le diverse posizioni e
discrezionalità amministrative, così garantendo la
contestuale valutazione di tutti gli interessi in gioco e
del confronto reciproco. Obiettivi questi che sono utilmente
perseguibili –si ribadisce–soltanto attraverso la necessaria
presenza fisica di tutti i rappresentanti delle
amministrazioni convocate.
A siffatta conclusione si perviene altresì mediante la
lettura di altre due disposizioni contenute nell’art.
14-ter:
a) al comma 1 ove si afferma che “la conferenza di
servizi … può svolgersi per via telematica”. E ciò al
fine di consentire a tutte le amministrazione di partecipare
in ogni caso, dunque anche ove risulti impossibile la
presenza fisica dei relativi rappresentanti;
b) al comma 2 ove si afferma che “i responsabili degli
sportelli unici per le attività produttive e per l'edilizia,
ove costituiti, o i Comuni, o altre autorità competenti
concordano con i Soprintendenti territorialmente competenti
il calendario, almeno trimestrale, delle riunioni delle
conferenze di servizi che coinvolgano atti di assenso o
consultivi comunque denominati di competenza del Ministero
per i beni e le attività culturali”. Ciò proprio al fine
di garantire la presenza fisica di una amministrazione,
quella dei beni culturali, che viene spesso coinvolta in
siffatte conferenze e per cui il legislatore ha ritenuto di
predisporre uno specifico calendario di attività.
Da quanto detto deriva che la posizione dell’autorità di
bacino doveva essere “riscontrata” in conferenza, e
non fuori di essa mediante fax.
Di qui la legittimità dell’operato della amministrazione
comunale intimata, la quale ha correttamente ritenuto in
prima istanza inammissibile il diniego opposto dall’autorità
di bacino in quanto espresso in modo irrituale, ossia al di
fuori del lavori della conferenza, sede naturale come già
detto di mediazione e confronto.
---------------
Per giurisprudenza costante
(cfr. Cons. Stato, sez. VI, 13.06.2011, n. 3567) è ammessa
l’impugnativa da parte di una pubblica amministrazione, nei
confronti di un atto adottato da altre PA, soltanto qualora
l'organo ricorrente impugni un atto ritenuto lesivo delle
proprie competenze, in quanto, ad esempio, invasivo e/o
limitativo delle proprie attribuzioni.
La differenza tra la legittimazione e l’interesse del
privato ricorrente e quella del soggetto pubblico titolare
del potere sta nel fatto che mentre il primo, eccettuate le
ipotesi tassative di azione popolare, può agire in giudizio
solo a tutela di interessi privati, la p.a. agisce, anche
tramite gli strumenti processuali, a tutela di interessi
pubblici, che non sono però astratti interessi alla
legalità, ma quegli interessi pubblici particolari e
concreti che essa, di volta in volta, è chiamata a
perseguire, e in vista dei quali l'ordinamento le
attribuisce il potere amministrativo.
Ne discende che l’Amministrazione, quando ritiene che quegli
interessi pubblici particolari siano ostacolati o
compromessi, può senz'altro intraprendere le opportune
iniziative giurisdizionali ritenute opportune o necessarie
alla loro difesa
(TAR Campania, Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.10.2012 n. 4259 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
decreto di apposizione di un vincolo sui beni privati deve
ritenersi illegittimo laddove non sia preceduto dalla
comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7
della L. 241/1990. L'obbligo di comunicazione in questione
costituisce espressione di un principio generale al quale è
consentito fare eccezione soltanto nel caso in cui, gli atti
prodromici alla concreta imposizione del vincolo stesso,
siano stati resi conoscibili dagli interessati con modalità
diverse.
Deve ritenersi illegittimo il decreto con cui il Direttore
Generale del Ministero per i beni culturali o ambientali che
appone un vincolo indiretto ex art. 21 L. 01.06.1939 n. 1089
su aree di proprietà privata, nel caso in cui l’adozione di
detto decreto non sia stata preceduta dalla comunicazione
agli interessati dell’avviso di avvio del procedimento.
Per un costante orientamento giurisprudenziale il
decreto di apposizione di un vincolo sui beni privati deve
ritenersi illegittimo laddove non sia preceduto dalla
comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7
della L. 241/1990. Detta Giurisprudenza ha sancito come
l’obbligo di comunicazione in questione costituisca
espressione di un principio generale al quale è consentito
fare eccezione soltanto nel caso in cui, gli atti prodromici
alla concreta imposizione del vincolo stesso, siano stati
resi conoscibili dagli interessati con modalità diverse (si
veda per tutti Tar Piemonte n. 1255/2003 e Consiglio di
Stato VI Sez. del 03/01/2000 n. 29).
Sempre il ricordato orientamento giurisprudenziale ha
affermato come debba ritenersi illegittimo il decreto con
cui il Direttore Generale del Ministero per i beni culturali
o ambientali che appone un vincolo indiretto ex art. 21 L. 01.06.1939 n. 1089 su aree di proprietà privata, nel caso
in cui l’adozione di detto decreto non sia stata preceduta
dalla comunicazione agli interessati dell’avviso di avvio
del procedimento (si veda sul punto anche Tar Lombardia
Brescia n. 1360/2004).
E’ del tutto evidente che lo scopo perseguito dell’avviso
ex art. 7 sopra citato, e per quanto attiene i vincoli
indiretti, vada individuato in ordine, non solo alla
possibilità del proprietario di partecipare al procedimento,
ma contestualmente alla facoltà, dello stesso, di poter
contribuire e incidere sulle determinazioni finali e
relative all’estensione del vincolo, scelte nell’ambito
delle quali non può non essere attribuito un ruolo
determinante alla collaborazione del privato.
Sul punto va comunque dato atto di un altrettanto
costante indirizzo giurisprudenziale, mutuato dalla
procedura espropriativa, in base al quale l’Amministrazione
ha il solo obbligo di individuare i proprietari sulla base
delle risultanze catastali senza necessità di esperire
ulteriori indagini sulla titolarità effettiva delle aree
(Consiglio Stato sez. IV 28.02.2002).
Tale ultimo orientamento deve ritenersi comunque non
applicabile alla materia ambientale e, ciò, in presenza
dell’art. 46 del D.Lgs. nella parte in cui detta norma ha
ritenuto di attribuire autonomo rilievo ai principi già
contenuti nell’art. 7 della L. n. 241/1990, prevedendo,
espressamente ed autonomamente, che l’avviso del
procedimento per la tutela indiretta va comunicato al “proprietario,
possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile cui
le prescrizioni di tutela indiretta si riferiscono”
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 25.10.2012 n. 1296 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA: Il
ricorso alla monetizzazione è ammesso ogni qual volta non
sia possibile, proprio in considerazione del livello di
urbanizzazione presente nelle aree interessate, dare luogo
alla realizzazione diretta degli interventi necessari da
parte del soggetto lottizzante e la cessione a favore
dell’amministrazione delle aree utilizzate.
L’ipotesi della monetizzazione è quindi equiparabile
all’ipotesi ordinaria, nella quale il concessionario ha
titolo allo scomputo totale o parziale della quota di
contributo per oneri di urbanizzazione qualora, in luogo
totale o parziale della stessa, si obblighi verso il Comune
alla cessione delle aree e delle opere da realizzare o già
esistenti.
Atteso che sia la normativa statale che quella regionale
prevede che il richiedente il titolo edilizio per la
realizzazione delle opere possa scomputare dagli oneri di
urbanizzazione (fermo restando quanto dovuto per il costo di
costruzione) il valore delle opere di urbanizzazione
realizzate in attuazione di una convenzione urbanistica,
proprio al fine di non dare luogo ad una duplicazione di
prestazione a fronte della medesima causa, ne deriva
l’illegittimità della previsione contenuta nella convenzione
proprio nella parte in cui ha escluso il futuro scomputo dei
suddetti oneri all’atto del rilascio del titolo edilizio
(fermo restando, così come previsto dall’ultimo comma
dell’art. 6, che dovrà in ogni caso essere versta
l’eventuale maggior somma che dovesse determinarsi con
riguardo agli oneri di urbanizzazione primaria).
Va in primo luogo dato atto che per il maggior
carico urbanistico derivante dall’intervento è stata
prevista la possibilità per i ricorrenti di procedere alla
monetizzazione degli standard necessari e di tale importo è
espressamente riportato l’ammontare in convenzione, sia per
le aree necessarie a parcheggio che per quelle destinate a
verde attrezzato primario.
Il ricorso alla monetizzazione è, come noto, ammesso ogni
qual volta non sia possibile, proprio in considerazione del
livello di urbanizzazione presente nelle aree interessate,
dare luogo alla realizzazione diretta degli interventi
necessari da parte del soggetto lottizzante e la cessione a
favore dell’amministrazione delle aree utilizzate.
L’ipotesi della monetizzazione è quindi equiparabile
all’ipotesi ordinaria, nella quale il concessionario ha
titolo allo scomputo totale o parziale della quota di
contributo per oneri di urbanizzazione qualora, in luogo
totale o parziale della stessa, si obblighi verso il Comune
alla cessione delle aree e delle opere da realizzare o già
esistenti.
Orbene, atteso che sia la normativa statale che quella
regionale prevede che il richiedente il titolo edilizio per
la realizzazione delle opere possa scomputare dagli oneri di
urbanizzazione (fermo restando quanto dovuto per il costo di
costruzione) il valore delle opere di urbanizzazione
realizzate in attuazione di una convenzione urbanistica,
proprio al fine di non dare luogo ad una duplicazione di
prestazione a fronte della medesima causa (cfr. sul punto
C.d.S., V, n. 807/1998 e TAR Veneto, II, n. 1132/2003), ne
deriva l’illegittimità della previsione contenuta nella
convenzione proprio nella parte in cui ha escluso il futuro
scomputo dei suddetti oneri all’atto del rilascio del titolo
edilizio (fermo restando, così come previsto dall’ultimo
comma dell’art. 6, che dovrà in ogni caso essere versta
l’eventuale maggior somma che dovesse determinarsi con
riguardo agli oneri di urbanizzazione primaria)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 25.10.2012 n. 1293 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: L'art.
21-nonies della l. n. 241/1990 ha codificato le seguenti
condizioni per l'esercizio del potere di annullamento di
ufficio da parte della P.A.:
a) l'illegittimità dell'atto;
b) la sussistenza di ragioni di interesse pubblico;
c) l'esercizio del potere entro un termine ragionevole;
d) la valutazione degli interessi dei destinatari e dei
controinteressati rispetto all'atto da rimuovere.
---------------
I provvedimenti di autotutela sono espressione
dell'esercizio di un potere tipicamente discrezionale
dell'Amministrazione che non ha alcun obbligo di attivarlo.
Qualora la P.A. intenda farlo deve, ai sensi dell'art.
21-nonies della L. n. 241/1990 e s.m.i., valutare
puntualmente la sussistenza, o meno, di un interesse che
giustifichi la rimozione dell'atto a fronte del
corrispondente sacrificio del privato. Tale valutazione non
può ritenersi dovuta nel caso di una situazione già definita
con provvedimento inoppugnabile, per cui è sempre stato
escluso l'obbligo dell'Amministrazione di provvedere in
autotutela su un proprio provvedimento divenuto
inoppugnabile.
---------------
L'introduzione dell’art. 21-nonies della L. n. 241 del 1990
ha avuto l’effetto di disciplinare i presupposti e le forme
dell'annullamento d'ufficio, ma non ha modificato la natura
del potere, e non lo ha trasformato da discrezionale in
obbligatorio, né ha previsto un interesse legittimo dei
privati all'autotutela amministrativa. Il potere di
autotutela resta un potere di merito, che si esercita previa
valutazione delle ragioni di pubblico interesse, valutazione
riservata alla p.a. e insindacabile da parte del giudice.
Ne consegue che il mancato esercizio del potere di
annullamento d'ufficio, al di là dell’esame dei presupposti
sopra ricordati, non può essere sindacato in sede
giurisdizionale, spettando solamente all'amministrazione
ogni valutazione e considerazione del proprio provvedimento,
degli interessi dei privati concorrenti e del loro
affidamento.
Come insegna sia la dottrina che la Giurisprudenza,
l'art. 21-nonies della l. n. 241/1990 ha codificato le
seguenti condizioni per l'esercizio del potere di
annullamento di ufficio da parte della P.A.:
a)
l'illegittimità dell'atto;
b) la sussistenza di ragioni di
interesse pubblico;
c) l'esercizio del potere entro un
termine ragionevole;
d) la valutazione degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati rispetto all'atto da
rimuovere (Consiglio di Stato Sez. V, sent. n. 1946 del
07.04.2010).
---------------
Va, infatti, ricordato
che secondo i principi pacificamente affermati dalla
Giurisprudenza (da ultimo Consiglio di Stato Sez. IV, sent.
n. 984 del 23-02-2012) .. ”i provvedimenti di autotutela
sono espressione dell'esercizio di un potere tipicamente
discrezionale dell'Amministrazione che non ha alcun obbligo
di attivarlo. Qualora la P.A. intenda farlo deve, ai sensi
dell'art. 21-nonies della L. n. 241/1990 e s.m.i., valutare
puntualmente la sussistenza, o meno, di un interesse che
giustifichi la rimozione dell'atto a fronte del
corrispondente sacrificio del privato. Tale valutazione non
può ritenersi dovuta nel caso di una situazione già definita
con provvedimento inoppugnabile, per cui è sempre stato
escluso l'obbligo dell'Amministrazione di provvedere in
autotutela su un proprio provvedimento divenuto
inoppugnabile (conferma della sentenza del Tar Lazio-Latina, sez. I, n. 187/2011)”.
L'introduzione dell’art. 21-nonies della L. n. 241 del
1990 ha avuto l’effetto di disciplinare i presupposti e le
forme dell'annullamento d'ufficio, ma non ha modificato la
natura del potere, e non lo ha trasformato da discrezionale
in obbligatorio, né ha previsto un interesse legittimo dei
privati all'autotutela amministrativa. Il potere di
autotutela resta un potere di merito, che si esercita previa
valutazione delle ragioni di pubblico interesse, valutazione
riservata alla p.a. e insindacabile da parte del giudice.
Ne consegue che il mancato esercizio del potere di
annullamento d'ufficio, al di là dell’esame dei presupposti
sopra ricordati, non può essere sindacato in sede
giurisdizionale, spettando solamente all'amministrazione
ogni valutazione e considerazione del proprio provvedimento,
degli interessi dei privati concorrenti e del loro
affidamento
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 25.10.2012 n. 1291 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
pergolato, rilevante ai fini edilizi, deve essere inteso
come un manufatto avente natura ornamentale, realizzato in
struttura leggera di legno o altro materiale di minimo peso,
facilmente amovibile in quanto privo di fondamenta, che
funge da sostegno per piante rampicanti, a mezzo delle quali
realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di modeste
dimensioni; di conseguenza non è riconducibile alla nozione
di pergolato una struttura costituita da pilastri e travi in
legno di importanti dimensioni, tali da rendere la struttura
solida e robusta e da farne presumere una permanenza
prolungata nel tempo, possa essere ricondotta alla nozione
di pergolato.
Non rientra nella nozione di pergolato -e pertanto non è
soggetta a d.i.a., bensì al rilascio di un permesso di
costruire- un'opera costituita da pilastri e travi in legno
di importanti dimensioni, atti a rendere la struttura solida
e robusta. In tal caso, infatti, le rilevanti dimensioni e
consistenza delle travi utilizzate, il loro stabile
collegamento (nella specie a mezzo di bulloni e perni
metallici) con una platea cementizia appositamente
realizzata, la notevole estensione superficiaria ricoperta e
la presenza di una copertura (ancorché precaria) risultano
chiaro indice dell'essere preordinata, l'opera, ad un
utilizzo prolungato nel tempo e non certo provvisorio.
Sul punto va ricordato l’esistenza di una
pronuncia del Consiglio di Stato (sez. IV del 29.09.2011 n. 5409) che ha affermato come …”il pergolato,
rilevante ai fini edilizi, deve essere inteso come un
manufatto avente natura ornamentale, realizzato in struttura
leggera di legno o altro materiale di minimo peso,
facilmente amovibile in quanto privo di fondamenta, che
funge da sostegno per piante rampicanti, a mezzo delle quali
realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di modeste
dimensioni; di conseguenza non è riconducibile alla nozione
di pergolato una struttura costituita da pilastri e travi in
legno di importanti dimensioni, tali da rendere la struttura
solida e robusta e da farne presumere una permanenza
prolungata nel tempo, possa essere ricondotta alla nozione
di pergolato".
Si consideri ancora come la Giurisprudenza prevalente
(per tutti si veda TAR Napoli Campania sez. VII 10.06.2011 n. 3099) ha sancito che ….”non rientra nella nozione
di pergolato -e pertanto non è soggetta a d.i.a., bensì al
rilascio di un permesso di costruire- un'opera costituita
da pilastri e travi in legno di importanti dimensioni, atti
a rendere la struttura solida e robusta. In tal caso,
infatti, le rilevanti dimensioni e consistenza delle travi
utilizzate, il loro stabile collegamento (nella specie a
mezzo di bulloni e perni metallici) con una platea
cementizia appositamente realizzata, la notevole estensione
superficiaria ricoperta e la presenza di una copertura
(ancorché precaria) risultano chiaro indice dell'essere
preordinata, l'opera, ad un utilizzo prolungato nel tempo e
non certo provvisorio”
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 25.10.2012 n. 1290 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L'ingiunzione
a demolire le opere edilizie abusivamente realizzate è da
considerare un atto palesemente dovuto e, ciò, … ”con la
conseguenza che l'omessa comunicazione dell'avvio del
relativo procedimento risulta irrilevante, anche in
considerazione di quanto disposto dall'art. 21-octies della
L. 07.08.1990, n. 241, introdotto dall'art. 14 della l.
11.02.2005, n. 15, il quale esclude possa essere annullato
il provvedimento qualora sia palese che il suo contenuto
dispositivo non può essere diverso da quello in concreto
adottato".
Risulta altrettanto
infondato il secondo motivo alla base del ricorso in base al
quale l’illegittimità del provvedimento di demolizione viene
ricondotta alla mancanza dell’avviso di avvio del
procedimento di cui all’art. 7 della L. n. 241/1990.
E’ necessario ricordare come, l'ingiunzione a demolire le
opere edilizie abusivamente realizzate sia considerata un
atto palesemente dovuto e, ciò, … ”con la conseguenza che
l'omessa comunicazione dell'avvio del relativo procedimento
risulta irrilevante, anche in considerazione di quanto
disposto dall'art. 21-octies della L. 07.08.1990, n. 241,
introdotto dall'art. 14 della l. 11.02.2005, n. 15, il
quale esclude possa essere annullato il provvedimento
qualora sia palese che il suo contenuto dispositivo non può
essere diverso da quello in concreto adottato (Tar
Toscana, sez. III, 10.10.2003, n. 5236 e Cds Sez. IV, sent.
n. 5226 del 16-09-2011)”
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 25.10.2012 n. 1290 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Va
ricordato il dominante indirizzo della giurisprudenza
amministrativa in materia di impugnazione di piani
urbanistici, anche attuativi, per il quale, ai fini del
fondamento della legittimazione e dell’interesse ad agire,
non é sufficiente il requisito della “vicinitas” dell’area
oggetto dell’intervento urbanistico, esigendosi invece dal
ricorrente la prova concreta della specifica lesione inferta
dagli atti impugnati alla propria sfera giuridica.
Questo per evitare che un’eccessiva dilatazione del concetto
di “interesse ad agire” (ex art. 100 del codice di procedura
civile), applicato ai piani urbanistici, consenta
l’impugnativa anche a soggetti titolari di un interesse di
mero fatto.
La giurisprudenza della scrivente Sezione, dal canto suo, ha
anch’essa richiesto, ai fini della legittimazione
all’impugnazione di piani urbanistici, anche attuativi, che
l’esponente fornisca la prova non solo della vicinanza del
proprio fondo a quello oggetto del piano, ma anche
dell’effettività del danno derivante dall’intervento
urbanistico.
Ritiene il Tribunale, per doverosa completezza
espositiva, di esaminare anche l’ulteriore eccezione
pregiudiziale sollevata dalle parti intimante, vale a dire
quella di inammissibilità dell’impugnativa per difetto di
legittimazione e/o di interesse degli esponenti.
Anche tale eccezione risulta fondata, alla luce del
dominante indirizzo della giurisprudenza amministrativa in
materia di impugnazione di piani urbanistici, anche
attuativi, per la quale, ai fini del fondamento della
legittimazione e dell’interesse ad agire, non é sufficiente
il requisito della “vicinitas” dell’area oggetto
dell’intervento urbanistico, esigendosi invece dal
ricorrente la prova concreta della specifica lesione inferta
dagli atti impugnati alla propria sfera giuridica.
Questo per evitare che un’eccessiva dilatazione del concetto
di “interesse ad agire” (ex art. 100 del codice di procedura
civile), applicato ai piani urbanistici, consenta
l’impugnativa anche a soggetti titolari di un interesse di
mero fatto (cfr., fra le tante, Consiglio di Stato, sez. IV,
13.07.2010, n. 4545 e sez. IV, 30.11.2010, n. 8365, la quale
ultima ha confermato la sentenza di questa Sezione II, n.
5170/2009).
La giurisprudenza della scrivente Sezione, dal canto suo, ha
anch’essa richiesto, ai fini della legittimazione
all’impugnazione di piani urbanistici, anche attuativi, che
l’esponente fornisca la prova non solo della vicinanza del
proprio fondo a quello oggetto del piano, ma anche
dell’effettività del danno derivante dall’intervento
urbanistico (si vedano: TAR Lombardia, Milano, sez. II,
22.11.2011, n. 2824, 08.02.2011, n. 383; 17.01.2011, n. 90;
09.05.2008, n. 1551, con la giurisprudenza ivi richiamata, fra
cui di importanza rilevante è la decisione del Consiglio di
Stato, sez. IV, 10.04.2008, n. 1548)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.10.2012 n. 2594 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
specifica disciplina regionale sul mutamento di destinazione
d’uso deve essere letta ed interpretata alla luce dei
principi fondamentali e delle disposizioni più generali
risultanti dalla legislazione statale (DPR 380/2001) ed
anche dalla stessa legge regionale 12/2005: si verte,
infatti, nella materia del “governo del territorio”, oggetto
di potestà legislativa regionale concorrente ai sensi
dell’art. 117, comma 3, della Costituzione, con conseguente
necessità di rispetto dei principi fondamentali della
legislazione statale.
La legislazione regionale, all’art. 51, comma 1, citato, se
da una parte ammette in via di principio il passaggio da una
destinazione all’altra, fa espressamente salve le esclusioni
previste dallo strumento urbanistico generale (<<…salvo
quelle eventualmente escluse dal PGT>>).
L’art. 52, comma 2°, del resto, prevede per i mutamenti
d’uso senza opere edilizie un obbligo di semplice
comunicazione all’Amministrazione, purché i suddetti
mutamenti siano <<…conformi alle previsioni urbanistiche
comunali ed alla normativa igienico-sanitaria>>.
Quanto alla normativa statale, l’art. 32, comma 1, del DPR
380/2001, qualifica come “variazione essenziale” –sanzionata
ai sensi del precedente art. 31 del DPR 380/2001 con
l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il
mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche
senza opere edilizie), che implichi una variazione degli
standard previsti dal DM 02.04.1968, n. 1444.
Appare quindi evidente che il mutamento di destinazione
d’uso, anche senza opere edilizie, non può costituire una
operazione edilizia o urbanistica per così dire “neutra”,
dovendo l’Amministrazione verificare se il cambio d’uso non
abbia inciso anche sul carico urbanistico della zona.
In questo senso appare orientata anche la giurisprudenza
amministrativa, per la quale il mutamento di destinazione
d’uso è rilevante se avviene fra <<categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico>>, dovendosi in tal
caso verificare la variazione del carico urbanistico;
parimenti è stato affermato che, indipendentemente
dall’esecuzione fisica di opere, rileva il passaggio
dell’immobile ad una categoria funzionalmente autonoma dal
punto di vista urbanistico, con conseguente aumento del
carico; in altri termini si configura una “trasformazione
edilizia” quando la stessa sia produttiva di vantaggi
economici connessi all’utilizzazione del bene immobile,
anche senza l’esecuzione di opere edilizie.
Questo TAR ha chiarito (cfr. TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 27.07.2012, n. 2146), che la specifica disciplina
regionale sul mutamento di destinazione d’uso deve essere
letta ed interpretata alla luce dei principi fondamentali e
delle disposizioni più generali risultanti dalla
legislazione statale (DPR 380/2001) ed anche dalla stessa
legge regionale 12/2005: si verte, infatti, nella materia
del “governo del territorio”, oggetto di potestà legislativa
regionale concorrente ai sensi dell’art. 117, comma 3, della
Costituzione, con conseguente necessità di rispetto dei
principi fondamentali della legislazione statale.
La legislazione regionale, all’art. 51, comma 1, citato, se
da una parte ammette in via di principio il passaggio da una
destinazione all’altra, fa espressamente salve le esclusioni
previste dallo strumento urbanistico generale (<<…salvo
quelle eventualmente escluse dal PGT>>).
L’art. 52, comma 2°, del resto, prevede per i mutamenti
d’uso senza opere edilizie un obbligo di semplice
comunicazione all’Amministrazione, purché i suddetti
mutamenti siano <<…conformi alle previsioni urbanistiche
comunali ed alla normativa igienico-sanitaria>>.
Quanto alla normativa statale, l’art. 32, comma 1, del DPR
380/2001, qualifica come “variazione essenziale” –sanzionata ai sensi del precedente art. 31 del DPR 380/2001
con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il
mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche
senza opere edilizie), che implichi una variazione degli
standard previsti dal DM 02.04.1968, n. 1444.
Appare quindi evidente che il mutamento di destinazione
d’uso, anche senza opere edilizie, non può costituire una
operazione edilizia o urbanistica per così dire “neutra”,
dovendo l’Amministrazione verificare se il cambio d’uso non
abbia inciso anche sul carico urbanistico della zona.
In questo senso appare orientata anche la giurisprudenza
amministrativa, per la quale il mutamento di destinazione
d’uso è rilevante se avviene fra <<categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico>>, dovendosi in tal
caso verificare la variazione del carico urbanistico (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 13.7.2010, n. 4546, con la
giurisprudenza ivi richiamata); parimenti è stato affermato
che, indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere,
rileva il passaggio dell’immobile ad una categoria
funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico, con
conseguente aumento del carico; in altri termini si
configura una “trasformazione edilizia” quando la stessa sia
produttiva di vantaggi economici connessi all’utilizzazione
del bene immobile, anche senza l’esecuzione di opere
edilizie (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14.10.2011, n.
5539, con le pronunce in essa richiamate ed anche TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 11.02.2011, n. 468)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.10.2012 n. 2593 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA: La
scelta della monetizzazione non costituisce una sorta di
diritto potestativo del privato, bensì una facoltà per
l’Amministrazione, che può quindi escluderla qualora appaia
in ogni caso necessaria la concreta realizzazione di opere
di urbanizzazione nella zona.
La disponibilità manifestata
dalla ricorrente alla monetizzazione dei c.d. standard non
assume anch’essa rilievo, visto che la scelta della
monetizzazione non costituisce una sorta di diritto
potestativo del privato, bensì una facoltà per
l’Amministrazione, che può quindi escluderla qualora appaia
in ogni caso necessaria la concreta realizzazione di opere
di urbanizzazione nella zona (cfr. art. 46, comma 1, lett.
b, della LR 12/2005 e in giurisprudenza, TAR Lombardia,
Brescia, 13.07.2005, n. 749)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.10.2012 n. 2593 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA:
Se vi è contrasto tra le indicazioni grafiche del
piano regolatore generale e le prescrizioni normative, sono
queste ultime a prevalere, in quanto in sede di
interpretazione degli strumenti urbanistici, le risultanze
grafiche possono solo chiarire e completare quanto è
normativamente stabilito nel testo, ma non possono
sovrapporsi o negare quanto risulta da questo.
E’ principio generale quello secondo il quale, se vi è
contrasto tra le indicazioni grafiche del piano regolatore
generale e le prescrizioni normative, sono queste ultime a
prevalere, in quanto in sede di interpretazione degli
strumenti urbanistici, le risultanze grafiche possono solo
chiarire e completare quanto è normativamente stabilito nel
testo, ma non possono sovrapporsi o negare quanto risulta da
questo (Cons. Stato, V, 22.08.2003, n. 4734; sez. IV,
12.06.2007, n. 3081) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 23.10.2012 n. 5411 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La nozione di territorio coperto da bosco nella
legislazione paesaggistica deve essere ricavata non solo in
senso naturalistico ma anche normativo, riferendosi a
provvedimenti legislativi, nazionali e regionali, ed ad atti
amministrativi generali o particolari, sicché non è
possibile adottare, alla luce della "ratio" della legge n.
431 del 1985, una concezione quantitativa e restrittiva di
bosco, dovendosi includere anche le aree limitrofe che
servono per la salvaguardia e l'ampliamento, attesa la
significativa differenza tra bosco e territorio coperto da
bosco, che implica un elemento tipizzante quella zona.
Peraltro, l’adozione da parte del legislatore della formula
"territori coperti da foreste e boschi", in luogo di quella
prevista dal d.m. 01.09.1984, che sottoponeva a
generalizzato vincolo paesaggistico "i boschi e le foreste",
implica il riferimento ad una nozione normativa di bosco che
non è circoscritta ai soli terreni boscati, ma ad un
elemento tipizzante il territorio che non può essere
ricoperto da alberi e può servire per salvaguardare il
bosco.
In altri termini, il concetto di bosco è da intendersi a
livello eco-sistemico, non solo quale formazione vegetale ma
quale insieme di elementi biotici, abiotici e paesaggistici
che ne connotano il proprio essere peculiare.
Ne consegue che la presenza di essenze arboree e floreali
formatesi spontaneamente dimostra la naturale vocazione del
terreno a bosco, peraltro normale nei terreni limitrofi ai
boschi, allorché venga dissodato il terreno e tolto il manto
erboso, come è avvenuto nel caso in esame, in cui è stato
effettuato lo scavo propedeutico alla edificazione del
fabbricato rurale.
La nozione di territorio coperto da bosco nella legislazione paesaggistica
ed in particolare nella legge n. 431 del 1985 ora inserita
nel testo del d.lgs. n. 490 del 1999, deve essere ricavata
non solo in senso naturalistico ma anche normativo,
riferendosi a provvedimenti legislativi, nazionali e
regionali, ed ad atti amministrativi generali o particolari,
sicché non è possibile adottare, alla luce della "ratio"
della legge n. 431 del 1985, una concezione quantitativa e
restrittiva di bosco, dovendosi includere anche le aree
limitrofe che servono per la salvaguardia e l'ampliamento,
attesa la significativa differenza tra bosco e territorio
coperto da bosco, che implica un elemento tipizzante quella
zona (Cassazione penale, sez. III, 09.06.1994, n. 7556).
Peraltro, l’adozione da parte del legislatore della formula
"territori coperti da foreste e boschi", in luogo di quella
prevista dal d.m. 01.09.1984, che sottoponeva a
generalizzato vincolo paesaggistico "i boschi e le foreste",
implica il riferimento ad una nozione normativa di bosco che
non è circoscritta ai soli terreni boscati, ma ad un
elemento tipizzante il territorio che non può essere
ricoperto da alberi e può servire per salvaguardare il
bosco.
In altri termini, il concetto di bosco è da intendersi a
livello eco-sistemico, non solo quale formazione vegetale
ma quale insieme di elementi biotici, abiotici e
paesaggistici che ne connotano il proprio essere peculiare.
Ne consegue che la presenza di essenze arboree e floreali
formatesi spontaneamente dimostra la naturale vocazione del
terreno a bosco, peraltro normale nei terreni limitrofi ai
boschi, allorché venga dissodato il terreno e tolto il manto
erboso, come è avvenuto nel caso in esame, in cui è stato
effettuato lo scavo propedeutico alla edificazione del
fabbricato rurale
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 23.10.2012 n. 5410 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
E’ onere di chi intende edificare in zona
soggetta a vincolo richiedere all’amministrazione preposta
alla tutela del vincolo il parere o nulla osta.
Non può, pertanto, essere imputato al Comune che ha
rilasciato il titolo a costruire la responsabilità per non
aver chiesto il parere o nulla osta dell’autorità preposta
alla tutela del paesaggio.
---------------
La materia della tutela delle zone boscate e dell’ecosistema
forestale è disciplinato a livello statale dal RD n. 3267
del 1923 e dal d.lgs. n. 227 del 2001 ed a livello regionale
dalla l.regionale n. 27 del 2004.
Le citate disposizioni normative sono preposte alla cura di
un interesse pubblico del tutto differente e distinto dalla
tutela e valorizzazione del paesaggio e dell’ambiente
tutelato da un altro corpo normativo: art. 734 c.p.; d.lgs.
n. 42 del 2004; d.lgs. n. 152 del 2006; art. 80 e segg.
della l.reg. Lombardia n. 13 del 2005.
In caso di costruzione in zona sottoposta a vincolo
paesistico e a vincolo forestale occorrono l’autorizzazione
forestale al mutamento di destinazione d’uso da foresta a
zona antropizzata da parte dell’ente preposta alla tutela
boschiva e l’autorizzazione paesaggistica da parte dell’ente
preposto alla tutela paesaggistica oltre naturalmente al
permesso di costruire di competenza del Comune.
---------------
La realizzazione di qualunque opera in assenza della
prescritta autorizzazione forestale costituisce un illecito
amministrativo sanzionato dagli artt. 4 e 23 della l.reg. n.
27 del 2004.
In particolare, l’art. 23 della l.reg. citata stabilisce che
la sanzione pecuniaria sia sempre dovuta per il fatto di
aver eseguito opere in assenza di autorizzazione (illecito
formale) ed in caso di mancato ottenimento o mancata
richiesta di autorizzazione in sanatoria, il ripristino
dello stato dei luoghi.
---------------
La sanzione ripristinatoria nella materia della tutela del
bosco prescinde dal danno ambientale ed è dovuta per il solo
fatto dell’eliminazione di una parte di bosco.
Essa è prevista dalla legge, oltre ed a prescindere da
quella pecuniaria, sempre e comunque dovuta.
E’, infatti, onere di chi
intende edificare in zona soggetta a vincolo richiedere
all’amministrazione preposta alla tutela del vincolo il
parere o nulla osta.
Non può, pertanto, essere imputato al Comune che ha
rilasciato il titolo a costruire la responsabilità per non
aver chiesto il parere o nulla osta dell’autorità preposta
alla tutela del paesaggio.
Quanto al potere di verifica della compatibilità
paesaggistica delle opere esso è autonomo rispetto a quello
riguardante il controllo edilizio–urbanistico.
Nella Regione Lombardia, peraltro, le distinte funzioni sono
attribuite ad amministrazioni diverse, precisamente la
tutela paesaggistica è affidata alla Provincia, mentre
quella urbanistica ed edilizia spetta al Comune, sicché la
verifica della compatibilità paesaggistica non poteva essere
richiesta al Comune.
In conclusione, la circostanza che i ricorrenti disponessero
di permesso di costruire e che in forza di tale titolo
abbiano effettuato le operazioni di taglio di arbusti, non
esclude la configurabilità della violazione in materia
paesaggistica.
In ordine all’asserita duplicazione delle ordinanze
ingiunzioni, in quanto si fondano sulla stessa violazione
accertata dal Corpo Forestale dello Stato, come rilevato dal
giudice di primo grado, la duplicazione non sussiste poiché
le norme violate sono tra loro in rapporto di specialità con
conseguente concorso apparente di norme, poiché tutelano
distinti beni giuridici non sovrapponibili tra loro.
La materia della tutela delle zone boscate e dell’ecosistema
forestale è disciplinato a livello statale dal RD n. 3267
del 1923 e dal d.lgs. n. 227 del 2001 ed a livello
regionale dalla l.regionale n. 27 del 2004.
Le citate disposizioni normative sono preposte alla cura di
un interesse pubblico del tutto differente e distinto dalla
tutela e valorizzazione del paesaggio e dell’ambiente
tutelato da un altro corpo normativo: art. 734 c.p.; d.lgs.
n. 42 del 2004; d.lgs. n. 152 del 2006; art. 80 e segg.
della l.reg. Lombardia n. 13 del 2005.
In caso di costruzione in zona sottoposta a vincolo
paesistico e a vincolo forestale occorrono l’autorizzazione
forestale al mutamento di destinazione d’uso da foresta a
zona antropizzata da parte dell’ente preposta alla tutela
boschiva, nel caso la Provincia di Como e l’autorizzazione
paesaggistica da parte dell’ente preposto alla tutela
paesaggistica, nel caso ugualmente la Provincia di Como,
oltre naturalmente al permesso di costruire di competenza
del Comune.
Né può trarre in inganno il fatto che l’autorizzazione
paesaggistica e quella forestale siano di competenza dello
stesso ente, atteso che vengono rilasciate a seguito di due
diversi procedimenti, essendo diverse le finalità della
tutela.
La realizzazione di qualunque opera in assenza della
prescritta autorizzazione forestale costituisce un illecito
amministrativo sanzionato dagli artt. 4 e 23 della l.reg.
n. 27 del 2004.
In particolare, l’art. 23 della l.reg. citata stabilisce
che la sanzione pecuniaria sia sempre dovuta per il fatto di
aver eseguito opere in assenza di autorizzazione (illecito
formale) ed in caso di mancato ottenimento o mancata
richiesta di autorizzazione in sanatoria, il ripristino
dello stato dei luoghi.
Appare evidente a tal punto l’equivoco in cui sono incorsi
gli appellanti che hanno ritenuto che l’amministrazione
provinciale abbia proceduto ad emanare due sanzioni per uno
stesso fatto, senza considerare che con lo stesso fatto
erano stati commessi due distinti illeciti amministrativi.
---------------
La sanzione ripristinatoria nella materia della tutela del bosco
prescinde dal danno ambientale ed è dovuta per il solo fatto
dell’eliminazione di una parte di bosco (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 02.06.2000, n. 3184).
Essa è prevista dalla legge, oltre ed a prescindere da
quella pecuniaria, sempre e comunque dovuta.
Né vi è, quindi, alcuna contraddizione tra quanto valutato
dal settore ambiente in ordine alla opportunità del
ripristino dello stato dei luoghi e l’obbligo di ripristino
dei luoghi in mancanza di sanatoria nella fattispecie di
danno ambientale per eliminazione di essenze arboree.
---------------
L’art. 8, comma 1, della
l. n. 689 del 1981 stabilisce che “Salvo che sia
diversamente stabilito dalla legge, chi con una azione od
omissione viola diverse disposizioni che prevedono sanzioni
amministrative e commette più violazioni della stessa
disposizione, soggiace alla sanzione prevista per la
violazione più grave, aumentata sino al triplo”.
La norma di portata generale non consente alcun distinguo
tra illeciti formali o sostanziali.
Il divieto di cumulo di sanzioni per il caso di più illeciti
commessi con un’unica azione o un unico disegno criminoso
prescinde dalla valutazione del tipo di reato e delle
diverse autorità cui spetta il potere sanzionatorio, essendo
una disposizione a favore del reo, onde mitigare l’effetto
sanzionatorio dell’azione delittuosa che contestualmente
abbia causato più violazioni distintamente tutelate.
La regola dettata dall’art. 8 della l. n. 689 del 1981 è
conforme a principi di civiltà giuridica, sicché la sua
applicazione non può essere esclusa da difficoltà pratiche,
quali la mancanza di criteri normativi per la determinazione
delle sanzioni.
Ben può valutarsi in concreto quale sia la sanzione più
grave applicata dall’amministrazione ed applicare
successivamente il correttivo dell’aumento del triplo.
Nel caso, come correttamente rilevato dal TAR, essendo stata
parametrata la sanzione in materia paesaggistica ai criteri
fissati dall’art. 23 della l.reg. n. 27 del 2004 che
sanzionano gli illeciti forestali, applicati anche dal
Dirigente di Polizia locale, v’era equivalenza delle
sanzioni e, quindi era di semplice applicazione il criterio
indicato dall’art. 8, comma 1, della l. n. 689 del 1981 (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 23.10.2012 n. 5410 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’istituto dell’avvalimento è di immediata e
generale applicazione. E ciò in coerenza con un
condivisibile indirizzo giurisprudenziale.
L’istituto di matrice comunitaria è finalizzato a consentire
in concreto la concorrenza aprendo il mercato ad operatori
economici di per sé privi di requisiti di carattere
economico–finanziario, tecnico–organizzativo, consentendo di
avvalersi dei requisiti di capacità di altre imprese.
Gli articoli 47 e 48 della Direttiva 2004/18/CE,
rispettivamente rubricati “Capacità economica e finanziaria”
e “Capacità tecniche e professionali” individuano i
requisiti che debbono possedere gli operatori per contrarre
con la p.a.. L’art. 48, dopo aver elencato i diversi
requisiti richiesti, stabilisce che un operatore economico,
per un determinato appalto, può fare affidamento sulla
capacità di altri soggetti a prescindere dalla natura
giuridica dei suoi legami con questi ultimi.
L’art. 49 del d.lgs. n. 163 del 2006 , che ha trasfuso
nell’ordinamento italiano l’art. 48 della direttiva, afferma
che il concorrente “…può soddisfare la richiesta relativa al
possesso dei requisiti di carattere economico–finanziario,
tecnico–organizzativo, ovvero di attestazione della
certificazione SOA, avvalendosi dei requisiti di un altro
soggetto o dell’attestazione SOA di altro soggetto”.
Il successivo art. 50, rubricato “avvalimento nel caso di
operatività di sistemi di attestazione o di sistemi di
qualificazione”, disciplina le modalità attraverso le quali
un concorrente sprovvisto di attestazione SOA può avvalersi
in via generale e per un determinato periodo,
dell’attestazione di altro operatore economico.
La formulazione del citato art. 49 è, dunque, molto ampia e
non prevede alcun divieto, sicché ben può l’avvalimento
riferirsi anche alla certificazione di qualità di altro
operatore economico, attenendo essa ai requisiti di capacità
tecnica, non rilevando, in contrario, che la certificazione
di qualità è requisito immanente l’impresa.
Invero, la certificazione di qualità, essendo connotata dal
precipuo fine di valorizzare gli elementi di eccellenza
dell’organizzazione complessiva, è da considerarsi anch’essa
requisito di idoneità tecnico organizzativa dell’impresa, da
inserirsi tra gli elementi idonei a dimostrare la capacità
tecnico professionale di un’impresa, assicurando che
l’impresa cui sarà affidato il servizio o la fornitura sarà
in grado di effettuare la prestazione nel rispetto di un
livello minimo di qualità accertato da un organismo a ciò
predisposto.
In tale ottica, afferendo la certificazione di qualità alla
capacità tecnica dell’imprenditore, essa è coerente
all’istituto dell’avvalimento quale disciplinato con l’art.
49 del d.lgs. n. 163 del 2006, ma lo è anche con la
procedura di gara qui in questione, con le norme del
disciplinare di gara e, segnatamente, con la disposizione
del capo 2, lett. 2).
E’ infondato il primo articolato motivo d’appello, con il quale la
ricorrente assume l’erroneità della sentenza di primo grado,
nella parte in cui avrebbe ritenuto ammissibile il ricorso
all’avvalimento anche con riferimento alla certificazione di
qualità, malgrado la previsione della lex di gara
consentisse di avvalersi dell’istituto solamente con
riguardo ai requisiti di capacità tecnica.
Come ben evidenziato in sentenza, l’istituto dell’avvalimento
è di immediata e generale applicazione. E ciò, rileva la
Sezione, in coerenza con un condivisibile indirizzo
giurisprudenziale (cfr. Cons. Stato III, 18.04.2011 e V,
23.05.2011, n. 3066).
L’istituto di matrice comunitaria è finalizzato a consentire
in concreto la concorrenza aprendo il mercato ad operatori
economici di per sé privi di requisiti di carattere
economico–finanziario, tecnico–organizzativo,
consentendo di avvalersi dei requisiti di capacità di altre
imprese.
Gli articoli 47 e 48 della Direttiva 2004/18/CE,
rispettivamente rubricati “Capacità economica e finanziaria”
e “Capacità tecniche e professionali” individuano i
requisiti che debbono possedere gli operatori per contrarre
con la p.a.. L’art. 48, dopo aver elencato i diversi
requisiti richiesti, stabilisce che un operatore economico,
per un determinato appalto, può fare affidamento sulla
capacità di altri soggetti a prescindere dalla natura
giuridica dei suoi legami con questi ultimi.
L’art. 49 del d.lgs. n. 163 del 2006 , che ha trasfuso
nell’ordinamento italiano l’art. 48 della direttiva, afferma
che il concorrente “…può soddisfare la richiesta relativa al
possesso dei requisiti di carattere economico–finanziario,
tecnico–organizzativo, ovvero di attestazione della
certificazione SOA, avvalendosi dei requisiti di un altro
soggetto o dell’attestazione SOA di altro soggetto”.
Il successivo art. 50, rubricato “avvalimento nel caso di
operatività di sistemi di attestazione o di sistemi di
qualificazione”, disciplina le modalità attraverso le quali
un concorrente sprovvisto di attestazione SOA può avvalersi
in via generale e per un determinato periodo,
dell’attestazione di altro operatore economico.
La formulazione del citato art. 49 è, dunque, molto ampia e
non prevede alcun divieto, sicché ben può l’avvalimento
riferirsi anche alla certificazione di qualità di altro
operatore economico, attenendo essa ai requisiti di capacità
tecnica, non rilevando, in contrario, che la certificazione
di qualità è requisito immanente l’impresa.
Invero, la certificazione di qualità, essendo connotata dal
precipuo fine di valorizzare gli elementi di eccellenza
dell’organizzazione complessiva, è da considerarsi anch’essa
requisito di idoneità tecnico organizzativa dell’impresa, da
inserirsi tra gli elementi idonei a dimostrare la capacità
tecnico professionale di un’impresa, assicurando che
l’impresa cui sarà affidato il servizio o la fornitura sarà
in grado di effettuare la prestazione nel rispetto di un
livello minimo di qualità accertato da un organismo a ciò
predisposto (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 22.03.2004, n.
1459).
In tale ottica, afferendo la certificazione di qualità alla
capacità tecnica dell’imprenditore, essa è coerente
all’istituto dell’avvalimento quale disciplinato con l’art.
49 del d.lgs. n. 163 del 2006, ma lo è anche con la
procedura di gara qui in questione, con le norme del
disciplinare di gara e, segnatamente, con la disposizione
del capo 2, lett. 2).
Non sussiste, in conseguenza, il lamentato travisamento
della censura di violazione della lex specialis di
gara, avendo il TAR aderito all’opzione ermeneutica, che si
condivide, che annovera la certificazione di qualità tra i
requisiti speciali di carattere tecnico organizzativo,
suscettibile, ai sensi del citato capo 2) del disciplinare
di gara, di prestito da parte dell’ausiliaria
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 23.10.2012 n. 5408 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’art. 46 del d.lgs. n. 163 del 2006
espressamente attribuisce all’amministrazione appaltante la
facoltà di invitare le imprese a chiarire certificati,
documenti, dichiarazioni presentati.
Tale facoltà, espressione di un corretto esercizio del c.d.
“dovere di soccorso” è consentito ove sia esercitato secondo
i principi generali della buona fede e della ragionevolezza,
raccordato all’esigenza di carattere generale delle
pubbliche gare di consentire la massima partecipazione, che
potrebbe essere compromessa da carenze di ordine meramente
formale.
Naturalmente, la richiesta di completamento della
documentazione o delle dichiarazioni presentate o di
trasmissione dei necessari chiarimenti è rimessa al prudente
apprezzamento dell’amministrazione, senza che, in assenza di
regole tassative e di preclusioni imposte, l’esercizio di
tale facoltà possa configurare una violazione della par
condicio dei concorrenti e non vi sia una modificazione del
contenuto della documentazione prodotta.
Come rilevato in
sentenza, la concreta operatività del meccanismo di avvalimento implica assunzione di responsabilità
dell’impresa ausiliaria e non la creazione di una struttura
associativa, sicché se il concorrente è un raggruppamento, è
la mandataria che stipula il relativo contratto di
avvalimento, nella qualità di rappresentante dell’a.t.i..
La ricorrente censura la sentenza nella parte in cui
ha ritenuto che la stazione appaltante abbia
illegittimamente utilizzato l’istituto ex art. 46 del d.lgs.
n. 163 del 2006, al fine di richiedere ai professionisti
associati di specificare il possesso, da parte di ciascuno
di essi, dei rispettivi requisiti, già dichiarati
cumulativamente.
Tale modus operandi della stazione appaltante, invero, non
appare in violazione di norme, atteso che è volta ad un
chiarimento di documentazione già tempestivamente prodotta
in sede di partecipazione alla gara.
L’art. 46 del d.lgs. n. 163 del 2006 espressamente
attribuisce all’amministrazione appaltante la facoltà di
invitare le imprese a chiarire certificati, documenti,
dichiarazioni presentati.
Tale facoltà, espressione di un corretto esercizio del c.d.
“dovere di soccorso” è consentito ove sia esercitato secondo
i principi generali della buona fede e della ragionevolezza,
raccordato all’esigenza di carattere generale delle
pubbliche gare di consentire la massima partecipazione, che
potrebbe essere compromessa da carenze di ordine meramente
formale.
Naturalmente, la richiesta di completamento della
documentazione o delle dichiarazioni presentate o di
trasmissione dei necessari chiarimenti è rimessa al prudente
apprezzamento dell’amministrazione, senza che, in assenza di
regole tassative e di preclusioni imposte, l’esercizio di
tale facoltà possa configurare una violazione della par
condicio dei concorrenti e non vi sia una modificazione del
contenuto della documentazione prodotta (cfr. Cons. stato,
sez. I, 18.03.2009, n. 701; sez. III, 31.12.2010,
n. 39288; sez. VI, 17.12.2008, n. 6281) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 23.10.2012 n. 5408 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nelle procedure di
aggiudicazione di appalti pubblici, come non vi è
incompatibilità tra le funzioni di presidente della
commissione di gara e quella di responsabile del
procedimento, ugualmente non vi è incompatibilità nel caso
in cui al responsabile del procedimento sia stato attribuito
il compito di approvare gli atti di gara, atteso che detta
approvazione non può essere compresa nella nozione di
controllo in senso stretto, ma si risolve in una revisione
interna della correttezza del procedimento spettante alla
figura dirigenziale.
Infondata è anche la
doglianza sull’asserita incompatibilità del RUP per la
duplice qualità di controllore e controllato, in quanto
designato presidente della commissione di gara.
Conformemente a giurisprudenza consolidata, va ribadito che
nelle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, come
non vi è incompatibilità tra le funzioni di presidente della
commissione di gara e quella di responsabile del
procedimento, ugualmente non vi è incompatibilità nel caso
in cui al responsabile del procedimento sia stato attribuito
il compito di approvare gli atti di gara, atteso che detta
approvazione non può essere compresa nella nozione di
controllo in senso stretto, ma si risolve in una revisione
interna della correttezza del procedimento spettante alla
figura dirigenziale (cfr. Cons. Stato, sez. V, 22.06.2010,
n. 3890) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 23.10.2012 n. 5408 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In sede di gara pubblica, la verifica
dell'integrità dei plichi contenenti l'offerta tecnica (così
come la documentazione amministrativa e l'offerta economica)
non esaurisce la sua funzione nella constatazione che gli
stessi non hanno subito manomissioni o alterazioni, ma è
destinata a garantire che il materiale documentario trovi
correttamente ingresso nella procedura di gara, giacché la
pubblicità delle sedute risponde all'esigenza di tutela non
solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali
deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri
sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così
la garanzia che non siano successivamente intervenute
indebite alterazioni, ma anche dell'interesse pubblico alla
trasparenza ed all'imparzialità dell'azione amministrativa,
le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili
ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in
mancanza di un riscontro immediato; il riconoscimento di un
preciso obbligo di svolgimento in seduta pubblica delle
predette operazioni è sorretto da puntuali previsioni
normative di pubblicità (art. 64, comma 5, 67 comma 5, 91
comma 3, d.p.r. n. 554 del 1999, applicabile alla
fattispecie ratione temporis e ora dal d.p.r. n. 207 del
2010).
Ciò premesso ed in base ad una corretta interpretazione dei
principi comunitari e di diritto interno in materia di
trasparenza e pubblicità delle gare per i pubblici appalti,
in particolare, la pubblicità va estesa anche all’apertura
della busta delle offerte tecniche.
Rileva la Sezione che,
come affermato dall’Adunanza Plenaria n. 13 del 04.07.2011, in sede di gara pubblica, la verifica dell'integrità
dei plichi contenenti l'offerta tecnica (così come la
documentazione amministrativa e l'offerta economica) non
esaurisce la sua funzione nella constatazione che gli stessi
non hanno subito manomissioni o alterazioni, ma è destinata
a garantire che il materiale documentario trovi
correttamente ingresso nella procedura di gara, giacché la
pubblicità delle sedute risponde all'esigenza di tutela non
solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali
deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri
sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così
la garanzia che non siano successivamente intervenute
indebite alterazioni, ma anche dell'interesse pubblico alla
trasparenza ed all'imparzialità dell'azione amministrativa,
le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili
ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in
mancanza di un riscontro immediato; il riconoscimento di un
preciso obbligo di svolgimento in seduta pubblica delle
predette operazioni è sorretto da puntuali previsioni
normative di pubblicità (art. 64, comma 5, 67 comma 5, 91
comma 3, d.p.r. n. 554 del 1999, applicabile alla
fattispecie ratione temporis e ora dal d.p.r. n. 207 del
2010).
Secondo la citata sentenza in base ad una corretta
interpretazione dei principi comunitari e di diritto interno
in materia di trasparenza e pubblicità delle gare per i
pubblici appalti, in particolare, la pubblicità va estesa
anche all’apertura della busta delle offerte tecniche.
Fermo tanto, appare evidente l’illegittimità dell’operato
della commissione di gara che ha proceduto in seduta
riservata alla apertura delle buste tecniche e in data 09.12.2009 ad una nuova verifica delle offerte
economiche, sulla base di formule diverse da quelle
richiamate nella prima seduta pubblica rideterminando i
coefficienti da attribuire , con riformulazione della
graduatoria provvisoria, di cui al verbale di gara della
seduta pubblica del 07.12.2009.
La violazione dell’obbligo di pubblicità in una fase della
procedura delle gare ad evidenza pubblica, normativamente
prevista è talmente evidente da assorbire le questioni
relative alla correttezza o meno della formula per come
inizialmente interpretata e applicata.
Invero, poco conta se il seggio di gara abbia giustamente
proceduto alla correzione dell’applicazione della formula
matematica una volta avvedutasi di essere incorsa in errore
(la commissione di gara a seguito di ulteriori
approfondimenti e verifiche della documentazione
dell’offerta economica e dell’assegnazione dei punteggi,
ritenuta errata la precedente applicazione della formula
matematica dettata dal disciplinare di gara ed i relativi
coefficienti e punteggi, riformulava la graduatoria
provvisoria, con scivolamento dell’a.t.i. Sacco dal primo al
secondo posto della graduatoria provvisoria), essendo suo
onere svolgere tale operazione in seduta pubblica previa
comunicazione alle ditte partecipanti e quindi con
possibilità di partecipazione delle medesime.
La censura è, dunque, fondata con riguardo al vizio del
procedimento, in relazione alla necessaria pubblicità
dell’apertura delle buste tecniche e non essendo consentito
alla stazione appaltante di procedere ad operazioni che
avvengono in seduta pubblica, qual è la valutazione delle
offerte economiche, senza avvertire le parti interessate, a
nulla rilevando che trattandosi dell’applicazione di un mero
criterio matematico, gli esiti , una volta giustificata la
correzione , risultavano del tutto automatici.
Tali vizi non sono tuttavia determinanti per l’annullamento
degli atti di gara.
Effettivamente la commissione di gara aveva commesso un
errore nell’applicazione della formula aritmetica prevista
dalla lex specialis per la valutazione dell’offerta
economica.
Ne consegue che, ove fosse rinnovata questa fase del
procedimento emendata dai vizi che l’hanno contrassegnata,
l’esito della gara vedrebbe aggiudicataria ugualmente la Geo
Cantieri. Risulterebbe tuttavia non assorbita la lesione
dell’interesse relativamente alla mancata apertura pubblica
delle buste tecniche. Per tale parte l’annullamento della
gara non trova tuttavia riscontro in un interesse
dell’appellante alla rinnovazione della gara (né tanto meno
al subentro contrattuale), in quanto come detto il contratto
è stato a suo tempo stipulato e alla data della odierna
decisione, quasi integralmente eseguito.
Il Collegio deve dunque limitarsi, giusto il disposto
dell’art. 34, comma 3, cod. proc. amm. ad emettere
declaratoria di accertamento in parte qua dell’illegittimità
degli atti impugnati (cfr. di questa Sezione la sentenza n.
2817/2011), in relazione alle eventuali conseguenze
risarcitorie (cfr. art. 30, comma 5, c.p.a.).
A questo riguardo va precisato che sussiste certamente
l’interesse dell’appellante alla pronuncia dichiarativa in
questione, visto che la domanda di risarcimento danni è
stata azionata in questo giudizio in modo generico e in
assenza di qualsivoglia allegazione ed offerta di prova
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 23.10.2012 n. 5408 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nelle procedure ad evidenza pubblica le clausole
di esclusione, poste dalla legge o dal bando in ordine alle
dichiarazioni cui è tenuta la impresa partecipante alla
gara, sono di stretta interpretazione dovendosi dare
esclusiva prevalenza alle espressioni letterali in esse
contenute, restando preclusa ogni forma di estensione
analogica diretta ad evidenziare significati impliciti, che
rischierebbe di vulnerare l’affidamento dei partecipanti, la
par condicio dei concorrenti e l’esigenza della più ampia
partecipazione; pertanto le norme di legge e di bando, che
disciplinano i requisiti soggettivi di partecipazione alle
gare pubbliche, devono essere interpretate nel rispetto del
principio di tipicità e tassatività delle ipotesi di
esclusione che di per sé costituiscono fattispecie di
restrizione della libertà di iniziativa economica tutelata
dall’art. 41, cost., oltre che dal Trattato comunitario.
Ed al riguardo, non può che richiamarsi il consolidato
insegnamento della giurisprudenza anche di questa Sezione,
secondo cui "nelle procedure ad evidenza pubblica le
clausole di esclusione, poste dalla legge o dal bando in
ordine alle dichiarazioni cui è tenuta la impresa
partecipante alla gara, sono di stretta interpretazione
dovendosi dare esclusiva prevalenza alle espressioni
letterali in esse contenute, restando preclusa ogni forma di
estensione analogica diretta ad evidenziare significati
impliciti, che rischierebbe di vulnerare l’affidamento dei
partecipanti, la par condicio dei concorrenti e l’esigenza
della più ampia partecipazione; pertanto le norme di legge e
di bando, che disciplinano i requisiti soggettivi di
partecipazione alle gare pubbliche, devono essere
interpretate nel rispetto del principio di tipicità e
tassatività delle ipotesi di esclusione che di per sé
costituiscono fattispecie di restrizione della libertà di
iniziativa economica tutelata dall’art. 41, cost., oltre che
dal Trattato comunitario" (cfr. Sez. V, n. 3213 del
21.05.2010) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 22.10.2012 n. 5393 - link a
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APPALTI:
Anche prima della positivizzazione (ad opera del
decreto-legge n. 70 del 2011) del principio di tassatività
delle clausole di esclusione nell’ambito delle pubbliche
gare, la giurisprudenza aveva fissato il principio secondo
cui le clausole della lex specialis, ancorché contenenti
comminatorie di esclusione, non possono essere applicate
meccanicisticamente, ma secondo il principio di
ragionevolezza, e devono essere valutate alla stregua
dell’interesse che la norma violata è destinata a presidiare
per cui, ove non sia ravvisabile la lesione di un interesse
pubblico effettivo e rilevante, deve essere accordata la
preferenza al favor partecipationis.
---------------
Ai sensi dell'articolo 83, comma 1, punto 5 del ‘codice di
contratti’, non è precluso all'Amministrazione individuare,
nei casi da esso disciplinati, un semplice criterio numerico
per esprimere il proprio giudizio sui vari aspetti da
considerare nella valutazione dell'offerta presentata
nell'ambito di una gara di appalto, né è necessario che a
detto criterio numerico si accompagnino comunque criteri
ulteriori, di tipo argomentativo e descrittivo, mentre ciò
che è invece necessario è che sussista comunque la
possibilità di ripercorrere, e per ciò solo di controllare,
il percorso valutativo compiuto dalla commissione di gara,
la quale altrimenti sarebbe investita non di un potere
discrezionale, per quanto ampio, ma di un vero e proprio
arbitrio, non ammissibile come tale.
---------------
E infatti, anche prima della
positivizzazione (ad opera del decreto-legge n. 70 del 2011)
del principio di tassatività delle clausole di esclusione
nell’ambito delle pubbliche gare, la giurisprudenza aveva
fissato il principio secondo cui le clausole della lex
specialis, ancorché contenenti comminatorie di
esclusione, non possono essere applicate meccanicisticamente,
ma secondo il principio di ragionevolezza, e devono essere
valutate alla stregua dell’interesse che la norma violata è
destinata a presidiare per cui, ove non sia ravvisabile la
lesione di un interesse pubblico effettivo e rilevante, deve
essere accordata la preferenza al favor partecipationis
(in tal senso: Cons. Stato, III, 12.05.2011, n. 2851; id.,
VI, 08.03.2010, n. 1305).
--------------
Al riguardo si ritiene di richiamare il condiviso
orientamento secondo cui, ai sensi dell'articolo 83, comma
1, punto 5 del ‘codice di contratti’, non è precluso
all'Amministrazione individuare, nei casi da esso
disciplinati, un semplice criterio numerico per esprimere il
proprio giudizio sui vari aspetti da considerare nella
valutazione dell'offerta presentata nell'ambito di una gara
di appalto, né è necessario che a detto criterio numerico si
accompagnino comunque criteri ulteriori, di tipo
argomentativo e descrittivo, mentre ciò che è invece
necessario è che sussista comunque la possibilità di
ripercorrere, e per ciò solo di controllare, il percorso
valutativo compiuto dalla commissione di gara, la quale
altrimenti sarebbe investita non di un potere discrezionale,
per quanto ampio, ma di un vero e proprio arbitrio, non
ammissibile come tale (Cons. Stato, V, 16.06.2010, n. 3806)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 19.10.2012 n. 5389 - link a
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APPALTI:
L’interesse a ricorrere avverso il provvedimento
di esclusione da una gara pubblica è configurabile ex se e
non richiede la dimostrazione che l'esito della gara sarebbe
stato sicuramente o probabilmente favorevole al ricorrente
nelle ipotesi in cui il criterio di aggiudicazione previsto
sia di tipo non automatico, in quanto la parte ricorrente ha
interesse a veder valutata la propria offerta in sede di
gara e dunque è portatrice di un interesse strumentale
all'annullamento degli atti impugnati e alla rinnovazione
della procedura atteso che dal rinnovo deriva una nuova
chance di partecipazione e di vittoria.
---------------
L’esclusione da una gara pubblica può legittimamente essere
disposta ove il concorrente abbia violato previsioni poste a
tutela degli interessi sostanziali dell'Amministrazione o a
protezione della par condicio tra i concorrenti e la carenza
essenziale del contenuto o delle modalità di presentazione,
che giustifica detta esclusione, deve in primo luogo
riferirsi all'offerta, incidendo oggettivamente sulle
componenti del suo contenuto ovvero sulle produzioni
documentali a suo corredo dirette a definire il contenuto
delle garanzie e l'impegno dell'aggiudicatario, in
rispondenza ad un interesse sostanziale della stazione
appaltante, costituendo il canone dell'utilità delle
clausole e della necessità di evitare inutili
appesantimenti, nonché di garantire in massimo grado la
partecipazione dei concorrenti, nel rispetto della par
condicio, metodo operativo ed interpretativo irrinunciabile.
--------------
In presenza di una clausola del bando di gara di ambigua
formulazione, non è necessaria l'immediata impugnazione
della clausola stessa dal momento che la lesività della
posizione del contraente si configura solamente al momento
della sua esclusione.
Al riguardo il Collegio ritiene di prestare adesione (non
rinvenendosi ragioni per discostarsene) all’orientamento
secondo cui l’interesse a ricorrere avverso il provvedimento
di esclusione da una gara pubblica è configurabile ex se
e non richiede la dimostrazione che l'esito della gara
sarebbe stato sicuramente o probabilmente favorevole al
ricorrente nelle ipotesi in cui (come nel caso che qui
ricorre) il criterio di aggiudicazione previsto sia di tipo
non automatico, in quanto la parte ricorrente ha interesse a
veder valutata la propria offerta in sede di gara e dunque è
portatrice di un interesse strumentale all'annullamento
degli atti impugnati e alla rinnovazione della procedura
atteso che dal rinnovo deriva una nuova chance di
partecipazione e di vittoria (Cons. Stato, V, 17.05.2012, n.
2826; id.,V, 18.11.2011, n. 6090).
---------------
Deve prestarsi puntuale
adesione all’orientamento secondo cui l’esclusione da una
gara pubblica può legittimamente essere disposta ove il
concorrente abbia violato previsioni poste a tutela degli
interessi sostanziali dell'Amministrazione o a protezione
della par condicio tra i concorrenti e la carenza essenziale
del contenuto o delle modalità di presentazione, che
giustifica detta esclusione, deve in primo luogo riferirsi
all'offerta, incidendo oggettivamente sulle componenti del
suo contenuto ovvero sulle produzioni documentali a suo
corredo dirette a definire il contenuto delle garanzie e
l'impegno dell'aggiudicatario, in rispondenza ad un
interesse sostanziale della stazione appaltante, costituendo
il canone dell'utilità delle clausole e della necessità di
evitare inutili appesantimenti, nonché di garantire in
massimo grado la partecipazione dei concorrenti, nel
rispetto della par condicio, metodo operativo ed
interpretativo irrinunciabile (Cons. Stato, V, 28.02.2011,
n. 1245).
---------------
Deve essere richiamato il condiviso orientamento secondo
cui, in presenza di una clausola del bando di gara di
ambigua formulazione, non è necessaria l'immediata
impugnazione della clausola stessa dal momento che la
lesività della posizione del contraente si configura
solamente al momento della sua esclusione (Cons. Stato, V,
25.03.2002, n. 1683)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 19.10.2012 n. 5389 - link a
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EDILIZIA
PRIVATA: Il
concetto di ristrutturazione di un edificio preesistente
presuppone che non si tratti di opere implicanti radicali
interventi di adattamento delle strutture interne eseguite
per creare nuovi vani o volumi, in quanto l’aumento di
questi ultimi determina a sua volta un maggiore carico
urbanistico di cui l’amministrazione non può non tenere
conto in sede di approvazione del progetto stesso.
---------------
Nel caso di specie, il progetto presentato realizza
all’evidenza un intervento di ristrutturazione urbanistica
dell’area, in quanto esso interviene su alcuni capannoni di
proprietà della società ricorrente attraverso un insieme di
opere volte a trasformare le strutture preesistenti da
immobili ad uso produttivo in immobili ad uso misto,
attraverso la creazione di una serie di appartamenti
residenziali e relativi giardini di pertinenza nonché di un
certo numero di laboratori.
Tutto ciò anche con la prevista demolizione e ricostruzione
di alcuni dei fabbricati e con lo svuotamento di porzioni di
immobili, onde ricavare adeguati rapporti aeroilluminanti.
Il progetto modifica, quindi, in maniera sostanziale la
consistenza e la struttura degli edifici preesistenti,
peraltro monofunzionali, e del tessuto urbanistico su cui
gli stessi ricadono, mediante un diverso disegno della
struttura dei lotti.
Né vale assumere che "il sedime dei fabbricati oggetto di
intervento risulta essere il medesimo dello stato di fatto,
ad eccezione degli svuotamenti eseguiti per questioni di
regolarità normative edilizie di carattere igienico
sanitario e di tutte le superfetazioni e tettoie evidenziate
in apposito allegato” perché se anche quell’affermazione
fosse vera è altrettanto vero che, per effetto di tutte le
modifiche richieste o imposte dalla diversa destinazione
d’uso impressa alle strutture edilizie, la morfologia del
lotto (come da stato di fatto) dal punto di vista formale
appare sostanzialmente modificata (recte destinata ad essere
modificata) nella misura chiaramente evidenziata dallo stato
di progetto ricavato dalla planimetria generale.
E questo ha indotto l’amministrazione a inibire l’esecuzione
dei lavori, laddove gli stessi trasmodano da semplice
intervento di ristrutturazione edilizia in intervento di
rilievo urbanistico, soprattutto nella parte funzionale (che
coinvolge l’intero lotto) e che prevede il mutamento di
destinazione d’uso del (già) capannone in residenza con
annessi spazi privati e laboratori.
Il nucleo delle censure contesta, infatti, nella
sostanza, sotto i profili rubricati, il giudizio espresso
dall’amministrazione comunale che, contrariamente a quanto
dichiarato dalla ricorrente, ha riqualificato il complesso
intervento oggetto di D.I.A. da ristrutturazione edilizia a
ristrutturazione urbanistica “in quanto esso è rivolto a
sostituire l’esistente tessuto urbanistico ed edilizio con
altro sostanzialmente diverso, senza peraltro rispettare la
previsione del P.R.G. vigente”.
E ciò mediante un insieme sistematico di opere edilizie
comportanti anche modifica del disegno dei lotti e degli
isolati, che in quanto tale non può essere attuato ai sensi
dell’art. 22 del d.P.R. 380/2001 e dell’art. 4 della l.r.
22/1999.
L’art. 3, comma 1, lett. f), del d.P.R. 380/2001 definisce,
infatti, come interventi di ristrutturazione urbanistica
“quelli rivolti a sostituire l’esistente tessuto urbanistico
ed edilizio con altro diverso, mediante un insieme
sistematico di interventi edilizi anche con la modifica del
disegno dei lotti , degli isolati e della rete stradale”.
Gli interventi di ristrutturazione edilizia sono invece
“quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante
un insieme sistematico di opere che possono portare ad un
organismo in tutto o in parte diverso dal precedente". Tali
interventi più limitati comprendono “il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio,
l’eliminazione o la modifica e l’inserimento di alcuni
elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione o la
modifica e l’inserimento di nuovi elementi e impianti” (art.
3, comma 1, lett. d), d.P.R. 380/2001).
La norma da ultimo citata prevede inoltre che siano
ricompresi nell’ambito della ristrutturazione edilizia “gli
interventi consistenti nella demolizione e ricostruzione con
la stessa volumetria e sagoma di quella preesistente”.
In realtà, contrariamente a quanto sostiene parte
ricorrente, la giurisprudenza ha chiarito che il concetto di
ristrutturazione di un edificio preesistente presuppone che
non si tratti di opere implicanti radicali interventi di
adattamento delle strutture interne eseguite per creare
nuovi vani o volumi, in quanto l’aumento di questi ultimi
determina a sua volta un maggiore carico urbanistico di cui
l’amministrazione non può non tenere conto in sede di
approvazione del progetto stesso (cfr. C.d.S. sez. 5^
10.08.2000 n. 4397).
Ora, nel caso di specie, il progetto presentato dalla
società ricorrente realizza all’evidenza –il Collegio ne ha
preso visione in contraddittorio anche nel corso della
discussione in udienza- un intervento di ristrutturazione
urbanistica dell’area, in quanto esso interviene su alcuni
capannoni di proprietà della società ricorrente attraverso
un insieme di opere volte a trasformare le strutture
preesistenti da immobili ad uso produttivo in immobili ad
uso misto, attraverso la creazione di una serie di
appartamenti residenziali e relativi giardini di pertinenza
nonché di un certo numero di laboratori.
Tutto ciò anche con la prevista demolizione e ricostruzione
di alcuni dei fabbricati e con lo svuotamento di porzioni di
immobili, onde ricavare adeguati rapporti aeroilluminanti.
Il progetto, come sostiene la difesa
dell’amministrazione, modifica, quindi, in maniera
sostanziale la consistenza e la struttura degli edifici
preesistenti, peraltro monofunzionali, e del tessuto
urbanistico su cui gli stessi ricadono, mediante un diverso
disegno della struttura dei lotti (cfr. doc. 3 e 4 prodotti
il 04.05.2012 dalla parte ricorrente da cui emerge con
chiara evidenza la rilevanza della trasformazione
urbanistica che l’intervento comporta).
Né vale assumere che, come si legge nella perizia
stragiudiziale “il sedime dei fabbricati oggetto di
intervento risulta essere il medesimo dello stato di fatto,
ad eccezione degli svuotamenti eseguiti per questioni di
regolarità normative edilizie di carattere igienico
sanitario e di tutte le superfetazioni e tettoie evidenziate
in apposito allegato” perché se anche quell’affermazione
fosse vera è altrettanto vero che, per effetto di tutte le
modifiche richieste o imposte dalla diversa destinazione
d’uso impressa alle strutture edilizie, la morfologia del
lotto (come da stato di fatto) dal punto di vista formale
appare sostanzialmente modificata (recte destinata ad essere
modificata) nella misura chiaramente evidenziata dallo stato
di progetto ricavato dalla planimetria generale.
E questo ha indotto l’amministrazione a inibire l’esecuzione
dei lavori, laddove gli stessi trasmodano da semplice
intervento di ristrutturazione edilizia in intervento di
rilievo urbanistico, soprattutto nella parte funzionale (che
coinvolge l’intero lotto) e che prevede il mutamento di
destinazione d’uso del (già) capannone in residenza con
annessi spazi privati e laboratori.
A ciò va aggiunto, ed è cosa che rileva ai fini della
configurazione dell’intervento come semplice
ristrutturazione edilizia, che nel referto istruttorio a
firma del Dirigente del Settore Edilizia datato 03.05.2004 si dà atto che “non è possibile verificare la
conformità del progetto alle norme di P.R.G. relative alla
densità fondiaria in quanto non sono state prodotte le
verifiche volumetriche”.
Dallo stesso referto si evince, inoltre, che nel progetto in
esame “non viene indicato alcuno spazio per parcheggi
pubblici e/o privati né indicata alcuna sistemazione degli
spazi aperti comuni in relazione anche all’utilizzo misto
degli edifici”.
Il motivo, fermo quanto si aggiungerà in seguito in merito
alla censura di difetto di motivazione e di integrazione
della motivazione, è quindi infondato, non sussistendo,
sotto i profili della qualificazione dell’intervento e dei
conseguenti profili di violazione di legge, alcuna
motivazione erronea né alcun travisamento di fatto
riferibile alla natura sostanziale del progetto in
questione, che per le sue caratteristiche morfologiche e
funzionali non può essere qualificato, a giudizio del
Collegio, come intervento di semplice ristrutturazione
edilizia ma di ristrutturazione urbanistica dell’area
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 19.10.2012 n. 2563 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: E'
illegittima la ex specialis di gara ove preveda
l'inserimento, nell'ambito di un'unica busta, tanto
dell'offerta tecnico-funzionale, quanto di quella economica,
atteso che in tal modo viene a determinarsi un'inammissibile
commistione tra gli elementi tecnici e quelli economici
dell’offerta stessa.
Infatti, nel caso di aggiudicazione secondo il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa, le offerte
economiche devono restare segrete per evitare che gli
elementi di valutazione aventi carattere automatico, quali
il prezzo, possano influenzare la valutazione degli elementi
discrezionali, cosicché nel caso della denunciata
commistione risulta violata la regola della par condicio
espressamente sancita, tra i principi generali relativi alle
procedure per l’affidamento dei contratti pubblici dall'art.
2 del d.lgs. n. 163/2006.
---------------
Il cottimo fiduciario, ex art. 125, comma 4, del d.lgs. n.
163/2006, ha natura di procedura negoziata ai sensi
dell'art. 57 del medesimo decreto.
Ne segue che il principio sopra affermato -che risponde
all'esigenza di garantire la trasparenza delle operazioni di
gara- opera, indipendentemente dal fatto che il bando lo
preveda, in tutte le ipotesi in cui all'aggiudicazione si
pervenga attraverso un'attività di tipo procedimentale (cfr.
l'art. 2 del citato d.lgs. n. 163/2006), ancorché
semplificata e quindi anche in relazione ai cottimi
fiduciari.
Dunque, anche nell’ipotesi di scelta di una procedura
semplificata, continua a trovare applicazione il principio,
posto a tutela dell'imparzialità, della trasparenza, del
corretto svolgimento della procedura, in base al quale vanno
tenute separate e distinte l’offerta tecnica da quella
economica, nel mentre la fase di apertura dei plichi
contenenti la documentazione amministrativa e la verifica
della stessa, nonché quella di apertura delle buste con le
offerte economiche devono sempre avvenire in seduta
pubblica.
---------------
Negli appalti pubblici da aggiudicare con il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa il principio
della pubblicità delle operazioni da svolgere trova
applicazione con specifico riferimento anche all'apertura
della busta dell'offerta tecnica, atteso che la pubblicità
delle sedute di gara risponde all'esigenza di tutela non
solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali
deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri
sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così
la garanzia che non siano successivamente intervenute
indebite alterazioni, ma anche dell'interesse pubblico alla
trasparenza e all'imparzialità dell'azione amministrativa,
le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili
ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in
mancanza di un riscontro immediato.
In proposito la giurisprudenza è ferma nel ritenere
l’illegittimità della lex specialis di gara ove preveda
l'inserimento, nell'ambito di un'unica busta, tanto
dell'offerta tecnico-funzionale, quanto di quella economica,
atteso che in tal modo viene a determinarsi un'inammissibile
commistione tra gli elementi tecnici e quelli economici
dell’offerta stessa. Infatti, nel caso di aggiudicazione
secondo il criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa, le offerte economiche devono restare segrete
per evitare che gli elementi di valutazione aventi carattere
automatico, quali il prezzo, possano influenzare la
valutazione degli elementi discrezionali, cosicché nel caso
della denunciata commistione risulta violata la regola della
par condicio espressamente sancita, tra i principi generali
relativi alle procedure per l’affidamento dei contratti
pubblici dall'art. 2 del d.lgs. n. 163/2006 (Cons. Stato,
sez. III, 11.03.2011, n. 1582; TAR Liguria, sez. I, 23.02.2012, n. 322; TAR Lazio, Latina, 11.04.2012,
n. 283).
Né vale in senso contrario affermare, come sostenuto dalla
difesa erariale nella sua memoria del 17.12.2011, che
la stazione appaltante abbia dato applicazione al decreto
interministeriale n. 44/2001 recante le istruzioni generali
sulla gestione amministrativo/contabile delle istituzioni
scolastiche, discostandosi dalla disciplina generale dettata
dal Codice dei contratti pubblici.
Ciò comporterebbe un’attenuazione del rigore formale della
procedura di gara in analogia con quanto previsto dall’art.
125 del d.lgs. n. 163/2006 in tema di cottimo fiduciario.
Invero, è stato condivisibilmente osservato che il cottimo
fiduciario, ex art. 125, comma 4, del d.lgs. n. 163/2006, ha
natura di procedura negoziata ai sensi dell'art. 57 del
medesimo decreto.
Ne segue, contrariamente a quanto la resistente
amministrazione mostra di ritenere, che il principio sopra
affermato -che risponde all'esigenza di garantire la
trasparenza delle operazioni di gara- opera,
indipendentemente dal fatto che il bando lo preveda, in
tutte le ipotesi in cui all'aggiudicazione si pervenga
attraverso un'attività di tipo procedimentale (cfr. l'art. 2
del citato d.lgs. n. 163/2006), ancorché semplificata e
quindi anche in relazione ai cottimi fiduciari (cfr. TAR
Sardegna, I Sez., 14/06/2010 n. 1487; Cons. Stato, V Sez.,
10/11/2010 n. 8006).
Dunque, anche nell’ipotesi di scelta di una procedura
semplificata, continua a trovare applicazione il principio,
posto a tutela dell'imparzialità, della trasparenza, del
corretto svolgimento della procedura, in base al quale vanno
tenute separate e distinte l’offerta tecnica da quella
economica, nel mentre la fase di apertura dei plichi
contenenti la documentazione amministrativa e la verifica
della stessa, nonché quella di apertura delle buste con le
offerte economiche devono sempre avvenire in seduta
pubblica.
E d’altro canto, contrariamente a quanto avvenuto nella
fattispecie, nella vicenda oggetto del precedente di questo
Tribunale citato da controparte (TAR Toscana, sez. I, n.
6809/2010) non era stato impugnato il bando di gara.
---------------
Osserva il Collegio che
negli appalti pubblici da aggiudicare con il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa il principio
della pubblicità delle operazioni da svolgere trova
applicazione con specifico riferimento anche all'apertura
della busta dell'offerta tecnica, atteso che la pubblicità
delle sedute di gara risponde all'esigenza di tutela non
solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali
deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri
sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così
la garanzia che non siano successivamente intervenute
indebite alterazioni, ma anche dell'interesse pubblico alla
trasparenza e all'imparzialità dell'azione amministrativa,
le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili
ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in
mancanza di un riscontro immediato (Cons. Stato, Ad. plen.,
28.07.2011, n. 13; id., sez. III, 04.11.2011, n.
5866).
Nel caso di specie, peraltro l’illegittimità appare ancor
più evidente se solo si consideri che in seduta riservata è
avvenuta l’apertura dell’unico plico contenente sia
l’offerta tecnica che quella economica.
Per le ragioni esposte il ricorso deve dunque essere accolto
con il conseguente annullamento della lettera d’invito e
della successiva aggiudicazione in favore della ditta
controinteressata (TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 19.10.2012 n. 1680 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - ATTI
AMMINISTRATIVI: La
prova della sussistenza del danno da perdita di chance, in
seguito all'emanazione di un provvedimento illegittimo, può
avvenire o attraverso l’articolazione di argomentazioni
logiche, che, sulla base di un processo deduttivo
rigorosamente sorvegliato, inducano a concludere per la sua
sussistenza; ovvero secondo un processo deduttivo conforme
al criterio, elaborato dalla giurisprudenza della Corte di
cassazione, del cd. "più probabile che non", e cioè "alla
luce di una regola di giudizio che ben può essere integrata
dai dati della comune esperienza, evincibili
dall'osservazione dei fenomeni sociali”.
Si rammenta in proposito
che la prova della sussistenza del danno da perdita di
chance, in seguito all'emanazione di un provvedimento
illegittimo, può avvenire o attraverso l’articolazione di
argomentazioni logiche, che, sulla base di un processo
deduttivo rigorosamente sorvegliato, inducano a concludere
per la sua sussistenza; ovvero secondo un processo deduttivo
conforme al criterio, elaborato dalla giurisprudenza della
Corte di cassazione, del cd. "più probabile che non", e cioè
"alla luce di una regola di giudizio che ben può essere
integrata dai dati della comune esperienza, evincibili
dall'osservazione dei fenomeni sociali” (Cons. Stato sez. IV,
22.05.2012, n. 2974)
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 19.10.2012 n. 1680 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
potere di adozione di un'ordinanza contingibile ed urgente
presuppone la necessità di provvedere in via d'urgenza con
strumenti extra ordinem per far fronte a situazioni di
natura eccezionale ed imprevedibile di pericolo attuale ed
imminente per l'incolumità pubblica, non fronteggiabili con
gli ordinari strumenti a disposizione dell'Autorità
amministrativa.
Inoltre, tale atto, proprio per la sua natura di
provvedimento "extra ordinem", deve avere effetti provvisori
limitati nel tempo, in attesa dell'adozione dei
provvedimenti tipici spettanti alle autorità competenti, non
potendo essere utilizzato dall’Amministrazione come
strumento per la definitiva soluzione dell’emergenza.
---------------
Quando la legge, per consentire all'amministrazione di fare
fronte a situazioni non prevedibili né tipizzabili, non
precisa quali siano gli elementi del provvedimento,
limitandosi ad attribuire il potere di adottare le misure
"adeguate" o "necessarie", si verte in ambito di ordinanze
di necessità e urgenza.
Esse costituiscono una deviazione rispetto al principio di
tipicità, accentuata dal fatto che spesso i provvedimenti di
tale tipo possono derogare alla disciplina vigente e sono
normalmente suscettibili di esecuzione forzata.
Tale tipologia di provvedimenti impone che essi siano
preceduti da un’adeguata istruttoria e che la situazione di
pericolo effettivo e l’impossibilità di farvi fronte con gli
ordinari strumenti giuridici sia esternata con una congrua
motivazione.
Il ricorso merita accoglimento.
Positivo riscontro va assegnato al primo motivo con il quale
la ricorrente lamenta l’inesistenza dei presupposti per
l’esercizio dei poteri extra ordinem assegnati al Sindaco
dal TUEL.
Recita, infatti, l’art. 50, co. 4 e 5, del d.lgs. n.
267/2000, in applicazione del quale è stato emanato
l’avversato provvedimento, che “Il sindaco esercita altresì
le altre funzioni attribuitegli quale autorità locale nelle
materie previste da specifiche disposizioni di legge.
In particolare, in caso di emergenze sanitarie o di igiene
pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze
contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco, quale
rappresentante della comunità locale...”.
Per pacifica giurisprudenza, il potere di adozione di un'ordinanza contingibile ed urgente presuppone la necessità di
provvedere in via d'urgenza con strumenti extra ordinem per
far fronte a situazioni di natura eccezionale ed
imprevedibile di pericolo attuale ed imminente per
l'incolumità pubblica, non fronteggiabili con gli ordinari
strumenti a disposizione dell'Autorità amministrativa (cfr.,
da ultimo, TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 23.01.2012, n. 256; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 15.11.2011, n. 1376; TAR Abruzzo L'Aquila, 15.03.2011, n.
134).
Inoltre, tale atto, proprio per la sua natura di
provvedimento "extra ordinem", deve avere effetti provvisori
limitati nel tempo, in attesa dell'adozione dei
provvedimenti tipici spettanti alle autorità competenti, non
potendo essere utilizzato dall’Amministrazione come
strumento per la definitiva soluzione dell’emergenza (Cons.
Stato, sez. III, 05.10.2011, n. 5471; id. sez. IV, 24.03.2006, n. 1537).
Orbene, nel caso all’esame, non può revocarsi in dubbio che
l’imposizione alla ricorrente dell’obbligo di redazione di
una progettazione esecutiva tale da rimuovere
definitivamente la situazione di asserito pericolo,
costituisce un’evidente sviamento del potere eccezionale
assegnato al Sindaco dal citato art. 50.
Quando la legge, per consentire all'amministrazione di fare
fronte a situazioni non prevedibili né tipizzabili, non
precisa quali siano gli elementi del provvedimento,
limitandosi ad attribuire il potere di adottare le misure
"adeguate" o "necessarie", si verte in ambito di ordinanze
di necessità e urgenza.
Esse costituiscono una deviazione rispetto al principio di
tipicità, accentuata dal fatto che spesso i provvedimenti di
tale tipo possono derogare alla disciplina vigente e sono
normalmente suscettibili di esecuzione forzata.
A completamento delle considerazioni esposte va soggiunto
che tale tipologia di provvedimenti impone che essi siano
preceduti da un’adeguata istruttoria e che la situazione di
pericolo effettivo e l’impossibilità di farvi fronte con gli
ordinari strumenti giuridici sia esternata con una congrua
motivazione (TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 19.10.2012 n. 1669 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La
curatela fallimentare non può essere destinataria di
ordinanze sindacali dirette alla bonifica di siti inquinati,
per effetto del precedente comportamento commissivo od
omissivo dell’impresa fallita.
Al riguardo si è, infatti, sottolineata l’erroneità delle
argomentazioni per cui:
a) la disponibilità dei beni, anche di quelli classificati
come rifiuti nocivi, entrerebbe giuridicamente nella
titolarità del curatore, sul quale graverebbe, per
conseguenza, il dovere di rimuoverli secondo le leggi
vigenti;
b) il fallimento subentra negli obblighi facenti capo
all’impresa fallita e perciò sarebbe tenuto all’adempimento
dei doveri derivanti dall’accertata responsabilità della
stessa impresa, come dimostrerebbe tra l’altro la disciplina
della legge fallimentare sulla prosecuzione dei contratti
facenti capo all’impresa fallita.
In realtà, se l’ordinanza impugnata è rivolta al fallimento
per effetto dell’inottemperanza dell’impresa a precedenti
provvedimenti (com’è avvenuto sia nella fattispecie
analizzata dalla giurisprudenza ora riportata, sia nel caso
oggetto del ricorso in epigrafe), la curatela fallimentare
deve esser considerata estranea alla determinazione degli
inconvenienti sanitari riscontrati nell’area interessata.
Non basta, a far scattare un obbligo in capo alla curatela,
il riferimento alla disponibilità giuridica degli oggetti
qualificati come rifiuti inquinanti: il potere di disporre
dei beni fallimentari, secondo le regole della procedura
concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato, non
comporta necessariamente il dovere di adottare particolari
comportamenti attivi, volti alla tutela sanitaria degli
immobili destinati alla bonifica dei fattori inquinanti.
D’altro lato, è proprio il richiamo alla disciplina del
fallimento e della successione nei contratti a dimostrare
che la curatela fallimentare non subentra negli obblighi più
strettamente correlati alla responsabilità dell’imprenditore
fallito, non potendosi invocare l’art. 1576 c.c., poiché
l’obbligo di mantenimento della cosa locata in buono stato
riguarda i rapporti tra conduttore e locatore e non si
riverbera, direttamente, sui doveri fissati da altre
disposizioni, dirette ad altro scopo.
Sulla questione si è espresso anche questo Tribunale
Amministrativo che, mutando il proprio precedente
orientamento, ha evidenziato come, in linea di principio, i
rifiuti prodotti dall’imprenditore fallito non siano beni da
acquisire alla procedura fallimentare e, quindi, non formino
oggetto di apprensione da parte del curatore.
L’esclusione della possibilità di sussumere legittimamente i
rifiuti nel compendio fallimentare fa, perciò, scartare l’ipotizzabilità
di profili di responsabilità di carattere meramente gestorio
in capo al curatore. La sentenza in rassegna precisa,
inoltre, che per una diversa conclusione sarebbe necessario
individuare un’univoca, chiara ed autonoma responsabilità in
capo al curatore fallimentare nell’abbandono dei rifiuti di
cui trattasi, che, però, va esclusa quando il fatto si è
verificato in epoca antecedente all’apertura della procedura
fallimentare, richiedendo la normativa di riferimento (a
partire dal d.lgs. n. 22/1997) l’accertamento della
responsabilità da illecito in capo al destinatario
dell’ordine. In mancanza dell’ascrivibilità alla curatela
fallimentare di una condotta illecita o di un comportamento
corresponsabile, alla P.A. non resta che procedere
all’esecuzione d’ufficio ed al recupero delle somme
anticipate con insinuazione del relativo credito al passivo
fallimentare, in conformità, del resto, all’art. 18, comma
5, del d.m. n. 471/1999.
Ad una diversa conclusione non si potrebbe pervenire neanche
aderendo alla tesi che configura l’illecito ambientale come
illecito permanente. In base a detta tesi si è affermata
l’applicabilità della normativa di cui all’art. 17 del
d.lgs. n. 22/1997 a qualsivoglia situazione di inquinamento
in atto al tempo dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 22
cit., indipendentemente dal momento del verificarsi del
fatto generatore dell’attuale situazione patologica: ciò,
però, a condizione che il soggetto che aveva posto in essere
la condotta all’epoca in cui non vigeva ancora il d.lgs. n.
22/1997 fosse lo stesso che operava al tempo del verificarsi
dell’inquinamento, dopo tale data. Per quanto sopra detto,
si deve escludere che una simile identità sia ipotizzabile
tra il fallito e la curatela fallimentare.
Sul punto, il Collegio ritiene di aderire in toto alle
osservazioni avanzate dal curatore fallimentare nell’istanza
di riesame dell’ordinanza gravata e, poi, riprodotte nel
ricorso, in base alle quali, al di fuori dell’esercizio
provvisorio (caso non verificatosi), il curatore non è il
produttore dei rifiuti, né lo diventa con la dichiarazione
di fallimento, poiché non sostituisce il fallito e la
procedura fallimentare ha uno scopo liquidativo e non già
amministrativo o continuativo dell’impresa fallita.
Peraltro, quando è il fallito ad aver prodotto i rifiuti e
cagionato un danno all’ambiente, sullo stesso grava l’onere
per il relativo smaltimento, da soddisfare, come già
esposto, con l’insinuazione al passivo fallimentare del
credito sorto in capo alla P.A. che ha anticipato le
relative spese.
In termini generali, la problematica è, infatti, già stata
affrontata dalla Sezione con la sentenza 21.01.2011 n. 137,
che può essere richiamata, anche in funzione motivazionale
della presente decisione: <<deve essere condivisa, alla
luce della prevalente giurisprudenza espressasi sulla
questione, la doglianza del ricorrente, per cui la curatela
fallimentare non può essere destinataria di ordinanze
sindacali dirette alla bonifica di siti inquinati, per
effetto del precedente comportamento commissivo od omissivo
dell’impresa fallita (C.d.S., Sez. V, 29.07.2003, n. 4328).
Al riguardo si è, infatti, sottolineata l’erroneità delle
argomentazioni per cui:
a) la disponibilità dei beni, anche di quelli classificati
come rifiuti nocivi, entrerebbe giuridicamente nella
titolarità del curatore, sul quale graverebbe, per
conseguenza, il dovere di rimuoverli secondo le leggi
vigenti;
b) il fallimento subentra negli obblighi facenti capo
all’impresa fallita e perciò sarebbe tenuto all’adempimento
dei doveri derivanti dall’accertata responsabilità della
stessa impresa, come dimostrerebbe tra l’altro la disciplina
della legge fallimentare sulla prosecuzione dei contratti
facenti capo all’impresa fallita.
In realtà, se l’ordinanza impugnata è rivolta al fallimento
per effetto dell’inottemperanza dell’impresa a precedenti
provvedimenti (com’è avvenuto sia nella fattispecie
analizzata dalla giurisprudenza ora riportata, sia nel caso
oggetto del ricorso in epigrafe), la curatela fallimentare
deve esser considerata estranea alla determinazione degli
inconvenienti sanitari riscontrati nell’area interessata.
Non basta, a far scattare un obbligo in capo alla curatela,
il riferimento alla disponibilità giuridica degli oggetti
qualificati come rifiuti inquinanti: il potere di disporre
dei beni fallimentari, secondo le regole della procedura
concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato, non
comporta necessariamente –per la giurisprudenza del
Consiglio di Stato in commento, le cui affermazioni il
Collegio condivide– il dovere di adottare particolari
comportamenti attivi, volti alla tutela sanitaria degli
immobili destinati alla bonifica dei fattori inquinanti.
D’altro lato, è proprio il richiamo alla disciplina del
fallimento e della successione nei contratti a dimostrare
che la curatela fallimentare non subentra negli obblighi più
strettamente correlati alla responsabilità dell’imprenditore
fallito, non potendosi invocare l’art. 1576 c.c., poiché
l’obbligo di mantenimento della cosa locata in buono stato
riguarda i rapporti tra conduttore e locatore e non si
riverbera, direttamente, sui doveri fissati da altre
disposizioni, dirette ad altro scopo (C.d.S., Sez. V, n.
4328/2003, cit.)….Sulla questione si è espresso anche questo
Tribunale Amministrativo (TAR Toscana, Sez. II, 01.08.2001,
n. 1318), che, mutando il proprio precedente orientamento
(TAR Toscana, Sez. I, 03.03.1993, n. 196; id., Sez. II,
28.04.2000, n. 780), ha evidenziato come, in linea di
principio, i rifiuti prodotti dall’imprenditore fallito non
siano beni da acquisire alla procedura fallimentare e,
quindi, non formino oggetto di apprensione da parte del
curatore.
L’esclusione della possibilità di sussumere legittimamente i
rifiuti nel compendio fallimentare fa, perciò, scartare l’ipotizzabilità
di profili di responsabilità di carattere meramente gestorio
in capo al curatore. La sentenza in rassegna precisa,
inoltre, che per una diversa conclusione sarebbe necessario
individuare un’univoca, chiara ed autonoma responsabilità in
capo al curatore fallimentare nell’abbandono dei rifiuti di
cui trattasi, che, però, va esclusa quando il fatto si è
verificato in epoca antecedente all’apertura della procedura
fallimentare, richiedendo la normativa di riferimento (a
partire dal d.lgs. n. 22/1997) l’accertamento della
responsabilità da illecito in capo al destinatario
dell’ordine. In mancanza dell’ascrivibilità alla curatela
fallimentare di una condotta illecita o di un comportamento
corresponsabile, alla P.A. non resta che procedere
all’esecuzione d’ufficio ed al recupero delle somme
anticipate con insinuazione del relativo credito al passivo
fallimentare, in conformità, del resto, all’art. 18, comma
5, del d.m. n. 471/1999 (TAR Toscana, Sez. II, n. 1318/2001,
cit.)….
Ad una diversa conclusione non si potrebbe pervenire neanche
aderendo alla tesi che configura l’illecito ambientale come
illecito permanente. In base a detta tesi si è affermata
l’applicabilità della normativa di cui all’art. 17 del
d.lgs. n. 22/1997 a qualsivoglia situazione di inquinamento
in atto al tempo dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 22
cit., indipendentemente dal momento del verificarsi del
fatto generatore dell’attuale situazione patologica: ciò,
però, a condizione che il soggetto che aveva posto in essere
la condotta all’epoca in cui non vigeva ancora il d.lgs. n.
22/1997 fosse lo stesso che operava al tempo del verificarsi
dell’inquinamento, dopo tale data (cfr. TAR Lombardia,
Milano, Sez. I, 19.04.2007, n. 1913). Per quanto sopra
detto, si deve escludere che una simile identità sia
ipotizzabile tra il fallito e la curatela fallimentare.
Sul punto, il Collegio ritiene di aderire in toto alle
osservazioni avanzate dal curatore fallimentare nell’istanza
di riesame dell’ordinanza gravata e, poi, riprodotte nel
ricorso, in base alle quali, al di fuori dell’esercizio
provvisorio (caso non verificatosi), il curatore non è il
produttore dei rifiuti, né lo diventa con la dichiarazione
di fallimento, poiché non sostituisce il fallito e la
procedura fallimentare ha uno scopo liquidativo e non già
amministrativo o continuativo dell’impresa fallita.
Peraltro, quando (come nella fattispecie per cui è causa) è
il fallito ad aver prodotto i rifiuti e cagionato un danno
all’ambiente, sullo stesso grava l’onere per il relativo
smaltimento, da soddisfare, come già esposto, con
l’insinuazione al passivo fallimentare del credito sorto in
capo alla P.A. che ha anticipato le relative spese>>
(TAR Toscana, sez. II, 21.01.2011 n. 137).
Non possono poi sussistere dubbi in ordine alla possibilità
di estendere il detto orientamento giudiziale anche alla
procedura di concordato preventivo con cessione dei beni
prevista dall’art. 182 della l. fallimentare (r.d.
16.03.1942, n. 267, successivamente modificato dal d.lgs.
12.09.2007, n. 169).
Come rilevato dalla giurisprudenza (Cass. pen. ss.uu.
30.09.2010, n. 43428) <<il liquidatore di cui alla L.
Fall., art. 182, … per il compito che espleta e il rapporto
che lo lega agli organi della procedura (in particolare, al
commissario giudiziale, tenuto a vigilare sull'esecuzione
del concordato, con riguardo anche al rispetto delle
modalità di liquidazione determinate dal Tribunale in sede
di omologazione), si viene a trovare in una posizione di
terzietà rispetto al debitore, che esclude il determinarsi
di un suo rapporto organico con la società e circoscrive la
sua sostituzione agli organi di quest'ultima nei limiti
funzionali all'esecuzione del mandato (realizzazione del
valore dei beni ceduti -costituenti ormai una sorta di
patrimonio separato- con riparto del ricavato)>>; siamo
pertanto in presenza delle stesse coordinate fondamentali
(attribuzione della disponibilità dei beni all’organo di
giustizia incaricato della liquidazione del patrimonio
nell’interesse dell’intera collettività e non del titolare
dei beni) che hanno giustificato il radicato orientamento
giurisprudenziale relativo all’impossibilità di considerare
la curatela fallimentare destinataria delle ordinanze di
rimozione dei rifiuti (TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 19.10.2012 n. 1662 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Allorché il bando di concorso richieda
tassativamente il possesso di un determinato titolo di
studio (o equipollente) per l’ammissione ad un concorso
pubblico, non è consentita la valutazione di un titolo di
studio diverso.
Il principio poggia sul dovuto riconoscimento in capo
all’Amministrazione che indice la procedura selettiva –ferma
la definizione del livello del titolo, affidata alla legge o
ad altra fonte normativa– di un potere discrezionale
nell’individuazione della tipologia del titolo stesso, da
esercitare tenendo conto della professionalità e della
preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire.
Allorché, come nel caso di specie, il bando di concorso
richieda tassativamente il possesso di un determinato titolo
di studio (o equipollente) per l’ammissione ad un concorso
pubblico, non è consentita la valutazione di un titolo di
studio diverso.
Il principio poggia sul dovuto riconoscimento in capo
all’Amministrazione che indice la procedura selettiva –ferma
la definizione del livello del titolo, affidata alla legge o
ad altra fonte normativa– di un potere discrezionale
nell’individuazione della tipologia del titolo stesso, da
esercitare tenendo conto della professionalità e della
preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire
(Consiglio di Stato, Sez. VI, 19.08.2009, n. 4994)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 18.10.2012 n. 5351 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
parere della C.E.I. in ordine alla sanatoria di costruzioni
abusivamente realizzate non implica una diffusa motivazione,
dovendo ritenersi sufficientemente motivato dall’indicazione
delle ragioni assunte a fondamento della valutazione di
compatibilità dell’intervento edilizio con le esigenze di
tutela paesistica poste a base del relativo vincolo. Anche
una motivazione scarna e sintetica, laddove rilevi gli
estremi logici dell’apprezzamento negativo è, quindi, da
ritenersi sufficiente.
La necessità di una motivazione più penetrante ricorre,
invece, nel caso di parere favorevole, dovendosi dare
compiutamente conto delle ragioni per cui un concreto e
specifico intervento edilizio non determini un impatto
ambientale negativo nonostante la precostituita imposizione
di un vincolo sull’area ove l’intervento è allocato, essendo
i valori dell’ambiente, valori di rilevanza costituzionale
primaria, tali cioè da prevalere, ove in concreto
sussistenti, anche sullo jus aedificandi.
Con il primo motivo di ricorso (“Violazione e falsa
applicazione dell’art. 7 della legge 29.06.1939 n. 1497;
eccesso di potere particolarmente sotto il profilo del
travisamento dei fatti; violazione e falsa applicazione
degli artt. 7, 31, 32 e 35 della legge 28.02.1985 n.
47 e successive modificazioni e integrazioni”), si sostiene
che la C.E.I. avrebbe immotivatamente affermato che i
manufatti per cui è causa sarebbero non condonabili perché
fonte di un danno ambientale.
La censura non ha pregio.
Il parere della C.E.I. in ordine alla sanatoria di
costruzioni abusivamente realizzate non implica una diffusa
motivazione, dovendo ritenersi sufficientemente motivato
dall’indicazione delle ragioni assunte a fondamento della
valutazione di compatibilità dell’intervento edilizio con le
esigenze di tutela paesistica poste a base del relativo
vincolo. Anche una motivazione scarna e sintetica, laddove
rilevi gli estremi logici dell’apprezzamento negativo è,
quindi, da ritenersi sufficiente (cfr., TAR Toscana, III, 26.11.2010, n. 6641). La necessità di una motivazione più
penetrante ricorre, invece, nel caso di parere favorevole,
dovendosi dare compiutamente conto delle ragioni per cui un
concreto e specifico intervento edilizio non determini un
impatto ambientale negativo nonostante la precostituita
imposizione di un vincolo sull’area ove l’intervento è
allocato, essendo i valori dell’ambiente, valori di
rilevanza costituzionale primaria, tali cioè da prevalere,
ove in concreto sussistenti, anche sullo jus aedificandi
(cfr., TAR Toscana, III, 12.11.1998, n. 377)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 16.10.2012 n. 1625 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Anche
qualora intercorra un lungo periodo di tempo tra la
realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento
sanzionatorio, tale circostanza non rileva ai fini della
legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso
affidamento circa la legittimità dell'opera, che il
protrarsi del comportamento inerte del Comune avrebbe
ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in
relazione ad un presunto ulteriore obbligo, per
l'amministrazione procedente, di motivare specificamente il
provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse
pubblico attuale a far demolire il manufatto, poiché la
lunga durata nel tempo dell'opera priva del necessario
titolo edilizio ne rafforza il carattere abusivo
(trattandosi di illecito permanente), il che preserva il
potere-dovere dell'amministrazione di intervenire
nell'esercizio dei suoi poteri sanzionatori, tanto più che
il provvedimento demolitorio non richiede una congrua
motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico
alla rimozione dell'abuso, che è in re ipsa.
Quanto, infine,
all’ulteriore profilo di doglianza –a prescindere
dall’inammissibilità dello stesso per carenza di interesse-
va rilevato che, anche qualora intercorra un lungo periodo
di tempo tra la realizzazione dell'opera abusiva ed il
provvedimento sanzionatorio, tale circostanza non rileva ai
fini della legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al
preteso affidamento circa la legittimità dell'opera, che il
protrarsi del comportamento inerte del Comune avrebbe
ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in
relazione ad un presunto ulteriore obbligo, per
l'amministrazione procedente, di motivare specificamente il
provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse
pubblico attuale a far demolire il manufatto, poiché la
lunga durata nel tempo dell'opera priva del necessario
titolo edilizio ne rafforza il carattere abusivo
(trattandosi di illecito permanente), il che preserva il
potere-dovere dell'amministrazione di intervenire
nell'esercizio dei suoi poteri sanzionatori, tanto più che
il provvedimento demolitorio non richiede una congrua
motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico
alla rimozione dell'abuso, che è in re ipsa (cfr., ex multis,
TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 07.07.2009, n. 1053)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 16.10.2012 n. 1625 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Secondo
consolidata giurisprudenza (formatasi in costanza dei
referenti normativi vigenti all’epoca della adozione del
provvedimento impugnato, che sono quelli indicati in
rubrica), la verifica concernente la sussistenza dei
presupposti atti a rendere obbligatoria l’acquisizione del
titolo concessorio, ai fini della legittima realizzazione di
un traliccio porta antenna, è incentrata sulla valutazione
dell’impatto estetico, ambientale e funzionale alla stessa
ascrivibile: in tale ottica, la doverosità del previo
conseguimento della concessione edilizia è stata affermata,
ad esempio, con riguardo all’ipotesi di antenna alta
quindici metri ovvero di opera complessa, composta da “tre
antenne, la più alta delle quali misura otto metri, e da un
box metallico che misura 7 mq. per un’altezza di circa 3
metri”.
... per l'annullamento dell'ordinanza-diffida n. 128/1996 del
Sindaco pro tempore del Comune di Bagno a Ripoli, notificata
a Ripetitori Televisivi Montagni (R.T.M.) s.r.l. il
05.03.1996, a demolire, con riconduzione in pristino, entro
novanta giorni dalla notifica, con avviso di demolizione
d’ufficio, in caso di inottemperanza, un locale tecnico per
ripetitore e un ripetitore, insistenti su area vincolata ex
L. 1497/1939, nonché del contestuale diniego di sanatoria
emesso, ex art. 32 della legge n. 47/1985, sulla base del
parere contrario 23.11.1995 espresso da parte della C.E.I.,
che aveva ritenuto che l'intervento costituisse grave danno
ambientale, in quanto sito all'interno di resede di edificio
di notevole valore storico ambientale e per l'impatto
negativo per le sue dimensioni e morfologia;
...
Con il terzo motivo di ricorso ("Violazione di
legge: art. 8 primo comma, art. 10 L. 47/1985.") e con il
quarto ("Violazione art. 1 L. n. 10/1977; art. 7 L. n.
47/1985.") la ricorrente sostiene che il Sindaco avrebbe
errato nell'ordinare la demolizione perché, per le opere in
questione, non sarebbe necessaria la concessione edilizia e,
quindi, non potrebbe essere imposta tale sanzione.
Le censure non possono essere condivise.
Secondo consolidata giurisprudenza (formatasi in costanza
dei referenti normativi vigenti all’epoca della adozione del
provvedimento impugnato, che sono quelli indicati in
rubrica), la verifica concernente la sussistenza dei
presupposti atti a rendere obbligatoria l’acquisizione del
titolo concessorio, ai fini della legittima realizzazione di
un traliccio porta antenna, è incentrata sulla valutazione
dell’impatto estetico, ambientale e funzionale alla stessa
ascrivibile: in tale ottica, la doverosità del previo
conseguimento della concessione edilizia è stata affermata,
ad esempio, con riguardo all’ipotesi di antenna alta
quindici metri (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4391
del 30.07.2003) ovvero di opera complessa, composta da
“tre antenne, la più alta delle quali misura otto metri, e
da un box metallico che misura 7 mq. per un’altezza di circa
3 metri” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 3265 del 10.06.2003).
Nella fattispecie, pertanto, tenuto conto che il traliccio,
come asserito dalla stessa ricorrente, è alto ben 14 metri,
è indubbio che le opere abbiano una rilevanza sotto il
profilo urbanistico-edilizio tale da richiedere il rilascio
della concessione edilizia.
Né le opere in questione, stanti la loro autonomia
funzionale –non potendo certo dirsi asservite al Convento
dei Frati all’interno del cui terreno insistono- e
consistenza materiale, possono ricomprendersi tra quelle
accessorie per le quali è sufficiente l’autorizzazione
edilizia ex art. 8 della L. 47/1985 (e prima ex art. 7, L.
94/1982). Tali opere, infatti, sono soltanto quelle che, per
consistenza, destinazione e caratteristiche, sono accessorie
rispetto al fabbricato principale (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 16.10.2012 n. 1624 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Essendo la funzione della sanzione pecuniaria di
cui all'art. 15 l. 29.06.1939 n. 1947 non meramente
repressiva della condotta nell'autore del illecito, ma
ripristinatoria dei valori giuridici offesi dalla condotta
illecita, la condanna al pagamento di tale sanzione,
”equivalente alla maggiore somma tra il danno arrecato e il
profitto conseguito”, è eventuale ed alternativa alla
demolizione e può essere adottata solo dopo una valutazione
effettuata dall'amministrazione "nell'interesse della
protezione delle bellezze naturali e panoramiche".
Peraltro, il principio –che è jus receptum– di autonomia
della violazione paesaggistica rispetto all’illecito
edilizio, e dei correlati procedimenti amministrativi,
esclude qualsiasi interferenza, nei sensi invocati dalla
ricorrente, tra i due procedimenti, e, quindi, che l’erronea
richiesta di pagamento della sanzione pecuniaria ex art. 15
cit., cui sia seguita la corresponsione a tale titolo della
somma richiesta –come avvenuto nel caso di specie– quale che
sia la valenza che a tale richiesta si voglia attribuire,
possa inficiare la validità dell’ordine di demolizione
successivamente emesso in relazione a quelle stesse opere
abusive per la realizzazione delle quali era stato richiesto
il pagamento della suindicata sanzione pecuniaria.
L’autonomia dei due procedimenti esclude, altresì, che la
richiesta di corresponsione della sanzione pecuniaria in
argomento ed il successivo pagamento del relativo importo
possano aver consolidato una vera e propria aspettativa
sull’esito favorevole del condono.
---------------
Per definizione non può considerarsi legittimo l’affidamento
derivante dalla realizzazione di un abuso soggettivamente
qualificato; in ogni caso, l’esercizio del potere di
controllo e sanzionatorio della p.a. in materia
urbanistico-edilizia e paesistica non è soggetto a
prescrizione.
Ne consegue che l’accertamento dell’illecito amministrativo
paesistico e l’applicazione della relativa sanzione, così
come la verifica in sede di condono della ricorrenza di un
profilo preclusivo di incompatibilità, può intervenire anche
dopo il decorso di un rilevante lasso temporale dalla
consumazione dell’abuso, al quale deve riconoscersi natura
permanente sino al conseguimento del titolo autorizzatorio.
---------------
La relatività del vincolo di inedificabilità di cui alla L.
1497/1939 e 431/1985 non comporta un obbligo di analitica
motivazione del diniego di autorizzazione ambientale,
obbligo che sussiste, viceversa, per il rilascio
dell’autorizzazione nonostante il vincolo.
Questo anche perché il parere negativo in ordine alla
sanatoria di opere eseguite su aree tutelate costituisce
espressione di discrezionalità tecnica, incensurabile nel
merito con la conseguenza che il giudizio può risultare
viziato solo allorché esso sia manchevole quanto alla sua
ragionevolezza e comunque non abbia attinenza alla
fattispecie concreta.
---------------
Non sussiste alcun obbligo in capo all'amministrazione di
imporre prescrizioni per rendere l'abuso esteticamente
compatibile con l'area tutelata in quanto tale finalità non
rientra nei compiti d'istituto, dovendo l'amministrazione
limitarsi a valutare il contenuto della domanda di sanatoria
allo scopo di accertarne la compatibilità paesaggistica e
non già per suggerire attività ulteriori volte a legalizzare
comportamenti "contra legem".
E’ sì vero che, essendo la funzione della sanzione pecuniaria di cui
all'art. 15 l. 29.06.1939 n. 1947 non meramente
repressiva della condotta nell'autore del illecito, ma ripristinatoria dei valori giuridici offesi dalla condotta
illecita, la condanna al pagamento di tale
sanzione, ”equivalente alla maggiore somma tra il danno
arrecato e il profitto conseguito”, è eventuale ed
alternativa alla demolizione e può essere adottata solo dopo
una valutazione effettuata dall'amministrazione
"nell'interesse della protezione delle bellezze naturali e
panoramiche".
Peraltro, il principio –che è jus receptum– di autonomia
della violazione paesaggistica rispetto all’illecito
edilizio, e dei correlati procedimenti amministrativi,
esclude qualsiasi interferenza, nei sensi invocati dalla
ricorrente, tra i due procedimenti, e, quindi, che l’erronea
richiesta di pagamento della sanzione pecuniaria ex art. 15
cit., cui sia seguita la corresponsione a tale titolo della
somma richiesta –come avvenuto nel caso di specie– quale
che sia la valenza che a tale richiesta si voglia
attribuire, possa inficiare la validità dell’ordine di
demolizione successivamente emesso in relazione a quelle
stesse opere abusive per la realizzazione delle quali era
stato richiesto il pagamento della suindicata sanzione
pecuniaria.
L’autonomia dei due procedimenti esclude, altresì, che la
richiesta di corresponsione della sanzione pecuniaria in
argomento ed il successivo pagamento del relativo importo
possano aver consolidato una vera e propria aspettativa
sull’esito favorevole del condono.
Non può, inoltre, non rilevarsi il breve lasso di tempo
intercorso tra la richiesta di pagamento dell’importo
relativo alla sanzione ex art. 15 cit. e la comunicazione di
inizio del procedimento di diniego di sanatoria (25.10.2002–25.05.2004), che sarebbe, comunque, inidoneo ad
ingenerare un qualsivoglia affidamento nella responsabile
degli abusi sulla sanabilità delle opere.
A riguardo, infatti, la giurisprudenza ha ripetuta temente
chiarito che “per definizione non può considerarsi legittimo
l’affidamento derivante dalla realizzazione di un abuso
soggettivamente qualificato; e che, in ogni caso, alla
stregua di un indirizzo giurisprudenziale anch’esso
costante, l’esercizio del potere di controllo e
sanzionatorio della p.a. in materia urbanistico-edilizia e
paesistica non è soggetto a prescrizione. Ne consegue che
l’accertamento dell’illecito amministrativo paesistico e
l’applicazione della relativa sanzione, così come la
verifica in sede di condono della ricorrenza di un profilo
preclusivo di incompatibilità, può intervenire anche dopo il
decorso di un rilevante lasso temporale dalla consumazione
dell’abuso, al quale deve riconoscersi natura permanente
sino al conseguimento del titolo autorizzatorio (Cons.
Stato, Sez. VI, 15.11.2004, n. 7405)” (così Cons. di
Stato, sez. VI, 10.02.2006, n. 528).
---------------
Invero, come
ripetutamente affermato dalla giurisprudenza amministrativa,
la relatività del vincolo di inedificabilità di cui alla L.
1497/1939 e 431/1985 non comporta un obbligo di analitica
motivazione del diniego di autorizzazione ambientale,
obbligo che sussiste, viceversa, per il rilascio
dell’autorizzazione nonostante il vincolo.
Questo anche
perché il parere negativo in ordine alla sanatoria di opere
eseguite su aree tutelate costituisce espressione di
discrezionalità tecnica, incensurabile nel merito con la
conseguenza che il giudizio può risultare viziato solo
allorché esso sia manchevole quanto alla sua ragionevolezza
e comunque non abbia attinenza alla fattispecie concreta
(cfr., ex multis, TAR Toscana, sez. III 17.01.2000 n.
7).
---------------
Come affermato dalla
consolidata giurisprudenza non sussiste alcun obbligo in
capo all'amministrazione di imporre prescrizioni per rendere
l'abuso esteticamente compatibile con l'area tutelata in
quanto tale finalità non rientra nei compiti d'istituto,
dovendo l'amministrazione limitarsi a valutare il contenuto
della domanda di sanatoria allo scopo di accertarne la
compatibilità paesaggistica e non già per suggerire attività
ulteriori volte a legalizzare comportamenti "contra legem"
(cfr. Cons. St., sez. VI, 15.06.2009, n. 3806)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 16.10.2012 n. 1623 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: I
provvedimenti repressivi di abusi edilizi non devono essere
preceduti dall'avviso dell'inizio del procedimento,
trattandosi di procedimenti tipizzati e vincolati e
considerato che i provvedimenti sanzionatori presuppongono
un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate, nonché sul carattere non assentito delle
medesime.
---------------
I provvedimenti, che ordinano la demolizione di manufatti
abusivi non abbisognano di particolari indicazioni in ordine
all'attualità dell'interesse pubblico alla rimozione
dell’abuso- che è in re ipsa, consistendo nel ripristino
dell’assetto urbanistico violato.
Pertanto, l'ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive è sufficientemente motivata con riferimento
all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla
sicura assoggettabilità di queste al regime concessorio.
Tali provvedimenti, infatti, prescindono da qualsiasi
valutazione discrezionale dei fatti e sono subordinati al
solo verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge, così
che, una volta accertata la consistenza dell'abuso, non vi è
alcun margine di ponderazione per l'interesse pubblico
eventualmente collegato.
---------------
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di
accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà
privo di effetti in ragione dell'accertata conformità
dell'intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia
vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia
al momento della presentazione della domanda, con
conseguente venir meno dell'originario carattere abusivo
dell'opera realizzata.
Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di
demolizione riacquista la sua efficacia, con la sola
precisazione che il termine concesso per l'esecuzione
spontanea della demolizione deve decorrere dal momento in
cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza
dell'interessato, che non può rimanere pregiudicato
dall'avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di
chiedere l'accertamento di conformità urbanistica, e deve
pertanto poter fruire dell'intero termine a lui assegnato
per adeguarsi all'ordine, evitando così le conseguenze
negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso.
---------------
Ai sensi dell'art. 7, comma 3, L. 28.02.1985 n. 47
l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'immobile
abusivo e della relativa area di sedime costituisce effetto
automatico della mancata ottemperanza all'ordinanza di
ingiunzione della demolizione e, pertanto, il provvedimento
di accertamento di detta inottemperanza, il quale
costituisce titolo per l'immissione in possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari, ha natura meramente
dichiarativa e non implica scelte di tipo discrezionale,
fermo restando che sia l'ordinanza di ingiunzione della
demolizione sia quella di acquisizione al patrimonio
comunale possono essere adottate senza la specifica
indicazione delle aree oggetto di acquisizione, in quanto a
tale individuazione può procedersi, sulla base dell'art. 7
L. n. 47 cit. con successivo e separato atto.
Il primo motivo, con il quale si deduce la
omessa comunicazione di avvio del procedimento, è infondato
alla luce del consolidato e condiviso orientamento
giurisprudenziale, secondo il quale i provvedimenti
repressivi di abusi edilizi non devono essere preceduti
dall'avviso dell'inizio del procedimento, trattandosi di
procedimenti tipizzati e vincolati e considerato che i
provvedimenti sanzionatori presuppongono un mero
accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate, nonché sul carattere non assentito delle
medesime (Consiglio di Stato, sez. IV, 30.03.2000, n.
1814; TAR Campania, sez. IV, 28.03.2001, n. 1404, 14.06.2002, n. 3499, 12.02.2003, n. 797; TAR
Sicilia, Catania sez. III, 03.03.2003, n. 374; TAR
Sicilia, Palermo, sez. III, 20.04.2005, n. 577, 20.03.2006, n. 608; sez. II, 27.03.2007, n. 979).
Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso -con il
quale è stata dedotta la carenza della motivazione- in
quanto, secondo un consolidato e condiviso orientamento
giurisprudenziale, i provvedimenti, che ordinano la
demolizione di manufatti abusivi non abbisognano di
particolari indicazioni in ordine all'attualità
dell'interesse pubblico alla rimozione dell’abuso- che è in
re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico
violato (C.G.A. 05.12.2002, n. 651; TAR Campania,
sez. IV, 04.07.2001, n. 3071; 13.06.2002, n. 3485; 20.10.2003, n. 12962; TAR Sicilia, sez. III, 26.10.2005, n. 4105, sez. II, 27.03.2007, n. 979).
Pertanto,
l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è
sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo
riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura
assoggettabilità di queste al regime concessorio (TAR
Campania Napoli, sez. IV, 02.12.2004, n. 18085). Tali
provvedimenti, infatti, prescindono da qualsiasi valutazione
discrezionale dei fatti e sono subordinati al solo
verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge, così che,
una volta accertata la consistenza dell'abuso, non vi è
alcun margine di ponderazione per l'interesse pubblico
eventualmente collegato (Consiglio Stato, sez. IV, 27.04.2004, n. 2529).
---------------
L’art. 7 della legge n.
47/1985, nel disciplinare il procedimento sanzionatorio
conseguente alla commissione di determinati abusi edilizi,
ai commi 3, 4 e 5, così recita: “3. Se il responsabile
dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino
dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni
dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella
necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche,
alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono
acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune.
L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci
volte la complessiva superficie utile abusivamente
costruita.
4. L'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a
demolire, nel termine di cui al precedente comma, previa
notifica all'interessato, costituisce titolo per
l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri
immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente.
5. L'opera acquisita deve essere demolita con ordinanza del
sindaco a spese dei responsabili dell'abuso, salvo che con
deliberazione consiliare non si dichiari l'esistenza di
prevalenti interessi pubblici e sempre che l'opera non
contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali”.
Nella fattispecie in esame, come emerso dalla esposizione in
fatto, l’efficacia dell’ordinanza di demolizione n. 13/1999 è
stata sospesa da questo Tribunale con ordinanza cautelare n.
306 dell’08.08.1999 “fino alla pronuncia sulla domanda di
sanatoria” presentata, ai sensi dell’art. 13 della legge n.
47/1985, il 16.04.1999.
Il tenore della citata ordinanza cautelare era, dunque,
inequivoco, in linea con un indirizzo giurisprudenziale,
secondo il quale: “All'esito del procedimento di sanatoria,
in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di
demolizione rimarrà privo di effetti in ragione
dell'accertata conformità dell'intervento alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso sia al momento della
presentazione della domanda, con conseguente venir meno
dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata. Di
contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di
demolizione riacquista la sua efficacia, con la sola
precisazione che il termine concesso per l'esecuzione
spontanea della demolizione deve decorrere dal momento in
cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza
dell'interessato, che non può rimanere pregiudicato
dall'avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di
chiedere l'accertamento di conformità urbanistica, e deve
pertanto poter fruire dell'intero termine a lui assegnato
per adeguarsi all'ordine, evitando così le conseguenze
negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso"
(TAR Campania, Napoli, sez. II, 14.09.2009; nello
stesso senso, TAR Campania, Napoli, sez. III, 12.04.2011
n. 2103).
E, pertanto, a seguito del diniego di sanatoria, comunicato
ai ricorrenti con raccomandata a.r. prot. n. 15801 del 01.07.1999, pervenuta agli stessi il
07.07.1999,
l’ordine di demolizione n. 13/1999 ha riacquistato la sua
efficacia e, quindi, ha determinato ope legis –non avendo i
ricorrenti, nel termine di 90 giorni dalla comunicazione del
diniego di sanatoria, proceduto alla demolizione, come
emerso a seguito dell’accertamento dell’inadempienza,
effettuato il 03.04.2000- l’acquisizione, di cui
all’art. 7 della legge n. 47/1985, a favore della P.A., senza
necessità che l’Amministrazione adottasse una nuova ed
analoga ingiunzione a demolire.
---------------
Ora, tenuto conto che, al
momento dell’ordine di acquisizione, è necessaria soltanto
la quantificazione dell’area da acquisire e non la precisa
delimitazione, l’ordinanza va esente dalla censura avverso
lo stesso formulata.
In merito, infatti, la giurisprudenza ha avuto ripetutamente
modo di chiarire che “ai sensi dell'art. 7, comma 3, L. 28.02.1985 n. 47 l'acquisizione gratuita al patrimonio
comunale dell'immobile abusivo e della relativa area di sedime costituisce effetto automatico della mancata
ottemperanza all'ordinanza di ingiunzione della demolizione
e, pertanto, il provvedimento di accertamento di detta
inottemperanza, il quale costituisce titolo per l'immissione
in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari,
ha natura meramente dichiarativa e non implica scelte di
tipo discrezionale, fermo restando che sia l'ordinanza di
ingiunzione della demolizione sia quella di acquisizione al
patrimonio comunale possono essere adottate senza la
specifica indicazione delle aree oggetto di acquisizione, in
quanto a tale individuazione può procedersi, sulla base
dell'art. 7 L. n. 47 cit. con successivo e separato atto (cfr. fra le tante, TAR Calabria-Catanzaro - Sez. II -
08.03.2007, n. 161; Cons. Stato Sez. VI, 08.04.2004, n.
1998)” (TAR Sicilia, Palermo, 02.10.2007, n. 2050) (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 16.10.2012 n. 1616 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Premesso
che per determinare il carattere essenziale o meno di una
variante alla concessione edilizia si deve avere riguardo al
risultato complessivo dell’intervento costruttivo, per cui
il relativo giudizio fa formulato, non già esaminando
l’intervento stesso nei suoi singoli elementi, ma valutando
l’insieme delle modificazioni apportate al primitivo
progetto, per stabilire se si è di fronte ad una variante
alla concessione ovvero ad una nuova concessione edilizia
occorre far riferimento alle modifiche di carattere
qualitativo o quantitativo apportate al progetto originario,
in particolare, a quelle relative alla superficie coperta,
al perimetro, alla volumetria ed alle caratteristiche
funzionali e strutturali (interne ed esterne) dell'edificio.
A riguardo, non può che ribadirsi il
tradizionale orientamento giurisprudenziale secondo il quale
–premesso che per determinare il carattere essenziale o
meno di una variante alla concessione edilizia si deve
avere riguardo al risultato complessivo dell’intervento
costruttivo, per cui il relativo giudizio fa formulato, non
già esaminando l’intervento stesso nei suoi singoli
elementi, ma valutando l’insieme delle modificazioni
apportate al primitivo progetto (cfr., Cons. di Stato, V, 18.10.2001, n. 5496; TAR Puglia, III, 14.12.2006, n.
4355)- per stabilire se si è di fronte ad una variante alla
concessione ovvero ad una nuova concessione edilizia occorre
far riferimento alle modifiche di carattere qualitativo o
quantitativo apportate al progetto originario, in
particolare, a quelle relative alla superficie coperta, al
perimetro, alla volumetria ed alle caratteristiche
funzionali e strutturali (interne ed esterne) dell'edificio
(cfr., ex multis, Cons. di Stato, V, 03.08.2004, n.
5429; 22.01.2003, n. 249)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 16.10.2012 n. 1614 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
semplice indicazione di una strada nell’elenco delle strade
comunali non risulta dirimente, considerato che tali elenchi
hanno natura meramente dichiarativa, e non costitutiva, per
cui detta inclusione non è di per sé sufficiente a
comprovare la natura pubblica o privata di una strada; si
tratta di presunzione “iuris tantum”, cioè superabile con la
prova contraria della inesistenza di un diritto di uso o di
godimento della strada da parte della collettività, avendo
riguardo alle condizioni effettive del bene.
E’ cioè necessario che la strada sia posta all’interno di un
centro abitato, che sia concretamente idonea a soddisfare
(anche per il collegamento con la pubblica via) esigenze di
interesse generale e che sulla stessa si esplichi di fatto
il pubblico transito, “jure servitutis publicae”, da parte
di una collettività di persone qualificate dall’appartenenza
ad una comunità territoriale.
Ora, va rilevato che, per pacifica
giurisprudenza, la semplice indicazione di una strada
nell’elenco delle strade comunali non risulta dirimente,
considerato che tali elenchi hanno natura meramente
dichiarativa, e non costitutiva, per cui detta inclusione
non è di per sé sufficiente a comprovare la natura pubblica
o privata di una strada (cfr., Cons. di Stato, sez. V, 07.12.2010, n. 8624; Cass. Civ., sez. II,
09.11.2009, n. 23705); si tratta di presunzione “iuris tantum”,
cioè superabile con la prova contraria della inesistenza di
un diritto di uso o di godimento della strada da parte della
collettività (cfr., Cass., sez. I, 26.08.2002, n. 12540;
Cons. di Stato, sez. V, 01.12.2003, n. 7831), avendo
riguardo alle condizioni effettive del bene.
E’ cioè necessario che la strada sia posta all’interno di un
centro abitato, che sia concretamente idonea a soddisfare
(anche per il collegamento con la pubblica via) esigenze di
interesse generale e che sulla stessa si esplichi di fatto
il pubblico transito, “jure servitutis publicae”, da parte
di una collettività di persone qualificate dall’appartenenza
ad una comunità territoriale (cfr., ex multis, Cons. di
Stato, sez. V, 24.05.2007, n. 2618) (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 16.10.2012 n. 1612 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
SPESE GIUDIZIALI CIVILI - LIQUIDAZIONE –
ABROGAZIONE DELLE TARIFFE PROFESSIONALI – DISCIPLINA
TRANSITORIA - ART. 41 DEL D.M. 140 DEL 2012.
Le S.U. hanno affermato che, agli effetti dell’art. 41 del
d. m. 20.07.2012, n. 140, il quale ha dato attuazione
all’art. 9, secondo comma, del d.l. 24.01.2012, n. 1,
convertito in legge 24.03.2012, n. 27, i nuovi parametri,
cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti
in luogo delle abrogate tariffe professionali, sono da
applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale
intervenga in un momento successivo alla data di entrata in
vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso
spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia
ancora completato la propria prestazione professionale,
ancorché tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in
parte svolta quando ancora erano in vigore le tariffe
abrogate (Corte di
Cassazione, Sezz. Unite Civili,
sentenza 12.10.2012 n. 17405
- link a www.cortedicassazione.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Esposizione
cartello di cantiere e finalità.
L'obbligo, di
apposizione del cartello di cantiere, avente lo scopo di
rendere edotti i terzi circa i titoli edilizi rilasciati ed
i nominativi dei responsabili dell'attività edilizia in
corso non può ritenersi esclusivamente finalizzato a
consentire ad eventuali contro-interessati di far valere le
proprie pretese innanzi all'autorità amministrativa; in
considerazione dei rischi per l'incolumità individuale
collegati allo svolgimento della attività nel cantiere, deve
ritenersi, al contrario, che la finalità cui assolve il
suddetto obbligo sia quella di indicare i soggetti
responsabili, nel caso in cui durante lo svolgimento delle
attività di cantiere derivino danni nei confronti di terzi
(Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 11.10.2012 n. 40118 -
tratto da www.lexambiente.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Abusi
edilizi e buona fede.
Nella
fattispecie contravvenzionale la eventuale buona fede può
rilevare quando consista nella mancata consapevolezza del
fatto che derivi da un elemento positivo, estraneo
all'agente stesso, consistente in una circostanza che induca
alla convinzione della liceità del comportamento tenuto,
facendosi carico di tale prova l'imputato, il quale deve
anche dimostrare di avere compiuto tutto quanto poteva per
osservare la norma violata
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.10.2012 n. 40115 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Cessione
di cubatura.
In tema di
cessione di cubatura, la efficacia della volontà del
proprietario "cedente" costituisce, all'interno del
procedimento amministrativo di rilascio del permesso di
costruire, presupposto di tale provvedimento, così che il
trasferimento di volumetria si realizza soltanto con il
rilascio finale del titolo edilizio.
Peraltro, soltanto per effetto dei rilascio del
provvedimento amministrativo si costituisce il ''vincolo
di asservimento" che, senza oneri di forma pubblica o di
trascrizione, incide definitivamente sulla disciplina
urbanistica ed edilizia delle aree interessate, in quanto
nel territorio comunale il titolo abilitativo edilizio crea
un nuovo lotto di pertinenza urbanistica dell'edificio, che
non coincide con i confini di proprietà ed ha una
consistenza indipendente rispetto ai successivi interventi
nelle aree medesime, derivandone l'impossibilità di
assentire e di richiedere ulteriori ed eccedenti
realizzazioni di volumi costruttivi sul fondo asservito, per
la parte in cui esso è rimasto privo della potenzialità
edificatoria già utilizzata dal titolare del fondo in favore
del quale ha avuto luogo l'asservimento
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.10.2012 n. 40111 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Per quanto concerne la distanza tra edifici, la
normativa civilistica esclude dal calcolo gli elementi
ornamentali e gli aggetti di minima entità.
Per quanto concerne la distanza
tra edifici, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che
la normativa civilistica escluda dal calcolo gli elementi
ornamentali e gli aggetti di minima entità (ex plurimis:
Cass.civ., II, 22.07.2010 n. 17242; TAR Lombardia, Milano,
IV, 04.05.2011 n. 1174).
In tal senso si colloca la norma regolamentare vigente a
Velletri (art. 103.1 del regolamento edilizio), la quale,
richiamando le disposizioni del codice civile, determina la
distanza tra fabbricati nella lunghezza del segmento minimo
congiungente la parte più sporgente e quella prospiciente,
esclusi gli aggetti di copertura, gli elementi ornamentali,
le pensiline e i balconi a sbalzo fino a 1 ml, ecc., che non
concorrono alla determinazione della sagoma dell’edificio.
La norma non presenta aspetti di irrazionalità, mentre
appare generica la censura di parte ricorrente
(TAR Lazio-Roma,
Sez. II-bis,
sentenza 10.10.2012, n. 8371 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Lottizzazione
abusiva e modifica di destinazione d'uso di complesso
alberghiero.
Può
configurare il reato di lottizzazione abusiva fa modifica di
destinazione d'uso di un complesso alberghiero, realizzata
attraverso la vendita di singole unità immobiliari a
privati, allorché (indipendentemente dal regime proprietario
della struttura) non sussiste una organizzazione
imprenditoriale preposta alla gestione dei servizi comuni ed
alla concessione in locazione dei singoli appartamenti
compravenduti seconda le regole comuni del contratto di
albergo, atteso che in tale ipotesi le singole unità perdono
la loro originaria destinazione d'uso alberghiera per
assumere quella residenziale.
Irrilevante è la titolarità della proprietà della struttura
immobiliare, che indifferentemente può appartenere ad un
solo proprietario oppure ad una pluralità di soggetti. Ciò
che rileva, invece, è la configurazione della struttura
medesima (anche se appartenente a più proprietari) come
albergo ed una configurazione siffatta deve essere
caratterizzata dalla concessione in locazione delle unità
immobiliari ad una generalità indistinta ed indifferenziata
di soggetti e per periodi di tempo predeterminati (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.10.2012 n. 39465 -
tratto da www.lexambiente.it). |
URBANISTICA:
Decadenza vincolo edificatorio decorso
il termine quinquennale.
La decadenza del vincolo strumentale
-per esso intendendosi quello che subordina l'edificabilità
di un'area all'inserimento della stessa in un programma
pluriennale oppure alla formazione di uno strumento
esecutivo- non ha luogo nella sola ipotesi (peraltro
estranea alla vicenda in oggetto, per la mancanza del PUG,
cui la normativa regionale subordina l’iniziativa privata)
in cui, in alternativa al piano particolareggiato, sia
prevista dal piano regolatore generale la possibilità di
ricorso a un piano di lottizzazione redatto dal privato: in
questo ultimo caso, infatti, la possibilità di una
pianificazione di livello derivato ad iniziativa privata
esclude la configurabilità dello schema ablatorio e quindi,
conseguentemente, la decadenza quinquennale del relativo
vincolo.
La decadenza del vincolo per decorso del quinquennio di
efficacia non equivale ad annullamento della previsione di
piano in vigore e dunque le aree divengono prive di
disciplina urbanistica -salvo quanto previsto dall'art. 9
del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n.
380 (c.d. zone bianche)– fino all'adozione da parte del
Comune di nuove, specifiche prescrizioni.
---------------
Resta fermo che l'obbligo di provvedere alla
rideterminazione urbanistica di un'area, in relazione alla
quale sono decaduti i vincoli espropriativi precedentemente
in vigore (o i vincoli a quelli assimilati) non comporta che
essa riceva una destinazione urbanistica edificatoria o nel
senso voluto dal privato, essendo in ogni caso rimessa al
potere discrezionale dell'Amministrazione comunale la
verifica e la scelta della destinazione che, in coerenza con
la più generale disciplina urbanistica del territorio,
risulti più idonea e più adeguata in relazione all'interesse
pubblico al corretto e armonico utilizzo del territorio,
potendo anche ammettersi la reiterazione degli stessi
vincoli scaduti, sebbene nei limiti di una congrua e
specifica motivazione sulla perdurante attualità della
previsione, comparata con gli interessi privati.
L’art. 9 del decreto del
Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327 (come prima
l'art. 2, comma 1, della legge 19.11.1968 n. 1187) fissa in
cinque anni la durata del vincolo preordinato all’esproprio.
La disposizione ora vigente, al pari di quella che l’ha
preceduta, si riferisce ai vincoli che producano una
pressoché totale ablazione del diritto di proprietà, essendo
tanto intensi da annullare o ridurre notevolmente il valore
degli immobili cui si riferiscono, ivi compresa l'ipotesi di
imposizione temporanea di inedificabilità fino all'entrata
in vigore dei piani particolareggiati, per la cui redazione
non sia fissato alcun termine finale certo.
La decadenza del vincolo strumentale -per esso intendendosi
quello che subordina l'edificabilità di un'area
all'inserimento della stessa in un programma pluriennale
oppure alla formazione di uno strumento esecutivo- non ha
luogo nella sola ipotesi (peraltro estranea alla vicenda in
oggetto, per la mancanza del PUG, cui la normativa regionale
subordina l’iniziativa privata) in cui, in alternativa al
piano particolareggiato, sia prevista dal piano regolatore
generale la possibilità di ricorso a un piano di
lottizzazione redatto dal privato: in questo ultimo caso,
infatti, la possibilità di una pianificazione di livello
derivato ad iniziativa privata esclude la configurabilità
dello schema ablatorio e quindi, conseguentemente, la
decadenza quinquennale del relativo vincolo (cfr. Cons.
Stato, 24.03.2011, n. 615).
La decadenza del vincolo per decorso del quinquennio di
efficacia non equivale ad annullamento della previsione di
piano in vigore e dunque le aree divengono prive di
disciplina urbanistica -salvo quanto previsto dall'art. 9
del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n.
380 (c.d. zone bianche)– fino all'adozione da parte del
Comune di nuove, specifiche prescrizioni (cfr. Cons. Stato,
Sez. IV, 27.01.2011, n. 615).
...
Resta naturalmente fermo che l'obbligo di provvedere alla
rideterminazione urbanistica di un'area, in relazione alla
quale sono decaduti i vincoli espropriativi precedentemente
in vigore (o i vincoli a quelli assimilati) non comporta che
essa riceva una destinazione urbanistica edificatoria o nel
senso voluto dal privato, essendo in ogni caso rimessa al
potere discrezionale dell'Amministrazione comunale la
verifica e la scelta della destinazione che, in coerenza con
la più generale disciplina urbanistica del territorio,
risulti più idonea e più adeguata in relazione all'interesse
pubblico al corretto e armonico utilizzo del territorio,
potendo anche ammettersi la reiterazione degli stessi
vincoli scaduti, sebbene nei limiti di una congrua e
specifica motivazione sulla perdurante attualità della
previsione, comparata con gli interessi privati (cfr. Cons.
Stato, Sez. IV, 07.06.2012, n. 3365) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.09.2012 n. 5088
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Distanza minima dal confine di zona.
Le distanze prescritte (art. 873, c.c.) nell'interesse
privato fra gli edifici, nonché fra questi ed i confini,
sono derogabili con il consenso fra vicini, ma non lo sono
le distanze prescritte nella disciplina (a valenza
eminentemente pubblicistica e, quindi, inderogabile)
urbanistica e nel piano urbanistico (nella fattispecie in
esame: art. 13, regolamento di attuazione), a tutela
dell'interesse pubblico ad una progettazione urbanistica
sistematicamente ordinata, a meno che la deroga non sia
esplicitamente prevista dalla legge, ai sensi dell’art. 38,
comma 1, legge urbanistica provinciale, applicabile
solamente alle zone di espansione e come tale (norma che
sancisce un'eccezione) non estensibile per analogia alle
zone di riempimento.
Per giurisprudenza consolidata
della Cassazione civile (cfr. sent. n. 12966/2006), le
distanze prescritte (art. 873, c.c.) nell'interesse privato
fra gli edifici, nonché fra questi ed i confini, sono
derogabili con il consenso fra vicini, ma non lo sono le
distanze prescritte nella disciplina (a valenza
eminentemente pubblicistica e, quindi, inderogabile)
urbanistica e nel piano urbanistico (nella fattispecie in
esame: art. 13, regolamento di attuazione), a tutela
dell'interesse pubblico ad una progettazione urbanistica
sistematicamente ordinata, a meno che la deroga non sia
esplicitamente prevista dalla legge, ai sensi dell’art. 38,
comma 1, legge urbanistica provinciale, applicabile
solamente alle zone di espansione e come tale (norma che
sancisce un'eccezione) non estensibile per analogia alle
zone di riempimento (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.09.2012 n. 5064 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE
GESTIONALI - URBANISTICA:
Illegittimità diniego del dirigente su
piano lottizzazione.
E’ illegittima la nota con la quale il Direttore della
Ripartizione qualità edilizia e trasformazione del
territorio del Comune di Bari, ha comunicato il parere del
Coordinamento tecnico interno, di rigetto del piano di
lottizzazione.
La competenza in ordine ai “piani
territoriali ed urbanistici” spetta al Consiglio
comunale, organo competente sia all’adozione di tali
strumenti (sia generali che attuativi), sia in ordine ad
eventuali atti di diniego dei predetti strumenti, ed in
particolare –per quel che interessa nella presente sede- di
progetti (quali il piano di lottizzazione) provenienti da
privati e pacificamente equiparati (in quanto
sostitutivi/alternativi) agli atti redatti dalla P.A. di
pianificazione urbanistica attuativa. Il diniego di
approvazione di un piano di lottizzazione deve essere
adottato dal Consiglio Comunale e non già da dirigenti
dell’amministrazione, le cui competenze, come previste
dall’art. 107 d.lgs. n. 267/2000 non ricomprendono
l’adozione di tali atti.
Tutto ciò, non comporta che gli uffici dell’amministrazione
(e segnatamente i dirigenti degli enti locali) non possono
indicare, per mezzo di atti endoprocedimentali, eventuali
aspetti dei piani di lottizzazione che possono condurre al
diniego di approvazione degli stessi, ovvero richiedere
integrazioni documentali. Tuttavia, a fronte della volontà
del privato di insistere per la conclusione del procedimento
relativo al progetto così come presentato, i medesimi
uffici, pur con le osservazioni di propria competenza, non
possono che rimettere ogni decisione al Consiglio comunale,
unico organo competente a deliberare con carattere di
definitività in materia di pianificazione urbanistica.
Il Collegio ritiene che il
motivo di appello (sub c) dell’esposizione in fatto), con il
quale si lamenta il vizio di incompetenza, è fondato e debba
essere, pertanto, accolto, con conseguente assorbimento
degli ulteriori motivi di impugnazione.
Secondo gli appellanti, tale vizio sussiste poiché gli atti
di diniego del piano di lottizzazione, sono stati “posti
in essere non dal Consiglio comunale, unico organo comunale
deputato ex lege a ciò, ma da soggetti (dirigente UTC,
commissione tecnica interna, ecc.) del tutto incompetenti in
materia di approvazione o reiezione di piani urbanistici,
primari o secondari che siano”.
Orbene, l’art. 42, co. 2, lett. b), d.lgs. 18.08.2000 n. 267
(Testo Unico Enti Locali) , nel definire le competenze del
Consiglio Comunale, prevede che tra queste ultime rientrino
l’adozione dei seguenti atti: “b) programmi, relazioni
previsionali e programmatiche, piani finanziari, programmi
triennali e elenco annuale dei lavori pubblici, bilanci
annuali e pluriennali e relative variazioni, rendiconto,
piani territoriali ed urbanistici, programmi annuali e
pluriennali per la loro attuazione, eventuali deroghe ad
essi, pareri da rendere per dette materie”.
Appare del tutto evidente, quindi, che la competenza in
ordine ai “piani territoriali ed urbanistici” spetta
al Consiglio comunale, organo competente sia all’adozione di
tali strumenti (sia generali che attuativi: Cons. Stato,
sez. VI, 20.01.2003 n. 300), sia in ordine ad eventuali atti
di diniego dei predetti strumenti, ed in particolare –per
quel che interessa nella presente sede- di progetti (quali
il piano di lottizzazione) provenienti da privati e
pacificamente equiparati (in quanto sostitutivi/alternativi)
agli atti redatti dalla P.A. di pianificazione urbanistica
attuativa
Un atto, quindi, che –per le ragioni innanzi esposte (v.
punto 2 della presente decisione)– costituisce diniego di
approvazione di un piano di lottizzazione (in quanto
conseguente all’arresto procedimentale effettuato ed
all’ulteriore corso del procedimento subordinato
all’adeguamento del piano a prescrizioni imposte), deve
essere adottato dal Consiglio Comunale e non già da
dirigenti dell’amministrazione (le cui competenze –come
previste dall’art. 107 d.lgs. n. 267/2000– non ricomprendono
l’adozione di tali atti).
Quanto esposto non comporta che gli uffici
dell’amministrazione (e segnatamente i dirigenti degli enti
locali) non possono indicare, per mezzo di atti
endoprocedimentali, eventuali aspetti dei piani di
lottizzazione che possono condurre al diniego di
approvazione degli stessi, ovvero richiedere integrazioni
documentali. Tuttavia, a fronte della volontà del privato di
insistere per la conclusione del procedimento relativo al
progetto così come presentato, i medesimi uffici, pur con le
osservazioni di propria competenza, non possono che
rimettere ogni decisione al Consiglio comunale, unico organo
competente a deliberare con carattere di definitività in
materia di pianificazione urbanistica (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.09.2012 n. 5055
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
SICUREZZA
LAVORO:
Il datore di lavoro pubblico in materia di sicurezza del
lavoro.
Ancora una sentenza della Corte Suprema sul datore di lavoro
pubblico in materia di sicurezza del lavoro.
Ultimamente, la Sez. III osservò che «la definizione di
datore di lavoro, contenuta nell’art. 2 D.Lgs. n. 81/2008,ha
dato esclusivo rilievo, ai fini della individuazione dei
soggetti titolari del debito di sicurezza, al requisito
della organizzazione della attività, unito, ovviamente,
all’esercizio dei poteri decisionali e di spesa inerenti la
stessa», e che, «nella sua seconda parte, l’art. 2, comma 1,
lettera b), del citato decreto individua la figura del
datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, e, a
differenza del D.Lgs. n. 626/1994, il vigente 81/2008
recepisce, esplicitandolo, lo stabile indirizzo
giurisprudenziale secondo il quale è l’organo di vertice
delle singole amministrazioni, ovverosia l’organo di
direzione politica, a dovere individuare il dirigente, o il
funzionario non dirigente, cui attribuire la qualità di
datore di lavoro».
Aggiunse che «mutuate dal predetto orientamento della Corte
di legittimità sono anche le conseguenze che secondo il
dettato del citato decreto derivano dalla omessa
individuazione dell’organo politico del dirigente designato
ad assumere il debito di sicurezza», poiché «in tali casi
la qualifica di datore di lavoro continuerà a coincidere
con l’organo di vertice medesimo, quindi con il sindaco». (Così
Cass. 20.04.2012, in Dir. prat. lav., 2012, 22, 1446.
Sul tema v. anche Cass. 28.09.2011, Laganà e R.C,
ibid., 2012, 4, 233; Cass. 06.06.2011, Betti, ibid.,
2011, 8-9, 674; Cass. 05.05.2011, Angeloni e altri,
ibid., 2011, 6, 360, alle cui note si rinvia per il richiamo
di ulteriori riferimenti giurisprudenziali).
Nel caso ora esaminato dalla presente sentenza, il direttore
generale di un consorzio intercomunale rifiuti, energia
servizi, ente consortile con personalità giuridica ed
autonomia negoziale, fu dichiarato colpevole quale datore di
lavoro per più violazioni antinfortunistiche, sul
presupposto che lo statuto del consorzio «attribuisce al
direttore generale ampi e pregnanti poteri gestionali,
decisionali e di spesa, propri del datore di lavoro».
A sua discolpa, l’imputato lamenta che, «secondo il T.U.
81/2008, che ha mutuato l’indirizzo giurisprudenziale,
compete all’organo di direzione politica il dovere di
individuare il dirigente cui attribuire la qualità di
datore di lavoro», e che, «non risultando alcuna delega, la
qualifica di datore di lavoro non poteva che competere al
presidente del consorzio».
La Sez. III non è d’accordo.
Premette che, «ai fini dell’applicazione della normativa
antinfortunistica, datore di lavoro sia il soggetto titolare
del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il
soggetto che, secondo il tipo e l’organizzazione
dell’impresa, ha la responsabilità dell’impresa stessa
ovvero dell’unità produttiva», e che «nelle pubbliche
amministrazioni per datore di lavoro si intende il dirigente
al quale spettano i poteri gestionali, decisionali e di
spesa, ovvero il funzionario non avente qualifica
dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto
ad un ufficio avente autonomia gestionale».
Nel richiamare Cass. 17.07.2009 Corea e altro (in
Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la
giurisprudenza, IV edizione, Milano, 2012, 22), precisa che
«gli obblighi di prevenzione infortuni e sicurezza in luoghi
di lavoro, che per legge fanno capo al datore di lavoro, nel
settore degli enti pubblici gravano sul titolare effettivo
del potere di gestione», e che «tali obblighi possono
gravare su un funzionario non avente qualifica dirigenziale
qualora lo stesso, a norma dell’art. 2 del D.Lgs. n. 81 del
2008, sia preposto ad un ufficio avente autonomia
gestionale, individuato dall’organo di vertice
dell’amministrazione tenendo conto dell’ubicazione e
dell’ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta
l’attività e sia altresì dotato di poteri decisionali e di
spesa».
Rileva come «il datore di lavoro, individuato secondo i
criteri sopra indicati, possa delegare gli obblighi su di
lui gravanti ad altri, con conseguente sostituzione e
subentro del delegato nella posizione di garanzia, ma l’atto
di delega deve essere espresso, inequivoco e certo, dovendo
inoltre investire persona tecnicamente capace, dotata delle
necessarie cognizioni tecniche e dei relativi poteri
decisionali e di intervento, che abbia accettato lo
specifico incarico, fermo restando l’obbligo per il datore
di lavoro di vigilare e controllare che il delegato usi,
poi, concretamente la delega, secondo quanto la legge
prescrive», e, quindi, come «la delega è in linea generale
ed astratta consentita, ma per essere rilevante ai fini
dell’esonero da responsabilità del delegante, deve avere i
seguenti requisiti: essere puntuale ed espressa, senza che
siano trattenuti in capo al delegante poteri residuali di
tipo discrezionale; il soggetto delegato deve essere
tecnicamente idoneo e professionalmente qualificato per lo
svolgimento del compito affidatogli; il trasferimento delle
funzioni deve essere giustificato in base alle esigenze
organizzative dell’impresa; unitamente alle funzioni debbono
essere trasferiti i correlativi poteri decisionali e di
spesa; l’esistenza della delega deve essere giudizialmente
provata in modo certo».
Afferma che, nel caso di specie, «mentre l’art. 20 dello
statuto dell’ente attribuisce al presidente del consiglio di
amministrazione, oltre alla rappresentanza legale del
consorzio, mere funzioni generali di raccordo, di
coordinamento e di vigilanza, l’art. 28 attribuisce al
direttore generale ampi poteri gestionali, decisionali e di
spesa, assegnandogli ‘‘la responsabilità gestionale del
consorzio’’, la possibilità di operare ‘‘assicurando il
raggiungimento dei risultati programmatici, sia in termini
di servizio che in termini economici’’ e, in particolare, i
compiti di ‘‘dirigere il personale del consorzio,
organizzare funzioni ed attribuzioni di servizi, settori e
coordinamenti di aree; predisporre i piani di formazione ed
aggiornamento del personale; provvedere agli acquisti in
economia ed alle spese indispensabili per il normale ed
ordinario funzionamento del consorzio ed entro i limiti e
con le modalità previste da apposito regolamento; firmare
gli ordinativi di incasso ed i mandati di pagamento».
Conclude che «il direttore generale del consorzio aveva,
a norma di statuto, poteri gestionali, decisionali e di
spesa e, quindi, su di lui gravavano gli obblighi di
prevenzione infortuni e sicurezza nei luoghi di lavoro»,
e che «non risulta che tali obblighi siano stati delegati
ad altri» (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.07.2012 n. 28410
- tratto da Igiene
e Sicurezza del Lavoro n. 10/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Direttore dei lavori e coordinatori nei cantieri.
Di notevole interesse, in questa sentenza, è quel che
s’insegna a proposito della posizione di garanzia vuoi del
direttore dei lavori, vuoi dei coordinatori, nell’ambito dei
cantieri temporanei o mobili.
Invero, la Sez. IV, dopo aver ribadito la responsabilità
del datore di lavoro dell’imprese esecutrice, sottolinea che
«le posizioni di garanzia del coordinatore per la
progettazione e del coordinatore per l’esecuzione «non si
sovrappongono a quelle degli altri soggetti responsabili nel
campo della sicurezza sul lavoro, ma ad esse si affiancano
per realizzare, attraverso la valorizzazione di una figura
unitaria con compiti di coordinamento e controllo, la
massima garanzia dell’incolumità dei lavoratori».
E insegna, inoltre, che «il direttore dei lavori o
responsabile dei lavori edili è titolare di una posizione
di garanzia nei confronti dei lavoratori, ed ha, pertanto,
l’obbligo di predisporre e fare osservare i presidi di
sicurezza richiesti dalla legge per l’esecuzione dei
predetti lavori, a nulla rilevando la compresenza di un
‘‘coordinatore della sicurezza in fase di progettazione’’ e
di un ‘‘coadiutore della sicurezza in fase di esecuzione’’,
a loro volta titolari di autonome e concorrenti posizioni di
garanzia». (Quanto alla posizione di garanzia dei
coordinatori v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro
commentato con la giurisprudenza, IV edizione, Milano, 2012,
501 ss. e 508 ss.; sulle responsabilità del direttore dei
lavori cfr., in particolare, Cass. 31.05.2012, Ciulla e
altro, in ISL, 2012, ..., alla cui nota si rinvia per
ulteriori riferimenti giurisprudenziali)
(Corte di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 14.06.2012 n. 23630
- tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 10/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
PSC generico e responsabilità del coordinatore per la
progettazione.
In un cantiere aperto per il rifacimento della facciata di
un fabbricato, un dipendente dell’impresa esecutrice con
qualifica di tinteggiatore, «mentre stava smontando il
ponteggio utilizzato, impugnava un tavolone di legno, della
lunghezza di circa quattro metri, del peso di 26
chilogrammi, per caricarlo sul camion», «inciampava su di un
cordolo di cemento alto circa 35 centimetri posto a poca
distanza da un lucernario, chiuso con pezzi di legno e nylon
che non reggeva il peso dell’operaio», e «rovinava al suolo,
da una altezza di diversi metri».
A dire dei giudici di merito, «l’apertura, presente nel
piazzale antistante il fabbricato, non era stata
adeguatamente coperta e costituiva perciò una palese fonte
di pericolo, proprio in relazione alle possibili cadute
delle persone che operavano nel cantiere»; e il
«coordinatore per la progettazione e la esecuzione delle
opere avrebbe dovuto evidenziare tale rischio nel piano di
sicurezza e coordinamento e provvedere alla eliminazione in
concreto della fonte di pericolo», là dove per contro «il
piano, su tale punto, risultava di converso del tutto
generico».
Nel confermare la condanna dell’imputato, la Sez. IV ritiene
che il coordinatore della sicurezza, «in presenza di una
copertura che appariva del tutto inadeguata, avrebbe dovuto
provvedere a mettere in sicurezza il lucernario», e che,
«sul punto, il piano di sicurezza e coordinamento era stato
redatto dall’imputato in modo del tutto generico, in assenza
di alcun coordinamento con le diverse ditte che si erano
occupate della ristrutturazione dello stabile».
Osserva che «l’appaltatore è il destinatario degli obblighi prevenzionali, salvi alcuni obblighi specifici che restano a
carico del committente, quali l’informazione sui rischi
dell’ambiente di lavoro e la cooperazione nell’apprestamento
delle misure di protezione e prevenzione», e che, «nel caso
di specie, vengono in rilievo proprio i rischi connessi
all’ambiente di lavoro, in relazione all’apertura presente
nel piazzale antistante il fabbricato».
Né il reato di lesione personale colposa ascritto
all’imputato risulta improcedibile per difetto di querela:
«l’infortunio si era verificato all’interno di un cantiere,
a causa della violazione delle norme di sicurezza, con
riferimento al piano di sicurezza e coordinamento redatto
dall’imputato. Di talché certamente sussisteva l’aggravante di cui
all’art. 590, comma 3, c.p., ed il reato risultava
perseguibile di ufficio»
(Sulla responsabilità del coordinatore per insufficienza o
incompletezza del PSC v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul
Lavoro commentato con la giurisprudenza, IV edizione,
Milano, 2012, 501 ss.) (Corte
di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 07.06.2012 n. 22044
- tratto da Igiene
e Sicurezza del Lavoro n. 10/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA:
L’interesse a ricorrere è caratterizzato dalla
sussistenza dei medesimi requisiti che qualificano
l’interesse ad agire ai sensi dell’art. 100 c.p.c. e, cioè,
dalla prospettazione di una lesione concreta ed attuale
della sfera giuridica del ricorrente e dall’effettiva
utilità che deriverebbe a quest’ultimo dall’invocato
annullamento dell’atto impugnato.
Ovviamente, la verifica della ricorrenza della condizione
dell’azione in esame postula che il pregiudizio arrecato dal
provvedimento gravato sia effettivo, nel senso che
dall’esecuzione dello stesso deve discendere in via
immediata e personale un danno certo alla sfera giuridica
del ricorrente, ovvero potenziale, nel senso, però, che la
lesione si verificherà in futuro con un elevato grado di
certezza, mentre deve escludersi il presupposto in questione
nell’ipotesi in cui il danno derivante dall’attuazione
dell’atto impugnato sia meramente eventuale, e, cioè, quando
lo stesso non risulta, di per sé, capace di arrecare una
lesione diretta alla sfera del soggetto ricorrente, né
risulti sicuro che il danno si realizzerà in un secondo
tempo.
Nelle controversie attinenti alla realizzazione di
interventi edilizi si è ulteriormente precisato che, se è
vero che l’ordinamento riconosce una posizione qualificata e
differenziata, ai fini dell’interesse ad impugnare i
provvedimenti di assenso alla trasformazione del territorio,
a tutti coloro che si trovano in una situazione di stabile
collegamento con la zona interessata dalle opere contestate,
è anche vero che, in concreto, devono ritenersi titolati
all’impugnativa solo i soggetti che possono lamentare una
rilevante e pregiudizievole alterazione del preesistente
assetto urbanistico ed edilizio, per effetto della
realizzazione dell’intervento controverso.
Al fine dello scrutinio della fondatezza della predetta
eccezione, occorre premettere una sintetica ricognizione dei
caratteri essenziali dell’interesse a ricorrere e degli
elementi che ne integrano la struttura, per come
identificati da una giurisprudenza ormai consolidata.
In via generale, l’interesse a ricorrere è caratterizzato
dalla sussistenza dei medesimi requisiti che qualificano
l’interesse ad agire ai sensi dell’art. 100 c.p.c. e, cioè,
dalla prospettazione di una lesione concreta ed attuale
della sfera giuridica del ricorrente e dall’effettiva
utilità che deriverebbe a quest’ultimo dall’invocato
annullamento dell’atto impugnato (cfr. ex multis
Cons. St., sez. V, 08.05.2007, n. 2119).
Ovviamente, la verifica della ricorrenza della condizione
dell’azione in esame postula che il pregiudizio arrecato dal
provvedimento gravato sia effettivo, nel senso che
dall’esecuzione dello stesso deve discendere in via
immediata e personale un danno certo alla sfera giuridica
del ricorrente, ovvero potenziale, nel senso, però, che la
lesione si verificherà in futuro con un elevato grado di
certezza (Cons. St., sez. IV, 22.06.2006, n. 3947), mentre
deve escludersi il presupposto in questione nell’ipotesi in
cui il danno derivante dall’attuazione dell’atto impugnato
sia meramente eventuale, e, cioè, quando lo stesso non
risulta, di per sé, capace di arrecare una lesione diretta
alla sfera del soggetto ricorrente, né risulti sicuro che il
danno si realizzerà in un secondo tempo (Cons. St., sez. IV,
19.06.2006, n. 3656).
Nelle controversie attinenti alla realizzazione di
interventi edilizi (alle quali può essere ascritta la
presente) si è ulteriormente precisato che, se è vero che
l’ordinamento riconosce una posizione qualificata e
differenziata, ai fini dell’interesse ad impugnare i
provvedimenti di assenso alla trasformazione del territorio,
a tutti coloro che si trovano in una situazione di stabile
collegamento con la zona interessata dalle opere contestate,
è anche vero che, in concreto, devono ritenersi titolati
all’impugnativa solo i soggetti che possono lamentare una
rilevante e pregiudizievole alterazione del preesistente
assetto urbanistico ed edilizio, per effetto della
realizzazione dell’intervento controverso (Cons. St., sez.
IV, 11.04.2007, n. 1672)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.04.2008 n. 1548 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 22.10.2012 |
ã |
NOVITA' NEL
SITO |
● inserito il bottone del nuovo
dossier CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (prescrizione termine
dare/avere) |
QUESITI &
PARERI |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: quesito circa l'altezza dei servizi igienici nel
caso di recupero di sottotetti di cui alla L.R. 15/1996
(Regione Lombardia, Direzione Generale Sanità, Servizio
Prevenzione Sanitaria,
nota 12.08.1998 n. 42494 di prot.).
---------------
Il quesito, ancorché datato, è di estrema attualità
poiché la norma è cambiata nel numero (L.R. n. 12/2005) ma
non nella sostanza. |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: Luna Park di Perugia - Assoggettabilità a
verifica della Commissione di vigilanza sui locali di
pubblico spettacolo (Ministero dell'Interno, Ufficio per
gli Affari della Polizia Amministrativa e Sociale,
nota 21.09.2012 n. 557 di prot.).
---------------
Spendig review: sparisce anche la Commissione di vigilanza
pubblico spettacolo.
Nessuno ci avrebbe scommesso, eppure sull'onda lunga dello
spending review, anche la Commissione di vigilanza pubblico
spettacolo, prevista dal regolamento Tulps per dare
attuazione all'art. 80 del medesimo testo unico, appartiene
ormai al passato.
Le sue funzioni, infatti, saranno svolte da qualche ufficio
incardinato nell'amministrazione di riferimento e, quindi,
comune e prefettura. E ciò da luglio del 2012. |
COMPETENZE
PROFESSIONALI - PROGETTUALI: Oggetto:
Progettazione e direzione lavori di modeste costruzioni
civili con strutture in cemento armato. Competenze
professionali Geometri liberi professionisti
(Regione Sicilia, Assessorato delle Infrastrutture e della
Mobilità,
nota 18.09.2012 n. 82824 di prot.).
---------------
Di contro, pronta la risposta della Consulta Ordini
Ingegneri Sicilia con la
nota 04.10.2012 n. 98 di prot.: Oggetto:
Progettazione e direzione lavori di modeste costruzioni
civili con strutture in cemento armato – Competenze
professionali. |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ENTI LOCALI - EDILIZIA
PRIVATA: G.U.
19.10.2012 n. 245 "Ulteriori misure urgenti per la
crescita del Paese" (D.L.
18.10.2012 n. 179). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA
PRIVATA: E.
Boscariol,
Le distanze in edilizia
(Il Tecnico Legale n. 17/2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. De Falco,
Deposito temporaneo, stoccaggio, abbandono (link a
www.industrieambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA:
M. Sanna,
Sottoprodotti e terre e rocce da scavo: D.M. 20.08.2012 n.
161 (link a www.industrieambiente.it). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI:
Divieto di acquisizione di prestazioni lavorative per enti
che non rispettano la normativa in materia di personale.
La Corte dei Conti, sezioni riunite di controllo per la Regione siciliana
in sede consultiva, con il
parere 04.10.2012 n.
54, ricorda che qualsiasi violazione delle norme in
materia di spesa e vincoli sul personale oltre a quelle del
patto di stabilità impedisce all'ente l'assunzione di
personale a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia
contrattuale, ivi compreso (quindi vietato) il ricorso
all'utilizzo di personale di altri enti, mediante
convenzione ex art. 14 CCNL 22.01.2004 (tratto da www.publika.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
La Corte dei conti sul futuro della Sspal. Scuola dirigenti, è
il de profundis.
Dopo la soppressione dell'Agenzia autonoma per la gestione
dell'albo dei segretari comunali e provinciali (Ages), suona
il de profundis anche per la Scuola Superiore per la
formazione e specializzazione dei dirigenti della Pubblica
Amministrazione Locale (Sspal). La Scuola, infatti, ha un
ruolo strumentale finalizzato all'attuazione della funzione
fondamentale intestata all'Ages, in una posizione servente e
di dipendenza dalla stessa. Motivo per cui si può ritenere
che la soppressione ex art. 7, comma 31-ter del dl n. 78/2010
non ha riguardato soltanto l'Ages, ma si è rivolta
all'intero sistema di gestione dei segretari comunali e
provinciali, coinvolgendo anche la Sspal.
Queste le
considerazioni espresse dalla Corte dei conti, sezione
centrale di controllo di legittimità sugli atti delle
amministrazioni dello Stato, nel testo della
deliberazione
02.10.2012 n. 22, con la quale ha ammesso al visto il decreto del Mininterno attuativo della soppressione Ages (a distanza di
oltre due anni dall'intervento del legislatore), ma ha
ricusato un articolo dello stesso provvedimento, inerente la
prosecuzione del funzionamento della Sspal.
Per la
magistratura contabile, il quadro delineato dalla normativa
che ha istituito l'Ages (art. 17, commi 76 e 77 della legge
n. 127/1997) ha conferito alla sola Ages la personalità
giuridica, mentre alla Sspal è stato attribuito un ruolo
strumentale, consistente nell'organizzazione dell'attività
di formazione e specializzazione dei dirigenti della
pubblica amministrazione locale, finalizzato all'attuazione
della funzione fondamentale intestata alla stessa Ages.
Da
ciò, si legge, la Sspal ha chiaramente una posizione
servente e di dipendente dall'Agenzia autonoma dei segretari
comunali e provinciali. Che non vi sia personalità giuridica
lo si evince da alcuni tratti. Tra questi, il fatto che gli
organi della scuola siano nominati dal presidente dell'Ages
e che la programmazione dell'attività didattica sia
subordinata alle risorse assegnate dalla predetta Ages.
In
definitiva, la natura di organo strumentale e l'assenza di
una soggettività giuridica porta la Corte a ritenere che la
soppressione non ha riguardato soltanto l'Ages, ma si è
rivolta all'intero sistema di gestione dei segretari,
inclusa la Sspal (articolo
ItaliaOggi del 18.10.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - PUBBLICO IMPIEGO:
Il Vice Sindaco del Comune di Vertova ha formulato una
richiesta diretta ad ottenere l’avviso della Sezione in
ordine alla procedura che l’Ente intenderebbe seguire per
far fronte ad un’ordinanza–ingiunzione, emanata
dall’Amministrazione provinciale per una violazione in
materia di acque pubbliche nei confronti del Sindaco e del
Comune, in via tra loro solidale.
...
Il Vice Sindaco del Comune di Vertova, con nota in data
22.12.2011, ha formulato una richiesta
diretta ad ottenere l’avviso della Sezione in ordine alla
procedura che l’Ente intenderebbe seguire per far fronte ad
un’ordinanza–ingiunzione, emanata dall’Amministrazione
provinciale per una violazione in materia di acque pubbliche
nei confronti del Sindaco e del Comune, in via tra loro
solidale.
Il quesito è formulato dal Vice Sindaco poiché il Sindaco si
sarebbe trovato in una situazione di impedimento temporaneo
conseguente ad un ricovero ospedaliero.
Come risulta dalla richiesta di parere formulata alla
Sezione, la questione che interessa al Comune di Vertova è
di avere indicazioni da parte della Sezione in ordine alla
procedura che l’Ente ipotizza di seguire, al fine di
verificare se il procedimento ipotizzato “possa
considerarsi conforme al vigente quadro normativo così come
interpretato dalla dottrina e (dal)la giurisprudenza”.
Il Vice Sindaco del Comune di Vertova specifica, infatti,
che al Sindaco e all’Ente è stata
notificata un’ordinanza ingiunzione da parte della Provincia
per violazione di alcune disposizioni in materia di acque
pubbliche e che il Comune avrebbe intenzione di avviare una
verifica interna per appurare se la violazione contestata
sia conseguente al comportamento di dipendenti.
All’esito della verifica intenderebbe provvedere, comunque,
al pagamento della sanzione comminata dalla Provincia “con
oneri a carico del bilancio comunale” avviando azione di
regresso nei confronti dei responsabili, ove vengano
accertate specifiche colpe, ovvero, qualora emergesse “che
l’evento che ha cagionato la sanzione non è da ascriversi a
dolo, imperizia, o negligenza da parte di alcuno giacché
dovuto a cause impreviste ed imprevedibili”, dare atto
che “ …, per effetto dell’istruttoria effettuata, non è
emersa responsabilità nei confronti di soggetti nei
confronti dei quali attivare azione di regresso”.
...
La richiesta di parere in esame non
risponde ai requisiti indicati sopra e, pertanto, è da
ritenere inammissibile e non può essere esaminata nel
merito.
Il quesito, infatti, non solo non ha carattere di generalità
ma attiene ad una precisa scelta gestionale discrezionale
dell’Amministrazione collegata alle iniziative da assumere
in relazione al pagamento, eventualmente con risorse
pubbliche, di una sanzione amministrativa irrogata al
Sindaco ed all’Ente locale, in via tra loro solidale.
Si tratta di una scelta delicata che non può avere l’avallo
preventivo della Sezione poiché, da un lato, la magistratura
contabile non può fornire pareri preventivi di legittimità
in ordine agli atti amministrativi che devono essere in
concreto adottati dagli Enti locali e, dall’altro, la
legittimità della scelta dipende dalla natura della sanzione
irrogata dalla Provincia che, ovviamente, non è nota alla
Sezione. A questo proposito, infatti, è bene tenere presente
che se la sanzione irrogata al Sindaco
avesse carattere strettamente personale non potrebbe che
risponderne patrimonialmente il destinatario del
provvedimento (in
proposito: Corte conti, sez. contr. Emilia Romagna,
30.11.2011, n. 239 che richiama il principio di diritto
posto da Corte conti sez. giurisd. Sicilia, 12.07.2010, n.
1574)
Inoltre, occorre sottolineare che ogni
volta che l’ente subisce un danno patrimoniale, quale
sarebbe nel caso di specie il pagamento della sanzione
amministrativa, l’accertamento dell’esistenza di eventuali
responsabilità di dipendenti del Comune non rientra nella
disponibilità degli organi comunali ma è di competenza della
Procura della Corte dei conti alla quale gli organi di
vertice sono tenuti a denunciare la perdita patrimoniale
conseguente al pagamento
(art. 53, del T.U. 12.07.1934, n. 1214; art. 83 del R.D.
18.11.1923, n. 2440; art. 20 del T.U. 10.01.1957, n. 3 e
art. 1, co. 3, della l. 14.01.1994, n. 20) (Corte dei Conti,
Sez. controllo Lombardia,
parere
26.01.2012 n. 23). |
NEWS |
APPALTI: Verifica antimafia per i
revisori.
Controlli estesi ai professionisti dei collegi e organi
vigilanti. Lo prevede un decreto
correttivo del codice del 2011, pronto per il Consiglio dei ministri.
Verifica antimafia per i revisori e per i componenti
dell'organo di vigilanza.
Lo prevede lo schema di decreto
legislativo correttivo del codice delle leggi antimafia (dlgs
159/2011) che sarà il 23 ottobre prossimo in Consiglio dei
ministri e che ItaliaOggi è in grado di anticipare. Lo
schema stabilisce, infatti, che i controlli antimafia devono
essere espletati nei confronti dei membri dei collegi
sindacali di associazioni e società e anche dei componenti
dell'organo di vigilanza previsto dall'articolo 6 del
decreto legislativo 231/2001 (sulla responsabilità
amministrativa delle imprese).
CERTIFICAZIONI E INFORMAZIONI ANTIMAFIA. La documentazione
antimafia è costituita dalla comunicazione antimafia e
dall'informazione antimafia. La comunicazione antimafia
consiste nell'attestazione della sussistenza o meno di una
delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto quali
misure di prevenzione (articolo 67 del codice antimafia).
L'informazione antimafia consiste nell'attestazione della
sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di
sospensione o di divieto di cui all'articolo 67 citato, e
anche nell'attestazione della sussistenza o meno di
eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a
condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o
imprese interessate.
CATALOGO DEI SOGGETTI COINVOLTI. Il decreto correttivo
completa il catalogo dei soggetti da sottoporre a verifica
ai fini del rilascio della documentazione antimafia. In
materia si sono registrati dubbi applicativi, risolti con il
decreto in esame. In particolare viene definito
espressamente il regime dei controlli da effettuarsi nei
confronti dei gruppi europei di interesse economico (Geie):
è assimilato a quello previsto per i consorzi disciplinati
dall'articolo ex articolo 2602 codice civile. Trovano un
raccordo, quindi, il codice antimafia e il dlgs 240/1991,
che prevede l'applicabilità ai Geie delle normative
antimafia.
Viene inoltre stabilito che i controlli antimafia
devono essere espletati nei confronti dei membri dei collegi
sindacali di associazioni e società nonché dei componenti
dell'organo di vigilanza previsto dall'articolo 6, comma 1,
lettera b) del decreto legislativo 231/2001. Sono
assoggettate alle verifiche antimafia anche le imprese prive
di sede principale o secondaria in Italia. Il correttivo
colma una lacuna: il codice attualmente, consente di
effettuare tali verifiche soltanto nei confronti degli
operatori economici con sede legale o secondaria nel
territorio dello stato.
Vengono introdotte nel codice
specifiche disposizioni riguardanti i particolari controlli
antimafia da svolgersi nei confronti delle società
concessionarie di giochi pubblici. La documentazione
antimafia deve riferirsi anche ai soci persone fisiche che
detengono, anche indirettamente, una partecipazione al
capitale o al patrimonio superiore al 2%. Medesimo obbligo è
esteso ai direttori generali e ai soggetti responsabili
delle sedi secondarie o delle stabili organizzazioni in
Italia di soggetti non residenti.
VALIDITÀ DEI CERTIFICATI. Il codice, come riscritto dal
decreto correttivo, stabilisce che la comunicazione
antimafia ha una validità di sei mesi dalla data
dell'acquisizione, mentre l'informazione antimafia ha, di
regola, una validità di dodici mesi dalla data
dell'acquisizione.
DECERTIFICAZIONE. Vengono soppresse le previsioni che
permettono al privato di utilizzare la copia autentica della
documentazione antimafia rilasciata. Inoltre vengono
soppresse, all'art. 87, le previsioni che consentono al
privato di richiedere il rilascio della comunicazione
antimafia. Quest'ultima ha una natura certificativa e può
essere prodotta esclusivamente nei confronti dei soggetti
pubblici (elencati all'articolo 83, commi 1 e 2, del
codice).
RILASCIO AUTOMATICO. Il provvedimento modifica, inoltre,
l'articolo 88 del codice, precisando che il rilascio
automatico della comunicazione antimafia può avvenire solo
se il soggetto interessato è già stato censito nella
apposita banca dati. Diversamente, il prefetto provvede a
effettuare i controlli antimafia secondo le modalità
ordinarie già previste per i soggetti nei cui confronti sono
emersi riscontri informativi indicativi dell'esistenza di
controindicazioni all'emissione del provvedimento.
TRACCIABILITÀ. Arricchito l'elenco delle circostanze dalle
quali il prefetto può desumere l'esistenza di tentativi di
infiltrazione mafiosa: sono ricomprese anche le violazioni
agli obblighi di tracciabilità dei flussi finanziari
derivanti da appalti pubblici, commesse con la condizione
della reiterazione.
INFORMAZIONI INTERDITTIVE. Le informazioni antimafia interdittive devono essere comunicate sempre ai vari
soggetti istituzionali interessati e non solo nella
specifica ipotesi di provvedimenti inibitori emessi a
seguito di accesso in cantiere. Inoltre si prevede che il
prefetto trasmetta i provvedimenti inibitori anche alla
Direzione nazionale antimafia, ai soggetti titolari del
potere di proposta di applicazione delle misure di
prevenzione, agli uffici dell'Agenzia delle entrate
competenti per il luogo di sede legale del soggetto
destinatario della misura interdittiva all'Autorità garante
della concorrenza (ai fini dell'attribuzione del rating
d'impresa) e all'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici per l'inserimento nella Banca dati nazionale dei
contratti pubblici
(articolo ItaliaOggi del 20.10.2012). |
ENTI LOCALI: Forniture
alle
p.a., fattura elettronica vicina.
Più vicina la fatturazione elettronica delle forniture alla
pubblica amministrazione.
Con il
parere 12.10.2012 n. 4267,
il Consiglio di Stato, preso atto delle modifiche apportate
al testo inizialmente predisposto dal ministero
dell'economia, ha dato infatti semaforo verde al
provvedimento attuativo delle disposizioni dell'art. 1,
commi 209-214, della legge n. 244/2007. In particolare,
osserva l'organo legale, risultano superate le criticità che
il consiglio aveva rilevato nel parere interlocutorio del
27.10.2011, concernenti la coerenza con l'art. 117 della
costituzione in relazione all'impatto della procedura di
fatturazione elettronica sulle autonomie locali.
In proposito, infatti, il ministero dell'economia, nel
trasmettere la nuova versione dello schema di regolamento,
ha osservato che l'art. 10, comma 13, del dl 201/2011 ha
modificato le predette disposizioni, riferendo l'obbligo
della fattura elettronica ai rapporti con le amministrazioni
di cui all'art. 1, comma 2, della legge 196/2009 e alle
amministrazioni autonome
(articolo ItaliaOggi del 19.10.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI -
SEGRETARI COMUNALI: Agenzia
per la gestione dei segretari. Gli enti continueranno a
pagare.
I comuni e le province dovranno continuare a versare i
contributi dovuti alla vecchia Agenzia per la gestione
dell'albo dei segretari non più fino alla fine del 2012 ma
fino alla fine del mese di luglio del 2013; la Scuola
superiore per la formazione e la specializzazione dei
dirigenti della pubblica amministrazione locale, cioè la
Scuola dei segretari, conosciuta anche come Sspal, viene
soppressa; viene istituito il consiglio direttivo per l'Albo
dei segretari comunali e provinciali presso il ministero
dell'interno: sono queste le principali novità dettate
dall'articolo 10 del dl n. 174/2012.
Viene per l'ennesima
volta prorogato (si veda ItaliaOggi di giovedì 4 ottobre)
l'obbligo per gli enti locali di versare al ministero
dell'interno i contributi provenienti dalla riscossione dei
diritti di segreteria già dovuti alla disciolta Agenzia per
la gestione dell'albo dei segretari comunali e provinciali,
contributi che servono per la corresponsione del trattamento
economico ai segretari in disponibilità e per il
funzionamento dell'Agenzia e della Scuola dei segretari.
Tale termine era previsto per la fine del 2010, ma di
proroga in proroga (con questa disposizioni si sposta la
scadenza fissata dal dl 95/2012, cosiddetta spending review,
per la fine del 2012) si è arrivati alla fine del mese di
luglio del 2013. Da ricordare che, nel momento in cui questo
obbligo verrà meno, i trasferimenti ai comuni e alle
province saranno ridotti di una cifra complessiva analoga:
con le nuove regole si dovrebbe avere una ripartizione più
equa tra i singoli enti locali.
Viene chiusa la Scuola dei segretari, che gestisce sia i
corsi per l'accesso all'Albo dei segretari, sia quelli per
avanzare in tale carriera, sia l'aggiornamento; le sue
attività, nonché il suo personale, vengono assegnati al
ministero dell'interno. Con un regolamento da emanare entro
il termine del 31.07.2013, saranno dettate le modalità
attraverso cui il ministero dell'interno dovrà gestire le
attività svolte in precedenza dalla Agenzia per la gestione
dell'albo e quelle della Scuola.
È stato infine istituito, a far data dalla entrata in vigore
del decreto, il Comitato direttivo per l'Albo nazionale dei
segretari comunali e provinciali. Esso viene presieduto dal
ministro dell'interno ed è composto da rappresentanti del
Viminale, dell'Anci e dell'Upi: a differenza del vecchio
consiglio di amministrazione dell'Agenzia non vi sono i
rappresentanti dei segretari comunali e provinciali. Per la
partecipazione a tale organismo non è prevista la erogazione
di alcun compenso.
I suoi compiti sono fissati direttamente dalla disposizione:
definire le modalità di gestione dell'albo dei segretari,
ivi compresi i beni di proprietà della disciolta Agenzia;
fissare il fabbisogno di segretari comunali e provinciali
(ricordando al riguardo che il dl n. 95/2012 fissa nello 80%
dei cessati il tetto per le nuove assunzioni di segretari);
adottare gli indirizzi per la programmazione dell'attività
didattica e il piano generale annuale delle iniziative di
formazione e di assistenza, svolgendo altresì i compiti di
controllo; ripartire le risorse necessarie per la gestione
dell'albo, per i corsi concorso per l'accesso, per la
formazione e l'aggiornamento professionale dei segretari,
dei dirigenti degli enti locali e degli amministratori
(articolo ItaliaOggi del 19.10.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Controlli
preventivi e dirigenti svincolati. Due ricette anti-sprechi.
Solo i controlli preventivi di legittimità e merito possono
scongiurare il proliferare di spese incontrollate come
quelle del consiglio regionale del Lazio. E,
contestualmente, l'eliminazione definitiva del potere degli
organi di governo di incaricare i dirigenti.
Al di là dei rimborsi ai gruppi consiliari, sono emerse
spese davvero difficili da giustificare, legate al semplice
funzionamento degli uffici. Sono stati acquistati tablet per
i consiglieri a prezzi più che doppi rispetto ai listini,
così come altre attrezzature informatiche molto più care
dell'ordinario.
Di utilizzare la Consip, evidentemente, nemmeno ci si è
pensato. Come di responsabilizzare sull'utilità dei beni, la
congruità dei prezzi e del sistema di individuazione del
contraente.
Inutile pensare che questo modo di operare sia limitato e
circoscritto. La giusta necessità di assicurare autonomia
alle organizzazioni politiche e agli organi di governo viene
troppo spesso, però, scambiata per potere assoluto di
scegliere come, cosa, a quale prezzo e da chi spendere.
Senza troppa cura di procedure e sistemi, che, invece
valgono per tutti gli organi pubblici, politici o tecnici
che siano.
Il che dimostra come prevedere norme poste a regolare, per
esempio, le modalità di approvvigionamento di beni e
servizi, come da ultimo l'articolo 1 della legge 135/2012
che nella logica della spending review mira a potenziare
l'utilizzo delle convenzioni Consip, non sia di per sé
sufficiente.
Occorre al più presto a tutti i livelli di organizzazione
reintrodurre controlli esterni di legittimità, se non di
merito, imprudentemente e frettolosamente eliminati dalle
riforme-Bassanini, all'epoca della costruzione di un
«federalismo» in provetta, che oggi mostra tutta la sua
dannosità.
Controlli che sarebbe opportuno svolgessero organi
amministrativi, in modo da permettere alle amministrazioni
controllate di ricorrervi se erronei. Ma, l'organo di
controllo dovrebbe essere funzionalmente posto alle
dipendenze della Corte dei conti e a essa rispondere della
sua azione.
Un altro elemento di criticità è il cordone ombelicale che
lega la dirigenza agli organi politici, per effetto delle
norme che attribuiscono a questi ultimi il potere di
incaricarli, premiarli, assicurare loro «carriera», in nome
di una «fiduciarietà» che, per altro, la Consulta ha più
volte considerato contraria alla Costituzione, in quanto
l'apparato amministrativo deve assicurare efficienza alla
macchina e non fedeltà a questo o quel colore politico.
Lo stretto legame, molte volte accentuato dal potere degli
organi di governo di cooptare dirigenti esterni senza
nemmeno concorsi, può indurre gli alti funzionari ad agire
per assicurare, appunto, l'acquisto di beni o servizi fuori
mercato, per «compiacere».
Tanto strategico è il potere di «nomina» dei dirigenti, che
la presidente del Lazio ormai a fine mandato ne ha comunque
nominati 10. Allo scopo forse di assicurare una continuità
quanto meno nei gangli amministrativi o ad altri fini non è
dato saperlo. Il fatto che si possa porre il dubbio,
tuttavia, fa comprendere come la disciplina degli incarichi
dirigenziali e lo spoil system possano consentire a
dirigenti e funzionari di non vedere, non parlare, eseguire.
Sebbene non sia questo il loro ruolo
(articolo ItaliaOggi del 19.10.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ I possibili paletti al diritto di accesso
da parte dei consiglieri dell'ente. Rilascio copie con
giudizio.
Anche l'informatica può soddisfare le richieste.
Un ente locale può determinare, in relazione al diritto di
accesso da parte dei consiglieri, un limite al rilascio di
copie di documenti oltre il quale imporre un costo del
servizio?
In linea generale, per i consiglieri, vale il principio di
gratuità del diritto di prendere visione e di estrarre copia
di atti e documenti, che trova fondamento nell'esercizio del
munus agli stessi affidato, «_ perché l'esercizio del
diritto di accesso attiene alla funzione pubblica di cui il
richiedente è investito e non al soddisfacimento di un
interesse privato ed attuale_».
Pertanto «al consigliere che chieda copia di atti utili per
l'esercizio del proprio mandato non può essere addebitato il
costo», sia «perché l'esercizio del diritto di accesso
attiene alla funzione pubblica di cui il richiedente è
investito _», sia perché «in nessun caso il consigliere può
fare uso privato_ dei documenti così acquisiti».
(Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi
parere del 05.10.2004).
Con il parere del 05.10.2010, la Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi, esprimendosi
sull'esercizio di tale diritto, ha ribadito che è
illegittimo prevedere, per le richieste da parte dei
consiglieri comunali, il pagamento dell'imposta di bollo,
dei diritti di segreteria e dei costi di riproduzione.
La stessa Commissione ha richiamato il consolidato principio
giurisprudenziale (ex multis Consiglio di Stato, sez. V. n.
929/2007) secondo cui il diritto di accesso del consigliere
agli atti «non può subire compressioni per pretese esigenze
di natura burocratica dell'ente con l'unico limite di poter
esaudire la richiesta, qualora sia di una certa gravosità,
secondo i tempi necessari per non determinare interruzione
delle altre attività di tipo corrente_» .
Sotto tale profilo il consigliere deve, quindi, contemperare
il diritto di accesso con l'esigenza di non intralciare lo
svolgimento dell'attività amministrativa ed il regolare
funzionamento degli uffici comunali, comportando ad essi il
minor aggravio possibile, sia dal punto di vista
organizzativo che economico (Corte dei conti, sez. Liguria
n. 1/2004).
Al riguardo, la Commissione per l'accesso, sulla base
principio di economicità che incombe sia sugli uffici tenuti
a provvedere sia sui soggetti che chiedono prestazioni
amministrative, ha riconosciuto «la possibilità per il
consigliere di avere accesso diretto al sistema informatico
interno, anche contabile, dell'ente attraverso l'uso della
password di servizio _ proprio al fine di evitare che le
continue richieste di accesso si trasformino in un aggravio
dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente locale»
(cfr. parere 29.11.2009).
In tale contesto anche il giudice amministrativo ha ritenuto
legittime norme regolamentari contenenti accorgimenti
finalizzati a ridurre i costi. In particolare, il Consiglio
di stato, V, con la sent. n. 6742/2007 ha condiviso l'avviso
del Ministero dell'interno in merito alla possibilità di
riprodurre planimetrie su cd-rom qualora il consigliere
chieda l'estrazione di copie di atti la cui fotoriproduzione
comporti costi elevati .
Peraltro il Tar Puglia (sent. n. 115 del 21.01.2011) ha
affermato che «gli unici limiti all'esercizio del diritto di
accesso dei consiglieri comunali si rinvengono, per un
verso, nel fatto che esso debba avvenire in modo da
comportare il minor aggravio possibile per gli uffici
comunali e, per altro verso, che non debba sostanziarsi in
richieste assolutamente generiche_, fermo restando che la
sussistenza di tali caratteri debba essere attentamente_
vagliata in concreto al fine di non introdurre
surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto
stesso».
Se quindi, da un lato, l'imposizione di costi di
riproduzione non appare di per sé in linea con gli
orientamenti espressi, per altro verso, ove sia valutato che
la richiesta di rilascio di copie comporti in concreto
particolare aggravio per gli uffici, l'ente potrà, di volta
in volta, trovare una soluzione organizzativa, anche in
chiave informatica, utile ad ovviare a tale inconveniente
(articolo ItaliaOggi del 19.10.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Ddl
corruzione, per i pubblici dipendenti arriva il divieto di
ricevere regali.
È una rivoluzione anche per la pubblica amministrazione
quella che metterà in moto il
disegno di legge approvato ieri al Senato. Il
provvedimento, che tornerà alla Camera per la quarta
lettura, rimanda al governo le deleghe ad adottare i decreti
legislativi anche in materia di prevenzione. Ed è proprio su
questo terreno, secondo i tecnici che hanno lavorato al
testo del ddl, che la sfida contro la corruzione sarà più
impegnativa.
Segretari anti-corruzione.
L’Autorità nazionale detterà le linee guida. Amministrazioni
pubbliche ed enti locali dovranno a loro volta darsi un
piano per assicurare il massimo della trasparenza. Il
responsabile del piano verrà individuato tra i dirigenti
amministrativi di prima fascia. In nessun caso comunque
potranno essere coinvolti soggetti estranei
all’amministrazione. Negli enti locali, «salvo altra
motivata determinazione», il ruolo verrà ricoperto dal
segretario comunale (o provinciale). Dovrà elaborare un
piano triennale e trasmetterlo al Dipartimento della
funzione pubblica.
Parenti e redditi sul web.
Oltre a definire i criteri per la rotazione dei dirigenti
nei settori classificati a rischio, le amministrazioni
saranno chiamate a monitorare i tempi della burocrazia
interna sul loro sito istituzionale. Chi non lo farà sarà
passibile di sanzioni. È un punto, questo dei tempi di
lavorazione delle pratiche, ritenuto molto delicato e
importante.
Spesso proprio nella dilazione all’infinito dei tempi di
concessione di permessi, licenze o di qualsiasi altra
documentazione, si rileva l’indizio di un
rischio-corruzione. Semplicità e velocità delle procedure
assicurano viceversa livelli di trasparenza più elevati
negli uffici pubblici. Il governo dovrà poi adottare, senza
ulteriori costi, entro sei mesi dall’entrata in vigore della
legge, un decreto legislativo per riordinare gli obblighi di
pubblicità e di trasparenza.
Tra le novità che dovranno essere introdotte ci sarà anche
l’obbligo «per i titolari di incarichi pubblici di
carattere elettivo o comunque di esercizio di poteri» di
pubblicare su Internet la situazione patrimoniale. Case,
terreni, redditi, situazione all’inizio e alla fine del
mandato, titolarità in imprese, partecipazioni azionarie
proprie, del coniuge, persino dei congiunti entro il 2°
grado di parentela. Per i segretari comunali o chi per loro
insomma il lavoro non mancherà.
Le attività a rischio.
Viene elencato anche il core business della malavita
organizzata, i settori più sensibili alle infiltrazioni
mafiose: trasporto di materiale a discarica per conto terzi;
smaltimento rifiuti; estrazione, fornitura e trasporto di
materiali inerti e terra; guardianìa dei cantieri; fornitura
di ferro lavorato e autotrasporto per conto terzi.
Denunce on-line.
La commissione anti-corruzione, coordinata dal capo di
gabinetto Roberto Garofoli, si è ispirata a modelli europei,
fermo restando la forte tipicità italiana. Dove per «tipicità»
si intende ’ndrangheta, camorra e ogni genere di
infiltrazione mafiosa. Il documento parla chiaro: per
tornare ad essere un Paese «normale» il nostro dovrà
sottoporsi a dosi massicce di trasparenza.
Non potrà accollarsi in futuro i costi della corruzione,
secondo un calcolo della Corte dei Conti, circa 60 miliardi
di euro l’anno. Ogni amministrazione dovrà dunque dotarsi di
un indirizzo di posta elettronica certificato al quale i
cittadini potranno segnalare eventuali anomalie.
No regali.
I rapporti tra l’amministrazione e i soggetti che stipulano
contratti andranno monitorati per verificare eventuali
relazioni di parentela fra titolari, amministratori e soci.
Ai dipendenti sarà fatto divieto di chiedere o di accettare
«a qualsiasi titolo compensi o altre utilità in connessione
con l’espletamento delle proprie funzioni», «fatti salvi
si spiega regali d’uso purché di modico valore e nei limiti
delle normali relazioni di cortesia».
Andranno indicate anche durata e misura dei compensi;
un’attestazione verificherà «l’insussistenza» di
eventuali conflitti di interessi. E non è finita: ai
magistrati ordinari, contabili e amministrativi ma anche
agli avvocati e ai procuratori dello Stato e ai componenti
delle commissioni tributarie, sarà vietata la partecipazione
a collegi arbitrali. Pena la decadenza
(articolo Il
Messaggero del 18.10.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI:
La lotta alla corruzione.
LE MISURE DI PREVENZIONE.
Per gli appalti pubblici trasparenza online e «white list»
antimafia.
Le imprese nell'elenco eviteranno l'obbligo di certificato.
LE ALTRE MISURE/
In arrivo nuove ipotesi di risoluzione dei contratti:
sanzionate tra l'altro le sentenze per associazione mafiosa
e traffico di rifiuti.
Oltre alla repressione dei reati, attraverso le misure
penali, nella legge anticorruzione c'è la prevenzione che si
rivolge soprattutto ai settori economici più esposti al
rischio, come quello degli appalti pubblici (lavori, servizi
e forniture).
Il Ddl approvato al Senato prevede numerose
norme che mirano a dare maggiore trasparenza, e in alcuni
casi anche più efficienza nella vigilanza, sia alla fase
della gara sia all'esecuzione contrattuale.
Sul primo fronte, ci sono soprattutto nuovi obblighi di
trasparenza per le pubbliche amministrazioni che dovranno
pubblicare sui propri siti web istituzionali una serie di
informazioni relative al bando, come l'oggetto, l'elenco
degli operatori invitati a presentare offerte,
l'aggiudicatario, i tempi di completamento dell'opera.
Sull'obbligo vigilerà l'Autorità di vigilanza sui contratti
pubblici che già oggi riceve dalle stazioni appaltanti
analoga comunicazione. Si tratta, in sostanza, di un
rafforzamento -attraverso l'uso di tecnologie informatiche- degli attuali obblighi che non di rado vengono disattesi.
La banca dati dell'Autorità dovrebbe, in questo modo,
risultare più completa di quanto lo sia oggi.
D'altra parte le nuove norme si raccordano anche a quanto
già sta facendo la stessa Autorità che proprio martedì ha
varato il bando-tipo per uniformare le regole a cui tutte le
stazioni appaltanti dovranno attenersi nel fare i bandi di
gara e nell'escludere le imprese partecipanti dalle gare (si
veda Il Sole 24 Ore di ieri). «È una norma anticorruzione -spiega il presidente dell'Autorità, Sergio Santoro- che
punta a evitare uno dei comportamenti più gravi delle
stazioni appaltanti, quello di gare mirate a favorire un
soggetto specifico attraverso l'inserimento di requisiti
anomali». Se si aggiunge poi, il nuovo servizio che da
gennaio dovrebbe semplificare a imprese e stazioni
appaltante la presentazione di tutte le certificazioni e
documentazioni di gara, ecco che il cerchio si chiude.
Tra le certificazioni che dovrebbero essere semplificate c'è
anche quella antimafia che però nella legge approvata ieri
al Senato subisce un'ulteriore modifica, anche essa nel
senso di garantire maggiore efficacia nel contrasto alla
mafia e al tempo stesso alla tutela delle imprese oneste. Il
meccanismo, già più volte previsto in via sperimentale, è
quello delle «white list», vale a dire elenchi di
«fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori» al
riparo da qualsiasi sospetto di infiltrazione mafiosa. A
individuare le «imprese buone» dovranno essere le prefetture
che dovranno poi tenere e aggiornare le liste. Una volta
inserita nella lista, l'impresa non dovrà più presentare la
documentazione antimafia prevista dalla legge.
Viene rimaneggiata la disciplina degli arbitrati, con un
divieto di partecipazione ai collegi arbitrali che diventa
assoluto per i magistrati «ordinari, amministrativi,
contabili e militari». È una norma proposta molte volte che
ora sembra trovare un suo compimento (si veda anche
l'articolo nella pagina a fianco).
Cambia anche l'articolo 135 del Codice appalti con una serie
di nuove ipotesi di risoluzione del contratto. Saranno
sanzionate le sentenze passate in giudicato per reati come
l'associazione mafiosa,traffico di droga, contrabbando,
traffico di rifiuti, delitti con finalità di terrorismo,
oltre ai più classici reati di corruzione, concussione,
peculato e malversazione a danno dello Stato. Infine non
potranno fare parte delle commissioni giudicatrici i
condannati con sentenza passata i giudicato per delitti
contro la Pa come peculato, malversazione, corruzione, abuso
d'ufficio o interruzione di pubblico servizio (articolo Il
Sole 24 Ore del 18.10.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
Adempimenti/
Alla Pa solo fatture online.
Forma elettronica obbligatoria per tutti ma con decorrenza
graduale. Il Consiglio di Stato ha dato il via libera al
decreto che sancisce le modalità attuative.
Via libera al secondo decreto attuativo del sistema di
fatturazione elettronica verso le pubbliche amministrazioni:
col
parere 12.10.2012 n. 4267 il Consiglio di Stato, Sezione
Consultiva per gli Atti Normativi, ha
espresso infatti parere favorevole allo schema di
regolamento ministeriale che individua regole tecniche e
linee guida per la gestione dei processi di fattura
elettronica verso le amministrazioni statali.
Il decreto, alla cui approvazione definitiva manca solo il
passaggio formale in Consiglio dei ministri, costituisce
l'ultimo tassello necessario all'avvio degli obblighi
dettati dall'articolo 1, commi da 209 a 214, della Legge 244
del 2007. Per le amministrazioni destinatarie vige infatti
il divieto di accettare le fatture emesse o trasmesse in
forma cartacea e di procedere al pagamento, anche parziale,
sino all'invio del documento in forma elettronica. I
fornitori delle amministrazioni pubbliche dovranno invece
gestire il proprio ciclo di fatturazione esclusivamente in
modalità elettronica, non solo nelle fasi di emissione e
trasmissione ma anche in quella di conservazione.
Gli impatti operativi saranno molti e rilevanti: da un lato,
gli enti pubblici dovranno adeguare infrastrutture
informatiche, sistemi contabili e procedure interne per la
ricezione e la contabilizzazione dei flussi elettronici di
fatturazione. Dall'altro, i fornitori privati sono invece
chiamati a sviluppare modalità di gestione elettronica dei
flussi documentali riorganizzando l'intero ciclo attivo di
fatturazione. Il tutto in un contesto normativo ormai maturo
e in linea con le indicazioni fornite dall'Unione Europea,
da ultimo con la Direttiva 2010/45/UE, di cui è in corso di
pubblicazione lo schema di decreto legislativo di
recepimento.
Perimetro soggettivo
L'articolo 10 del Dl 201/2011 ha delineato con precisione il
perimetro soggettivo delle pubbliche amministrazioni
destinatarie di fatture elettroniche. Si tratta di tutti i
soggetti, anche autonomi che, a norma dell'articolo 1, comma
2 della legge 196/2009, concorrono al perseguimento degli
obiettivi di finanza pubblica definiti in ambito nazionale e
che sono inseriti nel conto economico consolidato e
individuati entro il 30 settembre di ciascun anno
nell'elenco Istat.
Prima delle modifiche i confini delle amministrazioni
destinatarie erano meno definiti, in quanto l'obbligo
riguardava genericamente le amministrazioni dello Stato,
anche ad ordinamento autonomo, e gli enti pubblici
nazionali.
Anche le amministrazioni locali sono state vincolate al
rispetto delle medesime regole applicabili a quelle centrali
introducendo così una regolamentazione unitaria a livello
nazionale.
Il contenuto
Per favorire il rapido passaggio al nuovo sistema in
sintonia con l'evoluzione dello scenario europeo, dovrebbe
essere adottato il formato fattura xml compatibile con gli
standard comunitari. La trasmissione delle fatture, anche
per il tramite di intermediari, avverrà attraverso il
sistema di interscambio (Sdi), la cui gestione è stata
assegnata, con decreto del 07.03.2008, all'agenzia delle
Entrate, che ha individuato in Sogei il soggetto tecnologico
deputato alla sua realizzazione.
Oltre alle informazioni obbligatorie per legge, sulla
fattura trasmessa attraverso lo Sdi dovranno comparire le
indicazioni sul soggetto trasmittente, con identificativo
fiscale, progressivo di invio e numero di trasmissione,
nonché sull'amministrazione destinataria, identificata con
un apposito codice. Quanto alla tempistica di decorrenza
dell'obbligo di fatturazione elettronica, è fissata in
dodici mesi dall'entrata in vigore del regolamento per
ministeri, agenzie fiscali ed enti nazionali di previdenza e
assistenza sociale; in 24 mesi per le altre amministrazioni
incluse nell'elenco Istat, a eccezione delle amministrazioni
locali, per le quali la data di decorrenza sarà determinata
con Dm dell'Economia, di concerto con il l'Innovazione e
d'intesa con la Conferenza Unificata (articolo Il
Sole 24 Ore del 18.10.2012). |
VARI:
La legge di stabilità arrivata alla camera esclude la spesa
dalla nuova soglia dei 250 euro. Deduzioni e detrazioni
definite.
Limature alle franchigie. In salvo l'assistenza medica.
Via la franchigia di 250 euro per le spese mediche e di
assistenza specifica dei disabili. Tolta la franchigia di
detrazione e la concorrenza al tetto dei 3 mila euro su base
annua per le spese sostenute per l'utilizzo dei cani guida
da parte dei soggetti non vedenti. Via le limitazioni e
ripristino dell'originario regime di detraibilità anche per
le spese per i servizi di interpretariato dei sordomuti.
Fuori dalle limitazioni anche le spese per gli addetti
all'assistenza personale delle persone non autosufficienti
(badanti) che tornano ad essere detraibili, senza alcuna
franchigia e senza concorrenza al tetto dei 3 mila euro, nel
limite originario di spesa su base annua pari a euro 2.100.
Sono queste le modifiche apportate al testo definito
dell'articolo 12 del
disegno di legge di stabilità in
materia di detrazioni e deduzioni d'imposta.
Nella versione definitiva dell'articolo 12 del testo del
disegno di legge compare anche un nuovo paragrafo nel quale
si specifica che subiranno le nuove franchigie di 250 e il
tetto massimo di detrazione di 3 mila euro su base annuale
anche le altre tipologie di oneri deducibili e detraibili
dal redditi previsti da altre disposizioni normative diverse
dal Tuir ma comunque riconducibili agli articoli 10 e 15 del
Testo unico delle imposte sui redditi.
Alcune delle modifiche sopra riportate tendono a evitare
alcune storture evidenziate dalla lettura della prima bozza
del provvedimento. È il caso ad esempio delle spese mediche
e di assistenza specifica dei soggetti disabili per i quali
inizialmente si prevedeva l'introduzione della franchigia di
deducibilità di 250 euro o quelle relative alle detrazioni
per le spese dei cani guida o per le badanti.
Si tratta di modifiche con le quali si tende a ripristinare
una sostanziale equità ed uniformità fra tipologie di spese
aventi natura similare.
Resta invece confermata, nonostante le polemiche sollevate
da più parti, la retroattività delle nuove limitazioni alla
deduzione e detrazione dal reddito che si applicheranno già
con riferimento all'anno 2012 (articolo
ItaliaOggi del 18.10.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO: CORRUZIONE/ Via libera con fiducia dal Senato al disegno di
legge che ora va alla Camera. Pugno duro sugli illeciti
anti-p.a..
Arriva un codice di comportamento dei dipendenti pubblici.
Via libera con fiducia nell'aula del Senato (228 sì, 33 no e
due astenuti) al maxi-emendamento del governo al
disegno di
legge anticorruzione (2156-B), che inasprisce le pene per
illeciti a danno della pubblica amministrazione, predispone
un codice di comportamento per i dipendenti e contiene una
delega per l'incandidabilità dei condannati alle cariche
elettive.
Il testo del ministro della giustizia Paola
Severino che sarà, dichiara il premier Mario Monti, «un
fattore di crescita per il paese», si compone di 84 commi e
passa all'esame della Camera. Di seguito e nella tabella le
novità principali.
Corruzione. Giro di vite per corruzione in atti giudiziari
(da tre–otto anni a quattro-dieci, per quella aggravata la
pena minima sale da quattro a cinque), corruzione propria
(da quattro a otto anni, non più due–cinque), peculato (la
pena minima cresce da tre a quattro anni) e abuso d'ufficio
(da sei mesi–tre anni aumenta da uno a quattro anni).
Concussione. Modifiche al codice penale (art. 317) con un
innalzamento della pena («reclusione da 6 a 12 anni») per il
pubblico ufficiale che, «abusando della sua qualità e dei
suoi poteri, costringe taluno a dare o promettere
indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità».
Traffico di influenze illecite e corruzione fra privati. Il
testo di Severino comprende anche le formulazioni sui reati
di traffico di influenze e corruzione tra privati introdotti
alla Camera: nel primo caso, si viene puniti sempre con la
reclusione da uno a tre anni, ma solo in relazione «al
compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio, o
all'omissione, o al ritardo di un atto».
Quanto alla
corruzione fra privati, arriva la procedibilità a querela di
parte, però con un'eccezione che consentirà interventi
d'ufficio alla magistratura inquirente, nel caso in cui «dal
fatto derivi una distorsione della concorrenza
nell'acquisizione di beni e servizi».
Incandidabilità. Il governo s'impegna per adottare una norma
sull'incandidabilità «alla carica di membro del Parlamento
Ue, di deputato e senatore della Repubblica, alle elezioni
regionali, provinciali comunali e circoscrizionali» dei
condannati per reati contro la p.a. entro un anno, tuttavia
il Guardasigilli promette di definire la delega in tempi
brevi, «entro un mese».
Giudici fuori ruolo. Le toghe che vorranno assumere funzioni
nell'apparato statale dovranno mettersi in «fuori ruolo» per
tutta la durata dell'attività. E il periodo non potrà
superare i dieci anni consecutivi.
La versione governativa
che sostituisce l'art. 18 del ddl, prevede la regola valga
per «tutti gli incarichi presso istituzioni, organi ed enti
pubblici, nazionali ed internazionali attribuiti in
posizioni apicali o semiapicali, compresi quelli di
titolarità dell'ufficio di gabinetto», affidati a
«magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari,
avvocati e procuratori dello stato»; e le mansioni in corso
all'entrata in vigore della normativa «cessano di diritto
se, nei 180 giorni successivi, non viene adottato il
collocamento in fuori ruolo».
Il governo fisserà altri
paletti: emanerà «entro 4 mesi» un dlgs per l'individuazione
di ulteriori incarichi da non assegnare. Sotto la lente
d'ingrandimento del legislatore «situazioni di conflitto di
interesse tra funzioni esercitate presso l'Amministrazione
di appartenenza e quelle in ragione del ruolo ricoperto
fuori ruolo». Il limite dei dieci anni non si applicherà ai
membri del governo, alle cariche elettive (Parlamento e
Authority) e ai componenti delle Corti internazionali.
Codice etico. L'esecutivo stilerà un codice di condotta dei
dipendenti delle amministrazioni pubbliche per «assicurare
la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni di
corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali di
diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla
cura dell'interesse» collettivo.
Amministrazioni trasparenti.
Sui siti istituzionali degli enti dovranno comparire i
bilanci e i conti consuntivi, oltre ai costi di
realizzazione delle opere pubbliche e di produzione dei
servizi (articolo ItaliaOggi
del 18.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: SEMPLIFICAZIONI/ Il disegno di legge modifica il codice del
processo amministrativo. Danni alla p.a. chiesti in un anno.
Al giudice ordinario le opposizioni alle sanzioni Bankitalia.
Più tempo per chiedere i danni alle pubbliche
amministrazioni; al giudice ordinario le opposizioni alle
sanzioni di Bankitalia e Consob.
Il
disegno di legge di
semplificazione approvato martedì dal Consiglio dei ministri
modifica, in questi due punti, il codice del processo
amministrativo: porta a un anno il termine per proporre
l'azione autonoma di danni e esclude la giurisdizione
amministrativa per le controversie sui provvedimenti
sanzionatori dell'istituto di via Nazionale. Il termine di
decadenza della speciale azione di danni viene dunque
triplicato (oggi è di 120 giorni). Ma vediamo dettagli degli
interventi che toccano il settore della giustizia.
AZIONE DI DANNI
CONTRO LA P.A.
Il ddl semplificazioni, spiega la relazione al
provvedimento, rimodula l'azione risarcitoria, ampliando il
termine per la proposizione dell'azione autonoma o diretta
di condanna dell'amministrazione al risarcimento del danno.
Si tratta dell'azione con cui si chiede il risarcimento del
danno all'amministrazione, senza impugnare un atto
amministrativo o dopo avere impugnato, in un separato
giudizio, un atto amministrativo lesivo.
Il cittadino ha, infatti, la possibilità di chiedere i danni
subito insieme alla richiesta di annullamento di un atto
lesivo oppure con un separato ricorso.
Questo separato ricorso può essere attivato subito (senza
avere impugnato l'atto) oppure a conclusione del processo di
annullamento.
Le regole attuali stabiliscono in entrambi questi ultimi due
casi il termine di 120 giorni. Il disegno di legge di
semplificazione sposta il termine rispettivamente a un anno
e a sei mesi. Vediamo come.
La domanda di risarcimento autonoma (senza avere impugnato
un atto) per lesione di interessi legittimi dovrà essere
proposta entro il termine di decadenza di un anno decorrente
dal giorno in cui il fatto si è verificato o comunque dalla
conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente
da questo.
Nell'altra ipotesi (e cioè quella in cui sia stata proposta
prima l'azione di annullamento dell'atto) la norma (articolo
30 del codice del processo amministrativo) prevede che la
domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del
giudizio o, comunque, sino a un certo termine dal passaggio
in giudicato della relativa sentenza (che annulla l'atto).
Il termine attuale è di 120 giorni, ma il disegno di legge
di semplificazione lo allunga a sei mesi.
SANZIONI
AMMINISTRATIVE
Secondo l'impianto attuale (articolo 133, comma 1, lettera
l) del codice del processo amministrativo) appartengono alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le
controversie aventi ad oggetto tutti i provvedimenti,
compresi quelli sanzionatori ed esclusi quelli inerenti ai
rapporti di impiego privatizzati, adottati dalla Banca
d'Italia, dagli Organismi regolati dal Testo unico bancario,
dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato,
dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni,
dall'Autorità per l'energia elettrica e il gas, e dalle
altre Autorità, dall'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture, dalla Commissione
vigilanza fondi pensione, dalla Commissione per la
valutazione, la trasparenza e l'integrità della pubblica
amministrazione, dall'Istituto per la vigilanza sulle
assicurazioni private.
Il disegno di legge sulle semplificazioni toglie alla
giurisdizione amministrativa i provvedimenti sanzionatori,
che invece ora sono inclusi.
La norma tiene conto della sentenza n. 162 del 20-27.06.2012, della Corte costituzionale, la quale ha dichiarato
l'illegittimità costituzionale del processo amministrativo
nella parte in cui attribuiscono alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo, con cognizione estesa
al merito, e alla competenza funzionale del Tar Lazio – sede
di Roma, le controversie in materia di sanzioni irrogate
dalla Consob.
Analoghi profili di legittimità costituzionale riguardano la
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per le
controversie in materia di sanzioni irrogate dalla Banca
d'Italia.
Il disegno di legge sulle semplificazioni, dunque,
ripristina la giurisdizione del giudice ordinario anche per
le controversie aventi ad oggetto l'opposizione avverso i
provvedimenti a contenuto sanzionatorio emanati dalla Banca
d'Italia. Di conseguenza viene disciplinato il giudizio di
opposizione contro i provvedimenti sanzionatori della Consob
e della Banca d'Italia.
In proposito si segnala che il procedimento di opposizione,
verrà regolato dall'articolo 6 del dlgs 150/2011, usando il
rito del lavoro, anche se resta esclusa l'appellabilità
delle decisioni, in quanto i giudizi sono affidati alla
Corte d'appello.
CONFERENZA
DEI SERVIZI
Il ddl semplificazione modifica l'articolo 14-quater, comma
3, della legge 241/1990, prevedendo un allungamento a 90
giorni del termine attualmente previsto di trenta giorni,
per svolgere idonee procedure per consentire reiterate
trattative volte a superare le divergenze tra stato e
regioni: rimane ferma la possibilità per il governo, nel
caso in cui l'intesa non sia comunque raggiunta, di
deliberare unilateralmente. La modifica recepisce la
sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 2012 (articolo ItaliaOggi
del 18.10.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
L’eventuale articolazione dei criteri valutativi
previsti dal bando in sub-criteri, cui assegnare sub-pesi o
sub-punteggi, deve essere stabilita dalla stazione
appaltante ed indicata nel bando, mentre non può essere
stabilita dalla commissione di gara dopo la presentazione
delle offerte, sia pure prima della loro apertura.
Nel merito, il ricorso è fondato e va di conseguenza accolto.
In particolare, assorbite le ulteriori censure, è meritevole
di accoglimento il motivo d’impugnativa con cui è stata
dedotta la violazione dell’art. 83, co. 4, d.lgs. n. 163 del
2006.
L’art. 83, co. 4, del codice dei contratti pubblici,
stabilisce che il bando per ciascun criterio di valutazione
prescelto prevede, ove necessario, i sub-criteri e i
sub-pesi o i sub-punteggi.
Di talché, il legislatore ha effettuato una scelta che trova
giustificazione nell’esigenza di ridurre gli apprezzamenti
soggettivi della commissione giudicatrice, garantendo in tal
modo l’imparzialità delle valutazioni nell’essenziale tutela
della par condicio tra i concorrenti, i quali sono messi
tutti in condizione di formulare un’offerta che consenta di
concorrere effettivamente all’aggiudicazione (ex multis:
Cons. St., IV, 12.06.2012, n. 3445; Cons. St., III, 01.02.2012, n. 514).
Il codice dei contratti pubblici, quindi, ha chiarito sin
dalla sua originaria stesura che l’eventuale articolazione
dei criteri valutativi previsti dal bando in sub-criteri,
cui assegnare sub-pesi o sub-punteggi, deve essere stabilita
dalla stazione appaltante ed indicata nel bando, mentre non
può essere stabilita dalla commissione di gara dopo la
presentazione delle offerte, sia pure prima della loro
apertura.
D’altra parte, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea,
Sez. I, con sentenza 24.01.2008 n. C. 532/06, ha
evidenziato che gli offerenti devono essere posti su un
piano di parità durante l’intera procedura, il che comporta
che i criteri e le condizioni che si applicano a ciascuna
gara debbano costituire oggetto di un’adeguata pubblicità da
parte delle amministrazioni aggiudicatrici.
Infatti, ha dichiarato che l’art. 36, co. 2, della direttiva
del Consiglio 18.06.1992 92/50/CEE, letto alla luce del
principio di parità di trattamento degli operatori economici
e dell’obbligo di trasparenza che ne discende, osta a che,
nell’ambito di una procedura di aggiudicazione,
l’amministrazione aggiudicatrice determini in un momento
successivo coefficienti di ponderazione e sottocriteri per i
criteri di aggiudicazione menzionati nel capitolato d’oneri
o nel bando di gara.
Peraltro -atteso che l’ultimo periodo dell’art. 83, co. 4,
aveva previsto il potere/dovere della commissione
giudicatrice di fissare in via generale, prima dell’apertura
delle buste, i criteri motivazionali cui attenersi per
attribuire a ciascun criterio e subcriterio di valutazione
il punteggio tra il minimo e il massimo prestabiliti dal
bando– la Commissione Europea, con lettera di contestazione
del 30.01.2008, ha rilevato che la previsione della
possibilità di fissare i criteri motivazionali dei punti
attribuiti alle offerte che non era previsto nei documenti
di gara sembra contrario al principio di parità di
trattamento fissato dalle direttive 2004/19/CE e 2004/17/CE
e ciò in quanto, al fine di garantire il rispetto del
principio di parità di trattamento, tutti i criteri che
saranno utilizzati per l’aggiudicazione dell’appalto devono
essere messi a disposizione dei concorrenti prima che essi
formulino le proprie offerte, in modo da permettere loro di
tenerne conto.
Di talché, il d.lgs n. 152 del 2008, c.d. terzo correttivo
al codice dei contratti pubblici, ha provveduto ad abrogare
l’ultimo periodo dell’art. 83, co. 4, d.lgs. n. 163 del 200,
vale a dire, come detto, il potere/dovere della commissione
giudicatrice di fissare i criteri motivazionali prima
dell’apertura delle buste (TAR Lazio, Roma, Sez. II-ter,
sentenza 19.10.2012 n. 8695 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La realizzazione di una tettoia è soggetta a
concessione edilizia …, in quanto essa, pur avendo carattere
pertinenziale rispetto all'immobile cui accede, incide
sull'assetto edilizio preesistente.
In particolare, la tettoia realizzata sul terrazzo di un
fabbricato, in quanto struttura stabilmente ancorata al
pavimento e destinata a soddisfare non un'esigenza
temporanea e contingente, ma prolungata nel tempo, è priva
del carattere della precarietà ed amovibilità ed è quindi
assoggettata al regime del permesso di costruire, dal
momento che comporta una rilevante modifica dell'assetto
edilizio preesistente.
Come più volte rilevato in giurisprudenza, infatti, “...
la realizzazione di una tettoia è soggetta a concessione
edilizia …, in quanto essa, pur avendo carattere
pertinenziale rispetto all'immobile cui accede, incide
sull'assetto edilizio preesistente. In particolare, la
tettoia realizzata sul terrazzo di un fabbricato, in quanto
struttura stabilmente ancorata al pavimento e destinata a
soddisfare non un'esigenza temporanea e contingente, ma
prolungata nel tempo, è priva del carattere della precarietà
ed amovibilità ed è quindi assoggettata al regime del
permesso di costruire, dal momento che comporta una
rilevante modifica dell'assetto edilizio preesistente”
(cfr. TAR Campania Napoli, sez. III, 09.09.2008, n. 10059)
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 19.10.2012 n. 8658 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
E' illegittimo l’ordine di ripristino con il
quale è stato contestato (al proprietario dell'immobile) di
avere mutato la destinazione d’uso, da turistico-ricettiva a
residenziale, dell’immobile di proprietà e si è aggiunto
che, in caso di inottemperanza, l’opera sarebbe stata
acquisita al patrimonio pubblico, laddove non è provata,
come è necessario, la responsabilità del proprietario.
Considerato:
- che il ricorrente impugna l’ordine di ripristino 801 del
2012, con il quale gli è stato contestato di avere mutato la
destinazione d’uso, da turistico-ricettiva a residenziale,
dell’immobile di proprietà sito in Roma, via Aurelia Antica
n. 425, e si è aggiunto che, in caso di inottemperanza,
l’opera sarebbe stata acquisita al patrimonio pubblico;
- che, all’esito della fase cautelare, sussistono i
presupposti per definire la causa con sentenza in forma
semplificata;
- che questo Tribunale si è ripetutamente occupato di
analoga fattispecie, posto che il mutamento dell’uso ha
riguardato l’intero stabile;
- che, in tali occasioni, si è ritenuto legittimo l’operato
della p.a.;
- che, peraltro, il ricorrente, nel caso di specie, anziché
contestare il mutamento d’uso, rileva che, in quanto
proprietario non responsabile, il Comune non avrebbe potuto
configurare la sanzione dell’acquisizione gratuita;
- che, per tale parte (primo motivo), il ricorso è fondato,
giacché non è provata, come è necessario, la responsabilità
del proprietario, avente causa da un terzo, circa il
mutamento (nello stesso senso, su identica fattispecie,
sentenza in causa 04727 del 2012 di questa Sezione) (TAR
Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 19.10.2012 n. 8657 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Come si evince dall’art. 15, comma 2, del D.P.R.
n. 380/2001 che dispone la decadenza “di diritto” dal
permesso di costruire per mancato inizio dei lavori nel
termine di un anno dal rilascio dello stesso, il
provvedimento dichiarativo di decadenza ha natura
ricognitiva e si concreta in un atto d’accertamento il cui
effetto nasce ex lege, conseguendone che siffatto effetto
può essere evitato, come la medesima disposizione
legislativa prevede, solo a seguito dell’accoglimento della
domanda di proroga dell’efficacia del titolo di assentimento
inoltrata anteriormente alla scadenza dello stesso.
Si deve, poi, osservare che, come si evince dall’art. 15,
comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 che dispone la decadenza “di
diritto” dal permesso di costruire per mancato inizio
dei lavori nel termine di un anno dal rilascio dello stesso,
il provvedimento dichiarativo di decadenza ha natura
ricognitiva e si concreta in un atto d’accertamento il cui
effetto nasce ex lege (Cfr. Cons. di Stato – Sez. IV
– 10/08/2007 n. 4423; TAR - Liguria – GE – Sez. I –
11/12/2007 n. 2050), conseguendone che siffatto effetto può
essere evitato, come la medesima disposizione legislativa
prevede, solo a seguito dell’accoglimento della domanda di
proroga dell’efficacia del titolo di assentimento inoltrata
anteriormente alla scadenza dello stesso, circostanza questa
non verificatasi nel caso in esame (TAR Campania-Salerno,
Sez. II,
sentenza 19.10.2012 n. 1900 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’ordine
di demolizione è chiaramente motivato in ragione della
violazione della fascia di rispetto cimiteriale, soggetta a
vincolo di inedificabilità assoluta.
Trattandosi di atto dal contenuto vincolato, non era
richiesta una particolare motivazione sulla sussistenza di
un interesse pubblico alla demolizione, essendo questo
implicito nella necessità di preservare l’integrità della
fascia di rispetto cimiteriale.
L’ordine di demolizione è chiaramente motivato in ragione
della violazione della fascia di rispetto cimiteriale,
soggetta a vincolo di inedificabilità assoluta.
Trattandosi di atto dal contenuto vincolato, non era
richiesta una particolare motivazione sulla sussistenza di
un interesse pubblico alla demolizione, essendo questo
implicito nella necessità di preservare l’integrità della
fascia di rispetto cimiteriale (Cons. Stato, sez. V,
12.11.1999, n. 1871; TAR Lombardia Milano, 30.03.1996, n.
396).
Né è dato rilevare nel comportamento del Comune profili di
contraddittorieà o di illogicità: il Comune, stante
l’esistenza di un vincolo di inedificabilità oggettivamente
ostativo al rilascio del titolo edificatorio, ha operato un
ragionevole bilanciamento tra l’interesse pubblico
presidiato dal vincolo e quello privato della ricorrente,
consentendo che la struttura fosse allocata in via meramente
temporanea e attraverso modalità di periodica
installazione/disinstallazione che rendessero manifesta e
ben percepibile la precarietà del manufatto.
Quando però ha
constatato che la struttura aveva assunto carattere
permanente, ha dapprima richiamato la ricorrente
all’adempimento e quindi, avendone constatato
l’inadempimento, l’ha dichiarata decaduta
dall’autorizzazione e le ha ordinato, conseguentemente, la
demolizione del manufatto perché edificato abusivamente in
zona di rispetto cimiteriale.
Il comportamento del Comune è stato coerente, ragionevole e
conforme a legge
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 19.10.2012 n. 1113 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
circostanza che nell’atto impugnato non risultino menzionate
le conseguenze scaturenti dall’inottemperanza dell’ordine di
demolizione e, in particolare, non sia esattamente
individuata l’area che, in caso di inottemperanza, sarebbe
oggetto di acquisizione gratuita al patrimonio indisponibile
del Comune, non integra violazione dell’art. 7 L. 28.02.1985
n. 47 poiché nulla esclude che tale più compiuta
individuazione possa essere effettuata successivamente, ai
fini dell’immissione in possesso e della relativa
trascrizione.
La circostanza che nell’atto impugnato non risultino menzionate le
conseguenze scaturenti dall’inottemperanza dell’ordine di
demolizione e, in particolare, non sia esattamente
individuata l’area che, in caso di inottemperanza, sarebbe
oggetto di acquisizione gratuita al patrimonio indisponibile
del Comune, non integra violazione dell’art. 7 L. 28.02.1985
n. 47 poiché, come già affermato da questo Tribunale, nulla
esclude che tale più compiuta individuazione possa essere
effettuata successivamente, ai fini dell’immissione in
possesso e della relativa trascrizione (TAR Piemonte, sez.
I, 04.09.2009, n. 2253; in senso analogo TAR Campania
Napoli, sez. VI, 05.06.2012, n. 2635; TAR Lazio Roma,
sez. II, 02.01.2012, n. 9) (TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 19.10.2012 n. 1112 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il cambiamento di destinazione d'uso senza
realizzazione di opere edilizie non costituisce una attività
del tutto libera e priva di vincoli, non potendo comportare
la vanificazione di ogni previsione urbanistica che
disciplini l'uso nel territorio nel singolo comune.
Una diversa soluzione, non solo costituirebbe, in linea di
principio, una inammissibile vulnerazione delle prerogative
di autonomia e responsabilità sul territorio degli enti
locali, ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione
di regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed
ordinato assetto del territorio, con conseguente inevitabile
pericolo di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri
prefigurati dalla strumentazione urbanistica.
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 2480 in data
02.08.1996, con la quale il sindaco del Comune di Grugliasco
ha disposto il ripristino della destituzione d'uso agricola
di un capannone di proprietà della ricorrente.
...
Con il secondo motivo la ricorrente sostiene che i mutamenti
d’uso realizzati senza opere strutturali sarebbero soggetti
a semplice sanzione pecuniaria e non ad obblighi di
ripristino.
Anche tale censura non può essere condivisa.
La normativa richiamata dalla ricorrente non è
conferente al caso di specie, perché concerne ipotesi di
mutamenti funzionali di destinazione d’uso realizzati nel
rispetto delle previsioni urbanistiche di zona, benché in
assenza di un titolo abilitativo: sicché in tali ipotesi la
sanzione pecuniaria punisce l’assenza del titolo, ma non
legittima alcun abuso, anzi presuppone la compatibilità
urbanistica anche della nuova destinazione d’uso.
Nel caso di specie, invece, il capannone di proprietà
della ricorrente è stato in concreto adibito ad un uso
(commerciale) incompatibile con l’assetto urbanistico
(agricolo) di zona, e dunque correttamente esso è stato
sanzionato con l’ordine di ripristino.
Come giustamente ha osservato la difesa comunale, la
tesi di parte ricorrente, se portata alle sue estreme
conseguenze, condurrebbe alla inammissibile conclusione per
cui chiunque, pagando una semplice sanzione pecuniaria,
sarebbe legittimato a stravolgere le linee di pianificazione
dettate dall’amministrazione, mutando a suo piacimento la
destinazione di un determinato sito.
Al riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che il
cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione di
opere edilizie non costituisce una attività del tutto libera
e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione
di ogni previsione urbanistica che disciplini l'uso nel
territorio nel singolo comune. Una diversa soluzione, non
solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile vulnerazione
delle prerogative di autonomia e responsabilità sul
territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in
concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad
assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio,
con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli
modificazioni degli equilibri prefigurati dalla
strumentazione urbanistica (Consiglio di Stato sez. I,
25.05.2012 n. 759; in senso conforme Cons. Stato, sez. V,
10.07.2003, n. 4102; 03.01.1998, n. 24; Cons. Stato, V,
28.05.2010, n. 3420) (TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 19.10.2012 n. 1110 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L’utilizzo dello strumento di cui all’art. 54 del
testo unico degli enti locali è consentito nei limiti in cui
la situazione di pericolo è positivamente accertata, mentre
eventuali altri esigenze devono essere affrontate con gli
ordinari strumenti autoritativi di cui dispone
l’Amministrazione.
- Rilevato che oggetto del giudizio è il provvedimento
contingibile ed urgente con il quale il Sindaco del Comune
appellato ha vietato in modo assoluto l’utilizzo dei locali,
condotti dalla parte appellante, nei quali questa svolge la
propria attività culturale e religiosa;
- Rilevato che la parte appellante contesta il
provvedimento, oggetto del giudizio, e la sentenza di primo
grado sottolineando il fatto che i Vigili del Fuoco hanno
attestato l’idoneità dei locali dei quali è stato ordinato
lo sgombero ad accogliere un massimo di centocinquanta
occupanti e che tale circostanza è stata trascurata dal
primo giudice;
- Rilevato che la veridicità di tale elemento è stata
dimostrata in punto di fatto;
- Ritenuto, di conseguenza, che le ragioni di tutela della
pubblica incolumità, affermate dall’Amministrazione, sono
dimostrate solo in tali limiti;
- Ritenuto, in ulteriore conseguenza, di dover condividere
la principale argomentazione dell’appellante, secondo la
quale l’utilizzo dello strumento di cui all’art. 54 del
testo unico degli enti locali è consentito nei limiti in cui
la situazione di pericolo è positivamente accertata, mentre
eventuali altri esigenze devono essere affrontate con gli
ordinari strumenti autoritativi di cui dispone
l’Amministrazione;
- Ritenuto, di conseguenza, di dover accogliere, nei limiti
di cui sopra, l’appello in epigrafe, per l’effetto
annullando, per quanto di ragione, il provvedimento
impugnato (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 18.10.2012 n. 5361 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
E' corretto che l’amministrazione ritenga di non
consentire l’accesso ai rapporti informativi riguardanti la
posizione della società ricorrente, rientrando gli atti
istruttori dell’informativa prefettizia nei documenti
sottratti all’accesso per la loro inerenza alle attività di
prevenzione e repressione della criminalità.
-------------
Non si ravvisa la necessità del previo intervento della
comunicazione di avvio del procedimento in occasione
dell’emissione dell’informativa interdittiva e dei
conseguenti provvedimenti incidenti sul rapporto concessorio
e/o contrattuale, poiché nella specie si tratta di
procedimenti in materia di tutela antimafia, come tali
caratterizzati intrinsecamente da riservatezza ed urgenza.
-------------
I tratti caratterizzanti l’istituto dell’informativa
prefettizia, di cui agli artt. 4 del d.lgs. n. 490/1994 e 10
del d.P.R. n. 252/1998, ruotano intorno ai seguenti
concetti:
- si tratta di una tipica misura cautelare di polizia,
preventiva e interdittiva, che si aggiunge alle misure di
prevenzione antimafia di natura giurisdizionale e che
prescinde dall’accertamento in sede penale di uno o più
reati connessi all’associazione di tipo mafioso; non occorre
né la prova di fatti di reato, né la prova dell’effettiva
infiltrazione mafiosa nell’impresa, né la prova del reale
condizionamento delle scelte dell’impresa da parte di
associazioni o soggetti mafiosi;
- è sufficiente il “tentativo di infiltrazione” avente lo
scopo di condizionare le scelte dell’impresa, anche se tale
scopo non si è in concreto realizzato;
- tale scelta è coerente con le caratteristiche fattuali e
sociologiche del fenomeno mafioso, che non necessariamente
si concreta in fatti univocamente illeciti, potendo fermarsi
alla soglia dell’intimidazione, dell’influenza e del
condizionamento latente di attività economiche formalmente
lecite;
- la formulazione generica, più sociologica che giuridica,
del tentativo di infiltrazione mafiosa rilevante ai fini del
diritto comporta l’attribuzione al Prefetto di un ampio
margine di accertamento e di apprezzamento;
- l’ampia discrezionalità di apprezzamento riservata al
Prefetto genera, di conseguenza, che la valutazione
prefettizia è sindacabile in sede giurisdizionale solo in
caso di manifesti vizi di eccesso di potere per illogicità,
irragionevolezza e travisamento dei fatti.
---------------
Si è ritenuto inoltre, con riguardo alle informative di cui
all’art. 10, comma 7, lettera c), del d.P.R. n. 252/1998,
che, essendo fondate le medesime su valutazioni
discrezionali non ancorate a presupposti tipizzati, i
tentativi di infiltrazione mafiosa possono essere desunti
anche da parametri non predeterminati normativamente;
tuttavia, onde evitare il travalicamento in uno “stato di
polizia” e per salvaguardare i principi di legalità e di
certezza del diritto, si è precisato che non possono
reputarsi sufficienti fattispecie fondate sul semplice
sospetto o su mere congetture prive di riscontro fattuale,
occorrendo l’individuazione di idonei e specifici elementi
di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di
concrete connessioni o collegamenti con la criminalità
organizzata.
In particolare, con riferimento agli elementi di fatto
idonei a sorreggere l’impianto probatorio delle informative
de quibus, la giurisprudenza ha sottolineato che in tali
ipotesi il Prefetto, anziché limitarsi a riscontrare la
sussistenza di specifici elementi (come avviene per gli
accertamenti eseguiti ai sensi dell’art. 10, comma 7,
lettere a) e b), del d.P.R. n. 252/1998), deve effettuare la
propria valutazione sulla scorta di uno specifico quadro
indiziario, ove assumono rilievo preponderante i fattori
induttivi della non manifesta infondatezza che i
comportamenti e le scelte dell’imprenditore possano
rappresentare un veicolo di infiltrazione delle
organizzazioni criminali nelle funzioni della pubblica
amministrazione; pertanto, si può ravvisare l’emergenza di
tentativi di infiltrazione mafiosa in fatti in sé e per sé
privi dell’assoluta certezza –quali una condanna non
irrevocabile, l’irrogazione di misure cautelari, il
coinvolgimento in un’indagine penale, collegamenti
parentali, cointeressenze societarie e/o frequentazioni con
soggetti malavitosi, dichiarazioni di pentiti– ma che, nel
loro insieme, siano tali da fondare un giudizio di
possibilità che l’attività d’impresa possa, anche in maniera
indiretta, agevolare le attività criminali o esserne in
qualche modo condizionata per la presenza, nei centri
decisionali, di soggetti legati ad organizzazioni mafiose.
Né deve essere trascurata la rilevanza del legame di
parentela, potendo essere tratto dagli insegnamenti della
giurisprudenza il principio che se è vero che il rapporto di
parentela non costituisce in sé indizio sufficiente del
tentativo di infiltrazione mafiosa, è altrettanto vero che
tale tentativo deve ritenersi sussistente quando al dato
dell’appartenenza familiare si accompagni la frequentazione,
la convivenza o la comunanza di interessi con l’individuo
sospetto tali da palesare, pertanto, la contiguità con gli
ambienti della criminalità.
---------------
La norma introduttiva dell’informativa prefettizia “si
spiega nella logica di una anticipazione della soglia di
difesa sociale ai fini di una tutela avanzata nel campo del
contrasto della criminalità organizzata, in guisa da
prescindere da soglie di rilevanza probatorie tipiche del
diritto penale, per cercare di cogliere l’affidabilità
dell’impresa affidataria dei lavori complessivamente intesa.
(…) E tanto specie se si pone mente alla circostanza prima
rimarcata che le cautele antimafia non obbediscono a
finalità di accertamento di responsabilità, bensì di massima
anticipazione dell’azione di prevenzione, rispetto alla
quale sono per legge rilevanti fatti e vicende anche solo
sintomatici ed indiziari, al di là dell’individuazione di
responsabilità penali”.
Ne discende pertanto, mutuando le parole del prefato giudice
in altra decisione, che in caso di proscioglimento, “i fatti
oggetto di un procedimento penale mantengono una loro
idoneità ad essere indicati a presupposto di una informativa
antimafia. Un fatto delittuoso per il quale deve essere data
prova perché in sede penale intervenga una condanna,
mantiene un suo carattere indiziario e può essere valido
elemento di dimostrazione dell’esistenza di un pericolo di
collegamento fra impresa e criminalità organizzata e di
contiguità mafiosa (non configurata come fattispecie
criminosa dal codice penale), essendo diversi i piani su cui
muovono l’autorità giudiziaria e quella amministrativa”.
Solo nel caso in cui la sentenza penale di assoluzione
escluda la verificazione di un determinato fatto sul piano
della realtà (a prescindere dalla sua valenza giuridica),
tale fatto non può assurgere ad elemento indiziario nemmeno
ai fini dell’informativa interdittiva, venendo meno i
presupposti per la sua emissione; tale evenienza, tuttavia,
non ricorre nella presente fattispecie, tutta incentrata su
circostanze acclarate dal giudice penale ma ritenute
insufficienti per la pronuncia di condanna dell’imputato.
Correttamente l’amministrazione ha ritenuto di non
consentire l’accesso ai rapporti informativi riguardanti la
posizione della società ricorrente, rientrando gli atti
istruttori dell’informativa prefettizia nei documenti
sottratti all’accesso per la loro inerenza alle attività di
prevenzione e repressione della criminalità, in virtù del combinato disposto dell’art. 24,
comma 1, lett. a), della legge n. 241/1990 e dell’art. 3,
comma 1, lett. a) e b), del d.m. 10.05.1994 n. 415 (cfr.
TAR Campania Salerno, Sez. I, 10.07.2007 n. 818; TAR
Campania Napoli, Sez. V, 15.09.2005 n. 14543).
---------------
Il Collegio condivide il
consolidato orientamento della giurisprudenza, che non
ravvisa la necessità del previo intervento della
comunicazione di avvio del procedimento in occasione
dell’emissione dell’informativa interdittiva e dei
conseguenti provvedimenti incidenti sul rapporto concessorio
e/o contrattuale, poiché nella specie si tratta di
procedimenti in materia di tutela antimafia, come tali
caratterizzati intrinsecamente da riservatezza ed urgenza
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 29.02.2008 n. 756;
Consiglio di Stato, Sez. V, 12.06.2007 n. 3126 e 28.02.2006 n. 851).
--------------
La giurisprudenza che si
è occupata della materia, condivisa da questo Collegio (cfr.
per tutte TAR Campania Napoli, Sez. I, 08.11.2005 n.
18714), ha avuto modo di sottolineare che i tratti
caratterizzanti l’istituto dell’informativa prefettizia, di
cui agli artt. 4 del d.lgs. n. 490/1994 e 10 del d.P.R. n.
252/1998, ruotano intorno ai seguenti concetti:
- si tratta di una tipica misura cautelare di polizia,
preventiva e interdittiva, che si aggiunge alle misure di
prevenzione antimafia di natura giurisdizionale e che
prescinde dall’accertamento in sede penale di uno o più
reati connessi all’associazione di tipo mafioso; non occorre
né la prova di fatti di reato, né la prova dell’effettiva
infiltrazione mafiosa nell’impresa, né la prova del reale
condizionamento delle scelte dell’impresa da parte di
associazioni o soggetti mafiosi;
- è sufficiente il “tentativo di infiltrazione” avente lo
scopo di condizionare le scelte dell’impresa, anche se tale
scopo non si è in concreto realizzato (cfr. Consiglio di
Stato, Sez. IV, 30.05.2005 n. 2796 e 13.10.2003 n.
6187);
- tale scelta è coerente con le caratteristiche fattuali e
sociologiche del fenomeno mafioso, che non necessariamente
si concreta in fatti univocamente illeciti, potendo fermarsi
alla soglia dell’intimidazione, dell’influenza e del
condizionamento latente di attività economiche formalmente
lecite;
- la formulazione generica, più sociologica che giuridica,
del tentativo di infiltrazione mafiosa rilevante ai fini del
diritto comporta l’attribuzione al Prefetto di un ampio
margine di accertamento e di apprezzamento;
- l’ampia discrezionalità di apprezzamento riservata al
Prefetto genera, di conseguenza, che la valutazione
prefettizia è sindacabile in sede giurisdizionale solo in
caso di manifesti vizi di eccesso di potere per illogicità,
irragionevolezza e travisamento dei fatti (cfr. Consiglio di
Stato, Sez. VI, n. 2867/2006 e n. 1979/2003).
Si è ritenuto inoltre, con riguardo alle informative di cui
all’art. 10, comma 7, lettera c), del d.P.R. n. 252/1998
(tra le quali rientra quella di specie), che, essendo
fondate le medesime su valutazioni discrezionali non
ancorate a presupposti tipizzati, i tentativi di
infiltrazione mafiosa possono essere desunti anche da
parametri non predeterminati normativamente; tuttavia, onde
evitare il travalicamento in uno “stato di polizia” e per
salvaguardare i principi di legalità e di certezza del
diritto, si è precisato che non possono reputarsi
sufficienti fattispecie fondate sul semplice sospetto o su
mere congetture prive di riscontro fattuale, occorrendo
l’individuazione di idonei e specifici elementi di fatto,
obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete
connessioni o collegamenti con la criminalità organizzata
(cfr. TAR Sicilia Palermo, Sez. III, 13.01.2006 n. 38;
TAR Campania Napoli, Sez. I, 19.01.2004 n. 115).
In particolare, con riferimento agli elementi di fatto
idonei a sorreggere l’impianto probatorio delle informative
de quibus, la giurisprudenza ha sottolineato che in tali
ipotesi il Prefetto, anziché limitarsi a riscontrare la
sussistenza di specifici elementi (come avviene per gli
accertamenti eseguiti ai sensi dell’art. 10, comma 7,
lettere a) e b), del d.P.R. n. 252/1998), deve effettuare la
propria valutazione sulla scorta di uno specifico quadro
indiziario, ove assumono rilievo preponderante i fattori
induttivi della non manifesta infondatezza che i
comportamenti e le scelte dell’imprenditore possano
rappresentare un veicolo di infiltrazione delle
organizzazioni criminali nelle funzioni della pubblica
amministrazione; pertanto, si può ravvisare l’emergenza di
tentativi di infiltrazione mafiosa in fatti in sé e per sé
privi dell’assoluta certezza –quali una condanna non
irrevocabile, l’irrogazione di misure cautelari, il
coinvolgimento in un’indagine penale, collegamenti
parentali, cointeressenze societarie e/o frequentazioni con
soggetti malavitosi, dichiarazioni di pentiti– ma che, nel
loro insieme, siano tali da fondare un giudizio di
possibilità che l’attività d’impresa possa, anche in maniera
indiretta, agevolare le attività criminali o esserne in
qualche modo condizionata per la presenza, nei centri
decisionali, di soggetti legati ad organizzazioni mafiose
(cfr. C.G.A. Sicilia, 24.11.2009 n. 1129; Consiglio di
Stato, Sez. VI, 02.08.2006 n. 4737; Consiglio di Stato,
Sez. V, 03.10.2005 n. 5247; TAR Lazio Roma, Sez. II, 09.11.2005 n. 10892).
Né deve essere trascurata
la rilevanza del legame di parentela, potendo essere tratto
dagli insegnamenti della giurisprudenza il principio che se
è vero che il rapporto di parentela non costituisce in sé
indizio sufficiente del tentativo di infiltrazione mafiosa,
è altrettanto vero che tale tentativo deve ritenersi
sussistente quando al dato dell’appartenenza familiare si
accompagni la frequentazione, la convivenza o la comunanza
di interessi con l’individuo sospetto –rammentandosi che
nel caso di specie sussistono cointeressenze societarie tra
i soci ed il loro genitore– tali da palesare, pertanto, la
contiguità con gli ambienti della criminalità (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. VI, 29.02.2008 n. 756, 27.06.2007 n. 3707 e
02.05.2007 n. 1916).
---------------
Quanto alla portata della sentenza con cui è stato
assolto il responsabile della gestione tecnica, il Collegio,
pur consapevole di qualche orientamento di segno contrario,
ritiene che sia maggiormente aderente alla spiccata natura
cautelare e preventiva delle informative prefettizie il più
diffuso indirizzo giurisprudenziale, che non esclude che
fatti vagliati in un precedente accertamento penale
favorevole per l’imputato possano acquisire una connotazione
indiziante ai fini dell’emersione dei tentativi di
infiltrazione mafiosa.
In particolare, il massimo giudice amministrativo ha
condivisibilmente osservato che la norma introduttiva
dell’informativa prefettizia “si spiega nella logica di una
anticipazione della soglia di difesa sociale ai fini di una
tutela avanzata nel campo del contrasto della criminalità
organizzata, in guisa da prescindere da soglie di rilevanza
probatorie tipiche del diritto penale, per cercare di
cogliere l’affidabilità dell’impresa affidataria dei lavori
complessivamente intesa. (…) E tanto specie se si pone mente
alla circostanza prima rimarcata che le cautele antimafia
non obbediscono a finalità di accertamento di
responsabilità, bensì di massima anticipazione dell’azione
di prevenzione, rispetto alla quale sono per legge rilevanti
fatti e vicende anche solo sintomatici ed indiziari, al di
là dell’individuazione di responsabilità penali” (così
Consiglio di Stato, Sez. VI, 17.05.2006 n. 2867).
Ne discende pertanto, mutuando le parole del prefato giudice
in altra decisione, che in caso di proscioglimento, “i fatti
oggetto di un procedimento penale mantengono una loro
idoneità ad essere indicati a presupposto di una informativa
antimafia. Un fatto delittuoso per il quale deve essere data
prova perché in sede penale intervenga una condanna,
mantiene un suo carattere indiziario e può essere valido
elemento di dimostrazione dell’esistenza di un pericolo di
collegamento fra impresa e criminalità organizzata e di
contiguità mafiosa (non configurata come fattispecie
criminosa dal codice penale), essendo diversi i piani su cui
muovono l’autorità giudiziaria e quella amministrativa”
(così Consiglio di Stato, Sez. V, 26.11.2008 n. 5846).
Solo nel caso in cui la sentenza penale di assoluzione
escluda la verificazione di un determinato fatto sul piano
della realtà (a prescindere dalla sua valenza giuridica),
tale fatto non può assurgere ad elemento indiziario nemmeno
ai fini dell’informativa interdittiva, venendo meno i
presupposti per la sua emissione; tale evenienza, tuttavia,
non ricorre nella presente fattispecie, tutta incentrata su
circostanze acclarate dal giudice penale ma ritenute
insufficienti per la pronuncia di condanna dell’imputato (TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 18.10.2012 n. 4166 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il termine decennale di prescrizione
dell’obbligazione sul pagamento degli oneri concessori,
nell’ipotesi di mancata esplicita definizione dell’istanza
di condono, decorre dalla formazione del silenzio assenso e
questo, ai sensi dell’art. 35 della legge n. 47/1985, si
forma dopo il termine di ventiquattro mesi decorrente dalla
data nella quale viene depositata la documentazione completa
a corredo della domanda di rilascio della concessione in
sanatoria.
Considerato che:
- è fondata la censura con cui parte ricorrente solleva la
maturata prescrizione del diritto a riscuotere sia gli oneri
concessori sia l’indennità risarcitoria paesaggistica, non
essendo peraltro intervenuti atti interruttivi;
- quanto al primo profilo, la difesa comunale mostra di
aderire al consolidato orientamento, condiviso dal Collegio,
secondo il quale il termine decennale di prescrizione
dell’obbligazione sul pagamento degli oneri concessori,
nell’ipotesi di mancata esplicita definizione dell’istanza
di condono, decorre dalla formazione del silenzio assenso e
questo, ai sensi dell’art. 35 della legge n. 47/1985, si
forma dopo il termine di ventiquattro mesi decorrente dalla
data nella quale viene depositata la documentazione completa
a corredo della domanda di rilascio della concessione in
sanatoria (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 02.02.2012
n. 578; TAR Sicilia Catania, Sez. I, 12.05.2011 n. 1156;
TAR Sardegna, Sez. II, 17.11.2010 n. 2600);
- ebbene, nel caso di specie tale termine è abbondantemente
trascorso, in quanto la cartella esattoriale è stata
notificata il 18.10.2011 a fronte del perfezionamento
del silenzio assenso sulla pratica di condono realizzatosi
quasi tredici anni prima, in data 28.03.1998, atteso che,
come riferito dalla stessa difesa comunale nella sua memoria
difensiva, la documentazione completa per la sanatoria è
stata depositata il 28.03.1996 dall’allora proprietario
dell’immobile (Fiart Cantieri Italiani S.p.A.);
- quanto all’indennità risarcitoria, deve intendersi
prescritto anche il più breve termine quinquennale previsto
dall’art. 28 della legge n. 689/1981, che decorre,
vertendosi in materia di illecito permanente, a partire
dalla cessazione della situazione di illiceità, ossia
dall’emissione del provvedimento sanzionatorio determinativo
della misura dell’indennità (cfr. Consiglio di Stato, Sez.
IV, 11.04.2007 n. 1585; Consiglio di Stato, Sez. V, 13.07.2006 n. 4420; TAR Toscana, Sez. III, 16.11.2009
n. 1665);
- orbene, nella fattispecie il provvedimento sanzionatorio è
stato emesso nei confronti della ricorrente con la citata
nota comunale prot. n. 5065 del 06.02.2003, con
conseguente maturazione del termine prescrizionale al 06.02.2008, mentre la cartella di pagamento è stata
notificata ben oltre tale termine;
- né vale sostenere, come dedotto dalla difesa comunale, che
il potere sanzionatorio inerente all’indennità risarcitoria
paesaggistica può essere esercitato senza limiti di tempo,
poiché nella presente controversia si discute della
prescrizione del diritto sorto a seguito dell’esercizio del
predetto potere e non di un’ipotetica decadenza dalle
prerogative sanzionatorie in tema di illeciti paesaggistici;
- né sono convincenti le ulteriori obiezioni della difesa
comunale, con le quali si intende evidenziare che: a) i
termini prescrizionali sarebbero stati interrotti dalle
menzionate note prot. n. 5065 del 06.02.2003, prot. n.
22621 del 05.06.2003 e prot. n. 23480 del 28.06.2010;
b) la mancata corresponsione delle somme dovute a
conguaglio, come indicate nelle predette note, impedirebbe
la formazione del silenzio assenso sull’istanza di condono
secondo quanto previsto dall’art. 35 della legge n. 47/1985;
- si rimarca, difatti, quanto segue: aa) come già chiarito,
le note in parola, avendo evidente carattere recettizio, non
sono pervenute nella sfera di conoscenza della ricorrente
per nullità del procedimento di notifica, con conseguente
inconfigurabilità di effetti interruttivi dei termini
prescrizionali; bb) si tratta nel caso specifico non del
mancato pagamento di ratei dell’oblazione, che
effettivamente impedisce il perfezionamento del silenzio
assenso sull’istanza di condono, ma della diversa ipotesi
della richiesta di pagamento di somme dovute proprio in
ragione dell’esistenza di un valido titolo edilizio, sebbene
rilasciato in sanatoria (TAR Campania-Napoli,
sentenza 18.10.2012 n. 4147 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: In
merito all'adozione di una ordinanza contingibile ed
urgente, alla denunciata
insussistenza dell’eccezionalità ed imprevedibilità del
pericolo, per trattarsi di situazione risalente nel tempo,
deve opporsi il consolidato indirizzo che, a fronte
dell’attualità della minaccia per l’incolumità pubblica e
l’igiene, esclude rilevanza al fatto che la situazione di
pericolo fosse nota da tempo.
Tali provvedimenti non devono necessariamente avere il
carattere della provvisorietà e ciò in quanto, la
provvisorietà o definitività è in funzione del tipo di
rischio che si intende fronteggiare, nel senso che occorre
avere riguardo alle specifiche circostanze di fatto e allo
scopo perseguito attraverso il provvedimento sindacale.
Le ragioni dell’impiego di siffatto mezzo straordinario ben
possono evincersi dalla sua giustificazione quindi dagli
elementi acquisiti ed atti a manifestare i motivi di urgenza
rapportati, nel caso, all’aggravamento delle condizioni
ambientali che “proprio a causa dei crolli delle coperture
collassate … sono notevolmente peggiorate”, dal che la
conseguenza per la quale la “presenza di notevoli
quantitativi di lastre di cemento di amianto spezzate a
cielo aperto, oltre al fatto che la mancanza di elementi di
copertura è causa della diretta esposizione agli agenti
atmosferici di materiali friabili che prima si trovavano
confinati all’interno della struttura”.
... per l’annullamento dell’ordinanza contingibile ed
urgente del Sindaco del Comune di Ferentino n. 48, prot. n.
13242, datata 22.06.2012 avente ad oggetto: “interventi
urgenti di messa in sicurezza di emergenza sito “ex Cemamit”;
...
Considerato che il ricorso non merita accoglimento perché:
[a] alla denunciata insussistenza dell’eccezionalità ed
imprevedibilità del pericolo, per trattarsi di situazione
risalente nel tempo, deve opporsi il consolidato indirizzo
che, a fronte dell’attualità della minaccia per l’incolumità
pubblica e l’igiene, esclude rilevanza al fatto che la
situazione di pericolo fosse nota da tempo (Consiglio di
Stato, V, 28.03.2008 n. 1322; 19.09.2012, n. 4968);
[b] il Collegio condivide l’orientamento per il quale, tali
provvedimenti non devono necessariamente avere il carattere
della provvisorietà e ciò in quanto, la provvisorietà o
definitività è in funzione del tipo di rischio che si
intende fronteggiare, nel senso che occorre avere riguardo
alle specifiche circostanze di fatto e allo scopo perseguito
attraverso il provvedimento sindacale (Tar Veneto, III,
07.07.2010 n. 2887);
[c] le ragioni dell’impiego di siffatto mezzo straordinario
ben possono evincersi dalla sua giustificazione quindi dagli
elementi acquisiti ed atti a manifestare i motivi di urgenza
rapportati, nel caso, all’aggravamento delle condizioni
ambientali che “proprio a causa dei crolli delle
coperture collassate … sono notevolmente peggiorate”,
dal che la conseguenza per la quale la “presenza di
notevoli quantitativi di lastre di cemento di amianto
spezzate a cielo aperto, oltre al fatto che la mancanza di
elementi di copertura è causa della diretta esposizione agli
agenti atmosferici di materiali friabili che prima si
trovavano confinati all’interno della struttura”;
[d] non infine è fondato il dedotto eccesso di potere per
contraddittorietà, perché le presupposte evenienze
giustificano un provvedimento per definizione straordinario
quindi diverso rispetto a quello eventualmente conclusivo
del pendente, ordinario procedimento di cui al D.Lgs.
152/2006 (TAR
Lazio-Latina,
sentenza 18.10.2012 n. 781 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il tempo è un bene della vita e che pertanto il
ritardo nel ricevere un provvedimento sfavorevole possa
avere effetti pregiudizievoli anche di natura patrimoniale.
A sostegno di tale possibilità di tutela milita infatti il
nuovo art. 2-bis della legge n. 241/1990 (come modificata
dalla legge n. 68/2009 che stabilisce che le pp.aa. sono
tenute a risarcire il danno ingiusto cagionato “in
conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine
di conclusione del procedimento”. Tale disposto normativo
riecheggia altresì il tenore testuale dell’art. 30 (azione
di condanna) comma 4 del codice del processo amministrativo
laddove, ai fini della decorrenza del termine di decadenza,
richiama proprio tale inciso dell’inosservanza dolosa o
colposa del termine di conclusione del procedimento. Tale
riferimento non è casuale atteso che, nella fattispecie, il
ricorrente non riesce a dimostrare in ricorso né la colpa né
il dolo dell'amministrazione.
Il collegio condivide infatti quell’opinione
giurisprudenziale che ritiene che, sia prima dell’avvento
del codice del processo amministrativo, sia dopo la sua
entrata in vigore, il danno da ritardo risulta risarcibile
unicamente quando venga provata da parte ricorrente o la
colpa ovvero il dolo dell'amministrazione. Non è cioè
sufficiente l'inosservanza del termine procedimentale per
far considerare sussistente il danno.
Da tutto quanto sopra esposto risulta quindi che, a conclusione del
procedimento, le condizioni di fatto e di diritto tali da
far considerare maturata una piena aspettativa qualificata
al rilascio dell’autorizzazione de qua in favore del
ricorrente non può dirsi venuta ad esistenza sotto il
profilo giuridico; anzi, secondo quanto statuito dal Sindaco
con la nota predetta -che faceva presente la decisione di
non procedere all’adozione della variante al p.r.g. (e, di
conseguenza, al rilascio dell’autorizzazione all’impianto)-
la domanda di provvedimento favorevole è stata rigettata.
Occorre allora esaminare l’altra domanda risarcitoria,
quella con la quale, sostanzialmente, si chiede il
risarcimento per il cd. ritardo procedimentale. In questo
caso, in via generale, il privato invoca la tutela
risarcitoria per i danni conseguenti al ritardo con cui
l’amministrazione ha adottato un provvedimento, di regola a
lui favorevole, ma emanato appunto con ritardo rispetto al
termine previsto per quel dato procedimento.
Tale tipologia
di tutela risarcitoria, nella fattispecie (così come sopra
ricostruita, con la precisazione che il procedimento si è
chiuso col definitivo atto di arresto procedimentale
costituito dalla nota sindacale del 26/09/2006) sarebbe quindi
da ritenere applicabile anche all’ipotesi di un
provvedimento amministrativo non impugnato (e quindi
“legittimo”) sfavorevole per il privato ma adottato con
ritardo; in altri termini si ipotizza che il privato abbia
subito danni per non aver ottenuto il tempestivo esame della
propria istanza e per non aver conosciuto, entro i termini
previsti, l’inaccoglibilità della stessa.
In astratto al
collegio una siffatta domanda non appare di per sé
inappropriata atteso che il tempo è un bene della vita e che
pertanto il ritardo nel ricevere un provvedimento
sfavorevole possa avere effetti pregiudizievoli anche di
natura patrimoniale. A sostegno di tale possibilità di
tutela milita infatti il nuovo art. 2-bis della legge n.
241/1990 (come modificata dalla legge n. 68/2009 che stabilisce
che le pp.aa. sono tenute a risarcire il danno ingiusto
cagionato “in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa
del termine di conclusione del procedimento”. Tale disposto
normativo riecheggia altresì il tenore testuale dell’art.
30 (azione di condanna) comma 4 del codice del processo
amministrativo laddove, ai fini della decorrenza del termine
di decadenza, richiama proprio tale inciso dell’inosservanza
dolosa o colposa del termine di conclusione del
procedimento. Tale riferimento non è casuale atteso che,
nella fattispecie, il ricorrente non riesce a dimostrare in
ricorso né la colpa né il dolo dell'amministrazione.
Il collegio condivide infatti quell’opinione
giurisprudenziale (cfr. TAR Abruzzo, Pescara, 06/07/2011 n.
416) che ritiene che, sia prima dell’avvento del codice del
processo amministrativo, sia dopo la sua entrata in vigore,
il danno da ritardo risulta risarcibile unicamente quando
venga provata da parte ricorrente o la colpa ovvero il dolo
dell'amministrazione. Non è cioè sufficiente l'inosservanza
del termine procedimentale per far considerare sussistente
il danno (TAR Basilicata,
sentenza 18.10.2012 n. 469 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI:
L’art. 6 della legge n. 537/1993, come sostituito
dall’art. 44 della legge n. 724/1994, detta una disciplina
speciale circa il riconoscimento della revisione prezzi nei
contratti stipulati dalla p.a..
Si tratta di una previsione che prevale su quella generale
di cui all’art. 1664 c.c. ed attribuisce alle imprese il
diritto alla revisione dei prezzi (successivamente alla
determinazione discrezionale della stazione appaltante
cristallizzata in un espresso provvedimento attributivo del
beneficio, ovvero desumibile da comportamento implicito
quale il pagamento di acconti). Tale disciplina ha natura
imperativa e si impone nelle pattuizioni private modificando
ed integrando la volontà delle parti contrastante con la
stessa, attraverso il meccanismo divisato dall’art. 1339
c.c.; ne consegue che le clausole difformi sono nulle nella
loro globalità, anche se la nullità non investe l’intero
contratto in applicazione del principio utile per inutile
non vitiatur sancito dall’art. 1419 c.c..
Poiché la disciplina legale dettata dall’art. 6, co. 4 e 6
cit., non è mai stata attuata nella parte in cui prevede
l’elaborazione, da parte dell’I.S.T.A.T., di particolari
indici concernenti il miglior prezzo di mercato desunto dal
complesso delle aggiudicazioni di appalti di beni e servizi,
rilevate su base semestrale, la lacuna è stata colmata
mediante il ricorso all’indice F.O.I..
L’utilizzo di quest’ultimo parametro, ovviamente, non
esonera la stazione appaltante dal dovere di istruire il
procedimento tenendo conto di tutte le circostanze del caso
concreto al fine di esprimere la propria determinazione
discrezionale, ma segna il limite massimo oltre il quale,
salvo circostanze eccezionali che devono essere provate
dall’impresa, non può spingersi nella determinazione del
compenso revisionale. In tal modo, secondo la
giurisprudenza, si rispecchia fedelmente la “ratio”
complessiva della norma sancita dal menzionato art. 6, ed il
meccanismo istruttorio in essa divisato, che è quella di
coniugare l’esigenza di interesse generale di contenere la
spesa pubblica, con quella, parimenti generale, di garantire
nel tempo la corretta e puntuale erogazione delle
prestazioni dedotte nel programma obbligatorio. L’istituto
della revisione è infatti preordinato, nell’attuale
disciplina, alla tutela dell’esigenza dell’amministrazione
di evitare che il corrispettivo del contratto di durata
subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo, tali da
sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta
la stipulazione del contratto.
---------------
A fronte della mancata pubblicazione da parte dell’Istituto
di statistica dei dati di cui al comma 6 del citato articolo
di legge, la giurisprudenza, interrogatasi sulla sorte della
disposizione legislativa, ha concluso, in modo unanime, che
in mancanza di questi la revisione debba appunto essere
operata sulla base dell’indice di variazione dei prezzi per
le famiglie di operai e impiegati (cd indice F.O.I.)
mensilmente pubblicato dall’ISTAT e che l'adeguamento del
corrispettivo non possa essere ancorato alle variazioni
specifiche dei prezzi e dei costi delle componenti
utilizzate dall'impresa appaltatrice. A quest’ultimo
riguardo è stato aggiunto che, sia i commi 4 e 6 dell'art.
6, L. n. 537 del 1993, sia, ora, l’art. 115 del D.Lgs n.
163/2003 fanno riferimento al "prezzo" e non al "costo".
Soltanto il prezzo, inteso come prezzo formatosi sul mercato
generale dei prezzi, consente di ancorare il meccanismo di
revisione a criteri "oggettivi", tali da conservare
l'equilibrio del sinallagma contrattuale e ad impedire di
ancorare la misura della revisione al costo (per l'impresa),
poiché in tal modo l'aumento posto a carico
dell'Amministrazione finirebbe per riflettere le eventuali
inefficienze della funzione produttiva del singolo
contraente, a tutto danno delle finanze pubbliche.
---------------
La giurisprudenza ammette che soltanto in frangenti del
tutto eccezionali l’istituto della revisione prezzi possa
fuoriuscire dalla mera esigenza dell’Amministrazione
aggiudicante di evitare che il corrispettivo del contratto
di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo
e tuteli –quindi– il contrapposto interesse dell’impresa di
non subire l’alterazione dell’equilibrio contrattuale
conseguente alle modifiche dei costi che potrebbero
verificarsi durante l’arco del rapporto, essendo
suscettibili di indurre l’impresa stessa ad una riduzione
degli standard qualitativi delle prestazioni.
Tale eccezionalità che conseguentemente legittima una
quantificazione del compenso revisionale mediante il ricorso
a differenti parametri statistici va comunque intesa come
circostanza o circostanze impreviste e imprevedibili, ossia
non sussistenti al momento della sottoscrizione del
contratto e delle quali non era prevedibile l’avveramento.
Va premesso che la giurisprudenza (cfr. Cons. St., V, 09/06/2008 n. 2786; sez.
V, 14.12.2006, n. 7461; sez. V, 16.06.2003, n.
3373; sez. V, 08.05.2002, n. 2461) ha più volte chiarito
che l’art. 6 della legge n. 537/1993, come sostituito dall’art.
44 della legge n. 724/1994, detta una disciplina speciale circa
il riconoscimento della revisione prezzi nei contratti
stipulati dalla p.a..
Si tratta di una previsione che prevale
su quella generale di cui all’art. 1664 c.c. ed attribuisce
alle imprese il diritto alla revisione dei prezzi
(successivamente alla determinazione discrezionale della
stazione appaltante cristallizzata in un espresso
provvedimento attributivo del beneficio, ovvero desumibile
da comportamento implicito quale il pagamento di acconti).
Tale disciplina ha natura imperativa e si impone nelle pattuizioni private modificando ed integrando la volontà
delle parti contrastante con la stessa, attraverso il
meccanismo divisato dall’art. 1339 c.c.; ne consegue che le
clausole difformi sono nulle nella loro globalità, anche se
la nullità non investe l’intero contratto in applicazione
del principio utile per inutile non vitiatur sancito
dall’art. 1419 c.c.
Poiché la disciplina legale dettata dall’art. 6, co. 4 e 6
cit., non è mai stata attuata nella parte in cui prevede
l’elaborazione, da parte dell’I.S.T.A.T., di particolari
indici concernenti il miglior prezzo di mercato desunto dal
complesso delle aggiudicazioni di appalti di beni e servizi,
rilevate su base semestrale, la lacuna è stata colmata
mediante il ricorso all’indice F.O.I.
L’utilizzo di quest’ultimo parametro, ovviamente, non
esonera la stazione appaltante dal dovere di istruire il
procedimento tenendo conto di tutte le circostanze del caso
concreto al fine di esprimere la propria determinazione
discrezionale, ma segna il limite massimo oltre il quale,
salvo circostanze eccezionali che devono essere provate
dall’impresa, non può spingersi nella determinazione del
compenso revisionale. In tal modo, secondo la
giurisprudenza, si rispecchia fedelmente la “ratio”
complessiva della norma sancita dal menzionato art. 6, ed il
meccanismo istruttorio in essa divisato, che è quella di
coniugare l’esigenza di interesse generale di contenere la
spesa pubblica, con quella, parimenti generale, di garantire
nel tempo la corretta e puntuale erogazione delle
prestazioni dedotte nel programma obbligatorio. L’istituto
della revisione è infatti preordinato, nell’attuale
disciplina, alla tutela dell’esigenza dell’amministrazione
di evitare che il corrispettivo del contratto di durata
subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo, tali da
sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta
la stipulazione del contratto.
La tesi attorea è che, avendo l’art. 5 (adeguamento prezzi)
del contratto stipulato fra le parti previsto, per l’ipotesi
della “mancanza” dei dati di cui al comma 6 dell’art. 6 l. n.
537/1993 e succ. modif. (costituiti dai dati ISTAT relativi
ai prezzi del mercato dei principali beni e servizi
acquisiti dalle pp.aa. da pubblicare semestralmente sulla
G.U.) un meccanismo sostitutivo di calcolo dell’adeguamento
incentrato sulle “variazioni intervenute sugli elementi
caratteristico-costitutivi del costo del servizio”,
l’adeguamento “de quo” doveva in concreto obbedire a
quest’ultimo criterio e non a quello -indicato concordemente
dalla giurisprudenza come idoneo parametro di valutazione
dell’incremento del prezzo sostitutivo di quello mancante-
dell’indice ISTAT basato sul rilevamento degli incrementi
del tasso generale d’inflazione che misura l’aumento medio
dei prezzi per le famiglie degli operai e degli impiegati.
A fronte della mancata pubblicazione da parte dell’Istituto
di statistica dei dati di cui al comma 6 del citato articolo
di legge, la giurisprudenza, interrogatasi sulla sorte della
disposizione legislativa, ha concluso, in modo unanime, che
in mancanza di questi la revisione debba appunto essere
operata sulla base dell’indice di variazione dei prezzi per
le famiglie di operai e impiegati (cd indice F.O.I.)
mensilmente pubblicato dall’ISTAT e che l'adeguamento del
corrispettivo non possa essere ancorato alle variazioni
specifiche dei prezzi e dei costi delle componenti
utilizzate dall'impresa appaltatrice (Consiglio di Stato,
sez. V, 16.06.2003, n. 3373; 13.12.2002, n. 4801;
08.05.2002 n. 2461). A quest’ultimo riguardo è stato
aggiunto che, sia i commi 4 e 6 dell'art. 6, L. n. 537 del
1993, sia, ora, l’art. 115 del D.Lgs n. 163/2003 fanno
riferimento al "prezzo" e non al "costo".
Soltanto il
prezzo, inteso come prezzo formatosi sul mercato generale
dei prezzi, consente di ancorare il meccanismo di revisione
a criteri "oggettivi", tali da conservare l'equilibrio del
sinallagma contrattuale e ad impedire di ancorare la misura
della revisione al costo (per l'impresa), poiché in tal modo
l'aumento posto a carico dell'Amministrazione finirebbe per
riflettere le eventuali inefficienze della funzione
produttiva del singolo contraente, a tutto danno delle
finanze pubbliche (cfr. in tal senso Cons. Stato, Sez. V 14.12.2006 n. 7461; TAR Sicilia, Palermo, I, 26/01/2009
n. 105).
Ciò detto, per stare alla fattispecie, va rilevato che, in
effetti, la parte della clausola revisionale “de qua”
invocata dalla ricorrente (comma 3 e ss.) si discosta
nettamente dal primo e dal secondo comma della stessa
(incentrati invece sul richiamo all’art. 6, in particolare
il co. 6, della legge citata) e, nel caso appunto di
“mancanza” di pubblicazione dei dati ISTAT inerenti i prezzi
di mercato dei principali beni e servizi acquisiti dalle pp.
aa., promuove a regime ordinario dell’adeguamento del
canone, in luogo del criterio del prezzo imposto dalla
legge, quello del costo del servizio per il cui calcolo
rinvia ai “valori di riferimento”.
Ne consegue allora, ad avviso del collegio, come pure
eccepito dal Comune, la nullità di questa parte dell’art. 5
del contratto per contrasto con l’art. 6, in particolare i
commi 1, 4 e 6, della legge n. 537/1993 come successivamente
modificata. Tale disciplina ha infatti natura imperativa e
si impone sulle pattuizioni private modificando ed
integrando la volontà delle parti contrastante con la
stessa, attraverso il meccanismo divisato dall’art. 1339
c.c.; ne consegue che le clausole difformi sono nulle, anche
se la nullità non investe l’intero contratto in applicazione
del principio utile per inutile non vitiatur sancito
dall’art. 1419 c.c.
Infatti, come ricordato di recente (cfr. TAR Veneto, I,
n. 236/2010), la giurisprudenza ammette che soltanto in
frangenti del tutto eccezionali l’istituto della revisione
prezzi possa fuoriuscire dalla mera esigenza
dell’Amministrazione aggiudicante di evitare che il
corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti
incontrollati nel corso del tempo e tuteli –quindi– il
contrapposto interesse dell’impresa di non subire
l’alterazione dell’equilibrio contrattuale conseguente alle
modifiche dei costi che potrebbero verificarsi durante
l’arco del rapporto, essendo suscettibili di indurre
l’impresa stessa ad una riduzione degli standard qualitativi
delle prestazioni (cfr. al riguardo Cons. Stato, Sez. V, 09.06.2008 n. 2786). Tale eccezionalità che
conseguentemente legittima una quantificazione del compenso
revisionale mediante il ricorso a differenti parametri
statistici va comunque intesa come circostanza o circostanze
impreviste e imprevedibili, ossia non sussistenti al momento
della sottoscrizione del contratto e delle quali non era
prevedibile l’avveramento (TAR Basilicata,
sentenza 18.10.2012 n. 468 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: L'impresa
che possiede la categoria generale OG11 può eseguire anche
le opere delle categorie speciali OS 28 e OS30 può trovare
applicazione solo se la lex specialis della gara non
richiede espressamente il possesso della qualificazione alle
categorie specialistiche.
Il ricorso viene trattenuto in decisione ai sensi dell’art.
60 CPA per la evidente fondatezza del primo motivo del
ricorso incidentale con conseguente inammissibilità del
ricorso principale in quanto proposto da una partecipante
che doveva essere esclusa dalla gara per la mancanza delle
qualificazioni OS28 e OS30, categorie in cui ricade una
consistente parte dei lavori in appalto, per la ritenuta
inapplicabilità del principio di assorbenza delle categorie
succitate nella categoria generale OG11.
Ritiene infatti il Collegio che il principio secondo cui
l'impresa che possiede la categoria generale OG11 può
eseguire anche le opere delle categorie speciali OS 28 e
OS30 può trovare applicazione solo se la lex specialis
della gara non richiede espressamente il possesso della
qualificazione alle categorie specialistiche. Nel caso di
specie il bando di gara richiedeva espressamente e a pena di
esclusione il possesso delle qualificazioni OS28 e OS30 per
l’esecuzione dei lavori rientranti in tali rispettive
categorie che rappresentavano, rispettivamente, il 39,97% ed
il 15,74% del totale dei lavori. Si deve quindi ritenere che
il Comune, attraverso la lex di gara, avesse già
formulato la precisa e legittima scelta di richiedere il
possesso delle qualificazioni nelle categorie specialistiche
che esclude la possibilità di partecipare mediante il
possesso della qualificazione nella sola categoria OG11
(C.S. III, N. 1422/2011, C.S., V, n. 3275/2012).
Il Collegio ritiene anche che, come correttamente
evidenziato dalla ricorrente incidentale, la disposizione
contenuta nell'art. 79, comma 16, del D.P.R. n .207/2012 a
tenore della quale “L'impresa qualificata nella categoria
O11 può eseguire i lavori in ciascuna delle categorie OS3, O
28 e O 30 per la classifica corrispondente a quella
posseduta.” non sia applicabile in relazione alle
qualificazioni certificate da attestazioni SOA rilasciate
sotto il vigore del DPR 34/2000, ma soltanto in relazione a
quelle certificate da attestazioni SOA rilasciate in
applicazione del nuovo e più rigoroso sistema delineato dal
comma 16 dell’art. 79 cit., secondo il quale per la
qualificazione nella categoria OG11, l'impresa deve
dimostrare di possedere, per ciascuna delle categorie di
opere specializzate individuate con l'acronimo O3, O28 e O30
almeno le ivi previste percentuali dei requisiti di ordine
speciale previsti da tale norma per l'importo corrispondente
alle classifiche richieste.
Solo per le imprese munite di tale nuova qualificazione
potrà quindi ritenersi operativo il principio generale
dell’assorbimento delle categorie specialistiche in quella
generale OG11, a prescindere da qualsiasi previsione di
bando (TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 18.10.2012 n. 374 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Corte
Ue sulle condizioni di stabilizzazione. Precari della p.a. Il
servizio conta.
Discriminati gli stabilizzati della pubblica
amministrazione. È sproporzionata, infatti, la normativa
italiana laddove ha escluso del tutto la possibilità di
valutare i periodi di servizio svolti a termine ai fini di
inquadramento e retribuzione.
Lo stabilisce la
sentenza
18.10.2012 cause
riunite C-302/11 e C-305/11 emessa dalla Corte di
giustizia europea, relative alla procedura di
stabilizzazione dei precari del pubblico impiego della
Finanziaria 2007 (legge n. 296/2006). L'ultima parola,
tuttavia, spetta al Consiglio di stato, al quale la corte Ue
rimette comunque la verifica della sussistenza di «ragioni
oggettive» che possano giustificare la differenza di
trattamento.
In realtà, ciò che rileva la Corte Ue è la paradossale
situazione della normativa italiana per cui, da una parte,
ha riconosciuto anzi subordinato la stabilizzazione
all'esperienza acquisita dal lavoratore non stabile presso
il datore di lavoro (cioè una pubblica amministrazione), e
dall'altra non ha tenuto conto della stessa (esperienza) ai
fini dell'inquadramento retributivo.
Tuttavia, spetta al giudice che ha effettuato il rinvio alla
Corte di giustizia (il Consiglio di stato) stabilire se le
dipendenti ricorrenti, allorché esercitavano le loro
funzioni nell'ambito di un contratto a termine, si
trovassero in una situazione comparabile a quella dei
dipendenti di ruolo assunti a tempo indeterminato. La Corte
Ue ricorda che può esistere una ragione oggettiva che
giustifica la differenza di trattamento, però in un contesto
particolare e in presenza di elementi precisi e concreti
risultanti dalla natura particolare delle mansioni. La
disparità di trattamento cioè deve fondarsi su criteri
oggettivi e trasparenti, che consentano di verificare che
risponde a un reale bisogno ed è idonea e necessaria al
conseguimento dell'obiettivo perseguito.
Ad ogni modo, precisa la Corte, il semplice fatto che il
lavoratore a tempo determinato abbia compiuto periodi di
servizio sul fondamento di un contratto a termine non può
configurare una ragione oggettiva. Mentre l'obiettivo fatto
valere dal governo italiano di evitare le discriminazioni
alla rovescia nei confronti dei dipendenti di ruolo assunti
mediante concorso pubblico potrebbe costituire una «ragione
oggettiva». Ma l'ultima parola spetta al giudice del
rinvio che deve verificare se sussistono «ragioni
oggettive» che giustificano la differenza di trattamento
(articolo ItaliaOggi del 19.10.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI:
Anche se la gara è stata revocata prima che fosse
adottato il provvedimento di aggiudicazione definitiva, la
stazione appaltante, trattandosi della revoca dell’intera
procedura ai sensi dell’art 21-quinques L. 241/1990, non può
avvalersi della facoltà che, invece, le consente, senza
obblighi ulteriori verso la controparte, di non procedere
all’aggiudicazione, se nessuna delle offerte risulti
conveniente (art. 82 Codice Contratti).
Le due disposizioni hanno un ambito di applicazione diverso:
l’art. 12 Codice Contratti regola la situazione in cui le
offerte presentate non rispondono ai risultati previsti
dalla stazione appaltante secondo il criterio del “id quod
plerumque accidit”, mentre l’art. 21-quinques l. n 241/1990
regola la situazione in cui, nel corso della gara, vengono a
modificarsi fatti o parametri che erano stati determinanti
nelle valutazioni della stazione appaltante per fissare le
regole della gara ed i risultati da conseguire: per questo
motivo il legislatore, mentre ha riconosciuto alla stazione
appaltante la facoltà di sottrarsi all’obbligo di contrarre,
quando la procedura di scelta del contraente non ha
raggiunto l’obiettivo di assicurare l’economicità ed il buon
andamento dell’azione amministrativa, nella diversa ipotesi
dello “ius poenitendi”, in osservanza dei principi di
correttezza e di tutela dell’affidamento del soggetto inciso
dal ritiro del provvedimento ed a bilanciamento dei
contrapposti interessi, se la revoca comporta pregiudizi in
danno degli interessati, ha posto a carico della P.A.
l’obbligo di provvedere al loro indennizzo.
Va, pertanto, accolta la domanda di indennizzo, proposta da
CIR (nell’appello incidentale e nei motivi riproposti ex
art. 101 c p a ) per il ristoro del pregiudizio patito in
conseguenza della revoca dell’intera gara, disposta dalla
stazione appaltante in espresso esercizio del potere di
revoca disciplinato dall’art, 21-quinques della legge n.
241/1990 per sopravvenuti motivi di pubblico interesse di
natura economica e per una nuova valutazione dei bisogni da
soddisfare.
Infatti, anche se la gara è stata revocata prima che fosse
adottato il provvedimento di aggiudicazione definitiva, la
stazione appaltante, trattandosi della revoca dell’intera
procedura ai sensi dell’art 21-quinques, non può avvalersi
della facoltà che, invece, le consente, senza obblighi
ulteriori verso la controparte, di non procedere
all’aggiudicazione, se nessuna delle offerte risulti
conveniente (art. 82 Codice Contratti).
Il collegio è giunto a tali conclusioni poiché ritiene che
le due disposizioni hanno un ambito di applicazione diverso:
l’art. 12 Codice Contratti regola la situazione in cui le
offerte presentate non rispondono ai risultati previsti
dalla stazione appaltante secondo il criterio del “id
quod plerumque accidit”, mentre l’art. 21-quinques l. n
241/1990 regola la situazione in cui, nel corso della gara,
vengono a modificarsi fatti o parametri che erano stati
determinanti nelle valutazioni della stazione appaltante per
fissare le regole della gara ed i risultati da conseguire:
per questo motivo il legislatore, mentre ha riconosciuto
alla stazione appaltante la facoltà di sottrarsi all’obbligo
di contrarre, quando la procedura di scelta del contraente
non ha raggiunto l’obiettivo di assicurare l’economicità ed
il buon andamento dell’azione amministrativa, nella diversa
ipotesi dello “ius poenitendi”, in osservanza dei
principi di correttezza e di tutela dell’affidamento del
soggetto inciso dal ritiro del provvedimento ed a
bilanciamento dei contrapposti interessi, se la revoca
comporta pregiudizi in danno degli interessati, ha posto a
carico della P.A. l’obbligo di provvedere al loro indennizzo
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 16.10.2012 n. 5282 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
realizzazione di una tettoia è soggetta a concessione
edilizia ai sensi dell'art. 1, l. 28.01.1977 n. 10, in
quanto essa, pur avendo carattere pertinenziale rispetto
all'immobile cui accede, incide sull'assetto edilizio
preesistente.
La costruzione di una tettoia non rientra nel concetto di
manutenzione straordinaria, atteso che quest'ultima si fonda
sul duplice presupposto che i lavori progettati siano
preordinati alla mera rinnovazione o sostituzione di parti
dell'edificio o alla realizzazione di impianti igienici
sanitari e che i volumi e le superfici preesistenti non
vengano alterati o non siano destinati ad altro uso.
Una tettoia avente carattere di stabilità, realizzata in
aderenza ad un preesistente fabbricato ed idonea ad
un'utilizzazione autonoma, oltre a non poter essere
considerata una mera pertinenza, costituisce un'opera
esterna per la cui realizzazione occorre il permesso di
costruire.
Con riguardo agli ulteriori motivi di ricorso, il Collegio
condivide l’interpretazione giurisprudenziale secondo la
quale “la realizzazione di una tettoia è soggetta a
concessione edilizia ai sensi dell'art. 1, l. 28.01.1977 n.
10, in quanto essa, pur avendo carattere pertinenziale
rispetto all'immobile cui accede, incide sull'assetto
edilizio preesistente. La costruzione di una tettoia non
rientra nel concetto di manutenzione straordinaria, atteso
che quest'ultima si fonda sul duplice presupposto che i
lavori progettati siano preordinati alla mera rinnovazione o
sostituzione di parti dell'edificio o alla realizzazione di
impianti igienici sanitari e che i volumi e le superfici
preesistenti non vengano alterati o non siano destinati ad
altro uso” (TAR Campania Napoli, sez. VI, 17.12.2008, n.
21346).
Una tettoia avente carattere di stabilità, realizzata in
aderenza ad un preesistente fabbricato ed idonea ad
un'utilizzazione autonoma, oltre a non poter essere
considerata una mera pertinenza, costituisce un'opera
esterna per la cui realizzazione occorre il permesso di
costruire (TAR Lombardia Milano, sez. II, 04.12.2007, n.
6544) (TAR
Lazio-Latina,
sentenza 16.10.2012 n. 769 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
presentazione di una domanda di accertamento di conformità o
sanatoria ex art. 13 della l. n. 47/1985 (art. 36 del d.P.R.
n. 380/2001), a fronte di un provvedimento di demolizione in
precedenza emesso, fa venir meno l’efficacia dell’ordine
repressivo, dovendo questo venir sostituito o dalla
concessione in sanatoria, ovvero, in caso di diniego della
stessa, da un nuovo provvedimento sanzionatorio.
Ciò, atteso che il riesame dell’abusività dell’opera, al
fine di verificarne l’eventuale sanabilità, comporta la
(necessaria) formazione di un nuovo provvedimento, che vale,
comunque, a superare l’ordine repressivo in origine adottato
dall’Amministrazione.
Secondo la giurisprudenza prevalente (cfr., ex plurimis,
TAR Puglia, Bari, Sez. II, 11.04.2012, n. 705; TAR
Lombardia, Milano. Sez. IV, 08.09.2010, n. 5159; TAR Lazio,
Latina, 06.02.2002, n. 67), cui ha aderito anche questa
Sezione (TAR Abruzzo, Pescara, 27.02.1998, n. 216), la
presentazione di una domanda di accertamento di conformità o
sanatoria ex art. 13 della l. n. 47/1985 (art. 36 del d.P.R.
n. 380/2001), a fronte di un provvedimento di demolizione in
precedenza emesso, fa venir meno l’efficacia dell’ordine
repressivo, dovendo questo venir sostituito o dalla
concessione in sanatoria, ovvero, in caso di diniego della
stessa, da un nuovo provvedimento sanzionatorio.
Ciò, atteso che il riesame dell’abusività dell’opera, al
fine di verificarne l’eventuale sanabilità, comporta la
(necessaria) formazione di un nuovo provvedimento, che vale,
comunque, a superare l’ordine repressivo in origine adottato
dall’Amministrazione
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 16.10.2012 n. 420 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
presentazione di un’istanza di accertamento di conformità o
sanatoria ex art. 13 della l. n. 47/1985 ed ora art. 36 del
d.P.R. n. 380/2001, a fronte di un provvedimento di
demolizione precedentemente emesso, fa venir meno
l’efficacia dell’ordine repressivo, dovendo quest’ultimo
venir sostituito o dalla concessione in sanatoria, o, in
caso di diniego della stessa, da un nuovo provvedimento
sanzionatorio. Ciò, giacché il riesame dell’abusività
dell’opera, onde verificarne l’eventuale sanabilità,
comporta la (necessaria) formazione di un nuovo
provvedimento, che vale, comunque, a superare l’ordine di
demolizione in origine adottato dall’Amministrazione.
Secondo la giurisprudenza prevalente (cfr., ex plurimis,
TAR Puglia, Bari, Sez. II, 11.04.2012, n. 705; TAR
Lombardia, Milano. Sez. IV, 08.09.2010, n. 5159), cui ha
aderito anche questa Sezione (cfr., ex plurimis, TAR
Lazio, Latina, 06.02.2002, n. 67), la presentazione di
un’istanza di accertamento di conformità o sanatoria ex art.
13 della l. n. 47/1985 ed ora art. 36 del d.P.R. n.
380/2001, a fronte di un provvedimento di demolizione
precedentemente emesso, fa venir meno l’efficacia
dell’ordine repressivo, dovendo quest’ultimo venir
sostituito o dalla concessione in sanatoria, o, in caso di
diniego della stessa, da un nuovo provvedimento
sanzionatorio. Ciò, giacché il riesame dell’abusività
dell’opera, onde verificarne l’eventuale sanabilità,
comporta la (necessaria) formazione di un nuovo
provvedimento, che vale, comunque, a superare l’ordine di
demolizione in origine adottato dall’Amministrazione
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 15.10.2012 n. 762 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: In
merito alla fattispecie di lottizzazione abusiva si può
verificare la lottizzazione c.d. materiale e la
lottizzazione c.d. cartolare.
La giurisprudenza, quanto alla prima ha precisato
che:
- sussiste in presenza di qualsivoglia tipo di opere
concretamente idonee a stravolgere l’assetto del territorio
preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo
e, quindi, in definitiva, a determinare sia un concreto
ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene
posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico
urbanistico necessitante un adeguamento degli standards;
- non richiede la realizzazione di vere e proprie
costruzioni abusive, essendo sufficiente la sussistenza di
opere le quali, sebbene nella fase iniziale, denotino che è
stato iniziato o è in corso un procedimento di
trasformazione urbanistica ed edilizia del terreno, in
contrasto con le norme vigenti;
- per verificarne l’esistenza appare necessaria una visione
d’insieme dei lavori, ossia una verifica nel suo complesso
dell’attività edilizia realizzata, giacché potrebbero anche
ricorrere modifiche rispetto all’attività assentita idonee a
conferire un diverso assetto al territorio comunale oggetto
di trasformazione.
Ha sottolineato che si ha, invece, lottizzazione
cartolare quando la trasformazione sia predisposta
mediante il frazionamento, la vendita o atti equivalenti del
terreno in lotti che, per le loro caratteristiche, come la
dimensione in relazione alla natura del terreno ed alla sua
destinazione sulla base degli strumenti urbanistici, il
numero, l’ubicazione o l’eventuale previsione di opere di
urbanizzazione, denuncino in modo non equivoco la
destinazione a scopo edificatorio; l’elemento oggettivo
della fattispecie è costituito pertanto dal frazionamento di
mappali seguito necessariamente da atti di vendita, o da
atti ad essi equiparati, sicché in mancanza di detti atti
non è possibile contestare legittimamente la lottizzazione
abusiva. L’attività negoziale è, infatti, considerata dalla
norma quale strumento funzionale al perseguimento
dell’intento lottizzatorio e, quindi, come indice della
sussistenza di siffatta finalità che deve però esser
confermata anche da altri elementi, che rendano evidente la
non equivocità della destinazione a scopo edificatorio sia
del frazionamento, sia della vendita.
La giurisprudenza poi:
- ha evidenziato con riferimento all’elemento oggettivo
della lottizzazione abusiva che si tratta di un illecito non
solo di danno (rispetto alle opere già eseguite) ma anche di
pericolo (rispetto alle urbanizzazioni ancora possibili),
qualora, pur a fronte dell’avvenuta ultimazione degli
edifici, strade od altri manufatti, vi sia la possibilità
che l’urbanizzazione del comprensorio, ancora incompleta,
sia condotta a termine per stati di avanzamento successivi;
- quanto all’elemento soggettivo, in base
all’affinità tra l’acquisizione delle aree ex articolo 30
del d.P.R. 380/2001 e la confisca urbanistica disposta
dall’autorità giudiziaria ai sensi del successivo articolo
44, ha affermato la necessità per l’applicazione delle
sanzioni privative della proprietà del bene, che non si
presentino come meramente ripristinatorie rispetto all’abuso
perpetrato, di un elemento soggettivo di natura colposa da
parte del soggetto che subisce la sanzione, ragion per cui
l’acquirente di un lotto non può considerarsi, come tale,
estraneo al reato di lottizzazione abusiva, essendo tenuto a
dimostrare di aver agito in buona fede, senza cioè rendersi
conto (pur avendo adoperato la necessaria diligenza
nell’adempimento dei doveri di informazione e conoscenza) di
partecipare ad un’opera di illecita lottizzazione.
---------------
La comunicazione di avvio del procedimento di individuazione
e repressione della lottizzazione abusiva è superflua ove il
contenuto dell’atto non possa essere diverso da quello in
concreto adottato e, più in dettaglio, laddove la
partecipazione del privato a detto procedimento sia inutile
(ed egli non possa fornire alcun apporto conoscitivo e/o
documentale rilevante), sussistendo la certezza assoluta
della finalità edificatoria della lottizzazione.
L’articolo 30, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, collega la
lottizzazione abusiva:
- all’inizio di opere di trasformazione urbanistica od
edilizia in violazione delle prescrizioni degli
strumenti urbanistici vigenti o adottati, o comunque dettate
dalle leggi statali o regionali, senza la prescritta
autorizzazione (lottizzazione cd. materiale);
- al frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del
terreno in lotti che, per le loro caratteristiche (quali
la dimensione in relazione alla natura del terreno ed alla
sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il
numero, l’ubicazione o la previsione di opere di
urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli
acquirenti), denuncino in modo non equivoco la destinazione
a scopo edificatorio (lottizzazione cd. cartolare).
La giurisprudenza, quanto alla prima ha precisato
che:
- sussiste in presenza di qualsivoglia tipo di opere
concretamente idonee a stravolgere l’assetto del territorio
preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo
e, quindi, in definitiva, a determinare sia un concreto
ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene
posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico
urbanistico necessitante un adeguamento degli standards (Tar
Liguria, I, 20.01.2012, n. 161);
- non richiede la realizzazione di vere e proprie
costruzioni abusive, essendo sufficiente la sussistenza di
opere le quali, sebbene nella fase iniziale, denotino che è
stato iniziato o è in corso un procedimento di
trasformazione urbanistica ed edilizia del terreno, in
contrasto con le norme vigenti (Tar Lazio, Latina, I,
12.10.2011, n. 798);
- per verificarne l’esistenza appare necessaria una visione
d’insieme dei lavori, ossia una verifica nel suo complesso
dell’attività edilizia realizzata, giacché potrebbero anche
ricorrere modifiche rispetto all’attività assentita idonee a
conferire un diverso assetto al territorio comunale oggetto
di trasformazione (Tar Lazio, Roma, I, 09.10.2009, n. 9859).
Ha sottolineato che si ha, invece, lottizzazione
cartolare quando la trasformazione sia predisposta
mediante il frazionamento, la vendita o atti equivalenti del
terreno in lotti che, per le loro caratteristiche, come la
dimensione in relazione alla natura del terreno ed alla sua
destinazione sulla base degli strumenti urbanistici, il
numero, l’ubicazione o l’eventuale previsione di opere di
urbanizzazione, denuncino in modo non equivoco la
destinazione a scopo edificatorio; l’elemento oggettivo
della fattispecie è costituito pertanto dal frazionamento di
mappali seguito necessariamente da atti di vendita, o da
atti ad essi equiparati, sicché in mancanza di detti atti
non è possibile contestare legittimamente la lottizzazione
abusiva. L’attività negoziale è, infatti, considerata dalla
norma quale strumento funzionale al perseguimento
dell’intento lottizzatorio e, quindi, come indice della
sussistenza di siffatta finalità che deve però esser
confermata anche da altri elementi, che rendano evidente la
non equivocità della destinazione a scopo edificatorio sia
del frazionamento, sia della vendita (Consiglio di Stato, IV,
20.07.2009, n. 4578; V, 12.03.2012, n. 1374).
La giurisprudenza poi:
- ha evidenziato con riferimento all’elemento oggettivo
della lottizzazione abusiva che si tratta di un illecito non
solo di danno (rispetto alle opere già eseguite) ma anche di
pericolo (rispetto alle urbanizzazioni ancora possibili),
qualora, pur a fronte dell’avvenuta ultimazione degli
edifici, strade od altri manufatti, vi sia la possibilità
che l’urbanizzazione del comprensorio, ancora incompleta,
sia condotta a termine per stati di avanzamento successivi
(Tar Toscana, III, 28.02.2012, n. 392);
- quanto all’elemento soggettivo, in base all’affinità tra
l’acquisizione delle aree ex articolo 30 del d.P.R. 380/2001
e la confisca urbanistica disposta dall’autorità giudiziaria
ai sensi del successivo articolo 44, ha affermato la
necessità per l’applicazione delle sanzioni privative della
proprietà del bene, che non si presentino come meramente
ripristinatorie rispetto all’abuso perpetrato, di un
elemento soggettivo di natura colposa da parte del soggetto
che subisce la sanzione, ragion per cui l’acquirente di un
lotto non può considerarsi, come tale, estraneo al reato di
lottizzazione abusiva, essendo tenuto a dimostrare di aver
agito in buona fede, senza cioè rendersi conto (pur avendo
adoperato la necessaria diligenza nell’adempimento dei
doveri di informazione e conoscenza) di partecipare ad
un’opera di illecita lottizzazione (Tar Campania, Napoli, IV,
04.08.2011, n. 4210).
---------------
Deve allora ritenersi
infondata la dedotta violazione delle garanzie
procedimentali condividendosi l’orientamento
giurisprudenziale (Tar Campania, Napoli, II, 09.09.2011, n. 4363) per il quale, la comunicazione di avvio del
procedimento di individuazione e repressione della
lottizzazione abusiva è superflua ove il contenuto dell’atto
non possa essere diverso da quello in concreto adottato e,
più in dettaglio, laddove la partecipazione del privato a
detto procedimento sia inutile (ed egli non possa fornire
alcun apporto conoscitivo e/o documentale rilevante),
sussistendo la certezza assoluta della finalità edificatoria
della lottizzazione (TAR Lazio-Latina,
sentenza 15.10.2012 n. 756 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI:
Elettrosmog. Uso di telefoni cordless e cellulari
e patologie tumorali.
Questione concernente la contrazione di grave patologia in
conseguenza dell'uso lavorativo protratto, per dodici anni e
per 5-6 ore al giorno, di telefoni cordless e cellulari
all'orecchio sinistro (Corte
di Cassazione, Sez. Lavoro,
sentenza 12.10.2012 n. 17438
- link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Le
modifiche integrano una variante solo ove il progetto già
approvato non risulti sostanzialmente e radicalmente mutato
dal nuovo elaborato. La nozione di “variante”, quindi, si
ricollega a modificazioni qualitative o quantitative di non
rilevante consistenza rispetto all’originario progetto e per
discriminare un nuovo permesso di costruire dalla variante
ad altro preesistente, occorre considerare una serie di
elementi ivi incluse le caratteristiche funzionali e
strutturali, interne ed esterne, del manufatto.
Il sistema delineato dal d.P.R. n. 380 del 2001,
all’articolo 22, comma 2, conferma una tale impostazione
prevedendo che “Sono, altresì, realizzabili mediante
denuncia di inizio attività le varianti a permessi di
costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle
volumetrie, che non modificano la destinazione d’uso e la
categoria edilizia, non alterano la sagoma dell’edificio e
non violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso
di costruire. Ai fini dell’attività di vigilanza urbanistica
ed edilizia, nonché ai fini del rilascio del certificato di
agibilità, tali denunce di inizio attività costituiscono
parte integrante del procedimento relativo al permesso di
costruzione dell’intervento principale e possono essere
presentate prima della dichiarazione di ultimazione dei
lavori.”.
La riprodotta norma collega oggettivamente il tipo di
intervento al titolo edilizio e conferma che la connotazione
complementare ed accessoria del permesso in variante
rispetto al preesistente opera nei limiti in cui non
interessi mutamenti rilevanti ed implicanti un nuovo
permesso.
Per la giurisprudenza “le varianti in senso proprio sono
quelle che si riferiscono a modifiche quantitative e
qualitative di limitata consistenza e di scarso rilievo
rispetto al progetto originario e si distinguono da quelle
che, pur chiamate varianti nel linguaggio usuale del
termine, tali non possono essere considerate perché
richiedono la realizzazione di un quid novi (da valutarsi
con riferimento alle evidenze progettuali quali la
superficie coperta, il perimetro, il numero dei piani, la
volumetria, le distanze dalle proprietà vicine, nonché le
caratteristiche funzionali e strutturali del fabbricato
complessivamente inteso): in questa seconda categoria vanno
ricondotte le varianti cc.dd. «improprie» o «essenziali»,
che si configurano come nuove concessioni.”.
Il ricorrente, impugna il permesso di costruire “in
variante per opere in corso” n. 1 del 05.06.2009, prot.
n. 3527, rilasciato ai controinteressati. Argomenta,
innanzitutto, la necessità di “un nuovo permesso a
costruire” essendo gli interventi progettati in totale
difformità o costituendo gli stessi comunque variazioni
essenziali riconducibili al mutamento della destinazione
d’uso o delle caratteristiche dell’intervento edilizio
assentito di cui all’articolo 31, comma 1, lettere a) e d),
del d.P.R. 380/2001.
Va evidenziato che il permesso n. 3 del 2008 prevedeva “la
costruzione di un gazebo del tipo tettoia in tubolari
zincati, con sovrastante copertura pannelli in sandwinch
termocoibentanti, per l’esposizione di ferramenta”. Il
titolo impugnato interessa invece la “realizzazione di
mazzette in muratura, in prossimità dei pilastri portanti
allo scopo di ridurre l’ampiezza delle vetrate che erano
previste appoggiate ai pilastri nella richiesta originaria e
nella costruzione di un wc a piano terra”, quindi
l’esecuzione di tramezzature, di impianto elettrico, di
intonaci esterni ed interni con rifinitura a stucco e
tinteggiatura, di tubazioni per impianti igienici, di
pavimentazione interna ed esterna, di infissi e di scarichi
con allaccio alla fogna pubblica esistente.
L’amministrazione comunale come visto ha rilasciato un
permesso di costruire che autorizza la realizzazione di
varianti al progetto approvato.
Sul tema va ricordato che le modifiche integrano una
variante solo ove il progetto già approvato non risulti
sostanzialmente e radicalmente mutato dal nuovo elaborato.
La nozione di “variante”, quindi, si ricollega a
modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante
consistenza rispetto all’originario progetto e per
discriminare un nuovo permesso di costruire dalla variante
ad altro preesistente, occorre considerare una serie di
elementi ivi incluse le caratteristiche funzionali e
strutturali, interne ed esterne, del manufatto.
Il sistema delineato dal d.P.R. n. 380 del 2001,
all’articolo 22, comma 2, conferma una tale impostazione
prevedendo che “Sono, altresì, realizzabili mediante
denuncia di inizio attività le varianti a permessi di
costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle
volumetrie, che non modificano la destinazione d’uso e la
categoria edilizia, non alterano la sagoma dell’edificio e
non violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso
di costruire. Ai fini dell’attività di vigilanza urbanistica
ed edilizia, nonché ai fini del rilascio del certificato di
agibilità, tali denunce di inizio attività costituiscono
parte integrante del procedimento relativo al permesso di
costruzione dell’intervento principale e possono essere
presentate prima della dichiarazione di ultimazione dei
lavori.”.
La riprodotta norma collega oggettivamente il tipo di
intervento al titolo edilizio e conferma che la connotazione
complementare ed accessoria del permesso in variante
rispetto al preesistente opera nei limiti in cui non
interessi mutamenti rilevanti ed implicanti un nuovo
permesso.
Per la giurisprudenza (tra le tante Tar Napoli, V,
16.01.2008, n. 241) “le varianti in senso proprio sono
quelle che si riferiscono a modifiche quantitative e
qualitative di limitata consistenza e di scarso rilievo
rispetto al progetto originario e si distinguono da quelle
che, pur chiamate varianti nel linguaggio usuale del
termine, tali non possono essere considerate perché
richiedono la realizzazione di un quid novi (da valutarsi
con riferimento alle evidenze progettuali quali la
superficie coperta, il perimetro, il numero dei piani, la
volumetria, le distanze dalle proprietà vicine, nonché le
caratteristiche funzionali e strutturali del fabbricato
complessivamente inteso): in questa seconda categoria vanno
ricondotte le varianti cc.dd. «improprie» o «essenziali»,
che si configurano come nuove concessioni.”
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 12.10.2012 n. 752 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’accertamento di conformità regolato
dall’articolo 36 del d.P.R. 380/2001 è diretto a sanare
opere formalmente abusive perché eseguite senza il richiesto
titolo ma conformi, nella sostanza, alla disciplina
edilizio-urbanistica applicabile per l’area su cui sorgono,
vigente sia al momento della realizzazione che a quello
della presentazione dell’istanza di sanatoria (cd. doppia
conformità).
Il comune è chiamato a svolgere una valutazione da
rapportare ad un assetto di interessi prefigurato dalla
citata disciplina, dal che deriva che l’accertamento di
conformità assume una connotazione eminentemente oggettiva e
vincolata, priva pertanto di appezzamenti discrezionali.
Va preliminarmente osservato che l’accertamento di
conformità regolato dall’articolo 36 del d.P.R. 380/2001 è
diretto a sanare opere formalmente abusive perché eseguite
senza il richiesto titolo ma conformi, nella sostanza, alla
disciplina edilizio-urbanistica applicabile per l’area su
cui sorgono, vigente sia al momento della realizzazione che
a quello della presentazione dell’istanza di sanatoria (cd.
doppia conformità).
Il comune è chiamato a svolgere una valutazione da
rapportare ad un assetto di interessi prefigurato dalla
citata disciplina, dal che deriva che l’accertamento di
conformità assume una connotazione eminentemente oggettiva e
vincolata, priva pertanto di appezzamenti discrezionali (Tar
Puglia, Bari, III, 26.01.2012, n. 246; Tar Campania, Napoli,
II, 11.01.2012, n. 55)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 12.10.2012 n. 751 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
presentazione dell'istanza di condono successivamente
all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce
l'effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento e,
quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta
carenza di interesse, e ciò in quanto il riesame
dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza, sia
pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto
costruito, ex se comporta la necessaria formazione di un
nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale
comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa, dal momento che, in caso di diniego del
richiesto condono, l'Amministrazione Comunale dovrebbe
emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione
di nuovi termini per ottemperarvi.
Infatti è noto l'orientamento, accolto anche da questo
Tribunale, secondo cui la presentazione dell'istanza di
condono successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di
demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale
ultimo provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione
stessa per sopravvenuta carenza di interesse, e ciò in
quanto il riesame dell'abusività dell'opera provocato da
tale istanza, sia pure al fine di verificare l'eventuale
sanabilità di quanto costruito, ex se comporta la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di
accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, dal
momento che, in caso di diniego del richiesto condono,
l'Amministrazione Comunale dovrebbe emettere una nuova
ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini
per ottemperarvi (cfr. Consiglio di Stato sez. IV,
16.09.2011, n. 5228)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 10.10.2012 n. 739 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Quanto
alla denegata efficacia esterna del P.T.P. ove solamente
adottato, trattasi di affermazione respinta dalla prevalente
giurisprudenza, per la quale le prescrizioni stabilite dal
Piano Territoriale Paesistico hanno efficacia vincolante sin
dall’adozione e conseguente pubblicazione del Piano stesso,
e non dalla definitiva approvazione di questo, atteso il
principio di immediata efficacia dei provvedimenti di tutela
dei valori paesaggistici ed ambientali.
Il principio di immediata effettività dei provvedimenti di
tutela dei valori paesaggistici ed ambientali, concordemente
affermato dalla giurisprudenza per ciò che riguarda i
vincoli inerenti le cd. bellezze di insieme (i quali si
perfezionano sin dal momento in cui la proposta di adozione
è pubblicata presso i Comuni interessati), si configura
valido anche con riferimento ai limiti e criteri di tutela
recepiti dal P.T.P., i quali concorrono ad orientare le
determinazioni della P.A. a partire dalla data di
pubblicazione nella G.U. della deliberazione della Giunta
Regionale di adozione del Piano.
Ove si intendesse riconoscere efficacia prescrittiva al
P.T.P. solo a partire dalla data di definitiva approvazione,
si correrebbe il rischio di vanificare il più organico
regime di tutela delle zone vincolate qualora, nelle more
del perfezionamento dell’iter procedimentale, fossero
consentite, in contrasto con il contenuto del Piano,
iniziative di modifica del territorio: queste, anzi,
potrebbero ricevere un impulso, in vista di una futura
regolamentazione di dettaglio più restrittiva.
Del resto l’ordinamento recepisce, con riferimento alla
disciplina dell’assetto urbanistico ed edilizio del
territorio, il criterio di immediata efficacia a
salvaguardia delle prescrizioni pianificatorie, nelle more
del perfezionamento dei singoli piani e detta esigenza si
configura a maggior ragione valida e non eludibile
relativamente allo strumento di disciplina
paesaggistico-ambientale, che è indirizzato alla tutela di
interessi primari e prevalenti su ogni altro inerente
all’utilizzazione del territorio.
Invero, quanto alla denegata efficacia esterna del P.T.P.
ove solamente adottato, trattasi di affermazione respinta
dalla prevalente giurisprudenza, per la quale le
prescrizioni stabilite dal Piano Territoriale Paesistico
hanno efficacia vincolante sin dall’adozione e conseguente
pubblicazione del Piano stesso, e non dalla definitiva
approvazione di questo, atteso il principio di immediata
efficacia dei provvedimenti di tutela dei valori
paesaggistici ed ambientali (cfr., ex multis, TAR
Lazio, Roma, Sez. II, 02.03.2007, n. 1932, con i precedenti
ivi elencati).
Sul punto si è sottolineato che il principio di immediata
effettività dei provvedimenti di tutela dei valori
paesaggistici ed ambientali, concordemente affermato dalla
giurisprudenza per ciò che riguarda i vincoli inerenti le
cd. bellezze di insieme (i quali si perfezionano sin dal
momento in cui la proposta di adozione è pubblicata presso i
Comuni interessati: v. C.d.S., A.P., 06.05.1976, n. 3), si
configura valido anche con riferimento ai limiti e criteri
di tutela recepiti dal P.T.P., i quali concorrono ad
orientare le determinazioni della P.A. a partire dalla data
di pubblicazione nella G.U. della deliberazione della Giunta
Regionale di adozione del Piano (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez.
II, 28.03.2001, n. 2559).
Ove si intendesse riconoscere efficacia prescrittiva al
P.T.P. solo a partire dalla data di definitiva approvazione,
si correrebbe il rischio di vanificare il più organico
regime di tutela delle zone vincolate qualora, nelle more
del perfezionamento dell’iter procedimentale, fossero
consentite, in contrasto con il contenuto del Piano,
iniziative di modifica del territorio: queste, anzi,
potrebbero ricevere un impulso, in vista di una futura
regolamentazione di dettaglio più restrittiva.
Del resto l’ordinamento recepisce, con riferimento alla
disciplina dell’assetto urbanistico ed edilizio del
territorio, il criterio di immediata efficacia a
salvaguardia delle prescrizioni pianificatorie, nelle more
del perfezionamento dei singoli piani e detta esigenza si
configura a maggior ragione valida e non eludibile
relativamente allo strumento di disciplina
paesaggistico-ambientale, che è indirizzato alla tutela di
interessi primari e prevalenti su ogni altro inerente
all’utilizzazione del territorio (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez.
II, 05.05.2004, n. 3781; id., n. 2559/2001, cit.)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 10.10.2012 n. 737 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Le
prescrizioni dettate a livello regolamentare non possono
tradursi nell’imposizione di limitazioni o divieti
generalizzati incompatibili con la possibilità di realizzare
una rete completa di infrastrutture per la
telecomunicazione, e ciò ancor più quando dette prescrizioni
sono palesemente rivolte a tutelare aspetti collegati alla
salute umana, dal momento che siffatte esigenze sono
valutate dagli organi statali a ciò deputati, stante la
previsione dell’art. 4 della legge n. 36/2001.
L’art. 8, comma 6, della legge n. 36/2001 prevede che “I
comuni possono adottare un regolamento per assicurare il
corretto insediamento urbanistico e territoriale degli
impianti e minimizzare l'esposizione della popolazione ai
campi elettromagnetici”.
Per principio pacifico in giurisprudenza, le prescrizioni
dettate a livello regolamentare non possono tradursi
nell’imposizione di limitazioni o divieti generalizzati
incompatibili con la possibilità di realizzare una rete
completa di infrastrutture per la telecomunicazione, e ciò
ancor più quando dette prescrizioni sono palesemente rivolte
a tutelare aspetti collegati alla salute umana, dal momento
che siffatte esigenze sono valutate dagli organi statali a
ciò deputati, stante la previsione dell’art. 4 della legge
n. 36/2001 (Consiglio Stato, sez. VI, 27.12.2010, n. 9414;
TAR Calabria-Reggio Calabria, sez. I, 21.03.2012, n. 231;
TAR Campania–Napoli, sez. VII, 28.10.2011, n. 5030; TAR
Molise–Campobasso, sez. I, 04.08.2011, n. 533)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 05.10.2012
n. 1647 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: L’art.
10-bis della legge n. 241 del 1990 non impone la puntuale ed
analitica confutazione delle osservazioni presentate dalla
parte privata a seguito della ricezione della comunicazione
dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza, essendo
sufficiente ai fini della giustificazione del provvedimento
adottato la motivazione complessivamente resa a sostegno
dell'atto stesso e tenuto conto del fatto che la
confutazione delle osservazioni può essere desunta dal
complesso del provvedimento.
Peraltro, secondo una
condivisibile giurisprudenza, l’art. 10-bis della legge n.
241 del 1990 non impone la puntuale ed analitica
confutazione delle osservazioni presentate dalla parte
privata a seguito della ricezione della comunicazione dei
motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza, essendo
sufficiente ai fini della giustificazione del provvedimento
adottato la motivazione complessivamente resa a sostegno
dell'atto stesso e tenuto conto del fatto che la
confutazione delle osservazioni può essere desunta dal
complesso del provvedimento (TAR Campania Napoli, sez. VII,
07.05.2010, n. 3072; TAR Liguria-Genova, sez. I, 17.02.2010,
n. 603) (TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 05.10.2012
n. 1647 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI: Fiere, i comuni
senza esclusiva. I paletti sono in
contrasto col Trattato Ce.
Nessun diritto di esclusiva dei comuni nel regolare lo
svolgimento dell'attività fieristica nel loro ambito
territoriale. Il comune nello stabilire che l'attività
fieristica possa svolgersi soltanto nelle aree pubbliche
(strade, canali, piazze, comprese quelle private gravate da
servitù di pubblico passaggio, e ogni altra area di
qualunque natura destinata a uso pubblico) o in quelle
private di cui lo stesso abbia la disponibilità, appaiono in
contrasto con il principio della liberalizzazione delle
attività economiche, derivante dal Trattato Ce e
dall'interpretazione di esso da parte della Corte di
giustizia (sentenza 15.02.2002 c. 439/99).
In virtù del
principio della liberalizzazione delle attività economiche,
valevole anche con riferimento alle fiere e ai mercati, il
comune non può pretendere di esercitare alcun diritto di
esclusiva nello svolgimento dell'attività fieristica. La
liberalizzazione delle attività economiche è finalizzata a
garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni di
pari opportunità e il corretto e uniforme funzionamento del
mercato, nonché per assicurare ai consumatori finali un
livello minimo e uniforme di condizioni di accessibilità ai
beni e servizi sul territorio nazionale.
Questo è il
principio espresso nella
sentenza
05.10.2012 n. 835 del TAR Sardegna, Sez. II.
Pertanto, secondo i giudici amministrativi sardi, in questa
circostanza, devono essere annullati i provvedimenti di
diniego della domanda presentata da un consorzio per una
manifestazione fieristica di tipo locale, i quali nel
presupporre che l'attività fieristica possa svolgersi
soltanto nelle aree pubbliche o in quelle private di cui il
comune abbia la disponibilità, appaiono in contrasto con il
principio della liberalizzazione delle attività economiche.
Il mercato è un'area pubblica o privata della quale il
comune ha la disponibilità, composta da più posteggi,
attrezzata o meno e destinata all'esercizio dell'attività,
per uno o più giorni della settimana o del mese, per
l'offerta integrata di merci al dettaglio, la
somministrazione di alimenti e bevande e l'erogazione di
servizi pubblici.
La fiera invece è una manifestazione caratterizzata
dall'afflusso, nei giorni stabiliti, sulle aree pubbliche o
private delle quali il comune abbia la disponibilità, di
operatori autorizzati a esercitare il commercio su aree
pubbliche, in occasione di particolari ricorrenze, eventi,
festività
(articolo ItaliaOggi del 20.10.2012). |
URBANISTICA: Attività di indagine e lottizzazione.
La valutazione in ordine alla eventuale inutilizzabilità
degli atti di indagine, prevista dall'art. 407 c.p.p., va
effettuata considerando il contenuto e la funzione
dell'atto, con la conseguenza che non devono essere inclusi
nel novero degli atti passibili di inutilizzabilità quelli
costituenti mera rielaborazione di attività precedentemente
svolte quali, ad esempio, le note riassuntive o conclusive
solitamente redatte dalla polizia giudiziaria, all'esito di
investigazioni complesse, per fornire una illustrazione
organica e definitiva dell'attività compiuta ed agevolare la
consultazione della relativa documentazione, ovvero quelli
meramente ricognitivi, finalizzati a documentare la
permanenza ed attualità di situazioni già in precedenza
compiutamente accertate.
L'acquirente ed il sub-acquirente di un immobile o terreno
abusivamente lottizzato sono tenuti ad assolvere in modo
rigoroso all'onere di conoscenza ed informazione loro
richiesto e non possono dimostrare di aver agito in buona
fede semplicemente richiamando l'affidamento riposto in
altri soggetti o nella apparente legittimità di atti
amministrativi, specie nel caso in cui la illiceità
dell'operazione lottizzatoria sia resa evidente dalla
presenza di elementi obiettivi sintomatici di una irregolare
trasformazione edilizia o urbanistica del territorio (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.10.2012 n. 38732
- tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Totale difformità ed opere interne.
Rientra nella nozione di totale difformità dal permesso di
costruire la realizzazione in un edificio in corso di
costruzione di strutture all'interno di una parte
dell'immobile, che ne determinino la modificazione della
destinazione d'uso e lo rendano suscettibile di autonoma
utilizzazione, in modo da incidere sull'assetto del
territorio, in quanto aumentano il carico urbanistico
rispetto a quanto previsto dal permesso di costruire (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.10.2012 n. 38536
- tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Appare
coerente con i principi generali dell’ordinamento nazionale
e comunitario ritenere che, per effetto della disciplina
sopravvenuta di cui all'art. 87 D. Lg.vo n. 259/2003, sia
stato implicitamente abrogato, per incompatibilità, l'art.
3, comma 1, lett. e. 3) ed e. 4) del DPR n. 380/2001, nella
parte in cui qualifica gli impianti di telecomunicazioni
come “nuova costruzione”, richiedenti, ai sensi del
successivo art. 10 DPR n. 380/2001, il previo rilascio del
permesso di costruire.
Invero, l'espressa assimilazione normativa fra le stazioni
radio base e le opere di urbanizzazione primaria, statuita
dall’art. 86, comma 3, del D.Lgs n. 259/2003 rende
l'installazione di tali manufatti compatibile con qualunque
destinazione di zona ed assoggettata alle sole prescrizioni
di cui all'art. 87 del D.Lgs n. 259/2003 e non anche alle
previsioni generali di cui all'art. 3 del D.P.R. n.
380/2001.
Pertanto, l’art. 87-bis del D.Lgs n. 259/2003 (introdotto
dall’art. 5-bis del D. L. 25.03.2010 n. 40) delinea un
procedimento per il caso in cui l’impianto radio base abbia
potenza in singola antenna superiore ai 20 Watt, con
riferimento al quale il gestore di telefonia mobile deve
chiedere “autorizzazione alla installazione”, ed un
procedimento semplificato, per il caso in cui la predetta
potenza sia uguale o inferiore ai 20 Watt, per il quale si
richiede la mera “denuncia di inizio attività”, trasmessa
alle amministrazioni competenti (Comune e Agenzia Regionale
per la Protezione Ambientale).
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E' consentito alle regioni ed ai comuni, ciascuno per la sua
competenza, introdurre criteri localizzativi degli impianti
de quibus, nell'ambito della funzione di definizione degli
"obiettivi di qualità", consistenti in criteri
localizzativi, di cui all'art. 3, comma 1, lettera d, ed
all'art. 8, comma 1, lettera e, e comma 6 della legge
quadro, mentre non è consentito introdurre limitazioni alla
localizzazione.
Coerentemente, vanno considerati criteri localizzativi
(legittimi, ancorché espressi "in negativo") i divieti di
installazione su ospedali, case di cura e di riposo, scuole
e asili nido, siccome riferiti a specifici edifici, mentre
vanno ritenute limitazioni alla localizzazione (vietate) i
criteri distanziali generici ed eterogenei, quali la
prescrizione di distanze minime, da rispettare
nell'installazione degli impianti, dal perimetro esterno di
edifici destinati ad abitazioni, a luoghi di lavoro o ad
attività diverse da quelle specificamente connesse
all'esercizio degli impianti stessi, di ospedali, case di
cura e di riposo, edifici adibiti al culto, scuole ed asili
nido, nonché di immobili vincolati ai sensi della
legislazione sui beni storico-artistici o individuati come
edifici di pregio storico-architettonico, di parchi
pubblici, parchi gioco, aree verdi attrezzate ed impianti
sportivi.
Il cosiddetto “Codice delle Comunicazioni Elettroniche”,
approvato con D.Lgs. 01.08.2003, n. 259, con gli artt. 86,
87 e 88, con riferimento alle infrastrutture di reti
pubbliche di comunicazione, affronta i molteplici profili di
interesse pubblico coinvolti e prevede lo svolgimento di
apposite conferenze di servizi, per un adeguato
coordinamento di tali interessi, con finale rilascio -in
forma espressa o tacita- di un titolo abilitativo,
qualificato come autorizzazione, in coerenza con i criteri
-rilevanti anche sul piano comunitario- di semplificazione
amministrativa, mediante la confluenza in un solo
procedimento di tutte le tematiche rilevanti, pur senza
cancellare l'incidenza delle installazioni stesse sotto il
profilo urbanistico-edilizio, tenuto conto della concreta
consistenza dell'intervento e senza esclusione di eventuali
conseguenze penali, connesse ad ipotesi di abusivismo, ex
art. 44 D.P.R. n. 380/2001 (conf.: Corte Cost. 28.03.2006,
n. 259; Corte Cost. 18.05.2006, ord. n. 203).
L'art. 86, comma 3, del precitato D.Lgs n. 259/2003
stabilisce che tutte le infrastrutture di reti pubbliche di
comunicazione, tra cui anche gli impianti di telefonia
mobile, "sono assimilate ad ogni effetto alle opere di
urbanizzazione primaria di cui all'art. 16, comma 7, DPR n.
380/2001, pur restando di proprietà dei rispettivi operatori".
Il D.Lgs. 06.06.2001 n. 380 (Testo Unico dell'Edilizia), con
l’art. 3, comma 1°, lett. e. 3) ed e. 4), prescrive, per "l'installazione
di torri e tralicci per impianti radio-ricetrasmittenti e di
ripetitori per i servizi di telecomunicazione"
-espressamente catalogata come intervento di nuova
costruzione- il permesso di costruire, introdotto dalla
medesima normativa come nuova qualificazione formale della
concessione edilizia, ai sensi del successivo art. 10, comma
1.
L’art. 87 del suddetto D.Lgs n. 259/2003 richiede, per il
caso di installazione di impianti, con tecnologia UMTS od
altre, con potenza in singola antenna uguale od inferiore ai
20 Watt, la mera denuncia di inizio attività, conforme ai
modelli predisposti dagli Enti locali e, ove non
predisposti, “al modello B di cui all'allegato n. 13",
conformemente alla “ratio acceleratoria”, desumibile
anche dai criteri di delega contenuti nell'art. 41 della
legge n. 166/2002 .
Appare, quindi, coerente con i principi generali
dell’ordinamento nazionale e comunitario ritenere che, per
effetto della disciplina sopravvenuta di cui all'art. 87 D.
Lg.vo n. 259/2003, sia stato implicitamente abrogato, per
incompatibilità, l'art. 3, comma 1, lett. e. 3) ed e. 4) del
DPR n. 380/2001, nella parte in cui qualifica gli impianti
di telecomunicazioni come “nuova costruzione”,
richiedenti, ai sensi del successivo art. 10 DPR n.
380/2001, il previo rilascio del permesso di costruire (conf.:
Cons. Stato. Sez. VI, sent. n. 5044 del 17.10.2008; Cons.
Stato Sez. VI: sent. n. 3534 del 15.06.2006; sent. n. 4000
del 26.7.2005; sent. n. 100 del 21.01.2005; TAR Napoli Sez.
VII sent. n. 2702 del 22.03.2007; TAR Lecce Sez. II sent. n.
4279 del 22.08.2006).
Invero, l'espressa assimilazione normativa fra le stazioni
radio base e le opere di urbanizzazione primaria, statuita
dall’art. 86, comma 3, del D.Lgs n. 259/2003 rende
l'installazione di tali manufatti compatibile con qualunque
destinazione di zona ed assoggettata alle sole prescrizioni
di cui all'art. 87 del D.Lgs n. 259/2003 e non anche alle
previsioni generali di cui all'art. 3 del D.P.R. n.
380/2001.
Pertanto, come correttamente rilevato dalla ricorrente,
l’art. 87-bis del D.Lgs n. 259/2003 (introdotto dall’art.
5-bis del D. L. 25.03.2010 n. 40) delinea un procedimento
per il caso in cui l’impianto radio base abbia potenza in
singola antenna superiore ai 20 Watt, con riferimento al
quale il gestore di telefonia mobile deve chiedere “autorizzazione
alla installazione”, ed un procedimento semplificato,
per il caso in cui la predetta potenza sia uguale o
inferiore ai 20 Watt, per il quale si richiede la mera “denuncia
di inizio attività”, trasmessa alle amministrazioni
competenti (Comune e Agenzia Regionale per la Protezione
Ambientale).
E’ questo secondo il procedimento pacificamente applicabile
al caso che occupa.
Secondo il quadro emergente della giurisprudenza
costituzionale, è consentito alle regioni ed ai comuni,
ciascuno per la sua competenza, introdurre criteri
localizzativi degli impianti de quibus, nell'ambito
della funzione di definizione degli "obiettivi di qualità",
consistenti in criteri localizzativi, di cui all'art. 3,
comma 1, lettera d, ed all'art. 8, comma 1, lettera e, e
comma 6 della legge quadro, mentre non è consentito
introdurre limitazioni alla localizzazione (conf.: Corte
Cost.: 07.10. 2003 n. 307; 07.11.2003, n. 331; 28.03.2006,
n. 129).
Coerentemente, vanno considerati criteri localizzativi
(legittimi, ancorché espressi "in negativo") i
divieti di installazione su ospedali, case di cura e di
riposo, scuole e asili nido, siccome riferiti a specifici
edifici, mentre vanno ritenute limitazioni alla
localizzazione (vietate) i criteri distanziali generici ed
eterogenei, quali la prescrizione di distanze minime, da
rispettare nell'installazione degli impianti, dal perimetro
esterno di edifici destinati ad abitazioni, a luoghi di
lavoro o ad attività diverse da quelle specificamente
connesse all'esercizio degli impianti stessi, di ospedali,
case di cura e di riposo, edifici adibiti al culto, scuole
ed asili nido, nonché di immobili vincolati ai sensi della
legislazione sui beni storico-artistici o individuati come
edifici di pregio storico-architettonico, di parchi
pubblici, parchi gioco, aree verdi attrezzate ed impianti
sportivi (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 03.10.2012 n. 981 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L'Amministrazione
non può giustificare il diniego di rilascio del titolo con
esclusivo riferimento alla necessità della previa
approvazione di un nuovo piano attuativo, che si
sostanzierebbe in un'atipica ed illegittima misura di
salvaguardia.
Ed invero, ai fini del rilascio del titolo abilitativi uno
stato di sufficiente urbanizzazione della zona che renda
superflua la pianificazione di dettaglio deve ritenersi
equivalente, in via generale, alla operatività di un piano
attuativo al momento della presentazione della domanda.
Ciò equivale a dire che la mancanza del piano attuativo non
è circostanza che di per sé giustifichi il diniego del
titolo abilitativo, necessitando verificare in concreto
l'esistenza di opere di urbanizzazione adeguate a supportare
l'ulteriore intervento, la qual cosa implica la rigorosa
valutazione degli effetti che l'intervento da abilitare
produrrebbe sul territorio di riferimento.
Per tali ipotesi l'Amministrazione ha, perciò, l'obbligo di
verificare il grado di urbanizzazione delle aree di
intervento, al fine di stabilire se sia ancora necessaria
l'approvazione di un piano di dettaglio per asservire
un'area non ancora urbanizzata, tenendo conto della
situazione esistente al momento della richiesta del titolo
abilitativo.
Il ricorso è fondato.
Osserva, anzitutto, il Collegio -facendo richiamo ad un
consolidato indirizzo giurisprudenziale- che “l'Amministrazione
non può giustificare il diniego di rilascio del titolo con
esclusivo riferimento alla necessità della previa
approvazione di un nuovo piano attuativo, che si
sostanzierebbe in un'atipica ed illegittima misura di
salvaguardia” (cfr. Tar Napoli II n. 296, 297, 298 del
18.01.2008).
Ed invero, ai fini del rilascio del titolo abilitativi uno
stato di sufficiente urbanizzazione della zona che renda
superflua la pianificazione di dettaglio deve ritenersi
equivalente, in via generale, alla operatività di un piano
attuativo al momento della presentazione della domanda.
Ciò equivale a dire che la mancanza del piano attuativo non
è circostanza che di per sé giustifichi il diniego del
titolo abilitativo, necessitando verificare in concreto
l'esistenza di opere di urbanizzazione adeguate a supportare
l'ulteriore intervento, la qual cosa implica la rigorosa
valutazione degli effetti che l'intervento da abilitare
produrrebbe sul territorio di riferimento.
Per tali ipotesi l'Amministrazione ha, perciò, l'obbligo di
verificare il grado di urbanizzazione delle aree di
intervento, al fine di stabilire se sia ancora necessaria
l'approvazione di un piano di dettaglio per asservire
un'area non ancora urbanizzata, tenendo conto della
situazione esistente al momento della richiesta del titolo
abilitativo (cfr. Consiglio di Stato, sez. V n. 5953 del
09.10.2006; sez. IV n. 6171 del 04.12.2007).
In conclusione, la determinazione comunale impugnata è
inficiata nella parte in cui omette la doverosa verifica
istruttoria della sufficienza del regime rinvenibile nel
vigente PRG e dello stato di urbanizzazione dell'area, vale
a dire ogni valutazione circa la coerenza dell'intervento
con il regime rinvenibile nel vigente PRG od in merito alla
necessità di un piano attuativo.
La mancanza di ogni riferimento alla necessaria e
preliminare verifica dell'utilizzabilità, come paradigma di
assentibilità dell'intervento, della disciplina contenuta
nel PRG palesa i vizi di difetto di istruttoria e di
motivazione, in quanto finisce con l'essere un giudizio
assunto sulla base dell'attuazione di un parametro normativo
non immediatamente ed automaticamente applicabile alla
fattispecie esaminata (TAR Lazio-Latina,
sentenza 03.10.2012 n. 709 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Normativa antisismica e tipologia opere.
La normativa antisismica ed edilizia dettata dagli artt. 93,
94 e 95 del D.P.R. 380/2001 si applica a tutte le opere -purché stabilmente ancorate al suolo- realizzate in zone
sismiche e la cui sicurezza possa interessare la pubblica
incolumità, a nulla rilevando la tipologia dei materiali
impiegati che possono essere costituiti anche da elementi
strutturali diversi dalia opere in muratura o in cemento
armato (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 02.10.2012 n. 38090
- tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'autore di un abuso edilizio, che abbia
prestato acquiescenza al diniego di concessione di
costruzione in sanatoria, decade dalla possibilità di
rimettere in discussione l'abuso accertato in sede di
impugnazione dell'ordine di demolizione, atteso che
quest'ultimo rinviene nel diniego di sanatoria il suo
presupposto.
Infatti, per consolidata giurisprudenza amministrativa "L'autore
di un abuso edilizio, che abbia prestato acquiescenza al
diniego di concessione di costruzione in sanatoria, decade
dalla possibilità di rimettere in discussione l'abuso
accertato in sede di impugnazione dell'ordine di
demolizione, atteso che quest'ultimo rinviene nel diniego di
sanatoria il suo presupposto." (Cons. Stato, Sez. V,
17.09.2008, n. 4446; TAR Puglia Bari, sez. II, 05.01.2011,
n. 8; Cons. Stato, Sez. V, 28.12.2007, n. 6715) (TAR Sicilia-Palermo, Sez.
II,
sentenza 02.10.2012 n. 1940 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Richiesta di sanatoria e violazione art. 483
cod. pen..
Nel caso di presentazione, da parte del privato, della
dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà (come
regolata dal d.P.R. 445/2000) concernente la data di
ultimazione del fabbricato e tesa a conseguire la
concessione in sanatoria, sono ravvisabili tutti i requisiti
previsti per la integrazione dei reato di cui all'art. 483
cod. pen., salva la verifica della fattispecie concreta (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.10.2012 n. 37904
- tratto da www.lexambiente.it). |
ESPROPRIAZIONE:
L’A.N.A.S. non è soltanto società concessionaria
del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ma
soggetto espressamente individuato dal legislatore a
svolgere i compiti e le funzioni di interesse pubblico di
cui all’art. 2, lett. da a) a g), nonché 1), del d.lgs.
26.02.1994, n. 143, ivi compreso il potere di procedere alle
espropriazioni che si rendano necessarie, di tal che la
stessa è pienamente legittimata a delegare, ai sensi
dell’art. 6, comma 8, DPR 327/2001, le funzioni
espropriative a soggetti terzi.
Valga, in proposito, osservare:
a) che l’A.N.A.S. non è soltanto società concessionaria del
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ma soggetto
espressamente individuato dal legislatore a svolgere i
compiti e le funzioni di interesse pubblico di cui all’art.
2, lett. da a) a g), nonché 1), del d.lgs. 26.02.1994, n.
143, ivi compreso il potere di procedere alle espropriazioni
che si rendano necessarie, di tal che la stessa è pienamente
legittimata a delegare, ai sensi dell’art. 6, comma 8, DPR
327/2001, le funzioni espropriative a soggetti terzi, cosi
come è avvenuto con la convenzione stipulata con Autostrade
Meridionali spa (cfr., in proposito, TAR Piemonte, Sez. I,
03.05.2010 n. 2286): con il che non hanno ragion d’essere le
ventilate perplessità in ordine alla competenza ad adottare
i provvedimenti impugnati (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 01.10.2012 n. 1764 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva e piani di
lottizzazione convenzionata.
E' configurabile il reato di lottizzazione abusiva nel caso
in cui i permessi di costruire, destinati a creare nuovi
insediamenti abitativi in una zona in cui il piano
regolatore generale subordina l'attività edificatoria
all'adozione dei piani di lottizzazione convenzionata, siano
stati rilasciati in assenza dei prescritti strumenti
attuativi e difetti la prova della preesistenza e
sufficienza delle opere di urbanizzazione primaria che
avrebbero reso questi ultimi superflui; né il reato può
essere escluso sulla base della semplice preesistenza di
opere di urbanizzazione secondaria (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.09.2012 n. 37399 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Legittimità
diniego di condono edilizio e ordinanza di demolizione di
opere abusive su area demaniale.
E’ legittimo il diniego di condono edilizio e l’ordinanza
sindacale di demolizione per opere realizzate nella zona
portuale su suolo demaniale, consistenti in una struttura in
ferro, alluminio e vetri, occupante una superficie di circa
mq. 150 ed un'altezza di circa m. 3,00, poggiante su una
pedana in cemento e piastrellata. La necessità dell'apposito
titolo edilizio per le opere da eseguirsi dai privati su
aree demaniali era ed è, infatti, espressamente prevista
dall'art. 8, d.P.R. n. 380/2001, nonché implicitamente
riconosciuta dall'art. 55, comma 4, codice della
navigazione.
La mancanza di titolo edilizio del manufatto,
progressivamente realizzato sulla base delle sole
concessioni demaniali, ne comporta la sicura configurazione
come abusivo, ai fini urbanistico-edilizi. Per la
realizzazione di opere sul demanio marittimo occorre
l'autorizzazione prevista dall'art. 54, cod. nav., anche
dopo la delega alle regioni in materia di demanio marittimo
ed il trasferimento ai comuni delle competenze per il
rilascio di concessioni demaniali, atteso che tale
trasferimento di competenze non ha fatto venir meno la
necessità di apposita e specifica autorizzazione, che
concorre con la concessione edilizia, sussistendo due
diverse finalità di tutela: la riserva all'ente locale del
governo e dello sviluppo del territorio in materia di
edilizia relativamente alla concessione ad edificare, la
salvaguardia degli interessi pubblici connessi al demanio
marittimo per quanto attiene all’autorizzazione demaniale.
La sopravvenienza di una normativa vincolistica, rispetto
alla data di esecuzione delle opere abusive (ed anche
rispetto alla data di presentazione della domanda di condono
edilizio), non ne escludeva l’applicabilità in sede di
valutazione della domanda, sia in base ai principi generali
(ratione temporis), sia in base al principio specifico
desumibile dall’art. 32, comma 2, legge n. 47/1985.
Trattandosi di zona vincolata paesisticamente, in virtù del
p.t.p. dei Comuni Vesuviani (D.M. Beni culturali 04.07.2002), è senz’altro da escludere la formazione del
silenzio-assenso, stante la mancanza del parere favorevole
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sulla
compatibilità paesistico-ambientale (tratto da
www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.09.2012 n. 5059
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Legittimità diniego condono e ordine di
demolizione dell’ampliamento dell’autorimessa interrata.
E’ legittimo il diniego per il condono, l’ingiunzione di
demolire la rimessione in pristino della parte di edificio
realizzati abusivamente in ampliamento dell’autorimessa
interrata, realizzata in violazione delle distanze minime
dalla strada stabilite in m. 5,00.
La specifica previsione dell’esclusione della sanabilità
delle opere lesive delle distanze stabilite dagli strumenti
urbanistici locali, deve ritenersi del tutto coerente con la
natura pubblicistica degli interessi coinvolti, in quanto
secondo consolidato orientamento giurisprudenziale di
legittimità le norme degli strumenti urbanistici locali, che
impongono di mantenere le distanze fra fabbricati o di
questi dai confini, a differenza dalle norme sulle distanze
di cui all’art. 873 c.c., dettate a tutela di reciproci
diritti soggettivi dei singoli e miranti unicamente ad
evitare la creazione di intercapedini antigieniche e
pericolose, come tali suscettibili di deroga mediante
convenzione tra privati, non sono derogabili, perché
dirette, più che alla tutela di interessi privati, a quella
di interessi generali e pubblici in materia urbanistica.
A maggior ragione, l’interesse pubblicistico al rispetto
delle distanze è ravvisabile nella disciplina
dell’arretramento delle costruzioni in funzione
dell’osservanza della fascia di rispetto stradale. Infatti,
il vincolo di rispetto stradale ha carattere assoluto, in
quanto persegue una serie concorrente di interessi pubblici
fondamentali ed inderogabili, a prescindere da qualsiasi
accertamento sulla effettiva pericolosità della costruzione
realizzata in sua violazione per il traffico stradale (tratto da www.lexambiente.it - Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.09.2012 n. 5057 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Illegittimità diniego permesso di costruire
fabbricati ad uso agricolo da adibire a magazzino e deposito
di prodotti olivicoli.
E’ illegittimo il diniego del Comune per il rilascio del
permesso di costruire per fabbricati ad uso agricolo da
adibire a magazzino e deposito di prodotti olivicoli.
La
norma urbanistica, laddove consente espressamente
l’effettuazione di interventi edilizi diretti alla
realizzazione degli impianti e servizi necessari alla
silvicoltura o alla olivicoltura, alla migliore
utilizzazione del bosco o dell’oliveto o, comunque, alla
loro conservazione, valorizzazione e sviluppo non può che
avere al centro della propria attenzione tutte le strutture
funzionali alla concreta possibilità di esercitare
l’attività di olivicoltore, che già in punto di principio,
come enucleabile sempre dalla stessa, non è incompatibile
con una destinazione urbanistica agricola tutelata, quale
quella “EOL” prevista dalla strumento urbanistico vigente
del Comune.
Possono definirsi “…attività connesse
all’agricoltura…” (art. 2135 c.c., nel testo introdotto dal D.Lgs.
18.05.2001 n. 228) le attività che, esercitate dal medesimo
imprenditore agricolo, siano dirette alla manipolazione,
conservazione, trasformazione, commercializzazione e
valorizzazione dei prodotti ottenuti prevalentemente dalla
coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di
animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o
servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature
o risorse dell’azienda, normalmente impiegate nell’attività
agricola esercitata, ivi comprese le attività di
valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e
forestale, ovvero di ricezione e di ospitalità, come
definite dalla legge.
La giurisprudenza ha già avuto modo di precisare che la “…attività
connessa…” dell’imprenditore agricolo deve restare
sempre collegata all’attività dal medesimo esercitata in via
principale, mediante un vincolo di strumentalità o
complementarietà funzionale, in assenza del quale essa non
rientra più nell’esercizio normale dell’agricoltura ed
assume, invece, il carattere prevalente od esclusivo
dell’attività commerciale o industriale (tratto da
www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
20.09.2012 n. 5045 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Legittimità
diniego autorizzazione idrogeologica per opere abusive
all’interno di uno stabilimento balneare.
E’ legittimo il diniego dell’autorizzazione idrogeologica
per opere edilizie eseguite abusivamente all’interno di uno
stabilimento balneare.
Il potere di ordinare la rimessione
in pristino di aree soggette a vincolo, nella specie
idrogeologico, compete non soltanto al Comune nel cui
territorio si trova l’area sulla quale è stata realizzata
l’opera abusiva, ma anche all’Autorità preposta al vincolo,
la quale esercita poteri autonomi a tutela degli interessi
pubblici ad essa affidati, onde garantire che lo stesso
vincolo abbia valenza ed effetti sostanziali e non meramente
formali. Ciò perché, ai sensi dell’art. 35 del T.U. n. 380
del 2001, disciplinante gli interventi abusivi realizzati su
suoli di proprietà dello Stato o di enti pubblici: “…Resta
fermo il potere di autotutela dello Stato e degli enti
pubblici territoriali, nonché quello di altri enti
pubblici…”.
Secondo pacifica e condivisibile giurisprudenza
l’eventuale sanatoria di altre opere edilizie
precedentemente realizzate in maniera abusiva, rispetto a
quelle contestate, non condiziona in alcun modo le
valutazioni dell’Amministrazione sulle seconde, essendo le
une autonome e distinte dalle altre e non potendo mai
assumersi a parametro di giustizia atti e fatti comunque
realizzati contra legem (tratto da www.lexambiente.it
- Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.09.2012 n. 5030 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Destinazione d'uso di immobile.
La destinazione d’uso di un immobile non si identifica con
l’impiego che in concreto ne fa il soggetto che lo utilizza,
ma con la destinazione impressa dal titolo abilitativo, e
ciò in quanto la nozione di “uso” urbanisticamente rilevante
è ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile –quale
individuata nel titolo edilizio–, senza che essa possa
essere influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al
contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori (tratto
da www.lexambiente.it -
TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 17.09.2012 n. 566
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Non
si possono mettere limiti alla crescita delle rinnovabili.
No alla previsione di limiti massimi per la produzione di
impianti a fonti rinnovabili fissate da norme regionali in
quanto la produzione di energia avviene in regime di libero
mercato concorrenziale. La legislazione regionale non può
stabilire limiti alla realizzazione degli impianti in quanto
violano le norme di diritto internazionali (protocollo di
Kyoto) e quelle comunitarie (2001/77/Ce) ed è quindi
illegittimo il diniego all'autorizzazione a realizzare gli
impianti.
Questo è il principio espresso dal Consiglio di
Stato, Sez. V, con la
sentenza 10.09.2012 n. 4768.
I
giudici di Palazzo Spada hanno riformato il giudizio di
merito dando ragione alla società ricorrente contro la
Regione Basilicata che aveva negato un'autorizzazione unica
alla costruzione di un impianto eolico di 28 MW poiché erano
stati superati i limiti massimi di potenza autorizzabile
fissati dal Piano energetico regionale.
La normativa varata
dalla Regione Basilicata porta innegabilmente alla chiusura
del mercato della produzione di energia eolica e ciò,
sebbene stabilito con un limite temporale, si manifesta
lesivo di importanti e basilari principi caratterizzanti gli
ordinamenti europeo ed italiano.
La direttiva comunitaria
2001/77/Ce impegna gli Stati membri a promuovere il maggior
contributo delle fonti energetiche rinnovabili, ad adottare
misure appropriate a promuovere l'aumento del consumo di
elettricità da tali fonti. Obbliga gli Stati membri a
ridurre gli ostacoli normativi e di altro tipo all'aumento
di questo tipo di energia. L'art. 1 della direttiva richiama
in primo luogo la necessità di «un maggior contributo delle
fonti energetiche rinnovabili alla produzione di elettricità nel_
mercato interno», mentre l'art. 3 prevede l'adozione da
parte degli Stati membri di misure appropriate atte a
promuovere l'aumento del consumo di elettricità prodotta da
fonti energetiche rinnovabili secondo obiettivi indicativi
nazionali, indicati nello stesso art. 3 nel 12% del consumo
interno lordo di energia entro il 2010.
I regimi di sostegno dei singoli Stati membri devono
comunque promuovere efficacemente l'uso delle fonti
energetiche rinnovabili ed ancor più, soprattutto, andranno
ridotti gli ostacoli normativi e di altro tipo all'aumento
della produzione di elettricità da fonti energetiche
rinnovabili
(articolo ItaliaOggi del 19.10.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA - TRIBUTI: Doppia
tassazione sull'impianto pubblicitario.
L'impianto pubblicitario situato sul suolo pubblico è
sottoposto al pagamento sia dell'imposta sulla pubblicità
che della tassa per l'occupazione degli spazi ed aree
pubbliche.
Con la sentenza
07.07.2012 n. 13476 la
Corte di Cassazione ha profondamente modificato il proprio
orientamento sull'alternatività dei due tributi sullo stesso
impianto.
L'orientamento giurisprudenziale precedente afferma che gli
impianti pubblicitari sono soggetti alla sola imposta di
pubblicità in quanto gli stessi debbono necessariamente
occupare una parte del suolo pubblico. Essendo installato al
suolo, per la sua stessa esistenza, origina un'occupazione
di suolo in via permanente, ma il carattere di specialità
della pubblicità per impianti rispetto al genere
dell'occupazione di qualsiasi natura, determina una
prevalenza dell'imposta sulla tassa.
La tesi dell'assorbimento, portata avanti dalla Suprema
corte con la sentenza n. 17614 del 2004, ha determinato, per
gli enti locali, sia una riduzione delle entrate comunali
sia conseguenze finanziarie, derivanti dalle richieste di
rimborso della Tosap versata dagli operatori commerciali in
aggiunta all'Icp.
Nella sentenza in commento, l'interpretazione letterale
dell'articolo 9, comma 7, del dlgs n. 507/1993:
l'applicazione dell'imposta sulla pubblicità non esclude
quella della tassa per l'occupazione di spazi ed aree
pubbliche nonché il pagamento di canoni di locazione o di
concessione, ha spinto la Corte di cassazione a discostarsi
dal consolidato orientamento e a riconoscere la
sottoposizione dell'impianto pubblicitario sia all'imposta
sulla pubblicità, che alla tassa per l'occupazione degli
spazi ed aree pubbliche. Il tenore letterale della
disposizione è chiaro e la precedente giurisprudenza di
legittimità non aveva tenuto conto del citato, ineludibile,
dato testuale.
La sottoposizione contemporanea ad entrambi i tributi non
determina l'ipotesi, vietata, della doppia imposizione, in
quanto l'Icp ha oggetto diverso dalla Tosap e hanno come
presupposto impositivo, rispettivamente, il mezzo
pubblicitario disponibile e la sottrazione dello spazio
pubblico all'uso generalizzato. Nelle rispettive normative
non vi è, pertanto, alcuna alternatività tra le due
imposizioni
(articolo ItaliaOggi del 19.10.2012). |
APPALTI SERVIZI: Requisiti
rigidi per le entrate locali.
È legittimo l'affidamento diretto del servizio di
accertamento e riscossione delle entrate a una società
pubblica da parte dei comuni che sono soci di minoranza, se
esercitano congiuntamente il necessario controllo analogo. A
patto, però, che la società non abbia o acquisisca una
vocazione commerciale che rende difficoltoso il controllo
dell'ente pubblico.
Lo ha affermato il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, con la
sentenza
31.05.2012 n. 380.
Secondo i giudici amministrativi, è consentito l'affidamento
senza gara poiché dalla lettura dello statuto della società
pubblica «emerge con nettezza la sussistenza, in capo ai
comuni soci, di effettivi poteri in grado di limitare in
modo determinante i poteri degli organi di gestione e
amministrazione della società». Del resto, l'oggetto sociale
è la gestione di servizi strumentali a favore degli enti
locali soci, ai quali è riservata anche la nomina dei membri
del consiglio di amministrazione. Inoltre, una norma
statutaria impone che la totalità del capitale sociale debba
essere pubblica.
Tuttavia, come posto in rilievo nella
motivazione della sentenza, requisito essenziale è che la
società non svolga un'attività commerciale che ne renderebbe
più difficoltoso il controllo da parte dell'ente pubblico.
Per il Tar è legittimo l'affidamento in house del servizio
di accertamento e riscossione spontanea delle entrate del
comune alla propria società strumentale, mediante
convenzione, in base all'articolo 7, comma 2, lett. gg-ter)
e gg-quater) del dl 70/2011, che nel testo in vigore al
momento dell'affidamento stabiliva che i comuni potessero
riscuotere le proprie entrate solo direttamente o tramite
società interamente pubblica. Era escluso l'affidamento ai
concessionari iscritti all'albo ministeriale.
In seguito alle modifiche apportate alla norma non è più
previsto l'obbligo di riscuotere direttamente le entrate
spontanee o volontarie. L'articolo 5, comma 8-bis, del dl
semplificazioni fiscali (16/2012), in sede di conversione in
legge (44/2012), infatti, ha disposto che i concessionari
possono continuare a riscuotere le entrate dei comuni, sia
tributarie che extratributarie, e le somme devono essere
versate su uno o più conti correnti, postali o bancari,
intestati al soggetto affidatario e dedicati alle entrate
dell'ente.
Il riversamento va effettuato sul conto corrente di
tesoreria, al netto dell'aggio e delle spese anticipate dal
concessionario, entro la prima decade di ogni mese con
riferimento alle somme accreditate nel mese precedente
(articolo ItaliaOggi del 19.10.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 18.10.2012 |
ã |
NOVITA' NEL
SITO |
● inserito il bottone del nuovo
dossier INCARICHI LEGALI e/o RESISTENZA
IN GIUDIZIO |
● inserito il bottone del nuovo
dossier PERGOLATO e/o GAZEBO e/o BERCEAU |
● inserito il bottone del nuovo
dossier PERMESSO DI COSTRUIRE (volturazione) |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
EDILIZIA
PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 42 del 18.10.2012, "Determinazioni
in ordine alla d.g.r. 2727/2011 “Criteri e procedure per
l’esercizio delle funzioni amministrative in materia di beni
paesaggistici in attuazione della legge regionale
11.03.2005, n. 12" (deliberazione
G.R. 10.10.2012 n. 4138). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA: B.U.R. Lombardia,
serie ordinaria n. 42 del 18.10.2012, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2000, n. 1, dell’elenco dei “Tecnici competenti” in
acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia
alla data del 30.09.2012, in attuazione dell’articolo 2,
commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della
deliberazione 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato
regionale 10.10.2012 n. 104). |
SINDACATI |
PUBBLICO
IMPIEGO:
DICHIARATA DALLA CORTE COSTITUZIONALE L’ILLEGITTIMITA’
DELLA TRATTENUTA DEL 2,50% SULL’INDENNITA’ DI BUONUSCITA
(CSA di Milano,
nota 16.10.2012). |
AUTORITA'
VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI:
BANDO- TIPO. Indicazioni generali per la redazione dei
bandi di gara ai sensi degli articoli 64, comma 4-bis e 46,
comma 1-bis, del Codice dei contratti pubblici (determinazione
10.10.2012 n. 4 -
link a www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI: Contratti.
Il servizio recupererà antimafia, Durc e altri documenti al
posto di imprese e Pa.
Appalti, certificati snelli. Santoro (Autorità): da gennaio
banca dati per il 10% delle gare
COLLABORAZIONI DIFFICILI/ Fatte le convenzioni con Camere di
Commercio e Inps. Mancano ancora quelle con Interni,
Giustizia, Inail e Agenzia delle entrate.
Partenza a scaglioni per la banca dati
nazionale dei contratti pubblici. La rivoluzione attesa per
il primo gennaio 2013 -niente più carta, né rincorsa tra gli
uffici per andare a caccia dei documenti necessari per
partecipare alle gare- sarà obbligatoria solo per un 10%
delle imprese e delle amministrazioni coinvolte nel mercato
degli appalti pubblici.
L'annuncio viene direttamente dal presidente dell'Autorithy
di vigilanza sui contratti pubblici, Sergio Santoro, a
caccia di una strategia per far sì che un servizio ad alto
tasso di semplificazione non si trasformi in una zeppa
capace di mandare in tilt il mercato. In questa chiave,
Santoro ha firmato pure il bando-tipo (determinazione
10.10.2012 n. 4):
un documento fondamentale per rendere meno arbitrari i
comportamenti delle stazioni appaltanti.
«È una misura anti-corruzione e pro-concorrenza –spiega-.
Limiterà la prassi dei bandi scritti ad hoc per favorire
qualcuno, escludendo imprese che avrebbero i titoli per
partecipare alla gara». Le stazioni appaltanti che non
si atterranno alle regole, dovranno motivare le scelte e
potranno essere "denunciate" all'Antitrust
dall'Autorità.
La banca dati nazionale dei contratti pubblici è in realtà
un vero servizio di semplificazione per imprese e stazioni
appaltanti. Introdotta nel codice appalti dal decreto legge
5/2012 sulle semplificazioni, prevede che «dal 01.01.2013,
la documentazione comprovante il possesso dei requisiti di
carattere generale, tecnico-organizzativo ed
economico-finanziario per la partecipazione» alle gare di
lavori, servizi e forniture sia acquisita tramite il
servizio informatico istituiti presso l'Autorità.
Il servizio «Avcpass» -si chiamerà così- permetterà alle
stazioni appaltanti di verificare il possesso dei requisiti
delle imprese -dal certificato antimafia alla regolarità
della posizione fiscale e contributiva, dalla qualificazione
Soa al possesso dei certificati di qualità- semplicemente
collegandosi al sito dell'Autorità. Un lavoro di non poco
conto considerando che intorno agli appalti gravita una
galassia di 38 mila amministrazioni che nel 2011 hanno
prodotto 1.243.000 procedure di gara.
«Partire di colpo, tutti insieme, il 01.01.2013
comporterebbe uno strappo insopportabile per il mercato
-sottolinea Santoro-. Per questo restringiamo l'obbligo di
svolgere le gare con l'appoggio del servizio Avcpass solo al
10% degli operatori, delle stazioni appaltanti e dei
contratti che però rappresenteranno il 75% del valore degli
importi». Per gli altri l'Autorità immagina un percorso
di avvicinamento a tappe progressive trimestrali che si
concluderà con l'obbligatorietà per tutti dal 01.01.2014. A
gestire il servizio Avcpass -per un controvalore di 20.7
milioni per tre anni- sarà uno degli operatori delle tlc che
hanno risposto alla gara bandita dall'Autorità a luglio e
scaduta lo scorso 12 ottobre.
Prima di partire bisognerà però ottenere il via libera del
garante della privacy sulla metodologia di acquisizione e
gestione dei dati forniti dalle imprese. Poi bisognerà
portare a termine le otto convenzioni che serviranno a
riempire di contenuto la banca-dati. Al momento sono state
firmate quelle con le Camera di Commercio (bilanci e
composizione dei cda) e con l'Inps. Sono in corso di
definizione le convenzioni con Accredia (certificazione di
qualità), Inarcassa (posizione contributiva di architetti e
ingegneri), Inail (Durc), ministero degli Interni
(certificato antimafia), ministero della Giustizia
(casellario giudiziario) e Agenzia delle Entrate (regolarità
fiscale). Su questo punto l'Autorità invita alla
collaborazione.
«È un compito molto difficile far dialogare i diversi
sistemi –dice Santoro– ma immaginate che tipo di servizio
potremmo offrire sostituendoci a tutti gli adempimenti che
prima rimanevano in capo agli operatori privati. Una
rivoluzione, che andrebbe estesa ad altri campi: penso al
fisco».
Gelidi i commenti sull'obbligo di sottoscrivere una
convenzione con l'Economia prevista dal Ddl stabilità. «Vediamo
cosa succederà in Parlamento -è la risposta-. La banca dati
è un “autobus normativo” di tale complessità per cui il
conducente non può che essere unico»
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.10.2012
- link a www.ecostampa.it). |
APPALTI: Trasparenza.
Più difficili le gare «mirate». Al via il bando-tipo regole
uguali per tutti.
LA SVOLTA/ Tassative le motivazioni per
escludere un'impresa: per le Pa che non si adeguano
possibile «denuncia» all'Antitrust.
Sergio Santoro la definisce una misura «moralizzatrice»,
che assume «particolare rilevanza nel momento in cui in
Parlamento si discute di regole anti-corruzione». Di certo
il bando tipo firmato ieri dal presidente dell'Autorità
prova a dare un indirizzo univoco alle stazioni appaltanti,
nel tentativo di “standardizzare” le procedure di
gara e favorire la massima partecipazione delle imprese.
Da oggi, la
determinazione 10.10.2012 n. 4,
con le «indicazioni generali per la redazione dei bandi
di gara ai sensi degli articoli 64-bis e 46, comma 1-bis del
Codice dei contratti pubblici» è operativa (e
scaricabile dal sito di Edilizia e Territorio). Rispetto
alla bozza messa in consultazione lo scorso luglio ci sono
delle novità. Non nella impostazione generale della
determinazione.
L'obiettivo rimane quello di «ridurre il potere
discrezionale della stazione appaltante», limitando «le
numerose esclusioni che avvengono sulla base di elementi
formali e non sostanziali, con l'obiettivo di assicurare il
rispetto del principio della concorrenza e di ridurre il
contenzioso negli appalti». Non cambia neppure il numero
complessivo delle cause di esclusione espressamente indicate
da Via Ripetta: sono circa un'ottantina e vanno considerate
«tassative».
La novità principale riguarda l'ulteriore giro di vite sulla
possibilità che le stazioni appaltanti compiano scelte
diverse da quelle indicate nel bando-tipo. Le deroghe,
intese come «la previsione di ulteriori ipotesi di cause
di esclusione», scrive l'Autorità, devono esse «motivate
espressamente» ed esplicitate «nella delibera a
contrarre». Non si può comunque andare oltre i confini
previsti dalle norme che prevedono soltanto tre tipologie
generali di cause di esclusione: gli adempimenti previsti
dal Codice dei contratti (Dlgs 163/2006) e dal suo
regolamento attuativo (Dpr 207/2010), la carenza di elementi
essenziali dell'offerta, le irregolarità relative agli
adempimenti formali di partecipazione alla gara.
Da parte sua la determinazione –in tutto 49 pagine- prova a
fornire un elenco il più possibile dettagliato, distinguendo
i comportamenti da punire con il cartellino rosso, dagli
errori veniali, magari sanabili in corso di gara, con
integrazioni alla documentazione. Tra gli esempi forniti da
Via Ripetta nel bando-tipo il blocco più numeroso riguarda
la carenza di requisiti, ma non sono poche neppure le
violazioni formali -come la mancata presentazione del
documento di identità in allegato alle dichiarazioni
sostitutive- che possono comportare l'estromissione dalla
competizione.
Definite le regole generali, con l'indicazione delle cause
di esclusione da considerare tassative, il lavoro
dell'Autorità si concentra ora sulla messa a punto dei
bandi-tipo per categorie di appalti. In fase avanzata di
lavorazione ci sono modelli relativi ai lavori pubblici e ai
servizi di progettazione. Arriverà uno standard anche per i
bandi che prevedono la realizzazione di opere pubbliche con
l'apporto di capitali privati, come nel caso del project
financing o del leasing in costruendo.
L'obiettivo finale è realizzare una sezione del sito
dell'Autorità nella quale le stazioni appaltanti potranno
scaricare un bando -già pronto e a prova di ricorso-
semplicemente indicando le coordinate fondamentali
dell'attività da affidare. «Per chi non si adeguerà
potranno scattare i ricorsi all' Autorità Antitrust
-annuncia il presidente Santoro-. Tra qualche mese trarremo
i primi bilanci»
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.10.2012
- link a www.ecostampa.it). |
QUESITI &
PARERI |
EDILIZIA
PRIVATA:
Costruzioni sul suolo pubblico
Domanda
Quali sono le conseguenze nell'ipotesi in cui si effettuino
costruzioni sul suolo pubblico?
Risposta
L'art. 35, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, con riferimento a
tutte le opere realizzate su aree e terreni di proprietà
pubblica (Stati o Enti Pubblici in genere), prevede
l'adozione dell'ordinanza di demolizione e di ripristino
dello stato dei luoghi.
L'ordinanza di demolizione e di ripristino se, da un lato,
si configura come unico e doveroso provvedimento
sanzionatorio, dall'altro, costituisce circostanza idonea ad
escludere in radice non solo ogni possibilità di sanatoria,
ma anche la stessa sussistenza dell'obbligo di provvedere su
tale istanza, in quanto manifestamente inammissibile e
infondata.
Tale disciplina, differente rispetto a quella
ordinaria dettata dall'art. 31 del T.U. dell'Edilizia e che
non prevede l'irrogazione di sanzioni pecuniarie, trova la
sua giustificazione nella peculiare gravità della condotta
sanzionata, che riguarda la costruzione di opere abusive su
suoli pubblici (16.10.2012 - tratto da www.ipsoa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Come
si rinnova l’Autorizzazione Unica Ambientale?
(15.10.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Può
essere disposto un veto regionale all’istallazione di
depositi di materiali radioattivi? (15.10.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Come
è disciplinata l’attività di raccolta e trasporto dei
rifiuti in forma ambulante?
(15.10.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
APPALTI:
Definizione di arbitrato
Domanda
In cosa differiscono arbitrato rituale e irrituale?
Risposta
L'arbitrato rituale e irrituale sono istituti del tutto
distinti la cui differenza è segnata dall'art. 808-ter cpc
il quale dispone che le parti possano stabilire, con
disposizione espressa per iscritto, che la controversia sia
definita dagli arbitri mediante determinazione contrattuale.
Questa previsione diverge dunque da quanto disposto dal
riformato art. 824-bis cpc, che invece attribuisce al lodo
gli effetti della sentenza pronunciata dall'autorità
giudiziaria. Si parlerà in quest'ultimo caso di arbitrato
rituale.
La principale differenza tra i due istituti non risiede
tanto nella fonte, in entrambi i casi l'accordo libero delle
parti e dunque una loro libera scelta, quanto nella natura
della decisione finale resa dagli arbitri. Inoltre, a un
patto compromissorio irrituale non potranno ricondursi tutta
quella serie di effetti che derivano dalla previsione di un
arbitrato rituale, primo fra tutti l'incompetenza del
giudice statale a conoscere della lite oggetto
dell'arbitrato. In definitiva, l'arbitrato irrituale sembra
sostanziarsi in una forma di collaborazione tra le parti
coadiuvata dall'intervento di un terzo, alla quale non sono
riconducibili effetti processuali.
La natura poi di arbitrato rituale o irrituale non incide
sulla qualifica dell'arbitrato come «ad hoc» o «amministrato»,
«di diritto» o «di equità», nozioni queste che mi
pare siano già state chiarite proprio in questa sede (articolo ItaliaOggi
Sette del 15.10.2012). |
APPALTI:
Lodo arbitrale
Domanda
Non sono soddisfatto della decisione resa dagli arbitri nei
miei confronti. Posso impugnare il lodo?
Risposta
Per rispondere alla sua domanda è necessario fare
riferimento ai mezzi di impugnazione ai quali è soggetto il
lodo, individuati dal legislatore all' art. 827 cpc
(impugnazione per nullità, revocazione e opposizione di
terzo) e in particolare all'impugnazione per nullità di cui
all'art. 829 cpc, che rimane a oggi il principale mezzo di
impugnazione del lodo rituale. Questa disciplina peraltro è
stata modificata in modo sostanziale dal dlgs 40/06 con il
fine di accrescere la stabilità del lodo, limitando il
controllo su di esso da parte del giudice dello stato.
Dalla lettura dei motivi di impugnazione per nullità si
evince che questo gravame non è stato pensato dal
legislatore come un secondo grado di giudizio. Infatti, i
motivi di impugnazione sono circoscritti a ipotesi di vizi
particolarmente invalidanti per il lodo che non
consentiranno in ogni caso al sindacato del giudice di
estendersi anche all'analisi del merito della controversia.
E infatti da una parte, l'art. 829, comma 1°, individua una
serie di casi di impugnazione per errores in procedendo
mentre, dall'altra, il comma 2° dello stesso articolo
estende il gravame agli errores in iudicando
(violazione delle regole di diritto). Anche in quest'ultimo
caso però, si tratta di ipotesi di impugnazione estremamente
circoscritte che avranno a oggetto non l'errore degli
arbitri, inteso come processo valutativo, ma direttamente il
contenuto della decisione stessa (articolo ItaliaOggi
Sette del 15.10.2012). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI -
SEGRETARI COMUNALI:
Segreteria comunale in Unione.
La Corte dei Conti, sezione regionale controllo Piemonte, con
il
parere 12.10.2012 n. 304,
risponde da un ente con popolazione inferiore a 1000
abitanti "circa la possibilità ... di gestire il servizio di
Segreteria Comunale in forma associata, trasferendo il
relativo servizio all'Unione di Comuni di cui fa parte, a
condizione che il Segretario dell'Unione sia iscritto
all'Albo dei Segretari Comunali e Provinciali".
La sezione passa in rassegna le norme che impongono agli
enti di minori dimensioni la gestione, in convenzione o
mediante Unione delle, funzioni fondamenti e i tempi di
attuazione di dette disposizioni e, conseguentemente ricorda
i seguenti principi:
- obbligatorietà per gli enti di gestire le funzioni
fondamenti che sono individuate dall'art. 14, comma 27, del
d.l. 78/2010, convertito in legge n. 122/2010, come
modificato dal d.l. 95/2012, convertito in legge n.
135/2012;
- esercizio obbligatorio in forma associata, mediante Unione
o convenzione, delle funzioni fondamentali per gli enti con
popolazione fino a 5000 abitanti ed obbligo, per ciascuna
funzione, di utilizzo di una sola forma associativa;
- facoltà per gli enti con popolazione fino a 1000 abitanti
di esercitare tutte le funzioni in forma associata, mediante
Unione.
Successivamente riprende le disposizioni del TUEL che
riguardano la figura del Segretario Comunale: figura
specifica, organo monocratico e funzioni appositamente
disciplinate dal testo unico; dipendenza funzionale dal
Sindaco; configurazione di una distinta e specifica funzione
amministrativa fondamentale per l'ente.
Passando, poi, all'esame del quesito, formula le seguenti
osservazioni:
"Tale funzione (quella del Segretario), nell'ambito
dell'elencazione delle funzioni fondamentali contenuta
nell'art. 14, comma 27, del D.L. n. 78/2010, conv. nella L.
n. 122/2010, appare riconducibile alla fattispecie sub lett.
a) ('organizzazione generale dell'Amministrazione, gestione
finanziaria e contabile e controllo'), ma non esaurisce di
per sé l'intera categoria di cui alla lett. a) citata, che,
al contrario, ricomprende altre funzioni oggettivamente ed
amministrativamente distinte. ... In quest'ottica, è
indubbio che la Segreteria Comunale, attenenendo ad una
distinta e specifica funzione amministrativa fondamentale,
possa essere oggetto di una gestione associata, tramite
convenzione o, come indicato nella richiesta di parere in
esame, tramite Unione di Comuni.
Le disposizioni sopra
citate vietano anche l'eventualità che la medesima funzione
sia oggetto di più di una forma associativa, con conseguente
duplicazione di spese. Sotto questo profilo, la Sezione
osserva che il divieto menzionato deve essere riferito, nel
caso di specie, alla singola specifica funzione di
Segreteria comunale conferita in forma associata, e non alla
complessiva fattispecie a) del citato art. 14, comma 27, che
ricomprende una pluralità di funzioni amministrative tra
loro distinte, secondo una logica classificatoria di tipo giuridico-finanziario, analoga a quella sottostante alla
classificazione già contenuta nel D.P.R. n. 194/1996.
Pertanto, fermo restando l'obbligo della gestione associata
di tutte le funzioni fondamentali, se da un lato non risulta
precluso l'affidamento, alla medesima Unione di Comuni,
della Segreteria comunale insieme a tutte le altre funzioni
ricomprendibili nella fattispecie sub a) (già funzione 01,
prevista dal D.P.R. n. 194/1996, denominata 'Funzioni
generali di amministrazione, di gestione e di controllo'),
dall'altro lato non risulta neppure precluso l'affidamento
disgiunto, tramite diverse soluzioni associative, della
Segreteria comunale rispetto alle altre funzioni includibili
nella fattispecie a), purché non si abbia un'effettiva
duplicazione delle singole funzioni individuali.
Spetta
all'Ente, valutare, nella propria autonomia decisionale, le
modalità organizzative ottimali al fine di raggiungere gli
obiettivi di maggior efficienza, razionalizzazione e
risparmio che il legislatore ha inteso conseguire prevedendo
l'esercizio associato di funzioni (sul punto cfr. anche la deliberaz.
di questa Sezione n. 287/2012)" (tratto da www.publika.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Sul
“doppio incarico” di posizione organizzativa e sulla
elevazione del tetto della retribuzione di posizione (da
12.911,42 a 16.000,00 euro) e di risultato (dal 20% al 30%).
...
Con la richiamata nota il Sindaco del Comune di
Roccamontepiano (CH) sottopone al parere della scrivente
Sezione un quesito in ordine alle posizioni organizzative a
tempo parziale.
In particolare, il Sindaco ha chiesto:
1. Se la disposizione in merito alle posizioni organizzative
a tempo parziale contenute nel comma 2 bis dell’art. 4 del
CCNL del 14.9.2000, così come inserito dall’art. 11 del CCNL
22.1.2012, si riferisca al personale che svolge un’attività
privata al di fuori del rapporto di lavoro con una pubblica
amministrazione;
2. Se, in una fattispecie ricadente nella previsione di cui
al comma 1 ma non anche in quella di cui al comma 4
dell’art. 14 del CCNL 22/1/2004, il lavoratore, il quale sia
incaricato di una posizione organizzativa nell’ente di
appartenenza, ma non anche in quello di utilizzazione, possa
continuare a percepire il medesimo importo annuale relativo
alla retribuzione di posizione, in godimento nel periodo
antecedente la stipula della convenzione.
...
Nel merito della fattispecie in esame, va preliminarmente
ricordato che secondo quanto statuito dal Testo Unico degli
Enti Locali D.Lgs. n. 267/2000 all’art. 30 “al fine di
svolgere in modo coordinato funzioni e servizi determinati,
gli enti locali possono stipulare tra loro apposite
convenzioni”.
L’art. 32 del TUEL, invece, stabilisce che “le unioni di
comuni sono enti locali costituiti da due o più comuni di
norma contermini, allo scopo di esercitare congiuntamente
una pluralità di funzioni di loro competenza”. Insieme a
queste due modalità di gestione delle realtà comunali
associate, le esigenze organizzative degli enti di ridotte
dimensioni demografiche sono state affrontate in passato
mediante il sistema del cosiddetto “scavalco”,
mutuato dall’ordinamento dei Segretari comunali. I piccoli
comuni, cioè, utilizzavano a diverso titolo e a tempo
parziale dipendenti di altri enti. Ciò avveniva spesso al di
fuori di qualunque convenzione tra gli enti, con una
semplice autorizzazione dell’ente di provenienza.
Una delle innovazioni di maggior rilievo del CCLN 22-01-2004
è stata, proprio quella di mettere ordine a questa realtà
frammentata e ibrida, introducendo anche strumenti concreti
per incentivare, secondo lo spirito della legge, le
iniziative associative dei comuni.
In particolare, nell’art. 4 del CCNL del 14.09.2000, dopo il
comma 2 è stato inserito il comma 2-bis il quale ha
espressamente previsto: “I comuni privi di dirigenza, in
relazione alle specifiche esigenze organizzative derivanti
dall’ordinamento vigente, individuano, se necessario ed
anche in via temporanea, le posizioni organizzative che
possono essere conferite anche al personale con rapporto a
tempo parziale di durata non inferiore al 50% del rapporto a
tempo pieno. Il principio del riproporzionamento del
trattamento economico trova applicazione anche con
riferimento alla retribuzione di posizione”.
La disposizione de qua si riferisce, pertanto, al
personale “assegnato da altri enti” , cui si applica
lo stesso CCNL, essendo del tutto ininfluente se lo stesso
personale svolge anche un’attività privata al di fuori del
rapporto di lavoro con una pubblica amministrazione.
L’art. 14 del predetto CCNL, poi, prevede che, al fine di
soddisfare la migliore realizzazione dei servizi
istituzionali e di conseguire una economica gestione delle
risorse, gli enti locali possono utilizzare, con il consenso
dei lavoratori interessati, personale assegnato da altri
enti (cui si applica lo stesso CCNL) per periodi
predeterminati e per una parte del tempo di lavoro d’obbligo
mediante convenzione e previo assenso dell’ente di
appartenenza.
La convenzione definisce, tra l’altro, il tempo di lavoro in
assegnazione, nel rispetto del vincolo dell’orario
settimanale d’obbligo, la ripartizione degli oneri
finanziari e tutti gli altri aspetti utili per regolare il
corretto utilizzo del lavoratore. La utilizzazione parziale,
che non si configura come rapporto di lavoro a tempo
parziale, è possibile anche per la gestione dei servizi in
convenzione.
Il rapporto di lavoro del personale utilizzato, ivi compresa
la disciplina sulle progressioni verticali e sulle
progressioni economiche orizzontali, è gestito dall’ente di
provenienza, titolare del rapporto stesso, previa
acquisizione dei necessari elementi di conoscenza da parte
dell’ente di utilizzazione.
Il citato art. 14 al comma 4 prevede che i lavoratori
utilizzati a tempo parziale possano essere anche incaricati
della responsabilità di una posizione organizzativa
nell’ente di utilizzazione o nei servizi convenzionati di
cui al comma 7; il relativo importo annuale, indicato nel
comma 5, è riproporzionato in base al tempo di lavoro e si
cumula con quello eventualmente in godimento per lo stesso
titolo presso l’ente di appartenenza che subisce un
corrispondente riproporzionamento. Al personale utilizzato
compete, ove ne ricorrano le condizioni e con oneri a carico
dell’ente utilizzatore, il rimborso delle sole spese
sostenute nei limiti indicati nei commi 2 e 4 dell’art. 41
del CCNL del 14.09.2000.
La disciplina dei commi 4, 5 e 6 trova applicazione anche
nei confronti del personale utilizzato a tempo parziale per
le funzioni e i servizi in convenzione ai sensi dell’art. 30
del D.Lgs. n. 267 del 2000. I relativi oneri sono a carico
delle risorse per la contrattazione decentrata dell’ente di
appartenenza, con esclusione di quelli derivanti dalla
applicazione del comma 6.
In proposito si deve ricordare che, in base ai commi 3 e 7,
del suddetto art. 14, al personale utilizzato a tempo
parziale per funzioni e servizi in convenzione è possibile
riconoscere particolari forme di incentivazione (nell’ambito
dei trattamenti accessori disciplinati dall’art. 17 del CCNL
dell’01.04.1999, che devono ritenersi gli unici consentiti)
con oneri a carico delle risorse decentrate dell’ente di
appartenenza, in considerazione della specifica condizione
di questo personale che viene utilizzato in parte presso
l’ente di appartenenza e in parte presso il servizio in
convenzione.
L’eventuale riconoscimento di queste forme di incentivazione
non ha, quindi, carattere di obbligatorietà ma è meramente
eventuale e dipenderà dalle autonome valutazioni della
contrattazione decentrata e, naturalmente, dalla
disponibilità delle relative risorse finanziarie.
In base alla medesima disciplina contrattuale (art. 14,
commi 4 e 7, del CCNL del 22.1.2004) il dipendente, che sia
già titolare di posizione organizzativa presso l’ente di
appartenenza, può essere incaricato anche di altra posizione
organizzativa nell’ambito del servizio in convenzione.
In proposito, tuttavia, occorre precisare che la più
favorevole disciplina per il lavoratore incaricato di
posizione organizzativa, in materia di retribuzione di
posizione e di risultato, con la elevazione del valore
massimo del primo compenso fino a € 16.000 e del secondo
fino ad un massimo del 30%, nei casi di personale utilizzato
a tempo parziale presso l’ente di appartenenza e nell’ambito
di servizi in convenzione, trova applicazione solo in
presenza di due incarichi diversi e distinti: l’uno
attribuito dall’ente di appartenenza e l’altro presso
il servizio in convenzione.
Tale disciplina, infatti, si fonda sull’assunto che solo la
coesistenza di due incarichi diversi e distinti può creare
oggettivamente una condizione di maggiore gravosità del
lavoratore, utilizzato su due diverse e distinte posizioni
di lavoro (o sedi), rispetto a quella del lavoratore che
fruisce di un solo incarico. Se, invece, al di fuori di tale
particolare ipotesi, al lavoratore sia affidato un solo
incarico di posizione organizzativa, presso l’ente che lo
utilizza a tempo parziale o nell’ambito di un servizio in
convenzione, l’importo annuale della retribuzione di
posizione e di quella di risultato saranno quelli
ordinariamente previsti per la posizione organizzativa,
sulla base delle previsioni contrattuali (art. 10 ed 11 del
CCNL del 31.03.1999);
In ogni caso, l’importo annuale della retribuzione di
posizione previsto per la posizione organizzativa, affidata
nell’ambito del servizio in convenzione, deve essere
riproporzionato in relazione alla durata del tempo di lavoro
stabilito per la prestazione da rendere nel servizio in
convenzione stesso. Analogo riproporzionamento dovrà essere
operato anche presso l’ente di appartenenza del lavoratore,
relativamente all’incarico di posizione organizzativa di cui
è titolare presso lo stesso; infatti, anche in questo caso,
il lavoratore è chiamato a rendere una prestazione
quantitativamente ridotta; pertanto, la retribuzione di
posizione erogata al dipendente dovrà essere ridotta
rispetto al valore ordinariamente assegnato alla stessa (non
come valore riconosciuto a titolo personale, ma come importo
predefinito in base ai criteri di pesatura di ogni posizione
roganizzativa), sulla base dei criteri a tal fine adottati
dall’ente, ai sensi dell’art. 10 del CCNL del 31.03.1999, in
relazione al minore impegno lavorativo (rispetto alla misura
minima delle 36 ore) che viene richiesto al dipendente
utilizzato cui viene affidata la titolarità della posizione
organizzativa.
Se al lavoratore, titolare di posizione organizzativa presso
l’ente, non sarà affidato altro incarico di posizione
organizzativa presso il servizio in convenzione, non potrà
trovare applicazione la più favorevole disciplina dell’art.
14, comma 5, che, come sopra detto, in materia di
retribuzione di posizione e di risultato, consente la
elevazione del valore massimo del primo compenso fino a
16.000 € e del secondo fino ad un massimo del 30%.
Inoltre, in questa particolare situazione, se il dipendente,
titolare di posizione organizzativa presso l’ente di
appartenenza, oltre a continuare a rendere la sua
prestazione presso lo stesso, è, allo stesso tempo,
utilizzato, solo parzialmente, nell’ambito del servizio in
convenzione (senza il conferimento di una seconda posizione
organizzativa), lo stesso può percepire i trattamenti
accessori ordinariamente previsti per la generalità del
personale non titolare di P.O. ivi compresi i compensi per
lavoro straordinario, addetto al servizio in convenzione.
Naturalmente, l’importo della retribuzione di posizione in
godimento presso l’ente di appartenenza dovrà essere
riproporzionato in relazione alla minore durata della
prestazione lavorativa, dato che necessariamente parte del
tempo di lavoro è dedicata al servizio dell’ente
utilizzatore.
Nell’interpretazione della norma contrattuale anche l’ARAN,
in risposta a un quesito posto sull’argomento (n. 104-14A3),
ha ritenuto che la ratio dell’elevazione del tetto
della retribuzione di posizione (da 12.911,42 a 16.000,00
euro) e di risultato (dal 20% al 30%) sia quella di
compensare la “maggiore gravosità del lavoratore”
utilizzato su due diverse e distinte posizioni di lavoro (o
sedi) in virtù di due incarichi diversi e distinti; l'uno
attribuito dall'ente di appartenenza e l'altro
nell'ambito dell’ente o servizio di utilizzazione.
Pertanto, una volta che il dipendente riceve il “doppio
incarico” di posizione organizzativa, gli enti possono
stabilire, in base ai da essi criteri adottati, il valore
della retribuzione di posizione riproporzionando l’importo
in relazione alla entità della prestazione lavorativa svolta
a favore dell’uno e dell’altro ente, a condizione di non
superare il tetto “complessivo” dei 16.000 euro (Corte dei Conti,
Sez. controllo Abruzzo,
parere 10.09.2012
n. 344). |
NEWS |
EDILIZIA
PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: CONSIGLIO
DEI MINISTRI/ Edilizia, il silenzio non ha valore.
Se ci sono vincoli l'inerzia del comune non vale come
rifiuto. Approvato il ddl con nuove
semplificazioni per cittadini e imprese.
Eliminato il silenzio rifiuto sul permesso di costruire in
caso di vincoli; semplificata la procedura per l'adeguamento
degli strumenti urbanistici; ammesse agli appalti le imprese
che hanno sottoscritto un contratto di rete, ridotta al 20%
la quota delle garanzie non svincolabili fino al collaudo
dell'opera pubblica; possibile lo svincolo delle garanzie di
buona esecuzione rese dalla imprese di costruzioni per le
opere in esercizio da almeno un anno e non ancora
collaudate.
Sono queste alcune delle novità previste nel disegno di
legge sulla semplificazione approvato dal Consiglio dei
ministri di ieri, che conferma molte delle norme che erano
state messe a punto nelle scorse settimane. Fra le modifiche
apportate nell'ultima versione si segnala la scomparsa della
norma sulla qualificazione delle imprese di costruzioni
operanti nell'ambito della categoria Og 11 (impianti
tecnologici) che avrebbe ridotto le percentuali di possesso
dei requisiti nelle categorie Os 3, impianti idrici, Os 28,
impianti termici e Os 30, impianti elettrici e telefonici,
rendendo più facile la qualificazione.
Viene invece confermata la norma sull'eliminazione del
silenzio rifiuto sul permesso di costruire per inerzia del
comune in relazione all'adozione del provvedimento
conclusivo del procedimento di rilascio del permesso di
costruire, quando esiste un vincolo ambientale,
paesaggistico o culturale. Con la modifica apportata dal
disegno di legge il governo richiede comunque che vi sia un
provvedimento espresso, derubricando il «silenzio»
dell'amministrazione a silenzio non avente valore di
provvedimento di diniego. Viene anche chiarito che sia per
immobile sottoposto a vincolo la cui tutela competa, anche
in via di delega, all'amministrazione comunale, sia per
immobile oggetto di vincolo che non compete al comune, non
vi sia differenza di procedura: nel secondo caso occorre
indire una conferenza di servizi che, con la novella del
disegno di legge, diventa invece facoltativa.
Per quel che riguarda l'adeguamento degli strumenti
urbanistici alle prescrizioni dei piani paesaggistici, il
disegno di legge restituisce all'amministrazione competente
il potere di provvedere sulla domanda di autorizzazione
decorsi inutilmente i termini indicati per l'espressione del
parere del soprintendente, senza la presunzione di parere
favorevole del soprintendente decorsi 90 giorni dalla
ricezione degli atti.
Viene confermata anche la modifica al Codice dei contratti
pubblici che consentirà alle le aggregazioni tra imprese
aderenti al contratto di rete ai sensi del comma 4-ter,
dell'articolo 3, del decreto legge 10.02.2009, n. 5 di
partecipare alle gare di appalto, con l'applicazione delle
regole previste per i raggruppamenti temporanei di imprese.
Così facendo si recepisce la richiesta formulata
dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici
(segnalazione n. 2 del 27.09.2012) anche se il mero
rinvio alla disciplina dei raggruppamenti non sembra idoneo
a fare completa chiarezza sulle modalità di partecipazione.
Eliminato anche l'obbligo di allegazione delle copie delle
procure quando le stesse siano iscritte nel registro delle
imprese.
Per quel che concerne le garanzie di buona esecuzione, si
tocca l'articolo 113 del Codice dei contratti pubblici
prevedendo che la quota dell'importo della garanzia non
svincolabile in corso di esecuzione del contratto, passi dal
25 al 20% dell'iniziale importo garantito, consentendo
quindi alle imprese di avere un livello minore di impegni.
Si introduce poi una norma sulle opere in esercizio
stabilendo che, anche prima del collaudo, l'esercizio
protratto per oltre un anno produca, a determinate
condizioni, lo svincolo automatico delle garanzie di buona
esecuzione prestate a favore dell'ente aggiudicatore, senza
necessità di alcun benestare, ferma restando una quota
massima del 20% da svincolare all'emissione del certificato
di collaudo.
Per gli appalti affidati alla data di entrata in vigore
della disposizione, le cui opere siano state in tutto o in
parte poste in esercizio prima dell'entrata in vigore della
legge nei termini indicati dalla norma, il termine per lo
svincolo automatico avviene a decorrere da tale data e ha
durata di 180 giorni.
Infine si interviene per semplificare e accelerare le
procedure per il rilascio dei provvedimenti di Via
(valutazione impatto ambientale) e di parere di Vas
(valutazione ambientale strategica) sopprimendo l'obbligo di
acquisire il parere dei ministeri diversi da quelli
concertanti
(articolo ItaliaOggi del 17.10.2012). |
APPALTI - EDILIZIA
PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: LE
SEMPLIFICAZIONI/ I contenuti del Ddl. Nelle
semplificazioni-bis stop al «silenzio-rifiuto» e Durc valido
180 giorni. Il Governo non accelera: niente decreto, avanti
con il Ddl.
LE MISURE PER I CITTADINI/ I certificati di malattia
professionale vanno inviati solo online, la documentazione
Tarsu va rilasciata insieme al cambio di residenza e
arrivano i titoli di studio in inglese.
Con una settimana di ritardo rispetto alla tabella di marcia
originaria arrivano le
semplificazioni
bis. I
sette giorni trascorsi tra il Consiglio dei ministri di
martedì scorso, che doveva vararle, e quello di ieri, che le
ha approvate, non sono serviti a cambiare "pelle" al
provvedimento, da disegno di legge a decreto, come
chiedevano le imprese e il Garante per le Pmi, Giuseppe
Tripoli. Ddl era e tale è rimasto.
Le speranze di una sua introduzione in tempi stretti è ora
affidata alla possibilità di approvarlo in almeno una delle
due Camere in commissione in sede deliberante. Pressoché
immutati anche i pilastri del testo: Durc valido 180 giorni;
addio al "silenzio-rifiuto" per il permesso di
costruire sui beni vincolati; imprese individuali esonerato
dal Codice della privacy; invio on-line del certificato di
malattia. Mentre è scomparso all'ultima curva il taglio del
2% sugli interessi da versare sui crediti contributivi
dilazionati.
I 33 articoli del Ddl proseguono nello snellimento della
burocrazia avviato con il Dl "Semplifica-Italia" di
febbraio. Agli 8,14 miliardi di oneri amministrativi su cui
si è intervenuti all'epoca si aggiungono ora altri 4,6
miliardi. Molti dei quali (circa 3,7) concentrati nel
pacchetto sulla sicurezza lavoro. Tra gli adempimenti
destinati a sparire vanno segnalati quelli sui lavoratori
assunti per meno di 50 giorni l'anno, che toccherà a un
decreto di Lavoro e Salute individuare. I datori di lavoro
si vedranno ridotti anche gli obblighi di comunicazione dei
dati sanitari che da soli costano 372 milioni. Confermata
inoltre la sostituzione del documento di valutazione dei
rischi da interferenze (il cosiddetto Duvri) con la nomina
di un incaricato ad hoc. Un adempimento che pesa per 390
milioni a cui vanno aggiunti i 308 milioni prodotti
dall'obbligo di presentare il Duvri nelle attività a basso
rischio.
Ancora più cospicua la massa di spesa "aggredibile"
nei piccoli cantieri: 2,6 miliardi dovuti ai vari piani di
sicurezza che un decreto attuativo snellirà. Completano il
quadro delle semplificazioni sulla sicurezza le verifiche
più rapide delle attrezzature da lavoro e l'obbligo del
datore di inviare on-line all'Inail le denunce di
infortunio. E, sempre in zona Inail, va segnalata la
necessità per il medico di trasmettere per via telematica i
certificati di malattia professionale e non solo quelli di
malattia semplice. Una misura che, insieme alla possibilità
di ottenere la certificazione ai Tarsu in abbinata al cambio
di residenza e ai titoli di studio in lingua inglese,
completa il mini-pacchetto per i cittadini.
Più di una norma è dedicata invece all'edilizia. A
cominciare dall'eliminazione del silenzio-rifiuto per i
permessi di costruire in presenza di vincoli ambientali,
paesaggistici o culturali: la Pa dovrà pronunciarsi in
maniera espressa. Senza dimenticare la fissazione a 45
giorni del termine di conclusione del procedimento di
autorizzazione paesaggistica.
Tra le misure più attese dalle aziende vanno segnalate le
semplificazioni per autorizzazione (Aia) e valutazione
d'impatto ambientale (Via) e l'estensione a 180 giorni della
durata del documento unico di regolarità contributiva (Durc)
per partecipare agli appalti. Oltre alla possibilità di
ottenere il Durc pure in presenza di debiti contributivi
purché abbia crediti vero la Pa certi ed esigibili. Ma anche
l'esonero delle imprese individuali dal Codice della
privacy. Degne di nota infine la chance degli hotel dotati
di bar o ristoranti di somministrare cibi e bevande senza
richiedere l'apposita autorizzazione e quella delle reti di
impresa di accedere alle gare di appalto
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.10.2012). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: SEMPLIFICAZIONI/
Lavoro più facile nei cantieri. Imprese e autonomi non
dovranno più produrre il Durc. Oggi
il disegno di legge approda all'esame del consiglio dei
ministri.
Accesso al lavoro più facile nei
cantieri. Imprese e lavoratori autonomi, infatti, non
dovranno più produrre il Durc per la propria regolarità
contributiva: basterà una dichiarazione sostitutiva da parte
del legale rappresentante o dello stesso lavoratore
autonomo.
Lo stabilisce, tra l'altro, il
pacchetto semplificazioni oggi all'esame del
consiglio dei ministri. Pacchetto costretto a dura cura
dimagrante con la scomparsa delle norme di semplificazione
relative a collocamento obbligatorio, estensione della
prosecuzione volontaria ai lavoratori parasubordinati,
armonizzazione base di calcolo delle prestazioni non
pensionistiche dell'Inps e alla comunicazione (Co) sui
rapporti di lavoro (si veda ItaliaOggi del 18 e 19
settembre). Confermate, invece, le disposizioni in materia
di sicurezza sul lavoro.
Stop al Durc nei cantieri.
La modifica riguarda l'articolo 90 del T.u. sicurezza (dlgs
n. 81/2008), relativo agli obblighi per il committente o
responsabile dei lavori nei cantieri.
La norma stabilisce che il committente o il responsabile dei
lavori, nelle fasi di progettazione dell'opera, devono
attenersi ai principi e misure generali di tutela, nonché,
nel caso di affidamento dei lavori, a: a) verificare
l'idoneità tecnico-professionale dell'impresa o del
lavoratore autonomo a cui vengono affidati i lavori; b)
chiedere alle imprese esecutrici una dichiarazione
sull'organico medio annuo; c) trasmettere
all'amministrazione concedente, prima dell'inizio dei lavori
oggetto del permesso di costruire o della denuncia di inizio
attività, tra l'altro, il Durc.
Il pacchetto semplificazioni abroga quest'ultima previsione
(consegna del Durc) e la sostituisce con l'obbligo di
consegnare «in luogo del documento unico di regolarità
contributiva, una dichiarazione sostitutiva del legale
rappresentante dell'impresa o del lavoratore autonomo_ che
l'amministrazione concedente è tenuta a verificare_».
Un solo Durc.
Sempre in materia di Durc, il pacchetto semplificazioni
estende la vigente previsione della misura «compensativa»
per chi ha crediti nei confronti dello stato per il Durc
richiesto per fruire di benefici normativi e contributivi a
ogni tipologia di Durc.
Infatti, è oggi previsto il rilascio del Durc, anche in
presenza di debiti contributivi, qualora l'impresa sia in
possesso di una certificazione che attesti la sussistenza e
l'ammontare di crediti certi, liquidi ed esigibili vantati
nei confronti delle pubbliche amministrazioni di importo
almeno pari agli oneri contributivi accertati e non ancora
versati (che darebbero esito ad un Durc negativo).
Tuttavia, la norma fa riferimento esclusivo al Durc
rilasciato per la fruizione di benefici «normativi e
contributivi», per cui restano fuori i Durc richiesti
per gli appalti pubblici e nell'ambito degli appalti privati
in edilizia. Il pacchetto semplificazioni elimina questa
disparità.
Sicurezza più facile.
Il pacchetto semplificazioni conferma, invece, le novità
sulla valutazione rischi con la previsione di una
semplificazioni del documento per le piccole e medie
imprese, addirittura con un procedimento più semplice.
La fissazione di tale disciplina semplificata viene rimessa
a un decreto del ministro del lavoro, da adottarsi sentita
la commissione consultiva per la salute e sicurezza sul
lavoro, entro 60 giorni dalla conversione in legge di quello
che sarà il decreto legge semplificazioni (pacchetto).
Compiti fondamentali affidati al decreto sono: a)
l'individuazione dei settori di attività a basso rischio
infortunistico, per i quali sarà possibile effettuare la
valutazione dei rischi standard; b) la predisposizione del
modello ad hoc che servirà per attestare di avere
effettuato la valutazione rischi
(articolo ItaliaOggi del 16.10.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO: LEGGE
DI STABILITA'/ Assistere i genitori costerà caro.
Retribuzione dimezzata per chi utilizza i permessi della
104. La valutazione della diagnosi
funzionale passa dall'Asl all'Inps.
Dal 01.01.2013 avrà un costo anche la
fruizione dei tre giorni di permesso mensile consentiti, per
assistere i parenti disabili in situazione di gravità,
previsti dall'articolo 33 della legge-quadro 05.02.1992, n.
104 e successive modificazioni e integrazioni. In
particolare, se bisognosi di aiuto saranno i genitori del
lavoratore pubblico.
É una delle modifiche alla legge 104 che sarebbero state
inserite, il condizionale è d'obbligo fino a quando non sarà
depositato in Parlamento il testo firmato dal presidente del
consiglio dei ministri), nel
disegno
di legge di Stabilità.
L'altra attiene alla indicazione delle commissioni mediche a
cui affidare le funzioni di valutazione della diagnosi
funzionale propedeutica all'assegnazione del docente di
sostegno all'alunno disabile. Delle due modifiche quella che
avrà maggiore impatto sul personale della scuola è
certamente quella relativa alla fruizione dei permessi
previsti dall'articolo 33 della legge 104.
Il comma 3 dell'articolo 7 del disegno di legge dispone
infatti che, a partire dal 01.01.2013 i permessi previsti
dal predetto articolo 33 fruiti dai dipendenti pubblici, ivi
compreso il personale direttivo, docente, amministrativo,
tecnico ed ausiliario, dovranno essere retribuiti al 50 per
cento anziché al 100 per cento come dispongono il comma
3-ter dell'articolo 2 del decreto legge 324/1993 e il comma
6 dell'articolo 15 del contratto collettivo nazionale del
comparto scuola 27.11.2007.
Ai solo fini previdenziali tre giorni di permesso, da
chiunque fruiti continueranno, invece, ad essere coperti da
contribuzione figurativa. La penalizzazione non si applica,
si legge sempre nel comma 3, se i tre giorni di permesso
sono fruite direttamente dal personale disabile, dai
genitori per assistere i figli o l'altro coniuge disabili in
situazione di gravità.
I permessi indicati nell'articolo 33 in vigore sono:
a)
quelli cui hanno diritto i genitori di minore con handicap
in situazione di gravità (due ore di permesso giornaliero
retribuito fino al compimento del terzo anno di vita del
bambino) in alternativa al prolungamento fino a tre anni del
periodo di astensione facoltativa;
b) quelli cui hanno
diritto i lavoratori che assistono il coniuge, un parente o
affine entro il secondo grado handicappato in situazione di
gravità( tre giorni mensili retribuiti coperti da
contribuzione figurativa).
Se il contenuto del predetto comma 3 dovesse essere
integralmente recepito nella legge che dovrà essere
approvata dal Parlamento entro la fine del 2012, la prevista
riduzione dello stipendio giornaliero dovrebbe riguardare
esclusivamente i permessi di cui alla precedente lettera b),
fatta eccezione per quelli previsti dal predetto comma 3)
essendo impensabile che possa riguardare anche quelli di cui
alla lettera a).
Per ognuno dei tre giorni di permesso eventualmente fruiti
lo stipendio dovuto subirebbe una riduzione nella misura del
50 per cento di quello spettante al lordo. Al netto la
riduzione potrebbe essere compresa, a seconda della
qualifica ricoperta e della misura dello stipendio di
anzianità in godimento, tra il 30 e il 40 per cento della
retribuzione giornaliera netta.
La seconda modifica riguarda l'articolo 4 della legge 104.
Gli accertamenti relativi alla minorazione, alle difficoltà,
alla necessità dell'intervento assistenziale, unitamente
alle funzioni di valutazione della diagnosi funzionale
propedeutica all'assegnazione del docente di sostegno
all'alunno disabile previste dall'articolo 19, comma 11, del
decreto legge 98/2011, saranno affidate non più, come
disponeva l'articolo 4, alle commissioni mediche di cui
all'articolo 1 della legge 295/1990 (unità sanitarie locali)
ma a quelle dell'Inps
(articolo ItaliaOggi del 16.10.2012
- link a www.corteconti.it). |
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in campo per gli acquisti. Torna la Consip e gli acquisiti
in e-commerce per le scuole.
La novità è contenuta nella
bozza di
legge di stabilità varata dal governo martedì scorso.
Il provvedimento estende alle istituzioni scolastiche ed
educative l'obbligo di approvvigionarsi facendo riferimento
alle cosiddette convenzioni quadro. Vale a dire giovandosi
degli accordi secondo i quali imprese fornitrici,
aggiudicatarie di gare indette dalla Consip su singole
categorie merceologiche, s'impegnano ad accettare (alle
condizioni e ai prezzi stabiliti in gara e in base agli
standard di qualità previsti nei capitolati) ordinativi di
fornitura da parte delle pubbliche amministrazioni, fino al
limite massimo previsto (il cosiddetto massimale).
Le convenzioni attivate dalla Consip riguardano una spesa
standard, cioè l'acquisto di quei beni e servizi che vengono
largamente utilizzati da tutte le amministrazioni: computer,
stampanti, gasolio per il riscaldamento degli edifici, ma
anche pulizie. Acquistando attraverso la convenzione Consip,
tutte le amministrazioni possono evitare di sostenere i
costi di una gara d'appalto, anche nel caso in cui
l'acquisto superi le soglie previste dalla legge (la soglia
comunitaria che è di 206mila euro) e possono ottenere
notevoli risparmi di processo oltre che sul prezzo dei beni.
Infatti, aggregando la domanda delle amministrazioni, la
Consip riesce ad abbattere i costi unitari d'acquisto (in
media il 15-20% in meno, secondo rilevazioni dell'Istat),
mantenendo al contempo standard qualitativi elevati nelle
forniture.
Il provvedimento dispone anche che le scuole procedano agli
acquisti utilizzando l'e-commerce. E a questo proposito è
prevista anche l'emanazione di linee guida indirizzate per
coordinare gli acquisti, suddivisi per natura merceologica,
tra più istituzioni
(articolo ItaliaOggi del 16.10.201). |
PUBBLICO
IMPIEGO: LEGGE
DI STABILITA'/ Il contratto non scatta fino al 2014.
Congelate tutte le retribuzioni, a rischio pure i gradoni.
Norma stralciata dal ddl, ricompare
identica in decreto ad hoc.
Retribuzioni bloccate fino al 2014 e
gradoni fermi per un altro anno. Il blocco era inizialmente
previsto nella bozza della legge di stabilità varata dal
governo martedì scorso. Ma poi è stato stralciato e sarà
oggetto di un provvedimento a parte.
Secondo quanto risulta a ItaliaOggi, il governo può
procedere attraverso un semplice decreto, già in fase di
ultimazione da parte del Tesoro, visto che una proroga era
già ipotizzata dall'ultima manovra del precedente governo.
Resta il fatto che l'esecutivo Monti è fermo nella volontà
di procedere alla riduzione delle retribuzioni di fatto
degli operatori scolastici agendo in due direzioni: il
blocco dei rinnovi contrattuali fino al 2014, con
contestuale eliminazione anche dell'indennità di vacanza
contrattuale, e il blocco dei gradoni fino al 2013. Timida
apertura sulla monetizzazione delle ferie: sarà consentita
in via residuale solo per i periodi non coperti dalle
vacanze.
La mossa sulla contrattazione collettiva è in continuità con
quanto previsto dalla legge 15/2009 e dal decreto Brunetta (dlgs
150/2009). Fermo restando che quest'ultimo, almeno nelle
premesse, afferma comunque il primato della contrattazione
ai fini della regolazione dei diritti e dei doveri dei
lavoratori pubblici e della pubblica amministrazione in
qualità di datore di lavoro.
In modo particolare per quanto riguarda le retribuzioni.
Precisazione doverosa da parte del legislatore, dopo che le
Sezioni unite, con la sentenza n. 21744 del 14.10.2009,
avevano individuato nel contratto collettivo la fonte
primaria del rapporto di lavoro. Ma c'è dell'altro.
La Corte di cassazione, infatti, è costante nel ritenere che
la retribuzione sufficiente, di cui parla l'articolo 36
della Costituzione, sia da rinvenirsi negli importi
determinati dalla contrattazione collettiva e non dal datore
di lavoro. E quindi le disposizioni varate dal governo, per
ridurre unilateralmente l'importo delle retribuzioni
potrebbero addirittura essere «in odore di
incostituzionalità».
I contratti
Quanto alle disposizioni nello specifico, va anzitutto
segnalato il blocco delle retribuzioni per altri due anni.
Il decreto legge 78/2010, infatti, aveva previsto tale
blocco solo fino al 2012. E quindi, il governo ha ritenuto
di bloccare la contrattazione per altri due anni, fino al
2014 incluso. Giova ricordare che l'ultimo contratto è stato
sottoscritto il 29.11.2007.
Tra l'altro si prevede che non ci sia neanche il pagamento
dell'indennità di vacanza contrattuale, e che questa potrà
essere pagata nel triennio 2015-2017 facendo riferimento
all'inflazione programmata e non più all'Ipca, il tasso
europeo, più pesante di quasi mezzo punto percentuale
rispetto alla vecchia inflazione.
I gradoni
Da allora le retribuzioni sono ferme. Anzi, sono diminuite.
Da una parte per la perdita del potere di acquisto che ogni
anno, nella migliore delle ipotesi, si mangia quasi il 3%. E
dall'altra parte perché il governo Berlusconi ha bloccato i
gradoni per tre anni, dal 2010 al 2013. Il 2010 è stato
salvato in extremis con un accordo sindacale, traendo
i fondi da un terzo dei risparmi derivanti dal taglio di
circa 135mila posti di lavoro nella scuola, inizialmente
destinati a finanziare il merito.
Ma sul 2011 si stava ancora trattando, sebbene senza esito,
al punto che Cisl, Uil, Gilda e Snals hanno già avviato le
procedure per lo sciopero ( la Cgil ha scioperato il 12
ottobre scorso). E mentre la tensione tra governo e
sindacati era già arrivata al punto di non ritorno,
l'esecutivo ha previsto la proroga di un altro anno del
blocco dei gradoni: fino al 2013.
Torna la monetizzazione
Nella bozza di legge di stabilità è contenuta anche una
disposizione che reintroduce la monetizzazione parziale
delle ferie per i precari che, a causa della ridotta durata
del contratto, non abbiano potuto fruirne nei periodi di
sospensione delle lezioni.
In particolare, il dispositivo prevede una deroga al divieto
previsto dall'articolo 5, comma 8, del decreto legge
06.07.2012, n. 95. E dispone che il divieto non si applichi
al personale docente supplente breve e saltuario o docente
con contratto sino al termine delle lezioni o delle attività
didattiche, limitatamente alla differenza tra i giorni di
ferie spettanti e quelli in cui è consentito al personale in
questione fruire delle ferie
(articolo ItaliaOggi del 16.10.2012). |
APPALTI - ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
Legge di stabilità/
LE NOVITÀ PER LA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA.
Appalti, liti a costo variabile.
Il contributo unificato è calcolato in proporzione al valore
della causa.
RICHIAMO DELLA UE/
La modifica è stata indotta da una lettera dell'Unione a
Palazzo Chigi nella quale si prefigura l'infrazione
comunitaria.
Dissuadere i ricorsi ma anche incentivarli. È la linea su
cui si muove il
disegno
di legge di Stabilità approvato dal
Governo nella notte tra martedì e mercoledì. Quello che
sembra all'apparenza un comportamento schizofrenico, in
realtà ha obiettivi ben precisi. Da un lato, infatti, si è
calcata la mano sul contributo unificato da pagare in caso
di impugnazione quando le controversie si rivelano, alla
fine, pretestuose, cioè portate avanti con evidenti scopi
dilatori: sulle cause di appello respinte integralmente,
dichiarate inammissibili o improcedibili, gli importi,
infatti, raddoppiano. L'intento è di evitare che le aule
delle corti vengano affollate di ricorsi destinati fin
dall'origine a bocciatura certa, che distolgono il personale
togato e non dal lavoro su altri fronti del contenzioso.
Dall'altro lato, il contributo unificato è stato
differenziato per permettere un accesso meno restrittivo
alla giustizia. È il caso degli importi versati per le cause
in materia di appalti e per quelle relative ai provvedimenti
delle Autorità di garanzia. Ricorsi, dunque, di competenza
dei giudici amministrativi. Il Dl 98 del 2011, convertito
dalla legge 111, ha ritoccato verso l'alto il contributo
unificato e ha raddoppiato gli importi per il contenzioso
sulle opere pubbliche, portandolo da 2mila a 4mila euro.
Spesa che non ha eguali fra quelle che, in tutte le
giurisdizioni, si devono versare per chiedere giustizia.
È pur vero che le cause di appalti hanno un valore molto
alto, che facilmente supera i milioni di euro. Esistono,
però, anche ricorsi il cui valore ha molti meno zeri, sui
quali un contributo unificato di 4mila euro diventa un peso
significativo, inducendo la parte a rinunciare, per
questioni economiche, al processo.
È una riflessione a cui il nostro Governo è stato indotto
dalla Commissione europea, che ha scritto una lettera a
Palazzo Chigi e al ministero dell'Economia per chiedere
ragguagli sugli effetti dell'aumento del contributo
unificato, in particolare di quello relativo ai ricorsi
sugli appalti pubblici. La Ue ha domandato come mai
quest'ultimo importo sia stato stabilito in misura fissa e
non proporzionale rispetto al valore della causa.
Le delucidazioni chieste dall'Europa non sono mosse da
semplice curiosità. Alle spalle c'è il rischio da parte
dell'Italia dell'ennesima infrazione comunitaria, perché
l'aumento del contributo unificato sugli appalti si porrebbe
in contrasto con la direttiva 89/665/Ue, modificata dalla
direttiva 2007/66/Ce, entrambe in materia di appalti
pubblici, e sarebbe non in linea anche con i principi
fondamentali del Trattato. Ciò che si potrebbe configurare
è, infatti, una compressione del diritto alla concorrenza
attraverso vincoli eccessivi al diritto di giustizia.
La lettera ha innescato un confronto tra Palazzo Chigi, Mef
e giudici amministrativi, sfociato, appunto, nella norma
contenuta nel Ddl di stabilità. Disposizione che ha
scaglionato il contributo unificato dovuto per i ricorsi
sugli appalti pubblici, diminuendo l'importo da versare per
le cause di minor valore e aumentando, fino a 6mila euro,
quello per le controversie più ricche.
Per riequilibrare i conti, il Governo ha però aumentato il
contributo unificato per i ricorsi in cui si applica il rito
abbreviato comune (l'importo è passato da 1.500 a 1.800
euro) e quello per tutte le altre cause, compresi i ricorsi
al presidente della Repubblica, che è cresciuto di 50 euro,
da 600 a 650. Inoltre, il contributo unificato aumenta del
50% per le controversie che dal Tar vanno all'appello del
Consiglio di Stato.
Il nuovo impianto trova d'accordo i giudici amministrativi.
Secondo il presidente del Consiglio di Stato, Giancarlo
Coraggio, in questo modo si è riequilibrato il carico delle
spese di giustizia per chi deve fare ricorso e si è
allontanato il rischio dell'apertura di un caso da parte del
l'Unione europea (articolo Il Sole 24
Ore del 15.10.2012). |
APPALTI:
Obblighi fiscali. L'intermediario o il Caf possono
certificare il versamento delle ritenute e dell'Iva relative
ad appaltatore e subappaltatore.
Appalti solidali, professionisti in guardia.
Nella circolare 40/E niente modello standard di
asseverazione né chiarimenti sui rischi.
La nuova disciplina sulla responsabilità fiscale «solidale»
tra appaltatore e subappaltatore per il versamento delle
ritenute sui redditi di lavoro dipendente e dell'Iva
nell'ambito dei contratti di appalto e subappalto di opere e
servizi, prevista dal Dl 83/2012, chiama in causa non
soltanto i soggetti della "catena" (committente, appaltatore
e subappaltatore), ma anche i professionisti e i Caf che li
assistono.
Come talvolta accade, anche con riferimento alla verifica
degli adempimenti in materia tributaria prevista dal Dl
83/2012, il legislatore "scarica" agli operatori in materia lavoristica e fiscale la responsabilità di attestare la
regolarità degli stessi.
Infatti, secondo quanto previsto dalla norma e in parte
chiarito dalla circolare delle Entrate 40 dell'08.10.2012 (si veda Il Sole 24 Ore del 9 ottobre), oltre alla
soluzione «fai da te», gli appaltatori e i subappaltatori
potranno rivolgersi ai professionisti abilitati per
richiedere l'asseverazione dell'attestazione dell'avvenuto
adempimento degli obblighi fiscali, utile a dimostrare il
regolare versamento dell'Iva e delle ritenute sui redditi da
lavoro dipendente (Irpef e addizionali regionali e
comunali), scaduti alla data del pagamento del
corrispettivo.
Il rilascio dell'attestazione
La circolare delle Entrate non illustra, però, le
conseguenze che si potrebbero verificare se l'attestazione
rilasciata dovesse risultare non corretta: in particolare,
non spiega in quali rischi potrebbe incorrere il
professionista.
Peraltro, non essendo stata fissata una validità
dell'asseverazione, questi dovrà prestare molta attenzione
alle tempistiche del rilascio, eventualmente indicando che
il controllo comprende i versamenti effettuati fino a una
certa data: in caso contrario, il rischio è quello di
produrre una dichiarazione non allineata.
Sarebbe stata comunque auspicabile l'adozione di una
modulistica standard da adottare sia in caso di
asseverazione, sia in caso di dichiarazione sostitutiva,
così da garantire una maggiore chiarezza.
La verifica dei dati
Il professionista, se non già in possesso dei dati
necessari, potrebbe chiedere al cliente l'elenco dei
lavoratori adibiti all'appalto-subappalto e delle relative
buste paga, per verificare la rispondenza delle ritenute
operate rispetto a quelle versate con il modello F24.
Questo aspetto si rivela molto complicato, soprattutto nel
caso di imprese di dimensioni elevate e con diversi
contratti di appalto-subappalto in atto: in queste ipotesi,
solo un controllo capillare (su tutto il complesso
aziendale) può garantire -per esclusione- che siano stati
assolti anche gli obblighi riferiti al contratto in
questione.
L'altro aspetto dai contorni ancora nebulosi riguarda
proprio quale tipologia di controlli sia chiamato a svolgere
l'intermediario: in caso contrario, difficilmente
quest'ultimo si sentirà di rilasciare un'asseverazione di
regolarità. A meno che non disponga di una conoscenza
approfondita della situazione del cliente.
Dal tenore della circolare emerge altresì che il contenuto
dell'attestazione deve comprendere anche i riferimenti
inerenti l'Iva e le ritenute sui redditi da lavoro
dipendente non versate, perché ad esempio l'obbligo di
versamento non è mai sorto (reverse charge) o perché il
tributo è stato compensato.
Infine, rimane da chiarire se nel controllo dei versamenti
debbano essere comprese anche le ritenute sui redditi
assimilati a quelli di lavoro dipendente quali -ad esempio- quelle operate sui compensi di eventuali lavoratori
parasubordinati impiegati nelle prestazioni in
appalto-subappalto.
Poiché, come è stato anche chiarito dalla circolare del
Lavoro n. 5/2011, questi soggetti possono godere delle
tutele derivanti dalla solidarietà, è possibile che vi
rientrino anche le ritenute sui relativi compensi.
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Gli altri adempimenti. Sanzione
da 5mila a 200mila euro.
Il committente paga se omette il controllo.
La circolare delle Entrate 40/2012 non ha risolto la
totalità dei dubbi sul tema della responsabilità solidale
tra appaltatore e subappaltatore per il versamento delle
ritenute sui redditi di lavoro dipendente e dell'Iva
(dettata dal Dl 223/06, articolo 35, comma 28, come
riscritto dall'articolo 13-ter del Dl 83/2012) ma ha offerto
un primo importante chiarimento: i nuovi obblighi operano
solo per i contratti di appalto-subappalto stipulati a
partire dal 12.08.2012 e in relazione ai pagamenti dei
corrispettivi effettuati dall'11 ottobre scorso.
La materia è complessa, non solo per la mancanza di un
Codice che raccolga tutte le norme, ma anche per le
modifiche che, nel 2012, hanno interessato il quadro
legislativo. Peraltro, le conseguenze per gli "attori" del
contratto di appalto possono essere molto pesanti, sia per
il coinvolgimento nel meccanismo solidaristico, sia per le
sanzioni previste.
Il Dl sulle semplificazioni fiscali, varato a marzo (Dl
16/2012, comma 5-bis dell'articolo 2) aveva disposto la
responsabilità solidale tra i soggetti della filiera
dell'appalto per il versamento delle ritenute sui redditi di
lavoro dipendente e dell'Iva riferite all'appalto, nel
limite di due anni dalla cessazione dell'appalto stesso.
Il regime della solidarietà tracciato da questa disposizione
sarebbe scattato se il soggetto coinvolto non avesse
dimostrato di aver messo in atto tutte le cautele possibili:
era una formulazione talmente ampia e priva di parametri di
riferimento da non lasciare -in pratica– alcun
"paracadute" per salvarsi dalle nuove regole sulla
solidarietà (in vigore, peraltro, dal 29 aprile all'11.08.2012).
Nel sistema in vigore oggi, dopo le modifiche del Dl
83/2012, sebbene il campo di applicazione sia lo stesso, ci
sono due diversi livelli di coinvolgimento per i soggetti
interessati nell'appalto, a cui corrispondono specifici
oneri amministrativi.
L'appaltatore risponde in solido con il subappaltatore, nei
limiti dell'ammontare del corrispettivo dovuto, del
versamento all'erario delle ritenute fiscali sui redditi da
lavoro dipendente e dell'Iva dovuta dal subappaltatore in
relazione alle prestazioni effettuate nell'ambito
dell'appalto. Nell'attuale versione della norma, la
solidarietà non è più limitata a una scadenza temporale ma
alla prescrizione ordinaria riferita alle ritenute in
questione.
Il committente invece, pur non essendo chiamato a rispondere
dei mancati versamenti all'erario da parte dei soggetti
della filiera, è obbligato a una stringente azione di
controllo sulla regolarità degli stessi che –in caso di
mancata attuazione– può comportare una sanzione
amministrativa da 5mila a 200mila euro.
Infine, la circolare 40/2012 sembra estendere la
responsabilità anche al committente, fattispecie che la
norma non prevede (articolo Il Sole 24 Ore del
15.10.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Procedure amministrative. Le semplificazioni introdotte dal
decreto 83/2012.
Permessi edilizi più veloci in conferenza dei servizi.
Gli assenti possono inviare il parere favorevole.
Con le novità dettate dal decreto sviluppo –il Dl 83/2012–
lo sportello unico per l'edilizia (Sue) costituisce l'unico
punto di accesso per il privato interessato in relazione a
tutte le vicende amministrative riguardanti il titolo
abilitativo e l'intervento edilizio, che risponde al posto
di tutte le Pa coinvolte.
Tra i compiti dello sportello c'è
anche quello di acquisire – anche mediante conferenza dei
servizi – gli atti di assenso delle amministrazioni preposte
alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del
patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e
della pubblica incolumità (articolo 5, comma 1-bis, del Dpr
380/2001) nonché gli altri pareri di autorità eventualmente
coinvolte nel procedimento, come ad esempio il parere
vincolante della Commissione per la salvaguardia di Venezia
per gli interventi in quell'area. E proprio
all'accelerazione della conferenza dei servizi è dedicata
un'altra delle modifiche del Dl 83.
La conferenza dei servizi è uno strumento di semplificazione
procedimentale disciplinato in via generale dagli articoli
14 e seguenti della legge 241/1990. Esistono due tipi di
conferenza dei servizi. Quella istruttoria, prevista dal
comma 1 dell'articolo 14 della legge, può essere indetta
quando è opportuno che l'attività istruttoria relativa a un
certo procedimento si svolga con la collaborazione di più
soggetti pubblici variamente interessati.
La riunione «decisoria»
Più complessa è la disciplina del l'altro tipo di conferenza
dei servizi, quella decisoria. L'adozione di un determinato
provvedimento amministrativo è sempre competenza di una
specifica amministrazione (per i titoli edilizi, il Comune).
Tuttavia, nei procedimenti più complessi, la competenza
dell'amministrazione procedente si integra con quella di
altre amministrazioni a tutela di determinati interessi
superiori. E così, ad esempio, l'attività dei permessi
edilizi è sempre soggetta al parere delle Pa poste a tutela
del paesaggio, dell'ambiente, della salute pubblica, del
patrimonio storico e archeologico.
Quando ciò avvenga, ciascuna di queste amministrazioni è
chiamata a dare il proprio assenso. Quando queste
amministrazioni siano più d'una e le valutazioni da compiere
siano particolarmente complesse, l'esercizio dei loro poteri
potrebbe rallentare notevolmente il procedimento. La
conferenza dei servizi, obbligatoria ormai per la stragrande
maggioranza dei procedimenti, consente la valutazione, in
un'unica sede di tutti gli interessi variamente coinvolti
nel procedimento. Tutte le amministrazioni sono convocate in
un'unica sede secondo le forme previste dall'articolo 14-ter
della legge 241 perché esprimano nella medesima sede il
proprio assenso o dissenso all'interno della conferenza dei
servizi entro un dato termine.
La conferenza e gli assenti
La regola è che le determinazioni in sede di conferenza dei
servizi vengano prese a maggioranza degli enti coinvolti:
meglio, l'amministrazione che ha la competenza ad adottare
il provvedimento finale può provvedere se ha l'assenso della
maggioranza degli enti interessati. In alcuni casi,
tuttavia, esigenze di tutela di interessi superiori
giustificano dei correttivi. E così, ad esempio, se il
procedimento ha ad oggetto permessi relativi ad opere
soggette a valutazione di impatto ambientale, la decisione
finale non può essere assunta prescindendone, mentre il
dissenso di un'amministrazione preposta alla tutela
ambientale, paesaggistico-territoriale, o del patrimonio
storico e artistico può essere superato solo con la
remissione della decisione alla Presidenza del Consiglio dei
ministri.
In ogni caso le amministrazioni coinvolte hanno l'onere di
intervenire in conferenza dei servizi manifestando la
propria posizione. Qualora ciò non avvenga, salvo per i
provvedimenti in materia di Via e Vas, si considera assunto
l'assenso dell'amministrazione, anche se preposta alla
tutela paesaggistico territoriale e ambientale, il cui
rappresentante non abbia espresso definitivamente la volontà
dell'amministrazione rappresentata.
Da ultimo, dopo le modifiche del Dl 83/2012, le
amministrazioni che intendono esprimere parere positivo
possono non intervenire alla conferenza di servizi e
trasmettere i propri atti di assenso. Non sarà necessario,
pertanto, che le amministrazioni volta per volta interessate
al procedimento partecipino fisicamente alle riunioni della
conferenza dei servizi inviando un loro rappresentante
autorizzato a esprimere la volontà per l'ente, essendo
sufficiente l'invio tempestivo di un atto d'assenso allo
sportello. Infine la determinazione adottata dalla
conferenza di servizi è, ad ogni effetto, titolo per la
realizzazione dell'intervento.
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La giurisprudenza. Gli
orientamenti del Consiglio di Stato.
L'atto finale va impugnato verso tutte le Pa coinvolte.
I PIANI DI SVILUPPO/
In caso di ristrutturazione degli impianti industriali
l'assenso adottato dagli enti si traduce in una variante da
sottoporre al Comune.
La conferenza dei servizi è uno strumento procedimentale di
semplificazione. Ha lo scopo di far riunire in un unico
luogo, fisico o anche virtuale (conferenza dei servizi
telematica), tutte le amministrazioni che possono essere
interessate, per la tutela degli interessi alla quale sono
preposte, ad esprimere il proprio parere su un procedimento.
Quello che occorre sempre tenere a mente è che, anche quando
viene utilizzato lo strumento della conferenza dei servizi,
da un lato l'amministrazione competente a emettere il
procedimento finale è sempre una, dall'altro che il modulo
procedimentale della conferenza dei servizi non supera la
soggettività delle singole amministrazioni coinvolte nel
procedimento.
La conferenza dei servizi non è pertanto un organo nuovo e
diverso rispetto ai soggetti che vi partecipano, ma
rappresenta solamente un modo operativo col quale queste
prendono coscienza del procedimento in corso ed esprimono il
loro parere sul progetto. E così, nel caso di procedimenti
complessi per il rilascio di titoli edilizi l'autorità
competente sarà sempre una, ossia il Comune, mentre tutte le
altre amministrazioni preposte alla tutela di interessi
diversi hanno l'onere di esprimere il proprio parere sul
progetto per il quale è richiesto il permesso di costruire
nell'ambito della conferenza dei servizi.
Questa è l'impostazione ribadita recentemente dal Consiglio
di Stato, sezione V, con la sentenza del 02.05.2012, n.
2488, secondo il quale «l'utilizzo del modulo procedimentale
della conferenza di servizi, che come tale non configura un
ufficio speciale della pubblica amministrazione, autonomo
rispetto ai soggetti che vi partecipano, non altera le
regole che presiedono, in via ordinaria e generale,
all'individuazione delle autorità emananti».
Con questa decisione il Consiglio di Stato, oltre a
precisare ancora una volta i caratteri della conferenza dei
servizi, si preoccupa di ribadire che l'impugnazione del
provvedimento finale di assenso o dissenso deliberato in
sede di conferenza dei servizi deve essere impugnato non nei
confronti della «conferenza dei servizi», non costituendo
questa un organo nuovo e distinto dai suoi partecipanti,
bensì nei confronti di tutte le singole amministrazioni
coinvolte.
I caratteri della conferenza dei servizi sono confermati
anche dalla sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato
n. 2170 del 16.04.2012, in materia di piani di sviluppo
industriale ex Dpr 447 del 1998, secondo la quale la
ristrutturazione o l'ampliamento degli impianti industriali
sono soggetti a un iter semplificato che si risolve in un
procedimento che, mediante la conferenza di servizi indetta
dal responsabile del procedimento, porta alla formazione di
una proposta di variante sulla quale il consiglio comunale
si pronuncia definitivamente per giungere, con una variante
urbanistica adottata nell'ambito della conferenza di
servizi, alla rapida realizzazione di tali iniziative, anche
quando esse siano in contrasto con gli strumenti urbanistici
in vigore, purché il relativo progetto sia conforme alle
norme in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza del
lavoro e lo strumento urbanistico non individui aree
destinate all'insediamento di impianti produttivi o queste
siano insufficienti in relazione al progetto presentato.
---------------
Il caso della Dia.
È ancora possibile rivolgersi all'ufficio.
Allo sportello unico per l'edilizia, del quale si discuteva
l'abolizione visto l'insuccesso relativo che l'istituto
aveva avuto sul piano pratico –specie se paragonato con lo
sportello per le attività produttive– sono ora attribuiti
poteri e competenze che appaiono idonei a garantire un buon
impulso procedimentale. Questo, pertanto, nelle intenzioni
del legislatore, dovrebbe essere lo strumento di
accertamento di tutte le attività di competenza comunale
relative alle pratiche edilizie, oltre che l'ufficio
deputato a dare impulso al procedimento edilizio.
Tant'è vero che le comunicazioni al richiedente sono
trasmesse esclusivamente dallo sportello unico per
l'edilizia; gli altri uffici comunali e le amministrazioni
pubbliche diverse dal Comune, che sono interessati al
procedimento, non possono trasmettere al richiedente atti
autorizzatori, nulla osta, pareri o atti di consenso, anche
a contenuto negativo, comunque denominati e sono tenuti a
trasmettere immediatamente allo sportello unico per
l'edilizia le denunce, le domande, le segnalazioni, gli atti
e la documentazione ad esse eventualmente presentati,
dandone comunicazione al richiedente.
Viene da chiedersi, a questo punto, se sia ancora possibile,
come avviene oggi nella prassi, che gli interessati si
facciano parte diligente e si rivolgano direttamente alle
amministrazioni interessate per risolvere i profili di
tutela dei valori vincolati, prima di presentare al Comune
il progetto edilizio. A giudicare dalle nuove disposizioni
parrebbe di no, e che il Sue accentri e assorba ogni
competenza. Anche perché secondo il nuovo comma 7-bis
dell'articolo 5 del Dpr 380/2001 «le amministrazioni
pubbliche diverse dal Comune, che sono interessate al
procedimento sono tenute a trasmettere immediatamente allo
sportello unico per l'edilizia le denunce, le domande, le
segnalazioni, gli atti e la documentazione ad esse
eventualmente presentati, dandone comunicazione al
richiedente», con la conseguenza che la domanda di nulla
osta presentata direttamente all'ente competente sarebbe
destinata a tornare in Comune prima ancora di essere
istruita nel merito.
Eppure un'attività preventiva del
privato che scegliesse di rivolgersi alle amministrazioni
interessate per ottenerne l'assenso prima della
presentazione del progetto parrebbe consentita, almeno per
gli interventi soggetti a Dia, dall'articolo 23, Dpr
380/2001, non modificato in parte qua, laddove consente
l'allegazione alla Dia del parere favorevole
dell'amministrazione preposta, ad esempio, alla tutela
paesaggistica e ambientale.
Sempre in termini di accelerazione e semplificazione, il
decreto sviluppo è intervenuto anche sul procedimento di
rilascio del permesso di costruire (articolo 20 Dpr
380/2001) prevedendo che, se entro i 60 giorni non siano
intervenute tutte le intese, i concerti, i nulla osta o gli
assensi, il responsabile dello sportello unico indice la
conferenza di servizi (articolo Il Sole 24 Ore del
15.10.2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Decreto enti locali/1. Moltiplicate le forme di
monitoraggio: sono definiti contenuto minimo, responsabili e
tipologie.
Controlli interni, si riparte da sei.
Le nuove verifiche si aggiungono alla valutazione prevista
dalla legge Brunetta.
I controlli interni passano da quattro a sei, o meglio a
sette se consideriamo che la valutazione è disciplinata
dalla legge Brunetta, anche se due di questi non si
applicano agli enti locali con meno di 10mila abitanti. Il
loro contenuto minimo viene per la prima volta definito in
modo preciso dallo stesso legislatore nel D.L.
10.10.2012 n. 174.
A queste regole si devono aggiungere le forme di controllo
interno previste da altre disposizioni: basta ricordare
oltre alla valutazione dei dirigenti, dei responsabili e del
personale, anche le relazioni sulla performance e sulla
trasparenza imposte dal Dlgs 150/2009, oltre
all'intensificazione del ruolo della Corte dei conti
prevista dallo stesso Dl, il monitoraggio della spesa del
personale e della contrattazione integrativa e le verifiche
che ogni ente locale dovrà attivare una volta che le norme
anticorruzione diventeranno legge.
Dal primo esame delle norme si può concludere che da una
condizione di sostanziale assenza di controlli, e dalla loro
sostituzione in modo assai limitato e spesso casuale con gli
interventi censori delle magistrature penali, civili,
contabili e amministrative e dalle visite ispettive, si
passi a una condizione di eccesso di controlli. E, inoltre,
non è affatto detto che le nuove regole permettano di
raggiungere lo scopo di migliorare la qualità dell'attività
amministrativa e il tasso di legittimità dell'attività degli
enti locali.
Il vecchio testo del Dlgs 267/2000 prevedeva, in analogia a
quanto dettato per tutte le amministrazioni statali dai Dlgs
286/1999 e 165/2001, quattro forme di controllo interno,
lasciando un'amplissima autonomia di regolamentazione alle
singole amministrazioni: regolarità amministrativa e
contabile, di gestione, valutazione dei dirigenti e
realizzazione dei programmi politico amministrativi. Forme
di controllo che non sono sostanzialmente decollate nella
gran parte delle amministrazioni. Con le modifiche
introdotte dal Dl si introduce il pacchetto dei sei nuovi
controlli: di regolarità amministrativa e contabile, di
gestione, strategico, di verifica degli equilibri finanziari
della gestione, della gestione degli organismi esterni,
della qualità dei servizi erogati.
Gli enti locali che hanno
una popolazione inferiore a 10mila abitanti (quindi non solo
i comuni, ma anche le unioni, le superstite comunità montane
eccetera) non devono attivare i controlli della gestione
degli organismi esterni (cioè in primo luogo le società
partecipate o controllate) e della qualità dei servizi
erogati, anche attraverso la customer satisfaction. Viene
prevista la possibilità di realizzare questi controlli in
forma associata attraverso lo strumento della convenzione.
L'altro elemento che più caratterizza queste disposizioni è
costituito dalla previsione del contenuto minimo che le
varie forme di controllo interno devono soddisfare. Infatti
vengono individuati i soggetti chiamati a svolgere tali
attività, il contenuto ed il flusso delle informazioni con
gli organi di governo dell'ente. La norma si preoccupa di
garantire che lo svolgimento di queste attività non
determini oneri aggiuntivi, preoccupazione sicuramente assai
importante, ma non tiene conto della possibilità di
prevedere forme di migliore utilizzazione degli organismi di
valutazione, di recente potenziati, senza costi aggiuntivi,
dalla legge Brunetta (articolo Il Sole 24
Ore del 15.10.2012 - link a www.corteconti.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - SEGRETARI COMUNALI: Per la regolarità amministrativa direzione affidata al
segretario.
Il marcato potenziamento dei compiti di controllo successivo
assegnati ai segretari è uno degli effetti di maggiore
rilievo contenuti nel D.L.
10.10.2012 n. 174. Questo effetto si farà
ancor più sentire con l'approvazione della legge
anticorruzione, che responsabilizza direttamente i segretari
nel coordinamento delle iniziative che le singole
amministrazioni devono assumere sul versante della
prevenzione di questo fenomeno.
Il risultato combinato di queste disposizioni non potrà che
determinare conseguenze anche sullo status dei segretari, a
partire dall'accelerazione del processo di convenzionamento
di questa figura nella gran parte dei piccoli Comuni, oltre
che dalla necessità di differenziare le attribuzioni di
controllo e garanzia da quelle che sono più intimamente
collegate alla gestione e di rafforzare la sua indipendenza.
Il decreto responsabilizza direttamente i segretari nella
direzione del controllo di regolarità amministrativa e
contabile nella fase successiva allo svolgimento della
attività amministrativa; va ricordato che nella fase
preventiva questo controllo è rimesso ai pareri tecnici dei
singoli dirigenti e a quello del dirigente finanziario. Il
controllo di regolarità amministrativa e contabile nella
fase successiva si deve dirigere sulle determinazioni, sugli
impegni di spesa, sui contratti e non sulle deliberazioni,
visto che nel procedimento di loro formazione il segretario
interviene già direttamente partecipando alle riunioni dei
consigli e delle giunte e avendo in quelle sedi il potere e
il dovere di evidenziare i profili di illegittimità.
Il
segretario viene inoltre responsabilizzato direttamente a
garantire la trasmissione delle risultanze di questa forma
di controllo interno agli organi di governo, ai dirigenti,
ai revisori dei conti e agli organismi di valutazione. Nel
rispetto di questi principi, le singole amministrazioni
avranno un'ampia autonomia regolamentare, ad esempio per la
scelta delle modalità con cui decidere gli atti da
controllare e con cui supportare il ruolo del segretario.
Una seconda importante scelta contenuta nel provvedimento è
quella di imporre alle singole amministrazioni l'obbligo di
garantire comunque uno ruolo specifico del segretario nella
«organizzazione del sistema dei controlli interni».
Si deve inoltre segnalare il vincolo che i segretari siano
direttamente coinvolti, anche se non con un ruolo di
direzione, nel controllo degli equilibri finanziari. Il che
sottolinea la crescente funzione di garanzia che il
segretario viene a svolgere in tale forma di controllo
interno.
Inoltre nelle province e nei comuni con popolazione
superiore a 10mila abitanti, i direttori generali o i
segretari sono impegnati a trasmettere, per conto del
vertice politico dell'ente, con cadenza semestrale alla
Corte dei conti il referto della regolarità della gestione e
dell'efficacia e adeguatezza dei sistemi di controllo
interno, informando anche il Presidente del Consiglio
comunale o provinciale (articolo Il Sole 24 Ore
del 15.10.2012 - link a www.corteconti.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Subito al via gli esami preventivi agli atti.
Il parere tecnico «vincola» tutte le delibere.
L'immediata operatività di alcune disposizioni del D.L.
10.10.2012 n. 174 determina la riorganizzazione di molte fasi dei
processi decisionali.
Le nuove norme relative ai pareri
sulle deliberazioni e a quelli dell'organo di revisione sono
in vigore dal 10 ottobre, con l'inserimento nel Tuel: di
conseguenza, le amministrazioni devono adeguare le procedure
per la formazione degli atti di giunta e consiglio al nuovo
quadro di regole, a pena di illegittimità degli stessi.
In base alla nuova formulazione dell'articolo 49 del Dlgs
267/2000, per le deliberazioni di giunta e di consiglio va
richiesto il parere di regolarità tecnica del responsabile
di servizio, ma, se esse comportano riflessi diretti o
indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul
patrimonio dell'ente, va acquisito anche il parere del
responsabile del servizio finanziario in ordine alla
regolarità contabile (comma 1).
La resa dei pareri deve
avvenire in relazione alla proposta di deliberazione formata
e sottoposta all'organo collegiale per l'adozione, con il
loro inserimento nel testo della stessa. Giunta e Consiglio
possono discostarsene in sede di approvazione dell'atto, ma
devono darne adeguata motivazione nel testo della
deliberazione (comma 4). La norma ha contenuto analogo a
quello dell'articolo 6, comma 1, lettera e), della legge
241/1990 in linea generale per i provvedimenti
amministrativi.
La disposizione consente comunque ai due organi collegiali
di adottare altre decisioni, che potranno assumere la
configurazione di meri atti di indirizzo, tuttavia
restringendo di fatto l'ambito di utilizzo degli stessi.
Nel caso in cui l'ente non abbia i responsabili dei servizi
(quindi nelle ipotesi di Comuni di ridotte dimensioni), i
pareri sono espressi dal segretario dell'ente, in relazione
alle sue competenze.
In tema di pareri incide anche la nuova formulazione
dell'articolo 239 del Tuel, che riporta all'organo di
revisione la resa di una serie di pareri obbligatori su
alcune delle decisioni di massima rilevanza per la
situazione economico-finanziaria e organizzativa dell'ente
locale. La norma prevede, peraltro, che la resa dei pareri
sia disciplinata da un regolamento, che non potrà essere che
quello di contabilità, creando un singolare paradosso,
poiché i revisori devono svolgere la loro azione consultiva
anche sulle proposte di regolamenti relativi alla
contabilità (come pure quelli in materia di economato,
patrimonio e applicazione dei tributi locali). Le
valutazioni dell'organo di revisione sugli oggetti specifici
indicati nell'articolo 239 sono obbligatorie e vanno
formulate con un giudizio articolato su congruità, coerenza
e attendibilità contabile in rapporto alle previsioni di
bilancio.
Anche l'integrazione apportata all'articolo 109 del Tuel,
sui presupposti per la revoca del responsabile del servizio
finanziario e sul percorso per la formalizzazione della
stessa (comprensivo del parere obbligatorio del ministero
dell'Interno e del Mef-Rgs), comporta l'immediata
operatività della procedura. Di conseguenza, un atto di
revoca da parte del sindaco o del presidente della Provincia
(in forma di ordinanza) non sostenuto dal presupposto di
gravi irregolarità nell'esercizio delle funzioni assegnate,
e senza il parere obbligatorio dei due ministeri, sarebbe
illegittimo (articolo Il Sole 24 Ore
del 15.10.2012 - link a www.ecostampa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Controlli immediati del Consiglio.
La stretta coinvolge anche i lavori urgenti.
Sempre al fine di mettere un freno alle spese degli enti
locali, il Dl 174/2012 è particolarmente restrittivo anche
sui lavori pubblici di somma urgenza dovuti a eventi
eccezionali o imprevedibili, che spesso, anche per la
notevole frequenza cui vi si ricorre e per gli elevati
importi connessi, hanno ripercussione di notevole entità
sugli equilibri finanziari dell'ente.
Si supera il precedente ordinamento più "blando”, che
prevedeva una regolarizzazione dei lavori ordinati –a cura
del responsabile del procedimento– a pena di decadenza
entro 30 giorni, e comunque entro il 31 dicembre dell'anno,
e la comunicazione al terzo interessato
(appaltatore/fornitore) contestualmente alla
regolarizzazione. I lavori di somma urgenza vengono
ricondotti nell'ambito della casistica dei debiti fuori
bilancio, come tali soggetti alla relativa procedura,
coinvolgendo il responsabile del procedimento, la giunta e
il consiglio comunale. A quest'ultimo viene di fatto
demandato il compito di verificare la sussistenza dei
presupposti normativi e contabili in ordine alla legittimità
della procedura intrapresa e di apprestare la relativa
copertura finanziaria.
Infatti, nel sostituire l'articolo 191, comma 3, del Dl
267/2000, il D.L.
10.10.2012 n. 174 prevede che, «per i lavori pubblici
di somma urgenza, cagionati dal verificarsi di un evento
eccezionale o imprevedibile, la giunta, entro dieci giorni
dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile
del procedimento, sottopone all'organo consiliare il
provvedimento di riconoscimento della spesa con le modalità
previste dall'articolo 194, prevedendo la relativa copertura
finanziaria nei limiti delle accertate necessità per la
rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica
incolumità. Il provvedimento di riconoscimento è adottato
entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta
da parte della giunta, e comunque entro il 31 dicembre
dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto il
predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è
data contestualmente all'adozione della deliberazione
consiliare».
Si tratta, quindi, di un controllo consiliare immediato (con
funzione di ratifica dell'operato del responsabile del
procedimento che ha ordinato i lavori). Una novità che
potrebbe limitare i lavori di somma urgenza ai casi in cui
l'intervento è assolutamente indifferibile e condivisibile (articolo Il Sole 24 Ore
del 15.10.2012 - link a www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA
|
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
violazione della norma che impone (tra l’altro) il parere di
regolarità contabile determina l’illegittimità della
relativa delibera perché si tratta di disposizione che ha
l’importante finalità di mettere al corrente l’organo
politico (la giunta o il consiglio) dell’incidenza della
deliberazione sul bilancio comunale, fermo restando che
detti pareri non pongono alcun limite alla potestà
deliberante di quest’ultimo che ben può liberamente disporre
del contenuto delle deliberazioni (una volta resi detti
pareri) perché, diversamente argomentando, si finirebbe con
l’attribuire agli organi consultivi potere di
amministrazione attiva, lasciando ai corpi rappresentativi
la funzione di mera ratifica delle determinazioni altrui.
Passando all'esame della questione centrale relativa
all'illegittimità della più volte citata deliberazione
729/2001 in ragione della violazione dell'articolo 53 legge
142/1990, come recepito in Sicilia dalla legge regionale
48/1991, occorre rilevare che effettivamente la
deliberazione in questione non reca il previsto parere di
regolarità contabile. Sotto tale aspetto, dunque, la
delibera presenta profili di indubbia contrarietà al chiaro
disposto della legge e conseguentemente il motivo d'appello
deve essere rigettato (Cons. St., V, 15.02.2000 n. 808)
risultando convincente l’illegittimità riscontrata dal
giudice di primo grado.
A differenza di quanto affermato da alcune decisioni dei
TAR, il Consiglio ritiene che la violazione della norma che
impone (tra l’altro) il parere di regolarità contabile
determini l’illegittimità della relativa delibera (Cons.
St., V, 15.02.2000 n. 808) perché si tratta di disposizione
che ha l’importante finalità di mettere al corrente l’organo
politico (la giunta o il consiglio) dell’incidenza della
deliberazione sul bilancio comunale, fermo restando che
detti pareri non pongono alcun limite alla potestà
deliberante di quest’ultimo che ben può liberamente disporre
del contenuto delle deliberazioni (una volta resi detti
pareri) perché, diversamente argomentando, si finirebbe con
l’attribuire agli organi consultivi potere di
amministrazione attiva, lasciando ai corpi rappresentativi
la funzione di mera ratifica delle determinazioni altrui
(Corte Conti reg. Sicilia, sez. giurisd., 23.03.2011, n.
1058)
(C.G.A.R.S.,
sentenza 16.10.2012 n. 942 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
rapporto di trasmissione via fax è strumento idoneo a
garantire con sufficiente certezza l’effettività della
comunicazione, senza che il soggetto che ha trasmesso il fax
debba fornire l’ulteriore prova oltre quella risultante dal
rapporto di trasmissione che indichi le regolari avvenute
trasmissioni e ricezioni, mentre grava, invece, sul
ricevente che assume la mancata ricezione fornire la prova
contraria.
In base alla più recente normativa (D.P.R. 28.12.2000, n.
445) il fax è lo strumento ordinario di comunicazione di
atti e documenti, in quanto soddisfa sia la forma scritta
che la fonte di provenienza; in forza dell’art. 43, comma 6,
un fax deve presumersi giunto al destinatario quando il
rapporto di trasmissione indica che questa è avvenuta
regolarmente.
Sulla scorta della normativa citata, la giurisprudenza ha
ritenuto che il rapporto di trasmissione via fax è strumento
idoneo a garantire con sufficiente certezza l’effettività
della comunicazione, senza che il soggetto che ha trasmesso
il fax debba fornire l’ulteriore prova oltre quella
risultante dal rapporto di trasmissione che indichi le
regolari avvenute trasmissioni e ricezioni, mentre grava,
invece, sul ricevente che assume la mancata ricezione
fornire la prova contraria (cfr., di recente, C.d.S., Sez.
V, 14.02.2010, n. 722) (C.G.A.R.S.,
sentenza 16.10.2012 n. 941 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI: Nel
nuovo ordinamento delle autonomie locali, in mancanza di una
disposizione statutaria che la richieda espressamente,
l'autorizzazione alla lite da parte della giunta municipale
non costituisce atto necessario ai fini del promuovimento di
azioni o della resistenza in giudizio da parte del sindaco:
quest'ultimo, infatti, trae la propria investitura
direttamente dal corpo elettorale e costituisce, esso
stesso, fonte di legittimazione dei componenti della giunta
municipale, nel quadro di un sistema costituzionale e
normativo di riferimento profondamente influenzato dalle
modifiche apportate al Titolo V della Parte II cost. dalla
l. cost. 18.10.2001 n. 3, nonché di quelle introdotte dalla
l. 05.06.2003 n. 131, con ripercussioni anche sull'impianto
del d.lgs. 18.08.2000 n. 267, il cui art. 50, peraltro,
indica il sindaco quale organo responsabile
dell'amministrazione comunale e gli attribuisce la
rappresentanza.
Nel nuovo ordinamento delle autonomie locali, la
rappresentanza processuale del comune spetta
istituzionalmente al sindaco, cui compete, in via esclusiva,
il potere di conferire al difensore la procura alle liti,
senza necessità di autorizzazione della giunta municipale,
salvo che una disposizione statutaria la richieda
espressamente, spettando in tal caso alla parte interessata
provare la carenza di tale autorizzazione producendo idonea
documentazione.
Quanto poi alla asserita illegittimità del mandato conferito
dal Sindaco all’avv. Cerceo il 12.03.2009, in assenza della
esplicita autorizzazione della Giunta, che sarebbe tuttora
richiesta dallo Statuto, in primo luogo è da ritenere che, a
seguito della modifica statutaria mediante l’inserimento
della disposizione secondo la quale “i dirigenti sono
competenti alla promozione delle liti e alla resistenza alle
stesse” sia venuta meno, per incompatibilità tra la
nuova disposizione (il citato art. 44, comma 6-bis) e la
precedente, vale a dire l’art. 38/s) dello statuto, proprio
quest’ultima disposizione la quale, in base a quanto afferma
la difesa dell’appellato, richiedeva che la Giunta
autorizzasse il Sindaco a promuovere o a resistere alle
liti. Si tratta, del resto, di atto gestionale e tecnico che
non richiede più l’autorizzazione giuntale.
A questo proposito la Corte suprema di Cassazione (sent. n.
21330 del 2006) ha avuto occasione di statuire che “nel
nuovo ordinamento delle autonomie locali, in mancanza di una
disposizione statutaria che la richieda espressamente,
l'autorizzazione alla lite da parte della giunta municipale
non costituisce atto necessario ai fini del promuovimento di
azioni o della resistenza in giudizio da parte del sindaco:
quest'ultimo, infatti, trae la propria investitura
direttamente dal corpo elettorale e costituisce, esso
stesso, fonte di legittimazione dei componenti della giunta
municipale, nel quadro di un sistema costituzionale e
normativo di riferimento profondamente influenzato dalle
modifiche apportate al Titolo V della Parte II cost. dalla
l. cost. 18.10.2001 n. 3, nonché di quelle introdotte dalla
l. 05.06.2003 n. 131, con ripercussioni anche sull'impianto
del d.lgs. 18.08.2000 n. 267, il cui art. 50, peraltro,
indica il sindaco quale organo responsabile
dell'amministrazione comunale e gli attribuisce la
rappresentanza”.
Inoltre, “nel nuovo ordinamento delle autonomie locali,
la rappresentanza processuale del comune spetta
istituzionalmente al sindaco, cui compete, in via esclusiva,
il potere di conferire al difensore la procura alle liti,
senza necessità di autorizzazione della giunta municipale,
salvo che una disposizione statutaria la richieda
espressamente, spettando in tal caso alla parte interessata
provare la carenza di tale autorizzazione producendo idonea
documentazione” (Cass. civ. n. 13968/2010)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 15.10.2012 n. 5277 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
La Corte ha dichiarato incostituzionale la
trattenuta del Tfs. Ma grazie alla Consulta la paga recupera
il 2,5%.
La trattenuta in busta paga del 2,5% (ex
opera di previdenza) è incostituzionale. Il passaggio dalla
disciplina del Tfs a quella del Tfr dal 01.01.2011, operato
dall'articolo 12 comma 10 del decreto legge 78/2010, ha
determinato, infatti, la cancellazione di tale trattenuta. E
quindi, l'interpretazione adottata dal governo, nel senso
del permanere della decurtazione, è incostituzionale.
Lo ha stabilito la Consulta con la
sentenza 11.10.2012 n. 223.
La Corte costituzionale ha spiegato che la trattenuta non
poteva essere più applicata dopo che la legge aveva mutato
il regime della buonuscita dei dipendenti pubblici. Prima
dell'avvento della nuova disciplina, infatti, i dipendenti
pubblici assunti prima del 2000, all'atto della cessazione
ricevevano una somma, denominata trattamento di fine
servizio (Tfs) notevolmente più alta rispetto al Tfr
(trattamento di fine rapporto).
Il Tfs, infatti, veniva calcolato sull'ultimo stipendio
dell'ultimo giorno di servizio, moltiplicato per il numero
degli anni a cui si aveva diritto, compresi i periodi
riscattati. Il Tfr, invece, è salario differito (come tale
totalmente a carico dell'amministrazione) che viene
accantonato (virtualmente) e rivalutato anno per anno per
essere poi versato al lavoratore, al termine dell'attività
lavorativa, come liquidazione. L'importo del Tfr, dunque, è
dato dal risultato dell'accantonamento di una specie di
quattordicesima mensilità, che viene messa da parte ogni
anno dall'amministrazione. E che viene versata in un'unica
soluzione quando il lavoratore cessa dal servizio. Di qui il
minore importo rispetto al Tfs.
Oltre tutto la trattenuta del 2,50%, che veniva applicata ai
fini del Tfs, veniva calcolata ponendo come base l'80%
dell'importo della retribuzione. Ma a questo scopo
assumevano rilievo solo alcune voci stipendiali. E cioè: lo
stipendio tabellare, l'indennità integrativa speciale,
l'eventuale assegno ad personam o la vacanza
contrattuale. Rimanevano invece fuori dal calcolo: la
retribuzione professionale docente (per gli insegnanti), il
compenso individuale accessorio (per gli Ata), l'indennità
di direzione e l'indennità di risultato (per direttivi e
dirigenti). L'applicazione della trattenuta del 2,5% su
somme in regime di Tfr ha determinato, dunque, due effetti
deteriori.
Il primo è la decurtazione della retribuzione calcolata al
lordo, comprendendo tutte le voci stipendiali, nessuna
esclusa. E dunque un aumento comunque illegittimo
dell'importo della trattenuta. Aumento al quale fa riscontro
una liquidazione di minore importo rispetto a quella fissata
dalla vecchia disciplina. Il secondo è l'applicazione di una
decurtazione non dovuta, a carico dei soli dipendenti
pubblici, nonostante il passaggio al nuovo regime avrebbe
dovuto comportare il mero obbligo di accantonamento del
6,91% della retribuzione lorda onnicomprensiva, a solo
carico dell'amministrazione in quanto datore di lavoro.
E quindi, la Corte costituzionale ha ritenuto di dichiarare
che la nuova disciplina «determina irragionevolmente
l'applicazione dell'aliquota del 6,91% sull'intera
retribuzione, senza escludere nel contempo la vigenza della
trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50% della base
contributiva della buonuscita». Di qui la pronuncia di
illegittimità costituzionale
(articolo ItaliaOggi del 16.10.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La demolizione, quale misura volta a garantire il
ripristino della legalità violata, non opera solo quale
sanzione rivolta contro il responsabile dell'abuso, ma
legittimamente può essere irrogata nei confronti del
proprietario dell'immobile, anche qualora non responsabile
dell'abuso, proprio perché il proprietario in tale veste
trovasi in una relazione giuridica qualificata con
l'immobile oggetto di abuso, che gli consente di attivarsi
onde renderlo conforme alla normativa urbanistica ed
edilizia vigente.
Inoltre, la prevalente giurisprudenza è incline a ritenere
legittimamente applicabili le sanzioni demolitorie nei
confronti del proprietario dell'immobile abusivo, non avendo
l'amministrazione alcun obbligo di compiere accertamenti
giuridici circa l'esistenza di particolari rapporti
interprivati, ma solo l'onere di individuare il proprietario
catastale.
---------------
E’ “ius receptum” di questo Tribunale che l'ordine di
demolizione di opera abusiva, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione e correlativa
esplicazione delle ragioni di interesse pubblico attuale e
concreto alla demolizione né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, poiché non è ravvisabile alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il trascorrere del tempo non può legittimare.
---------------
L’ordine di demolizione può essere rivolto anche
all’usufruttuario il quale in virtù della particolare
ampiezza del diritto di cui è titolare, può essere
equiparato al proprietario.
Quanto al primo motivo, deve essere ribadita la legittimità
dell'operato comunale, per avere applicato la sanzione
edilizia agli attuali proprietari anziché al responsabile
dell'abuso.
Sennonché, per costante giurisprudenza (p.e. fra le recenti
cfr. TAR Liguria, I, 18/05/2012, n. 705) la demolizione,
quale misura volta a garantire il ripristino della legalità
violata, non opera solo quale sanzione rivolta contro il
responsabile dell'abuso, ma legittimamente può essere
irrogata nei confronti del proprietario dell'immobile, anche
qualora non responsabile dell'abuso, proprio perché il
proprietario in tale veste trovasi in una relazione
giuridica qualificata con l'immobile oggetto di abuso, che
gli consente di attivarsi onde renderlo conforme alla
normativa urbanistica ed edilizia vigente (TAR
Campania-Napoli, VIII, 06.04.2011, n. 1945; TAR Lombardia,
IV, 09.03.2011, n. 644; TAR Campania-Salerno, II,
15.02.2006, n. 96; TAR Veneto, II, 09.12.2003, n. 6064).
Inoltre, la prevalente giurisprudenza (cfr. Consiglio Stato,
sez. IV, 27.10.2011 n. 5758; id. 12.04.2011, n. 2266; sez.
V, 31.03.2010, n. 1878; TAR Lombardia, Milano, II,
14/06/2012 n. 1656) è incline a ritenere legittimamente
applicabili le sanzioni demolitorie nei confronti del
proprietario dell'immobile abusivo, non avendo
l'amministrazione alcun obbligo di compiere accertamenti
giuridici circa l'esistenza di particolari rapporti
interprivati, ma solo l'onere di individuare il proprietario
catastale (cfr. sulla natura riparatoria-ripristinatoria
delle sanzioni amministrative correlate all'abusivismo
edilizio, come tali prive del carattere esclusivamente
punitivo proprio dei procedimenti sanzionatori considerati
dalla L. 689/1981: Cons. di Stato, sez. II, 13.11.1996, n.
1026 secondo cui: "la sanzione pecuniaria per abuso
edilizio non è retributiva di un comportamento illecito,
bensì ripristinatoria dell'ordine urbanistico violato,
seppure per equivalente" e pertanto non prevede
l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si
imputa la realizzazione dell’abuso).
Comunque, la mancata notifica al preteso responsabile
dell’abuso giammai avrebbe potuto orientare diversamente
l’amministrazione in sede di repressione degli abusi atteso
che la perizia di parte dell’Ing. Lombardi è stata inoltrata
al Comune solo in data successiva all’adozione e alla
notifica dell’atto impugnato; come rilevato
dall’amministrazione, detta perizia si limita ad escludere
che le opere abusive possano essere state eseguite dopo
l’acquisto, ma non imputa specificamente a terzi la
commissione degli abusi.
Pure infondata è la censura relativa al difetto di
motivazione inficiante l’atto impugnato con riferimento al
lungo lasso temporale trascorso dalla realizzazione degli
abusi e in riferimento all’affidamento degli istanti.
E’ “ius receptum” di questo Tribunale che l'ordine di
demolizione di opera abusiva, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione e correlativa
esplicazione delle ragioni di interesse pubblico attuale e
concreto alla demolizione né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, poiché non è ravvisabile alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il trascorrere del tempo non può legittimare
(TAR Basilicata Potenza, sez. I, 06.04.2011, n. 159; TAR
Basilicata Potenza, 15.02.2006, n. 96; TAR Basilicata
Potenza, 17.07.2002, n. 518).
Inoltre, è infondato anche il secondo motivo atteso che
l’ordine di demolizione può essere rivolto anche
all’usufruttuario il quale in virtù della particolare
ampiezza del diritto di cui è titolare, può essere
equiparato al proprietario (TAR Basilicata,
sentenza 04.10.2012 n. 456 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Canna fumaria, conta chi la usa.
Il bene può anche non essere di proprietà condominiale. Per
la Cassazione prevale la prova della destinazione sulla
presunzione di comunione.
La canna fumaria, anche se ricavata all'interno di un muro
comune, può anche non essere di proprietà condominiale,
laddove la presunzione di comunione del bene sia vinta in
concreto dalla prova della destinazione oggettiva del bene a
servire in modo esclusivo uno solo dei comproprietari.
Questo il principio stabilito dalla II Sez. civile
della Corte di Cassazione nella recente
sentenza
25.09.2012 n. 16306.
La presunzione di comunione dei beni. Il codice civile,
all'art. 1117, elenca una serie di beni che si presumono di
natura condominiale, ossia destinati all'utilizzo e al
godimento di tutti i comproprietari: il suolo su cui sorge
l'edificio, le fondazioni, i muri maestri, i tetti e i
lastrici solari, le scale, i portoni d'ingresso, i
vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili, i locali per la
portineria e per l'alloggio del portiere, per la lavanderia,
per il riscaldamento centrale ecc..
Detti beni, come detto,
si presumono oggetto di proprietà comune dei proprietari dei
diversi piani o porzioni di piani di un edificio, a meno
che, per utilizzare il linguaggio codicistico, il contrario
non risulti dal titolo. Con quest'ultima espressione, come
chiarito anche dalla Suprema corte nella sentenza in
questione, si intende fare riferimento non solo ad atti
formali, come ad esempio il regolamento condominiale, ma
anche a circostanze di fatto, quali la destinazione
funzionale del bene.
Il caso concreto. Nella specie due condomini, proprietari di
un appartamento, avevano citato avanti alla pretura di Roma
i proprietari dell'appartamento soprastante. I primi, sul
presupposto che nell'incavo del muro maestro era stato
installato da tempo immemorabile un caminetto con relativa
canna fumaria che attraversava la parete condominiale del
sovrastante appartamento di proprietà dei convenuti,
lamentavano il fatto che questi ultimi avessero innestato a
loro volta nella predetta canna fumaria un'altra tubatura,
provocandone l'occlusione, per cui chiedevano al giudice di
accertare la loro proprietà esclusiva della canna fumaria in
questione, con condanna dei convenuti al ripristino dello
stato dei luoghi. Si erano però costituiti in giudizio i
convenuti, chiedendo il rigetto della domanda attrice,
sostenendo che la canna fumaria fosse invece di loro
proprietà esclusiva.
La decisione della Cassazione. I giudici di legittimità,
ritenendo che nel caso in questione fosse essenziale
stabilire alternativamente se la canna fumaria inserita
nell'edificio condominiale costituisse o meno opera
all'esclusivo servizio dell'unità immobiliare degli attori
originari, ovvero di quella dei convenuti originari o se,
infine, la stessa ricadesse nel novero delle cose comuni ai
sensi dell'art. 1117 c.c., hanno quindi concluso nel senso
che, sulla base delle risultanze processuali, il titolo
attributivo dell'esclusiva proprietà del bene agli attori
andava ricercato nella destinazione funzionale dell'opera
predetta all'esclusivo servizio del loro appartamento.
Nel
fare questo la Suprema corte si è richiamata a un precedente
di legittimità (sentenza n. 9231/1991) nel quale analogamente
era stato stabilito che una canna fumaria, anche se ricavata
nel vuoto di un muro comune, non è necessariamente di
proprietà comune, ben potendo appartenere a uno solo dei
condomini, ove sia destinata a servire esclusivamente
l'appartamento cui afferisce, costituendo detta destinazione
titolo contrario alla presunzione legale di comunione. Di
qui il rigetto del ricorso presentato dai condomini
convenuti in primo grado che, dopo aver presentato
inutilmente appello avverso la sentenza della pretura di
Roma, si sono visti condannare anche alle spese del giudizio
di legittimità.
---------------
Non si può pregiudicare il decoro della facciata.
Le canne fumarie all'interno del condominio rappresentano da
sempre una delle principali cause di litigio tra condomini.
In assenza di titolo contrario (il regolamento di
condominio, un atto di acquisto delle singole unità, una
sentenza passata in giudicato che ne accerti l'usucapione),
la canna fumaria si presume comune.
Tuttavia non è necessariamente di proprietà comune, ben
potendo appartenere a un gruppo di condomini o a uno solo
dei comproprietari, ove sia destinata a servire
esclusivamente un determinato appartamento. In ogni caso non
si può escludere che il singolo condomino debba installare
una nuova canna fumaria nelle parti comuni. Tale ipotesi è
normalmente ammessa, purché si rispettino determinati
requisiti. Al contrario è da escludere che un singolo
condomino possa utilizzare la canna fumaria dell'impianto
centrale di riscaldamento anche se questo sia stato
disattivato dal condominio, perché si avrebbe una definitiva
sottrazione della canna fumaria alle possibilità di
godimento della restante parte dei condomini (in questo caso
è necessario il consenso di tutti gli altri condomini).
Installazione di canna fumaria in facciata. L'appoggio di
una canna fumaria al muro comune perimetrale di un edificio
condominiale comporta una modifica della cosa comune
conforme alla destinazione della stessa, che ciascun
condomino può apportare a sue cure e spese. Del resto si
deve considerare la normale possibilità del muro stesso di
contenere o reggere una o più canne fumarie, senza subire
alterazione apprezzabile della sua principale funzione e
senza compromettere l'uso da parte degli altri condomini.
Tali considerazioni valgono a maggiore ragione nel caso in
cui l'opera sia diretta a evitare la diffusione dei fumi di
cottura di un ristorante, che incidono in modo particolare
sulle condizioni di vita di tutti i condomini.
Certo tale appoggio non deve pregiudicare il decoro del
caseggiato, incidendo negativamente sull'insieme
dell'aspetto dello stabile (e ciò a prescindere dal
particolare pregio estetico dell'edificio). Così, ad
esempio, deve ritenersi illegittima l'installazione di una
canna fumaria che percorra tutta la facciata dell'edificio
condominiale, così da pregiudicare l'aspetto e l'armonia del
condominio.
Allo stesso modo la canna fumaria deve essere di dimensioni
tali da non ridurre considerevolmente la visuale da parte
degli altri condomini che usufruiscano di vedute dalla
facciata interessata.
Il discorso si collega alla compatibilità dell'installazione
di una canna fumaria rispetto delle distanze legali. A tale
proposito si deve precisare che le norme in materia sono
applicabili anche nei rapporti tra il condominio e il
singolo condomino nel caso in cui esse siano compatibili con
l'applicazione delle norme particolari relative all'uso
delle cose comuni, cioè nel caso in cui sia possibile una
applicazione complementare. Quindi, qualora vi sia
compatibilità tra le due discipline, la distanza legale per
la collocazione di una canna fumaria sul muro perimetrale
comune, a opera di uno dei condomini, non può essere
inferiore a 75 centimetri dai più vicini sporti dei balconi
di proprietà esclusiva degli altri comproprietari.
In ogni
caso una canna fumaria installata in un condominio ex novo e
senza alcuna previa autorizzazione condominiale va rimossa
qualora provochi immissioni che superino la normale soglia
di tollerabilità o, quanto meno, dovranno essere adottate le
misure tecniche idonee a limitare il disagio arrecato. Del
resto è possibile che il regolamento di condominio preveda
limiti più rigorosi nell'installazione di una nuova canna
fumaria da parte del singolo condominio.
Installazione di canna fumaria sul lastrico solare.
Qualora l'installazione della canna fumaria vada a
interessare una porzione di lastrico solare, occorrerà
verificare se tale installazione alteri o meno la funzione
di protezione e calpestio del lastrico stesso e se sottragga
il lastrico o parte di esso alla possibilità di utilizzo da
parte degli altri condomini. Occorrerà pertanto valutare
caso per caso se l'installazione sia legittima.
La giurisprudenza ha poi ritenuto che se il condomino
inserisce la propria canna fumaria nel lastrico solare
comune, incorporandone una porzione con opere murarie, al
servizio esclusivo del proprio appartamento, non ne
compromette la destinazione se occupa una zona periferica
del tutto trascurabile rispetto alla superficie complessiva
del lastrico, senza che possa, in concreto, escludersi la
funzione di calpestio del lastrico o le possibilità di uso
degli altri comproprietari.
Al contrario il condomino che, senza previa autorizzazione,
inserisca stabilmente e con opere murarie una canna fumaria
di dimensioni non limitate in corrispondenza dell'esiguo
cordolo perimetrale del lastrico solare destinato a
stenditoio, pone in essere un'occupazione stabile e
duratura, non consentita dalla legge, sottraendo la relativa
porzione di bene comune all'uso e al godimento degli altri
condomini (articolo ItaliaOggi Sette del
15.10.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
ABUSO DI UFFICIO: rilascio di permesso di
costruire contrario agli strumenti urbanistici -
configurabilità del reato (art. 323 c.p.).
E’ configurabile il reato di abuso di ufficio, nell'ipotesi
di rilascio di permesso edilizio in contrasto con gli
strumenti urbanistici generali, stante la loro natura di
atti da ritenersi equiparati alle norme regolamentari, la
cui violazione è richiesta ai fini della configurabilità
dell'art. 323 c.p..
In particolare, il rilascio di titolo abilitativo
illegittimo costituisce il presupposto di fatto della
violazione della normativa primaria in materia edilizia,
alla quale deve comunque farsi riferimento quale dato
strutturale della fattispecie criminosa (Cassazione penale,
sez. III, 09/04/2008, n. 22134; sez. 6, 2001/16241, Ruggeri,
RV 218516; conf. sez. 6, 2003/20475, Casagrande ed altri, RV
225185).
E quand’anche il piano regolatore non possa equipararsi al "regolamento”
richiamato dallo stesso art. 323 c.p., la condotta
violerebbe direttamente la legge, e precisamente le norme
della l. n. 1150 del 1942 e s.m.i. ,della L. n. 10/1977 e
–da ultimo- dell’art. 12 DPR 380/2001, secondo cui gli atti
dei p.u. in relazione a domande di concessione edilizia
devono essere conformi a quanto previsto dai piani
regolatori e dai regolamenti edilizi; laddove il
provvedimento amministrativo svolge una funzione integrativa
rispetto agli elementi normativi del fatto (Cassazione
penale, sez. V, 31/01/2001; Cassazione penale, sez. VI,
05/09/2000, n. 9422; Cassazione penale, sez. VI, 11/05/1999,
n. 8194 ) (TRIBUNALE di Nola, Coll. B,
sentenza 15.12.2011 - link a www.iussit.eu). |
AGGIORNAMENTO AL 15.10.2012 |
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dite la vostra
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ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
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Nessuna sbrigativa gestione associata di uffici o servizi
(15.10.2012). |
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IL REATO DI ABBANDONO DI RIFIUTI SPECIALI COSTITUITI DA
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URBANISTICA:
F. R. Maellaro,
LA LEGITTIMAZIONE AL RICORSO IN MATERIA URBANISTICA
(link a www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA:
P. Giampietro,
Il nuovo statuto delle terre e rocce da scavo (link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
G. Ferrari,
EFFICACIA TEMPORALE E DECADENZA DEL PERMESSO DI COSTRUIRE
(link a www.lexambiente.it). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: La
Sezione si pronuncia in ordine allo svolgimento in forma
associata di funzioni fondamentali ai sensi della L. n.
135/2012.
Il Sindaco del Comune di Valle Lomellina (PV) ha posto alla
Sezione una articolata richiesta di parere in ordine allo
svolgimento in forma associata di funzioni fondamentali ai
sensi della l. n. 135/2012.
Più nel dettaglio, l’organo rappresentativo dell’ente
precisa quanto segue.
Il Comune di Valle Lomellina, la cui popolazione è pari a
2.250 abitanti, alla luce della vigente normativa ha
l'obbligo di associarsi per lo svolgimento delle nove
funzioni fondamentali come previste, da ultimo, dal comma 1
dell'articolo 19 del d.l. n. 95/2012 convertito in legge n.
135/2012, o comunque di rivedere, alla luce delle novità
introdotte dalla suddetta legge n. 135/2012, le forme
associative già costituite con altri comuni nelle forme
dell'unione o della convenzione.
Ciò premesso, il Sindaco pone i seguenti quattro quesiti.
A) In assenza di limite minimo dimensionale nazionale per le
convenzioni (che non appare rinvenirsi nella legge n.
135/2012), trova comunque applicazione la legge regionale
lombarda n. 22/2011 (che fissa in 5.000 abitanti o nel
quadruplo degli abitanti del comune demograficamente più
piccolo tra quelli associati il limite dimensionale minimo
per le convenzioni) anche se precedente alla legge statale
n. 135/2012?
B) In caso di gestione delle varie funzioni mediante
convenzione o unione, a ciascuna funzione fondamentale può
essere preposto un solo responsabile di servizio (titolare
di posizione organizzativa), anche se la funzione comprende
servizi diversi ed eterogenei? In tal caso tale soluzione
implica ripercussioni sulle correlative posizioni
organizzative nei comuni aderenti alle due modalità di
gestione associata?
C) Il comma 5 dell'art. 32 del d.lgs. n. 267/2000 -come
modificato dall'articolo 19 del d.l. n. 95/2012 convertito
in legge n. 135/2012– statuisce che "all’unione sono
conferite dai comuni partecipanti le risorse umane e
strumentali necessarie all'esercizio delle funzioni loro
attribuite". Orbene, tale disposizione deve interpretarsi
nel senso che, ove i comuni costituiscano o siano già in
unione, la gestione delle (nove) funzioni fondamentali deve
avvenire mediante comando o trasferimento (o altra forma di
utilizzo) del personale dal comune all'unione, con transito
della gestione del personale preposto alla funzione
associata a valere sul bilancio dell'unione?
D) Quali sono le interrelazioni, in caso di gestione
associata a mezzo di Unione ex art. 32 del d.lgs. n.
267/2000 o convenzione ex art 30 del d.lgs. n. 267/2000 con
gli obblighi che -dal 2013- graveranno sui comuni sopra i
1.000 abitanti, assoggettati al patto di stabilità, con
specifico riferimento alle spese di personale?
...
Con il primo quesito il Sindaco si interroga se, in assenza di un limite
minimo dimensionale nazionale per le convenzioni (che non
appare rinvenirsi nella legge 135/2012), trovi comunque
applicazione ad un Comune ricompreso tra i 1.000 e i 5.000
abitanti la legge regionale lombarda n. 22/2011 (che –all’art. 8, comma 1, e salve le deroghe di cui al successivo
art. 10- fissa in 5.000 abitanti o nel quadruplo degli
abitanti del comune demograficamente più piccolo tra quelli
associati il limite dimensionale minimo per le convenzioni),
anche se precedente alla legge statale n. 135/2012.
Il Collegio osserva che la citata disposizione di legge
regionale non appare ex se incompatibile con il vigente
assetto normativo di fonte statale ex art. 19 del d.l. n.
95/2012, il quale –in relazione alle convenzioni in oggetto– statuisce quanto segue: “le convenzioni … hanno durata
almeno triennale e alle medesime si applica, ove
compatibile, l’articolo 30 del decreto legislativo 18.08.2000 n. 267. Ove alla scadenza del predetto periodo non sia
comprovato, da parte dei comuni aderenti, il conseguimento
di significativi livelli di efficacia e di efficienza nella
gestione, secondo modalità stabilite con decreto del
Ministro dell’Interno, da adottare entro sei mesi, sentita
la Conferenza Stato Città ed autonomie locali, i comuni
interessati sono obbligati ad esercitare le funzioni
fondamentali esclusivamente mediante unione di comuni”.
Anzi, la predeterminazione di una soglia demografica minima
da parte del Legislatore regionale, peraltro -come
illustrato- non priva di caratteri di flessibilità, appare
coerente con la specifica finalità cristallizzata dal
Legislatore statale di conseguire livelli di efficacia e di
efficienza nella gestione sovracomunale delle funzioni
mediante convenzione.
D’altronde, è la medesima normativa nazionale (art. 14,
commi 30 e 31, del d.l. n. 78/2010 a seguito della novella
ex art. 19 del d.l. n. 95/2012) che, al fine di tutelare i
principi di efficacia, di economicità, di efficienza e di
riduzione delle spese, ha demandato alla normativa regionale
–nelle materie di cui al terzo e quarto comma dell’art. 117
della Costituzione e previa concertazione con i comuni
interessati nell’ambito del Consiglio delle autonomie locali– l’individuazione della dimensione territoriale ottimale e
omogenea per area geografica (oltre che il termine per
l’esercizio delle predette funzioni), individuando comunque,
per le unioni, salvo diversa indicazione regionale nel
termine previsto, un limite demografico minimo di 10.000
abitanti (cfr., sul punto, Corte dei Conti, Sez. Basilicata,
delibera n. 173 del 20.09.2012).
Con il secondo quesito, l’Amministrazione si interroga da un
lato se, in caso di gestione delle varie funzioni mediante
convenzione o unione, a ciascuna funzione fondamentale possa
essere preposto un solo responsabile di servizio (titolare
di posizione organizzativa), anche se la funzione comprende
servizi diversi ed eterogenei; dall’altro, sorge il dubbio
in capo al Comune istante se, in tal caso, siffatta
soluzione implichi ripercussioni sulle correlative posizioni
organizzative nei comuni aderenti alle due modalità di
gestione associata.
Orbene, spettando ad ogni Ente interessato, e quindi anche
al Comune di Valle Lomellina (PV), la concreta attuazione
del disposto legislativo citato sopra, la Sezione non può
pronunciarsi in questa sede nel merito sulla convenienza e
correttezza di particolari soluzioni.
Al fine di contribuire a chiarire il contesto normativo e
finanziario all’interno del quale è stata introdotta la
norma che prevede l’unificazione delle funzioni, così da
agevolare il compito attuativo che spetta all’Ente
interessato, il Collegio evidenzia peraltro recenti approdi
ermeneutici della giurisprudenza contabile (Corte Conti,
sez. Piemonte,
parere 30.08.2012 n. 287), da cui
non vi è ragione di discostarsi in questa sede, di seguito
testualmente richiamati.
Come più volte indicato, in base all’art. 14, co. 27 e segg.,
del d.l. 31.05.2010, n. 78, conv. dalla legge 30.07.2010, n. 122, come modificata ed integrata dall’art. 19 del
d.l. 06.07.2012, n. 95, conv. dalla legge 07.08.2012,
n. 135, i Comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti
sono tenuti ad esercitare “obbligatoriamente, in forma
associata, mediante unione di comuni o convenzione, le
funzioni fondamentali dei comuni di cui al comma 27, ad
esclusione della lettera l)” (art. 27, co. 28).
Peraltro, il legislatore ha indicato l’obiettivo
dell’esercizio associato delle funzioni, da raggiungere
progressivamente, ma non ha fornito indicazioni in merito
alle conseguenze che questo potrà avere sia
sull’organizzazione dei singoli enti che sulla gestione dei
rapporti di lavoro dei dipendenti.
E’ indubbio che lo scopo perseguito con la previsione
contenuta nei commi 27 e segg. del citato art. 14 del d.l.
n. 78, conv. dalla legge n. 122 del 2010, è quello di
migliorare l’organizzazione degli Enti interessati al fine
di fornire servizi più adeguati sia ai cittadini che alle
imprese, nell’osservanza dei principi di economicità,
efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa.
Spetta, quindi, agli Enti interessati dalla procedura di
aggregazione delle funzioni individuare le modalità
organizzative ottimali, al fine di raggiungere gli obiettivi
di maggior efficienza, razionalizzazione e risparmio che il
legislatore intendeva conseguire prevedendo l’esercizio
associato delle funzioni.
Con specifico riguardo alla concreta organizzazione di
ciascuna funzione, è evidente che gli Enti interessati
dall’aggregazione debbano unificare gli uffici e, a seconda
delle attività che in concreto caratterizzano la funzione,
prevedere la responsabilità del servizio in capo ad un unico
soggetto che disponga dei necessari poteri organizzativi e
gestionali, nominato secondo le indicazioni contenute
nell’art. 109 del TUEL.
L’atto costitutivo dell’unione o la convenzione predisposta
per la gestione associata dei servizi dovrà prevedere le
modalità di nomina dei Responsabili dei servizi e ciascun
Ente dovrà adeguare il proprio Regolamento degli Uffici e
dei servizi per poter procedere allo svolgimento associato
delle funzioni.
Nella predisposizione del modello organizzativo gli Enti
interessati dovranno tenere conto degli obiettivi di finanza
pubblica sottesi al citato art. 14, co. 27 e segg., del d.l.
n. 78 del 2010, come modificato ed integrato dall’art. 19
del d.l. 06.07.2012, n. 95, conv. dalla legge 07.08.2012, n. 135, e
dovranno, quindi, evitare di adottare
soluzioni organizzative che, di fatto, si pongano in
contrasto con le finalità, anche di risparmio di spesa,
perseguite dal legislatore e che, nella sostanza, mantengano
l’organizzazione precedente.
L’esercizio unificato della funzione implica che sia
ripensata ed organizzata ciascuna attività, cosicché ciascun
compito che caratterizza la funzione sia considerato in modo
unitario e non quale sommatoria di più attività simili. Lo
svolgimento unitario di ciascuna funzione non implica
necessariamente che la stessa debba far capo ad un unico
ufficio in un solo Comune, potendosi ritenere, in relazione
ad alcune funzioni, che sia possibile il mantenimento di più
uffici in Enti diversi.
Ma anche in questi casi l’unitarietà della funzione comporta
che la stessa sia espressione di un disegno unitario guidato
e coordinato da un Responsabile, senza potersi escludere, in
linea di principio, che specifici compiti ed attività siano
demandati ad altri dipendenti.
Spetta agli Enti interessati disegnare, in concreto, la
nuova organizzazione delle funzioni, adottando un modello
che non si riveli elusivo degli intenti di riduzione della
spesa, efficacia, efficienza ed economicità perseguiti dal
legislatore (come si evince espressamente dal co. 30 del
citato art. 14 del d.l. n. 78), non essendo sufficiente che
il nuovo modello organizzativo non preveda costi superiori
alla fase precedente nella quale ciascuna funzione era
svolta singolarmente da ogni Ente.
In proposito, una soluzione che lasciasse intravedere
un’unificazione solo formale delle attività rientranti in
ciascuna funzione e che, di fatto, permettesse a ciascun
Ente di continuare a svolgere con la sua organizzazione ed
ai medesimi costi i compiti inerenti alla funzione non
risponderebbe all’obbligo previsto dall’art. 14, co. 27 e
segg., del d.l. 31.05.2010, n. 78, conv. dalla legge 30.07.2010, n. 122, come modificato e integrato dal citato
art. 19 del d.l. n. 95, conv. dalla legge n. 135 del 2012.
In relazione al terzo quesito, l’Amministrazione istante si
interroga se la gestione delle (nove) funzioni fondamentali
debba avvenire mediante comando o trasferimento (o altra
forma di utilizzo) del personale dal comune all'unione con
transito della gestione del personale preposto alla funzione
associata a valere sul bilancio dell'unione.
A questo proposito, la Sezione rammenta la necessità che il
Comune provveda a dotare l’unione delle necessarie risorse
umane per lo svolgimento delle funzioni ad essa attribuite,
come -peraltro- espressamente statuito dal dato legale
richiamato dall’ente locale (art. 32, comma 5, del d.lgs. n.
267/2000, novellato dall’art. 19 del d.l. n. 95/2012
convertito nella l. n. 135/2012).
In linea di principio, ne deriva, in sede di valutazione
delle modalità di trasferimento del personale all’unione,
l’allocazione stabile dei dipendenti nella dotazione
organica dell’ente strumentale, anche in ossequio ai
principi di prudente programmazione finanziaria ed
amministrativa nonché di sana gestione, che richiedono una
adeguata simmetria tra risorse umane e funzioni esercitate,
con i relativi oneri a carico dell’unione. All’esito del
predetto trasferimento, il Comune avrà cura di rideterminare
la propria dotazione organica, tenendo conto delle funzioni
e del personale in capo all’unione.
Per quanto concerne il quarto quesito, il Sindaco chiede
quali siano le interrelazioni, in caso di gestione associata
a mezzo di unione ex art. 32 del d.lgs. n. 267/2000 o
convenzione ex art. 30 del d.lgs. n. 267/2000 con gli
obblighi che -dal 2013– si applicano ai comuni sopra i
1.000 abitanti assoggettati al patto di stabilità, con
specifico riferimento alle spese di personale.
Orbene, i Comuni con popolazione compresa tra 1.001 e 5.000
abitanti dal 2013 dovranno osservare la disciplina relativa
al Patto di stabilità interno (art. 16, co. 31, del d.l. 13.08.2011, n. 138, conv. dalla legge 14.09.2011, n.
148, recante “Ulteriori misure urgenti per la
stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo”) e, pertanto,
saranno assoggettati anche alla disciplina relativa alle
spese di personale e ai vincoli per le assunzioni dettati
per gli Enti sottoposti al Patto.
In proposito, la Sezione delle autonomie della Corte ha
rilevato che “l’estensione del Patto a tutti i Comuni con
popolazione superiore a 1.000 abitanti, oltre a non
presentare specifiche incompatibilità sul piano formale, non
offre motivi plausibili per sottrarre taluni di essi
all’immediata e uniforme applicazione dei vincoli di
contenimento della spesa, alla luce, soprattutto, dei
recenti interventi correttivi di finanza pubblica dettati
dalla eccezionale situazione di crisi finanziaria. Invero,
l’esigenza di assicurare il mantenimento di servizi minimi
ed essenziali, in contesti in cui la riorganizzazione delle
residue risorse umane disponibili all’interno del singolo
ente locale non è in grado di evitare una sostanziale
paralisi degli stessi, può trovare adeguata compensazione in
misure di razionalizzazione della spesa che facciano leva
sull’associazionismo comunale previsto e disciplinato
dall’art. 16 del citato D.L. n. 138/2011, quale modulo
organizzativo più flessibile, economico ed efficiente
fruibile ai fini dell’esercizio di tutte le funzioni
fondamentali e dei correlati servizi pubblici di competenza
comunale…(omissis). Sebbene non siano state previste
specifiche disposizioni di diritto intertemporale volte a
regolare il passaggio tra i due assetti normativi,
l’estensione della disciplina del Patto ai Comuni con
popolazione inferiore a 5.000 abitanti è avvenuta
assicurando, comunque, un congruo arco temporale durante il
quale gli stessi enti potranno provvedere a riprogrammare
non soltanto le procedure di reclutamento, in linea con il
preannunciato regime vincolistico, ma anche i livelli
complessivi di spesa, così da poterli rendere compatibili
con i previsti obiettivi di saldo finanziario…” (Corte
conti, Sez. Autonomie,
deliberazione 11.05.2012 n. 6; cfr. altresì
Corte Conti, Sez. Piemonte, 30.08.2012, n. 288).
Per quanto concerne le modalità di computo, la
giurisprudenza contabile ha da tempo valorizzato una
considerazione sostanziale della spesa di personale, secondo
la quale la disciplina vincolistica in tale materia non può
incidere solo per il personale alle dirette dipendenze
dell’ente, ma anche per quello che svolge la propria
attività al di fuori dello stesso e, comunque, per tutte le
forme di esternalizzazione. Ciò significa che
l’amministrazione, al fine di rendere correttamente le
certificazioni e attestazioni relative al rispetto dei
parametri di spesa per il personale previsto dalla vigente
normativa, dovrà conteggiare la quota parte di spesa di
personale dell’unione che sia riferibile al Comune stesso.
Allo scopo dovrà reperire ed adottare idonei criteri per
determinare la misura della spesa di personale propria
dell’unione che sia riferibile pro quota al Comune (Corte
dei Conti, Sez. Autonomie n. 8/2011).
Questo consolidato principio ermeneutico non appare
confliggere con il tenore dell’art. 32, comma 5, del TUEL,
novellato dall’art. 19 del d.l. n. 95/2012 (convertito nella
l. n. 135/2012), secondo cui in relazione alle funzioni
attribuite la spesa sostenuta per il personale dell’unione
non può comportare, in sede di prima applicazione, il
superamento della somma delle spese di personale sostenute
precedentemente dai singoli comuni partecipanti, fermi i
vincoli previsti dalla vigente normativa in materia di
personale. A regime, precisa tale disposizione, attraverso
specifiche misure di razionalizzazione organizzativa e una
rigorosa programmazione dei fabbisogni, devono essere
assicurati progressivi risparmi di spesa in materia di
personale (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 08.10.2012 n. 426). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
La Sezione, nel rendere parere in merito alla corretta
interpretazione dell’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006,
relativo all’attribuzione del c.d. incentivo alla
progettazione a favore dei dipendenti dell’ufficio tecnico
comunale, riferisce che nel caso in cui l’attività di
progettazione sia stata affidata a professionisti esterni,
le rispettive quote del fondo incentivante sono devolute in
economia, costituendo un risparmio per l’amministrazione.
L’eventuale attività prestata dal personale interno prima
della fase di aggiudicazione (RUP e “collaboratori”
specificatamente individuati ex art. 10 e 92, comma 5, d.lgs.
163/2006), ove l’incentivazione sia prevista dal regolamento
interno (e quest’ultimo non richieda anche la successiva
aggiudicazione) deve essere limitata alla quota spettante
per la fase di gara (e non anche alle quote previste, sempre
per RUP e collaboratori, per la fase esecutiva non
realizzata). Nessun compenso è dovuto in questo caso (in
quanto non riferibile ad attività espletata) per la
direzione lavori, il coordinamento della sicurezza in fase
di esecuzione ed il collaudo.
Il Sindaco del Comune di Rivolta d’Adda, con nota del
19.09.2012, ha formulato alla Sezione una richiesta di
parere, ex art. 7, comma 8, della legge n. 131/2003, in
merito alla corretta interpretazione dell’art. 92, comma 5,
del d.lgs. 163/2006, relativo all’attribuzione del c.d.
incentivo alla progettazione a favore dei dipendenti
dell’ufficio tecnico comunale.
Riferisce che il vigente
regolamento comunale per la ripartizione del predetto
incentivo prevede quanto segue: “La ripartizione della
somma accantonata è effettuata in due fasi:
- la prima, pari al 50% dell’importo dovuto, ad avvenuta
approvazione del progetto esecutivo e la seconda a saldo ad
avvenuta emissione del certificato di ultimazione dei lavori
e/o collaudo.
- la mancata realizzazione dell’opera o del lavoro non
comporterà l’erogazione dell’incentivo relativamente alla
parte spettante per la direzione lavori e fasi successivi”.
Sulla scorta di quanto precede il Sindaco
chiede un parere articolato in due punti:
1) se il secondo capoverso della disposizione sopra
evidenziata, che comporta l’erogazione dell’incentivo al RUP
e agli altri collaboratori dell’ufficio tecnico per le fasi
realizzate, sia conforme alla normativa vigente;
2) se l’erogazione dell’incentivo in favore del personale
interno, qualora l’opera sia stata progettata da
professionisti esterni e non sia mai stata appaltata (per
diversa decisione dell’Amministrazione comunale), possa
considerarsi legittima.
...
Appare opportuno richiamare il dettato normativo (art. 92,
comma 5, d.lgs. n. 163/2006, c.d. Codice dei contratti
pubblici), oggetto della richiesta di parere che, nella
formulazione vigente, così recita: “Una somma non superiore
al due per cento dell'importo posto a base di gara di
un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri
previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione,
a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo
93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro,
con le modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata e assunti in un regolamento
adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del
procedimento e gli incaricati della redazione del progetto,
del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale
effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita
dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità
dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle
responsabilità professionali connesse alle specifiche
prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è
disposta dal dirigente preposto alla struttura competente,
previo accertamento positivo delle specifiche attività
svolte dai predetti dipendenti; limitatamente alle attività
di progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo
dipendente non può superare l'importo del rispettivo
trattamento economico complessivo annuo lordo; le quote
parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte
dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale
esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero
prive del predetto accertamento, costituiscono economie”.
La disciplina in discorso è stata già oggetto di attenzione
da parte di precedenti pronunce della Corte dei conti (cfr.,
fra le altre, Sezione Autonomie
delibera 13.11.2009 n. 16/2009, Sezione Veneto
parere 26.07.2011 n. 337, Sezione Piemonte
parere 30.08.2012 n. 290, Sezione
Lombardia
parere 06.03.2012 n. 57 e
parere 30.05.2012 n. 259) alle cui motivazioni e
conclusioni può farsi riferimento per l’analisi dei profili
generali.
La norma va letta nel complessivo contesto delle modalità
d’affidamento degli incarichi tecnico professionali,
previste dalla legislazione in materia di contratti
pubblici. Quest’ultima (si rinvia agli artt. 10, 84, 90,
112, 120 e 130 del d.lgs. 163/2006) è informata da un
principio generale, già codificato dall’art. 7, comma 6, del
d.lgs. n. 165/2001, in base al quale i predetti incarichi
possono essere conferiti a soggetti esterni al plesso
amministrativo solo se non si disponga di professionalità
adeguate nel proprio organico e tale carenza non sia
altrimenti risolvibile con strumenti flessibili di gestione
delle risorse umane. Tale presupposto mira a preservare le
finanze pubbliche oltre che a valorizzare il personale
interno alle amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi ordinarie in cui gli incarichi
tecnici sono espletati da personale interno, ai fini della
loro remunerazione, occorre far riferimento alle regole
generali previste per il pubblico impiego, il cui sistema
retributivo è conformato da due principi cardine, quello di
definizione contrattuale delle componenti economiche e
quello di onnicomprensività della retribuzione (cfr. artt.
2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001, nonché Corte dei
Conti, sezione giurisdizionale per la Puglia, sentenze nn.
464/2010,
22.07.2010 n. 475
e
02.08.2010 n. 487). Secondo questi ultimi nulla è
dovuto, oltre al trattamento economico fondamentale ed
accessorio stabilito dai contratti collettivi, al dipendente
che ha svolto una prestazione che rientra nei suoi doveri
d’ufficio, anche se di particolare complessità.
Tale principio ha, nel sistema delineato dal d.lgs. 165/2001
(applicabile anche al personale degli enti locali in forza
dell’art. 1, comma 2, del medesimo decreto) vari
addentellati normativi.
Per il personale dirigente, la base giuridica è rinvenibile
nell’art. 24, comma 3 («tutte le funzioni ed i compiti
attribuiti ai dirigenti in base a quanto previsto dal
presente decreto, nonché qualsiasi incarico ad essi
conferito in ragione del loro ufficio o comunque conferito
dall’amministrazione»). Per il personale non dirigente, il
fondamento si rinviene nel combinato disposto degli artt. 2,
40, 45 e 53 e si dipana come corollario del canone
dell’articolazione legale e contrattuale della struttura
retributiva: poiché la determinazione del corrispettivo per
le prestazioni dei dipendenti è rimessa alla contrattazione
collettiva (salve le eccezioni previste dalla legge), ne
consegue che quanto previsto da quest’ultima retribuisce
ogni attività che ricade nei doveri d’ufficio (principio di
onnicomprensività).
Per contro, il contratto individuale (che deve conformarsi
al CCNL, ex art. 2 e 45 d.lgs. 165/2001), quello integrativo
di ente (che assume rilevanza nei limiti previsti dal CCNL
nazionale, cfr. artt. 40 e 40-bis d.lgs. 165/2001) o una
fonte normativa di grado secondario (ad esempio un
regolamento) non possono autonomamente determinare la
retribuzione del dipendente.
La legge, invece, oltre a disciplinare struttura e livelli
di contrattazione nel pubblico impiego (cfr. artt. 2, 24, 40
e 45 d.lgs. 165/2001) può, in omaggio al generale sistema
delle fonti previsto dalla Costituzione, disciplinare in
modo diretto l’ammontare del trattamento economico (si
rimanda, per esempio, ai precetti posti dall’art. 9 del d.l.
n. 78/2010, convertito nella legge n. 122/2010), nonché
attribuire ulteriori specifici compensi (come nel caso
dell’art. 92, comma 5, del Codice dei contratti pubblici).
Il c.d. “incentivo alla progettazione”, previsto dal Codice
dei contratti pubblici, costituisce uno di quei casi nei
quali il legislatore, derogando al principio per cui il
trattamento economico è fissato dai contratti collettivi,
attribuisce un compenso ulteriore e speciale, rinviando ai
regolamenti dell’amministrazione aggiudicatrice, previa
contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di
ripartizione.
L’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006 deroga ai principi di
onnicomprensività e determinazione contrattuale della
retribuzione del dipendente pubblico e, come tale,
costituisce un’eccezione che si presta a stretta
interpretazione e per la quale sussiste il divieto di
analogia posto dall’art. 12 delle diposizioni preliminari al
codice civile (in tal senso Sezione Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008).
L’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici, con atto di
regolazione n. 6 del 04/11/1999, aveva già avuto modo di
precisare come, nel caso della progettazione interna, la
prestazione dei dipendenti, in quanto riferita direttamente
all’amministrazione di appartenenza, è da considerare svolta
"ratione offici" e non "intuitu personae",
risolvendosi "in una modalità di svolgimento del rapporto di
pubblico impiego" (Cass. Civ. Sez. Un. 02.04.1998, n.
3386), nell'ambito della cui disciplina, normativa e
contrattuale, vanno individuati i termini della relativa
retribuzione.
Come evincibile dalla lettera del comma, la legge pone
alcuni paletti per l’attribuzione del predetto incentivo,
rimettendone la disciplina concreta (“criteri e modalità”)
ad un regolamento interno assunto previa contrattazione
decentrata.
I punti fermi che il regolamento interno deve rispettare
(sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a
quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non
previsti, si rimanda al
parere 30.05.2012 n. 259 della Sezione)
paiono essere i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi
tassativamente indicati dalla norma (responsabile del
procedimento, incaricati della redazione del progetto, del
piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione
ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, per
un appalto di fornitura di beni o di servizi). La norma non
presuppone, tuttavia, ai fini della legittima erogazione, il
necessario espletamento interno di una o più attività (per
esempio, la progettazione) purché, come sarà meglio
specificato, il regolamento ripartisca gli incentivi in
maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in
economia la quota relativa agli incarichi conferiti a
professionisti esterni;
- ammontare complessivo non superiore al due per cento
dell’importo a base di gara. Di conseguenza la somma
concretamente prevista dal regolamento interno può essere
stabilita in misura percentuale inferiore;
- ancoramento del fondo incentivante alla base di gara (non
all’importo oggetto del contratto, né a quello risultante
dallo stato finale dei lavori). Si deduce che non appare
ammissibile la previsione e l’erogazione di alcun compenso
nel caso in cui l’iter dell’opera o del lavoro non sia
giunto, quantomeno, alla fase della pubblicazione del bando
o della spedizione delle lettere d’invito (cfr., per
esempio, l’art. 2, comma 3, del DM Infrastrutture n. 84 del
17/03/2008). Quanto detto non esclude che, in sede di
regolamento interno, al fine di ancorare l’erogazione
dell’incentivo a più stringenti presupposti,
l’amministrazione possa prevedere la corresponsione solo
subordinatamente all’aggiudicazione dell’opera;
- puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli
incarichi attribuibili (responsabile del procedimento,
progettista, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro
collaboratori), secondo percentuali rimesse alla
discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere,
tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e
ragionevolezza (cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici, Deliberazioni n. 315 del 13/12/2007, n. 70 del
22/06/2005, n. 97 del 19/05/2004;
- devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante
corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma
affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere
analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le
percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal
personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui
alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni,
la predetta devoluzione (si rinvia alle Deliberazioni
dell’Autorità di vigilanza n. 315 del 13/12/2007, n. 35 del
08/04/2009, n. 18 del 07/05/2008 e n. 150 del 02/05/2001).
Altri principi applicabili alla fattispecie (rilevanti ai
fini del parere di cui si discute) si ricavano dalla
normativa generale sul pubblico impiego e, in particolare,
dall’art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001 in base al quale
“le amministrazioni pubbliche non possono erogare
trattamenti economici accessori che non corrispondano alle
prestazioni effettivamente rese”.
La regola è fatta espressamente propria dal legislatore
anche nella materia degli incentivi di cui si discute, posto
che l’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006, nella
formulazione discendente dalla novella apportata dall’art. 1
del d.l. n. 162/2008, dispone che “la corresponsione
dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla
struttura competente, previo accertamento positivo delle
specifiche attività svolte dai predetti dipendenti”. Nel
caso in cui tale accertamento sia invece negativo, la norma,
adotta la medesima regola della devoluzione in economia,
prevista per il caso di attività eseguita da professionisti
esterni (in proposito l’Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici ha affermato, nella Deliberazione n. 69
del 22/06/2005, emessa nel previgente similare contesto
normativo, che l’incentivo assolve alla funzione di
compensare i progettisti dipendenti che abbiano in concreto
effettuato la redazione degli elaborati progettuali.
Pertanto,
la previsione, da parte di un regolamento interno,
della corresponsione anche nell’ipotesi di progettazione
nella sostanza redatta da professionisti esterni, risulta in
contrasto con la ratio della disposizione legislativa,
concretando un’ipotesi di duplicazione di spesa).
Alla luce del dettato normativo e dei precedenti sopra
richiamati, appare necessario ribadire, in primo luogo, che
l’amministrazione non può, in sede di regolamento, adottare
disposizioni in contrasto con quanto previsto dalla legge,
sia, in particolare, dall’art. 92, comma 5, del d.lgs. n.
165/2006 che, in generale, dai principi posti in tema di
pubblico impiego dal d.lgs. n. 165/2001 e dall’ulteriore
normativa di rango primario.
Nello specifico
non è legittima l’erogazione dell’intero
incentivo, suddiviso dal regolamento interno fra fase di
aggiudicazione e fase di esecuzione, nel caso in cui l’opera
non sia stata successivamente appaltata ed eseguita (e, di
conseguenza, l’attività del personale interno, in relazione
a tali ulteriori fasi, non sia stata espletata).
Nel caso in cui l’attività di progettazione sia stata
affidata a professionisti esterni, le rispettive quote del
fondo incentivante sono devolute in economia, costituendo un
risparmio per l’amministrazione. L’eventuale attività
prestata dal personale interno prima della fase di
aggiudicazione (RUP e “collaboratori” specificatamente
individuati ex art. 10 e 92, comma 5, d.lgs. 163/2006), ove
l’incentivazione sia prevista dal regolamento interno (e
quest’ultimo non richiese anche la successiva
aggiudicazione) deve essere limitata alla quota spettante
per la fase di gara (e non anche alle quote previste, sempre
per RUP e collaboratori, per la fase esecutiva non
realizzata). Nessun compenso è dovuto in questo caso (in
quanto non riferibile ad attività espletata) per la
direzione lavori, il coordinamento della sicurezza in fase
di esecuzione ed il collaudo.
Quanto esposto non esclude la valutazione dell’operato
dell’amministrazione sia ai fini dell’affidamento ed
esecuzione della singola opera o lavoro che del complessivo
programma di opere pubbliche attuato nel corso di un più
ampio arco temporale. Appare evidente, infatti, che la
redazione di un progetto o la pubblicazione di un bando di
gara senza la successiva aggiudicazione ed esecuzione
dell’opera costituiscono un sintomo di carente
programmazione amministrativa (mancata effettuazione di
espropri, assenza di titoli abilitativi o autorizzativi
urbanistici, etc.), finanziaria (sottostima del fabbisogno,
distorsione verso iniziative non preventivate, etc.) o
progettuale (emersione di lacune in sede di verifica,
incoerenza dei costi, etc.) da parte dell’Ente.
Nel caso tale carente programmazione sia dovuta a colpa
dell’amministrazione (o meglio, di alcuni suoi organi),
appare evidente come non solo il costo per i progetti non
utilizzati ma anche l’incentivo attribuito ai dipendenti
interni può costituire, in presenza degli altri presupposti
previsti dalla legge, voce di danno risarcibile (Corte dei
Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 08.10.2012 n. 425). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE: Comune
di Livorno - Richiesta di parere in cui si pongono cinque
diversi quesiti di cui due in materia di incentivi alla
progettazione e all’esecuzione di opere pubbliche e
redazione di piani urbanistici.
Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla
Sezione, con nota prot. n. 13429/1.13.9 del 03.08.2012, una
richiesta di parere formulata dal Sindaco del Comune di
Livorno, in cui si pongono cinque diversi quesiti di cui due
in materia di incentivi alla progettazione e all’esecuzione
di opere pubbliche e redazione di piani urbanistici e tre in
materia di compensi da corrispondere al dirigente con
incarico di vice-segretario. La richiesta, pertanto,
distinta in due gruppi di quesiti, è così sintetizzabile con
riferimento alla materia degli incentivi alla progettazione
di cui all’art. 92, comma 5, del D.Lgs. n. 163/2006 ed alla
redazione di atti di pianificazione di cui al comma 6 del
medesimo articolo:
1. se si possa applicare la percentuale del
2% (e non dello 0,5%) dell’incentivo alla progettazione di
cui all’art. 92, comma 5, del D.Lgs. n.163/2006, percentuale
nuovamente introdotta dalla legge n. 183 del 24/11/2010
abrogativa dell’art. 61, c. 7-bis, della legge n. 133/2008,
con decorrenza 24/11/2010 (entrata in vigore della citata
legge n. 183 del 24/11/2010), nonostante l’ente non abbia
ancora adottato un atto deliberativo che recepisca la
possibilità di liquidare l’incentivo nella misura del 2% e
sia ancora in corso la contrattazione decentrata in materia,
avendo l’amministrazione comunque disposto l’accantonamento
della suddetta percentuale del 2%;
2. se sia consentito riconoscere specifici incentivi ai
sensi dell’art. 92, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006 (30%
della tariffa professionale relativa alla redazione di un
atto di pianificazione) al personale dell’ente che fornisce
a vario titolo supporto alla redazione di un atto di
pianificazione nel caso la redazione dello stesso venga
rimessa ad un professionista esterno.
...
Nel merito del primo quesito, la richiesta non può
ritenersi oggettivamente ammissibile, in quanto lo stesso si
risolve in una valutazione a posteriori circa la legittimità
di atti e comportamenti che rientrano nell’autonomia
decisionale spettante all’amministrazione richiedente, non
presentando, pertanto, i necessari presupposti di
astrattezza e generalità ed implicando perciò considerazioni
afferenti l’attività concreta dell’ente. Occorre, pertanto,
ribadire il principio in virtù del quale le richieste di
parere debbono presentare il connotato della rilevanza
generale e non possono essere funzionali all’adozione di
specifici atti gestionali che rientrano nell’autonomo potere
discrezionale dell’ente, volto all’adozione dei
provvedimenti inerenti la gestione finanziaria ed
amministrativa.
Cionondimeno è opportuno precisare che l’erogazione
dell’incentivo di cui all’art. 92, comma 5, del D.Lgs. n.
163/2006, è subordinato alla propedeutica determinazione
delle somme da ripartire e della misura stessa del beneficio
(che dalla norma viene determinato in percentuale nella sola
misura massima) che sono rimessi, ai sensi dell’art. 92 del
citato D.Lgs. n. 163/2006, alla previsione delle modalità e
dei criteri in sede di contrattazione decentrata ed alla
conseguente assunzione di un regolamento comunale.
Nel merito del secondo quesito, il comma 6 dell’art.
92 del D.Lgs. n. 163/2006 (codice dei contratti) così
recita: “Il trenta per cento della tariffa professionale
relativa alla redazione di un atto di pianificazione
comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri
previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti
dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
Il quesito proposto dal comune richiedente è volto a
conoscere se tale incentivo possa essere erogato anche nel
caso in cui l’attività di pianificazione sia affidata ad un
professionista esterno.
Al riguardo, il Collegio ritiene che l’art. 92, comma 6, del
Codice dei contratti, in quanto norma speciale e derogatoria
del principio di onnicomprensività della retribuzione (art.
24, comma 3, per la dirigenza; art. 45, per il personale non
dirigente; del Dlgs. n. 165/2001) non consente di
riconoscere specifici incentivi al personale che fornisce
variamente supporto mediante attività meramente sussidiarie,
alla redazione di un atto di pianificazione, qualora
quest’ultima venga affidata dall’ente ad un professionista
esterno. Infatti, premesso che il legislatore ha inteso
favorire l’affidamento d’incarichi inerenti prestazioni
d’opera professionale ai dipendenti pubblici, prevedendo la
remunerazione di tali specifiche professionalità, è ammesso
il ricorso ad un professionista esterno in costanza di
precisi presupposti di legittimità, che si sostanziano
principalmente nella carenza all’interno dell’organico di
quelle risorse in grado di prestare adeguatamente detta
attività (art. 90, c. 6, del D.Lgs. n. 163/2006 e art. 7, c.
6 e ss., del Dlgs. n. 165/2001).
Pertanto, ad avviso di questa Sezione, si ritiene di
condividere quanto affermato anche da altra Sezione
regionale della Corte dei conti (Lombardia
parere 30.05.2012 n. 259; veggasi anche, id., n. 57/2012) per cui
“L’art. 92, comma 6, non potrebbe costituire titolo per
l’erogazione di speciali compensi ai dipendenti che svolgono
attività sussidiarie, strumentali o di supporto alla
redazione di atti di pianificazione affidata a
professionisti esterni. Tale disposizione, infatti, abilita
(nella misura autoritativamente fissata dalla legge) a
riconoscere uno speciale compenso, al di là del trattamento
economico ordinariamente spettante, solo in presenza dei due
seguenti elementi di fattispecie: a) sul piano dell’oggetto,
che la prestazione consista nella diretta “redazione di un
atto di pianificazione”, non in attività variamente
sussidiarie che rientrano nei doveri d’ufficio dei
dipendenti, … (…); b) implicitamente, che la redazione dello
stesso non sia stata esternalizzata ad un professionista
esterno ai sensi dell’art. 90, comma 6” (Corte dei
Conti, Sez. controllo Toscana,
parere
27.09.2012 n. 256). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO
IMPIEGO:
Parere in merito alla corretta applicazione della
normativa di spesa ed assunzionale relativa agli incarichi a
tempo determinato ex art. 110, co. 1 del T.U.E.L., con
particolare riguardo ai contingenti massimi di cui all'art.
19, co. 6-quater del D.lgs 165/2001.
Il Sindaco del Comune di
Cittadella, chiede un parere in merito alla corretta
applicazione della normativa di spesa ed assunzionale
relativa agli incarichi a tempo determinato ex art. 110,
comma 1 del TUEL.
In particolare il rappresentante legale dell’ente chiede:
• se la recente riforma della "legge Brunetta"
relativa agli incarichi di cui all'art. 110, comma 1, del
TUEL con la possibilità di deroga in via transitoria,
prevista dall'art. 19, comma 6-quater del D.Lgs 30.03.2001,
n. 165, per un ulteriore quinquennio, comprende in sé oltre
alla deroga del parametro numerico percentuale anche la
deroga alla spesa ammissibile;
• se è ammissibile superare il limite di spesa del 50% di
quella sostenuta nel 2009 per il tempo flessibile, per
rinnovare un dirigente a tempo determinato ex art. 110 comma
1 del TUEL ...."in via transitoria, con provvedimento
motivato volto a dimostrare che il rinnovo sia
indispensabile per il corretto svolgimento delle funzioni
essenziali";
• ove detta soluzione sia possibile, quale sia il limite che
sì impone all'ente locale nel caso di rinnovo del dirigente
ai sensi dell'art. 110, comma 1 del TUEL;
• quale sia il limite di spesa previsto dall'ordinamento per
il personale a tempo determinato se, nel caso di nomina di
dirigente con contratto a tempo determinato, la deroga
rinvenibile nel riformulato art. 19, comma 6-quater, del
D.Lgs 30.03.2011 operi, come taluni sostengono, anche dal
punto di vista finanziario.
...
La disposizione di cui al riscritto comma 6-quater
dell’articolo 19 del d.lgs 165/2001, relativa al
conferimento degli incarichi dirigenziali con contratto a
tempo determinato ex art. 110, comma 1 del TUEL, è norma
assunzionale speciale e parzialmente derogatoria rispetto al
regime vigente.
Da ciò consegue che:
1. gli incarichi conferibili (contingente)
con contratto a tempo determinato in applicazione delle
percentuali individuate dal riscritto comma 6-quater
dell’articolo 19, del d.lgs 165/2001, riguardano solo ed
esclusivamente le funzioni dirigenziali;
2. a detti incarichi non si applica la disciplina
assunzionale vincolistica prevista dall’articolo 9, comma
28, del d. l. 78/2010;
3. gli enti che intendono conferire detti incarichi (la cui
spesa va considerata ai sensi dell’art. 1, commi 557 e 562,
della L. 296/2006), oltre ad osservare gli obblighi
assunzionali (generali) previsti per tutte le pubbliche
amministrazioni (richiamati nella citata deliberazione della
Sezione delle Autonomie), devono essere in linea con i
vincoli di spesa ed assunzionali per gli stessi previsti
dalla normativa in vigore e di seguito richiamati:
• rispetto del patto di stabilità interno, se tenuti;
• riduzione della spesa del personale rispetto a quella
sostenuta nell’anno precedente (art. 1, comma 557, Legge
296/2006 per gli enti soggetti al patto di stabilità) o
contenimento della stessa entro il valore di quella relativa
all’anno 2008 (art. 1, comma 562, primo periodo, Legge
296/2006, per gli enti minori);
• contenimento nella percentuale normativamente prevista del
rapporto tra spesa del personale e spesa corrente
(attualmente 50% articolo 76, comma 7, primo periodo, prima
parte, d.l. 112/2008);
4. gli incarichi conferibili in applicazione della
disposizione derogatoria di cui al terzo periodo del
richiamato comma 6–quater relativa all’utilizzo
dell’ulteriore percentuale (3%) prevista e quelli
rinnovabili per una sola volta entro l’anno 2012 in
applicazione delle previsioni del quinto periodo del
medesimo comma, non sono soggetti al vincolo finanziario di
cui all’articolo 9, comma 28, del d.l. 78/2010 ma, restano
comunque soggetti al vincolo assunzionale di cui
all’articolo 76, comma 7, primo periodo, seconda parte, del
d.l. 112/2008) (entro il limite del 40% della spesa per
cessazioni dell’anno precedente)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 12.09.2012 n. 581). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
In tema di mobilità e copertura posti che si rendono
vacanti.
Il Sindaco del Comune di Campagnola Cremasca (CR), con nota
del 16.07.2012, ha formulato alla Sezione una richiesta di
parere in ordine al rapporto fra la disciplina limitativa
delle assunzioni e le cessazioni dal servizio per mobilità.
In particolare, premessa l’esposizione del quadro normativo
in tema di divieti e limitazioni alle assunzioni da parte
degli enti locali ed una serie di precedenti interpretativi,
il Sindaco pone i seguenti quesiti:
a) se il Comune (con popolazione inferiore
ai 1.000 abitanti), autorizzata la mobilità di un proprio
dipendente (verso un Comune di circa 2.000 abitanti,
attualmente non ancora sottoposto al Patto di stabilità),
possa, a sua volta, coprire la vacanza con mobilità esterna;
b) nell’eventualità che la mobilità non dovesse avere buon
esito, se sia possibile procedere all’indizione di un
concorso.
I dubbi del Sindaco istante sono prospettati alla luce
dell’introduzione nell’ordinamento dell’art. 14, comma 7,
del d.l. n. 95/2012, in fase di conversione, che così
dispone: “le cessazioni dal servizio per processi di
mobilità nonché a seguito dell'applicazione della
disposizione di cui all'articolo 2, comma 11, lettera a),
non possono essere calcolate come risparmio utile per
definire l'ammontare delle disponibilità finanziarie da
destinare alle assunzioni o il numero delle unità
sostituibili in relazione alle limitazioni del turn-over”.
...
Ai due quesiti posti dal Comune istante può rispondersi nei
termini che seguono:
a) se il Comune (avente popolazione inferiore ai 1.000
abitanti) autorizza la mobilità di un proprio dipendente
(verso un Comune soggetto anch’esso a limitazioni alle
assunzioni), può coprire la sopravvenuta vacanza organica
con mobilità in entrata da altro ente pubblico soggetto a
limitazioni alle assunzioni (con la precisazione, derivante
dall’art. 14, comma 7, del d.l. n. 95/2012, che
l’amministrazione cedente non potrà conteggiare la cessione
per mobilità quale risparmio di spesa o contingente di
cessazioni, utile per procedere ad assunzioni dall’esterno).
B) nell’eventualità che, ceduta un’unità di personale per
mobilità, la successiva procedura di mobilità in entrata non
abbia buon esito, il Comune non sarebbe invece abilitato ad
effettuare assunzioni bandendo un concorso, stante
l’irrilevanza di tale cessione ai fini del conteggio del
contingente di cessazioni utile ai fini di successive
assunzioni dall’esterno (in virtù della nuova regola posta
dall’art. 14, comma 7, del d.l. n. 95/2012 in attesa di
conversione) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 30.07.2012 n. 373). |
NEWS |
INCARICHI
PROFESSIONALI: LEGGE DI
STABILITÀ/ Un freno alle parcelle dei
legali.
Il giudice non può liquidare per valori superiori alla causa.
Chi vince non potrà ribaltare su chi
perde somme maggiori della controversia.
Parcelle degli avvocati calmierate in giudizio. La legge di
stabilità stabilisce che il giudice non può liquidare
compensi giudiziali in misura maggiore del valore della
causa. Se il giudizio riguarda una controversia del valore
di 2 mila euro, chi vince non potrà ribaltare su chi perde
una somma maggiore.
E se il compenso pattuito con il proprio avvocato fosse più
alto, la parte eccedente rimarrà a carico del cliente, anche
se ha vinto la causa.
Vediamo i dettagli della questione.
La legge di stabilità propone di sostituire il quarto comma
dell'articolo 91 del codice di procedura civile. La nuova
versione, come scritta nel disegno di legge, prevede che i
compensi liquidati dal giudice e posti carico del
soccombente non possono superare il valore effettivo della
causa.
L'attuale quarto comma dell'articolo 91 del codice di
procedura civile formula la stessa regola, ma limitatamente
alle cause previste dall'articolo 82 del medesimo codice: si
tratta delle cause il cui valore non eccede i 1.100 euro, di
competenza del giudice di pace.
Peraltro nella versione vigente il tetto riguarda non solo i
compensi per l'avvocato, ma ogni possibile voce: «spese,
competenze e onorari».
Nella modifica proposta dalla legge di stabilità il tetto
riguarda qualunque causa, anche se si precisa che i compensi
non comprendono le spese. Quindi il giudice potrà liquidare
i compensi con il tetto dell'importo del valore della causa,
mentre le spese si aggiungono. Si tratta di un criterio di
liquidazione delle spese di giudizio che si aggiunge a
quelli previsti dal decreto 140/2012 sui cosiddetti
parametri, sostitutivi delle tariffe forensi.
L'effetto di questa disposizione è un possibile vantaggio
per chi perde la causa e uno svantaggio per chi vince la
causa. Questo si verifica soprattutto quando il valore della
causa è basso e il compenso stabilito dal giudice (che deve
rispettare il tetto) è più probabile che sia minore della
cifra che l'interessato e l'avvocato hanno inserito nel
contratto stipulato tra di loro.
Inoltre la quantità e la qualità della prestazione
professionale può essere rilevante, anche per cause di
importo piccolo. Altro possibile effetto è quello di
disincentivare il ricorso alla giustizia, considerata la
prospettiva di non poter recuperare i soldi che si
spenderanno. Si deve aggiungere che l'avvocato dovrà
informare il cliente di questa regola, consentendo al
cliente di agire con consapevolezza dei costi.
Il disegno di legge di stabilità interviene anche sulle
entrate dei tribunali e in particolare sul contributo
unificato e cioè il balzello da pagare ogni volta che ci si
rivolge al sistema giustizia. Si tratta di aumenti del
contributo, soprattutto nel settore della giustizia
amministrativa.
Gli incrementi riguardano tutti i tipi di procedimento,
anche se rispetto a una prima versione del disegno di legge
c'è qualche differenza. Nella versione originaria aumentava
da 300 a 350 euro il contributo per ricorsi in materia di
accesso ai documenti amministrativi e quelli avverso il
silenzio dell'amministrazione: l'ultimo testo disponibile
non contempla più queste ipotesi.
Una ritocco (confrontando testo originario e ultimo testo
disponibile) riguarda anche gli appalti.
Nel disegno di legge sulla stabilità, per queste
controversie di competenza del Tar e del Consiglio di stato,
si individua una scaletta in base al valore della causa: il
contributo dovuto è di euro 2 mila (contro i 3 mila della
prima versione) quando il valore della controversia è pari o
inferiore a euro 200 mila; per quelle di importo compreso
tra 200 mila e 1.000.000 euro il contributo dovuto è di euro
4.000, mentre per quelle di valore superiore a 1.000.000
euro è pari ad euro 6 mila (era 5 mila nella versione
originaria). Aumenta il contributo unificato anche per tutti
i processi amministrativi in materie diverse da quelle sopra
elencate: si passa, infatti, da 600 a 650 euro.
Incremento sensibile si deve registrare per tutti i giudizi
in cui si applica il rito abbreviato con termini ridotti a
metà (materie previste dal libro IV, titolo V, del codice
del processo amministrativo e altre disposizioni speciali):
il contributo unificato passa da 1.500 euro a 1.800 euro.
Inoltre si pagherà un contributo doppio per i giudizi di
impugnazione avanti al consiglio di stato e si paga un
secondo contributo nel caso in cui le impugnazioni anche
civili siano respinte o dichiarate improcedibili o
inammissibili
(articolo ItaliaOggi del 13.10.2012). |
APPALTI: Contratti
pubblici, alla Sogei la gestione della banca dati.
La gestione della Banca dati nazionale sui contratti
pubblici sarà affidata in house a una società del ministero
dell'economia (la Sogei), ma c'è il rischio di uno
slittamento della scadenza del primo gennaio 2013, data di
attivazione del sistema di verifica online dei requisiti di
ammissione alle gare; vietato alle autorità indipendenti il
conferimento di incarichi di consulenza informatica, salvo
casi eccezionali.
È quanto prevede una norma del disegno di legge di stabilità
che, per promuovere la razionalizzazione della spesa
pubblica in materia informatica, obbliga l'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture a stipula una convenzione ad hoc con il ministero
dell'economia e delle finanze per la gestione, anche
attraverso «propria società in house» (e la scelta parrebbe
cadere sulla Sogei), della Banca dati nazionale dei
contratti pubblici di cui all'articolo 6-bis del Codice dei
contratti pubblici.
Si tratta della Banca dati che dovrebbe partire il 01.01.2013 (anche se si parla già di una possibile
proroga), che consentirà alle stazioni appaltanti di
effettuare online la verifica dei requisiti di
partecipazione alle gare di appalto di lavori, forniture e
servizi, snellendo e semplificando le procedure, con una
riduzione rilevante del contenzioso. Il governo sembra
quindi indicare un percorso diverso (la gestione in house)
da quello, finalizzato all'esternalizzazione della gestione
dei servizi informatici, che al momento l'Autorità sembra
avere seguito, con le gare di questi ultimi mesi.
La norma prevede che la convezione regoli la durata, i
compiti, le modalità operative e gestionali del servizio e
assicuri la copertura dei relativi costi (che è probabile
verranno «ribaltati» sull'utenza, cioè sui partecipanti alle
gare). L'Autorità manterrà vigilanza e controllo sulle
attività di gestione della Bdncp.
Peraltro l'Autorità sembra essere destinataria,
indirettamente, anche di un'altra norma del disegno di legge
che riguarda i servizi informatici e fa divieto alle
autorità indipendenti e alla Consob di conferire incarichi
di consulenza in materia informatica salvo casi eccezionali,
adeguatamente motivati, in cui occorra provvedere alla
soluzione di problemi specifici connessi al funzionamento
dei sistemi informatici. Se le Autorità e le altre
amministrazioni violeranno il divieto scatterà la
responsabilità amministrativa e disciplinare dei dirigenti
(articolo ItaliaOggi del 13.10.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: LEGGE DI STABILITÀ/ Partecipate nel mirino. Saltano blocco
contratti e contributo di solidarietà. P.a., consulenze non
rinnovabili.
Proroga solo in via eccezionale. E il compenso resta lo
stesso.
Tempi duri per l'esercito di consulenti degli enti pubblici.
Gli incarichi (per forza di cose temporanei e altamente
qualificati come prevede il Testo unico del pubblico
impiego) non potranno essere rinnovati e sarà ammessa la
proroga solo in via eccezionale se il progetto per cui sono
state conferite le consulenze non è ancora stato completato
a causa di ritardi non imputabili al collaboratore. E,
particolare non di poco conto, anche in caso di proroga, il
compenso resterà quello pattuito al momento del conferimento
dell'incarico. Il giro di vite sulle consulenze si estenderà
anche alle partecipate, ossia alla galassia delle società
controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche
amministrazioni, su cui si era già abbattuta la scure della
spending review. Oltre a essere soggette al tetto del 50%
della spesa 2009 per co.co.co. e contratti a termine,
saranno soggette ai limiti e agli obblighi di trasparenza
nel conferimento degli incarichi vigenti per tutta la
pubblica amministrazione.
Ancora una volta il taglio delle spese della p.a. passa
attraverso la messa a dieta delle consulenze. Il ddl di
stabilità 2013 non sfugge a questa regola ormai consolidata,
stabilendo un generale divieto di rinnovo degli incarichi,
salvo le eccezioni di cui si è detto.
Chi invece può sorridere sono i grand commis di stato per il
dietrofront sulla proroga a tutto il 2014 del contributo di
solidarietà (5% sopra i 90 mila euro lordi annui di
stipendio, 10% sopra i 150 mila) introdotto dalla manovra
2010 di Giulio Tremonti. Salta anche il blocco del rinnovo
dei contratti pubblici per il 2014.
Il doppio passo indietro è stato imposto dalla sentenza
della Corte costituzionale n. 223/2012 che giovedì ha
dichiarato incostituzionale il prelievo (si veda ItaliaOggi
di ieri). Stessa sorte è toccata alla trattenuta del 2,5%
sul tfr degli statali, anche questa prevista dal dl 78/2010
e spazzata via dalla Consulta. Con la conseguenza che ora le
p.a. dovranno restituire le somme illegittimamente
trattenute a decorrere dal 1° gennaio 2011. Secondo la
Uil-Fpl nelle tasche degli statali dovrebbero tornare in
media 600 euro l'anno per un lavoratore di fascia C. «Una
grande soddisfazione» che il sindacato guidato da Giovanni Torluccio rivendica rimarcando la differenza con le altre
sigle sindacali le quali, ricorda, «non hanno dimostrato
alcun interesse in proposito, ma anzi hanno fatto proprie le
tesi dell'Inpdap sulla correttezza della trattenuta del
2,50%».
«Sin dall'approvazione della norma, abbiamo sempre sostenuto
che fosse illegittima in quanto violava il principio di
eguaglianza e quello di parità di trattamento retributivo
rispetto al settore privato», ha proseguito.
Tornando al ddl di stabilità, l'unica novità confermata
rispetto all'impianto originario, riguarda il dimezzamento
della retribuzione (non sarà toccata invece la contribuzione
figurativa) dei permessi fruiti per assistere familiari
disabili (per esempio i genitori). Continueranno a essere
pagati al 100% i permessi richiesti per patologie dello
stesso dipendente o per l'assistenza ai figli o al coniuge.
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Giro di vite sugli acquisti di auto e immobili.
Scatta subito il divieto per le pubbliche amministrazioni di
acquistare o prendere in leasing autovetture. Divieto che,
però, non si applica per gli acquisti effettuati dalle
amministrazioni che ricadono nel cosiddetto comparto
sicurezza e per quelle che devono garantire i livelli
essenziali di assistenza sociale e sanitaria. Dal prossimo
Capodanno, le stesse p.a. non possono acquistare immobili né
stipulare contratti di locazione passiva, salvo che non si
tratti di rinnovi di contratti già in essere. Dal 2014,
invece, gli enti territoriali e quello del Servizio
sanitario nazionale potranno effettuare operazioni di
acquisto di immobili solo se sarà documentata e certificata
l'assoluta indispensabilità del predetto immobile ai fini
istituzionali.
Stretta, invece, per il biennio 2013-2014,
sull'acquisto di mobili e arredi. Le p.a. a tal fine, non
dovranno sforare il 20% della spesa sostenuta nel 2011.
Infine, anche le scuole e le università dovranno attingere
alle convenzioni presenti sul mercato telematico per
l'acquisto di beni e servizi. È quanto contenuto all'interno
della legge di stabilità varata dall'esecutivo nella serata
di mercoledì scorso e che, in pratica, fa stringere ancora
di più la cinghia al comparto della pubblica
amministrazione.
Auto nuove addio. Un divieto senza precedenti quello che si
abbatte sul parco auto della p.a. La legge di stabilità,
infatti, dispone che le amministrazioni pubbliche inserite
nel conto economico Istat (anche gli enti territoriali,
pertanto) a decorrere dalla data di entrata in vigore della
stessa, non possono acquistare autovetture né possono
acquisirle mediante la stipula di contratti di leasing.
E
per evitare qualche «furbetto», la norma tiene a precisare
che si intendono revocate anche le procedure di acquisto
iniziate dal 9 ottobre scorso. Da questo taglio netto con il
passato, escluse espressamente le amministrazioni del
comparto sicurezza e quelle che sono tenute a garantire
servizi sociali e sanitari. La norma, infine, sancisce che
per le regioni il divieto costituisce una condizione
inderogabile ai fini dell'erogazione dei trasferimenti
erariali.
Stretta sugli immobili. Per il prossimo anno, tutte le p.a.
e le authority non potranno acquistare immobili né stipulare
contratti di locazione passiva. Divieto che non opera nel
caso di rinnovi contrattuali ovvero nei casi in cui la
«nuova» locazione sia economicamente più vantaggiosa per
acquisire disponibilità di locali in sostituzione di
immobili dismessi.
Dal gennaio 2014, invece, scatterà il
divieto per gli enti territoriali e per quelli del Ssn di
acquistare immobili. Tranne nei casi in cui il responsabile
del procedimento attesti «l'indispensabilità e l'indilazionabilità»
dell'operazione. Quest'ultima, inoltre, dovrà essere
connotata dalla massima trasparenza in quanto, sia il prezzo
pattuito (che dovrà essere preliminarmente definito congruo
dall'Agenzia del demanio) che il soggetto alienante,
dovranno essere resi noti sul sito internet dell'ente.
A dieta su mobili e arredi. Per il prossimo biennio,
l'esecutivo intende sforbiciare anche la spesa sostenuta
dalle p.a. per mobili e arredi. Si dispone, infatti che
tutte le p.a., le authority e la Consob (ma non gli enti e
gli organismi vigilati dalle regioni, dalle province
autonome e dagli enti locali) non potranno sostenere spese a
tali fini di ammontare superiore al 20% della spesa
sostenuta nel 2011. I dirigenti responsabili dell'eventuale
violazione ne risponderanno sotto il profilo amministrativo
e disciplinare. I risparmi conseguiti dovranno essere
versati entro il 30 giugno al bilancio statale.
Scuola e mercato telematico.
Operando una modifica all'articolo 1, comma 449, della legge
finanziaria 2007 (la legge n. 296/2006), l'esecutivo ha
disposto che anche gli istituti e le scuole di ogni ordine e
grado, le istituzioni educative e quelle universitarie, sono
tenute ad approvvigionarsi dei beni e servizi disponibili
sul mercato telematico, utilizzando le cosiddette
convezioni-quadro
(articolo taliaOggi del 13.10.2012). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Giunte provinciali a
dieta. Possibile nominare meno assessori del minimo.
Sì ai tagli se c'è la volontà politica. Ma
bisogna modificare lo statuto.
È possibile nominare un numero di assessori provinciali
inferiore al minimo fissato dallo statuto?
Ai sensi del comma 2 dell'art. 47 del Tuel, «gli statuti,
nel rispetto di quanto previsto dal comma 1, possono fissare
il numero degli assessori ovvero il numero massimo degli
stessi»; il comma 1 prevede il numero massimo nella
misura di un terzo e comunque non superiore a dodici unità.
Nel demandare all'autonomia statutaria la determinazione
numerica degli assessori, il legislatore statale ha
legittimato la possibilità di prevedere un numero «fisso»
ovvero «flessibile», senza fissare il numero minimo,
ma stabilendo un limite massimo inderogabile.
Prevedendo «che lo statuto possa stabilire il numero
effettivo degli assessori nominabili», lo stesso legislatore
impone «una verifica in sede locale dell'individuazione
del numero ottimale di componenti della giunta»
(Consiglio di stato V, 31/12/2003, n. 9315), che,
presupponendo una ponderata valutazione
politico-amministrativa delle esigenze dell'ente, consente
la nomina del numero di assessori reputato ottimale .
Nell'ambito del delineato criterio di riferimento definito
nel citato articolo 47, si deduce che la norma dello statuto
che stabilisce il numero dei componenti della giunta diviene
vincolante per l'ente locale e può essere derogata solo
attraverso una modifica della medesima disposizione.
A tal fine giova il riferimento alla sentenza n. 3357/2009,
con la quale il Consiglio di stato, pronunziatosi sul quorum
di maggioranza necessario per modificare il regolamento per
il funzionamento del consiglio comunale, ha affermato il
principio che «una volta adottato il regolamento
contenente una specifica previsione in ordine alle
maggioranze occorrenti per le proprie modifiche, l'adozione
di queste non può che trovare disciplina in quelle norme di
cui il consiglio stesso si è dotato, alle quali l'ente deve
attenersi essendo ben noto come una pubblica amministrazione
non possa disapplicare le regole da essa poste, se non
previo ritiro ed ancorché illegittime».
Ove, quindi, si delinei la volontà politica di ridurre la
compagine degli assessori occorrerà procedere,
preliminarmente, ad una apposita modifica della disposizione
statutaria inerente la quantificazione degli stessi, nel
senso ritenuto (articolo
ItaliaOggi del 12.10.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Numero assessori.
Un comune può nominare due assessori in più rispetto al
numero massimo previsto dalla vigente normativa, se la norma
statutaria tuttora vigente prevede un limite massimo
superiore?
La determinazione numerica
degli assessori rientra nella materia «organi di governo»
dei comuni rimessa, ai sensi dell'articolo 117, comma 2,
lett. p), della Costituzione, alla potestà legislativa
esclusiva dello stato.
Quest'ultima, invero, per il profilo considerato riconosce a
comuni e province, quale unico spazio di autonomia, la
possibilità di individuare nello statuto una misura «fissa»
ovvero «flessibile» di assessori, purché, in entrambi
i casi, entro il limite massimo prescritto, che non può mai
essere superato.
Peraltro, secondo l'articolo 1, comma 3, del decreto
legislativo n. 267, «l'entrata in vigore di nuove leggi
che enunciano espressamente i principi che costituiscono
limite inderogabile per l'autonomia normativa dei comuni e
delle province abroga le norme statutarie con essi
incompatibili. I consigli comunali e provinciali adeguano
gli statuti entro centoventi giorni dalla data di entrata in
vigore delle leggi suddette».
Pertanto l'eventuale disposizione statutaria incompatibile
con le intervenute modifiche normative non può trovare
applicazione.
Inoltre, come ha evidenziato la circolare del ministero
dell'interno prot. n. 2915 del 18.02.2011, a decorrere dal
2011, in occasione del successivo rinnovo elettorale, il
numero dei consiglieri sarà ridotto del 20% e di
conseguenza, nel caso dei comuni con più di 30 mila
abitanti, il numero massimo degli assessori dovrà essere
calcolato su 25 unità (24 consiglieri più il sindaco).
Nel caso di specie, pertanto, non è possibile la nomina di
ulteriori assessori (articolo
ItaliaOggi del 12.10.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI - ENTI LOCALI:
DECRETO SALVA ENTI/ Spending review sterilizzata solo per i
comuni soggetti al Patto. Fondo anti-dissesto ricco nel 2012.
Dotazione extra di 500 mln per pagare stipendi e fornitori.
Previsione di un'extra dote per il fondo anti-dissesto 2012.
Correzione del decreto «Semplifica Italia» per superare i
rilievi del Consiglio di stato sul regolamento in materia di
Imu degli enti non commerciali. Obbligo di rendere pubblici
gli stati patrimoniali degli amministratori. Sterilizzazione
dei tagli della spending review solo per i comuni soggetti
al Patto.
Sono queste le principali novità per gli enti locali
contenute nel dl 174/2012, pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale n. 237 di mercoledì e quindi in vigore da ieri.
Rispetto alle bozze esaminate in consiglio dei ministri la
settimana scorsa, il testo finale del provvedimento
innanzitutto quantifica l'ammontare del «Fondo di rotazione
per assicurare la stabilità finanziaria degli enti locali».
Il nuovo strumento (destinato agli enti che presentano
pesanti squilibri strutturali di bilancio e che
richiederanno di aderire alla «procedura di riequilibrio
finanziario pluriennale» disegnata dai nuovi artt. 243-bis,
243-ter e 243-quater del Tuel.) potrà contare per quest'anno
su 30 milioni di euro, che diventeranno 100 il prossimo e
200 per ciascuno degli anni dal 2014 e 2020.
Per il solo
2012, la dotazione finanziaria base sarà incrementata di
ulteriori 500 milioni destinati esclusivamente al pagamento
delle spese di parte corrente relative al personale, alla
produzione di servizi in economia ed all'acquisizione di
servizi e forniture, già impegnate e comunque non derivanti
dal riconoscimento di debiti fuori bilancio. Una parte della
copertura finanziaria è stata trovata utilizzando i 60
milioni stanziati dall'art. 1, commi 59 e 60, della legge
220/2010 (e mai utilizzati) per far fronte al pagamento
degli interessi passivi maturati dai comuni per il ritardato
pagamento dei fornitori, nonché una quota parte delle
risorse (1 miliardo) al medesimo fine appostate dall'art. 35
del dl 1/2012.
Il Fondo, precisa la norma, sarà altresì alimentato dalle
somme via via rimborsate dagli enti locali beneficiari.
Questi, infatti, potranno ricevere anticipazioni fino ad un
massimo di 100 euro per abitante ma dovranno restituirle
entro 10 anni. I criteri per la determinazione dell'importo
massimo dell'anticipazione, nonché le modalità per la
concessione e per la restituzione saranno definiti con un
decreto del ministero dell'interno da emanare entro il
prossimo 30 novembre. Al riguardo, si conferma che dal
beneficio sono esclusi gli enti per i quali è già stato
dichiarato il dissesto (è il caso del comune di Alessandria)
o è già stato fissato dalla Corte dei conti il termine per
l'adozione delle misure correttive (casi di Reggio Calabria
e Ancona). Agli altri enti, invece, potrà essere anche
concessa, sussistendo motivi di urgenza, una boccata
d'ossigeno immediata, da riassorbire in sede di
predisposizione e attuazione del piano di riequilibrio
finanziario.
La seconda novità rilevante riguarda l'inserimento nel testo
di una norma che integra l'art. 91-bis del dl 1/2012,
relativo all'applicazione dell'Imu agli enti non
commerciali. La novella estende il potere regolamentare del
governo alla definizione di tutti gli elementi necessari
all'applicazione dell'imposta, con particolare riguardo agli
immobili a uso promiscuo. In tal modo, vengono superati i
rilievi mossi dal Consiglio di stato alla proposta di
regolamento applicativo già elaborato dal Mef.
Ancora, va segnalata la previsione di un obbligo per gli
enti locali con popolazione superiore a 10.000 abitanti di
disciplinare le modalità di pubblicità e trasparenza dello
stato patrimoniale dei titolari di cariche pubbliche
elettive e di governo di loro competenza. Dovranno essere
resi pubblici i dati di reddito e di patrimonio, con
particolare riferimento alle dichiarazioni annuali, ai beni
immobili e mobili registrati posseduti, alle partecipazioni
in società quotate e non quotate, alla consistenza degli
investimenti in titoli obbligazionari, titoli di stato, o in
altre utilità finanziarie detenute anche tramite fondi di
investimento, sicav o intestazioni fiduciarie.
Infine, viene precisato che la parziale sterilizzazione dei
tagli (500 milioni in tutto) previsti per il 2012 dall'art.
16 del dl 95/2012 a carico dei comuni riguarda solo quelli
soggetti al Patto, i quali potranno evitare la mannaia
destinando l'importo corrispondente alle riduzioni «teoriche»
(che saranno comunque calcolate entro fine mese)
all'estinzione anticipata dei debiti. Le relative somme,
tuttavia, non saranno valide ai fini del Patto e quindi
dovranno essere detratte dagli accertamenti delle entrate
correnti ai fini del calcolo del relativo saldo. Coloro che
non riusciranno a utilizzare tutto l'importo per ridurre il
«rosso» si vedranno decurtata la differenza nel 2013.
Una beffa ulteriore per gli enti virtuosi che avessero già
ridotto o addirittura estinto i mutui a loro carico e che in
tal caso subiranno il taglio per intero (articolo ItaliaOggi del
12.10.2012). |
LAVORI PUBBLICI:
Opere incompiute al test.
Entro il 31 marzo elenchi dalle p.a. appaltanti.
Lo prevede la nuova bozza di regolamento del
ministero infrastrutture.
Entro il 31 marzo di ogni anno le stazioni appaltanti
dovranno comunicare quali opere possono considerarsi
«incompiute»; al Ministero delle infrastrutture e alle
regioni spetterà il compito di mettere in linea
l'elenco-anagrafe delle opere incompiute al fine di
valutarne l'eventuale diversa destinazione d'uso o un
utilizzo parziale rispetto a quanto programmato e
progettato.
È quanto prevede la nuova bozza di regolamento
ministeriale (predisposta dal dicastero delle infrastrutture
e dei trasporti) sull'anagrafe delle opere incompiute, dopo
la riunione tecnica che si è svoltasi il 12 settembre che ha
consentito alle regioni e all'Anci di proporre diverse
modifiche allo schema trasmesso in questi giorni alla
Conferenza Unificata per il parere.
Lo schema attua l'articolo 44-bis, comma 6, della legge
214/2011 di conversione del decreto-legge «Salva Italia»
(201/2011) che affida al ministro delle infrastrutture e dei
trasporti il compito di emanare un regolamento che detti le
modalità di redazione dell'elenco-anagrafe delle opere
incompiute, nonché le modalità di formazione della
graduatoria e dei criteri in base ai quali le opere
pubbliche incompiute sono iscritte nell'elenco-anagrafe,
tenendo conto dello stato di avanzamento dei lavori ed
evidenziando le opere prossime al completamento.
Nel nuovo testo rimangono invariate le situazioni in
presenza delle quali si può definire «incompiuta» un'opera
pubblica: mancanza di fondi, cause tecniche che ne
impediscano l'ultimazione, sopravvenienza di nuove norme
tecniche o disposizioni di legge, fallimento dell'impresa
esecutrice o, ancora recesso dal contratto per motivi legati
a infiltrazioni malavitose, o infine «mancato interesse al
completamento da parte del gestore».
Cambiano invece sia i soggetti tenuti alla pubblicazione
dell'elenco, sia le modalità di pubblicazione.
Le regioni e le province autonome, per le opere di interesse
regionale e locale, dovranno direttamente pubblicare i dati
sui siti di cui al dm 06.04.2001, n. 20: sul sito
regionale per lavori di interesse regionale; laddove il sito
regionale non sia istituito, la pubblicazione deve invece
avvenire sul sito del Ministero delle infrastrutture.
Anche per le attività di raccolta, redazione, monitoraggio e
aggiornamento dei dati si modifica il testo precedente
stabilendo che siano il Dipartimento per le infrastrutture e
gli affari generali del Ministero (per le opere nazionali) e
gli Osservatori regionali dei contratti pubblici o altri
uffici regionali a ciò preposti (per le opere regionali e di
interesse locale), a svolgere le attività di controllo.
Novità anche per la tempistica: entro il 31 marzo di ogni
anno le stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori tenuti
ad applicare il Codice dei contratti pubblici, dovranno
trasmettere i dati e le informazioni sulle opere incompiute
al Ministero delle infrastrutture o alle regioni, o province
autonome. Le stazioni appaltanti, una volta trasmessi i dati
dell'opera incompiuta, potranno pubblicarli anche sul
proprio sito istituzionale. Per quel che riguarda l'elenco
delle informazioni da fornire per ogni opera dichiarata
«incompiuta» il testo prevede anche l'inserimento del Codice
unico di progetto (Cup) e la denominazione della stazione
appaltante.
Entro il 30 giugno di ogni anno ministero e regioni (e le
province autonome) pubblicano i dati nelle due sezioni
dell'elenco-anagrafe. Nella prima fase di attuazione del
regolamento si prevede, come norma transitoria) che le
stazioni appaltanti trasmettano i dati entro 90 giorni dalla
pubblicazione del regolamento e nei180 giorni Ministero e
regioni provvedano alla pubblicazione sulle sezioni
dell'elenco (articolo ItaliaOggi del
12.10.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Pa. Dopo la sentenza della Corte saltano i tagli del 5 e 10%
sui superstipendi.
Congelati i contratti pubblici.
BLOCCO PER IL 2014/
Confermata la sospensione della vacanza contrattuale e il
dimezzamento dei salari per i giorni destinati alla cura dei
familiari disabili.
Esce dal testo della legge di stabilità in via di
perfezionamento la norma che congela il rinnovo dei
contratti pubblici anche per il 2014. Per confermare lo stop
si procederà con un atto amministrativo, esattamente come si
è già fatto l'anno scorso, in attuazione di quanto previsto
dal decreto legge 78/2010. E con quel provvedimento verrà
confermata pure la sospensione della vacanza contrattuale,
che potrà tornare solo in riferimento al biennio 2015-2017
con riferimento all'inflazione programmata (non al nuovo
indice Ipca, visto che non è mai stato raggiunta un'intesa
sindacale). Dalla legge di stabilità uscirà pure la proroga
del «contribuito di solidarietà» che era stato introdotto
sempre dal dl 78 (articolo 9) visto che quella norma è stata
giudicata incostituzionale dal giudice delle leggi (si veda
a pagina 13).
Nella versione del testo disponibile ieri resta invariata,
invece, la norma che prevede il dimezzamento della
retribuzione per i giorni utilizzati dai dipendenti pubblici
per l'assistenza a familiari con disabilità. La
retribuzione, secondo il provvedimento nella versione
attuale, rimarrà piena solo se il permesso ex lege 104/1992
è dovuto a patologie del dipendente o all'assistenza a figli
e coniuge: se l'assistito è un altro familiare (i permessi
possono essere ottenuti per assistere parenti o affini entro
il secondo grado, o entro il terzo grado se i genitori
dell'assistito sono over 65 o portatori di handicap), lo
stipendio della giornata sarà dimezzato, e si manterrà
intera solo la contribuzione figurativa.
Si tratta di una norma molto delicata, che ha già acceso
reazioni molto forti. L'obiettivo del Governo è tentare di
aggredire una spesa significativa, visto che nel 2010 (sono
gli ultimi dati disponibili) per garantire i permessi a
244.997 beneficiari (7,4% del totale dei dipendenti) è stata
sostenuta una spesa superiore ai 725 milioni di euro (articolo Il Sole 24 Ore
del 12.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Enti locali. Il decreto legge 174/2012 in vigore da ieri.
Il ragioniere «vista» tutte le delibere di spesa.
LA FIGURA/
Il responsabile dei servizi finanziari opera in piena
autonomia può essere revocato solo in caso di gravi
irregolarità.
Con la pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale» 237 del 10.10.2012 del decreto legge 174, in vigore da ieri, è
ridisegnato il ruolo del responsabile dei servizi finanziari
degli enti locali.
Tale figura, in quattro modifiche apportate al Testo Unico
degli enti locali, si delinea come un "baluardo" della
tenuta della finanza locale. La prima riguarda il visto di
regolarità contabile. La nuova formulazione dell'art. 49 del
Tu prevede che ogni proposta di delibera che "comporti
riflessi diretti o indiretti sulla situazione
economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente" deve
obbligatoriamente ottenere il visto del ragioniere.
Le altre modifiche riguardano "status" e competenze del
responsabile finanziario. La rivisitazione del Tu degli enti
locali rende inamovibile il responsabile dei conti degli
enti. Attraverso una modifica all'articolo 109 l'incarico
del responsabile finanziario può essere revocato solo in
caso di "gravi irregolarità riscontrate nell'esercizio delle
funzioni". L'ordinanza del legale rappresentante dell'ente
(sindaco o presidente della Provincia), per essere
esecutiva, deve ottenere previamente un parere obbligatorio
sia del Viminale che di via XX settembre.
Questa "inamovibilità" assume ancor più rilevanza se letta
in modo coordinato, sia alle nuove tipologie di controlli
affidate a tale figura, sia alle disposizioni contenute nel
disegno di legge di stabilità 2013.
Rispetto alla mappatura dei controlli interni, il nuovo
articolo 147 dispone che spetta al responsabile finanziario
la funzione di garantire la gestione del bilancio e il
rispetto degli obiettivi e dei vincoli di finanza pubblica
determinati dal patto di stabilità interno. Per svolgere
tali funzioni, il responsabile deve agire in piena autonomia
e tenendo "conto degli indirizzi della Ragioneria generale
dello Stato".
La garanzia e la salvaguardia dei vincoli di finanza
pubblica sono esaltate dalla nuova normativa del Ddl
stabilità. Il Ddl impone alle pubbliche amministrazioni una
rigida programmazione finanziaria nell'esecuzione degli
investimenti. Dal 2013, gli enti locali possono avviare le
procedure per l'esecuzione dei lavori pubblici solo se sono
in grado di garantire i termini di pagamento previsti dalla
normativa, ossia, solo se sono è in grado di rispettare i
vincoli imposti dal patto di stabilità interno già in sede
di programmazione delle opere pubbliche e non, come accaduto
in passato, rinviando all'esercizio successivo i pagamenti.
La norma prosegue dando la facoltà alle amministrazioni
appaltanti di sospendere l'efficacia dei contratti già
sottoscritti, senza diritto ad alcun indennizzo delle parti,
nel caso in cui la prosecuzione del contratto non consenta
il rispetto dei vincoli di finanza pubblica.
Il responsabile "in autonomia" e tenendo conto degli
indirizzi che gli derivano dalla Ragioneria generale dello
Stato, dovrà garantire che i lavori già finanziati e da
programmare siano in linea con le norme relative alla
tempestività dei pagamenti e il rispetto del patto di
stabilità interno (articolo Il Sole 24 Ore
del 12.10.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Quando
il trattamento concerne dati idonei a rivelare lo stato di
salute o la vita sessuale, il diritto di accesso è
consentito se la situazione giuridicamente rilevante che si
intende tutelare con la richiesta di esibizione dei
documenti amministrativi è di rango almeno pari ai diritti
dell'interessato, ovvero consiste in un diritto della
personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e
inviolabile.
Tuttavia:
- in una diversa ottica, il diritto alla difesa in giudizio
–tutelato a livello costituzionale– potrebbe essere
apprezzato come situazione giuridica di “pari rango”
rispetto alla riservatezza (capace di legittimare una
richiesta di accesso a dati sull’altrui stato di salute);
- laddove venga in rilievo una richiesta di accesso a
documenti amministrativi contenenti dati sensibili (o
giudiziari) per motivi di difesa legale, l'accesso è
consentito solo “nei limiti in cui sia strettamente
indispensabile” alla difesa medesima, come stabilisce l’art.
27, comma 7, secondo periodo, della L. 241/1990;
- che in tal caso il giudice dell'accesso ha il dovere di
effettuare un più pregnante esame circa l'effettiva
necessità della richiesta documentazione ai fini della
difesa giudiziaria dell'istante, perché l'ostensione viene
ammessa dalla legge solo nella misura in cui sia
effettivamente necessaria a tal fine;
- che il bilanciamento cui fa riferimento l’art. 60 D.Lgs.
196/2003 deve avvenire verificando non in astratto, ma in
concreto se il diritto che si intende far valere o difendere
attraverso l’accesso è di rango almeno pari a quello alla
riservatezza.
Rilevato:
- che secondo la piana lettura dell’art. 60 del D.Lgs.
196/2003 (confortata da un consolidato indirizzo
interpretativo – cfr. Consiglio di Stato, sez. V – 28/09/2010
n. 7166) quando il trattamento concerne dati idonei a
rivelare lo stato di salute o la vita sessuale, il diritto
di accesso è consentito se la situazione giuridicamente
rilevante che si intende tutelare con la richiesta di
esibizione dei documenti amministrativi è di rango almeno
pari ai diritti dell'interessato, ovvero consiste in un
diritto della personalità o in un altro diritto o libertà
fondamentale e inviolabile;
- che il diritto azionato da parte ricorrente ha natura e
consistenza patrimoniale e, come tale, è stato in taluni
casi ritenuto recessivo rispetto all'intesse del
controinteressato a preservare la riservatezza dei propri
dati sensibili (TAR Campania Salerno, sez. I – 21/04/2011
n. 728);
- che in altra controversia (sentenza Sezione II – 13/07/2011
n. 1043) la Sezione ha affermato che il diritto ad ottenere
il risarcimento del danno derivato dalla perdita del
familiare non può ritenersi dello stesso rango di diritto
fondamentale ed inviolabile riconosciuto al diritto alla
riservatezza dei dati relativi alla stato di salute di una
persona (nella specie il responsabile della lesione);
- che in tale circostanza la Sezione ha puntualizzato che
l’esclusione del richiesto accesso “non incide direttamente
sulla possibilità di esercitare l’azione civile risarcitoria
(che in effetti risultava già pendente), ma ha
esclusivamente l’effetto di rendere un po’ più lenta e
faticosa l’eventuale dimostrazione delle condizioni di
salute del controinteressato che lo avrebbero reso inidoneo
alla guida, il cui accertamento potrà comunque avvenire sia
mediante perizie mediche, che attraverso l’acquisizione
della documentazione direttamente ad opera del giudice
civile, previa valutazione della rilevanza delle stesse”;
Atteso:
- che, in una diversa ottica, il diritto alla difesa in
giudizio –tutelato a livello costituzionale– potrebbe
essere apprezzato come situazione giuridica di “pari rango”
rispetto alla riservatezza (capace di legittimare una
richiesta di accesso a dati sull’altrui stato di salute);
- che tuttavia è stato sottolineato che, laddove venga in
rilievo una richiesta di accesso a documenti amministrativi
contenenti dati sensibili (o giudiziari) per motivi di
difesa legale, l'accesso è consentito solo “nei limiti in
cui sia strettamente indispensabile” alla difesa medesima,
come stabilisce l’art. 27, comma 7, secondo periodo, della L.
241/1990 (TAR Toscana, sez. I – 27/12/2011 n. 2067);
- che in tal caso il giudice dell'accesso ha il dovere di
effettuare un più pregnante esame circa l'effettiva
necessità della richiesta documentazione ai fini della
difesa giudiziaria dell'istante, perché l'ostensione viene
ammessa dalla legge solo nella misura in cui sia
effettivamente necessaria a tal fine;
- che la giurisprudenza ha altresì chiarito che il
bilanciamento cui fa riferimento l’art. 60 deve avvenire
verificando non in astratto, ma in concreto se il diritto
che si intende far valere o difendere attraverso l’accesso è
di rango almeno pari a quello alla riservatezza (Consiglio
di Stato, sez. IV – 06/05/2010 n. 2639)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 11.10.2012 n. 1685 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Questo
TAR deve dichiararsi privo della giurisdizione, propria del
Tribunale superiore delle acque pubbliche (TSAP),
trattandosi di questione espropriativa direttamente connessa
con la legittimità di atti attinenti ad una concessione di
derivazione di acque pubbliche.
Le opere la cui realizzazione è oggetto di contestazione,
infatti, risultano strettamente connesse all’attivazione
della derivazione di acqua concessa a favore della
controinteressata (condotta forzata, scala di risalita dei
pesci ecc.) ed in considerazione di ciò anche l’occupazione
e l’espropriazione del terreno necessario alla loro
localizzazione è attratta nella giurisdizione del TSAP.
Ritenuto che, alla luce dell’ormai costante giurisprudenza in
materia, questo Tribunale debba dichiararsi privo della
giurisdizione, propria del Tribunale superiore delle acque
pubbliche, trattandosi di questione espropriativa
direttamente connessa con la legittimità di atti attinenti
ad una concessione di derivazione di acque pubbliche (cfr,
tra le tante, in tal senso, TAR Emilia Romagna Bologna,
sez. I, 27.12.2011, n. 855, TAR Marche Sez. I, 26.03.2008, n. 209, Cons. St., Sez. VI, 12.10.2006,
n. 6070, Cassazione civile, sez. un., 12.05.2009, n.
10846).
Le opere la cui realizzazione è oggetto di
contestazione, infatti, risultano strettamente connesse
all’attivazione della derivazione di acqua concessa a favore
della controinteressata (condotta forzata, scala di risalita
dei pesci ecc.) ed in considerazione di ciò anche
l’occupazione e l’espropriazione del terreno necessario alla
loro localizzazione è attratta nella giurisdizione del TSAP
(cfr. il precedente in termini di cui alla sentenza TAR
Emilia-Romagna, Sez. I, 16.07.2012, n. 495).
Conseguentemente, declinata la propria giurisdizione, il
Collegio precisa che il termine per la riassunzione davanti
al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche –termine fino
alla scadenza del quale saranno salvi gli effetti
sostanziali e processuali della domanda– è pari a tre mesi
dal passaggio in giudicato della presente decisione
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 11.10.2012 n. 1684 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Tfr,
la Consulta: prelievo illegittimo sugli stipendi degli
statali. La sentenza della Corte costituzionale boccia il
prelievo destinato alla buonuscita.
Ora lo dice anche la Corte
costituzionale: quella trattenuta pari al 2 per cento dello
stipendio, che circa due milioni di dipendenti pubblici si
vedono applicare ogni mese, non è legittima.
Nella stessa
sentenza 11.10.2012 n. 223
in cui censurano il prelievo sulle retribuzioni più alte, i
giudici della Consulta affermano che la legge 122 del 2010
con la quale è stato riformato l’istituto della buonuscita
viola gli articoli 3 e 36 della Costituzione determinando «un
ingiustificato trattamento deteriore dei dipendenti pubblici
rispetto a quelli privati».
La possibilità che quei soldi tornino in tempi brevi nelle
tasche degli interessati è piuttosto bassa: l’onere per lo
Stato sarebbe troppo pesante soprattutto in una fase di
ulteriore stretta di bilancio. Ma è chiaro che di un
pronunciamento pesante come quello della Corte
costituzionale, che segue quelli di alcuni Tar, lo Stato in
qualche modo dovrà tener conto.
Tutto nasce dalla legge 122 del 2010, una corposa manovra
economica che oltre a bloccare i rinnovi contrattuali per
tre anni e a congelare le retribuzioni dei dipendenti
pubblici, modificava l’istituto della loro buonuscita
equiparandola a partire dal 2011 al Tfr dei privati. Le due
forme di liquidazione funzionano in modo abbastanza diverso:
la buonuscita degli statali era alimentata da un
accantonamento del 9,6 per cento calcolato sull’80 per cento
della retribuzione: il 2,5 (quindi il 2 per cento del
totale) era a carico del lavoratore. Invece per il Tfr viene
accantonato il 6,91 per cento dello stipendio totale,
totalmente a carico del datore di lavoro.
Con l’equiparazione tra pubblico e privato la trattenuta del
2,5 per cento, denominata «Opera di previdenza»
sarebbe dovuta sparire dai cedolini. Anche perché a fronte
di questi soldi non c’è più a fine carriera, come accadeva
con la buonuscita, una liquidazione generalmente più
vantaggiosa del Tfr. Anzi, per i lavoratori pubblici la base
retributiva per il calcolo del Tfr resta pari all’80 per
cento dello stipendio, mentre per i privati si tiene conto
del 100 per cento.
Nella realtà però non è successo nulla, anche perché
l’allora Inpdap (poi confluita nell’Inps) ha emanato una
circolare in cui sosteneva che siccome la legge aveva sì
modificato il sistema di calcolo, ma senza cambiare il nome
«buonuscita», la trattenuta doveva essere applicata
ancora. E così hanno fatto tutte le amministrazioni. Alcuni
lavoratori si sono però rivolti alla giustizia
amministrativa che ha iniziato a dare loro ragione; dal Tar
dell’Umbria il nodo è poi rimbalzato alla Consulta, che ora
si è pronunciata.
Sulla carta, si tratta di una partita finanziaria
gigantesca. Il prelievo dichiarato illegittimo pesa sulla
busta paga di un dipendente medio per 35-40 euro al mese;
600 euro l’anno è la stima della Uil-Fpl per un lavoratore
di fascia C. Siccome il nuovo meccanismo è scattato
all’inizio del 2011 si tratterebbe -oltre che di sospendere
il prelievo- di restituire quello applicato ormai su quasi
due anni. La Cgil valuta l’impatto sul biennio pari a 3,8
miliardi di euro riferendosi a tutta la platea del pubblico
impiego.
Bisogna ricordare però che questa situazione non riguarda
tutti i dipendenti pubblici ma solo quelli assunti prima del
2001: gli altri infatti hanno già fin dall’inizio il
meccanismo del Tfr e la trattenuta non viene loro applicata
per il semplice motivo che lo stipendio è stato loro ridotto
in proporzione al momento in cui sono stati assunti:
soluzione ugualmente poco piacevole nella sostanza ma
giuridicamente corretta.
Ora parte la battaglia per rendere esecutivo il principio
fissato dai giudici; il governo dovrà quanto meno iniziare
ad ipotizzare qualche soluzione. «Abbiamo sempre
sostenuto che il prelievo fosse illegittimo in quanto viola
il principio di eguaglianza e quello di parità di
trattamento retributivo rispetto al settore privato
-commenta Giovanni Torluccio-segretario generale della
Uil-Fpl- ora le amministrazioni dovranno restituire ai
lavoratori le somme illegittimamente trattenute». La Cgil
parla di «una vera e propria bomba sui conti Inps-Inpdap»
(articolo Il
Mattino del 13.10.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
CONDOMINIO:
Se l’inquilino muore fulminato ne rispondono
proprietario e amministratore.
Il proprietario di casa e l’amministratore -anche
soltanto di fatto- rispondono penalmente della morte
dell’inquilino rimasto fulminato per l’assenza di “salvavita
“all’interno dell’abitazione.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la
sentenza 10.10.2012 n. 40050, respingendo il
ricorso di un’anziana madre (proprietaria della casa), e del
di lei figlio (che “le dava una mano” nella
gestione), contro la sentenza della Corte di appello che li
aveva condannati entrambi per omicidio colposo.
La vicenda
L’incredibile quanto tragica storia è avvenuta a Catania. Lì
si trovava la casa dove lo sventurato inquilino fu raggiunto
mentre si faceva la doccia da una prima scarica elettrica. A
quel punto, per capire il motivo della dispersione, l’uomo
si recò sul terrazzo di copertura dell’abitazione e “senza
che avesse in alcun modo armeggiato con i fili elettrici”,
“venne attinto dalla mortale scarica”, soltanto “per
avere contemporaneamente toccato il tubo conduttore
dell’elettricità all’autoclave e l’inferriata a potenziale
elettrico zero”, dove venne trovato ancora aggrappato
dai soccorritori.
Impianto non a norma
Nulla ha potuto la testimonianza di un tecnico elettricista
secondo cui l’appartamento era dotato del dispositivo di
sicurezza. Per la Cassazione, infatti, se così fosse stato “il
tragico evento non si sarebbe dato”, perché “l’immediata
disattivazione elettrica avrebbe impedito la folgorazione”.
Mentre dagli accertamenti tecnici era risultato un impianto
“assemblato in modo rudimentale e al quanto
approssimativo”, tale da escludere, dunque, che la
protezione fosse assicurata.
No alla responsabilità dell’inquilino
Neppure si può rimproverare all’inquilino un comportamento
anomalo, secondo l’id quod plerumque accidit, per
aver tentato di capire l’origine della perdita, salendo su
una terrazza a cui gli era precluso l’ingresso ma che “evidentemente
era dotato di libero accesso”. Non può dunque addossarsi
al povero inquilino tutta la responsabilità anche se la
Cassazione ha confermato un suo concorso di colpa al 20%.
La responsabilità dell’amministratore
Infine, degno di nota è anche il riconoscimento della
responsabilità in capo al figlio, quale amministratore di
fatto, senza perciò che vi fosse stata alcuna “formalità
di sorta” nella preposizione ma soltanto sulla base del
fatto che egli aveva indicato l’abitazione come “casa mia”,
riscuoteva i canoni di locazione rilasciandone ricevuta e
dopo l’evento si occupò della messa a norma dell’impianto al
posto della madre ormai in età (tratto da e link a
www.diritto24.ilsole24ore.com). |
EDILIZIA
PRIVATA: Per
la giurisprudenza maggioritaria, la semplice constatazione
dell'abuso, a prescindere dal tempo trascorso, costituisce
un legittimo presupposto per l’adozione dell’ordine di
demolizione di opere abusive e, ciò, in considerazione del
carattere “dovuto” di detto provvedimento.
E’ utile ricordare, infatti, come nello schema giuridico
delineato dall'art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U.
Edilizia) non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali,
atteso che l'esercizio del potere repressivo dell'abuso
edilizio costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa
l'interesse pubblico alla sua rimozione.
Il provvedimento di cui all’art. 31 deve allora ritenersi
sufficientemente motivato con l’accertamento dell’abuso, non
necessitando di una particolare motivazione in ordine alle
disposizioni normative che si assumono violate, né in ordine
all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso.
---------------
Va ricordato l’orientamento prevalente in materia di ordini
di demolizione nella parte in cui si afferma, in materia
edilizia, la non necessità di una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti. Questo
Collegio è, altresì, a conoscenza dell’ulteriore
orientamento giurisprudenziale diretto a sancire la
necessità di una “più articolata” motivazione tutte le volte
che il notevole lasso di tempo trascorso, tra la sanzione e
l’abuso, sia la conseguenza di un’inerzia
dell’Amministrazione che, a sua volta, abbia ingenerato un
affidamento del privato.
Sul punto deve, tuttavia, evidenziarsi come l’applicazione
dei principi fatti propri da detto ulteriore orientamento
comporti la necessità di verificare l’esistenza di alcuni
presupposti, precisamente riconducibili sia all’avvenuto
accertamento che gli abusi siano stati eseguiti in un
periodo molto risalente sia, ancora, alla constatazione
circa l’effettiva inerzia dell’Amministrazione (inerzia che
presuppone una conoscenza dell’abuso) e, in ultimo, del
nesso causale tra l’inerzia e l’affidamento ingenerato nei
confronti del privato.
Con il primo motivo il ricorrente sostiene come il
provvedimento impugnato sia stato assunto in violazione e
falsa applicazione degli art. 3 e 31 del D.p.r. n. 380/2001
in quanto il magazzino abusivo sarebbe stato realizzato in
un periodo anteriore al 01.09.1967 e, quindi, in un regime
giuridico in cui non era necessaria la concessione edilizia.
Solo a partire da detta data, infatti, è divenuto efficace,
su tutto il territorio nazionale, l’obbligo di acquisire, al
fine di procedere alla realizzazione di un manufatto
edilizio, una preventiva concessione edilizia adottata nel
rispetto delle prescrizioni urbanistiche di cui alla legge
17.08.1942 n. 1150 e ai sensi della legge del 01.08.1967 n.
765.
Il ricorrente contesta sia il fondamento della dichiarazione
del proprietario confinante (che afferma come il manufatto
sia stato realizzato tra il 1980 e il 1985) sia, ancora,
l’idoneità di una foto aerea del 1967 in quanto tale non
sufficiente a ricondurre l’esistenza del manufatto ad un
periodo successivo alla data sopra riportata.
Sul punto va rilevato come il ricorrente si limiti
semplicemente ad affermare la “non idoneità” della
prova fotografica addotta dal Comune a datare il manufatto,
senza per questo fornire ulteriori elementi documentali o
riscontri suscettibili di inficiarne la validità.
In realtà è necessario rilevare come, per la giurisprudenza
maggioritaria, la semplice constatazione dell'abuso, a
prescindere dal tempo trascorso, costituisca un legittimo
presupposto per l’adozione dell’ordine di demolizione di
opere abusive e, ciò, in considerazione del carattere “dovuto”
di detto provvedimento. E’ utile ricordare, infatti, come
nello schema giuridico delineato dall'art. 31 del D.P.R. n.
380 del 2001 (T.U. Edilizia) non vi è spazio per
apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del
potere repressivo dell'abuso edilizio costituisce atto
dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse
pubblico alla sua rimozione. Il provvedimento di cui
all’art. 31 deve allora ritenersi sufficientemente motivato
con l’accertamento dell’abuso, non necessitando di una
particolare motivazione in ordine alle disposizioni
normative che si assumono violate, né in ordine
all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso (per tutte
si veda TAR Campania Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n. 9638 e
TAR Campania Napoli Sez. II, 06.02.2012, n. 580).
---------------
Deve essere rigettato anche il
secondo e il terzo motivo alla base del ricorso nella parte
in cui, entrambi, fondano l’illegittimità del provvedimento
sulla base del venire in essere di un “affidamento”
del ricorrente, ingenerato dal considerevole decorso del
tempo trascorso.
Il ricorrente sostiene, altresì, la violazione dell’art. 3
della L. n. 241/1990 in quanto il provvedimento risulterebbe
privo della motivazione in ordine alla specificazione
dell’interesse pubblico che permetterebbe di superare il
presunto affidamento del privato.
Il motivo deve ritenersi infondato in quanto in contrasto
con l’orientamento prevalente in materia di ordini di
demolizione nella parte in cui si afferma, in materia
edilizia, la non necessità di una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti. Questo
Collegio è, altresì, a conoscenza dell’ulteriore
orientamento giurisprudenziale diretto a sancire la
necessità di una “più articolata” motivazione tutte
le volte che il notevole lasso di tempo trascorso, tra la
sanzione e l’abuso, sia la conseguenza di un’inerzia
dell’Amministrazione che, a sua volta, abbia ingenerato un
affidamento del privato (Cons. Stato Sez. V, 29.05.2006, n.
3270).
Sul punto deve, tuttavia, evidenziarsi come l’applicazione
dei principi fatti propri da detto ulteriore orientamento
comporti la necessità di verificare l’esistenza di alcuni
presupposti, precisamente riconducibili sia all’avvenuto
accertamento che gli abusi siano stati eseguiti in un
periodo molto risalente sia, ancora, alla constatazione
circa l’effettiva inerzia dell’Amministrazione (inerzia che
presuppone una conoscenza dell’abuso) e, in ultimo, del
nesso causale tra l’inerzia e l’affidamento ingenerato nei
confronti del privato.
Niente di tutto ciò è stato dimostrato dalla ricorrente che,
al contrario, si limita a fondare l’affidamento sulla
presunta consapevolezza da parte del proprietario confinante
circa l’esistenza del manufatto, fattispecie che di per sé
non può significare necessariamente l’esistenza di una
contestuale conoscenza del Comune circa l’esistenza del
manufatto e, di conseguenza, del manifestarsi da parte di
quest’ultimo di un comportamento omissivo, e di mera
inerzia, nel perseguire l’abuso (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 10.10.2012 n. 1255 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Beni Ambientali. Paesaggio e costituzione.
I principi generali in materia
ambientale e paesaggistica non possono esser disgiunti dagli
artt. 9 e 117 della Costituzione, per cui deve essere data
la prevalenza alla tutela del paesaggio non nel significato,
meramente estetico, di “bellezza naturale”, ma come
complesso dei valori inerenti il territorio naturale, che è
un bene “primario” ed “assoluto" e comunque una risorsa
assolutamente limitata ed in via di esaurimento.
L’attività sanzionatoria è diretta ad assicurare la tutela
ambientale e paesaggistica quale valore primario, complesso,
unitario ed assoluto, che precede gli altri interessi
pubblici e privati.
Pertanto, una volta accertato l’assoluto contrasto
dell’intervento comunque realizzato dall’appellante con la
disciplina urbanistica, non può sussistere alcun legittimo
affidamento in capo al costruttore abusivo che possa
giustificare la conservazione di una situazione di fatto
realizzata "contra ius" in totale spregio dei valori
ambientali, archeologici e paesaggistici.
Ossia, non solo non vi è alcuna norma che preveda il preteso
“favor” per la conservazione dell’edilizia illegale, ma al
contrario la repressione degli abusi edilizi è un’attività
soggetta ai principi generali di "tipicità" e di "legalità"
costituente un preciso obbligo dell'amministrazione, la
quale non gode di alcuna discrezionalità al riguardo.
I principi generali in materia ambientale e paesaggistica
non possono esser disgiunti, come ha insegnato la Corte
Costituzionale, dagli artt. 9 e 117 della Costituzione, per
cui deve essere data la prevalenza alla tutela del paesaggio
non nel significato, meramente estetico, di “bellezza
naturale”, ma come complesso dei valori inerenti il
territorio naturale (cfr. Corte Cost., 07.11.1994, n. 379),
che è un bene “primario” ed “assoluto" (Corte
cost., 05.05.2006, nn. 182, 183) e comunque una risorsa
assolutamente limitata ed in via di esaurimento.
In conformità ai principi costituzionali e con riguardo
all'applicazione della Convenzione europea sul paesaggio,
adottata a Firenze il 20.10.2000, l’attività sanzionatoria è
diretta ad assicurare la tutela ambientale e paesaggistica
quale valore primario, complesso, unitario ed assoluto, che
precede gli altri interessi pubblici e privati.
Pertanto, una volta accertato l’assoluto contrasto
dell’intervento comunque realizzato dall’appellante con la
disciplina urbanistica, non può sussistere alcun legittimo
affidamento in capo al costruttore abusivo che possa
giustificare la conservazione di una situazione di fatto
realizzata "contra ius" in totale spregio dei valori
ambientali, archeologici e paesaggistici.
Ossia, non solo non vi è alcuna norma che preveda il preteso
“favor” per la conservazione dell’edilizia illegale,
ma al contrario la repressione degli abusi edilizi è
un’attività soggetta ai principi generali di "tipicità"
e di "legalità" costituente un preciso obbligo
dell'amministrazione, la quale non gode di alcuna
discrezionalità al riguardo (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.10.2012 n. 5256 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Risulta
legittimo l’annullamento soprintendentizio laddove fonda la
propria determinazione sul rilievo del difetto di
motivazione dell’autorizzazione paesaggistica comunale.
Invero, l’autorizzazione paesaggistica deve essere motivata
in modo che emerga l’apprezzamento di tutte le rilevanti
circostanze di fatto e la non manifesta irragionevolezza
della scelta effettuata sulla prevalenza rispetto al valore
tutelato in via primaria, non potendo l’autorità comunale
limitarsi ad affermazioni apodittiche e dovendosi pure
riferire non all’entità atomisticamente valutata del singolo
intervento ma al complesso strutturalmente individuato che
deriva dalla sovrapposizione con quello preesistente.
Pertanto, occorre esternare adeguatamente l’avvenuto
apprezzamento comparativo, da un lato del contenuto del
vincolo e, dall’altro, di tutte le rilevanti circostanze di
fatto relative al manufatto ed al suo inserimento nel
contesto protetto, in modo da giustificare la scelta di dare
prevalenza all’interesse del privato rispetto a quello
tutelato attraverso l’imposizione del vincolo.
Nel caso di specie, tale valutazione non risulta esternata
da parte dell’autorità comunale, atteso che il parere della
commissione preposta, cui rinvia per relationem
l’autorizzazione paesaggistica, si limita ad evidenziare che
“gli interventi proposti non contrastano con le esigenze di
tutela paesaggistiche ed ambientali”, senza spiegarne le
ragioni conformemente alla regola sopra richiamata.
- Ritenuto che risulta legittimo l’annullamento
soprintendentizio, laddove fonda la propria determinazione
sul rilievo del difetto di motivazione dell’autorizzazione
paesaggistica comunale;
- Ritenuto, invero, per costante giurisprudenza della
Sezione, che l’autorizzazione paesaggistica deve essere
motivata in modo che emerga l’apprezzamento di tutte le
rilevanti circostanze di fatto e la non manifesta
irragionevolezza della scelta effettuata sulla prevalenza
rispetto al valore tutelato in via primaria, non potendo
l’autorità comunale limitarsi ad affermazioni apodittiche e
dovendosi pure riferire non all’entità atomisticamente
valutata del singolo intervento ma al complesso
strutturalmente individuato che deriva dalla sovrapposizione
con quello preesistente;
- Ritenuto, pertanto, che occorre esternare adeguatamente
l’avvenuto apprezzamento comparativo, da un lato del
contenuto del vincolo e, dall’altro, di tutte le rilevanti
circostanze di fatto relative al manufatto ed al suo
inserimento nel contesto protetto, in modo da giustificare
la scelta di dare prevalenza all’interesse del privato
rispetto a quello tutelato attraverso l’imposizione del
vincolo;
- Evidenziato che tale valutazione non risulta esternata da
parte dell’autorità comunale, atteso che il parere della
commissione preposta, cui rinvia per relationem
l’autorizzazione paesaggistica, si limita ad evidenziare che
“gli interventi proposti non contrastano con le esigenze
di tutela paesaggistiche ed ambientali”, senza spiegarne
le ragioni conformemente alla regola sopra richiamata
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza
09.10.2012 n. 1813 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: In
materia di repressione degli abusi edilizi non è richiesta
la comunicazione di avvio del procedimento, nel caso di
ordine di demolizione di opere edilizie abusive, in
particolare laddove trattasi di provvedimento che, per sua
natura, ha carattere urgente, dovuto e rigorosamente
vincolato, non implicante valutazioni discrezionali; simili
provvedimenti si risolvono, infatti, in meri accertamenti
tecnici e si sostengono su un presupposto di fatto,
rientrante nella sfera di controllo dell'interessato.
Contrariamente alla tesi sostenuta dal ricorrente, in
materia di repressione degli abusi edilizi non è richiesta
la comunicazione di avvio del procedimento, nel caso di
ordine di demolizione di opere edilizie abusive, in
particolare laddove trattasi, com’è nel caso di specie, di
provvedimento che, per sua natura, ha carattere urgente,
dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni
discrezionali; simili provvedimenti si risolvono, infatti,
in meri accertamenti tecnici e si sostengono su un
presupposto di fatto, rientrante nella sfera di controllo
dell'interessato (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 05.03.2010, n.
1278 e, da ultimo, Tar Campania, Napoli, Sez. VII,
03.09.2010, n. 17302) (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza
09.10.2012 n. 1807 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Qualora
si versi nell’ambito di un mutamento di destinazione d'uso
di carattere strutturale, cioè connesso e conseguente
all'esecuzione di opere, il permesso di costruire è
necessario.
Pertanto devono considerarsi abusive non solo le opere di
costruzione vere e proprie, ma anche i lavori interni che,
per quanto modesti (e non è il caso in esame, nel quale al
contrario gli interventi all’esterno ed all’interno appaiono
significativi), si rendono indispensabili per rendere
possibile la nuova destinazione.
Come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, con
orientamento condiviso dal Collegio, qualora si versi
nell’ambito di un mutamento di destinazione d'uso di
carattere strutturale, cioè connesso e conseguente
all'esecuzione di opere, il permesso di costruire è
necessario (cfr. recente Tar Campania, Napoli, Sez. III,
07.02.2011, n. 735). Pertanto devono considerarsi abusive
non solo le opere di costruzione vere e proprie, ma anche i
lavori interni che, per quanto modesti (e non è il caso in
esame, nel quale al contrario gli interventi all’esterno ed
all’interno appaiono significativi), si rendono
indispensabili per rendere possibile la nuova destinazione.
Ne consegue che, nel caso in cui locali sottotetto siano
stati destinati a locali di civile abitazione, è legittimo
l'ordine di demolizione
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza
09.10.2012 n. 1804 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Se
presentata richiesta di accertamento di conformità, ai sensi
dell’art. 37 d.p.r. 380/2001, il decorso di 60 giorni dalla
richiesta medesima, senza che l’amministrazione comunale si
sia pronunciata, va qualificato come silenzio-rigetto.
La società ricorrente ha presentato richiesta di
accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 37 d.p.r.
380/2001, per il quale il decorso di sessanta giorni dalla
richiesta medesima, senza che l’amministrazione comunale si
sia pronunciata, va qualificata come silenzio-rigetto; ed
invero l’art. 37, comma 6, chiarisce che: “La mancata
denuncia di inizio dell'attività non comporta l'applicazione
delle sanzioni previste dall'articolo 44. Resta comunque
salva, ove ne ricorrano i presupposti in relazione
all'intervento realizzato, l'applicazione …
dell'accertamento di conformità di cui all'articolo 36”.
L’art. 36, comma 3, dispone che “Sulla richiesta di
permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del
competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata
motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la
richiesta si intende rifiutata”
(TAR Campania-Salerno, Sez. I
sentenza
09.10.2012 n. 1803 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’autore
di un esposto, anche se proprietario confinante del
destinatario di un provvedimento di annullamento d’ufficio
del titolo ad aedificandum, non assume la veste giuridica di
controinteressato perché il potere di autotutela è
esercitato per il conseguimento dell’interesse pubblico al
quale è estraneo il privato che, se vanta un interesse di
mero fatto, ricorrendone i presupposti, può svolgere, come è
avvenuto nel caso in esame, l’intervento ad opponendum a
norma dell’art. 22, comma 2, della legge n. 1034/1971 (ora
art. 28, comma 2, del c.p.a.).
L’orientamento giurisprudenziale assolutamente
maggioritario, condiviso da questo Tribunale, ha avuto modo
di affermare che l’autore di un esposto, anche se
proprietario confinante del destinatario di un provvedimento
di annullamento d’ufficio del titolo ad aedificandum,
non assume la veste giuridica di controinteressato perché il
potere di autotutela è esercitato per il conseguimento
dell’interesse pubblico al quale è estraneo il privato che,
se vanta un interesse di mero fatto, ricorrendone i
presupposti, può svolgere, come è avvenuto nel caso in
esame, l’intervento ad opponendum a norma dell’art.
22, comma 2, della legge n. 1034/1971 (ora art. 28, comma 2,
del c.p.a.) (Cfr. Cons. di Stato – Sez. IV – 15/11/2004 n.
7417; TAR Valle d’Aosta 13/02/2008 n. 10; id. Puglia – BA –
Sez. I – 21/02/2006 n. 558; id. Lombardia – BS – 20/11/2002
n. 1881)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza
04.10.2012 n. 1794 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
presentazione dell'istanza di accertamento di conformità ai
sensi dell'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, produce l'effetto
di rendere improcedibile l'impugnazione dell'ordine di
demolizione per sopravvenuta carenza di interesse.
L'esercizio della facoltà di regolarizzare la propria
posizione da parte del privato impedisce l'esercizio del
potere repressivo dell'Amministrazione, almeno fino a quando
la stessa non si pronunci in senso negativo sull'istanza
medesima, comportando altresì la traslazione dell'interesse
ad impugnare verso il futuro provvedimento che,
eventualmente, respinga la domanda medesima, disponendo
nuovamente la demolizione dell'opera edilizia ritenuta
abusiva.
In definitiva l'istanza di sanatoria impone il riesame della
questione, da parte dello stesso Ente, che dovrà valutare la
possibile conformità delle opere stesse, tenendo conto delle
concrete ragioni dell'istanza, configurandosi cioè diversi
ed autonomi presupposti per un eventuale rinnovato esercizio
del potere sanzionatorio.
---------------
L'acquisizione del bene al patrimonio del Comune non può
essere adottata ove la parte interessata si sia attivata per
sanare l'abuso, dovendo l'Amministrazione pronunciarsi
sull'istanza di adeguamento e/o sanatoria, con la necessità
di riedizione dell'ordine di demolizione in caso di mancato
accoglimento della stessa o vi sia stato il rigetto
del'istanza di dissequestro.
Secondo la giurisprudenza alla quale aderisce il Collegio,
la presentazione dell'istanza di accertamento di conformità
ai sensi dell'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, produce
l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione
dell'ordine di demolizione per sopravvenuta carenza di
interesse (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. VII,
20.11.2007, n. 14442; 28.12.2007, n. 16539).
In base a tale orientamento, dal quale il Collegio non ha
ragione di discostarsi, l'esercizio della facoltà di
regolarizzare la propria posizione da parte del privato
impedisce l'esercizio del potere repressivo
dell'Amministrazione, almeno fino a quando la stessa non si
pronunci in senso negativo sull'istanza medesima,
comportando altresì la traslazione dell'interesse ad
impugnare verso il futuro provvedimento che, eventualmente,
respinga la domanda medesima, disponendo nuovamente la
demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva.
In definitiva l'istanza di sanatoria impone il riesame della
questione, da parte dello stesso Ente, che dovrà valutare la
possibile conformità delle opere stesse, tenendo conto delle
concrete ragioni dell'istanza, configurandosi cioè diversi
ed autonomi presupposti per un eventuale rinnovato esercizio
del potere sanzionatorio (Cfr. TAR Salerno Campania, sez. I,
14.10.2011 n. 1666, TAR Campania Salerno, sez. I,
22.02.2011, n. 350, TAR Campania Napoli, sez. VII,
10.03.2011, n. 1401 e Tar Piemonte, Sez. I, n. 16/2011 e TAR
Lazio Roma, sez. II 04.12.2009, n. 12552).
Nel caso di specie il ricorrente a seguito dell’ordinanza di
demolizione, di cui il provvedimento di acquisizione al
patrimonio comunale costituisce esecuzione, ha presentato
richiesta di variante al piano regolatore ai fini della
sanatoria dell’abuso, così privando di efficacia l’ordinanza
stessa.
Sul rapporto tra il procedimento disciplinato dall'art. 5,
D.P.R. n. 447 del 1998 e quello ordinario di variante allo
strumento urbanistico generale, la giurisprudenza si è
pronunciata evidenziando che si tratta di procedimenti
entrambe volti ad apportare alla strumentazione urbanistica
comunale le variazioni necessarie a consentire il rilascio
della concessione edilizia richiesta per la realizzazione di
impianti produttivi (così, CdS Sez. V, sent. n. 7425 del
14.12.2006
Il Comune, una volta rigettata la richiesta variante, o
meglio, la domanda di indizione di conferenza di servizi,
avrebbe dovuto riesercitare il potere sanzionatorio,
rinnovando il termine per la demolizione del manufatto
abusivo (Tar Catania 3846 - 27.09.2010 - Sez. I).
In mancanza di una nuova ordinanza di demolizione
l’acquisizione del bene al patrimonio del comune è
illegittima, non potendo la stessa disporsi sulla base
dell’inottemperanza ad una ordinanza di demolizione divenuta
inefficace per effetto della richiesta attività di
regolarizzazione intrapresa dal privato.
La giurisprudenza condivisa dal Collegio ha, infatti,
chiarito che l'acquisizione del bene al patrimonio del
Comune non può essere adottata ove la parte interessata si
sia attivata per sanare l'abuso, dovendo l'Amministrazione
pronunciarsi sull'istanza di adeguamento e/o sanatoria, con
la necessità di riedizione dell'ordine di demolizione in
caso di mancato accoglimento della stessa o vi sia stato il
rigetto del'istanza di dissequestro (Cfr., in termini, TAR
Catania, Sez. I, 4374 - 11.11.2010 – e 27.09.2010 n. 3846)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza
04.10.2012 n. 1784 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
mera presentazione dell'istanza di accertamento di
conformità ai sensi dell'art. 13 della l. n. 47/1985 (oggi,
dell’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001) produce l'effetto di
rendere improcedibile l'impugnazione dell'ordine di
demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva per
sopravvenuta carenza di interesse, atteso che l'esercizio
della facoltà di regolarizzare la propria posizione da parte
del privato impedisce l'esercizio del potere repressivo
dell'amministrazione, almeno fino a quando la stessa non si
pronunci in senso negativo sull'istanza medesima, ed,
inoltre, in quanto l'applicazione di detto principio,
determina, sotto l'aspetto processuale, la sopravvenuta
carenza di interesse all'annullamento dell'atto
sanzionatorio in relazione al quale è stata prodotta la
suddetta domanda di sanatoria e la traslazione e
differimento dell'interesse ad impugnare verso il futuro
provvedimento che, eventualmente, respinga la domanda
medesima, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera
edilizia ritenuta abusiva.
RITENUTO, in disparte ogni altro rilievo, che –per costate
orientamento pretorio– la mera presentazione dell'istanza di
accertamento di conformità ai sensi dell'art. 13 della l. n.
47/1985 (oggi, dell’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001) produce
l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione
dell'ordine di demolizione dell'opera edilizia ritenuta
abusiva per sopravvenuta carenza di interesse, atteso che
l'esercizio della facoltà di regolarizzare la propria
posizione da parte del privato impedisce l'esercizio del
potere repressivo dell'amministrazione, almeno fino a quando
la stessa non si pronunci in senso negativo sull'istanza
medesima, ed, inoltre, in quanto l'applicazione di detto
principio, determina, sotto l'aspetto processuale, la
sopravvenuta carenza di interesse all'annullamento dell'atto
sanzionatorio in relazione al quale è stata prodotta la
suddetta domanda di sanatoria e la traslazione e
differimento dell'interesse ad impugnare verso il futuro
provvedimento che, eventualmente, respinga la domanda
medesima, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera
edilizia ritenuta abusiva (in terminis, da ultimo TAR
Campania Salerno, sez. II, 24.04.2012, n. 802)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza
01.10.2012 n. 1776 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
mera presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente
all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce di
per sé l'effetto di rendere inefficace tale ultimo
provvedimento (e, correlativamente, improcedibile
l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse)
e ciò in quanto il riesame dell'abusività dell'opera
provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare
l'eventuale sanabilità di quanto costruito, ex se comporta
la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di
accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, dal
momento che, in caso di diniego del richiesto accertamento
di conformità, l'Amministrazione Comunale dovrebbe emettere
una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi
termini per ottemperarvi.
CONSIDERATO che, per costante orientamento
giurisprudenziale, la mera presentazione dell'istanza di
sanatoria successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di
demolizione produce di per sé l'effetto di rendere
inefficace tale ultimo provvedimento (e, correlativamente,
improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza
di interesse) e ciò in quanto il riesame dell'abusività
dell'opera provocato da tale istanza, sia pure al fine di
verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, ex
se comporta la necessaria formazione di un nuovo
provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale
comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa, dal momento che, in caso di diniego del
richiesto accertamento di conformità, l'Amministrazione
Comunale dovrebbe emettere una nuova ordinanza di
demolizione, con fissazione di nuovi termini per
ottemperarvi (in termini, da ultimo, Cons. Stato, sez. IV,
16.09.2011, n. 5228)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza
01.10.2012 n. 1769 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Secondo giurisprudenza consolidata:
- nella fattispecie disciplinata dagli artt. 873 e seguenti
del codice civile, in applicazione del principio di
prevenzione gli stessi attribuiscono a chi edifica per primo
una triplice facoltà alternativa: a) costruire sul confine;
b) costruire con il distacco previsto dalla normativa
vigente; c) costruire con distacco inferiore alla metà della
distanza minima prescritta, salva la possibilità per il
vicino di costruire successivamente avanzando la propria
fabbrica fino a quella preesistente, pagando la metà del
valore del muro del vicino che diventerà comune, oltreché il
valore del suolo occupato per effetto dell’avanzamento della
fabbrica ovvero arretrare la costruzione sino a rispettare
la maggiore intera distanza imposta dallo strumento
urbanistico;
- la realizzazione di strutture in muratura, pur sovrastate
da una terrazza, per il loro carattere di stabilità e
permanenza costituiscono intervento di sopraelevazione che
rappresenta una vera e propria “costruzione” in relazione
alla quale deve trovare applicazione la disciplina del
codice civile sulle distanze legali;
- la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di
edifici antistanti, prevista dall’art. 9, D.M. 02.04.1968 n.
1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei
fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a
tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale,
prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle
distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo
di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare,
sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti
verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi
in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di
gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei
generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano
quindi destinate anche a estendere e ampliare per l’intero
fronte dell’edificio la parte utilizzabile per l’uso
abitativo;
- per “pareti finestrate”, ai sensi dell’art. 9 D.M.
02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi
locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non
(soltanto) le pareti munite di “vedute”, ma più in generale
tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso
l’esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di
veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia
finestrata anche una sola delle due pareti.
La ricorrente censura il permesso di costruire da ultimo
rilasciato sostenendo, a ragione, che, per quanto concerne
il nuovo manufatto costruito sul confine, limitatamente alla
parte che fuoriesce sia in altezza, rispetto al piano di
copertura, che in larghezza rispetto al box di proprietà in
adesione del quale è costruito e che, come tale, fronteggia
la facciata finestrata del proprio fabbricato, il titolo sia
stato rilasciato in violazione dell’art. 9 del D.M. n.
1444/1968 (ora art. 136 del d.P.R. n. 380/2001), per
violazione delle distanze legali tra gli edifici (m. 10) e
delle distanze degli edifici rispetto al confine (m. 5).
In particolare, deduce parte ricorrente che avendo la
medesima costruito per prima a una distanza inferiore dal
confine (a circa m. 4,10, per quanto riguarda l’edificio, e
sul confine, per quanto concerne il box), per il principio
di prevenzione temporale, dovrebbe essere la confinante
controinteressata a dovere arretrare, con la sola esclusione
della parte costruita sul confine in aderenza al citato box
e per la relativa altezza ed estensione.
Invero, secondo giurisprudenza consolidata:
- in tale ultimo caso si versa in ipotesi del tutto analoga
a quella disciplinata dagli artt. 873 e seguenti del codice
civile, che in applicazione del principio di prevenzione
attribuisce a chi edifica per primo una triplice facoltà
alternativa: a) costruire sul confine; b) costruire con il
distacco previsto dalla normativa vigente; c) costruire con
distacco inferiore alla metà della distanza minima
prescritta, salva la possibilità per il vicino di costruire
successivamente avanzando la propria fabbrica fino a quella
preesistente, pagando la metà del valore del muro del vicino
che diventerà comune, oltreché il valore del suolo occupato
per effetto dell’avanzamento della fabbrica ovvero arretrare
la costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza
imposta dallo strumento urbanistico (Cass. Civ. sez. II,
07.08.2002, n. 11899; Consiglio Stato, sez. IV, 31.03.2009,
n. 1998);
- la realizzazione di strutture in muratura, pur sovrastate
da una terrazza, per il loro carattere di stabilità e
permanenza costituiscono intervento di sopraelevazione che
rappresenta una vera e propria “costruzione” in
relazione alla quale deve trovare applicazione la disciplina
del codice civile sulle distanze legali (Consiglio Stato,
sez. IV, 31.03.2009, n. 1998);
- la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di
edifici antistanti, prevista dall’art. 9, D.M. 02.04.1968 n.
1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei
fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a
tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale,
prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle
distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo
di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare,
sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti
verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi
in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di
gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei
generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano
quindi destinate anche a estendere e ampliare per l’intero
fronte dell’edificio la parte utilizzabile per l’uso
abitativo (Cons. di Stato, sez. IV, 05.12.2005, n. 6909);
- per “pareti finestrate”, ai sensi dell’art. 9 D.M.
02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi
locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non
(soltanto) le pareti munite di “vedute”, ma più in
generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi
genere verso l’esterno, quali porte, balconi, finestre di
ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che
basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti
(Corte d’Appello, Catania, 22.11.2003; TAR Toscana, Firenze,
sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte, Torino,
10.10.2008 n. 2565; TAR Lombardia, Milano, sez. IV,
07.06.2011, n. 1419)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 28.09.2012 n. 1624 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La disposizione di cui
all’art. 9, comma 1, n. 2, D.M. 02.04.1968 n. 1444, essendo
volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì
alla salvaguardia d’imprescindibili esigenze
igienico-sanitarie, e quindi tassativa e inderogabile, non
solo impone al proprietario dell’area confinante col muro
finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno
dieci metri da quello, senza alcuna deroga neppure per il
caso in cui la nuova costruzione sia destinata a essere
mantenuta a una quota inferiore a quella dalle finestre
antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle
previsioni dell’art. 907, comma 3, c.c., ma vincola anche i
Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti
urbanistici con la conseguenza che ogni previsione
regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è
illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o
comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione
con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata,
atteso che l’art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, per la sua
natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni
contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione.
Secondo giurisprudenza
consolidata, dal cui orientamento il Collegio non ravvisa
valide ragioni per discostarsi, la disposizione di cui
all’art. 9, comma 1, n. 2, D.M. 02.04.1968 n. 1444, essendo
volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì
alla salvaguardia d’imprescindibili esigenze
igienico-sanitarie, e quindi tassativa e inderogabile, non
solo impone al proprietario dell’area confinante col muro
finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno
dieci metri da quello, senza alcuna deroga neppure per il
caso in cui la nuova costruzione sia destinata a essere
mantenuta a una quota inferiore a quella dalle finestre
antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle
previsioni dell’art. 907, comma 3, c.c., ma vincola anche i
Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti
urbanistici con la conseguenza che ogni previsione
regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è
illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o
comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione
con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata,
atteso che l’art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, per la sua
natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni
contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione
(Cons. di Stato, sez. IV, 27.10.2011, n. 5759; Idem,
12.06.2007, n. 3094)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 28.09.2012 n. 1624 -
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LAVORI PUBBLICI:
È unicamente con
l’approvazione del progetto esecutivo, provvedimento tipico
e dichiarativo della pubblica utilità, che si esplicita
formalmente la definitiva volontà dell’Amministrazione di
realizzare l’opera pubblica.
I progetti preliminari di opere pubbliche, di per sé, non
sono nemmeno atti autonomamente impugnabili, perché
meramente endoprocedimentali, diversamente dalla successiva
fase progettuale (solamente alla quale è connessa la
dichiarazione di pubblica utilità), che deve essere perciò
impugnata poiché immediatamente in grado di ledere la
posizione giuridica soggettiva dei singoli.
Invero, l’art. 18 della l.p. 10.9.1993, n. 26 (in materia di
lavori pubblici di interesse provinciale), prevede -in
difformità da quanto disposto dall’art. 12 del t.u.
nazionale sulle espropriazioni 08.06.2001, n. 327- che solo
l'approvazione del progetto “esecutivo” di un’opera
pubblica equivale a dichiarazione di pubblica utilità, di
urgenza ed indifferibilità e che è il progetto esecutivo che
deve essere depositato presso la segreteria del comune con i
prescritti elaborati grafici e descrittivi.
In proposito, la giurisprudenza afferma che è unicamente con
l’approvazione del progetto esecutivo, provvedimento tipico
e dichiarativo della pubblica utilità, che si esplicita
formalmente la definitiva volontà dell’Amministrazione di
realizzare l’opera pubblica (cfr., C.d.S., sez. VI,
24.11.2011, n. 6207).
Secondo la normativa provinciale, dunque, è il progetto
esecutivo a presentare una stabile connotazione che consente
di valutare appieno i profili di interferenza per coloro che
se ne ritengono lesi; solo il progetto esecutivo, in altri
termini, è l’atto che concreta ed attualizza la lesione
delle posizioni giuridiche non solo dei proprietari
interessati alle espropriazioni ma anche dei soggetti
confinanti o vicini che contestano le modalità di
realizzazione dell’opera pubblica.
Rammenta poi il Collegio che la problematica in esame è
stata da tempo risolta dalla giurisprudenza del Giudice
d’appello, il quale, con orientamento consolidato -dal quale
non si rinvengono ragioni per discostarsi- ha chiarito che i
progetti preliminari di opere pubbliche, di per sé, non sono
nemmeno atti autonomamente impugnabili, perché meramente
endoprocedimentali, diversamente dalla successiva fase
progettuale (solamente alla quale è connessa la
dichiarazione di pubblica utilità), che deve essere perciò
impugnata poiché immediatamente in grado di ledere la
posizione giuridica soggettiva dei singoli (cfr., C.d.S.,
sez. V, 03.05.2012, n. 2535; sez. IV, 22.06.2006, n. 3949) (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 27.09.2012 n. 287 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA:
Rifiuti. Recupero materiali da demolizione.
Ai sensi dell'art. 184, comma 3, lett. b), del D.Lgs. 152/2006
costituiscono rifiuti speciali quelli "derivanti dalle
attività di demolizione, costruzione, etc..." soggetti
ad una (limitata) riutilizzazione solo a seguito di attività
di recupero (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.09.2012 n. 37083 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Termine di prescrizione delle contravvenzioni
di omessa denuncia di inizio lavori in zona sismica.
Il termine di
prescrizione delle contravvenzioni di omessa denuncia di
inizio lavori in zona sismica e di esecuzione dei medesimi
in assenza di autorizzazione decorre dalla data di inizio
dei lavori, attesa la natura istantanea di dette
contravvenzioni (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.09.2012 n. 37060 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Ambiente in genere. V.I.a. come strumento di tutela
dell'ambiente nella sua accezione più ampia.
La V.i.a. è stata individuata come uno strumento di tutela
dell'ambiente nella sua accezione più ampia, e cioè quale
sistema integrato che condiziona la qualità della vita
dell'uomo anche nella sua proiezione futura; appare, dunque
errato, limitare la disciplina in tema di V.i.a. alla sola
tutela delle specie animali e vegetali e omettere
l'importanza rivestita anche ai fini del paesaggio e del
contesto in cui le specie viventi e l'uomo si collocano.
Tale impostazione appare pienamente confermata d.lgs. 03.04.2006, n.152, come emerge dai contenuti del preambolo, dall'art. 1, comma 1, lett. b, ove le procedure di V.a.s. e di
V.i.a. sono poste in relazione anche alla tutela del suolo,
dall'art.2, concernente le specifiche finalità che la
disciplina si propone (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.09.2012 n.
37051 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Aria. Molestie olfattive e criteri di accertamento del reato.
In caso di
molestie olfattive l'evento del reato consiste nella
molestia, che prescinde dal superamento di eventuali limiti
previsti dalla legge, essendo sufficiente il superamento del
limite della normale tollerabilità ex art. 844 c.c.; se
manca la possibilità di accertare obiettivamente, con
adeguati strumenti, l'intensità delle emissioni, il giudizio
sull'esistenza e sulla non tollerabilità delle emissioni
stesse ben può basarsi sulle dichiarazioni di testi, specie
se a diretta conoscenza dei fatti, quando tali dichiarazioni
non si risolvano nell'espressione di valutazioni meramente
soggettive o in giudizi di natura tecnica ma consistano nei
riferimento a quanto oggettivamente percepito dagli stessi
dichiaranti (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.09.2012 n. 37037 - tratto da
www.lexambiente.it). |
URBANISTICA:
I vincoli ai quali si applica il principio della
decadenza quinquennale, con la conseguente applicazione
della normativa prevista dall’art. 9 del D.P.R. n. 380/2001
concernente l’edificazione in assenza di pianificazione
urbanistica, sono soltanto quelli che incidono su beni
determinati assoggettandoli a vincoli preordinati
all'espropriazione o a vincoli che ne comportano l'inedificabilità
e, dunque, quelli che svuotano il contenuto del diritto di
proprietà incidendo sul godimento del bene tanto da renderlo
inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale
ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di
scambio.
Sono, invece, conformativi e non preordinati
all’espropriazione i vincoli dettanti condizioni e limiti
d’edificazione (in essi compresi quelli di cubatura connessi
agli indici di fabbricabilità in relazione alle varie
categorie di zone) in conseguenza della specifica
destinazione di zona, e ciò anche nelle ipotesi in cui la
proprietà viene asservita al perseguimento di obiettivi
d’interesse generale della collettività mediante la
realizzazione di opere e di infrastrutture di uso generale
che siano attuabili anche ad iniziativa privata o mista
pubblico-privata, perché in tali ipotesi la disciplina
impressa ai suoli non comporta il totale svuotamento della
vocazione edificatoria degli stessi ed attiene alla potestà
di regolazione propria della strumentazione urbanistica la
cui validità è a tempo indeterminato come è previsto
dall’art. 11 della legge n. 1150/1942.
Al riguardo la giurisprudenza, condivisa da questo
Tribunale, ha avuto modo di affermare costantemente che i
vincoli ai quali si applica il principio della decadenza
quinquennale, con la conseguente applicazione della
normativa prevista dall’art. 9 del D.P.R. n. 380/2001
concernente l’edificazione in assenza di pianificazione
urbanistica, sono soltanto quelli che incidono su beni
determinati assoggettandoli a vincoli preordinati
all'espropriazione o a vincoli che ne comportano l'inedificabilità
e, dunque, quelli che svuotano il contenuto del diritto di
proprietà incidendo sul godimento del bene tanto da renderlo
inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale
ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di
scambio; e che sono, invece, conformativi e non preordinati
all’espropriazione i vincoli dettanti condizioni e limiti
d’edificazione (in essi compresi quelli di cubatura connessi
agli indici di fabbricabilità in relazione alle varie
categorie di zone) in conseguenza della specifica
destinazione di zona, e ciò anche nelle ipotesi in cui la
proprietà viene asservita al perseguimento di obiettivi
d’interesse generale della collettività mediante la
realizzazione di opere e di infrastrutture di uso generale
che siano attuabili anche ad iniziativa privata o mista
pubblico-privata, perché in tali ipotesi la disciplina
impressa ai suoli non comporta il totale svuotamento della
vocazione edificatoria degli stessi ed attiene alla potestà
di regolazione propria della strumentazione urbanistica la
cui validità è a tempo indeterminato come è previsto
dall’art. 11 della legge n. 1150/1942 (Cfr. Cons. di Stato –
Sez. IV – 22/06/2011 n. 3797; id. 13/07/2010 n. 4542,
10/06/2010 n. 3700, 07/04/2010 n. 1982; TAR Campania–SA -
Sez. II – 27/04/2011 n. 764 e 28/272011 n. 363) (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 26.09.2012 n. 1691 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Nelle controversie aventi a oggetto gli obblighi
di pagamento dei contributi afferenti alle concessioni ed ai
permessi edilizi, il giudizio non ha carattere impugnatorio,
ancorché esso sia proposto, formalmente, come contestazione
di una determinazione amministrativa, in quanto mira ad
accertare la sussistenza o la misura del credito vantato dal
Comune.
Ne deriva che il ricorso può essere correttamente proposto
nel termine di prescrizione del diritto e, dunque, anche
dopo che siano trascorsi più di sessanta giorni dalla
conoscenza, da parte dell’interessato, dell’atto con cui
l’amministrazione ha quantificato i contestati contributi,
richiedendone il pagamento.
Costituisce indirizzo consolidato, dal quale la Sezione non
ravvisa ragione per discostarsi, che, nelle controversie
aventi a oggetto gli obblighi di pagamento dei contributi
afferenti alle concessioni ed ai permessi edilizi, il
giudizio non ha carattere impugnatorio, ancorché esso sia
proposto, formalmente, come contestazione di una
determinazione amministrativa, in quanto mira ad accertare
la sussistenza o la misura del credito vantato dal Comune.
Ne deriva che il ricorso può essere correttamente proposto
nel termine di prescrizione del diritto e, dunque, anche
dopo che siano trascorsi più di sessanta giorni dalla
conoscenza, da parte dell’interessato, dell’atto con cui
l’amministrazione ha quantificato i contestati contributi,
richiedendone il pagamento (cfr. C.d.S., sez. IV,
04.11.2011, n. 585, e 02.03.2011, n. 1365; C.d.S., sez. V,
06.11.2007, n. 623; 21.04.2006, n. 2258; 10.07.2003, n.
4102)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 24.09.2012 n. 5080 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Costituisce variante
essenziale, rispetto al progetto approvato, la modifica
della localizzazione dell'edificio tale da comportare lo
spostamento del fabbricato su un'area totalmente o pressoché
totalmente diversa da quella originariamente prevista,
trattandosi di modifica che comporta una nuova valutazione
del progetto da parte dell'amministrazione concedente, sotto
il profilo della sua compatibilità con i parametri
urbanistici e con le connotazioni dell'area.
E’, invece, ininfluente, rispetto all'obbligo di
acquisizione da parte dell'interessato di un nuovo permesso
di costruire, la circostanza che le altre caratteristiche
dell'intervento (sagoma, volumi, altezze etc.) siano rimaste
invariate rispetto all'originario permesso di costruire, e
l'assenza di ogni incidenza della variante sul regime dei
distacchi e delle distanze.
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La localizzazione dell’edificio può assurgere a livello di
variazione essenziale soltanto quando si sia in presenza di
una traslazione non parziale, ma tale da comportare lo
spostamento del fabbricato su di un’area totalmente diversa
da quella originariamente prevista.
Ai sensi dell'art. 32, lett.
c), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, costituisce variante
essenziale, rispetto al progetto approvato, la modifica
della localizzazione dell'edificio tale da comportare lo
spostamento del fabbricato su un'area totalmente o pressoché
totalmente diversa da quella originariamente prevista,
trattandosi di modifica che comporta una nuova valutazione
del progetto da parte dell'amministrazione concedente, sotto
il profilo della sua compatibilità con i parametri
urbanistici e con le connotazioni dell'area.
E’, invece, ininfluente, rispetto all'obbligo di
acquisizione da parte dell'interessato di un nuovo permesso
di costruire, la circostanza che le altre caratteristiche
dell'intervento (sagoma, volumi, altezze etc.) siano rimaste
invariate rispetto all'originario permesso di costruire, e
l'assenza di ogni incidenza della variante sul regime dei
distacchi e delle distanze (Cd.S., sez. IV, 15.04.2010, n.
6878).
Al riguardo, il Collegio ritiene di condividere
l’interpretazione della disposizione di cui all’art. 32,
lettera c), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, secondo cui
costituiscono “…variazioni essenziali...” rispetto al
progetto approvato le “…modifiche sostanziali di
parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato, ovvero
della localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza…”.
Tale disposizione é comunemente intesa nel senso che la
modifica della “…localizzazione…” dell’edificio
assurge al livello di “…variazione essenziale…”
allorché si sia in presenza di una traslazione non parziale,
ma tale da comportare lo spostamento del fabbricato su
un’area totalmente o pressoché totalmente diversa da quella
originariamente prevista. In particolare, ciò viene
giustificato con la considerazione che tale modifica
comporta una nuova valutazione del progetto da parte
dell’Amministrazione concedente, sotto il profilo della sua
compatibilità con i parametri urbanistici e con la
considerazione dell’area (C.d.S., sez. IV, 20.11.2008, n.
5743).
Nel caso in esame, tali orientamenti possono ritenersi ancor
più calzanti tenuto conto che, riguardando le opere per le
quali è stata richiesta la contestata integrazione di
contributo un fabbricato sperimentale bioclimatico ad
energia alternativa, già precedentemente autorizzato e
realizzato, esse maggiormente si evidenziano come opere di
completamento (che peraltro non sarebbero state realizzate
contemporaneamente all’edificazione dei manufatti principali
soltanto per la temporanea sottoposizione delle opere a
sequestro penale, poi revocato), tenuto conto che hanno
riguardato o opere qualificate di completamento dalle stesse
norme, come serramenti, vetri, pavimenti, rivestimenti ed
altre opere di finitura, ovvero i locali tecnologici, e
precisamente i volumi tecnici collocati tra i due corpi del
fabbricato (già autorizzato) e completamente interrati,
nonché le vasche di stoccaggio acque e di accumulo
energetico, anch’esse interrate, cioè tutte opere necessarie
per la corretta realizzazione di detto fabbricato
sperimentale.
Dunque, a ben vedere, tutti interventi non riconducibili
alla nozione di “…ristrutturazione edilizia…”,
difettando quel quid novi rispetto all’opera precedentemente
assentita, bensì qualificabili come “…opere di mero
completamento funzionale…” di un intervento realizzato
in virtù di legittimi titoli edilizi, quali la concessione
edilizia n. 1973 del 24.04.1991 e la successiva avariante n.
1973/791 del 07.10.1992, che non hanno comportato alcun
aggravio del carico urbanistico.
Conferma del convincimento espresso è rinvenibile, in
particolare:
- per un verso, dalle disposizioni di legge, sia nazionali,
quali l’art. 9, lettera e), della legge n. 10 del 1977 che
concerne proprio i volumi indispensabili per impianti
tecnologici necessari alle abitazioni, sia regionali, quali
le norme della legge regionale Lombardia n. 19 del
09.05.1992 che disciplinano le c.d. varianti minime e gli
oneri di urbanizzazione;
- per altro verso, dagli atti anche cartografici esibiti in
giudizio che mostrano come le opere in questione non sono
state di valenza e consistenza tale da provocare una
concreta modifica del’edificio originariamente autorizzato
per cui opinare, come ha fatto il primo Giudice, che si sia
trattato di una vera e propria ristrutturazione edilizia non
può non ritenersi contrastante con tali atti.
Né, infine, può avere alcuna incidenza nell’economia del
presente giudizio la lieve traslazione di volumi
verificatasi nella realizzazione delle (interrate) vasche di
stoccaggio delle acque e di accumulo energetico, essendo
giurisprudenza di questa Sezione, che il Collegio condivide,
che la localizzazione dell’edificio può assurgere a livello
di variazione essenziale soltanto quando si sia in presenza
di una traslazione non parziale, ma tale da comportare lo
spostamento del fabbricato su di un’area totalmente diversa
da quella originariamente prevista (cfr. C.d.S., sez. IV, n.
6878 del 15.09.2010 e n. 5743 del 20.11.2008)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 24.09.2012 n. 5080 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Legittimità diniego comunale per approvazione
piano di lottizzazione.
L'approvazione del Piano di
lottizzazione non è atto dovuto, ancorché il Piano medesimo
risulti conforme al Piano regolatore generale, essendo
l’approvazione medesima sempre espressione di potere
discrezionale dell’organo deputato a valutare l’opportunità
di dare attuazione alle previsioni dello strumento
urbanistico generale: e ciò in quanto tra quest’ultimo e i
suoi strumenti attuativi sussiste un rapporto di necessaria
compatibilità ma non di formale coincidenza.
Va rimarcata la funzione di strumento particolareggiato ed
attuativo delle prescrizioni del P.R.G. assolta dal Piano di
lottizzazione, con la conseguente necessità che il
provvedimento negativo sia congruamente istruito e motivato
mediante una valutazione comparata degli interessi pubblici
coinvolti, e ciò in modo da consentire al richiedente di
essere puntualmente edotto degli ostacoli che si frappongono
all’estrinsecazione del suo ius aedificandi.
La conformità urbanistica del Piano di lottizzazione non
esclude la possibilità di una valutazione “piena” dei
contenuti di quest’ultimo da parte dell’organo deputato alla
sua approvazione e senza che ciò implichi un’incisione delle
previsioni contenute nella strumentazione urbanistica di
rango superiore qualora non sia ravvisabile un rapporto di
necessaria consequenzialità tra i contenuti dell’uno e
quelli dell’altro.
La mancata approvazione del Piano di lottizzazione non pone
in discussione l’attualità delle previsioni del Piano
regolatore generale né, tanto meno, la sua conformità di
esso alle linee guida regionali; né, di per sé, incide
sull’attualità del Piano di attuazione di iniziativa
pubblica, fino a quando il Consiglio Comunale non reputerà,
in concreto e nell’autonomo apprezzamento delle necessità
della sua “rivisitazione”, di sostituirlo con un testo
“revisionato”: e ciò, come detto innanzi, in quanto la
conformità allo strumento di piano di livello superiore non
comporta necessariamente la condivisione delle scelte
operate dallo strumento attuativo.
Posto ciò, va evidenziato che
l’approvazione del Piano di lottizzazione non è atto dovuto,
ancorché il Piano medesimo risulti conforme al Piano
regolatore generale, essendo l’approvazione medesima sempre
espressione di potere discrezionale dell’organo deputato a
valutare l’opportunità di dare attuazione alle previsioni
dello strumento urbanistico generale: e ciò in quanto tra
quest’ultimo e i suoi strumenti attuativi sussiste un
rapporto di necessaria compatibilità ma non di formale
coincidenza (Cons. Stato, Sez. IV, 29.01.2008 n. 248;
02.03.2004 n. 957 e 02.03.2001 n. 1181).
La medesima giurisprudenza rimarca –altresì– la funzione di
strumento particolareggiato ed attuativo delle prescrizioni
del P.R.G. assolta dal Piano di lottizzazione, con la
conseguente necessità che il provvedimento negativo sia
congruamente istruito e motivato mediante una valutazione
comparata degli interessi pubblici coinvolti, e ciò in modo
da consentire al richiedente di essere puntualmente edotto
degli ostacoli che si frappongono all’estrinsecazione del
suo ius aedificandi.
Questo assunto della giurisprudenza va coordinato con il
precedente rilievo circa il fatto che la conformità
urbanistica del Piano di lottizzazione non esclude la
possibilità di una valutazione “piena” dei contenuti
di quest’ultimo da parte dell’organo deputato alla sua
approvazione e senza che ciò implichi un’incisione delle
previsioni contenute nella strumentazione urbanistica di
rango superiore qualora non sia ravvisabile –come, per
l’appunto, nel caso di specie- un rapporto di necessaria
consequenzialità tra i contenuti dell’uno e quelli
dell’altro.
Va pertanto anche qui ribadito che la mancata approvazione
del Piano di lottizzazione non pone in discussione
l’attualità delle previsioni del Piano regolatore generale
né, tanto meno, la sua conformità di esso alle linee guida
regionali; né, di per sé, incide sull’attualità del Piano di
attuazione di iniziativa pubblica, fino a quando il
Consiglio Comunale non reputerà, in concreto e nell’autonomo
apprezzamento delle necessità della sua “rivisitazione”,
di sostituirlo con un testo “revisionato”: e ciò,
come detto innanzi, in quanto la conformità allo strumento
di piano di livello superiore non comporta necessariamente
la condivisione delle scelte operate dallo strumento
attuativo
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.09.2012 n. 4977 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Legittimità ordinanza demolizione per opere
precarie temporanee non autorizzate.
Al fine di verificare se una determinata
opera abbia carattere precario (condizione per
l'accertamento della non necessarietà del rilascio della
relativa concessione edilizia), occorre verificare la
destinazione funzionale e l'interesse finale al cui
soddisfacimento l'opera stessa è destinata; pertanto, solo
le opere agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare
una esigenza oggettivamente temporanea -destinata a cessare
dopo il tempo, normalmente non lungo, entro cui si realizza
l'interesse finale- possono ritenersi prive di minima entità
ovvero di carattere precario e, in quanto tali, non
richiedenti la concessione edilizia. Infatti la precarietà o
meno di un'opera edilizia va valutata con riferimento non
già alle modalità costruttive, bensì alla funzione cui essa
è destinata; in altri termini non sono manufatti destinati a
soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati ad
una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché
l'alterazione del territorio non può essere considerata
temporanea, precaria o irrilevante.
È dunque da considerare legittima l'ordinanza di demolizione
di opere che, pur difettando del requisito
dell'immobilizzazione rispetto al suolo (cd. case mobili),
consistano in una struttura destinata a dare un'utilità
prolungata nel tempo, dovendo in tal caso escludersi la
precarietà del manufatto, che ne giustificherebbe il non
assoggettamento a concessione edilizia, posto che la stessa
non dipende dai materiali utilizzati o dal suo sistema di
ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è
destinato, e va quindi valutata alla luce della obiettiva ed
intrinseca destinazione naturale dell'opera, a nulla
rilevando la temporanea destinazione data alla stessa dai
proprietari.
Come è noto al fine di verificare se una determinata opera
abbia carattere precario (condizione per l'accertamento
della non necessarietà del rilascio della relativa
concessione edilizia), occorre verificare la destinazione
funzionale e l'interesse finale al cui soddisfacimento
l'opera stessa è destinata; pertanto, solo le opere
agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare una
esigenza oggettivamente temporanea -destinata a cessare dopo
il tempo, normalmente non lungo, entro cui si realizza
l'interesse finale- possono ritenersi prive di minima entità
ovvero di carattere precario e, in quanto tali, non
richiedenti la concessione edilizia. Infatti la precarietà o
meno di un'opera edilizia va valutata con riferimento non
già alle modalità costruttive, bensì alla funzione cui essa
è destinata (Cons. St., V, 04.02.1998 n. 131); in altri
termini non sono manufatti destinati a soddisfare esigenze
meramente temporanee quelli destinati ad una utilizzazione
perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio
non può essere considerata temporanea, precaria o
irrilevante (Cons. St., VI, 16.02.2011 n. 986).
È dunque da considerare legittima l'ordinanza di demolizione
di opere che, pur difettando del requisito
dell'immobilizzazione rispetto al suolo (cd. case mobili),
consistano in una struttura destinata a dare un'utilità
prolungata nel tempo, dovendo in tal caso escludersi la
precarietà del manufatto, che ne giustificherebbe il non
assoggettamento a concessione edilizia, posto che la stessa
non dipende dai materiali utilizzati o dal suo sistema di
ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è
destinato, e va quindi valutata alla luce della obiettiva ed
intrinseca destinazione naturale dell'opera, a nulla
rilevando la temporanea destinazione data alla stessa dai
proprietari (Cons. St., IV, 15.05.2009 n. 3029)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 12.09.2012 n. 4850 -
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EDILIZIA
PRIVATA:
In materia urbanistica, a differenza che nella
materia civilistica, possono costituire pertinenze solo i
manufatti di dimensioni estremamente modeste e ridotte,
inidonei, quindi, ad alterare in modo significativo
l'assetto del territorio.
In terzo luogo, come
correttamente rilevato dall’amministrazione appellata, le
opere in questione non possono neppure essere, sotto un
profilo urbanistico, considerate pertinenze perché in
materia urbanistica, a differenza che nella materia
civilistica, possono costituire pertinenze solo i manufatti
di dimensioni estremamente modeste e ridotte, inidonei,
quindi, ad alterare in modo significativo l'assetto del
territorio (Cons. St., VI, 11.05.2011 n. 2781)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 12.09.2012 n. 4850 -
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EDILIZIA
PRIVATA:
L'esistenza del vincolo
cimiteriale, nell'area nella quale è stato realizzato un
manufatto abusivo, comportando l'inedificabilità assoluta,
preclude il rilascio della concessione in sanatoria ai sensi
dell'art. 33, l. 28.02.1985 n. 47, senza necessità di
compiere valutazioni in ordine alla concreta compatibilità
dell'opera con i valori tutelati dal vincolo.
La giurisprudenza di questo
Consiglio, infatti, ha stabilito che l'esistenza del vincolo
cimiteriale, nell'area nella quale è stato realizzato un
manufatto abusivo, comportando l'inedificabilità assoluta,
preclude il rilascio della concessione in sanatoria ai sensi
dell'art. 33, l. 28.02.1985 n. 47, senza necessità di
compiere valutazioni in ordine alla concreta compatibilità
dell'opera con i valori tutelati dal vincolo (Cons. St., IV,
12.03.2007 n. 1185)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 12.09.2012 n. 4850 -
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ESPROPRIAZIONE:
Occupazione usurpativa e azione
restitutoria.
In tema di occupazione usurpativa, qualora il proprietario
del bene illecitamente occupato domandi la restituzione,
ancorché accompagnata dalla richiesta di riduzione
in pristino, non sono predicabili i limiti intrinseci alla
disciplina risarcitoria, come l’eccessiva onerosità
prevista
dall’art. 2058, comma 2, c.c.; né può farsi ricorso alla
previsione del comma 2 dell’art. 2933 c.c., ove non risulti
che la distruzione della res indebitamente edificata sia
di pregiudizio all’intera economia del Paese, ma abbia,
al contrario, riflessi di natura individuale o locale.
La proprietaria di un immobile aveva convenuto in giudizio
dinanzi al tribunale l’Amministrazione comunale e, premesso:
- che era stata disposta e realizzata l’occupazione di un bene
di sua proprietà, costituito da un terreno con sovrastante
fabbricato, successivamente sottoposto ad irreversibile
trasformazione,
mediante demolizione della costruzione per la
realizzazione di una strada di accesso alla piazza destinata
allo
svolgimento del mercato settimanale;
- che il procedimento
era illegittimo per assenza, nella relativa delibera, dei
termini
iniziali e finali dell’espropriazione e di inizio e fine dei
lavori,
chiedeva, in via principale, la rimessione in pristino dei
luoghi
di sua proprietà e, in via subordinata, il risarcimento dei
danni.
Il tribunale adito, dato atto dell’illegittimità
dell’occupazione,
posta in essere in carenza di una valida dichiarazione di
pubblica utilità, nonché dell’intervenuta manipolazione
irreversibile
del fondo dell’attrice, aveva ritenuto che all’accoglimento
della domanda di riduzione in pristino era ostativo il
pregiudizio
che dal suo accoglimento sarebbe derivato all’economia
nazionale, con conseguente applicabilità della disposizione
contenuta nell’art. 2933, comma, 2, c.c. Esso aveva
accolto la domanda di risarcimento per equivalente,
determinandosi
in euro 20.508,50 l’importo a tale titolo dovuto all’attrice
al cui pagamento, oltre alle spese di lite nella misura di
due terzi veniva condannato, in favore della stessa, il
Comune
convenuto.
La Corte di appello, pronunciando sugli appelli proposti in
via
principale dall’attrice, la quale si doleva principalmente
del
mancato accoglimento della domanda di riduzione in pristino
dei luoghi, nonché dal Comune, che contestava l’entità
della
somma attribuita a titolo di risarcimento del danno,
ritenuta
incongrua per eccesso, aveva dichiarati non dovuti gli
interessi
anatocistici attribuiti con la sentenza di primo grado,
rilevando
la riferibilità dell’art. 1283 c.c. alle sole obbligazioni
pecuniarie.
La S.C. ha accolto il ricorso proposto dalla proprietaria,
iniziando
col ricordare che, con la prima decisione che ha definito
in maniera chiara i contorni della figura dell’occupazione
usurpativa (Cass. 18.02.2000, n. 1814), la stessa
Corte,
ripercorrendo le tappe del percorso giurisprudenziale
inerente
alla cd. occupazione espropriativa, ha posto in evidenza
l’esigenza di approfondire i meccanismi di tutela del
proprietario
nell’ipotesi in cui non sussista, come avviene nella
fattispecie testé richiamata, una valida dichiarazione di
pubblica
utilità.
Movendo da precedenti arresti (fra i quali Cass.,
Sez. Un., 04.03.1997, n. 1907), nei quali si era affermata
la possibilità per il proprietario di optare, anziché per
la tutela
restitutoria, per quella risarcitoria, si è pervenuti alla
conclusione,
che «nell’occupazione che, per convenzione, potremmo
definire usurpativa, il giudice si occupa della domanda
risarcitoria
del proprietario sotto l’aspetto delle non consentite
trasformazioni che l’occupante abusivo abbia apportato al
fondo. Ma l’acquisizione del bene alla mano pubblica resta
estranea alla fattispecie, e dipendendo da una scelta del
proprietario
usurpato, è inquadrabile in una vicenda logicamente
e temporalmente successiva alla definitiva trasformazione
del fondo, e se può ipotizzarsi un modo di acquisto della
proprietà
a titolo originario, esso non ha carattere accessivo
(artt. 934 c.c.), ma semmai occupatorio in relazione ad un
bene che è un novum nella realtà giuridica (in analogia
all’art.
942 c.c.), ove non rileva la destinazione a soddisfare una
pubblica utilità giacché qui neppure può porsi questione
di
bilanciamento di interessi».
L’occupazione sine titulo del fondo, in altri termini, non
può
comportare, soprattutto in assenza di una scelta abdicativa
del proprietario (sulla cui conformità ai principi della
CEDU
cfr. la recente Cass. 19.10.2011, n. 21639), la perdita
della proprietà del fondo da parte del soggetto che subisce
l’occupazione, con la conseguenza che «l’assenza
dell’indefettibile
presupposto del riconoscimento, da parte degli organi
competenti, della pubblica utilità dell’opera comporta
che il privato, durante l’illegittima occupazione, possa
fruire
dei rimedi reipersecutori a tutela della non perduta
proprietà» (Cass. n. 1814/2000 cit.).
La Corte ha, pertanto, sottolineato, anche sulla base dei
criteri
testé richiamati (per altro costantemente ribaditi ed
applicati
con sempre maggiore rigore, anche nell’occupazione
cd. espropriativa: cfr. Cass., Sez. Un., 31.05.2011, n.
11963, in merito alla possibilità di chiedere la
restituzione
della porzione del bene originariamente occupata e non
oggetto
di irreversibile trasformazione), che il principio di
effettività
della tutela del diritto del proprietario, essendo
insussistente
la dichiarazione di pubblica utilità, non possa soffrire
di alcuna limitazione. In particolare, non può escludersi
la tutela
reale, soprattutto quando manchi, da parte del titolare
del diritto, qualsiasi atto abdicativo, ancorché implicito,
mentre
al contrario, come nella fattispecie in esame, venga
espressamente esercitata l’azione restitutoria.
Tale
conclusione,
del resto, è conforme ai principi affermati, in più
occasioni,
dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale (a
partire dalla nota decisione Belvedere Alberghiera c/Stato
It. del 30.05.2000, proprio in tema di occupazione
usurpativa)
ha escluso che l’autorità pubblica possa acquisire la
proprietà di beni privati nel disprezzo delle regole
formali previste
per l’espropriazione, e senza che assuma immediata rilevanza
il fine di pubblica utilità (cfr. anche Cass. 11.06.2006, n. 11096, nella cui motivazione si esamina la
compatibilità
dell’occupazione espropriativa e, per quanto qui interessa,
di quella usurpativa, con i principi affermati dalla Cedu
con le note decisioni Belvedere Alberghiera e Carbonara e
Ventura).
Nell’ambito dell’invocata tutela di natura reale non possono
trovare applicazione le disposizioni contenute negli artt.
2933, comma 2, e 2058, comma 2, c.c.
Quanto al primo articolo, la sentenza impugnata aveva
affermato
l’applicabilità della disposizione contenuta nell’art.
2933, comma 2, c.c., già ritenuta operante in primo grado
ai
fini della verifica della fondatezza della domanda di
riduzione
in pristino, ritenendo, senza altro aggiungere, che il suo
accoglimento
«risulterebbe di pregiudizio all’economia nazionale»; a prescindere dalla riferibilità della norma in
questione
agli obblighi di non fare (e quindi, ai soli aspetti che
riguardano
la manipolazione del bene e non l’azione restitutoria), la
S.C. ha rilevato che non era dato di comprendere quale
legame
possa sussistere fra la celebrazione del mercatino
settimanale
del Comune e le sorti dell’economia di un intero
Paese: la giurisprudenza formatasi in relazione alla norma
teste richiamata è costantemente orientata nel ritenere che la
stessa debba essere interpretata in senso restrittivo,
riferendosi
alle cose insostituibili ovvero di eccezionale importanza
per l’economia nazionale, con conseguente inapplicablità
qualora il pregiudizio riguardi interessi individuali e
locali
(Cass. 17.02.2004, n. 3004; Cass. 25.05.2012, n.
8358).
Quanto al secondo riferimento normativo, la giurisprudenza
di legittimità ha avuto modo di affermare che la tutela
riservata
ai diritti reali non consente l’applicabilità dell’art.
2058
c.c. nel caso di azioni volte, appunto, a far valere uno di
tali
diritti, atteso il carattere assoluto degli stessi (Cass.,
Sez.
Un., 10.05.1995, n. 5113; Cass. 29.10.1997, n.
10694; Cass. 18.08.2003, n. 11744; Cass. 16.01.2007, n. 866), salvo che sia la stessa parte danneggiata a
chiedere la condanna per equivalente. Non potendosi omettere
di rilevare che non possono ritenersi applicabili i limiti
inerenti alla regolamentazione del risarcimento del danno
alla
tutela reale, che, oltre a trovare la propria disciplina
specifica
negli artt. 948 e 949 c.c., «esige la rimozione del fatto
lesivo» (Cass. 04.11.1993, n. 10932), la Corte di
Cassazione
ha richiamato il dibattito culturale che la dottrina negli
ultimi tempi ha dedicato al tema della collocazione o meno
della reintegrazione in forma specifica nell’area come
modalità
del risarcimento del danno, ovvero come tutela del tutto
autonoma e da esso distinta.
La prima soluzione,
maggiormente
condivisa, appare preferibile, anche sulla scorta
degli argomenti fondati sulla collocazione della norma,
sulla
sua portata letterale e su una nozione di danno ampia, ossia
non riferibile al solo nocumento di natura patrimoniale, ma
anche all’alterazione, sul piano fenomenico, come
conseguenza
dell’atto illecito, dell’integrità e della consistenza del
bene.
Se dunque, la disciplina complessivamente dettata
dall’art. 2058 c.c. appartiene alla materia del risarcimento
del
danno, erroneamente essa è applicata quando venga
esercitata,
come nel caso, la tutela restitutoria (cfr., in tal senso,
anche, in motivazione, Cons. Stato, Ad. Plen., 29.04.2005, n. 2)
(Corte di
Cassazione, Sez. I civile, sentenza 23.08.2012 n. 14609
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 10/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
ORDINE DI DEMOLIZIONE E LEGITTIMAZIONE AD OPPORVISI
DEGLI ALIENANTI A TERZI DELL’IMMOBILE OGGETTO
DEL PROVVEDIMENTO.
Il concetto di ‘‘interessato’’ in sede di incidente di
esecuzione
(art. 666 c.p.p.) dev’essere inteso in termini ampi e
riferito a soggetto titolare di una posizione giuridicamente
tutelata sulla quale incide l’esecuzione della sentenza;
ne consegue che deve trattarsi di soggetto titolare
di situazioni giuridiche soggettive per le quali potrebbe
verificarsi un pregiudizio (o un vantaggio anche in
senso non patrimoniale) in seguito al consolidamento o
alla rimozione di una determinata decisione, non assumendo
alcun rilievo, ai fini della esclusione della detta
qualità, la maggiore o minore pregnanza che la parte abbia
concretamente alla decisione collegata alla propria
posizione processuale.
Particolarmente interessante la questione giuridica
affrontata
dalla Suprema Corte di Cassazione nella vicenda in esame,
in cui i giudici di legittimità si soffermano a valutare in
presenza
di quali condizioni possa essere attribuita la qualifica
di ‘‘interessato’’ al soggetto che intenda proporre
incidente
di esecuzione contro l’ordine di demolizione del manufatto
abusivo.
La vicenda processuale segue ad un’ordinanza del
giudice dell’esecuzione che aveva dichiarato inammissibile,
per difetto di interesse, l’istanza volta ad ottenere la
sospensione
dell’ordine di demolizione di un manufatto abusivo, disposto
con sentenza di condanna irrevocabile per il reato
urbanistico.
Osservava il Giudice che gli istanti -soggetti estranei
al processo penale definito a carico di altra persona,
originario
proprietario dell’immobile e materiale autore dell’abuso
edilizio che ne aveva comportato la condanna per i reati
edilizi- non avevano interesse ad opporsi all’esecuzione,
avendo a loro volta ceduto il detto immobile a terzi e
quindi
non essendo titolari di alcun diritto tutelabile in sede
esecutiva.
Contro tale ordinanza proponevano ricorso per cassazione
i due soggetti ex proprietari dell’immobile, lamentando
carenza di motivazione ed erronea applicazione della legge
penale per avere il G.E. solo genericamente ritenuto il
difetto
di interesse -quali alienanti a terzi dell’immobile oggetto
del
provvedimento- ad opporsi all’esecuzione dell’ordine di
demolizione,
omettendo di valutare i contenuti dell’atto di compravendita
dai quali risultava una diretta assunzione di
responsabilità
civile e penale dei ricorrenti verso i terzi acquirenti,
derivante dall’obbligo di adempimento delle formalità
necessarie per l’ottenimento della concessione in sanatoria,
responsabilità dalla quale i terzi acquirenti erano stati
sollevati
con l’atto di compravendita.
La Cassazione ha accolto il ricorso. In particolare ha
precisato
che il concetto di ‘‘interessato’’ esplicitato nell’art. 666
c.p.p., va inteso in termini ampi e riferito a soggetto
titolare
di una posizione giuridicamente tutelata sulla quale incide
l’esecuzione della sentenza. Deve quindi trattarsi, per la
Corte,
di soggetto titolare di situazioni giuridiche soggettive per
le quali potrebbe verificarsi un pregiudizio (o un vantaggio
anche in senso non patrimoniale) in seguito al
consolidamento
o alla rimozione di una determinata decisione, non assumendo
alcun rilievo, ai fini della esclusione della detta
qualità, la maggiore o minore pregnanza che la parte abbia
concretamente alla decisione collegata alla propria
posizione
processuale (v., da ultimo: Cass. pen., sez. III, 21.06.2010, n. 23761, in Ced Cass., n. 247281).
Nel caso in esame,
ha aggiunto la Cassazione, il G.E. non ha tenuto in
considerazione
gli obblighi gravanti sui ricorrenti implicanti una
diretta assunzione di responsabilità (costituente
oltretutto
elemento essenziale dell’atto di compravendita) in merito
alle
procedure da coltivare per la definizione amministrativa
finalizzata
all’ottenimento della concessione in sanatoria: e tali
obblighi costituiscono proprio quella titolarità di
situazioni
soggettive giuridicamente tutelabili che -secondo
l’orientamento
sopra enunciato- giustificano l’interesse a partecipare
al giudizio di esecuzione (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.07.2012 n. 25676
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 10/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
VIOLAZIONE DI SIGILLI E CONFIGURABILITA'
DEGLI OBBLIGHI DEL CUSTODE.
Ai fini della configurabilità del reato di violazione di
sigilli
(art. 349 c.p.) è del tutto irrilevante stabilire quale sia
il
‘‘rapporto’’ del custode nominato con gli immobili oggetto
dell’intervento edilizio, in quanto elemento costitutivo
del reato è che il reo sia nominato custode dei beni
sottoposti a sequestro.
La Corte Suprema si occupa con la sentenza in esame della
configurabilità del reato di violazione di sigilli e
dell’individuazione
degli elementi oggettivi normativamente richiesti ai fini
della sussistenza della responsabilità penale del custode.
La
vicenda processuale vedeva imputato un individuo del reato
di cui all’art. 349, comma 2, c.p. perché in qualità di
custode
giudiziario del manufatto nonché committente dei lavori
abusivi
(completamento del solaio del piano rialzato mediante in
C.L. e smontaggio dei puntelli a sostegno dello stesso)
violava
i sigilli apposti al fabbricato. Ritenevano i giudici di
merito
che l’imputato, in qualità di custode, dovesse rispondere
della
violazione di sigilli non avendo esercitato alcuna vigilanza
sul bene sottoposto a vincolo reale.
Contro la sentenza di
condanna proponeva ricorso per Cassazione la difesa
dell’imputato,
censurando l’affermazione della responsabilità
personale, essendo la stessa stata affermata senza alcun
accertamento
in ordine alla titolarità del bene ed al committente
dei lavori; aggiungeva, sul punto, che la responsabilità
per
violazione di sigilli si estende al concorrente a condizione
che costui sia a conoscenza della qualità di custode
dell’autore
del reato o la ignori colpevolmente: il reo avrebbe avuto
solo il torto di essere il proprietario del suolo, su cui i
figli
avevano prima consumato il reato edilizio e, poi, violato i
sigilli
e che non sono stati perseguiti per mero errore.
La Cassazione non ha accolto le tesi difensiva, dichiarando
inammissibile il ricorso.
In particolare, hanno precisato gli Ermellini come sia del
tutto
irrilevante stabilire quale fosse il ‘‘rapporto’’ del
predetto
con gli immobili oggetto dell’intervento edilizio: quel che
rilevava,
infatti, è che il ricorrente venne nominato custode dei
beni sottoposti a sequestro. Trattandosi di un munus
publicum
obbligatorio, che non può essere rifiutato (art. 366,
comma 2, c.p.) non è necessario neppure che il
provvedimento
di nomina sia accettato. L’art. 81 disp. att. c.p.p.,
prevede,
invero, che l’inosservanza delle formalità prescritte
(dichiarazione
di assumere gli obblighi di legge e sottoscrizione
del verbale) non esonera il custode dall’adempimento dei
suoi doveri e della relativa responsabilità penale e
disciplinare.
Il soggetto nominato custode rimane pertanto investito
della relativa funzione per il solo fatto della nomina,
purché
portata debitamente a sua conoscenza. Nel caso di specie,
osservano i giudici di legittimità come il ricorrente
sottoscrisse
il verbale, accettando quindi la nomina, e venne reso
edotto degli ‘‘obblighi’’ e delle conseguenze derivanti
dalla
violazione dei sigilli: egli era perciò perfettamente a
conoscenza
degli obblighi di custodia dell’immobile sequestrato
e della immutabilità dello stato dei luoghi, pena
conseguenze
di carattere penale.
Come costantemente affermato dalla
Corte, in tema di violazioni di sigilli, il custode è
obbligato ad
esercitare sulla cosa sottoposta a sequestro e sulla integrità
dei relativi sigilli una custodia continua ed attenta. Egli
non
può sottrarsi a tale obbligo se non adducendo oggettive
ragioni
di impedimento e, quindi, chiedendo ed ottenendo di
essere sostituito, ovvero, qualora non abbia avuto il tempo
e
la possibilità di farlo, fornendo la prova del caso
fortuito o
della forza maggiore che gli abbiano impedito di esercitare
la
dovuta vigilanza.
Ne consegue che, qualora venga accertata
la violazione dei sigilli, senza che il custode abbia
provveduto
ad avvertire dell’accaduto l’autorità, è lecito ritenere
che detta
violazione sia opera dello stesso custode, da solo o in
concorso con altri, tranne che lo stesso non dimostri di non
essere stato in grado di avere conoscenza del fatto per caso
fortuito o forza maggiore: ciò non configura alcuna ipotesi
di
responsabilità oggettiva, estranea alla fattispecie, ma un
onere della prova che incombe sul custode (cfr. ex multis:
Cass. pen., sez. III, 06.06.2006, n. 19424, in Ced Cass., n.
233830) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.07.2012 n. 25674
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 10/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
INDIVIDUAZIONE DEGLI INDICI DELLA PERTINENZA URBANISTICA.
La natura pertinenziale di un manufatto non può essere
astrattamente desunta, esclusivamente dalla destinazione
o dalle caratteristiche costruttive, ma deve risultare
dall’oggettiva compresenza di una serie di requisiti, la
cui sussistenza rende qualificabile come ‘‘pertinenziale’’
l’opera eseguita, in quanto tale non necessitante di
permesso
di costruire.
Di estremo interesse sicuramente la sentenza in commento,
con cui la Corte Suprema di sofferma con minuziosa
precisione
ad individuare le condizioni ed i requisiti oggettivamente
richiesti ai fini della qualificazione di un manufatto quale
‘‘pertinenza’’.
La vicenda processuale vedeva imputati due
soggetti, riconosciuti responsabili dei reati di cui agli
artt.
110 c.p., 44, lett. c), 64, 65, 71 e 72 del D.P.R. n. 380
del
2001 nonché dell’art. 181 del D.Lgs. n. 42 del 2004, per
aver
realizzato, in zona sismica e sottoposta a vincolo
paesaggistico,
in aderenza a preesistente fabbricato, un manufatto,
costituito dal solo piano terra, di m. 6,00 X 8,00 X 4,50 h.
con struttura in ferro e copertura in lamiere coibentate,
tompagnato
con blocchi di lapil-cemento su due lati, poggiante
su pilastrini in ferro cementati su cordolo in cls lungo il
perimetro
della tompagnatura.
Contro la sentenza di condanna
proponevano ricorso per cassazione i condannati, censurando,
per quanto qui di interesse, la sentenza di merito in
particolare
perché le opere realizzate avrebbero avuto natura
pertinenziale
in quanto destinate a lavanderia o legnaia e che tale
natura sarebbe stata desumibile dalla loro conformazione,
cosicché non sarebbe stato necessario, per la loro
esecuzione,
il permesso di costruire.
La Cassazione ha, tuttavia, dichiarato inammissibile il
ricorso,
precisando, in merito alla natura pertinenziale
dell’intervento,
che le caratteristiche peculiari della pertinenza
urbanistica
sono state più volte indicate, in vario modo, dalla
giurisprudenza
della Cassazione e possono essere così sintetizzate:
a) deve trattarsi di un’opera che abbia comunque una
propria individualità fisica ed una propria conformazione
strutturale e non sia parte integrante o costitutiva di
altro
fabbricato;
b) dev’essere preordinata ad un’oggettiva
esigenza
dell’edificio principale, funzionalmente ed oggettivamente
inserita al servizio dello stesso;
c) dev’essere sfornita di
un
autonomo valore di mercato e non dev’essere valutabile in
termini di cubatura o comunque dotata di un volume minimo
(non superiore, in ogni caso, al 20% di quello dell’edificio
principale) tale da non consentire, in relazione anche alle
caratteristiche
dell’edificio principale, una sua destinazione
autonoma e diversa da quella a servizio dell’immobile cui
accede
la relazione con la costruzione preesistente;
d) dev’essere,
in ogni caso, non di integrazione ma ‘‘di servizio’’, allo
scopo di renderne più agevole e funzionale l’uso (carattere
di strumentante funzionale);
e) il manufatto pertinenziale,
inoltre, deve accedere ad un edificio preesistente edificato
legittimamente;
f) deve necessariamente presentare la
caratteristica
della ridotta dimensione anche in assoluto, a prescindere
dal rapporto con l’edificio principale;
g) non dev’essere
in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti e con
quelli eventualmente soltanto adottati.
E`
dunque evidente
che la natura pertinenziale di un manufatto non può essere
astrattamente desunta, esclusivamente dalla o dalle
caratteristiche
costruttive, ma deve risultare dalla oggettiva compresenza
dei requisiti menzionati (in giurisprudenza, sui requisiti
richiesti per la qualifica ‘‘pertinenziale’’ del manufatto,
v. tra le tante: Cass. pen., sez. III, 18.10.2008, n.
37257,
in Ced Cass., n. 241278) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.07.2012 n. 25669
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 10/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
SOSPENSIONE CONDIZIONALE DELLA PENA
E DEMOLIZIONE DEL MANUFATTO ABUSIVO.
Il giudice, nel concedere la sospensione condizionale
della pena inflitta per il reato di esecuzione di lavori in
assenza di permesso di costruire o in difformità,
legittimamente
può subordinare detto beneficio all’eliminazione
delle conseguenze dannose del reato mediante
demolizione dell’opera eseguita, disposta in sede di
condanna
del responsabile.
La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi, con la sentenza
in esame, sulla questione della possibilità di subordinare
il
beneficio della sospensione condizionale della pena ad un
comportamento positivo dell’imputato, consistente nella
demolizione
del manufatto abusivamente realizzato.
La vicenda
processuale vedeva imputato un soggetto, riconosciuto
responsabile
dei reati di cui all’art. 44, lett. b), del D.P.R. n. 380
del 2001 nonché del reato di cui agli artt. 83, comma 3 e
95
per averli realizzati in zona sismica. Condannato in sede di
merito, questi proponeva ricorso per cassazione censurando,
per quanto qui di interesse, la sentenza di merito
lamentando
in particolare l’illegittimita` della sospensione
condizionale
della pena subordinata alla demolizione degli interventi
abusivi, rilevando come tale adempimento gli sarebbe stato
comunque impossibile non essendo egli proprietario delle
opere.
La tesi non ha convinto i giudici della Suprema Corte che
hanno dichiarato inammissibile il ricorso della difesa,
affermando
come sia ormai pacificamente riconosciuta la possibilità, per il giudice penale, di subordinare l’applicazione della
sospensione condizionale della pena alla demolizione delle
opere abusive. Tale possibilità, ricordano gli Ermellini,
secondo
un remoto orientamento confermato anche dalle Sezioni
Unite della Cassazione (Sez. Un., 04.01.1988, n. 1, in
Ced Cass., n. 177318), non era originariamente ammessa.
Tuttavia, una successiva pronuncia delle medesime Sezioni
Unite (Sez. Un., 03.02.1997, n. 714, in Ced Cass., n.
206659) ha fornito un condivisibile indirizzo
interpretativo,
ammettendo la legittimità della sospensione condizionale
subordinata alla demolizione che appare, peraltro,
giustificata
dalla circostanza che la presenza sul territorio di un
manufatto
abusivo rappresenta, indiscutibilmente, una conseguenza
dannosa o pericolosa del reato, da eliminare (v., da
ultimo, in senso conforme, nella giurisprudenza più
recente:
Cass. pen., sez. III, 16.10.2007, n. 38071, in Ced
Cass.,
n. 237825) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.07.2012 n. 25668
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 10/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
NATURA GIURIDICA DI REATI (QUASI TUTTI) COMUNI
DEGLI ILLECITI EDILIZI.
I reati previsti dall’art. 44 del D.P.R.
06.06.2001, n.
380 devono essere qualificati come reati comuni e non
come reati a soggettività ristretta, salvo che per i fatti
commessi dal direttore dei lavori e per la fattispecie di
inottemperanza all’ordine di sospensione dei lavori
impartito
dall’Autorità amministrativa.
La Cassazione torna a pronunciarsi con la sentenza in
commento
sul tema della natura giuridica dei reati edilizi, ossia
se gli stessi debbano essere qualificati come reati
‘‘propri’’
o come reati ‘‘comuni’’. La vicenda processuale vedeva
imputato
un soggetto che era stato riconosciuto responsabile
dei reati in materia edilizia ed antisismica per aver
realizzato,
in assenza di titolo abilitativo, un manufatto di mq. 56 con
copertura a due falde con sovrastanti tegole portoghesi.
Contro la sentenza di condanna proponeva ricorso per
cassazione
l’imputato deducendo, per quanto qui di interesse, il
vizio di motivazione e la violazione di legge, in
particolare
perché la Corte territoriale non avrebbe tenuto in
considerazione
il fatto che egli non era proprietario dell’immobile
interessato
dai lavori abusivi, del quale aveva invece la esclusiva
proprietà la figlia, come documentato dall’atto di
compravendita
e che il suo coinvolgimento era stato determinato dall’aver
assistito la donna all’atto del controllo da parte della
polizia
locale.
La tesi non ha però convinto gli Ermellini che hanno
respinto
il ricorso. In particolare, in merito alla doglianza
difensiva,
hanno osservato i giudici di legittimità che il fatto di
non essere
proprietario dell’immobile interessato dagli interventi
abusivi non è di per sé sufficiente ad escludere la
responsabilità
per il reato urbanistico.
Il D.P.R. n. 380 del 2001
individua,
nell’art. 29, alcuni soggetti che sono ritenuti perseguibili
per eventuali violazioni della normativa urbanistica. Tali
soggetti,
indicati nel titolare del permesso di costruire, nel
committente
e nel costruttore, sono ritenuti responsabili della
conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle
previsioni
di piano e, unitamente al direttore dei lavori, a quelle
del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal
medesimo,
anche se si è giunti alla conclusione che i reati
urbanistici
siano per lo più reati comuni, salvo alcune eccezioni e, in
quanto tali, possono essere commessi da qualsiasi soggetto
(v., da ultimo: Cass. pen., sez. III, 19.12.2007, n.
47083, in Ced Cass., n. 238471).
Vero è -aggiunge la Corte- che, tra le figure contemplate dal predetto art. 29,
quelle
del titolare del permesso di costruire, del committente e
del
proprietario dell’area possono, in alcuni casi, essere in
tutto
o in parte sovrapponibili, nel senso che le diverse
qualificazioni
di titolare del permesso, committente e proprietario
dell’area edificata abusivamente possono riguardare la
stessa
persona, ma ciò non sempre avviene, tanto è vero che la
figura del proprietario (o comproprietario) dell’area, non
formalmente
committente, ha impegnato in più occasioni la
giurisprudenza penale, portandola, come è noto, ad
escludere
che la responsabilità del proprietario dell’area
abusivamente
edificata possa essere ricondotta alla violazione di un
generico dovere di controllo e che debba essere accertata
sulla base di indizi precisi e concordanti.
E' pertanto del
tutto
corretto, come precisato dagli Ermellini, ritenere che la
comprovata
proprietà di terzi dell’immobile o dell’area interessata
dai lavori consenta di escludere la responsabilità di altri
soggetti (Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.06.2012 n. 25361
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 10/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
NON VINCOLATIVITA' DELLA CIRCOLARE MINISTERIALE
IN MATERIA EDILIZIA.
La circolare interpretativa è atto interno alla pubblica
amministrazione che si risolve in un mero ausilio
interpretativo
e non esplica alcun effetto vincolante non solo
per il giudice penale, ma anche per gli stessi destinatari,
poiché non può comunque porsi in contrasto con l’evidenza
del dato normativo.
La Corte Suprema torna a pronunciarsi, con la sentenza in
commento, sulla valenza giuridica della circolare
ministeriale
e, in particolare, sulla possibilità che tale atto
amministrativo
possa avere efficacia vincolante nei confronti del giudice
penale.
La vicenda processuale in esame trae origine da un
provvedimento con cui il giudice di merito ha rigettato,
quale
giudice dell’esecuzione, la richiesta di revoca dell’ordine
di
demolizione di opere edilizie abusive disposto con sentenza
emessa dal medesimo giudice, presentata nell’interesse del
condannato.
Contro l’ordinanza del giudice dell’esecuzione
proponeva ricorso per cassazione il condannato, rilevando
che il giudice del merito avrebbe erroneamente respinto la
richiesta, supportata dal rilascio, in data successiva al
passaggio
in giudicato della sentenza di condanna, di un permesso
di costruire in sanatoria per ‘‘condono edilizio’’, in
quanto le opere realizzate consistevano in un capannone di
mq 450 avente destinazione non residenziale.
La condonabilità
delle opere, secondo il ricorrente, era stata esclusa dal
giudice dell’esecuzione sulla base di quanto disposto dalla
L.
n. 326 del 2003 (art. 32, comma 25), dichiarato
incostituzionale
con sentenza n. 196/2004 ed interpretato dalla circolare
del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti 07.12.2005 n. 2699 nel senso che dovesse ritenersi ammessa la
condonabilità degli interventi aventi destinazione non
residenziale.
La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso, in
particolare
ritenendo, come già anticipato, non vincolante il contenuto
della circolare ministeriale. In particolare, tra le varie
questioni affrontate, sul punto centrale la Cassazione
precisa
che è del tutto privo di rilievo il contenuto della
richiamata
circolare del Ministero delle infrastrutture e dei
trasporti. In
tal senso, la Corte ribadisce che la circolare
interpretativa è
atto interno alla pubblica amministrazione che si risolve in
un mero ausilio interpretativo e non esplica alcun effetto
vincolante
non solo per il giudice penale, ma anche per gli stessi
destinatari, poiché non può comunque porsi in contrasto
con l’evidenza del dato normativo.
A tal proposito, gli
Ermellini
richiamano una precedente pronuncia delle Sezioni Unite
civili sulla natura ed efficacia delle circolari la quale
evidenzia,
con riferimento a quelle interpretative in materia
tributaria,
la natura di atti meramente interni alla pubblica
amministrazione
che esprimono esclusivamente un parere dell’amministrazione
medesima non vincolante per il contribuente,
per gli uffici, per la stessa autorità che l’ha emanata e
per il
giudice (Cass. civ., Sez. Un., 02.11.2007, n. 23031).
La sentenza costituisce espressione di un orientamento ormai
pacifico, recentemente affermato dalla stessa Cassazione
(v., in termini: Cass. pen., sez. III, 14.01.2011, n.
762, in Ced Cass., n. 249307, in cui la Corte ha disatteso
la
tesi, fondata sulla medesima circolare del Ministero delle
infrastrutture
e dei trasporti 07.12.2005, n. 2699, secondo
cui sono condonabili tutte le opere, ‘‘ab origine’’ prive di
titolo abilitativo, residenziali e non) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.06.2012 n. 25170
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 10/2012). |
ESPROPRIAZIONE:
Espropriazione parziale.
In sede di opposizione alla stima per l’espropriazione
parziale di un terreno, va esclusa la risarcibilità del
danno
alle particelle rese inagibili o inutilizzabili a seguito
dell’opera pubblica, poiché trattasi di voce ricompresa
nell’indennità di espropriazione, che per definizione
riguarda
l’intera diminuzione patrimoniale subita dal soggetto
passivo.
Decidendo sull’impugnazione proposta avverso una decisione
del Tribunale superiore delle acque pubbliche, le Sezioni
Unite hanno, in primo luogo, rigettato il motivo di censura
con il quale i ricorrenti avevano censurato l’impugnata
sentenza
nella parte in cui aveva ritenuto che l’indennità di
esproprio copre anche il danno subito dall’espropriato alle
zone attigue.
La Corte ha ritenuto che correttamente il TSAP aveva escluso
la risarcibilità del danno alle particelle rese inagibili o
inutilizzabili
a seguito dell’opera pubblica, poiché trattasi di voce
ricompresa nell’indennità di espropriazione, che per
definizione
riguarda l’intera diminuzione patrimoniale subita dal
soggetto passivo.
Il deprezzamento, che abbiano subito le parti residue del
bene
espropriato, è da considerare voce ricompresa nell’indennità
di espropriazione, che per definizione riguarda l’intera
diminuzione
patrimoniale subita dal soggetto passivo del provvedimento
ablativo, ivi compresa la perdita di valore della
porzione residua derivata dalla parziale ablazione del fondo
(Cass. 21.11.2001, n. 14640; 06.06.2003, n.
9096), sia essa agricola o edificabile (Cass. 05.06.2001,
n. 7590), non essendo concepibili, in presenza di un’unica
vicenda
espropriativa, due distinte somme, imputate l’una a titolo
di indennità di espropriazione e l’altra a titolo di
risarcimento
del danno per il deprezzamento subito dai residui terreni
(Cass. 10.03.2000, n. 2737).
Ne consegue che qualora il giudice accerti, anche d’ufficio,
che la parte residua del fondo sia intimamente collegata con
quella espropriata da un vincolo strumentale ed oggettivo
(tale, cioè, da conferire all’intero immobile unità
economica
e funzionale), e che il distacco di parte di esso influisca
oggettivamente
(con esclusione, dunque, di ogni valutazione
soggettiva) in modo negativo sulla parte residua -e tale
indagine
resta nell’ambito della determinazione dell’indennità,
venendo in considerazione il pregiudizio di quella porzione
residua non a fini risarcitori, ma come parametro
indennitario,
e dunque non soggetto a particolare onere di allegazione- deve, per l’effetto, riconoscere al proprietario il
diritto ad
un’unica indennità, consistente nella differenza tra il
giusto
prezzo dell’immobile prima dell’occupazione ed il giusto
prezzo (potenziale) della parte residua dopo l’occupazione
dell’espropriante (Cass. 27.09.2002, n. 14007).
Di nessun rilievo, ai fini dell’affermazione di un diverso
principio, è la circostanza che detti effetti negativi si siano
realizzati
su zone comunque estranee alla dichiarazione di pubblica
utilità, una volta ritenuto che le opere accessorie
eseguite,
che determinarono il fatto dell’interclusione dei terreni
residui
degli attori, erano previste e conformi al progetto
dell’opera
pubblica.
Come hanno rilevato le stesse Sezioni Unite (08.04.2008,
n. 9041), nell’espropriazione parziale regolata dalla L. 25.06.1865, n. 2359, art. 40 va compresa ogni ipotesi di
diminuzione di valore (nella specie interclusione) della
parte non
interessata dall’espropriazione, con necessario riferimento
al
concetto unitario di proprietà ed al nesso di funzionalità
tra
ciò che è stato oggetto del provvedimento ablativo e ciò
che è rimasto nella disponibilità dell’espropriato, tanto più
ove si
tratti di suoli a destinazione agricola, in cui rileva l’unitarietà
costituita dalla destinazione a servizio dell’azienda
agricola.
I profili irreversibili di danno subiti dalla parte residua
della
proprietà, a causa dell’interclusione della medesima dopo
l’espropriazione, non possono che trovare riconoscimento
nei concetti di espropriazione ed occupazione parziale.
Nella
fattispecie regolata dall’art. 40, va ricompresa ogni
ipotesi di
diminuzione di valore della parte non interessata
dall’espropriazione,
per cui, contrariamente a quanto rilevato dai ricorrenti, è ininfluente che la parte residua danneggiata non sia
compresa nella dichiarazione di pubblica utilità, ai fini
dell’espropriazione.
Infatti nella valutazione del danno da espropriazione
parziale ex art. 40 cit. si prescinde dal dato catastale
della particella, essendo necessario riferirsi al concetto
di
proprietà e al nesso funzionale tra ciò che è stato
oggetto
del provvedimento ablativo e ciò che è rimasto nella disponibilità
dell’espropriato (Cass. 24.09.2007, n. 19570),
tanto più ove si tratti di suoli a destinazione agricola,
in cui rileva
l’unitarietà costituita dalla destinazione a servizio
dell’azienda
agricola (Cass. 14.05.1998, n. 4848; 15.07.1977, n. 4404).
E'
stato invece accolto il motivo con il quale i ricorrenti
censuravano
l’impugnata sentenza per aver ritenuto che fosse
giuridicamente corretto l’operato del TRAP, che aveva
determinato
l’indennità annuale da occupazione provvisoria legittima
in un dodicesimo dell’indennità di esproprio, senza tener
conto della maggiorazione per il consenso alla
determinazione
di tale indennità.
La sentenza in rassegna ha ricordato che le stesse Sezioni
Unite (18.12.2010, n. 24303) hanno statuito che l’indennità
di occupazione legittima, che, in base alla L. 22.10.1971, n. 865, art. 20, comma 3
è pari, per ciascun anno
di occupazione, ad un dodicesimo dell’indennità che sarebbe
dovuta per l’espropriazione dell’area da occupare,
«calcolata
a norma dell’art. 16» della stessa legge, va commisurata
alla
definitiva indennità di espropriazione effettivamente
dovuta,
dovendo ad essa attribuirsi quella stessa qualificazione di
indennità
provvisoria che si rinviene nella cit. L. n. 865, art. 12,
comma 1, il quale rinvia, per la relativa determinazione,
proprio
all’art. 16 anzidetto. Siffatta determinazione non trova
deroga nell’ambito della disciplina indennitaria posta dalla
L.
14.05.1981, n. 219, art. 80 il cui carattere speciale
non è elemento sufficiente a spezzare il nesso logico ed
economico
che, per legge, lega tutte le indennità, sia di
espropriazione
che di occupazione legittima, posto che la anzidetta
normativa di riferimento, fissa l’entità delle indennità
di occupazione
in misura strettamente percentuale all’indennità
di espropriazione parimenti dovuta.
Il suddetto principio e` stato affermato tanto per l’indennità
di
occupazione legittima del suolo destinato all’esproprio
quanto
per quello utilizzato per le fasce laterali occupate per le
necessità del ‘‘cantiere’’ e transito. La Corte lo ha
ribadito,
sottolineando che esso si fonda sulla considerazione che -in
presenza di legittimo procedimento di occupazione e di
esproprio- il sistema prevede un nesso (logico e,
soprattutto,
economico) che, per la legge, lega, sempre e comunque,
tutte le indennità (sia di espropriazione che di
occupazione
legittima), con la conseguenza che le disposizioni attinenti
alle
indennità da occupazione provvisoria legittima, perché
tendono al ristoro del reddito perduto durante l’occupazione
del bene, non possono che fissare l’entità delle indennità
di
occupazione in misura strettamente percentuale all’indennità
di espropriazione parimenti dovuta: quella annuale di ‘‘un
dodicesimo’’ corrisponde, infatti e comunque, ad una redditività
predeterminata in misura percentuale fissa (8,33% all’anno)
dallo stesso legislatore, a cui va aggiunto l’aumento
del 50% per il concordamento bonario di cui alla L. n. 865
del 1971, art. 12.
La Corte ha aggiunto che non rileva se il decreto di
esproprio
sia stato tempestivamente emesso (rilevante -invece- in
relazione
alla tematica affrontata da Corte cost. n. 24/2009),
ma solo se l’indennità di espropriazione sia stata
effettivamente
accettata e quindi sia dovuta con l’aumento nella misura
corrisposta per il concordamento bonario.
Rimane, invece, fuori da questa regolamentazione il caso di
imposizione di fatto di servitù pubblica di acquedotto, a
seguito
di realizzazione dell’opera idraulica senza una procedura
ablatoria, in cui, secondo la costante giurisprudenza di
legittimità, trova applicazione analogica l’art. 1038 c.c., che
distingue,
ai fini della determinazione dell’indennità, tra le parti
fisicamente occupate; dall’opera idraulica e quelle
costituenti
le cosiddette fasce di rispetto necessarie per lo spurgo e
per la manutenzione delle condotte, stabilendo che per le
prime sia corrisposto al proprietario l’intero valore e per
le altre soltanto la metà di tale valore (Cass., Sez. Un.,
13.02.2001, n. 51) (Corte di Cassazione, Sezz. Un. civili,
sentenza 25.06.2012
n. 10502 -
tratto da Urbanistica e appalti n. 10/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
NORMATIVA ANTISISMICA E REALIZZAZIONE
DI PANNELLI AUTOSTRADALI.
Integra il reato di esecuzione di lavori abusivi in zona
sismica
(art. 95, D.P.R. n. 380/2001) l’installazione, senza
la prescritta autorizzazione, di pannelli a messaggio
variabile
lungo i tratti autostradali, giacché nel concetto di
‘‘costruzione’’ rientrano anche tutti quegli interventi in
apparenza minori che possono in concreto rilevare sul
piano della pericolosità.
La Corte di Cassazione si sofferma per la prima volta, con
la
sentenza in esame, sul tema dell’assoggettamento alla
normativa
antisismica di quegli interventi edilizi che, pur assolvendo
a una finalità lato sensu pubblica, sono pur sempre
da qualificarsi come potenzialmente pericolosi e, in quanto
tali, rientrano nella disciplina dettata dal T.U. edilizia.
La vicenda
processuale in esame vedeva imputati il direttore di
uno dei tronchi autostradali della ‘‘Autostrade per l’Italia
s.p.a.’’ (che rivestiva anche la qualità di committente)
nonché il titolare della ditta esecutrice dei lavori, cui era
stato
contestato di avere realizzato, in assenza della prescritta
autorizzazione del competente ufficio della regione, opere
di
installazione di pannelli a messaggi variabili in zona
sismica
Z3.
Contro la sentenza di condanna, proponevano ricorso
per cassazione gli imputati deducendo, per quanto di
interesse
in questa sede, violazione di legge in relazione all’art.
95 D.P.R. n. 380/2001, asserendo che il concetto di
‘‘costruzione’’,
richiamato dalla norma in questione, si riferirebbe alle
sole opere edili in senso stretto e non anche, quindi, alla
realizzazione
di semplici pannelli contenenti messaggi autostradali
dalla cui installazione non potrebbe peraltro
oggettivamente,
secondo gli imputati, derivare una concreta fonte di
rischio per l’incolumità.
La tesi, pur suggestiva ed adeguatamente argomentata, non è stata accolta dalla Cassazione.
La Corte ha ritenuto di
doversi
adeguare all’orientamento giurisprudenziale maggioritario
che non limita agli edifici la nozione di ‘‘costruzione’’
cui
si riferiscono le norme antisismiche. Tale nozione,
osservano
gli Ermellini, è stata approfondita dalla giurisprudenza di
legittimità che, proprio con riferimento alla
cartellonistica
pubblicitaria, ha affermato che la sistemazione di una
insegna
o tabella pubblicitaria richiede il rilascio del preventivo
permesso di costruire quando per le sue rilevanti dimensioni
comporti un mutamento territoriale, atteso che soltanto un
sostanziale mutamento del territorio nel suo contesto
preesistente
sia sotto il profilo urbanistico che edilizio fa assumere
rilevanza penale alla violazione del regolamento edilizio,
con conseguente integrazione del reato di cui all’art. 44
del
D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (Cass. pen., sez. III, 11.02.2004, n. 5328, in Ced Cass., n. 227402).
A ciò si aggiunge,
precisa la Cassazione, come è dato notorio che i cartelloni
recanti indicazioni sulla viabilità apposti ai margini del
tratto
autostradale non possono essere, per la funzione svolta, di
modeste dimensioni. Appare peraltro di tutta evidenza,
quindi,
che anche interventi in apparenza ‘‘minori’’ possano in
concreto rilevare sul piano della pericolosità. Nella
valutazione
sul punto non possono non concorrere, infatti, con
l’elemento
dimensionale anche altri aspetti quali, ad esempio, le
modalità di collocazione del manufatto, la morfologia del
sito,
la pendenza del terreno, le modalità di realizzazione delle
strutture di sostegno, ecc. in quanto suscettibili di
accrescere
il grado di pericolo per l’incolumità pubblica. Ed è ovvio
che da tale valutazione non si potrà prescindere anche per
le
zone in cui il grado di sismicità non sia particolarmente
elevato.
Da qui, dunque, la rilevanza penale del fatto, attesa
l’estensione
della nozione di ‘‘costruzione’’, in materia antisismica,
anche agli interventi edilizi minori che si presentino
pericolosi per la pubblica incolumità (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.06.2012 n. 24086
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 10/2012). |
APPALTI: Nell’ambito
di una gara, che come la presente si svolga con il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa, le valutazioni
tecniche delle commissioni di gara sono espressione di ampia
discrezionalità, suscettibili di sindacato solo nei limiti
della manifesta illogicità.
Nello stesso ambito, la commissione ben può esprimere le
proprie valutazioni attribuendo ai vari profili rilevanti
dell’offerta un punteggio numerico, purché ciò faccia
attraverso “criteri prefissati di valutazione…
sufficientemente dettagliati”, tali “da consentire di
comprendere l'iter logico attraverso il quale
l'amministrazione è giunta ad un certo grado di giudizio”.
In termini generali, è pacifico in giurisprudenza che,
nell’ambito di una gara che come la presente si svolga con
il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, “le
valutazioni tecniche delle commissioni di gara sono
espressione di ampia discrezionalità, suscettibili di
sindacato solo nei limiti della manifesta illogicità”:
così espressamente, da ultimo, C.d.S. sez. V 14.09.2010 n.
6686.
E’ poi parimenti noto che, nello stesso ambito, la
commissione ben può esprimere le proprie valutazioni
attribuendo ai vari profili rilevanti dell’offerta un
punteggio numerico, purché ciò faccia attraverso “criteri
prefissati di valutazione… sufficientemente dettagliati”,
tali “da consentire di comprendere l'iter logico
attraverso il quale l'amministrazione è giunta ad un certo
grado di giudizio”: così per tutte, sempre nella
giurisprudenza recente, C.d.S. sez. V 01.10.2010 n. 7266
(TAR Lombardia-Brscia, Sez. II,
sentenza 04.11.2010 n. 4554 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 12.10.2012 |
ã |
IN EVIDENZA |
PUBBLICO
IMPIEGO:
TFR-TFS- trattenuta del 2,5% - vince la linea della UIL
pubblica amministrazione. |
GIUSTIZIA
E' FATTA !! |
La
Corte costituzionale, con
sentenza 11.10.2012 n. 223 ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale di diverse norme del
decreto legge 31/05/2010, n. 78, convertito con
modificazioni in legge 30/07/2010, n. 122, tra
queste quella di cui all’art. 12, comma 10, che
disponeva il permanere della trattenuta del 2,5 per
cento sulla retribuzione, nonostante la norma
prevedesse l’applicazione dell’art. 2120 del codice
civile in tema di trattamento di fine servizio, in
luogo dell’indennità di buonuscita.
Ricordiamo che, su questa questione, la Uil Pa ha
per prima denunciato la ingiustizia di un tale
comportamento delle Amministrazioni pubbliche ed ha
promosso, curate dallo studio legale Galleano,
diverse cause pilota in tutt’Italia, sul cui esito
evidentemente, influirà la pronuncia della Corte
Costituzionale, posto che la dichiarazione di
incostituzionalità vincola i giudici di merito.
Siamo andati avanti prima con le diffide e poi con i
ricorsi, nonostante le critiche aspre e sprezzanti
di alcune sigle sindacali, poiché sapevamo di essere
dalla parte della ragione ed ora la Corte
Costituzionale conferma questa nostra impostazione.
Riportiamo di seguito, la motivazione sul punto,
della Corte Costituzionale: "14.—
Anche la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 12, comma 10, del citato d.l. n. 78 del
2010, sollevata in riferimento agli articoli 3 e 36
Cost. è fondata.
La premessa interpretativa del TAR per l’Umbria è,
innanzitutto, corretta in punto di ricostruzione del
quadro normativo, poiché la mancata espressa
esclusione del permanere della trattenuta a carico
del lavoratore non potrebbe indurre a far uso
dell’argomento a silentio sia pure per perseguire
un’interpretazione costituzionalmente orientata. Il
perdurare del prelievo di cui si discute, infatti,
oltre a derivare dall’astratta compatibilità fra il
nuovo regime e la disciplina contenuta nel d.P.R. n.
1032 del 1973, è avvalorato dal fatto che il citato
art. 12, comma 10, non contiene affatto una
disciplina organica sulle prestazioni previdenziali
in favore dei dipendenti dello Stato, in grado di
sostituirsi, in senso novativo, al d.P.R. n. 1032
del 1973, come del resto ritenuto
dall’Amministrazione in sede applicativa.
Ciò posto, va osservato che fino al 31.12.2010 la
normativa imponeva al datore di lavoro pubblico un
accantonamento complessivo del 9,60% sull’80% della
retribuzione lorda, con una trattenuta a carico del
dipendente pari al 2,50%, calcolato sempre sull’80%
della retribuzione. La differente normativa
pregressa prevedeva dunque un accantonamento
determinato su una base di computo inferiore e, a
fronte di un miglior trattamento di fine rapporto,
esigeva la rivalsa sul dipendente di cui si discute.
Nel nuovo assetto dell’istituto determinato dalla
norma impugnata, invece, la percentuale di
accantonamento opera sull’intera retribuzione, con
la conseguenza che il mantenimento della rivalsa sul
dipendente, in assenza peraltro della “fascia
esente”, determina una diminuzione della
retribuzione e, nel contempo, la diminuzione della
quantità del TFR maturata nel tempo.
La disposizione censurata, a fronte dell’estensione
del regime di cui all’art. 2120 del codice civile
(ai fini del computo dei trattamenti di fine
rapporto) sulle anzianità contributive maturate a
fare tempo dall01.01.2011, determina
irragionevolmente l’applicazione dell’aliquota del
6,91% sull’intera retribuzione, senza escludere nel
contempo la vigenza della trattenuta a carico del
dipendente pari al 2,50% della base contributiva
della buonuscita, operata a titolo di rivalsa
sull’accantonamento per l’indennità di buonuscita,
in combinato con l’art. 37 del d.P.R. 29.12.1973, n.
1032.
Nel consentire allo Stato una riduzione
dell’accantonamento, irragionevole perché non
collegata con la qualità e quantità del lavoro
prestato e perché –a parità di retribuzione–
determina un ingiustificato trattamento deteriore
dei dipendenti pubblici rispetto a quelli privati,
non sottoposti a rivalsa da parte del datore di
lavoro, la disposizione impugnata viola per ciò
stesso gli articoli 3 e 36 della Costituzione.
14.1.— Va, quindi, pronunciata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 12, comma 10, del d.l. n.
78 del 2010, nella parte in cui non esclude
l’applicazione a carico del dipendente della rivalsa
pari al 2,50% della base contributiva, prevista
dall’art. 37, comma 1, del d.P.R. n. 1032 del 1973."
(tratto da e link a www.uilpa.it).
|
Non c'è che dire: un plauso alla UIL-PA che ha creduto in
questa battaglia, unico sindacato contro tutti, laddove gli
altri sindacati recitavano, all'unisono: "ma va là, sono
solo quisquilie, bazzeccole, pinzellacchere ...".
Quindi??
Scrivete immediatamente una
mail al Vs. Ufficio personale e diffidate che già nella
busta paga di ottobre c.a. Vi siano restituite le somme
indebitamente trattenute dall'01.01.2011, con
rivalutazione monetaria ed interessi legali,
siccome già statuito recentemente dal TAR Lombardia-Milano,
Sez. I,
sentenza 13.09.2012 n. 2321.
12.10.2012 - LA SEGRETERIA PTPL |
dite la vostra
... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: R.
Pagliaro,
Decreto-legge SALVA ENTI ... e i “pareri” dei
responsabili di servizio sulle proposte di deliberazione da
sottoporre alla Giunta od al Consiglio comunale
(11.10.2012). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
URBANISTICA: M.
Viviani,
Gli effetti -in Lombardia- dell’adozione del piano
territoriale di coordinamento provinciale (PTCP)
(11.10.2012).
---------------
Ringraziamo l'amico Mario Viviani per l'utile contributo
ricevuto.
12.10.2012 - LA SEGRETERIA PTPL |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
M. Nesi,
Gli incarichi Legali, incarichi fiduciari o incarichi
clientelari? (link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA:
F. Vanetti,
In attesa del D.M. su terre e rocce da scavo... (link a
www.lexambiente.it). |
NEWS |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: DECRETO
SALVA-ENTI/ Più peso ai dirigenti nei comuni. I politici
devono giustificarsi se si discostano dai pareri.
Il provvedimento è stato pubblicato ieri in G.U.
(dl 174/2012).
Giunte e consigli di comuni e province dovranno esplicitare
le ragioni in base alle quali le delibere da essi approvate
risultino difformi dai contenuti del parere di regolarità
tecnica.
Il decreto legge sui controlli e gli equilibri finanziari di
regioni ed enti locali (dl 174 del 10/10/2012, pubblicato
sulla G.U. n. 137 di ieri) modifica l'articolo 49 del dlgs
267/2000, inserendo un nuovo comma 4, ai sensi del quale: «Ove
la giunta o il consiglio non intendano conformarsi ai pareri
di cui al presente articolo, devono darne adeguata
motivazione nel testo della deliberazione». Lo scopo
della disposizione è, ovviamente, rafforzare il valore
consultivo del parere espresso dai dirigenti o responsabili
di servizio sugli atti deliberativi.
Da sempre, dall'entrata in vigore della legge 142/1990,
sulle deliberazioni di consigli e giunte è richiesto il
parere di regolarità tecnica (un tempo, era previsto anche
quello di legittimità da parte del segretario comunale,
improvvidamente abolito dalle riforme Bassanini). Tale
parere è obbligatorio, salvo che per gli atti di mero
indirizzo politico (atti ispettivi, mozioni), ma non
vincolante.
Dunque, gli organi collegiali di governo possono adottare
una decisione che vada in una linea diversa, sul piano
dell'opportunità, del merito e anche della disciplina
normativa da seguire, da quella indicata dal parere. Fin
qui, impropriamente, in molte amministrazioni laddove il
responsabile esprimesse o intendesse esprimere un parere non
favorevole alla regolarità della proposta di deliberazione
accadeva che organi politici e tecnici andassero allo
scontro o che si facesse in modo di ricondurre il parere
alle indicazioni degli organi di governo, per evitare di
manifestare contrasti tra decisione adottata e parere in
merito.
Un sistema di aggiramento della norma, che invece intende
proprio evidenziare le eventuali alterità di visione e di
responsabilità nel procedimento di adozione delle delibere.
Non si deve dimenticare che i responsabili dei servizi, ai
sensi del comma 3 dell'articolo 49 del Tuel «rispondono
in via amministrativa e contabile dei pareri espressi»:
essi hanno il dovere di rilevare ogni aspetto di
irregolarità che possa ledere la corretta esplicazione del
potere amministrativo, essendo il parere l'estremo momento
nel quale rendere consapevoli gli organi di governo di
eventuali possibili danni o, appunto, irregolarità
discendenti dalle deliberazioni.
Con la modifica apportata dal decreto legge, non sarà più
possibile nascondere eventuali diverse visioni tra organi di
governo e responsabili di servizio. Il procedimento di
formazione delle deliberazioni si arricchisce di una fase in
più, eventuale: all'istruttoria e formulazione del testo
della proposta, si affianca la fase, eventuale, della
modifica della proposta in conseguenza del parere di
regolarità tecnica eventualmente negativo rispetto ai
contenuti della proposta. Gli organi collegiali sono
obbligati a spiegare perché non ritengono di conformarsi
alle indicazioni tecniche di chi è chiamato a illustrare
loro le strade più corrette e legittime per perseguire gli
interessi pubblici.
In questo modo, in analogia a quanto accade nel rapporto tra
responsabile del procedimento e autorità decidente ai sensi
dell'articolo 6, comma 1, lettera f), della legge 241/1990,
si distinguono necessariamente le responsabilità tecniche,
da quelle politico-amministrative. Indirettamente, il parere
finisce per essere uno strumento finalizzato a ponderare
molto bene le scelte dell'organo di governo. E i dirigenti o
responsabili di servizio non potranno più nascondersi dietro
un dito e non esprimere apertamente rilievi, nei confronti
di provvedimenti che contengono delle criticità
(articolo ItaliaOggi dell'11.10.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
No al confinamento di kebab, money transfer e
phone center.
No alla localizzazione di Kebab, money
transfer e centri di telefonia fissa solo in specifiche zone
urbane del territorio comunale. In quanto sono in contrasto
con i principi di concorrenza e con la disciplina nazionale
della liberalizzazione. L'ingresso di nuovi operatori non
deve incontrare ostacoli di tipo normativo o amministrativo,
diretti a predeterminare rigidamente limiti quantitativi
alle possibilità di entrata nel mercato.
Questo è quanto espresso dall'Autorità garante della
concorrenza e del mercato all'interno del
bollettino settimanale 17.09.2012 n. 35 – in ordine agli
effetti distorsivi della concorrenza derivanti dalle
disposizioni che regolano l'insediamento delle attività di «Kebap
e simili, compresi gli esercizi ove vi è asporto e
consumazione in loco di alimenti e bevande, centri di
telefonia internazionale e simili, centri di trasferimento
del denaro». Sotto osservazioni sono quattro delibere
comunali degli anni 2009 e 2010 aventi ad oggetto la «Definizione
di programma di localizzazione di particolari attività
suscettibili di determinare situazioni di disagio sociale,
viabilistico e di quiete pubblica ai fini del loro
insediamento sul territorio di...».
Le richiamate deliberazioni introducono il divieto di
insediamento delle attività sopra indicate in tutto il
territorio comunale, ad eccezione di alcuni ambiti
identificati, nei quali eventuali richieste di insediamento
saranno valutate nell'ambito di una apposita procedura
negoziale volta ad individuare «se la zona urbanistica
può accogliere l'insediamento richiesto; le particolari
prescrizioni a tutela della collettività insediata nella
zona; gli eventuali standard qualitativi dettati dalla
particolare attività in relazione alla situazione
viabilistica ed urbana consolidata nella zona d'insediamento».
Le delibere, prevedendo un divieto di insediamento di
esercizi di vendita di kebab, di telefonia in sede fissa e
trasferimento del denaro e simili, ovvero limitandolo a
specifiche zone, introducono un elemento di rigidità del
sistema tale da tradursi, nei diversi mercati interessati,
in una programmazione quantitativa dell'offerta, in
contrasto con le esigenze di salvaguardia della concorrenza
(articolo ItaliaOggi dell'11.10.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Statali,
costa cara l'assenza per assistere parenti.
LE CONFERME/ Blocco per un altro anno dei rinnovi. Mentre la
cancellazione della vacanza contrattuale era già stata
adottata dal vecchio governo.
Con la legge di stabilità 2013 arriva
solo la conferma del blocco per un altro anno del rinnovo
dei contratti, uno stop partito nel 2011 con il decreto
78/2010, perché la cancellazione della vacanza contrattuale
era già stata adottata dal vecchio Governo.
Come ha precisato ieri il ministro Filippo Patroni Griffi
per ripristinare la vacanza contrattuale sarebbe stato
necessario un nuovo intervento legislativo con tanto di
risorse aggiuntive e copertura finanziaria. Dopo la lunga
notte del varo della legge di stabilità e in attesa di
poterne leggere il testo definitivo, è nella risposta del
ministro alle reazioni sindacali di giornata l'unico
elemento di novità.
«Certe dichiarazioni di esponenti sindacali dovrebbero
tener conto delle reali disponibilità delle casse dello
Stato», ha detto Patroni Griffi dopo aver letto i
commenti critici di tutte le organizzazioni e i numeri
diffusi dalla Fp Cgil, secondo cui il blocco dei contratti e
dell'indennità di vacanza contrattuale comporterà tra il
2010 e il 2014 una perdita di salario complessiva di oltre 6
mila euro per gli statali, che si ritroveranno una busta
paga alleggerita in media di 240 euro. Ieri è anche
circolata l'ipotesi che la norma del blocco dei contratti
venga stralciata per scriverla in via amministrativa (come
del resto era già stato fatto in passato). Si vedrà.
Tutte confermate invece le altre misure del "pacchetto
statali", con la proroga, sempre a tutto il 2014, dei
tagli del 5 e 10% delle quote di stipendio superiori a 90 e
150mila euro (misura su cui pendono ricorsi alla Corte
costituzionale) e il dimezzamento della retribuzione nei
giorni di permesso per l'assistenza a parenti disabili che
non siano coniugi o figli riconosciuto dalla legge 104/1992.
Sui permessi ex legge 104 i tecnici della Funzione pubblica
stanno per diffondere i dati relativi al 2011, con qualche
mese di ritardo rispetto all'anno scorso per qualche
problema tecnico dovuto alla migrazione di banche dati dal
vecchio sistema al nuovo sistema Perla PA. Gli ultimi numeri
ufficiali, relativi al 2010, sintetizzano il ricorso a
questo permesso con le seguenti cifre: 244.997 beneficiari
(7,4% del totale dei dipendenti) per un totale di 4.835.263
giornate di permesso e un costo stimato (calcolato
considerando pari a 33mila euro lo stipendio medio annuo di
un dipendente pubblico, per un costo giornaliero di 150 euro
su 220 giornate lavorative) di 725milioni e 280mila euro. È
questo l'aggregato di spesa che si intende aggredire con la
nuova norma.
In attesa dell'invio alle Camere della Stabilità, a palazzo
Vidoni si lavora intanto sulle schede prodotte da tutte le
amministrazioni centrali, gli enti pubblici non economici e
le agenzie sulle dotazioni organiche. Si deve chiudere
l'istruttoria in tempo utile per il varo, entro fine mese,
dei Dpcm che definiscono i criteri per il taglio delle
dotazioni deciso con la spending review: il 20% del
personale dirigente e il 10% di funzionari e dipendenti.
Secondo le indiscrezioni trapelate, la ricognizione finora
condotta conferma che problemi di soprannumeri ci sarebbero
in Inps e Inail, dove per effetto dei piani industriali in
corso, le dotazioni organiche sono pressoché coincidenti con
il personale in servizio. Obiettivo del ministro è trovare
possibili compensazioni.
Secondo la Fp Cgil proprio i dipendenti di questi enti
sarebbero i più colpiti dal blocco dei contratti: se per i
dipendenti dei ministeri la perdita media in busta a regime
sarà di 210 euro e per i lavoratori delle agenzie fiscali di
270 euro, per quelli degli enti pubblici non economici (Inps
e Inail) sarà invece di 290 euro
(articolo Il
Sole 24 Ore dell'11.10.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Parere
tecnico obbligatorio su ogni delibera del Comune.
L'ALLARGAMENTO/ Il responsabile del servizio interessato
dovrà esprimersi su ogni atto con riflessi diretti o
indiretti sulla situazione finanziaria.
Ogni delibera di Giunta o Consiglio deve
essere accompagnata dal parere tecnico del responsabile del
servizio interessato e dal via libera del responsabile dei
servizi finanziari in tutti i casi in cui comporti «riflessi
diretti e indiretti» sulla situazione economico-finanziaria
o anche sul patrimonio dell'ente.
È questo il primo cambio di rotta nell'attività dei Comuni
determinato dall'entrata in vigore, oggi, del decreto enti
locali approvato giovedì scorso, che fa scattare anche il
conto alla rovescia per l'attuazione dei costi della
politica nelle Regioni. Con le regole pubblicate sulla «Gazzetta
Ufficiale» di ieri diventano operativi anche i
rafforzamenti dei controlli esterni, sia sulle Regioni sia
sugli enti locali, che però cominceranno a mostrare le loro
ricadute operative solo nei prossimi mesi.
I primi effetti concreti, da questo punto di vista, sono
sulle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti,
investite di nuovi compiti e che, in base al decreto,
potranno utilizzare anche uomini della Guardia di finanza
(d'intesa con il ministero dell'Economia) e di magistrati
delle sezioni giurisdizionali della stessa Corte.
Il primo dato applicativo con l'entrata in vigore del
decreto si concentra sui controlli interni e continui
nell'attività dei Comuni. I politici locali, in pratica,
potranno dribblare i pareri dei responsabili tecnici solo
con «adeguate motivazioni espresse», mentre il
responsabile dei servizi finanziari vede crescere
drasticamente il numero di atti su cui dovrà vigilare in via
preventiva.
Fino a ieri il passaggio sulla sua scrivania era
obbligatorio solo per gli atti che comportassero «impegno
di spesa o diminuzione di entrata», mentre ora il
riferimento a qualsiasi effetto diretto o indiretto su conti
o patrimonio lo porterà a mettere gli occhi preventivamente
su quasi tutte le scelte (sono esclusi solo gli «atti di
mero indirizzo»). Insieme al responsabile dei servizi
finanziari, di cui viene sancita meglio l'autonomia dagli
organi politici, si vedono ampliati i compiti di controllo
anche il segretario, il direttore generale (dove c'è) e i
revisori dei conti, che dovranno estendere per legge il loro
monitoraggio anche alle società partecipate.
In vigore da oggi anche il fondo rotativo anti-dissesto: la
dotazione finanziaria iniziale non è elevata (30 milioni di
euro per il 2012, 100 milioni per il 2013 e 200 milioni
all'anno dal 2014 al 2020), ma per il 2012 è accompagnato a
un maxi-assegno da 500 milioni per pagare spese correnti e
di personale negli enti in difficoltà. Il primo destinatario
dell'incentivo appare il Comune di Napoli, dove però nei
giorni scorsi il sindaco Luigi De Magistris ha avuto parole
molto dure nei confronti del nuovo strumento, anche perché
l'attivazione del fondo è subordinata al taglio di spese e
all'avvio di controlli stringenti sul piano di rientro
quinquennale che può prevedere anche l'aumento al massimo di
tasse e tariffe.
Manca poco, infine, alla scadenza per attuare le norme sui
costi della politica regionale: entro il 30 novembre le
Regioni dovranno tagliare posti, indennità e fondi ai
gruppi, e avranno sei mesi di tempo da oggi solo se la
sforbiciata dovrà passare da modifiche statutarie.
---------------
In vigore da oggi
01 | LE DELIBERE
Il parere tecnico del responsabile del servizio interessato
e, in molti casi, il via libera del responsabile dei servizi
finanziari dovranno accompagnare ogni delibera di Giunta o
Consiglio in tutti i casi in cui comporti «riflessi diretti
e indiretti» sulla situazione economico-finanziaria o anche
sul patrimonio dell'ente
02 | L'ALLARGAMENTO
Finora il parere del responsabile del servizio era
obbligatorio solo per gli atti che comportassero «impegno
di spesa o diminuzione di entrata». Adesso il
riferimento a qualsiasi effetto diretto o indiretto su conti
o patrimonio porterà il responsabile tecnico a esprimere un
parere preventivo su quasi tutte le scelte
03 | FONDO ROTATIVO
In vigore anche il fondo rotativo anti-dissesto
(articolo Il
Sole 24 Ore dell'11.10.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA:
Posto che il permesso di
costruire attiene ad un’attività di carattere vincolato al
rispetto della disciplina urbanistica, non può, infatti,
consentirsi una arbitraria valutazione della compatibilità
di un singolo intervento di nuova costruzione con il
contesto agricolo.
Il responsabile del servizio deve valutare la sussistenza
dei presupposti oggettivi e soggettivi previsti dalla legge
e dalle NTA per far luogo al titolo edilizio.
Per ciò che concerne poi la seconda censura, deve
radicalmente denegarsi che, in assenza della puntuale
indicazione di parametri oggettivi per tale riscontro,
l’Amministrazione locale possa o debba valutare
discrezionalmente “caso per caso” la tollerabilità
dell’intervento medesimo rispetto al materiale assetto della
zona.
Posto che il permesso di costruire attiene ad un’attività di
carattere vincolato al rispetto della disciplina urbanistica
(cfr. Consiglio Stato, sez. V 04.05.2004 n. 2694; Consiglio
Stato, sez. IV, 03.02.2006, n. 401), non può, infatti,
consentirsi una arbitraria valutazione della compatibilità
di un singolo intervento di nuova costruzione con il
contesto agricolo.
Il responsabile del servizio deve valutare la sussistenza
dei presupposti oggettivi e soggettivi previsti dalla legge
e dalle NTA per far luogo al titolo edilizio (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 09.10.2012 n. 5255 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Canne fumarie, quando serve il permesso di
costruire.
La realizzazione di una canna fumaria che comporti una
modifica del prospetto del fabbricato cui inerisce è
riconducibile ai lavori di ristrutturazione edilizia
realizzati tramite inserimento di nuovi elementi e impianti,
ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire,
ai sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello
stesso T.U. sull'edilizia.
La deducente, affittuaria di un locale destinato allo
svolgimento dell’attività di ristorazione-pizzeria, ha
impugnato l’ordinanza con cui il Comune di appartenenza
aveva ingiunto alla medesima, nonché alla proprietaria
dell’immobile, la demolizione della canna fumaria realizzata
abusivamente in epoca antecedente la stipula del contratto
di locazione.
Nello specifico ha eccepito la violazione e falsa
applicazione dell’art. 31, comma 2, D.P.R. n. 380/2001,
sulla scorta della considerazione per cui la menzionata
disposizione sancisce che soltanto l’autore materiale
dell’abuso e il proprietario dell’immobile interessato
costituiscono i destinatari dell’ingiunzione a demolire,
oltre alla violazione degli artt. 3 e 7, L. n. 241/1990.
Il ricorso è stato respinto.
Il TAR di Napoli, in primo luogo, ha ritenuto prive di
fondamento le censure inerenti la violazione dell’art. 7, L.
n. 241/1990 e il difetto di motivazione sull’interesse
pubblico. Sul punto, ha rimarcato che, in linea di
principio, l’ordine di demolizione non deve essere
necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente
vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti
apporti partecipativi del destinatario e il cui presupposto
è costituto unicamente dalla constatata esecuzione
dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo
abilitativo.
Né tampoco deve essere richiesta una specifica motivazione
che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse
pubblico alla demolizione o della comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art.
3, L. n. 241/1990, atteso che, ricorrendo i predetti
requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente
motivato con l'affermazione dell'accertata abusività
dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico
concreto e attuale alla sua rimozione (ex multis,
Cons. Stato, Sez. IV, 31.08.2010, n. 3955).
Pertanto, ha precisato che, anche nelle ipotesi in cui
intercorre un lungo periodo di tempo tra la realizzazione
dell'opera abusiva e il provvedimento sanzionatorio, tale
circostanza non rileva ai fini della legittimità
dell’ingiunzione di demolizione, sia in rapporto al preteso
affidamento circa la conformità dell'opera, sia in relazione
a un presunto ulteriore obbligo per l'amministrazione
procedente di motivare specificamente il provvedimento in
ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico a far
demolire il manufatto.
Al contempo, il giudicante ha ritenuto inconferente la
natura pertinenziale dell’intervento oggetto di
contestazione, dedotta dalla ricorrente a sostegno
dell’illegittimità dell’impugnata ordinanza di demolizione.
L’intervento in esame, ad avviso dell’adito G.A., è
riconducibile ai lavori di ristrutturazione edilizia di cui
all'art. 3, comma 1, lettera d), D.P.R. n. 380/2001,
realizzati tramite inserimento di nuovi elementi e impianti.
Ha così sottolineato che la realizzazione della canna
fumaria era soggetta al regime del permesso di costruire, ai
sensi dell'art. 10, comma 1, lettera c), in quanto
comportante una modifica del prospetto del fabbricato cui
inerisce.
In argomento, infatti, ha richiamato un costante indirizzo
giurisprudenziale che, con riferimento alle canne fumarie,
ha statuito che: “È necessario il rilascio del permesso
di costruire qualora esse non presentino piccole dimensioni,
siano di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla
sagoma dell’immobile e non possano considerarsi un elemento
meramente accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva
destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato
dalla preesistente struttura dell'immobile” (cfr. TAR
Lazio, Roma, Sez. II-ter, 18.05.2001, n. 4246).
Orbene, con riferimento al caso di specie, il Tribunale
partenopeo ha evidenziato che la canna fumaria installata
sull’edificio, avuto riguardo alle dimensioni, altezza,
conformazione e destinazione all’espulsione dei fumi di un
esercizio di ristorazione dotato di un forno, avevano inciso
sul prospetto e la sagoma della costruzione.
Per siffatta ragione, il Collegio ha puntualizzato che
l’intervento in questione necessitava del rilascio di un
permesso di costruire, atteso che lo stesso aveva
determinato la realizzazione di un elemento che in alcuna
guisa avrebbe potuto considerarsi meramente accessorio,
ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale,
come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura
dell’immobile.
Infine, ha ritenuto non meritevole di accoglimento neppure
la censura formulata dall’interessata in merito alla propria
estraneità all’abuso.
Sul punto, il Giudice amministrativo ha chiarito che, in
materia di demolizione, la figura del responsabile
dell’abuso non si identifica solo in colui che ha
materialmente eseguito l’opera ritenuta abusiva, ma si
riferisce, necessariamente, anche a colui che di quell’opera
ha la materiale disponibilità e può provvedere alla
demolizione.
Non a caso, in giurisprudenza è stato precisato che: "I
provvedimenti repressivi di illeciti edilizi possono essere
indirizzati anche a persone diverse da quelle che hanno
materialmente realizzato l’abuso, ma è anche vero che, ai
fini della legittimità delle relative ingiunzioni, è sempre
necessaria la sussistenza di una relazione giuridica o
materiale del destinatario con il bene" (Cons. Stato,
Sez. IV, 16.07.2007, n. 4008).
A ogni buon conto, ha evidenziato che il presupposto
dell’impugnato provvedimento amministrativo era la
realizzazione di un’opera in assenza di permesso di
costruire, la cui eliminazione era necessaria per
ripristinare il corretto assetto del territorio; pertanto,
ha ritenuto che l’ordine di demolizione era stato
legittimamente rivolto a colui che al momento della sua
irrogazione aveva l’attuale disponibilità del bene abusivo e
ciò indipendentemente dal fatto di averlo realizzato
(commento tratto da www.ispoa.it - TAR Campania-Napoli, Sez.
VIII,
sentenza 01.10.2012 n. 4005 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Revoca del bando di gara, colpa scusabile senza
responsabilità.
L'amministrazione non è tenuta a
risarcire il danno causato dal provvedimento illegittimo
quando la sua condotta non è rimproverabile sotto il profilo
soggettivo. Il principio e' applicabile anche in materia di
appalti pubblici, nel caso in cui la stazione appaltante
decida di revocare il bando di gara.
Lo ha stabilito la V Sez. del Consiglio di Stato, con la
sentenza 14.09.2012 n. 4894.
Il caso ad oggetto della pronuncia ha visto un Comune
bandire un gara d'appalto per la “gestione calore degli
immobili comunali”, gara, tuttavia, revocata con
delibera della giunta cui ha fatto seguito il successivo
affidamento diretto del servizio ad una azienda controllata,
vista la ricorrenza degli estremi di un noto precedente del
Consiglio di Stato allora in voga (sent. n. 5316/2003).
Una delle imprese partecipanti alla gara ha deciso di adire
il giudice amministrativo, per censurare l'illegittimità del
provvedimento di revoca e del successivo affidamento
diretto, posto in essere, secondo la tesi difensiva, in
violazione di quanto chiarito dalla giurisprudenza
comunitaria in tema di “controllo analogo”.
Al contempo la società ricorrente ha chiesto di essere
risarcita per l'illecito commesso dall'amministrazione a
seguito della violazione di legge perpetrata con
l'emanazione del provvedimento.
Il Tribunale amministrativo per la regione Lombardia,
pronunciandosi sulla questione, ha annullato la delibera
impugnata, respingendo, tuttavia, la domanda di risarcimento
dei danni promossa dalla ricorrente.
Secondo il giudice lombardo, infatti, l'accertata
illegittimità del provvedimento impugnato (lesivo dei
principi comunitari indicati dalla stessa giurisprudenza
della Corte di Giustizia, circa l'intensità del controllo
che l'amministrazione deve imprescindibilmente avere sulla
società affidataria del servizio al fine di acquietare le
esigenze della procedura pubblica), mentre risultava idonea
alla declaratoria di annullamento della delibera, non poteva
considerarsi altrettanto incisiva ai fini del giudizio di
rimproverabilità fondante l'addebito di responsabilità
extracontrattuale o precontrattuale, attesa l'insussistenza
dell'elemento soggettivo in capo all'amministrazione per via
della farraginosità delle questioni giuridiche involgenti la
vicenda e dalla persuasività del precedente
giurisprudenziale cui si era affidata l'amministrazione.
Gli argomenti del Tribunale non sono stati condivisi dalla
società, pure in parte vittoriosa, che ha infatti deciso di
appellare la decisione al Consiglio di Stato, insistendo
sulla responsabilità dell'amministrazione seme
dell'obbligazione risarcitoria, al contempo ribadendo che,
con il provvedimento adottato, l'amministrazione, oltre ad
aver agito negligentemente, sarebbe contravvenuta ai
fondamentali doveri di diligenza, correttezza e buona fede
che dovevano ispirare la fase delle trattative con le
partecipanti alla gara.
Palazzo Spada, tuttavia, ha deciso di non censurare la
decisione impugnata, di converso apprezzando la giustezza
dell'apparato motivazionale utilizzato dal Tar Lombardia
nello statuire sulla vicenda.
Il verdetto, peraltro, è preceduto da un'attenta
ricognizione dei limiti della responsabilità
dell'amministrazione in caso di attività illegittima e della
tutela da garantire al soggetto rimasto leso.
Sul punto i giudici romani hanno osservato come nessun
addebito possa muoversi all’operato dell’amministrazione
sotto il profilo della negligenza, dell’imperizia o
dell’imprudenza laddove la stessa abbia revocato la gara di
appalto con successivo incarico ad una propria società
controllata qualora la scelta dell’ente sia stata
determinata dalla convinzione della ricorrenza delle
condizioni per poter procedere all’affidamento diretto del
servizio secondo principi indicati dalla stessa
giurisprudenza del Consiglio di Stato, come era stato nel
caso di specie.
Nel dettaglio, siccome all’epoca in cui l’amministrazione ha
operato la scelta di revocare la gara non vi era, in materia
di “presupposti per l'affidamento diretto”, un sicuro
e consolidato indirizzo giurisprudenziale ed interpretativo,
la mera illegittimità del provvedimento non poteva dirsi, in
sé medesima, così grave da raggiungere il livello della
colpa così come dispone l'articolo 2043 del codice civile.
Riducendo il ragionamento ai minimi termini, l'errore, in
dette circostanze, appariva “scusabile”, di talché
l'operato dell'amministrazione, anche se ritenuto
illegittimo e dannoso, non era risarcibile.
Da notare come i giudici amministrativi abbiano escluso nel
caso in esame anche la responsabilità precontrattuale,
ricorrente, per giurisprudenza consolidata, allorquando
l'amministrazione venga meno all’obbligo di rendere al
partecipante alla gara in modo completo e tempestivo tutte
le informazioni necessarie e sufficienti a salvaguardare la
sua posizione, circa i fatti o sulla rinnovata valutazione
dell’interesse pubblico alla gara, così suscitando un
ragionevole ed incolpevole affidamento (tradito
ingiustificatamente) sulla conclusione naturale del
procedimento.
Affidamento che, nel caso di specie, non poteva rinvenirsi,
posto che l'amministrazione aveva revocato la gara ancor
prima che scadessero i termini per presentare le offerte
(commento tratto da www.ipsoa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Tutelati
i diritti dell'impiegato scavalcato. È senza segreti il cv
del collega.
L'impiegato pubblico che si ritiene «scavalcato» ha diritto
di vedere il curriculum del collega che gli è passato
avanti, aggiudicandosi l'agognata promozione.
È quanto emerge dalla
sentenza 05.09.2012 n. 2097, pubblicata dalla
Sez. II del TAR Sicilia-Catania.
Ottiene soddisfazione il dipendente di un Comune isolano.
Arrivato secondo nel concorso interno, si frega le mani al
pensiero che il primo classificato è ormai andato in
pensione: sulla selezione effettuata dall'ente, peraltro,
pende una causa promossa proprio dall'ingegnere in carriera.
Al sospirato posto di funzionario, però, l'amministrazione
destina un'altra persona.
Allora l'escluso vuole sapere che titoli ha il rivale,
rivendicando il possesso della laurea e sospettando che
evidentemente il neo-funzionario non abbia le carte in
regola per quella scrivania. Risultato: l'amministrazione
deve mostrare il fascicolo personale del dipendente, senza
poter indicare alcun profilo di discrezionalità da parte del
sindaco nel conferimento della posizione organizzativa;
nell'ente locale l'indirizzo politico deve risultare
separato da quello gestionale.
Non passa, in particolare, la tesi dell'amministrazione
locale secondo cui l'affidamento della posizione
organizzativa di responsabile dell'ufficio tecnico del
Comune sarebbe «intuitu personae», vale a dire frutto
di un rapporto fiduciario fra il dirigente e il sindaco, ciò
che implicherebbe la mancanza di un «diretto collegamento
fra il richiedente e una specifica situazione giuridicamente
rilevante».
Né rileva il riferimento agli atti di gestione del
personale, trattandosi nella specie di documenti concernenti
attività di pubblico interesse svolte da un'amministrazione
pubblica. Non giova, in questo senso, invocare una presunta
discrezionalità del sindaco: le ipotesi di attribuzione di
incarichi «fiduciari» costituiscono un'eccezione al
sistema e sono quindi limitate agli incarichi di diretta
collaborazione con il livello di indirizzo politico.
E la spiegazione va ricercata nella fondamentale distinzione
funzionale dei compiti tra organi politici e burocratici e
cioè tra l'azione di governo, che è legata ai voleri di una
certa maggioranza politica, e l'azione dell'amministrazione,
che invece non può essere di parte ma va condotta
nell'interesse di tutti. Insomma: il Comune dovrà tirar
fuori le carte. Spese di giudizio compensate
(articolo ItaliaOggi dell'11.10.2012). |
AGGIORNAMENTO ALL'11.10.2012 |
ã |
IN EVIDENZA |
I RAGIONIERI COMUNALI SOTTO "PROTEZIONE
LEGISLATIVA" ...
E I TECNICI COMUNALI?? PERCHE' LORO NO?? |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: DECRETO
SALVA ENTI/ Ragionieri in una botte di ferro. Per revocarli
il sindaco dovrà avere l'ok di Viminale e Rgs.
Tecnici garantiti rispetto al potere politico. Dl
oggi in Gazzetta Ufficiale.
Ragionieri degli enti locali in una botte di ferro. Non
saranno più soggetti alle bizze del sindaco di turno e
potranno così sorvegliare la corretta tenuta dei conti senza
temere ritorsioni. Passa anche dal rafforzamento delle
prerogative dei responsabili finanziari di comuni e province
il giro di vite sui controlli contabili introdotto dal
decreto legge n. 173/2012 (c.d. salva-enti) approvato
giovedì scorso dal consiglio dei ministri e che sarà
pubblicato oggi in Gazzetta Ufficiale (n. 236 del
09.10.2012).
Con una norma nuova di zecca che modifica l'art. 109 del
Tuel, il decreto prevede che l'incarico di responsabile
finanziario possa essere revocato esclusivamente in caso di
gravi irregolarità riscontrate nell'esercizio delle funzioni
assegnate. Per mandar via il proprio ragioniere, il sindaco
dovrà emanare un'apposita ordinanza ma solo dopo aver
acquisito il parere obbligatorio del ministero dell'interno
e della Ragioneria generale dello stato. Senza l'ok del
Viminale e di Via XX Settembre i responsabili finanziari
saranno inamovibili e questo consentirà loro una maggiore
serenità nell'esercizio delle proprie funzioni rafforzandone
l'autonomia dal potere politico.
I ragionieri avranno così più voce in capitolo sugli atti
della giunta e del consiglio. D'ora in avanti la regola
generale sarà che su ogni proposta di deliberazione che non
sia mero atto di indirizzo debba essere richiesto il parere
di regolarità tecnica del responsabile del servizio. Ma,
qualora la delibera comporti «riflessi diretti o
indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul
patrimonio dell'ente», dovrà essere acquisito anche il
parere di regolarità contabile del responsabile del servizio
di ragioneria.
Se l'ente non ha in organico i responsabili dei servizi, gli
adempimenti potranno essere svolti dal segretario comunale.
Se intendono discostarsi dal parere, consiglio e giunta
dovranno spiegare il perché dandone «adeguata motivazione
nel testo della deliberazione»
(articolo ItaliaOggi
del 09.10.2012). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: DECRETO
SALVA ENTI/ Salta l'approdo in Gazzetta. Monti pensa a
blindare il dl.
Era stato tutto prenotato, con tanto di numero da assegnare
al decreto legge (si veda ItaliaOggi di ieri). Ma il
decreto con cui il governo taglia i costi di regioni ed enti
locali, dopo le abbuffate dei vari batman, oggi
non è in Gazzetta Ufficiale.
Secondo quanto risulta a ItaliaOggi, la presidenza del
consiglio dei ministri ha preferito frenare sulla
pubblicazione per ragioni di merito ma anche di opportunità
e potrebbe addirittura decidere di rinunciare al decreto
legge per far confluire le norme direttamente nel disegno di
legge di stabilità. Una mossa un po' inconsueta dal punto di
vista della tecnica legislativa, ma non impossibile, e su
cui Palazzo Chigi dovrà sciogliere la riserva nel giro di 24
ore. L'intervento per decretazione d'urgenza sulle regioni
avrebbe più di un profilo di sospetta incostituzionalità
che, è il ragionamento, costringerebbe l'esecutivo, una
volta approdato il testo in parlamento, a mettersi sulle
barricate per difendersi dagli attacchi dei parlamentari,
già allertati dalle caste della politica locale affinché
anestetizzino i tagli.
E comunque il testo andrebbe poi modificato, con tutto
quello che ne consegue in termini di ricorso al voto di
fiducia. Tanto vale allora inserire i tagli all'interno del
ddl di Stabilità, che ha tempi più distesi per
l'approvazione e che già ci sa dovrà essere nei punti più
ostici modificato, ma nei limiti di un'invarianza di
obiettivi finanziari invalicabili. Tra l'altro, il governo
potrebbe così tenere aperto un solo provvedimento di fuoco
su cui concentrarsi in questo scorcio di legislatura. E su
cui porre la fiducia
(articolo ItaliaOggi
del 10.10.2012).
|
Ma
il decreto-legge, invece, è stato puntualmente
pubblicato (con un giorno di ritardo sulle
previsioni) sulla Gazzetta Ufficiale e lo si può
scaricare siccome di seguito linkato. |
CONSIGLIERI
COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI
COMUNALI: G.U.
10.10.2012 n. 237 "Disposizioni urgenti in materia di
finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché
ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel
maggio 2012" (D.L.
10.10.2012 n. 174).
|
Ebbene, siamo contenti per i
ragionieri-capo che adesso hanno maggiori tutele ed
alcuni non dovranno più "manovrare" il
bilancio di previsione secondo le direttive del
sindaco/assessore di turno ... anche se il
funzionario pubblico dovrebbe operare correttamente,
sempre e comunque, e mandare a quel paese tutti
coloro che avanzano richieste e/o proposte non
conformi alla legge !!
Tuttavia, checché se ne dica, ci
volete dire dove gravitano gli interessi economici??
All'Ufficio anagrafe?? All'Ufficio segreteria??
All'Ufficio ragioneria?? All'Ufficio di polizia
locale?? In nessuno di questi uffici
ma, ovviamente, all'Ufficio tecnico.
E allora, chi più del Responsabile ufficio tecnico ha
bisogno di tutele, perché persegua con la necessaria
tranquillità psico-fisica il bene comune e nel
rispetto della legge, e per evitare che l'apicale
cambi (minimo) ogni 5 anni a seconda di chi vince le
elezioni?? O, peggio ancora, non venga "esautorato"
in corsa perché non si adegua al volere del politico
di turno??
Sia chiaro, la mela marcia sta in ogni migliore
famiglia e la categoria dei tecnici comunali non è
indenne siccome letto mesi or sono dalle pagine dei
maggiori quotidiani nazionali: non solo corrotti,
concussi, collusi, conniventi, omertosi, ecc. sono indegni di collocarsi nella
pubblica amministrazione ma anche coloro che si "prostituiscono"
per accaparrarsi una miserabile "retribuzione di
posizione" accontentando, sempre e comunque
ed in
spregio alla norma di legge, chi lo ha nominato
responsabile dell'Ufficio tecnico.
Noi l'abbiamo sempre gridato da anni a questa parte ed
in tempi non sospetti: Maledetto il giorno
(e coloro che lo ha consentito) in cui è stato
abrogato il CO.RE.CO. (Comitato Regionale di
Controllo)!! (con la riforma del titolo V
della Costituzione nel lontano 2001. Per chi fosse
interessato all'argomento legga l'articolo: A.
Tallarida,
La Riforma del Titolo V della Costituzione e la
legalità dell’azione amministrativa degli enti
locali - link a
www.giustizia-amministrativa.it). E se il CO.RE.CO.
non resuscita più (come poteva sembrare, invece,
qualche mese fa dalle intenzioni del Governo)
vogliamo, allora, limitare al
minimo i danni
nella pubblica amministrazione mettendo sotto
"protezione legislativa" anche il responsabile
dell'Ufficio tecnico alla stregua del
ragioniere-capo??
Scusate, ma non
vorrete farci credere che blindando (solo) la
posizione del ragioniere-capo non vedremo più in
televisione altri casi come quello del recente
Lazio-Gate!! Ed ancora, non si
vorrà disconoscere che le "migliori" e maggiori
ruberie ruotano attorno all'Ufficio tecnico!!
(appalti di servizi/forniture, lavori pubblici,
piano regolatore generale e sue varianti ad hoc,
ecc.).
E allora, cari Governanti tecnici, per capire la bontà di questo ragionamento
non abbisogna essere laureati ma è sufficiente avere
la 3^ elementare ... e poiché dalle nostre parti si
dice "Volere è potere" e siccome il potere ce
l'avete in mano Voi (al momento) Vi si chiede un
piccolo sforzo in più per ridare fiducia ai
cittadini e credibilità alle Istituzioni consentendo
ai dipendenti pubblici onesti (che sono la
maggioranza) di poter lavorare al meglio,
nell'interesse generale del Paese, ma con
(ovviamente e necessariamente) maggiori tutele ...
11.10.2012 - LA
SEGRETERIA PTPL |
SINDACATI &
ARAN |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Regioni ed Autonomie Locali-Raccolta sistematica.
La raccolta sistematica si propone di facilitare la lettura
dei diversi contratti collettivi nazionali di lavoro
vigenti, stipulati negli anni, offrendone una visione
unitaria e sistematica.
Essa è stata redatta attraverso la collazione delle clausole
contrattuali vigenti, raccolte all’interno di uno schema
unitario, per favorire una più agevole consultazione.
A tal fine, sono state aggregate tutte le clausole afferenti
a ciascun istituto contrattuale, anche quelle definite in
tempi diversi nell’ambito di differenti CCNL, conservando
tuttavia la numerazione vigente ed il riferimento al
contratto di origine.
Si tratta, pertanto, di un testo meramente compilativo che,
non avendo carattere negoziale, non può avere alcun effetto
né abrogativo, né sostitutivo delle clausole vigenti, le
quali prevalgono in caso di discordanza.
La riproduzione dei testi forniti nel formato elettronico è
consentita purché ne venga menzionata la fonte ed il
carattere gratuito. La raccolta è il frutto di una selezione
redazionale. L’Aran non è responsabile di eventuali errori o
imprecisioni, nonché di danni conseguenti ad azioni o
determinazioni assunte in base alla consultazione della
stessa.
---------------
Nota: navigando all’interno del documento PDF, per
tornare alla vista precedente utilizzare i tasti ALT + tasto
direzionale sx (ARAN,
settembre
2012). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 41 dell'11.10.2012, "Procedure
gestionali riguardanti i criteri e le modalità per la
presentazione delle domande per il riconoscimento della
figura di tecnico competente in acustica ambientale e
relativa modulistica" (decreto
D.U.O. 04.10.2012 n. 8711). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
EDILIZIA
PRIVATA - VARI:
Oggetto: Immobili di interesse culturale - Profili
catastali (Agenzia del Territorio,
circolare 09.10.2012 n. 5).
---------------
Nota del Territorio. L'interesse culturale non influisce sul
catasto. Ma i proprietari possono chiedere l'annotazione.
Il riconoscimento dell'interesse culturale di un immobile
non influisce sul classamento del bene, in quanto la
categoria catastale deve essere attribuita in base alle sue
caratteristiche, alla destinazione e al contesto
territoriale in cui è inserito. Ma i proprietari di immobili
storici e artistici possono comunque chiedere che il vincolo
risulti anche in catasto, oltre che nei registri
immobiliari, presentando un'apposita domanda di annotazione.
Lo ha chiarito l'Agenzia del Territorio con la
circolare 09.10.2012 n. 5, diffusa ieri.
Dunque, il regime vincolistico adottato per determinati beni
non ha alcuna influenza sull'accertamento catastale e non
condiziona l'attribuzione della categoria. Secondo
l'Agenzia, la categoria va attribuita «sulla base della
destinazione e delle caratteristiche, costruttive e
tipologiche, proprie dell'unità immobiliare, a prescindere
dall'intervenuto riconoscimento o meno dell'interesse
culturale». Così come l'inquadramento in una determinata
categoria catastale non può avere alcuna incidenza sul
successivo riconoscimento di interesse culturale e sulle
relative agevolazioni fiscali.
L'Agenzia ricorda che anche l'inquadramento nella categoria
A/9 (castelli e palazzi di particolare pregio) non è
connessa al riconoscimento dell'interesse storico o
artistico del bene. Stesso discorso vale per le costruzioni
tipiche inquadrate nella categoria A/11: dammusi, sassi e
trulli. Questa classificazione prescinde dall'eventuale
attribuzione del vincolo di interesse culturale.
Tuttavia, precisa la circolare, può risultare dagli atti
catastali l'esistenza del vincolo, per rendere note le
caratteristiche particolari di questi beni e per gli effetti
che ha sul piano fiscale. Per esempio l'articolo 13 del dl
salva Italia (20/2011), che disciplina la nuova imposta
locale (Imu), riconosce un trattamento agevolato per gli
immobili di interesse storico-artistico, con riduzione della
base imponibile al 50%.
Pertanto, non solo nei registri immobiliari, ma anche in
catasto può essere disposta, su richiesta degli interessati,
un'annotazione che ponga in risalto il carattere culturale
degli immobili. Nella domanda di annotazione devono essere
indicati gli estremi di trascrizione nei registri
immobiliari «del relativo provvedimento di dichiarazione
o di verifica». Negli atti catastali verrà poi iscritta
la seguente annotazione: «Immobile riconosciuto di
interesse culturale, ai sensi del dlgs n. 42 del 2004 - Nota
di trascrizione del..., reg. gen. n...».
L'Agenzia, però, pone in rilievo che l'annotazione può
essere apposta solo se nel provvedimento che ha riconosciuto
l'interesse culturale dell'immobile siano correttamente
indicati i dati di identificazione catastale. In caso
contrario gli interessati devono fare istanza per la
riattivazione del procedimento, al fine di ottenere dal
ministero dei beni culturali l'attestazione che sussistono i
presupposti per l'assoggettamento alla tutela. Questa
procedura va esperita anche nei casi in cui l'identificativo
venga modificato, in seguito alla presentazione della
dichiarazione di variazione per fusione, divisione o
ampliamento.
L'annotazione di interesse culturale non può mai essere
disposta per gli immobili censiti in catasto senza
attribuzione di rendita. Mentre, si legge nella circolare,
può essere traslata d'ufficio «a seguito delle variazioni
eseguite direttamente dall'Agenzia del territorio, sulla
base delle disposizioni vigenti, ovvero per l'aggiornamento
degli atti del catasto che non implicano la variazione degli
identificativi catastali»
(articolo ItaliaOggi
del 10.10.2012). |
APPALTI:
Oggetto: Legge 07.08.2012 n. 134, di conversione con
modificazioni del cd. “Decreto Sviluppo” (D.L. 83/2012):
Responsabilità solidale nei contratti di appalto. Primi
chiarimenti ministeriali (ANCE Bergamo,
circolare 09.10.2012 n. 245). |
APPALTI:
OGGETTO: Articolo 13-ter del DL n. 83 del 2012 -
Disposizioni in materia di responsabilità solidale
dell’appaltatore - Chiarimenti (Agenzia delle Entrate,
circolare 08.10.2012 n. 40/E).
---------------
Circolare delle Entrate sugli obblighi
introdotti dal decreto sviluppo (83/2012). Responsabilità
solidale alleggerita. Documenti fiscali solo dal 12 agosto.
E autocertificazione
Responsabilità solidale negli appalti meno pesante per le
imprese. L'obbligo di acquisire la documentazione fiscale
sulle ritenute Iva e Irpef da parte dei committenti e degli
appaltatori scatta soltanto per i contratti e i subcontratti
stipulati dopo il 12.08.2012. La documentazione va chiesta
per i pagamenti effettuati dopo l'11.10.2012.
E in luogo della «asseverazione» del commercialista, del Caf
o del consulente del lavoro è ammessa anche
l'autodichiarazione.
È quanto precisa l'Agenzia delle entrate (direzione centrale
normativa) con la
circolare 08.10.2012 n. 40/E avente a oggetto
alcuni profili interpretativi dell'articolo 13-ter del dl n.
83 del 2012 (convertito in legge 134/2012) in tema di
disciplina della responsabilità solidale dell'appaltatore,
che ha integralmente sostituito il comma 28 dell'articolo 35
del dl n. 223 del 2006, dettando nuove regole per la
responsabilità fiscale nell'ambito dei contratti d'appalto e
subappalto di opere e servizi.
La novella introduce il principio della responsabilità
dell'appaltatore e del committente per il versamento
all'Erario delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro
dipendente e dell'imposta sul valore aggiunto dovuta dal
subappaltatore e dall'appaltatore in relazione alle
prestazioni effettuate nell'ambito del contratto. La
responsabilità non viene in essere laddove
l'appaltatore/committente acquisisca la documentazione
attestante che i versamenti fiscali, scaduti alla data del
pagamento del corrispettivo, sono stati correttamente
eseguiti dal subappaltatore/appaltatore. In assenza della
documentazione il committente (verso l'appaltatore) e
l'appaltatore (verso il subappaltatore) devono sospendere il
pagamento dei corrispettivi. La norma dell'agosto scorso
ammette che la documentazione possa consistere anche in una
«asseverazione rilasciata da Caf o da professionisti
abilitati». In caso di violazione della norma scattano sia
le sospensioni dei pagamenti sia sanzioni che possono
variare da un minimo di 5.000 a un massimo di 200.000 euro.
Si tratta di una norma molto criticata da diverse
associazioni di categoria anche in relazione al fatto che i
committenti hanno proceduto alla sospensione dei pagamenti a
favore di appaltatori e subappaltatori in attesa di
indicazioni in grado di chiarire alcuni profili.
L'Agenzia delle entrate provvede a dettare qualche utile
chiarimento in primo luogo sull'entrata in vigore della
norma, precisando che «le disposizioni contenute
nell'articolo 13-ter del dl n. 83 del 2012 debbano trovare
applicazione solo per i contratti di appalto/subappalto
stipulati a decorrere dalla data di entrata in vigore della
norma, ossia dal 12.08.2012». Non solo: dal momento che si
tratta di adempimenti tributari, l'Agenzia precisa anche
che, in base allo Statuto del contribuente (legge 212/2000),
nonché in relazione al fatto che la norma incide
sull'equilibrio del rapporto contrattuale, l'obbligo di
esibire la documentazione scatta «a partire dal sessantesimo
giorno successivo a quello di entrata in vigore della norma,
con la conseguenza che la certificazione deve essere
richiesta solamente in relazione ai pagamenti effettuati a
partire dall'11.10.2012, in relazione ai contratti stipulati
a partire dal 12.08.2012».
Infine, semplificando notevolmente gli adempimenti, la
Circolare afferma che in alternativa alle asseverazioni
prestate dai Caf e dai professionisti abilitati è ammessa
anche «una dichiarazione sostitutiva -resa ai sensi del dpr
n. 445 del 2000 con cui l'appaltatore/subappaltatore
attesta l'avvenuto adempimento degli obblighi richiesti
dalla disposizione». L'autodichiarazione dovrà però indicare
il periodo nel quale l'Iva relativa alle fatture concernenti
le prestazioni eseguite è stata liquidata, o specificare il
periodo nel quale le ritenute sui redditi di lavoro
dipendente sono state versate e riportare gli estremi del
modello F24 con il quale i versamenti dell'Iva e delle
ritenute non scomputate, totalmente o parzialmente, sono
stati effettuati
(articolo ItaliaOggi
del 09.10.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: Oggetto:
documento unico di regolarità contributiva (DURC) nei lavori
privati dell'edilizia (Consorzio
dei Comuni Trentini,
circolare 02.10.2012 n. 40/2012). |
APPALTI:
Oggetto: DURC - Intervento sostitutivo della stazione
appaltante ex art. 4 D.P.R. n. 207/2010. Pagamento tramite
F24 (INAIL,
nota 28.09.2012 n. 5627 di prot. - link a www.inail.it). |
APPALTI:
Oggetto: DURC negli appalti (Consorzio dei Comuni
Trentini,
circolare 09.05.2012 n. 21/2012). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Palazzo
Vidoni ammette alcune eccezioni. Ferie monetizzate. Divieto
flessibile.
Il divieto di liquidare le ferie al
personale dipendente cessato dal servizio, imposto
dall'articolo 5, comma 8 del decreto legge sulla spending
review, non opera nei casi in cui l'impossibilità a
usufruire le ferie sia dovuta a cause indipendenti dalla
volontà dello stesso lavoratore quali, per esempio, il
decesso, la malattia, l'infortunio e l'inidoneità fisica
permanente e assoluta.
Lo ha messo nero su bianco il dipartimento della funzione
pubblica, nel testo del
parere
08.10.2012 n. 40033 di prot., con cui fa ulteriore
chiarezza sulla portata applicativa delle disposizioni
contenute all'articolo 5, comma 8, del dl n. 95/2012.
La norma, come si ricorderà, stabilisce, con un divieto di
portata generale, l'obbligatorietà della fruizione delle
ferie, riposi e permessi che spettano al personale,
prevedendo che tali giornate «non danno luogo in nessun
caso, alla corresponsione di trattamenti economici
sostitutivi». La ratio di tale disposizione è
chiara. Inserita in un contesto di razionalizzazione della
spesa pubblica, intende prevenire abusi dovuti all'eccessivo
ricorso della monetizzazione delle ferie non fruite a causa
di assenza di programmazione e di controlli da parte dei
vertici dirigenziali delle p.a..
Per palazzo Vidoni le cause di cessazione dal servizio
imputabili a malattia, dispense per inidoneità o a maggior
ragione, per decesso del dipendente, configurano cause
esaustive del rapporto di lavoro che sono dovute a fatti «indipendenti
dalla volontà del lavoratore e del datore di lavoro».
Includere questi eventi anche nel «generale divieto»
delle disposizioni sopra richiamate, a detta della funzione
pubblica, comporterebbe una preclusione ingiustificata e
irragionevole per il lavoratore stesso.
Senza dimenticare, prosegue il parere, che il diritto
comunitario (articolo 7 direttiva 2003/88) nel sancire
l'irrinunciabilità delle ferie annuali, prevede anche una
indennità sostitutiva nella sola ipotesi di fine del
rapporto di lavoro. E che anche la giurisprudenza
comunitaria ha ribadito che disposizioni nazionali non
possono prevedere che, al momento della cessazione del
rapporto di lavoro, allo stesso lavoratore che sia stato in
congedo per malattia, non sia dovuta alcuna indennità
monetaria sostitutiva delle ferie annuali non godute
(articolo ItaliaOggi
del 09.10.2012). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Spending review. La circolare. Ferie non godute,
limiti al divieto di non pagare.
LE ECCEZIONI/ Deroga allo stop alle erogazioni in caso di
licenziamento disciplinare, malattia, aspettative e
gravidanza.
Appare e poi scompare la circolare "legislativa"
della Funzione pubblica in tema di monetizzazione delle
ferie non godute. La norma è chiara: la spending review
taglia inesorabilmente la monetizzazione delle ferie
(articolo 5, comma 8, Dl 95/2012).
Quello che non è chiaro è che fine abbia fatto il
parere 08.10.2012 n. 40033 di prot.
prima pubblicata sul sito istituzionale dello stesso
Dipartimento e poi misteriosamente scomparso.
Nel merito, il tema è di quelli scottanti. Da una parte la
spending review stabilisce che le ferie non godute «non
danno luogo in nessun caso alla corresponsione di
trattamenti economici sostitutivi» mentre, a livello
interpretativo, si cerca di mitigare quel perentorio «in
nessun caso» contenuto nel testo normativo. Sarà che
l'interprete istituzionale si è accorto che questa volta il
legislatore si è allargato troppo? Con ogni probabilità è
così.
Già ai primi di agosto la Funzione pubblica aveva ammesso
che, in alcuni limitati casi, si potessero liquidare le
ferie non godute (nota prot. 32397 del 06/08/2012). Ma è con
l'ultimo parere che viene chiarita la ratio.
L'obiettivo è colpire gli abusi correlati all'assenza di
programmazione da parte del datore di lavoro e all'utilizzo
improprio delle possibilità di riporto previste nei
contratti collettivi. In sintesi le ferie non potranno
essere liquidate quando alla cessazione del rapporto di
lavoro concorre attivamente il lavoratore; al contrario sono
ammessi tutti quei casi indipendenti dalla volontà del
lavoratore e dalla capacità organizzativa del datore di
lavoro.
Riprendendo il testo della norma si ha, quindi, una
presunzione di colpa (abuso) nei casi di cessazione
derivanti da mobilità (anche se in questo caso non c'è una
cessazione e quindi non era possibile liquidare le ferie
neppure prima), dimissioni, risoluzione, pensionamento e
raggiungimento del limite di età. Il Dipartimento da una
parte ha aggiunto il licenziamento disciplinare ed il
mancato superamento del periodo di prova e dall'altra ha
aperto la strada ai casi di decesso, di dispensa per
inidoneità permanente e assoluta, di malattia, di
aspettativa e di gravidanza. Negare una deroga in questi
casi comporterebbe un preclusione ingiustificata ed
irragionevole per il lavoratore, che si è trovato
nell'impossibilità di godere di un proprio diritto.
A supporto di queste tesi vengono richiamati prima i
principi comunitari (articolo 7 della Dir. 2003/88) e poi la
giurisprudenza, sia europea che italiana. Giurisprudenza
che, a più riprese, ha riconosciuto il diritto alla
liquidazione delle ferie non godute per malattia e inabilità
al servizio. Anche in questi casi, prima di procedere al
pagamento in questione, dovrà essere verificato il rigoroso
rispetto delle norme che consentono il riporto nel tempo
delle ferie, ovvero le documentate cause di servizio.
A livello interpretativo si cerca di mettere una toppa ad un
testo normativo che si pone in contrasto sia ai principi
generali (europei e costituzionali) che alla costante
giurisprudenza
(articolo Il
Sole 24 Ore
del 09.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: PERSONALE/
Dirigenti, due pesi e due misure. Gli incarichi a termine
non subiscono il limite di spesa del 50%. La Funzione
pubblica risponde al comune di Trani. Ma la tesi non
convince.
I contratti di lavoro dirigenziali a tempo determinato, ai
sensi dell'articolo 110, comma 1, del dlgs 267/2000 non
subiscono il limite di spesa del 50% dell'importo
complessivo dei contratti di lavoro flessibile del 2009.
Dopo la sezione autonomie della Corte dei conti
(deliberazione 12.06.2012, n. 12), è il ministero della
Funzione pubblica a giungere a questa conclusione, tuttavia
impossibile da condividere, col parere
11.07.2012 n. 28195 di prot., rivolto al comune di
Trani.
Secondo il parere di palazzo Vidoni, in primo luogo occorre
precisare che il limite di spesa previsto dall'articolo 9,
comma 28, della legge 122/2010 costituisce un limite
finanziario complessivo a tutte le possibili forme di lavoro
flessibile enunciate dalla norma, fugando il dubbio che si
debba riferire il tetto alle singole spese per singola
tipologia.
Lo scopo della norma secondo il parere è chiaro: impedire
alle amministrazioni soggette a tetti alle assunzioni a
tempo indeterminato di eludere tale regime limitativo,
ricorrendo ad assunzioni a termine.
Gli incarichi previsti dal combinato disposto dell'articolo
110 del Tuel e dell'articolo 19, commi 6 e 6-quater del dlgs
165/2001, sono ovviamente rapporti di lavoro a tempo
determinato, ammette palazzo Vidoni.
Sorprendentemente, tuttavia, il parere sostiene che gli
incarichi dirigenziali a contratto sfuggono al limite di
spesa dell'articolo 9, comma 28, in quanto l'articolo 19,
comma 6-quater, del dlgs 165/2001 ha introdotto un sistema
di limiti numerici alle assunzioni di dirigenti a contratto.
Ciò, secondo palazzo Vidoni, determinerebbe di riflesso
anche un tetto di spesa massimo anche per tali incarichi. La
deroga all'articolo 9, comma 28, tuttavia, può operare solo
a condizione che si rispetti il limite numerico ai contratti
dirigenziali a termine previsto.
Tale conclusione non è, tuttavia, condivisibile. In primo
luogo per la contraddizione irrisolvibile con la premessa:
se, come correttamente sostenuto dal parere, l'articolo 9,
comma 28, riguarda tutte le forme flessibili di lavoro, non
vi è alcuna ragione per considerare i contratti a termine
dirigenziali, che sul piano strettamente lavoristico sono
contratti di lavoro come gli altri, esclusi dal tetto della
spesa del 50%.
In secondo luogo, è da rilevare che quello previsto
dall'articolo 19, comma 6-quater, del dlgs 165/2001 non sia
un limite di spesa diverso e derogatorio rispetto a quello
del 50% sulle spese del 2009. La dimostrazione di ciò è data
dall'interpretazione letterale del detto articolo 19, comma
6-quater, che fissa le percentuali entro le quali gli enti
locali possono assumere dirigenti a tempo determinato
definendole come «limite massimo». Il legislatore,
dunque, non attribuisce agli enti locali un tetto fisso e
prestabilito di dirigenti a contratto. Poiché, invece, è un
«limite massimo» è evidente che esso può essere
raggiunto solo nella misura in cui le assunzioni di
dirigenti a contratto non comportino il superamento del
tetto di spesa fissato dall'articolo 9, comma 28, del dl
78/2010, ovviamente comprensivo anche delle assunzioni di
dirigente a contratto. Le quali, possono ovviamente, anzi
debbono, laddove il limite dell'articolo 9, comma 28, non lo
consenta, avvenire anche al di sotto del «limite massimo».
Non si deve, poi, dimenticare che la sentenza della Corte
costituzionale 173/2012 a proposito dell'articolo 9, comma
28, della legge 122/2012 abbia rilevato che essa sia stata
legittimamente emanata dallo stato nell'esercizio della sua
competenza concorrente in materia di coordinamento della
finanza pubblica. Il suo obiettivo è il contenimento della
spesa per il personale flessibile. La Consulta afferma
espressamente che «l'art. 9, comma 28, censurato,
d'altronde, lascia alle singole amministrazioni la scelta
circa le misure da adottare con riferimento a ognuna delle
categorie di rapporti di lavoro da esso previste. Ciascun
ente pubblico può determinare se e quanto ridurre la spesa
relativa a ogni singola tipologia contrattuale, ferma
restando la necessità di osservare il limite della riduzione
del 50% della spesa complessiva rispetto a quella sostenuta
nel 2009».
Dunque, proprio alla luce della pronuncia della Corte
costituzionale, non può considerarsi corretto affermare che
particolari categorie di contratti a tempo determinato
possano essere sottratti al superiore vincolo del
coordinamento della finanza pubblica, se non sia il
legislatore stesso a disporlo
(articolo ItaliaOggi
del 09.10.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Danno all'immagine del fisco cedere i dati
dell'anagrafe.
Sconta la condanna al danno all'immagine, il dipendente
dell'Agenzia delle entrate che, in forza della sua funzione,
cede con profitto a terzi dati sensibili contenuti
all'interno dell'anagrafe tributaria. Oltre alla violazione
delle prescrizioni in materia di trattamento dati personali
e di condotte sancite dai regolamenti interni all'Agenzia, è
deprecabile una simile condotta perpetrata da chi, per legge
e dovere etico, è tenuto al rispetto della riservatezza
presso un pubblico ignaro dell'uso distorto dei propri dati
personali.
È quanto mette nero su bianco la sezione giurisdizionale
della Corte dei conti per la Campania, nel testo della
sentenza 06.09.2012 n. 1320, con la quale ha
condannato al risarcimento del danno all'immagine, un
dipendente dell'Agenzia delle entrate che, dietro compenso,
divulgava notizie riservate, attinte dalle dichiarazioni
fiscali di persone fisiche e giuridiche, con particolare
riguardo a diritti di proprietà mobiliari e immobiliari dei
contribuenti. Informazioni che, successivamente, venivano
utilizzate a fini investigativi e di credito.
Secondo il collegio della magistratura contabile, la
condotta del dipendente infedele aveva reso il dato
personale, ovvero quanto contenuto nelle dichiarazioni dei
redditi dei contribuenti, «un vero e proprio mercimonio».
Un disegno che la stessa Corte non ha lesinato a chiamarlo «criminoso»,
che si è snodato in palese contrasto con le prescrizioni in
materia di privacy e con le direttive interne dell'Agenzia.
Si ricordi, infatti, che lo stesso codice deontologico dei
funzionari fiscali prevede il cosiddetto dovere di
segretezza, secondo cui gli stessi, devono mantenere il
segreto sugli elementi conosciuti nell'ambito dell'attività
svolta e, comunque, devono tenere riservati tali elementi.
Con la violazione reiterata di queste prescrizioni, la Corte
ha messo in luce la particolare «odiosità» della
condotta del convenuto, perpetrata da chi per legge e per
dovere è tenuto al rispetto della riservatezza e raccoglie
informazioni presso un pubblico ignaro dell'uso distorto dei
dati personali e magari fiducioso proprio del corretto
utilizzo di essi. Da ciò, il discredito dell'Agenzia delle
Entrate) che ne consegue. Discredito che ha origine oltre
che dalla conclusione della vicenda in sede penale, anche
dalla circostanza che la vicenda ha raggiunto tutti coloro
che sono stati lesi nella loro privacy e che, di
conseguenza, hanno avuto una diversa immagine della
correttezza istituzionale dell'amministrazione finanziaria (articolo ItaliaOggi
del 10.10.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
QUESITI &
PARERI |
PUBBLICO
IMPIEGO: ANCI
RISPONDE/ Posizione organizzativa
a un soggetto esterno.
Il Comune ha conferito la responsabilità di posizione
organizzativa dell'area finanziaria a un soggetto esterno
(ex articolo 110, comma 1, del Dlgs 267/2000). Poiché sono
in atto trattative con un Comune confinante per gestire
l'area finanziaria a mezzo convenzione (ex articolo 30 del
Dlgs 267/2000) con un unico soggetto responsabile,
l'incarico di posizione organizzativa di servizio
convenzionato può essere affidato al soggetto esterno
assunto ex articolo 110?
La risposta è positiva. L'assunzione di personale apicale a
contratto (ex articolo 110, comma 1, del Dlgs 267/2000)
implica la copertura di uno specifico posto in dotazione
organica; si ritiene, dunque, che, anche a seguito di
convenzionamento del servizio tra enti, sia possibile
mantenerne la responsabilità in capo al soggetto assunto a
contratto, in possesso dei requisiti di legge
(articolo Il Sole 24 Ore
dell'08.10.2012). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
Range di onorario adeguato per la difesa in giudizio in un
ricorso al TAR.
Domanda
Si chiede di conoscere quale sia il range di onorario
adeguato, come da tariffario vigente, per l'affidamento di
un incarico legale per la difesa in giudizio in un ricorso
al TAR presentato da una ditta per il risarcimento danni
subiti per sospensione, in via di autotutela, del
procedimento amministrativo di rilascio del permesso a
costruire.
Risposta
L'art. 9, D.L.
24.01.2012, n. 1 stabilisce che: "1. Sono abrogate le
tariffe delle professioni regolamentate nel sistema
ordinistico.
2. Ferma restando l'abrogazione di cui al comma 1, nel caso
di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il
compenso del professionista è determinato con riferimento a
parametri stabiliti con decreto del Ministro vigilante, da
adottare nel termine di centoventi giorni successivi alla
data di entrata in vigore della legge di conversione del
presente decreto. Entro lo stesso termine, con decreto del
Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro
dell'economia e delle finanze, sono anche stabiliti i
parametri per oneri e contribuzioni alle casse professionali
e agli archivi precedentemente basati sulle tariffe. Il
decreto deve salvaguardare l'equilibrio finanziario, anche
di lungo periodo, delle casse previdenziali professionali.
3. Le tariffe vigenti alla data di entrata in vigore del
presente decreto continuano ad applicarsi, limitatamente
alla liquidazione delle spese giudiziali, fino alla data di
entrata in vigore dei decreti ministeriali di cui al comma 2
e, comunque, non oltre il centoventesimo giorno dalla data
di entrata in vigore della legge di conversione del presente
decreto.
4. Il compenso per le prestazioni professionali è pattuito,
nelle forme previste dall'ordinamento, al momento del
conferimento dell'incarico professionale. Il professionista
deve rendere noto al cliente il grado di complessità
dell'incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa
gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento fino
alla conclusione dell'incarico e deve altresì indicare i
dati della polizza assicurativa per i danni provocati
nell'esercizio dell'attività professionale. In ogni caso la
misura del compenso è previamente resa nota al cliente con
un preventivo di massima, deve essere adeguata
all'importanza dell'opera e va pattuita indicando per le
singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di
spese, oneri e contributi. Al tirocinante è riconosciuto un
rimborso spese forfettariamente concordato dopo i primi sei
mesi di tirocinio.
5. Sono abrogate le disposizioni vigenti che, per la
determinazione del compenso del professionista, rinviano
alle tariffe di cui al comma 1".
Con il D.L. 24.01.2012, n. 1 sono state pertanto abrogate le
tariffe professionali.
Con D.M. 20.07.2012, n. 140 sono state introdotte nuove
tabelle che prevedono, in particolare, sei diversi scaglioni
di valore e cinque fasi processuali, le cui attività vengono
forfettariamente considerate: fase di studio, introduttiva,
istruttoria, decisoria ed esecutiva. La Tabella A del D.M.
20.07.2012, n. 140 stabilisce dei parametri di liquidazione
degli onorari professionali ad opera del Giudice che possono
essere tenuti presenti dall'Amministrazione anche in sede di
valutazione della congruità dell'onorario.
In ogni caso la Giunta Comunale -al pari di qualunque altro
cliente- può revocare la propria delibera relativa alla
nomina dell'avvocato se ritiene non congruo il preventivo
presentato (08.10.2012 - tratto da www.ipsoa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
L’iscrizione alla categoria 2 dell’Albo è valida fino alla
scadenza nonostante la soppressione della categoria stessa?
(08.10.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Dove e come deve avvenire il deposito delle terre e rocce da
scavo in attesa dell’utilizzo? (08.10.2012 - link
a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Quale sarà la disciplina semplificata dell’utilizzo delle
terre e rocce da scavo per i cantieri di piccoli dimensioni?
(08.10.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Autorizzazione Unica Ambientale: Cos’è? Quando si presenta?
(08.10.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Si può delegare l’iscrizione al SISTRI? (01.10.2012
- link a www.ambientelegale.it). |
TRIBUTI:
Come verrà calcolata la Tares? (01.10.2012 - link
a www.ambientelegale.it). |
TRIBUTI:
Chi sarà obbligato al pagamento della Tares? (01.10.2012
- link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Quale documentazione dovrà accompagnare il trasporto delle
terre e rocce da scavo gestite come sottoprodotti? (01.10.2012
- link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
I trasporti di rifiuti pericolosi e non pericolosi di
propria produzione, effettuati direttamente dagli
imprenditori agricoli, necessitano di iscrizione all’Albo
Nazionale Gestori Ambientali? (01.10.2012 - link
a www.ambientelegale.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Astensione per maternità e retribuzione di
posizione.
Il Ministero dell'Interno, con parere 04.07.2012, si
esprime in ordine alla spettanza della retribuzione di
posizione per una dipendente in congedo per maternità.
Richiamate le disposizioni dell'art. 17, comma 4, del CCNL
14.09.2000 che si applica a tutte le fattispecie di cui agli
artt. 16 e 17 del d.lgs. 151/2001, il Ministero ricorda che:
- alla lavoratrice deve essere corrisposto il trattamento
economico che percevipa nel corso del mese o del periodo
quadrisettimanale precedente all'inizio del congedo di
maternità, compresa la retribuzione di posizione;
- ai sensi dell'art. 9, comma 3, del CCNL 31.03.1999 gli
incarichi di posizione organizzativa possono essere revocati
prima della scadenza, con atto scritto e motivato, in
relazione ad intervenuti mutamenti organizzativi o in
conseguenza di specifico accertamento di risultati negativi;
- il mero spostamento di servizi da un settore all'altro
dell'ente non può giustificare l'applicazione del predetto
art. 9, comma 3, CCNL 31.03.1999 che comporta, peraltro, il
disconoscimento dei diritti della dipendente in regime di
astensione obbligatoria;
- per garantire il regolare svolgimento delle funzioni
dell'ente e delle attività della posizione organizzativa il
cui titolare sia assente per maternità, la soluzione
praticabile sembrerebbe essere quella di valutare il
conferimento ad interim del relativo incarico ad altro
titolare di posizione organizzativa per la durata del
congedo (tratto da www.publika.it). |
NEWS |
ENTI LOCALI -
LAVORI PUBBLICI: LEGGE
DI STABILITÀ/ Lavori pubblici? Se ci sono soldi. E gli enti
locali dovranno anche tenere conto del Patto.
Le principali misure del ddl approvato ieri dal
consiglio dei ministri.
Lavori pubblici solo se ci sono soldi in
cassa. Le amministrazioni pubbliche potranno avviare le
procedure per l'esecuzione di lavori pubblici solo in
presenza delle risorse finanziarie, anche in termini di
cassa, necessarie al fine di rispettare i termini di
pagamento previsti dalla vigente normativa, anche attuativa
delle direttive dell'Unione europea.
Gli enti territoriali, inoltre, dovranno verificare la
compatibilità dei pagamenti con il rispetto dei vincoli
derivanti dal patto di stabilità interno.
È una delle previsioni contenute nella
bozza del disegno di legge di stabilità approvato ieri
dal consiglio dei ministri (le principali novità sono
riassunte nella tabella in pagina).
La norma prosegue stabilendo che l'efficacia dei contratti
per l'affidamento di lavori sottoscritti dalle
amministrazioni è sospesa, senza che le parti del contratto
abbiano diritto ad alcun indennizzo, nei casi in cui non sia
possibile rispettare le condizioni previste.
La sospensione cessa però nel caso in cui, anche a seguito
di eventuale rinegoziazione del contratto, l'organo
competente, su proposta del responsabile del procedimento,
attesta il rispetto delle condizioni, cioè la presenza delle
necessarie risorse finanziarie. Le disposizioni non si
applicano ad alcune tipologie di lavori, quali ad esempio
quelli relativi agli istituti scolastici e ospedalieri.
Da segnalare, a proposito di lavori pubblici, lo stop di
fatto al Ponte sullo Stretto di Messina. Per la «mancata
realizzazione» del Ponte sullo Stretto di Messina sono
stanziati 300 milioni di euro. Al Fondo per lo sviluppo e la
coesione, si legge nella norma, è assegnata una dotazione
finanziaria aggiuntiva di 300 milioni di euro per l'anno
2013 per far fronte agli oneri derivanti dalla mancata
realizzazione di interventi per i quali sussistano titoli
giuridici perfezionati alla data di entrata in vigore della
legge
(articolo ItaliaOggi
del 10.10.2012). |
APPALTI - ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
LEGGE DI STABILITÀ/ Nel civile contributo
unificato raddoppiato in caso di soccombenza. Salasso nel
processo al Tar e Cds. Un appello al Consiglio di stato
sugli appalti costerà 8 mila.
Salasso sul processo amministrativo e sulle impugnazioni
civili. Il
disegno di legge sulla stabilità mette le mani nelle
tasche di chi si rivolge ai Tar e al Consiglio di stato e
anche di chi propone un'impugnazione civile. La giustizia,
soprattutto amministrativa, costerà molto caro: si pensi, ad
esempio, che un appello al consiglio di stato in materia di
appalti, se il disegno di legge andrà in porto, costerà 8
mila euro, da versarsi subito. Contemporaneamente fissa un
tetto alle liquidazione giudiziale delle spese di
soccombenza, che penalizza gli avvocati e i clienti
vittoriosi in giudizio.
Per le impugnazioni civili (appelli e ricorsi in cassazione)
il ddl prevede un contributo unificato raddoppiato in caso
di soccombenza o di impugnazione dichiarata improcedibile o
inammissibile. In particolare viene proposta la
modificazione dell'articolo 13 del T.u. spese di giustizia,
disponendo che quando l'impugnazione, anche incidentale, è
respinta integralmente, è dichiarata inammissibile o
improcedibile, la parte che l'ha proposta è tenuta a versare
un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o
incidentale. Il versamento alla fine assume un carattere
sanzionatorio teso a punire chi ha fatto perdere tempo alle
corti.
La norma non prevede alcuna valutazione discrezionale da
parte del giudice, al fine di tenere conto della eventuale
buona fede dell'interessato. La scure è automatica in caso
di sconfitta piena, ma anche in caso di pronuncia sul rito
(inammissibilità o improcedibilità). Si tratta di un altro
tassello che disincentiva le parti a farsi le proprie
ragioni nei gradi di giudizio successivi al primo. Solo di
recente è stato inserito il filtro di ammissibilità
all'appello e ora con la prospettiva del raddoppio del
balzello, l'impugnazione diventa una pericolosissima corsa a
ostacoli.
Processo amministrativo.
Un aumento a tappeto, per primo e secondo grado, è proposto
per il processo amministrativo. Qui gli aumenti si spalmano
su tutti i tipi di procedimento. Aumenta il contributo
unificato per i ricorsi in materia di accesso ai documenti
amministrativi (articolo 116 del codice del processo
amministrativo, dlgs 104/2010) e di ricorsi avverso il
silenzio dell'amministrazione (articolo 117 del codice del
processo amministrativo, dlgs 104/2010): passa da 300 euro a
350 euro. Stesso aumento (a 350 euro) è previsto per i
giudizi aventi ad oggetto il diritto di cittadinanza, di
residenza, di soggiorno e di ingresso nel territorio dello
stato e per i ricorsi di esecuzione nella sentenza o di
ottemperanza del giudicato.
Incremento sensibile si deve registrare per tutti i giudizi
in cui si applica il rito abbreviato con termini ridotti a
metà ( materie previste dal libro IV, titolo V, del codice
del processo amministrativo e altre disposizioni speciali):
il contributo unificato passa da 1.500 euro a 1.800 euro. Ci
sono poi due materie speciali in cui si applica il rito
abbreviato, per cui la manovra del disegno di legge di
stabilità prospetta aumenti molto più pesanti. Si tratta
delle controversie in materia di provvedimenti concernenti
le procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e
forniture e di provvedimenti adottati dalle Autorità
amministrative indipendenti, con esclusione di quelli
relativi al rapporto di servizio con i propri dipendenti Ora
il contributo previsto è di 4 mila euro.
Nel disegno di legge sulla stabilità si individua una
scaletta in base al valore della causa: il contributo dovuto
è di euro 3 mila quando il valore della controversia è pari
o inferiore a euro 200 mila; per quelle di importo compreso
tra 200 mila e 1.000.000 euro il contributo dovuto è di euro
4.000 mentre per quelle di valore superiore a 1.000.000 euro
è pari ad euro 5 mila. Aumenta il contributo unificato anche
per tutti i processi amministrativi in materie diverse da
quelle sopra elencate: si passa, infatti, da 600 a 650 euro.
Ad esempio costerà 650 euro impugnare un permesso di
costruire. Gli importi del contributo unificato per i
ricorsi amministrativi sono raddoppiati per l'impugnazione:
se si va in consiglio di stato per ottenere la riforma di
una sentenza del Tar l'esborso si moltiplica per due. Il
ddl, comunque, con una ragionevole disposizione transitoria,
attribuisce i nuovi balzelli ai ricorsi notificati
successivamente all'entrata in vigore della presente legge.
Spese di lite.
Altra novità in tema di giustizia riguarda la determinazione
delle spese di soccombenza da caricare a chi perde la causa.
Il ddl stabilisce un tetto massimo: i compensi liquidati dal
giudice e posti carico del soccombente non possono superare
il valore effettivo della causa. I compensi, però, almeno
non comprendono le spese. Si generalizza una regola che
riguarda ora le cause di modesto valore: si tratta di un
taglio ai compensi degli avvocati che potrà distogliere gli
interessati dal proporre le cause (visto che pur vincendo
devono pagare l'eventuale compenso aggiuntivo al proprio
legale) (articolo ItaliaOggi
del 10.10.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
DECRETO SALVA-ENTI/ Enti, on-line i redditi dei
politici. Pubblicazione sul sito web nei comuni sopra i 10
mila abitanti. Monti rispolvera una
norma già prevista da una legge del 1982.
On-line i redditi e i patrimoni dei
politici locali. Negli ultimi ritocchi al decreto
salva-enti, Mario Monti rispolvera un'altra norma mai
attuata del nostro ordinamento. Si tratta dell'anagrafe
degli eletti, prevista da una legge vecchia ormai di 30 anni
(n. 441/1982) e poco o nulla applicata nei comuni a
differenza di quanto avviene da qualche anno a questa parte
nella pubblica amministrazione centrale anche per merito
dell'ex ministro Renato Brunetta. Ma chi di anagrafe degli
eletti non ha proprio voluto saperne sono stati i sindaci
che, a parte qualche eccezione (Milano, Roma, Bari), hanno
sempre glissato sul punto o adempiuto all'obbligo
informativo in modo molto incompleto.
A rinfrescare la memoria ai primi cittadini ci ha pensato il
decreto salva-enti approvato giovedì scorso
dall'esecutivo che introduce una norma ad hoc (art.
41-bis) nel Tuel. Gli enti locali con popolazione superiore
a 10 mila abitanti dovranno «disciplinare, nell'ambito
della propria autonomia regolamentare, le modalità di
pubblicità e trasparenza dello stato patrimoniale dei
titolari di cariche pubbliche elettive e di governo di loro
competenza».
I dossier su sindaci, presidenti di provincia, consiglieri e
assessori dovranno essere pubblicati annualmente, all'inizio
e alla fine del mandato, e dovranno contenere: i dati di
reddito e di patrimonio con particolare riferimento ai
redditi annualmente dichiarati; i beni immobili e mobili
registrati posseduti; le partecipazioni in società quotate e
non quotate; la consistenza degli investimenti in titoli
obbligazionari, titoli di stato, o in altre utilità
finanziarie detenute anche tramite fondi di investimento,
Sicav o intestazioni fiduciarie.
Per rendere più dissuasivo l'obbligo di trasparenza la
novella legislativa si appella agli enti locali affinché
introducano con regolamento un sistema di sanzioni verso chi
continuerà a fare orecchie da mercante: le multe per la
mancata o parziale ottemperanza andranno da un minimo di 2
mila euro a un massimo di 20 mila.
Fondo anti-dissesto.
Con gli ultimi ritocchi al testo del decreto il governo ha
alzato il velo sulla dotazione finanziaria del fondo
rotativo anti-dissesto che dovrà servire a evitare il
default di molti comuni prossimi al tracollo (Napoli,
Palermo, Reggio Calabria). Il fondo prevede una dotazione di
90 milioni di euro per il 2012, 100 milioni per il 2013 e
200 milioni all'anno a partire dal 2014 e fino al 2020.
Solo per quest'anno la dotazione del fondo potrà contare su
ulteriori 500 milioni di euro destinati al pagamento delle
spese di personale, alla produzione di servizi in economia e
all'acquisizione di servizi e forniture, già impegnate e
comunque non derivanti da riconoscimento di debiti fuori
bilancio
(articolo ItaliaOggi
del 10.10.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Pubblico
impiego. Via l'indennità di vacanza contrattuale. Statali,
anche nel 2014 stipendi e rinnovi bloccati.
IL NUOVO TAGLIO/ Retribuzione dimezzata nei giorni di
permesso per l'assistenza a disabili che non siano i coniugi
o i figli dei dipendenti.
Il congelamento dei salari dei dipendenti pubblici
proseguirà anche nel 2014, ma si perderà anche l'indennità
di vacanza contrattuale e si dovrà dire ufficialmente addio
ai recuperi delle tornate contrattuali perse.
La
bozza del disegno di legge di stabilità
entrata ieri in consiglio dei ministri prosegue sui binari
già preannunciati dalla prima manovra estiva del 2011, ma
aggiunge un ingrediente che rischia di essere indigesto: il
dimezzamento della retribuzione per i giorni utilizzati dai
dipendenti pubblici per l'assistenza a familiari con
disabilità. La retribuzione, secondo la bozza del
provvedimento, rimarrà piena solo se il permesso ex lege
104/1992 è dovuto a patologie del dipendente o
all'assistenza a figli e coniuge: se l'assistito è un altro
familiare (i permessi possono essere ottenuti per assistere
parenti o affini entro il secondo grado, o entro il terzo
grado se i genitori dell'assistito sono over 65 o portatori
di handicap), lo stipendio della giornata sarà dimezzato, e
si manterrà intera solo la contribuzione figurativa.
Sul resto del pacchetto, che ieri ha registrato la secca
contrarietà da parte dei sindacati, il disegno di legge non
si scosta più di tanto dalle previsioni di fatto annunciate
fin dalla prima manovra estiva del 2011, quando il Governo
Berlusconi mise in agenda come «eventuali» una serie
di proroghe alle misure che bloccano le assunzioni e
congelano gli stipendi nel pubblico impiego.
Anche nel 2014, di conseguenza, si continueranno ad
applicare i tetti agli stipendi individuali, che non
potranno superare i livelli raggiunti nel 2010, i limiti ai
fondi per i trattamenti accessori, anch'essi vincolati alle
somme del 2010, e il contributo di solidarietà che taglia
del 5% la quota di retribuzione superiore a 90mila euro e
del 10% quella che supera i 150mila euro. A queste regole,
le nuove regole scritte nel nome dell'austerità aggiungono
lo stop all'indennità di vacanza contrattuale, che tornerà
ad affacciarsi solo a partire dal 2015 e sarà regolata dai
parametri scritti nel protocollo sul costo del lavoro del
23.07.1993.
Proseguirà nel 2014, naturalmente, anche il blocco delle
retribuzioni per insegnanti e tecnici della scuola e per il
personale non contrattualizzato, cioè docenti universitari,
esercito e magistrati: per questi ultimi, l'indennità
speciale di categoria sarà ridotta del 32% sia nel 2013 sia
nel 2014, dopo il taglio del 25% subito per il 2012 (senza
però effetti previdenziali). Per chi lavora in ambasciate e
istituti di cultura all'estero, viene tagliata del 10%
l'indennità speciale (anche per gli ambasciatori). In ambito
militare, dovranno dire addio ai loro incentivi gli
ufficiali piloti in servizio permanente effettivo e i
controllori del traffico aereo. Per forze armate e polizia,
inoltre, scompare l'indennità di trasferimento per chi viene
spostato in sedi limitrofe per la soppressione del reparto
in cui lavora oggi.
L'ennesimo colpo di freno alla spesa per retribuzioni non
trascura le consulenze. Gli attuali incarichi non potranno
essere rinnovati, e un'eventuale proroga potrà essere
disposta solo per completare un progetto non ancora arrivato
al traguardo per colpe non imputabili al collaboratore.
Anche in questo caso, comunque, il compenso rimarrà quello
stabilito all'inizio. Le consulenze in materia informatica
sono invece abolite, tranne che in «casi eccezionali
adeguatamente motivati» e legati alla «soluzione di problemi
specifici».
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LE RIDUZIONI
Blocco dei contratti
Niente rinnovi contrattuali e aumenti di stipendio
individuale nemmeno nel 2014; scompare l'indennità di
vacanza contrattuale, che potrà tornare solo in riferimento
al 2015-2017. Proseguono anche nel 2014 i tagli del 5% e del
10% alle quote di stipendio superiori a 90mila e 150mila
euro annui
Permessi
Taglio del 50% ai permessi per assistenza ai disabili quando
non dovuti a patologie del dipendente, del coniuge o dei
figli. Rimane la contribuzione figurativa
(articolo Il
Sole 24 Ore del 10.10.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Professioni.
Alla Camera Governo battuto sulle modalità di determinazione
dei compensi: passa la linea della Commissione.
Avvocati, preventivi solo su richiesta. Mazzamuto: «escluso
il ritorno alle tariffe» - Buongiorno: «indipendenza
salvata».
Preventivo solo su richiesta,
possibilità per il Consiglio nazionale forense di esprimere
pareri sulla congruità del compenso, niente socio di
capitale e riserva di consulenza stragiudiziale.
La riforma dell'ordinamento forense fa un passo avanti alla
Camera, con l'esame dei primi 16 articoli e regge senza
perdere pezzi sui punti fondamentali e controversi. A
cominciare dall'articolo 13 sul conferimento dell'incarico e
le tariffe professionali. Sul tema più caldo della riforma
l'avvocatura vince il braccio di ferro con il Governo,
battuto con una votazione che ha bocciato l'emendamento
presentato dall'Esecutivo per chiedere l'abolizione
dell'intero articolo 13.
Un parere contrario che ha indotto il sottosegretario alla
Giustizia Salvatore Mazzamuto a un compromesso per salvare
il salvabile. La scelta, dopo il no all'emendamento del
ministero è stata quella di rimettersi all'Aula, aderendo di
fatto al lavoro fatto dalla Commissione che, se da una parte
esclude il ritorno delle tariffe facendo salvo il principio
della libera determinazione del compenso, dall'altra concede
molto ai desiderata dei legali.
«Dopo la bocciatura del nostro emendamento -spiega il
sottosegretario alla Giustizia Salvatore Mazzamuto- abbiamo
scelto il male minore e deciso di rimetterci all'Aula per
far passare almeno le modifiche fatte dalla Commissione.
Diversamente c'era il rischio che l'articolo 13 restasse
com'era e che venissero ripristinate la tariffe. Il Governo
aveva chiesto la soppressione dell'articolo 13 perché si
tratta di una norma che non si armonizza né con il Dl
professioni né con il decreto parametri. Oggi -conclude il
sottosegretario- è passato "lo statuto speciale" degli
avvocati. Alla categoria sono riconosciute possibilità non
previste per altre professioni».
Dopo il voto della Camera, che molto difficilmente verrà
ribaltato dal Senato, gli avvocati faranno il preventivo
solo su richiesta e potranno usare i parametri come criterio
orientativo nei rapporti con il cliente. Inoltre al
Consiglio nazionale forense sarà consentito esprimere pareri
sulla congruità dei compensi mentre il consiglio dell'ordine
potrà tentare una conciliazione in caso di controversia .
Via libera anche alla riserva di consulenza legale
stragiudiziale, purché vengano rispettate due condizioni:
che si tratti di materie connesse all'attività
giurisdizionale e che venga esercitata in maniera
sistematica, organizzata e continuativa.
Pollice verso dell'aula anche per il socio di puro capitale.
«Il Governo aveva preso atto che la governance non poteva
essere in mano al socio capitalista, ma sono state respinte
anche le altre soluzioni -sottolinea Salvatore Mazzamuto-
per questo ci siamo rimessi all'Aula. Ora i tempi della
delega sono stati ridotti da un anno a sei mesi per restare
dentro la legislatura».
Tempi a cui pensa anche il presidente della commissione
giustizia della Camera Giulia Bongiorno, che respinge al
mittente le accuse di sostenere una legge che tutela
interessi di parte. «La riforma degli avvocati ha un solo
obiettivo: quello di assicurare l'indipendenza della
categoria. L'iter è ancora lungo -spiega Giulia Bongiorno-
ma lavoriamo per portare a casa lo statuto entro la
legislatura».
Soddisfatto ma scaramantico il presidente dell'Oua Maurizio
de Tilla. «Ora c'è il sole speriamo che non piova domani».
Ma sul domani non c'è certezza. Almeno per quanto riguarda
la data per completare l'esame del testo e passare al voto
degli altri emendamenti, fermi per ora all'articolo 16
(articolo Il
Sole 24 Ore
del 10.10.2012). |
ENTI LOCALI: Pubblica
amministrazione. La spesa per i mobili ridotta dell'80%.
Luci spente per le strade e stop all'acquisto di auto.
IMMOBILI/ Nuovo giro di vite: dal 2014 gli acquisti saranno
possibili solo se indispensabili e al «giusto prezzo» deciso
dal Demanio.
La crisi della finanza pubblica arriva a
spegnere l'illuminazione pubblica, almeno a giudicare dalla
bozza della legge di stabilità entrata ieri in Consiglio dei
ministri. Per risparmiare, Regioni e Comuni (ma anche lo
Stato per le aree di sua competenza) dovranno decidere in
quali strade spegnere le luci di notte, in quali prevedere
un'illuminazione «affievolita» e dove invece mantenere il
livello di luce normale.
L'operazione «cieli bui» si inserisce in un nuovo
capitolo di spending review concentrato ancora una
volta sul tema dei «consumi intermedi», già
protagonista del decreto di luglio. Oltre ai lampioni,
finiscono nel mirino gli acquisti e i leasing delle auto
(vietati da ieri), le acquisizioni di immobili, le spese per
arredamento (taglio dell'80%).
L'ennesima stretta si applica a tutte le pubbliche
amministrazioni centrali e periferiche e, più in generale, a
tutti gli enti inseriti nell'elenco Istat per il conto
economico consolidato della Pa. Una platea in cui, ancora
una volta, rischiano di essere coinvolte anche le casse
previdenziali professionali, proprio in queste settimane
impegnate in un braccio di ferro con il Governo
sull'applicabilità delle misure contenute nel decreto estivo
sulla revisione di spesa. In fatto di autovetture di
servizio, la norma è drastica: fino al 31.12.2014, le
pubbliche amministrazioni non potranno più acquistare
automobili o sottoscrivere contratti di leasing.
Le procedure di acquisto avviate fino a ieri, ma non ancora
arrivate al traguardo, sono revocate per legge, e negli enti
territoriali il rispetto di questa regola è condizione
indispensabile per accedere alle risorse del fondo
anti-dissesto appena introdotto dal decreto enti locali.
Esclusi dallo stop alle auto solo forze dell'ordine, vigili
del fuoco e servizi sociali e sanitari (ma in questo caso
solo se l'acquisto riguarda attività necessarie a garantire
i livelli essenziali di assistenza).
Anche sugli immobili, il blocco è quasi totale ma, almeno
secondo le bozze disponibili fino alla tarda serata di ieri,
partirà dal 01.01.2014. Nel nuovo regime, le pubbliche
amministrazioni potranno investire nel mattone solo se il
responsabile del procedimento mette la firma in fondo a un
atto in cui si attesta che l'acquisto è indispensabile e non
può essere differito, e l'agenzia del Demanio certifica
(dietro rimborso spese) che la il prezzo è giusto: nel caso
delle amministrazioni centrali, queste saranno condizioni
indispensabili per ottenere il via libera per decreto da
parte del ministero dell'Economia (introdotto dalla prima
manovra estiva del 2011).
La regola nasce per fermare il gigantismo immobiliare che ha
caratterizzato alcune amministrazioni centrali e non, ma
anche per evitare il ripetersi di vicende controverse come
il «caso di Via della Stamperia», un immobile venduto
per 44 milioni alla cassa psicologi da una società
immobiliare che l'aveva acquistato poche ore prima per 26
milioni.
Sempre nell'ottica di razionalizzazione del patrimonio, un
fondo da 500 milioni nel 2013 e un miliardo dal 2014 servirà
all'Economia per pagare gli affitti di immobili statali
conferiti a fondi immobiliari. La cura non dimentica poi
l'arredamento, che nel 2013 e nel 2014 non potrà assorbire
più del 20% delle risorse dedicate allo stesso scopo nel
2011. I risparmi così ottenuti andranno conferiti al
bilancio dello Stato: salvi da quest'ultimo obbligo enti
vigilati dalle Regioni e dalle Province autonome (ma non le
casse previdenziali).
Chiude il capitolo il rafforzamento dei parametri Consip,
che per gli acquisti di beni e servizi da parte dello Stato
potranno essere derogati solo per contratto
(articolo Il Sole 24 Ore
del 10.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI: I
chiarimenti delle Entrate. Al debutto la disciplina sulla
responsabilità comune per appaltatore e subappaltatore. Al
via gli appalti «solidali».
Le nuove regole applicate ai pagamenti effettuati da giovedì
prossimo
LA NOVITÀ/ Tra la documentazione da fornire alla controparte
per ottenere lo sblocco dei pagamenti ammessa anche
l'autocertificazione.
Arrivano le prime risposte dell'agenzia
delle Entrate sulle disposizioni che prevedono la
responsabilità solidale dell'appaltatore con il
subappaltatore in caso di omesso versamento dell'Iva e delle
ritenute fiscali da parte di quest'ultimo, oltre a una
pesante sanzione per il committente (si veda Il Sole 24 Ore
del 24 settembre scorso).
Con la
circolare 08.10.2012 n. 40/E
le Entrate affrontano i temi della decorrenza dei nuovi
adempimenti e delle modalità con cui essi possono essere
concretizzati.
L'articolo 13-ter del Dl 83/2012 ha riscritto il comma 28
dell'articolo 35 del Dl 223/2006, prevedendo, in caso di
appalti di opere e servizi la responsabilità solidale
dell'appaltatore con il subappaltatore, con riferimento al
versamento delle ritenute sui redditi di lavoro dipendente e
dell'Iva dovuta dal subappaltatore nell'ambito del rapporto
di subappalto. Questa responsabilità è limitata
all'ammontare del corrispettivo dovuto e, può essere evitata
ottenendo, anteriormente al pagamento del corrispettivo, la
documentazione attestante che i versamenti scaduti sono
stati correttamente eseguiti.
Inoltre, il Dl 83 ha previsto una sanzione amministrativa da
5mila a 200mila euro in capo al committente, nel caso in cui
paghi l'appaltatore che non sia in possesso di questa stessa
documentazione (relativa sia all'appaltatore che a tutti i
subappaltatori). Peraltro, la circolare accenna a una
responsabilità solidale anche di questo soggetto che non
emerge dalla norma.
L'Agenzia riconosce che la disposizione sta generando
difficoltà applicative al punto che, essendo il pagamento
delle prestazioni il momento rilevante ai fini della
responsabilità, il risultato pratico è che "nessuno paga
nessuno".
Il primo punto chiarito è che le nuove disposizioni trovano
applicazione solo per i contratti di appalto o subappalto
stipulati a decorrere dal 12 agosto scorso, relativamente ai
soli pagamenti effettuati a partire dall'11 ottobre prossimo
(60 giorni dall'entrata in vigore, in applicazione dello
Statuto del contribuente). Incidendo sul pagamento del
corrispettivo, la norma potrebbe infatti alterare il
rapporto sinallagmatico relativo ai contratti già stipulati,
che vengono quindi posti fuori dal campo applicativo di
queste disposizioni. L'Agenzia sembra sottovalutare il fatto
che il comma 28 dell'articolo 35 era già stato sostituito
(con una disposizione in parte diversa dall'attuale)
dall'articolo 2, comma 5-bis, del Dl 16/2012, per cui
occorre in qualche modo "sterilizzare" anche il periodo di
vigenza di quella formulazione normativa, altrimenti in
vigore dal 29 aprile all'11 agosto.
Il secondo (e ultimo) aspetto affrontato dalla circolare
riguarda la documentazione da fornire alla propria
controparte per ottenere lo sblocco dei pagamenti, che "può"
(non "deve") consistere nell'asseverazione rilasciata da uno
dei soggetti abilitati previsti dalla norma (commercialisti,
consulenti del lavoro, responsabili Caf). Per cui,
suggerisce la circolare, «si può ammettere il ricorso ad
ulteriori forme di documentazione idonee a tale fine», come,
ad esempio, «una dichiarazione sostitutiva –resa ai sensi
del Dpr 445/2000– con cui l'appaltatore/subappaltatore
attesta l'avvenuto adempimento degli obblighi richiesti
dalla disposizione». Il problema sarà comprendere in che
misura appaltatori e committenti saranno disposti ad
accettare queste autocertificazioni, poiché si ha notizia
che molti contratti sono già stati modificati obbligando
espressamente la controparte alla attestazione resa da
terzi.
Circa il contenuto della dichiarazione sostitutiva (e,
quindi, di riflesso, anche dell'attestazione da parte del
professionista o responsabile Caf), essa deve contenere
l'indicazione: del periodo nel quale l'Iva relativa alle
fatture concernenti i lavori eseguiti è stata liquidata,
specificando se dalla liquidazione è scaturito un versamento
di imposta, ovvero se in relazione alle fatture oggetto del
contratto è stato applicato il regime dell'Iva per cassa
oppure la disciplina del reverse charge; del periodo
nel quale le ritenute sui redditi di lavoro dipendente sono
state versate, mediante scomputo totale o parziale; degli
estremi del modello F24 con il quale i versamenti dell'Iva e
delle ritenute non scomputate, totalmente o parzialmente,
sono stati effettuati; infine, dell'affermazione che l'Iva e
le ritenute versate includono quelle riferibili al contratto
di appalto/subappalto per il quale la dichiarazione viene
resa.
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Le questioni aperte
01 | L'AMBITO OGGETTIVO
Sulle nuove
disposizioni che prevedono la responsabilità solidale
dell'appaltatore con il subappaltatore in caso di omesso
versamento dell'Iva e delle ritenute fiscali dovrà essere
chiarito l'ambito oggettivo, che, oltre all'appalto di opere
e servizi, coinvolge anche quelli "di forniture",
accezione che necessita di un approfondimento
02 | IL PROFESSIONISTA
Se è chiaro che la mendace attestazione del subappaltatore
(o dell'appaltatore) determina l'applicazione delle sanzioni
previste dal Dpr 445/2000, occorre comprendere quando e cosa
rischia il professionista che rilascia una attestazione che
poi si rivela non corretta. Quali sono i controlli che vanno
esercitati? Come può essere assicurato il rischio derivante
da questa prestazione?
Va sottolineato che dalla circolare si comprende come
l'attestazione vada rilasciata anche quando l'obbligo dei
versamenti Iva non è mai sorto (reverse charge o Iva
per cassa), con una specie di "attestazione in negativo",
che potrebbe forse essere utilizzata anche quando si tratta
del primo pagamento non preceduto da fattura.
03 | LA LISTA DEI DIPENDENTI
Infine, la circolare, analizzando il contenuto della
dichiarazione da rilasciare, non fa menzione degli estremi
dei dipendenti che hanno lavorato nell'appalto/subappalto
considerato, ma è chiaro che una qualche forma di verifica
sulla lista nominativa da parte di chi deve rendere
l'attestazione è del tutto prevedibile
(articolo Il Sole 24 Ore
del 09.10.2012). |
APPALTI SERVIZI: Stop
nelle Regioni prive dei bacini. Servizi pubblici,
affidamenti solo in ambiti ottimali.
ENTRO FINE ANNO/ Le gestioni in house devono essere motivate
da una relazione pubblicata su Internet con le ragioni della
scelta.
Rischio-blocco per gli affidamenti di servizi pubblici nelle
Regioni che non hanno ancora costruito gli ambiti
territoriali ottimali chiesti dalla manovra-bis del 2011.
Il decreto crescita approvato la scorsa settimana al
Consiglio dei ministri torna a intervenire sui servizi
pubblici locali, rilanciando le "liberalizzazioni"
sopravvissute alla sentenza 199/2012 con cui la Corte
costituzionale ha cancellato a luglio le norme-fotocopia
(articolo 4 del Dl 138/2011) di quelle bocciate dai
referendum nel giugno 2011.
Per raggiungere l'obiettivo, il decreto prevede che nel caso
di servizi a rete a rilevanza economica gli affidamenti
siano «effettuati unicamente» dagli enti di governo
istituiti per gestire i bacini territoriali ottimali.
Problema: enti locali e Regioni avrebbero dovuto disegnare i
confini degli ambiti fin dal 30 giugno scorso, come indicato
dall'articolo 3-bis dello stesso Dl 138, ma in molti
territori l'individuazione dei bacini è lontana dal
traguardo, e in qualche caso non è nemmeno partita. In
questi casi, di conseguenza, diventerebbe impossibile
effettuare gli affidamenti, sia con gara sia in house.
Il quadro è articolato: tra le Regioni più avanti va citata
l'Emilia Romagna, che ha riunito i nove vecchi Ato
provinciali in un'agenzia unica, o il Veneto che a fine
settembre ha ridisegnato l'igiene urbana. In altre realtà è
stata avviata la costruzione degli ambiti, ma gli enti di
governance non sono ancora pronti (è il caso del
Piemonte), mentre altre Regioni non hanno nemmeno avviato la
macchina. La prospettiva, quindi, rischia di essere quella
di un blocco generalizzato degli affidamenti, superabile
solo se si tagliano drasticamente i tempi per la creazione
degli ambiti e dei loro organi di governo.
Sul fronte vero e proprio delle liberalizzazioni, invece, il
nuovo decreto non esce dai binari tracciati dalla Consulta
nella sentenza che ha cancellato i limiti all'in house. La
bussola per gli affidamenti diretti resta quella delle
regole Ue, che aprono questa strada solo se la società
affidataria è interamente pubblica, lavora in prevalenza con
l'ente affidante ed è soggetta a un controllo analogo a
quello che l'ente garantisce sui propri uffici.
Il decreto si limita ad aggiungere il tassello della
trasparenza, prevedendo che tutti gli affidamenti di questo
tipo siano accompagnati da una relazione da pubblicare sul
sito Internet dell'ente affidante in cui si dia conto delle
ragioni della scelta per l'in house e di eventuali
compensazioni economiche. Per gli affidamenti già attivi la
relazione va pubblicata entro fine anno.
Un'ultima novità riguarda gli affidamenti diretti a società
già quotate in Borsa al 01.10.2003: se i contratti non hanno
scadenza, decadranno automaticamente dal 31.12.2020
(articolo Il
Sole 24 Ore
del 09.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
VARI: IL
DECRETO CRESCITA/ Il decreto varato dal Consiglio
dei ministri. Le comunicazioni giudiziarie viaggiano solo
online. Start up, p.a. digitale, fallimenti Ecco la ricetta
per la crescita.
Infrastrutture e servizi digitali, agevolazioni per le nuove
imprese innovative, interventi di liberalizzazione in
particolare in campo assicurativo sulla responsabilità
civile auto, fallimenti telematici, procedura ad hoc per
risolvere la situazione di sovraindebitamento del
consumatore meritevole.
Queste le principali misure
introdotte dal decreto crescita, approvato giovedì scorso
dal Consiglio dei ministri su proposta del ministro dello
sviluppo economico, delle infrastrutture e dei trasporti.
Vediamo le norme nel dettaglio.
Agenda digitale. Con l'applicazione dell'agenda digitale, il
governo punta ad aumentare i servizi on-line per i
cittadini, che potranno avere un unico documento
elettronico, valido anche come tessera sanitaria, attraverso
il quale rapportarsi con la p.a. Via libera anche alle
ricette mediche digitali, al fascicolo universitario
elettronico, all'obbligo per la p.a. di comunicare
attraverso la posta elettronica certificata e di pubblicare
online i dati in formato aperto e riutilizzabile da tutti.
Viene inoltre integrato il piano finanziario necessario
all'azzeramento del divario digitale per quanto riguarda la
banda larga (150 milioni stanziati per il centro nord, che
vanno ad aggiungersi alle risorse già disponibili per il
Mezzogiorno per banda larga e ultralarga, per un totale di
750 milioni di euro).
È introdotto poi l'obbligo per le
amministrazioni pubbliche di accettare pagamenti in formato
elettronico, a prescindere dall'importo della singola
transazione. I soggetti che effettuano attività di vendita
di prodotti e di prestazione di servizi, anche
professionali, saranno inoltre tenuti, dal 01.01.2014,
ad accettare pagamenti con carta di debito (per esempio,
bancomat).
Giustizia digitale. Il decreto crescita introduce poi delle
disposizioni per snellire modi e tempi delle comunicazioni e
notificazioni giudiziarie. In particolare, nei procedimenti
civili tutte le comunicazioni e notificazioni a cura delle
cancellerie o delle segreterie degli uffici giudiziari
verranno effettuate esclusivamente per via telematica.
Modificata poi la legge fallimentare. Attraverso l'uso della
pec e di tecnologie online, le comunicazioni dei momenti
essenziali della procedura fallimentare avverranno per via
telematica.
Tra questi: a) la presentazione del ricorso per
la dichiarazione di fallimento; b) le comunicazioni ai
creditori da parte del curatore; c) la presentazione della
domanda di ammissione al passivo da parte dei creditori. Per
quanto riguarda l'amministrazione straordinaria delle grandi
imprese in crisi, la disposizione concernerà il flusso di
comunicazioni tra curatore e creditori (nel fallimento) e
tra commissario giudiziale o liquidatore e creditori (nel
concordato preventivo) e tra commissario liquidatore e
creditori (nella liquidazione coatta amministrativa).
Impresa innovativa. Per le start up vengono messi subito a
disposizione circa 200 milioni di euro, tra i fondi
stanziati dal decreto sotto forma di incentivi e fondi per
investimento messi a disposizione dalla Fondo italiano
investimenti della Cassa depositi e prestiti. Il decreto
definisce anche l'incubatore certificato di imprese start up
innovative, qualificandolo come una società di capitali di
diritto italiano, o di una societas europaea, residente in
Italia, che offre servizi per sostenere la nascita e lo
sviluppo di start up innovative.
Viene infine istituita
un'apposita sezione del registro delle imprese con
l'iscrizione obbligatoria per le start up innovative e gli
incubatori certificati così da garantirne la massima
pubblicità e trasparenza
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'08.10.2012). |
ENTI LOCALI -
VARI: Doppia
mossa sui pagamenti tracciabili.
Con due mosse il Governo mette sotto scacco l'uso del
contante e incentiva il ricorso a strumenti elettronici per
monitorare il regolamento delle transazioni commerciali.
I
provvedimenti emanati nelle ultime settimane, infatti,
intervengono in modo sempre più deciso per imporre la
tracciabilità dei pagamenti, da una parte, razionalizzando e
inasprendo il sistema sanzionatorio connesso all'uso del
contante, degli assegni e dei libretti al portatore e,
dall'altra, imponendo specifici obblighi a pubbliche
amministrazioni, a gestori di servizi pubblici e, più in
generale, a imprese e professionisti per consentire ai
cittadini l'utilizzo di carte di debito, di credito e di
altri strumenti elettronici di pagamento. Tutto questo allo
scopo chiaramente dichiarato di rafforzare i presidi di
lotta all'evasione fiscale e di monitorare in modo
tempestivo la formazione della spesa pubblica e privata.
Limiti e sanzioni
Il quadro normativo sull'utilizzo del contante, degli
assegni bancari e postali e dei libretti al portatore si
arricchisce di un ulteriore tassello che prevede per i
cambiavalute una nuova soglia e rivisita il sistema
sanzionatorio collegato all'articolo 49 del Dlgs 231/2007
(si veda la tabella pubblicata sotto). In particolare, con
il Dlgs 169 del 19 settembre 2012 (pubblicato sulla Gazzeta
n. 230 del 2 ottobre 2012), che integra le regole imposte
nel 2010 al credito al consumo, relativamente ai
cambiavalute, prevede che la negoziazione a pronti di mezzi
di pagamento in valuta abbia, in luogo del limite ordinario
di mille euro previsto per il trasferimento in contanti tra
privati, la soglia di 2.500 €.
Al contrario, per quanto riguarda le sanzioni l'articolo 18
il decreto legislativo prevede una razionalizzazione del
sistema e un innalzamento delle sanzioni pecuniarie per i
libretti di deposito bancari o postali al portatore con
importo saldo pari o superiore ad euro mille la nuova soglia
va da un minimo del 30 a un massimo del 40% (tale sanzione
per i libretti al portatore si applica anche per la mancata
estinzione al 31 marzo 2012 o per la mancata riduzione del
saldo o nel caso di trasferimento dei libretti qualora sia
stata omessa la comunicazione da parte del cedente alla
banca o alle Poste italiane entro il termine di 30 giorni).
Ulteriore intervento ha riguardo alla determinazione
dell'importo della sanzione amministrativa pecuniaria minima
applicabile che viene determinato in 3mila euro per tutte le
violazioni relative a contante, assegni e libretti al
portatore. Solo per i libretti al portatore se il saldo è
inferiore a 3mila euro la sanzione è pari al saldo.
Pagamenti elettronici
Sul versante dei pagamenti il Governo propone un'estensione
del ricorso a strumenti tracciabili rendendo obbligatori per
le pubbliche amministrazioni, per gli enti erogatori di
servizi pubblici, per imprese e professionisti l'adozione di
procedure che consentano all'utenza di regolare le singole
transazioni, almeno con la carta di debito. Sotto questo
profilo la prima misura messa in campo dal Governo è
prevista nel Dl 158/2012 ("Decreto Sanità") con cui si
impone che il pagamento di prestazioni sanitarie di
qualsiasi importo a enti o aziende del sevizio sanitario
debba essere fatto con mezzi di pagamento tracciabili. A
questo si aggiunga che per le stesse prestazioni sanitarie
erogate da studi professionali in rete il titolare dello
studio deve acquisire la necessaria strumentazione (a
esempio collegamento Pos) entro il 30.04.2013.
Sempre in materia di pagamenti tracciabili, altre novità
vengono ora dal Decreto sviluppo con cui il governo impone
alle pubbliche amministrazioni, alle società interamente
partecipate da enti pubblici o con prevalente capitale
pubblico, nonché ai gestori di servizi pubblici l'obbligo
nei confronti dell'utenza di accettare i pagamenti ad essi
spettanti anche con l'uso delle tecnologie dell'informazione
e della comunicazione. In pratica, la nuova norma dispone
che i predetti soggetti debbano consentire all'utenza di
utilizzare per i pagamenti, oltre al bonifico bancario o
postale, anche le carte di debito, di credito, le carte
prepagate ovvero, anche se questa possibilità è condizionata
all'emissione di un apposito decreto, telefoni cellulari o
altri supporti elettronici mobili. Per quanto riguarda,
infine, le imprese e i professionisti lo stesso decreto
dispone che dal 01.01.2014 tutti i soggetti che effettuano
la vendita di prodotti o l'erogazione di servizi anche
professionali, sono tenuti a accettare pagamenti effettuati
attraverso carte di debito (Bancomat)
(articolo Il Sole 24 Ore
dell'08.10.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA: Ambiente.
Le novità previste dal Dm 161/2012
Via libera al riutilizzo delle terre da scavo derivanti dai
cantieri.
In vigore il regolamento che consente di impiegare i residui
come «sottoprodotti».
Dopo la pausa del fine settimana, oggi la riapertura dei
cantieri si svolge all'insegna di una grande novità:
l'applicazione del Dm 10.08.2012, n. 161 (in vigore da
sabato 6 ottobre). Si tratta del regolamento che detta la
disciplina dell'utilizzo delle terre e rocce da scavo che –se gestite a particolari condizioni- sono considerate
sottoprodotti da riutilizzare anziché semplici rifiuti da
portare in discarica. Una disciplina attesa da molto tempo.
Da sabato scorso è abrogato l'articolo 186 del Codice
ambientale, come previsto dall'articolo 49, legge 27/2012.
Tuttavia, per i progetti con una procedura in corso ai sensi
dell'articolo 186, entro il 4 aprile 2013, sarà possibile
presentare il piano di utilizzo previsto dal nuovo
regolamento, al fine di poter godere del particolare regime
di favore ora introdotto (articolo 15). Altrimenti, senza il
piano, i progetti saranno terminati secondo la procedura
prevista dall'abrogato articolo 186. L'autorità competente è
quella che autorizza la realizzazione dell'opera o, a
seconda dei casi, quella che concede la Via o l'Aia.
Anche se nel titolo si riferisce alle terre e rocce da
scavo, il regolamento ha una portata ben più vasta poiché
(articolo 3) si applica alla gestione dei materiali da scavo
cioè suolo o sottosuolo, con eventuali presenze di riporto,
derivanti dalla realizzazione di un'opera. Ad esempio, il
decreto cita: scavi in genere (sbancamento, fondazioni,
eccetera); perforazione, trivellazione, palificazione,
consolidamento; opere infrastrutturali in generale
(galleria, diga, strada, eccetera); rimozione e livellamento
di opere in terra; materiali litoidi in genere provenienti
da escavazioni effettuate negli alvei, sia dei corpi idrici
superficiali che del reticolo idrico scolante, in zone
golenali dei corsi d'acqua, spiagge, fondali lacustri e
marini; residui di lavorazione di materiali lapidei (marmi,
graniti, pietre, eccetera) anche non connessi alla
realizzazione di un'opera e non contenenti sostanze
pericolose (quali ad esempio flocculanti con acrilamide o
poliacrilamide).
I materiali da scavo possono contenere, sempreché la
composizione media dell'intera massa non presenti
concentrazioni di inquinanti superiori ai limiti massimi
previsti dal presente regolamento, anche i seguenti
materiali: calcestruzzo, bentonite, polivinilcloruro (Pvc),
vetroresina, miscele cementizie e additivi per scavo
meccanizzato. Il regolamento, invece, non si applica ai
rifiuti provenienti dalla demolizione degli edifici o di
altri manufatti preesistenti.
Il materiale da scavo può essere un sottoprodotto solo se
rispetta una serie di condizioni, tra le quali:
- deve essere generato durante la realizzazione dell'opera;
- deve essere riutilizzato nel l'esecuzione della stessa o
di un'altra opera.
In ogni caso, il materiale non deve subire alcun ulteriore
trattamento diverso dalla normale pratica industriale (i
criteri sono indicati nell'allegato III) e deve soddisfare i
requisiti di qualità ambientale presenti nell'allegato IV.
Il piano di utilizzo del materiale da scavo è fondamentale
poiché è il documento che prova la sussistenza delle
condizioni che il nuovo regolamento richiede affinché il
materiale passi dallo status giuridico di rifiuto a quello
di sottoprodotto. L'allegato VI reca lo schema dello
specifico documento di trasporto mentre l'avvenuto utilizzo
del materiale è attestato con la dichiarazione di cui
l'allegato VII.
La nuova disciplina è sicuramente più favorevole alle
imprese rispetto al pregresso sistema. La corte di
Cassazione, però, con sentenza 31.08.2012, n. 33577 ha
ritenuto che l'articolo 186 Codice ambientale ha natura di
«norma temporanea»; quindi, ai sensi dell'articolo 2 del
Codice penale, la relativa disciplina si applica «in ogni
caso» ai fatti commessi nella vigenza della normativa in
materia di terre e rocce da scavo. Per la Cassazione «non
sarebbe, infatti, possibile attribuire la qualifica di
sottoprodotto a determinati materiali sulla base di
disposizioni amministrative» che erano inesistenti all'epoca
della loro produzione.
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I riporti. Semplificazione da potenziare.
Alle Pmi conviene trattare i materiali come «rifiuti».
Il regolamento 161/2012 era atteso da tempo in molti grandi
cantieri italiani: dalla variante di valico all'Expo
milanese, dall'alta velocità di Firenze alla Torino-Lione e
così via. Tuttavia, se per i grandi cantieri il complesso
sistema che ne deriva può essere attuato abbastanza
facilmente, le piccole imprese potrebbero, invece, avere più
di un problema (anche per il trasporto) e potrebbero
ritenere più conveniente continuare a trattare i materiali
come rifiuti.
Il Dm 161/2012 abbozza anche una disciplina dei materiali di
riporto di origine antropica –derivanti da scavo, da
demolizioni e così via– che si possono presentare frammisti
a suolo e sottosuolo. È quello dei riporti, dall'avvento del
Codice ambientale, uno dei principali problemi dei cantieri
italiani. La recente interpretazione autentica di cui
all'articolo 3, legge 28/2012 li qualifica come matrici
ambientali al pari del suolo.
Secondo il nuovo regolamento i
riporti, se frammisti al terreno naturale in quantità fino
al 20% in massa (ma il decreto nulla dispone in ordine a
come debbano essere effettuate le misurazioni, rendendosi
sul punto quasi inutile) sono considerati alla stregua del
terreno naturale e gestiti con il piano di utilizzo. Invece,
la quota di riporti in esubero rispetto al 20%, in assenza
di una precisa indicazione in tal senso nell'ambito del
nuovo Dm, potrebbe essere considerata come rifiuto; semmai,
gestibile come sottoprodotto nel rispetto dell'articolo
184-ter, comma 1, Codice ambientale (assai più gravoso e
incerto rispetto al sistema del piano di utilizzo). Ferma
restando la singolarità di tale disposizione, resta comunque
il problema di capire se essa si applichi solo ai riporti
che escono dal cantiere oppure anche a quelli che rimangono
al suo interno (articolo 185, comma 1, lettere b) e c) del
Codice ambientale), i quali, a rigore, in quanto assimilati
al "suolo", ove contaminati, sono oggetto di bonifica.
Tale distinzione sarebbe quantomai opportuna per evitare un
inutile quanto dannoso spostamento di tali materiali in giro
per l'Italia (e non solo) nei casi in cui i materiali di
riporto siano destinati, ove necessario previa bonifica, a
rimanere in sito e in tal caso (in quanto assimilati al
suolo) già esclusi dalla definizione di rifiuto. Di entrambe
le problematiche, il Governo sembra essersi reso conto; e
infatti, nel disegno di legge sulle semplificazioni che
l'Esecutivo sta predisponendo sono previsti appositi
articoli per risolvere oltre al problema dei cantieri di
piccola dimensione (cioè quelli ove la produzione di
materiale non superi i 6mila metri cubi) anche quello della
corretta disciplina dei riporti.
Quelli che restano nel cantiere (articolo 185, comma 1,
lettere b) e c) Codice ambientale con ciò superando anche il
nuovo regolamento) sarebbero da considerare come "suolo" a
prescindere dalle percentuali di materiale frammisto, mentre
la soglia del 20% prevista dal nuovo Dm 161/2012
continuerebbe ad applicarsi solo ai materiali di riporto
destinati a essere recapitati fuori dal cantiere (articolo
185, comma 4, Codice ambientale)
(articolo Il Sole 24 Ore
dell'08.10.2012). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Servizi
finanziari, più poteri al «capo».
LE SANZIONI/
La mancata approvazione del bilancio nei termini fa scattare
lo scioglimento automatico del Consiglio comunale.
L'incarico di responsabile del servizio finanziario può
essere revocato esclusivamente per gravi irregolarità e
previo parere obbligatorio dei ministeri dell'Interno e
dell'Economia.
A riportare al centro dell'attenzione questa
figura è il
decreto legge salva-enti locali, che fa rientrare il
suo rafforzamento nell'ampia girandola di modifiche, mosse
soprattutto dalla preoccupazione di garantire la tenuta
degli equilibri del bilancio di tipo contabile. Tutto ciò va
ad aggiungersi alle novità inizialmente annunciate per il
provvedimento relative alla correzione del taglio di risorse
di 500 milioni per l'anno 2012 e alla nuova scadenza del
riequilibrio.
I compiti del responsabile del servizio finanziario
(articolo 153 del Dlgs 267/2000) sono estesi alla
salvaguardia degli equilibri finanziari e dei vincoli di
finanza pubblica, rispetto ai quali è ribadito che agisce in
autonomia. Qualora la gestione sia tale da pregiudicare gli
equilibri di bilancio, la segnalazione obbligatoria andrà
indirizzata anche alla Corte dei conti.
Il parere di regolarità contabile del responsabile di
ragioneria (articolo 49 del Tuel) diventa necessario su
tutti gli atti che comportano «riflessi diretti o indiretti
sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio del
l'ente» (non più solo per atti con impegno di spesa o
diminuzione di entrata). Sempre in tema di pareri, è
introdotto l'obbligo di motivazione per la Giunta e il
Consiglio nei casi in cui la delibera non si conformi agli
stessi.
Nell'ambito della riscrittura dei controlli interni è
inoltre assegnato alla direzione e al coordinamento del
responsabile del servizio finanziario il nuovo «controllo
sugli equilibri finanziari», che deve abbracciare anche la
valutazione degli effetti generati, sul bilancio finanziario
dell'ente locale, dagli andamenti economico-finanziari degli
organismi gestionali esterni.
Le ulteriori novità all'ordinamento contabile introducono
vincoli aggiuntivi per gli enti che si trovano in
anticipazione di cassa o che utilizzano entrate vincolate:
devono prevedere un fondo di riserva pari almeno allo 0,45%
(invece che lo 0,30%) delle spese correnti e non possono
utilizzare l'avanzo di amministrazione.
Tutti gli enti locali devono riservare la metà della quota
minima del fondo di riserva alla copertura di eventuali
spese non prevedibili. I lavori pubblici di somma urgenza
passano all'approvazione del Consiglio con le modalità
previste dall'articolo 194 del Tuel.
Finalmente è introdotta la sanzione dello scioglimento del
Consiglio per la mancata approvazione del rendiconto nei
termini di legge, correggendo il diverso trattamento
rispetto al preventivo. Inoltre, la tabella dei parametri di
deficitarietà va allegata al rendiconto e non al
certificato.
Per il 2012, infine, arrivano la rivisitazione del taglio
delle risorse e il posticipo al 30 novembre del termine per
la salvaguardia degli equilibri, insieme all'assestamento
(articolo Il Sole 24 Ore
dell'08.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI - ENTI LOCALI: Trasparenza.
Risultati e indicatori on-line.
Nasce il «Pira»: i bilanci diventano più leggibili.
Le amministrazioni pubbliche devono rappresentare in modo
più semplice e comprensibile i risultati della propria
attività, anche quella contabile. Il Dpcm 18.09.2012
detta le linee guida per individuare criteri e metodologie
per costruire un sistema d'indicatori e misurare i risultati
attesi dai programmi di bilancio. Il Dpcm si applica alle Pa
di cui all'articolo 1, comma 2, della legge 196/2009 (il
cosiddetto elenco Istat) con l'esclusione di Regioni, enti
locali e loro enti strumentali ed enti del servizio
sanitario.
Il «Piano degli indicatori e risultati attesi di bilancio»
(Pira) deve essere elaborato dalle Pa diverse dalle
amministrazioni statali. L'articolo 5, comma 4, del Dpcm
prevede che il Pira, per lo Stato, corrisponda alle note
integrative ex articolo 21, comma 11, e 35, comma 2, della legge
196/2009.
Il Pira deve illustrare sia gli obiettivi perseguiti dai
programmi di spesa in termini di livello, copertura e
qualità dei servizi, sia le finalità ultime che gli stessi
perseguono per la collettività ed il sistema economico di
riferimento.
I programmi di spesa sono le unità di bilancio che
identificano in modo sintetico gli aggregati omogenei di
attività realizzate dalla Pa per il perseguimento delle
finalità di ciascuna missione. La struttura per missioni e
programmi (unità di voto della parte spesa del bilancio di
tutte le Pa, a seguito dell'armonizzazione dei sistemi
contabili) è propedeutica all'attuazione del Dpcm.
Il Pira deve indicare per ogni programma una descrizione
sintetica degli obiettivi, il periodo di riferimento per la
sua realizzazione e gli indicatori che consentano di
misurare e monitorare la realizzazione di ciascun obiettivo.
Oltre ai programmi, i principali elementi del Pira (articolo
4), sono:
- gli obiettivi che la Pa si prefigge;
- i portatori di interesse, ossia gli individui e i gruppi
che possono influenzare o essere influenzati dal
raggiungimento o meno degli obiettivi della Pa, distinti in
cittadini, utenti e contribuenti;
- i valori preventivi (attesi) degli indicatori e quelli
effettivamente conseguiti;
- le risorse finanziarie impiegate;
- la fonte dei dati del sistema;
- le unità di misura utilizzate per gli indicatori.
Il Pira deve essere annualmente elaborato in via
programmatica e allegato al bilancio di previsione e deve
esporre il contenuto dei programmi di spesa insieme a
informazioni sintetiche sui principali obiettivi da
realizzare.
A consuntivo deve essere redatto il rapporto sui risultati,
allegato al rendiconto, che deve illustrare il conseguimento
o meno dei risultati e le cause di eventuali scostamenti.
Il Pira e il rapporto consuntivo devono avere la massima
pubblicità anche mediante pubblicazione sul sito della Pa
(articolo 7). Il fine del Dpcm è chiaro, condivisibile e
coerente con il percorso di omogeneizzazione dei bilanci
pubblici, che tende a rendere fruibili anche a soggetti
esterni al sistema le relative informazioni. Si è voluto
affiancare ai bilanci classici dei documenti sintetici che
li rendano comprensibili, in termini di obiettivi e risorse
anche a un pubblico ampio (articolo Il Sole 24 Ore
dell'08.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Il
passaggio. Uffici sotto pressione per le necessarie
verifiche incrociate con il Catasto.
Gestione più difficile rispetto a Tia e Tarsu.
LE LACUNE/
Disciplinati solo i pagamenti non la riscossione Enti al
bivio tra la gestione interna e l'affidamento in appalto.
Tra meno di tre mesi entra in vigore il nuovo tributo sui
rifiuti e sui servizi previsto dall'articolo 14 del Dlgs
201/2011, in attuazione della normativa sul federalismo
fiscale. La Tares è destinata a sostituire definitivamente
la Tarsu, la Tia 1 e la Tia 2, ma prevede anche, per la
copertura dei costi dei servizi indivisi dei Comuni, una
maggiorazione di 0,30 centesimi per mq. di superficie
imponibile. La tariffa della maggiorazione può essere
aumentata dal Comune sino a 0,40 centesimi, ma l'entrata
relativa, a tariffa base, viene incamerata dallo Stato con
una riduzione equivalente del Fsr (fondo sperimentale di
riequilibrio).
L'aspetto più critico del nuovo tributo è tuttavia
costituito da alcune prescrizioni che ne rendono difficile
l'applicazione e che dovrebbero essere corrette per tempo
per evitare una partenza caotica.
Ad esempio, la superficie imponibile della Tares, per gli
immobili a destinazione ordinaria (categorie catastali A, B
e C) è costituita dall'80% della superficie catastale (anche
se questa dovesse essere superiore a quella accertata),
mentre per gli altri fabbricati (categorie D ed E) e le aree
è costituita dalla superficie calpestabile. Questo fatto,
oltre a creare una evidente disparità di trattamento, crea
notevoli problemi gestionali.
Infatti la norma costringe tutti i Comuni a incrociare con i
dati catastali quelli relativi alla Tarsu/Tia, con esiti
facilmente ipotizzabili, sia sul carico di lavoro che sul
contenzioso. Tra l'altro la norma prevede che in assenza,
nella banca dati catastale, del dato della superficie, si
applichi una superficie convenzionale (comunque calcolata
dall'agenzia del Territorio), con pagamento del tributo in
acconto, con un conguaglio non appena il dato relativo alla
superficie sarà acquisito. In questo modo si
costringerebbero i Comuni a gestire per anni pagamenti in
acconto e saldo.
La norma non prevede poi le modalità di riscossione della
Tares, limitandosi a regolare i versamenti. Il fatto che
vengano previste quattro rate e fissate le date di scadenza,
modificabili sia nel numero che nella scadenza da parte del
regolamento comunale, sembrerebbe ipotizzare una riscossione
con autoliquidazione, con una modifica sostanziale rispetto
a Tarsu e Tia, che si basavano sull'iscrizione a ruolo
volontario che si estrinsecava nell'invio di un avviso
bonario con la liquidazione del tributo e solo una
successiva notifica della cartella. I Comuni dovranno
comunque prevedere nel loro regolamento come intendono
riscuotere il nuovo tributo. L'attività di accertamento e
riscossione non potrà comunque, tranne forse nel caso di
azienda in house, essere affidata al soggetto gestore del
servizio di nettezza urbana. I Comuni dovranno, entro il
primo gennaio 2013, reinternalizzare il servizio, con tutti
i problemi di personale e di risorse, o riaffidarlo
all'esterno. E i gestori si troveranno con personale e
un'organizzazione inutilizzati.
Un'altra criticità è che le tariffe sono determinate in base
al piano finanziario del servizio di gestione dei rifiuti
urbani, redatto dal gestore «ed approvato dall'autorità
competente». Ma nessuna altra norma fissa quale sia questa
autorità competente con il rischio di un ampio contenzioso
(articolo Il Sole 24 Ore
dell'08.10.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Se il procedimento consegue obbligatoriamente
dalla presentazione di un’istanza da parte del privato
ovvero deve essere iniziato d’ufficio, la Pubblica
Amministrazione a ciò competente ha l’obbligo di concluderlo
mediante l’adozione di un provvedimento espresso che, e non
è diversamente disposto, per i procedimenti ad iniziativa
della parte privata deve essere emanato, a’ sensi dell’art.
2, comma 3, dello stesso articolo, entro il termine di 90
giorni dal deposito della relativa istanza.
Tale obbligo della Pubblica Amministrazione non sussiste
nell’ipotesi di riproposizione di istanza diretta al riesame
di una situazione inoppugnabile ovvero nell’ipotesi di
un’istanza manifestamente infondata o, ancora, nell’ipotesi
di un’istanza di estensione ultra partes di un giudicato.
Come ha ben puntualizzato il giudice di primo grado, l’art. 2 della L.
241 del 1990 e successive modifiche reca un principio
generale per il nostro ordinamento, in forza del quale se il
procedimento consegue obbligatoriamente dalla presentazione
di un’istanza da parte del privato ovvero deve essere
iniziato d’ufficio, la Pubblica Amministrazione a ciò
competente ha l’obbligo di concluderlo mediante l’adozione
di un provvedimento espresso che, e non è diversamente
disposto, per i procedimenti ad iniziativa della parte
privata deve essere emanato, a’ sensi dell’art. 2, comma 3,
dello stesso articolo, entro il termine di 90 giorni dal
deposito della relativa istanza.
La giurisprudenza ha –altresì– avuto modo di evidenziare
che tale obbligo della Pubblica Amministrazione non sussiste
nell’ipotesi di riproposizione di istanza diretta al riesame
di una situazione inoppugnabile (cfr. sul punto, ad es.,
Cons. Stato, Sez. V, 03.05.2012 n. 2748), ovvero
nell’ipotesi di un’istanza manifestamente infondata (cfr. al
riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 29.05.2008 n.
2543) o, ancora, nell’ipotesi di un’istanza di estensione
ultra partes di un giudicato (cfr. sul punto, ad es., Cons.
Stato, Sez. IV, 04.05.2004 n. 2754) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.10.2012 n. 5207 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il vincolo di rispetto stradale ha carattere
assoluto, in quanto perseguente una serie concorrente di
interessi pubblici fondamentali ed inderogabili, dal che si
è tratta la conseguenza che il diniego di condono di un
edificio abusivamente realizzato in violazione di detto
vincolo non richiede un previo accertamento sulla effettiva
pericolosità dello stesso per il traffico stradale.
Si rammenta sul punto: "il vincolo di rispetto stradale
ha carattere assoluto, in quanto perseguente una serie
concorrente di interessi pubblici fondamentali ed
inderogabili, dal che si è tratta la conseguenza che il
diniego di condono di un edificio abusivamente realizzato in
violazione di detto vincolo non richiede un previo
accertamento sulla effettiva pericolosità dello stesso per
il traffico stradale - Consiglio Stato, sez. IV, 06.05.2010,
n. 2644" (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.10.2012 n. 5204 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Non è illecito raccomandare presso enti diversi
dal proprio.
Non costituisce illecito penale la
raccomandazione del pubblico ufficiale laddove l'intervento
è effettuato presso i responsabili di un ente o di una
struttura in cui l'agente non ha alcun potere funzionale. E
oltre alla concussione, dunque, deve essere esclusa anche la
corruzione impropria: l'intervento del pubblico ufficiale,
che pure risulta compensato da un regalo, non implica
l'esercizio del suo potere istituzionale e dunque non può
essere considerato «atto d'ufficio» ma una mera segnalazione
effettuata «in occasione» dell'ufficio.
È quanto emerge dalla
sentenza 04.10.2012 n. 38762,
pubblicata dalla VI Sez. penale della Corte di Cassazione.
Salvo il sindaco che riceve un pc in regalo da un medico che
vuole cambiare città: il primo cittadino interviene sul
direttore generale dell'Asl del luogo dove il professionista
vuole stabilirsi segnalando al manager che il dipendente
vuole essere trasferito. In cambio dell'interessamento
ottenuto il sanitario regala all'amministratore locale un
computer portatile approfittando del fatto che il compleanno
del sindaco cade in prossimità di Natale.
Il politico locale è accusato prima di concussione e poi di
corruzione impropria, ma è assolto da entrambe le accuse: il
reato ex articolo 317 cp va sicuramente escluso perché non
risulta che il sindaco abbia costretto o indotto il medico a
regalargli il pc portatile né emerge alcun abuso della sua
qualità di amministratore locale; deve tuttavia rilevarsi
che non si configura neppure il reato ex articolo 318,
secondo comma, cp: è vero, l'imputato si avvale della sua
qualità di sindaco, ma la segnalazione relativa al
trasferimento del medico non costituisce una condotta che
denota concreta esplicazione dei poteri inerenti l'ufficio
di amministratore del Comune.
Affinché scatti la corruzione impropria, infatti, è
necessario che il comportamento oggetto del mercimonio
rientri nelle competenza o almeno nella sfera di influenza
dell'ufficio cui appartiene il presunto corrotto: nel caso
del sindaco le pressioni esercitate sul manager Asl per il
trasferimento del medico costituiscono un intervento che va
incidere nella sfera di attribuzione di un pubblico
ufficiale terzo, come il direttore generale dell'azienda
sanitaria, ente rispetto al quale il politico locale non ha
alcun potere.
Insomma, la raccomandazione in questo caso esula dagli atti
di ufficio
(articolo ItaliaOggi
del 09.10.2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Al privato danneggiato da un provvedimento
amministrativo illegittimo non è richiesto un particolare
impegno probatorio per dimostrare la colpa
dell’Amministrazione. Questi può perciò limitarsi ad
invocare l'illegittimità dell'atto, potendosi ben fare
applicazione, al fine della prova della sussistenza
dell'elemento soggettivo, delle regole di comune esperienza
e della presunzione semplice di cui all'art. 2727 del codice
civile.
Spetta a quel punto all'Amministrazione dimostrare di essere
incorsa in un errore scusabile, il quale è configurabile, in
particolare, in caso di contrasti giurisprudenziali
sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta
di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità
del fatto, di influenza determinante di comportamenti di
altri soggetti, o di illegittimità derivante da una
successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma
applicata.
Quanto all’estremo della colpa della Stazione appaltante, la
giurisprudenza ha pressoché regolarmente sottolineato (cfr.
ad es. C.d.S., VI, sentenze 09.03.2007 n. 1114 e 09.06.2008
n. 2751) che al privato danneggiato da un provvedimento
amministrativo illegittimo non è richiesto un particolare
impegno probatorio per dimostrare la colpa
dell’Amministrazione. Questi può perciò limitarsi ad
invocare l'illegittimità dell'atto, potendosi ben fare
applicazione, al fine della prova della sussistenza
dell'elemento soggettivo, delle regole di comune esperienza
e della presunzione semplice di cui all'art. 2727 del codice
civile.
Spetta a quel punto all'Amministrazione dimostrare di essere
incorsa in un errore scusabile, il quale è configurabile, in
particolare, in caso di contrasti giurisprudenziali
sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta
di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità
del fatto, di influenza determinante di comportamenti di
altri soggetti, o di illegittimità derivante da una
successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma
applicata (cfr., tra le tante, C.d.S., IV, 12.02.2010, n.
785; V, 20.07.2009, n. 4527) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.10.2012 n. 5173 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI: Costa
caro all'autista dire al poliziotto "lei non sa chi sono
io".
L'autista ubriaco che dopo il fermo
pronuncia frasi minacciose alla pattuglia millantando
amicizie tra la polizia risponde di resistenza a pubblico
ufficiale. E non importa se il destinatario della minaccia
si sia sentito concretamente intimorito dalle esternazioni
del conducente.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI pen., con la
sentenza 26.09.2012 n. 37104.
Una signora alterata dall'alcol ha percorso contromano una
strada scontrandosi con una macchina della polizia e
offendendo gli agenti intervenuti specificando «vabbene
sono ubriaca e sono venuta contromano ma siete voi che mi
siete venuti addosso e adesso mi volete incastrare, non mi
dovete rompere il cazzo perché voi siete dei pezzi di merda,
ho anche io amici in polizia e vi rovino».
Contro la conseguente condanna pronunciata ai sensi
dell'art. 337 cp l'interessata ha proposto ricorso in
Cassazione ma senza successo. Anche se le frasi proferite
dal conducente non sono idonee a ingenerare una minaccia
seria e concreta nella pattuglia intervenuta il reato di
resistenza deve considerarsi perfezionato «essendo
sufficiente l'uso della minaccia per opporsi all'atto
d'ufficio»
(articolo ItaliaOggi
del 09.10.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI: Piano
carburanti coinvolga il proprietario dell'impianto.
Il proprietario dell'impianto di
distribuzione carburanti va coinvolto nel procedimento di
approvazione del piano dei carburanti, quando lo stesso
contiene disposizioni specifiche.
È quanto ha affermato il Consiglio di stato, Sezione V, con
la
sentenza 17.09.2012 n. 4911.
La partecipazione prevista dall'art. 7 della legge 241/1990,
in pratica, è dovuta in tutti i casi in cui il piano di
razionalizzazione della rete di distribuzione dei
carburanti, oltre a contenere norme di carattere
programmatico – generale contiene previsioni specifiche; ad
esempio, quando individua anche gli impianti incompatibili.
In altri termini, se la materia trattata dal piano di
razionalizzazione dispone anche di un contenuto
determinativo «misto», ovvero a carattere
provvedimentale individuale, la comunicazione, precisa il
giudice, è doverosa.
Nel caso all'attenzione del Collegio, il piano di
razionalizzazione non si era, infatti, limitato a fissare
meri criteri programmatici di carattere generale, ma aveva
direttamente individuato delle ipotesi di incompatibilità
(rilevandone la necessità del trasferimento, prevedendo la
diffida ai concessionari a richiederne il trasferimento, con
assegnazione di un termine e previsione della revoca della
concessione in caso di inosservanza).
Se, costituisce ius receptum, ha osservato il
giudice, il fatto che non è richiesta la comunicazione di
avvio del procedimento per i provvedimenti di carattere
generale, essa deve essere effettuata nel particolare caso
in cui la deliberazione di approvazione del piano individua
direttamente, definendone operativamente la posizione, i
soggetti coinvolti nella razionalizzazione
(articolo ItaliaOggi
del 09.10.2012. |
AGGIORNAMENTO ALL'08.10.2012 |
ã |
IN EVIDENZA |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Trattenuta 2,5% tfs - altra sentenza favorevole.
PER IL TAR DELLA LOMBARDIA E'
ILLEGITTIMA LA TRATTENUTA DALL'01.01.2011 DATA DI
ENTRATA IN VIGORE DELLA NORMA CHE EQUIPARA I
TRATTAMENTI DI FINE SERVIZIO AI TRATTAMENTI DI FINE
RAPPORTO IN VIGORE NEL SETTORE PRIVATO.
In una causa intentata da personale pubblico non
contrattualizzato il TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 13.09.2012 n. 2321, ha condannato il
Ministero della Difesa a restituire le somme
illegittimamente trattenute a titolo di contributo a
carico del lavoratore per il Trattamento di fine
servizio.
Si tratta di un ulteriore importante tassello, dopo
sentenza 18.01.2012 n. 53 del TAR
Calabria-Reggio Calabria, alla nostra battaglia per
ottenere la cessazione di queste ritenute dalle
nostre retribuzioni.
In questo caso il TAR non ha neanche ritenuto di
investire la Corte Costituzionale per violazione
dell'art. 3 COST., valutando che la nuova
disposizione abbia implicitamente abrogato le norme
che prevedevano il contributo del 2,5% a carico dei
lavoratori: "... operando la modifica normativa
suddetta un vero e proprio cambiamento complessivo
del regime del trattamento di fine rapporto
applicabile alla categoria professionale degli
odierni ricorrenti, la disposizione di cui all’art.
37 del d.P.R. n. 1032/1973 deve ritenersi
implicitamente abrogata, alla stregua di quanto
previsto dall’art. 15 delle disposizioni preliminari
al codice civile, per incompatibilità tra le nuove
disposizioni e le precedenti e perché la nuova legge
regola l’intera materia già disciplinata dalla legge
anteriore...".
Per quanto riguarda i ricorsi presentati dal nostro
studio legale Galleano in alcune città, siamo in
attesa di conoscere i primi risultati.
Nel corso dell'udienza del 02.10.2012, per la
trattazione del ricorso presentato a Milano (Barbato
ed altri, Tribunale di Milano, dott. Scarzella) il
Giudice ha rinviato la causa al 16.11.2012, ore
12,00, per la discussione.
Il rinvio è dovuto al fatto che in Corte
costituzionale è stata discussa il 18 settembre
u.s., unitamente a molte altre che riguardavano
diversi aspetti del D.L. 78/2010, la questione di
costituzionalità sollevata dal Tribunale
amministrativo di Reggio Calabria ed iscritta con il
n. 74/2012 nel registro ricorsi della Corte stessa,
che conteneva la questione relativa al 2,5%.
La Corte non ha ancora depositato la sentenza.
Per approfondire l'argomento è possibile, digitando
la parola tfr nell'apposito campo di ricerca del
nostro sito, consultare tutte le precedenti notizie
pubblicate (link a www.uilpa.it). |
UTILITA' |
EDILIZIA
PRIVATA - VARI: Le
visure catastali diventano a pagamento? Quali restano quelle
gratuite? Ecco i chiarimenti.
Con la
circolare 28.09.2012 n. 4 l’Agenzia del Territorio
chiarisce le novità introdotte dall’articolo 6 del D.L.
16/2012, in materia di accesso alle banche dati ipotecaria e
catastale.
La consultazione dei documenti catastali diventa a pagamento
dal primo ottobre 2012.
A partire da tale data i seguenti atti catastali sono
soggetti a pagamento del tributo speciale sulla base delle
seguenti tariffe:
● per la visura degli atti cartacei (registri di partita,
mappa catastale cartacea, tipi di frazionamento, etc.): 5
euro a giorno per ogni richiedente
●
per la visura della banca dati censuaria (visure per
immobile e per soggetto, attuale e storica, per partita ed
elenco immobili) e della cartografia da base informatica: 1
euro per identificativo catastale richiedente
●
per ogni altro documento, compresa la visura per soggetto: 1
euro ogni 10 unità immobiliari o frazione di 10
La Circolare chiarisce anche che le visure in catasto
vengono rilasciate gratuitamente all’intestatario degli
immobili, così come le ispezioni sui registri immobiliari,
se a richiederle è l’attuale titolare della proprietà.
Inoltre, la consultazione on-line rimane gratuita per coloro
i quali hanno debitamente sottoscritto un’apposita
convenzione
(04.10.2012 - link a www.acca.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
ENTI LOCALI: G.U.
28.09.2012 n. 227 "Elenco
delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico
consolidato individuate ai sensi dell’articolo 1, comma 3,
della legge 31.12.2009, n. 196 (Legge di contabilità e di
finanza pubblica)" (ISTAT). |
SINDACATI |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
L'esercizio associato di funzioni e di servizi
tramite convenzione ed il personale interessato
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 04.10.2012). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. Pierobon,
L’AMBIENTE NEL DIRITTO AMMINISTRATIVO: UNA INTERESSANTE
(RECENTE) LETTURA
(link a www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
R. Ricciarello,
Gli adempimenti previsti dalla parte V del dlgs. 152/2006
(link a www.industrieambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. De Falco,
Provvedimenti autorizzatori e ordinanze (in materia di
gestione rifiuti) (tratto da e link a
www.industrieambiente.it). |
APPALTI:
R. Caponigro,
L’interesse legittimo strumentale nelle gare d’appalto
(link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: M.
Calveri,
La tutela di accertamento dell’interesse legittimo e il
codice del processo amministrativo: occasione mancata?
(link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
P. Costantino,
Abbandono di rifiuti sulle strade: la giurisprudenza riduce
le responsabilità dell'ente proprietario (Ufficio
Tecnico, n. 7-8/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
E. Montini,
Il DURC tra autocertificazione e acquisizione d'ufficio alla
luce della legge di semplificazione 2012 (Ufficio
Tecnico, n. 7-8/2012). |
APPALTI:
S. Usai,
Il modus operandi della commissione di gara alla luce della
recente giurisprudenza ed elle innovazioni apportate con il
d.l. 52/2012 (Ufficio Tecnico, n. 7-8/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
R. Balasso,
Varianti, proroghe e rinnovi dei titoli abilitativi edilizi:
nozioni e implicazioni (Ufficio Tecnico, n.
7-8/2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
G. Ciaglia,
La conferenza di servizi nella giurisprudenza più recente
(Ufficio Tecnico, n. 7-8/2012). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
PUBBLICO
IMPIEGO: Palazzo Vidoni. Assunzioni a termine.
Nel pubblico il limite dei 36 mesi inderogabile da patti
«decentrati».
La contrattazione decentrata non basta per derogare alla
riforma Fornero: a parere della Funzione Pubblica deve
intervenire il contratto collettivo nazionale di lavoro.
Lo afferma il Dipartimento di Palazzo Vidoni, con la
nota 28.09.2012 n. 38845 di prot..
Il problema sorge con
l'invio, da parte dell'Istituto nazionale di Geofisica e
Vulcanologia, di un contratto decentrato in cui si mettevano
le basi per derogare dal limite dei 36 mesi quale durata
massima dei contratti a tempo determinato stipulati dallo
stesso committente con il medesimo soggetto e per lo
svolgimento di mansioni equivalenti. L'articolo 5, comma
4-bis, della legge 92/2012 prevede, infatti, che,
indipendentemente dalla durata di rinnovi o interruzioni, il
contratto a termine si considera a tempo indeterminato
quando supera i 36 mesi e vi sia identità fra datore di
lavoro, lavoratore e mansioni. Per la Pa, stante il divieto,
la trasformazione in tempo indeterminato si tramuta in
risarcimento del danno.
Rispetto a questa previsione, però, la norma stessa fa salve
«le diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a
livello nazionale, territoriale o aziendale con le
organizzazioni sindacali comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale». Pur essendo
espressamente indicato nel testo normativo quale canale
attraverso il quale si può bypassare il vincolo dei 36 mesi,
la Funzione Pubblica non ritiene sufficiente un contratto
decentrato per legittimare comportamenti in tal senso, ma
richiede la contrattazione ai massimi livelli. Pur se non
espressa, la motivazione si può rinvenire nell'articolo 40,
comma 3-bis, del Dlgs 165/2001.
Ma le ipotesi di disapplicazione della riforma, rimesse, a
questo punto, alla contrattazione nazionale non si fermano
al caso sopra esaminato. Lo stesso Dipartimento elenca altre
due ipotesi. La prima riguarda il caso in cui si può
omettere la motivazione nell'assunzione a tempo determinato
o nella somministrazione di lavoro quando le stesse
avvengono nel quadro di un processo riorganizzativo per
l'avvio di una nuova attività, il lancio di un prodotto o di
un servizio innovativo, l'introduzione di forti cambiamenti
tecnologici, una nuova fase di un importante progetto di
ricerca o sviluppo e, infine, il rinnovo o la proroga di una
commessa rilevante.
Le medesime fattispecie vengono poste a base della seconda
ipotesi derogatoria citata dalla Funzione Pubblica. Si fa
riferimento alle condizioni per le quali la contrattazione
può introdurre interruzioni più brevi fra un contratto e
l'altro con lo stesso lavoratore, interruzioni che, però,
non possono essere inferiori a 20 giorni se la durata del
primo incarico non è superiore a 6 mesi e a 30 giorni in
caso contrario
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.10.2012
- link a www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto:
richiesta di parere in merito alla possibilità di
trasformazione di contratto di lavoro a tempo determinato di
Dirigente in contratto di lavoro a tempo indeterminato
(nota
14.09.2012 n. 36924 di prot.). |
QUESITI &
PARERI |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Richiesta parere su intervento edilizio.
Il Comune chiede "se un foro di circa 80-100 cm. e
profondo circa 15-20 mt. incamiciato (con tubo o altro)
praticato sul terreno, per scopi scientifici e di ricerca,
effettuato in zona tutelata dal punto di vista ambientale e
paesaggistico, sia da considerarsi o meno ‘intervento
edilizio’ ed in quanto tale soggetto alle autorizzazioni
previste dal D.P.R. 380/2001 e successive modifiche ed
integrazioni" (Regione Marche,
parere 07.06.2012 n. 270/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Distanza delle costruzioni dalle autostrade.
In relazione al Suo quesito sulla distanza da rispettare
dalle pertinenze autostradali “nel caso in cui si debba
costruire o condonare un manufatto edile, sia in zona rurale
che in zona urbana (all’interno del centro urbano)”
osservo quanto segue (Regione Marche,
parere 20.04.2012 n. 255/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Applicazione dell’oblazione, ai sensi dell’art.
36, comma 2, del DPR n. 380/2001, per opere in difformità
dal permesso di costruire.
Il Comune pone i seguenti due quesiti sull’applicazione
dell’art. 36, comma 2, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380:
1) In caso di un’opera realizzata in parziale difformità dal
permesso di costruire, per la quale il titolare del permesso
ha già assolto agli obblighi di cui all’art. 16 del DPR n.
380/2001, si chiede se dall’oblazione, da stimarsi in misura
doppia al contributo di costruzione calcolata con
riferimento alla parte di opera difforme dal permesso, “debba
essere detratto il contributo di costruzione (oneri di
urbanizzazione primaria, oneri di urbanizzazione secondaria
e costo di costruzione) già corrisposti all’atto del
rilascio del permesso di costruire originario”;
2) Nel caso di totale difformità dell’opera rispetto al
permesso di costruire rilasciato, per il quale erano stati
assolti gli obblighi di cui all’art. 16 del DPR n. 380/2001,
l’oblazione deve essere calcolata con riferimento al
contributo di costruzione dell’intera opera in misura
doppia. Anche in questo caso si chiede “se all’oblazione
così calcolata debba essere detratto il contributo di
costruzione già corrisposto all’atto del rilascio del
permesso di costruire”.
In proposito Il Comune fa notare che “nel caso di lavori
realizzati in totale difformità (o variazione essenziale)
rispetto al permesso di costruire originario, qualora non si
proceda a detrarre dall’oblazione il contributo già versato,
il committente avendo corrisposto il contributo al momento
del rilascio del permesso originario e poi l’oblazione in
misura doppia del contributo, si troverebbe penalizzato
rispetto a colui che avesse realizzato un’opera abusiva in
completa assenza di permesso di costruire e che verrebbe a
corrispondere la sola oblazione (contributo art. 16 DPR
380/2001 in misura doppia)” (Regione Marche,
parere 02.02.2012 n. 240/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Esonero dal contributo di costruzione di cui
all'art. 17, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001 per la
realizzazione di “Centro per strutture assistenziali e
anziani”.
Il Comune chiede “se sia possibile procedere all'esonero del
contributo di costruzione ai sensi dell'art. 17, comma 3,
lett. c), del DPR 380/2001 per la realizzazione di un “Centro
per strutture assistenziali e anziani” da parte di un
Ente Morale giuridicamente riconosciuto con Decreto del
Presidente della giunta regionale considerando anche il
fatto che l'opera viene realizzata in forza di un piano
attuativo nel quale però non ne è prevista la cessione al
Comune (Regione Marche,
parere 02.02.2012 n. 239/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Interpretazione dell’art. 5, comma 3, della
legge 12.07.2011, n. 106 - Diritti edificatori.
Il Comune chiede un parere su quanto stabilito dall'art. 5,
comma 3, della legge 12.07.2011, n. 106 (conversione in
legge, con modificazioni, del D.L. 13.05.2011, n. 70), che
ha inserito nell'art. 2643 del codice civile l'espresso
riferimento ai "contratti che trasferiscono,
costituiscono o modificano i diritti edificatori comunque
denominati, previsti da normative statali o regionali,
ovvero da strumenti di pianificazione territoriale" e,
in particolare, sulla "possibilità di ammettere una
cubatura su un ambito non confinante con quello che possiede
l'attitudine edificatoria e la cede" (Regione Marche,
parere 19.01.2012 n. 234/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Assoggettabilità di un intervento edilizio al
pagamento del contributo di costruzione.
Il Comune -in riferimento ad una Comunicazione pervenuta al
Suo Ufficio per l’esecuzione di opere interne, manutenzione
straordinaria, impiantistica, parziale modifica alle
forature esterne e finiture interne ed esterne, ecc. su di
un edificio che in precedenza, con una variazione catastale
e senza esecuzione di opere edilizie, è stato trasformato da
bifamiliare ad unifamiliare- chiede, in considerazione di
quanto stabilito dall’art. 17, comma 3, del D.P.R. n.
380/2001 che inserisce nei casi di permesso di costruire
gratuito interventi di ristrutturazione di edifici
unifamiliari, se “gli interventi edilizi che prevedono
l’accorpamento con opere di più unità immobiliari in un
unico organismo (da bifamiliare ad unifamiliare) mantenendo
la stessa destinazione d’uso (residenziale) sono
qualificabili come interventi di ristrutturazione edilizia e
sono comunque assoggettabili agli oneri di costruzione”
(Regione Marche,
parere 12.09.2011 n. 210/2011). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Intervento di ristrutturazione con demolizione e
ricostruzione – Richiesta di parere per sanatoria ex art. 36
del D.P.R. n. 380/2001 e per distacchi dai fabbricati in
relazione alla variante essenziale ex art. 5 della L.R. n.
14/1986.
Il Comune chiede se “può considerarsi ammissibile al
rilascio della sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R.
380/2001” un intervento di ristrutturazione consistente
nella demolizione di un vecchio manufatto e nella sua
ricostruzione, “mantenendo un lato della costruzione
sulla vecchia parete a confine con il muro sottostante
l’area pubblica comunale (strada)” e con cambio di
destinazione d’uso da costruzione agricola a monolocale di
civile abitazione, entro l’area di sedime ed entro la sagoma
del vecchio fabbricato con dimensioni più ridotte e quindi
con diminuzione della volumetria preesistente, facendo
notare che “la ricostruzione eseguita pur fronteggiando
per una piccola parte l’altro edificio dello stesso
proprietario risulta essere a distanza inferiore a ml. 10
(art. 13 lett. o) del vigente R.E.C.),ma l’intervento
eseguito risulta migliorativo rispetto al distacco della
precedente costruzione che era posta molto più vicino”
(Regione Marche,
parere 09.08.2011 n. 203/2011). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Richiesta di parere circa le modalità di calcolo
del volume per le superfici a parcheggio ex Legge
06.08.1967, n. 765 e Legge 24.03.1989, n. 122.
Il Comune chiede se sia ancora da tenere in considerazione
quanto esposto nell’art. 9 della circolare ministeriale del
28/10/1967 in relazione alla cubatura da considerare per
determinare la superficie da destinare a parcheggi ai sensi
dell’art. 18 della legge n. 765/1967, che ha aggiunto l’art.
41-sexies alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150
(Regione Marche,
parere 22.06.2011 n. 193/2011). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Quesiti in merito al frazionamento di unità
immobiliari e al cambio di destinazione d’uso.
Il Comune pone dei quesiti sul frazionamento di unità
immobiliari e sul cambio di destinazione d’uso delle stesse,
eseguiti senza esecuzione di opere edilizie o tramite
interventi riconducibili ad attività di manutenzione
straordinaria, in ordine ai quali si osserva quanto segue
(Regione Marche,
parere 06.06.2011 n. 188/2011). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Sportello unico per le attività produttive -
Rapporti con la normativa urbanistica ed edilizia.
Il Comune fa presente che durante l'esame di un progetto di
trasformazione ed ampliamento di una struttura esistente, in
variante al P.R.G., ai sensi dell'art. 5 del D.P.R.
20.10.1998, n. 447, "è stato accertato che la ditta
proprietaria dell'immobile ha dato in parte corso alle
previsioni costituenti variante" realizzando parte
dell'ampliamento previsto nel progetto.
Il Comune aggiunge che "in merito al progetto di variante
si è espressa preliminarmente la Giunta Comunale ravvisando
un equilibrato rapporto tra l'interesse del privato e lo
interesse pubblico ed un regolato uso del territorio e dando
cosi favorevolmente avvio alla pratica di variante
urbanistica ai sensi dell'art. 5 del DPR 447/1998".
Chiede pertanto "se legittimamente la Conferenza dei
Servizi, possa proseguire le proprie valutazioni in presenza
di ordinanza di sospensione dei lavori che demandi
l’adozione di eventuali provvedimenti repressivi all’esito
della conclusione della stessa e se la Giunta Provinciale
prima ed il Consiglio Comunale poi, legittimamente. in
presenza di abusi edilizi possano approvare la variante con
effetti sananti" (Regione Marche,
parere 24.03.2010 n. 140/2010). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Richiesta di parere sull’applicazione dell’art.
4, comma 1-bis, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Il Comune, in relazione al disposto dell’art. 4, comma
1-bis, del D.P. R. 06.06.2001, n. 380 (in vigore dal
10.01.2010), che impone di prevedere nei Regolamenti edilizi
comunali l’obbligo, per gli edifici di nuova costruzione, di
installare impianti per la produzione di energia elettrica
da fonti rinnovabili, chiede “se in attesa che il
Consiglio Comunale recepisca ed approvi la variante al
Regolamento Edilizio Comunale, questo servizio può procedere
ai rilascio dei permessi di costruire in corso senza la
previsione dell’installazione di impianti per la produzione
di energia elettrica da fonti rinnovabili” come previsto
da tale norma (Regione Marche,
parere 16.02.2010 n. 134/2010). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Richiesta di parere sulla definizione di “lotto
edificabile”.
Il Comune chiede se “in zona urbana di completamento
residenziale, con indice fondiario 1 mq/mq, è accoglibile
una richiesta di permesso a costruire in cui si computi
quale "superficie fondiaria‟ un lotto di terreno diviso in
due parti, rispettivamente di superficie mq 1082 e mq 150,
divisi da una strada comunale pubblica di larghezza m. 5,00
circa”, precisando che “il fabbricato andrebbe
posizionato sulla parte di terreno con superficie maggiore e
che l‟altro appezzamento, di superficie mq 150, da solo non
ha le caratteristiche per essere in qualche modo edificabile”,
potendosene sfruttare solo il volume (Regione Marche,
parere 29.07.2009 n. 120/2009). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Applicazione del contributo di costruzione di
cui all’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001.
Il Comune chiede un parere sulla corretta applicazione del
contributo di costruzione di cui all’art. 16 del D.P.R.
06.06.2001, n. 380, relativamente ad un caso specifico che
illustra sommariamente nel quesito e sul quale questo
Servizio non può comunque pronunciarsi, non avendone
conoscenza e non essendogli ciò consentito dalla D.G.R. n.
769 del 27.06.2006 (in BUR n. 70 del 07.07.2006), che è
l’atto in base al quale i Servizi della Giunta regionale
esercitano l’attività di consulenza giuridica a favore degli
Enti locali delle Marche (Regione Marche,
parere 03.06.2009 n. 116/2009). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Richiesta di parere circa l’onerosità o meno dei
permessi di costruire per interventi edilizi di
ristrutturazione di edifici ex rurali.
Il Comune chiede se alla luce delle disposizioni del Testo
unico per l’edilizia di cui al D.P.R. n. 380/2001, un
intervento di ristrutturazione edilizia di un edificio
colonico unifamiliare, che ha perso tutti i requisiti di
ruralità, da parte di un privato cittadino non imprenditore
agricolo, sia oneroso o gratuito e se i pareri che il
Servizio legislativo e affari istituzionali della Giunta
regionale ha espresso sull’applicazione dell’art. 9, lett.
d), della legge n. 10/1977 in data 20.06.1991, prot. n. 124,
e in data 09.03.1989, prot. n. 60, dei quali allega copia,
siano tuttora validi (Regione Marche,
parere 27.02.2009 n. 110/2009). |
EDILIZIA
PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
OGGETTO: Quesito concernente l’applicazione dell’art. 10,
comma 6, della legge 05.02.1992, n. 104.
Il Comune -con richiesta di parere inoltrata al Servizio
attività istituzionali, legislative e legali e da questo
trasmessa, per competenza, allo scrivente Servizio Governo
del territorio- chiede “di esprimersi in merito
all’applicazione dell’articolo 10, comma 6, della L.
104/1992” di cui riporta il testo e, in particolare, se
il termine “immobile” utilizzato dalla norma “si
riferisce ad edifici esistenti ed aree libere o soltanto ad
edifici esistenti” e se sia da considerarsi legittima la
variante urbanistica automatica che essa prevede “alla
luce della recente sentenza (Corte Cost. n. 401 del
23/11/2007) che ha sostanzialmente dichiarato illegittima la
norma prevista dall’art. 98, comma 2, del Dlgs. n. 163/2006
la quale prevede l’approvazione di progetti definitivi e la
contestuale variante allo strumento urbanistico da parte del
Consiglio comunale per gli interventi infrastrutturali viari”
(Regione Marche,
parere 13.11.2008 n. 101/2008). |
INCARICHI
PROGETTUALI:
OGGETTO: Applicazione dell’art. 41-bis della legge
17.08.1942, n. 1150.
Il Comune “alla luce di quanto disciplinato dall’art.
41-bis legge n. 1150/1942”, chiede un “parere in
merito alla legittimità di un incarico di Variante Generale
al PRG conferito a tecnico professionista qualificato,
incaricato in precedenza da privati, della redazione di un
piano di lottizzazione nel territorio comunale presentato
all’Ente successivamente alla stipula della convenzione di
incarico della Variante Generale al PRG” (Regione
Marche,
parere 25.09.2008 n. 96/2008). |
URBANISTICA:
OGGETTO: Legge 24.12.2007, n. 244 - Art. 1, comma 258 -
Interpretazione ed applicazione sulla pianificazione
urbanistica comunale.
Il Comune, con riferimento a quanto stabilito dall’art. 1,
comma 258, della legge 24.12.2007, n. 244 (Legge finanziaria
2008) il cui testo allega in copia, chiede un parere “relativamente
alla possibilità di individuare, nelle aree a verde pubblico
o a parcheggio, di cui al D.M. n. 1444/1968, aree definite
come “ambiti” nei quali prevedere immobili da destinare ad
edilizia residenziale sociale”.
Il Comune ritiene che tale norma “stabilisce i seguenti
principi:
1. le aree definite come “ambiti” per la eventuale
realizzazione di edilizia residenziale sociale devono essere
considerate come standard urbanistico, ai sensi del D.M. n.
1444/1968;
2. la eventuale trasformazione di tali aree o “ambiti” in
lotti edificabili per edilizia residenziale sociale avviene
esclusivamente per cessione gratuita dell’area, da parte del
proprietario;
3. in tali “ambiti” è inoltre possibile prevedere la
realizzazione e fornitura di alloggi a canone calmierato,
concordato e sociale, che rimangono in proprietà del
soggetto realizzatore (pubblico o privato);
4. la realizzazione di opere edilizie in tali “ambiti” deve
essere equiparata ad opera di urbanizzazione (secondaria) e
pertanto esclusa dalle volumetrie realizzabili e
disciplinate dal Piano Urbanistico Generale o Attuativo”
(Regione Marche,
parere 24.07.2008 n. 93/2008). |
URBANISTICA:
OGGETTO: Richiesta di parere relativa alla conformità
delle previsioni del Piano Particolareggiato del Centro
storico con l’art. 9 del D.M. n. 1444/1968.
Il Comune rileva che “questo Ente è dotato di un Piano
Particolareggiato per il Centro Storico, attualmente in
vigore (approvazione definitiva DCC n. 15/1999)” che “è
formato, essenzialmente, dai seguenti elaborati:
- planimetria d’insieme con individuazione dei settori di
intervento;
- Elaborato di progetto per singolo settore, formato da
planimetrie e schede normative indicanti gli interventi
edilizi ammessi per ogni “unità minima di intervento”
(allineamenti linee di gronda/colmo, sopraelevazioni,
ampliamenti, ristrutturazione edilizia esterna/interna ecc.)”.
Aggiunge che per un edificio esistente l’Elaborato di
progetto prevede, fra l’altro, la possibilità di “realizzare
un ampliamento dell’ultimo piano nel rispetto della distanza
di m. 5,00 dall’UMI”, cioè, si presume, dall’edificio ad
esso adiacente.
Il Comune chiede quindi se “ai sensi del DM 1444/1968, è
possibile consentire l’ampliamento dell’ultimo piano del
fabbricato in questione, con una distanza tra pareti pari a
ml. 5,00 < ml. 10,00, così come previsto “nell’Elaborato di
progetto del Settore n. …” del vigente Piano
Particolareggiato del Centro Storico” (Regione Marche,
parere 18.07.2008 n. 92/2008). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Applicazione dell’art. 17, comma 3, lett. b) del
D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Si risponde al quesito di cui all’oggetto -inviato dal
Comune al Servizio legislativo e affari istituzionali e da
questo trasmesso per competenza al Servizio governo del
territorio- con il quale si chiede se per la
ristrutturazione di un fabbricato colonico unifamiliare in
zona agricola, in conformità ai disposti del censimento dei
fabbricati rurali e senza aumento di volumetria ”da parte
di un soggetto non avente i requisiti di coltivatore
agricolo a titolo principale” si “debba procedere al
rilascio del Permesso di Costruire a titolo gratuito ai
sensi dell’art. 17, comma 3, lettera b), della L. 10/1977 (rectius:
del D.P.R. n. 380/2001) o se si debba richiedere il
pagamento degli oneri concessori in riferimento al cambio di
destinazione d’uso, da edificio rurale a civile abitazione”
(Regione Marche,
parere 19.03.2008 n. 83/2008). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Contributo per il rilascio dei permesso di
costruire (artt. 16 e 19 del D.P.R. n. 380/2001).
Il Comune fa presente che “nell’anno 2002 è stata
rilasciata la Concessione Edilizia per la realizzazione di
un intervento soggetto al contributo di cui agli articoli 16
e 19 del D.P.R. n. 380/2001 e che “relativamente al costo di
costruzione l’importo da pagare è stato determinato sulla
base di apposita perizia giurata a firma del tecnico
progettista e trasmessa dal richiedente”.
Il Comune aggiunge che “a seguito di successivi
accertamenti è emersa la non corrispondenza tra le opere
oggetto di Concessione Edilizia (e successive varianti) e
quelle oggetto della richiamata perizia” e che “in
conseguenza di ciò la parte interessata ha trasmesso nuova
perizia giurata, congruente con le opere autorizzate, il cui
importo è superiore a quello stimato con la perizia
precedentemente trasmessa”.
Rileva che “quanto sopra comporta una maggiore
quantificazione del costo di costruzione da corrispondere”
al Comune e chiede pertanto se “alla maggiore somma da
richiedere all’interessato a seguito dell’applicazione
dell’aliquota del 10% all’importo delle opere, così come
rideterminato con la nuova perizia giurata, vanno applicate
le sanzioni previste dall’art. 42 del D.P.R. 380/2001” e
se sul maggiore importo così determinato vanno altresì
applicati “gli interessi”.
Comunica che l’orientamento del Capo Area Tecnica del Comune
è il seguente: “non applicazione delle sanzioni previste
all’art. 42 del D.P.R. 380/2001 in quanto gli originari
importi, anche se sulla base di un’erronea perizia giurata
inviata dall’interessato per il calcolo del costo di
costruzione, sono stati comunque corrisposti nei termini e
con le modalità indicate dall’Ente prima del rilascio della
Concessione Edilizia” e “applicazione degli interessi
al tasso legale sul maggiore importo calcolato per il
periodo che va dal rilascio della originaria Concessione
Edilizia all’attualità” (Regione Marche,
parere 10.01.2008 n. 78/2008). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Richiesta di parere in merito alla conclusione
di un procedimento amministrativo curato dallo Sportello
unico per le attività produttive.
Il Comune chiede un parere in merito alla conclusione di un
procedimento curato dallo Sportello unico, concernente il
progetto di ampliamento e di riorganizzazione
urbanistico-edilizia del polo produttivo di una ditta, “difforme
con il Piano di Fabbricazione vigente e con il PRG adottato
in adeguamento al P.P.A.R.”.
A tal proposito fa presente che “è stato assunto dal SUAP
verbale d’ufficio conclusivo della conferenza di servizi
avente valore di variante urbanistica”, sul quale “sono
state espletate le procedure della pubblicazione” e “non
sono pervenute osservazioni, proposte e opposizioni dagli
aventi titolo ai sensi della Legge 17.08.1942, n. 1150”
e che occorre “pertanto procedere per la pronuncia
definitiva del Consiglio Comunale”.
Dato che si evince il mancato interesse della ditta
proponente alla conclusione del procedimento amministrativo,
in quanto questa non intende predisporre la convenzione
necessaria per regolamentare i rapporti giuridici ed
economici fra le parti, si chiede se la competenza ad
archiviare il procedimento appartenga alla Responsabile SUAP
o al Consiglio comunale, “dando atto che” lo
Sportello unico "ha già provveduto a concludere il
procedimento con il verbale conclusivo del 03/05/2006 avente
valore di proposta di variante” (Regione Marche,
parere 26.11.2007 n. 72/2007). |
URBANISTICA:
OGGETTO: Richiesta di parere in ordine alla possibilità
di approvare varianti parziali riguardanti la nuova
previsione di Piani per l’Edilizia Economica e Popolare
(PEEP) mediante le procedure di cui all’art. 19 del D.P.R.
n. 327/2001.
La Provincia chiede se sia possibile utilizzare le procedure
di cui all’art. 19 del D.P.R. n. 327/2001 nel caso in cui un
Comune, non dotato di Piano Regolatore Generale adeguato al
PPAR, “intenda adottare un Piano per l’Edilizia Economica
e Popolare in variante al vigente P.R.G. in quanto trattasi
di uno strumento urbanistico attuativo le cui procedure di
adozione e approvazione sono disciplinate da specifiche
leggi (L. n. 167/62 e L.R. n. 34/1992) o se in alternativa
si possa ricorrere alle procedure ordinarie di variante
previste dalla L. n. 167/1962 utilizzando le esenzioni di
cui all’art. 60, punto 3c), delle N.T.A. del P.P.A.R. per le
opere pubbliche (tale fattispecie non viene contemplata
nella Direttiva regionale n. 14/1997)”.
La Provincia ritiene che la procedura di cui all’art. 19 del
D.P.R. n. 327/2001 possa essere attivata solo per un nuovo
intervento riferito ad un singolo edificio da destinare ad
edilizia residenziale pubblica, dato il carattere di elevato
interesse pubblico degli interventi da realizzarsi
nell’ambito dei PEEP e in considerazione dei fatto che il
punto 3c) dell’art. 60 delle NTA del PPAR prevede “una
specifica esenzione per le varianti urbanistiche adottate
dai comuni ai sensi dell’articolo 1 della legge 1/1978 (ora
art. 19 del D.P.R. n. 327/2001), ma non già per i nuovi
P.E.E.P. in variante al vigente P.R.G.” (Regione Marche,
parere 19.10.2007 n. 65/2007). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Intervento di ristrutturazione edilizia e
possibilità dì spostamento del fabbricato.
Il Comune chiede se un fabbricato ex colonico “in zona
agricola all’interno di una zona individuata dal PAI come
area di dissesto idrogeologico F - 07 - 0313 con grado di
pericolosità elevata P3”, il quale insiste su di un
terreno di circa 4-5 ettari che “in parte risulta
ricompreso all’interno della zona in frana e in parte no”,
possa essere oggetto di un intervento di ristrutturazione
attraverso la demolizione “e la sua ricostruzione,
rispettandone la stessa sagoma e volumetria, ma posizionato
in altro sito al di fuori della zona definita in dissesto
dal PAI, con il rispetto della distanza dai confini” e
sempre all’interno del terreno di pertinenza che si trova
interamente nella zona agricola ai sensi del vigente PRG,
nella quale sono ammessi tutti gli interventi edilizi
previsti dalla L.R. n. 13/1990.
Il Comune ritiene che tale intervento possa essere
considerato di “ristrutturazione” ai sensi del D.P.R.
n. 380/2001 e successive modifiche ed integrazioni, in
quanto con l’entrata in vigore di questo “nella
ristrutturazione è stato compreso anche l’intervento di
demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e
sagoma senza un chiaro richiamo all’area di sedime” e la
Circolare del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti
del 07.08.2003, n. 4174/316/26 “con cui si è cercato di
chiarire il rispetto dell’area di sedime, con l’intento di
escludere la possibilità di ricostruire il fabbricato in
altro sito, ovvero posizionarlo all’interno dello stesso
lotto in maniera del tutto discrezionale, poiché in caso
contrario non si avrebbe più un intervento di recupero”,
precisa tuttavia che resta possibile nel diverso
posizionamento dell’edificio “adeguarsi alle disposizioni
contenute nella strumentazione urbanistica vigente per
quanto attiene allineamenti, distanze e distacchi”
(Regione Marche,
parere 09.08.2007 n. 60/2007). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Richiesta di permesso di costruire in deroga ai
sensi dell’art. 14 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Il Comune fa presente che gli “Istituti Riuniti di
beneficenza” del Comune “hanno inoltrato una
richiesta riguardo la possibilità dì deroga prevista
dall’art. 14 dei D.P.R. 380/2001 e s.m.i. in ordine al
limite di densità edilizia e di altezza, per la
realizzazione dell’ampliamento della Casa di Riposo e della
residenza protetta in adeguamento alla L.R. 20/2002 e s.m.i.”
e che a tal proposito hanno precisato di essere “una
Istituzione pubblica di Assistenza e Beneficenza (IPAB) e
quindi Ente pubblico a tutti gli effetti come da statuto
approvato da Giunta Regionale Marche con Decreto
Presidenziale n. 196 del 22.12.1999 Prot. n. 29/196/SAG”.
Il Comune ritiene che “la tipologia dell’intervento e la
natura giudica dei soggetto richiedente determinano la
possibilità di deroga prevista dall’art. 14 del D.P.R.
380/2001 e s.m.i.” e chiede se tale valutazione sia
corretta (Regione Marche,
parere 05.07.2007 n. 58/2007). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Crollo di edificio sottoposto a ristrutturazione
edilizia - Variante a permesso di costruire mediante
denuncia di inizio attività ai sensi dell’art. 22, comma 2,
del D.P.R. n. 380/2001.
Il Comune chiede “se è necessaria l’applicazione della
sanzione di Euro 516,00 prevista dall’art. 37 del D.P.R.
380/ 2001, per una denuncia inizio attività depositata in
variante al permesso di costruire, relativo alla
ristrutturazione di un fabbricato colonico, mediante
demolizione completa con fedele ricostruzione” e, in
particolare, se tale denuncia di inizio attività “depositata
in corso d’opera” e “per l’avvenuta completa
demolizione del fabbricato stesso (non prevista) nel
progetto originario, possa rientrare fra le varianti di cui
all’art. 22, comma 2, del D.P.R. 380/2001 o se la stessa
debba considerarsi in corso d’opera e cioè fra le D.I.A. di
cui all’art. 37, comma 5, del citato D.P.R. 380/2001”.
A tal fine fa presente: che il comune “ha rilasciato un
permesso di costruire, per la ristrutturazione” di un “fabbricato
rurale” e che “il relativo progetto prevedeva la
ristrutturazione dell’edificio senza completa demolizione e
senza aumenti di volume e di sagoma preesistenti; che il
direttore dei lavori “comunicava l’avvenuto parziale crollo
dell’edificio” e “la sospensione dei lavori”; che
successivamente veniva depositata “una variante al permesso
di costruire originario, con la quale si prevedeva che la
ristrutturazione dell’edificio sarebbe avvenuta con una
modalità esecutiva diversa e precisamente mediante
demolizione e ricostruzione integrale dell’edificio con
stessa volumetria e sagoma di quello preesistente”.
Fa anche presente che l’edificio “non risulta fra quelli
di valore storico e architettonico sulla base del censimento
redatto ai sensi dell’art. 15 della L.R. n. 13/1990.
Pertanto per lo stesso non vige il divieto di demolizione di
cui al 3° comma dell’art. 15 della predetta legge regionale”
e che “non rientra nella casistica di cui all’art. 6, 2°
comma, della L.R. 13/1990 in quanto di volumetria inferiore
ai 1000 m. Per lo stesso vige invece la norma di cui al 1°
comma dei predetto articolo, nel quale non figura il divieto
di demolizione ma solo quello di non aumentarne il volume”.
Il Comune rileva inoltre che a seguito della segnalazione
del fatto da parte della Polizia Municipale l’Ufficio
tecnico “precisava che la diversa modalità di attivazione
dell’intervento di ristrutturazione doveva essere
regolarizzata con apposita variante secondo le procedure di
cui al D.P.R. n. 380/2001 e che la ricostruzione
dell’edificio, ancora da effettuare, doveva avvenire
nell’integrale rispetto della volumetria e sagoma
autorizzati e con l’utilizzo di materiali che facciano salvo
l’aspetto esterno dell’edificio”, variante poi
presentata in tal senso dagli interessati come sopra
esposto, e che quindi “non è necessario applicare alcuna
sanzione” (Regione Marche,
parere 14.06.2007 n. 55/2007). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Applicazione dell’art. 9, primo comma, lett. d),
della legge 28.01.1977, n. 10 (ora art. 17, comma 3, lett.
b) del D.P.R. 06.06.2001, n. 380).
Il Comune fa notare che la quinta sezione del Consiglio di
Stato ha pronunciato la decisione n. 9672 del 1998 (rectius:
n. 6289 dei 2004), che allega in copia, con la quale si è “dato
ragione ad un comune che aveva imposto il pagamento del
contributo di costruzione per un intervento di
ristrutturazione su un edificio ex agricolo, unifamiliare,
senza alcun incremento di unità immobiliari”.
Il Comune ritiene che l’intervento oggetto del contendere
avrebbe dovuto essere esente dal contributo di costruzione,
così come disposto dall’art. 17, comma 3, lett. b), del
D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (già art. 9, primo comma, lett.
d), della legge 28.01.1977, n. 10).
Chiede quindi, alla luce della predetta decisione del
Consiglio di Stato, “quali indirizzi intraprendere per
interventi analoghi” e, “in particolare se il cambio
di destinazione da ex utilizzo “agricolo” dell’immobile
inteso quale vecchia abitazione del colono, ad edificio
“residenziale”, determina o meno un provvedimento oneroso
anche nel caso in cui l’intervento, pur prevedendo
l’estensione dei locali uso abitativo anche al piano terra,
mantiene un uso unifamiliare” (Regione Marche,
parere 05.06.2007 n. 54/2007). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Disciplina della denuncia di inizio attività.
Il Comune pone dei quesiti sulla disciplina della denuncia
di inizio attività, di cui agli articoli 22 e 23 del D.P.R.
06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia), in ordine
ai quali si osserva quanto segue.
QUESITO N. 1
In considerazione del fatto che l‟art. 22, commi 3 e 7, del
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, consente all'interessato, per gli
interventi edilizi ivi indicati, di presentare una denuncia
di inizio attività (DIA) o di richiedere il permesso di
costruire, si chiede se “in caso di opere eseguite non
conformemente alla denuncia inizio attività o al permesso di
costruire presentato”, gli adempimenti relativi
all'accertamento dell'abuso “vanno riferiti ai tipo di
domanda esistente (Permesso di costruire o DIA) o alla
natura dell'intervento”.
Il Responsabile dell'Area tecnica del Comune ritiene che
nell'accertamento delle opere difformi “debba essere
fatto riferimento alla tipologia dell'intervento” e non
al titolo abilitativo edilizio che si è richiesto ed
ottenuto.
QUESITO N. 2
Alla luce di quanto stabilito dall'art. 23 del D.P.R. n.
380/2001, sulla disciplina della denuncia di inizio
attività, e dagli attuali articoli 19 e 20 della legge
07.08.1990, n. 241, che non escludono dal proprio ambito di
applicazione la materia urbanistica e che prevedono che nei
casi in cui il silenzio dell'Amministrazione equivale
all'accoglimento della domanda, questa possa assumere
determinazioni in via di autotutela, si chiede se “il
termine dei 30 giorni prima dell'effettivo inizio previsto
dallo art. 23 del T.U.” “possa essere inferiore”,
qualora il “Responsabile del competente ufficio comunale,
concluda il proprio iter di verifica della denuncia inizio
attività attestandone la correttezza della presentazione e
la completezza dei documenti”.
Il Responsabile dell'Area tecnica del Comune ritiene che il
termine dei 30 giorni previsto dall'art. 23 del D.P.R. n.
380/2001 sia da ritenere come un termine concesso
all'Amministrazione “per le proprie valutazioni e
l'eventuale notifica dell'ordine di non iniziare, qualora
sia riscontrata l'assenza di una o più condizioni” e che
pertanto, qualora il Responsabile del competente ufficio
comunale, concluda prima di trenta giorni il proprio iter di
verifica della denuncia inizio attività attestandone la
correttezza della presentazione e la completezza dei
documenti il richiedente possa procedere all'inizio delle
opere anche prima che siano trascorsi 30 giorni dalla
presentazione dell'istanza”.
QUESITO N. 3
Si chiede un parere in relazione ad un caso specifico, che
viene illustrato nel quesito e che concerne l‟applicazione
di quanto stabilito dall'art. 3, comma 1, lett. e 6), del
D.P.R. n. 380/2001 sugli interventi pertinenziali da
considerare come di “nuova costruzione”. (Regione
Marche,
parere 24.05.2007 n. 52/2007). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Pagamento del contributo di costruzione, ai
sensi dell’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001, per il recupero
di un edificio da destinare a residenza protetta e casa di
riposo per anziani.
Il Comune chiede se “è necessario il pagamento del
contributo di costruzione stabilito dall’art. 16 del D.P.R.
380/2001, per il recupero di un fabbricato esistente
costruito come colonia climatica e da destinare a residenza
protetta e casa di riposo per anziani, individuate nella
L.R. 20/2002”.
A tal fine fa presente che il fabbricato “è stato
costruito con regolare licenza edilizia in data 26.07.1964,
come colonia climatica”, che è ad oggi inutilizzato e “ricade
in una zona classificata dal vigente P.R.G. come “T”
Turistica, le cui N.T.A. prevedono le destinazioni a
carattere prevalentemente turistiche e ricettive” e che
“il progetto presentato prevede il recupero del
fabbricato esistente mediante l’esecuzione di opere interne,
con modifica degli ambienti, rifacimento degli impianti
tecnologici, nuovi ascensori per lettighe ed altre opere di
finitura interne ed esterne al fine di utilizzare il
fabbricato con le destinazioni sociali sopra riportate”.
Il Comune afferma infine che la richiesta di parere è
motivata “dal fatto che ci sono dubbi se la diversa
destinazione dei fabbricato prevista in progetto possa
rientrare o meno, fra gli interventi di mutamento d’uso, con
aumento degli standards, di cui alla L.R. 14/1986”
(Regione Marche,
parere 08.05.2007 n. 46/2007). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Pubblicazione dei rapporti e delle ordinanze di
sospensione dei lavori per abusi edilizi a norma dell’art.
31, comma 7, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (già art. 7,
settimo comma, della legge n. 47/1985).
Il Comune ha inviato a questo Servizio copia dell’elenco dei
dati relativi alle opere edilizie realizzate abusivamente
nel territorio comunale nei mesi di novembre e dicembre
2006, oggetto dei rapporti degli ufficiali ed agenti di
polizia giudiziaria, che il Segretario comunale ha redatto
ai sensi dell’art. 31, comma 7, del D.P.R. n. 380/2001 (già
art. 7, settimo comma, della legge n. 47/1985) (Regione
Marche,
parere 22.01.2007 n. 25/2007). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Parcheggi pubblici ai sensi del DM n. 1444/1968.
Il Direttore generale del Consorzio per la
industrializzazione delle valli del Tronto, dell’Aso e del
Tesino (Piceno Consind) chiede se possono essere considerati
parcheggi pubblici, ai sensi dell’art. 5 del D.M.
02.04.1968, n. 1444, anche i parcheggi interrati e in
elevazione e, in tal caso, se “deve essere ceduta
all’ente pubblico, dal soggetto proprietario, anche la
relativa area di sedime (proiezione sul piano di campagna),
qualora la stessa non sia destinata a standard pubblico”
(Regione Marche,
parere 03.11.2006 n. 9/2006). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: interpretazione dell’art. 167 del D.Lgs.
22.01.2004, n. 42, come sostituito dall’art. 27 del D.Lgs.
24.03.2006, n. 157.
Il Comune osserva che il D.Lgs. 24.03.2006, n. 157 “ha
introdotto rilevanti modifiche all’art. 167 del Codice
Urbani, in particolare per quanto riguarda la possibilità di
sanare i piccoli abusi”, prevedendo che “in luogo
dell’ordine di rimessione in pristino” possa essere
consentito al soggetto interessato di chiedere all’autorità
di tutela l’accertamento della compatibilità paesaggistica
dell’intervento che ha effettuato nelle ipotesi indicate al
comma 4.
A tal fine chiede una interpretazione circa la
classificazione dei lavori “che non abbiano determinato
creazioni dì superfici utili o volumi ovvero aumento di
quelli legittimamente realizzati” ai quali fa
riferimento la lettera a) del comma 4 del nuovo testo
dell’art. 167, “in rapporto alla classificazione di cui
all’art. 3 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380”.
Il Comune rileva infatti che da una sommaria lettura della
norma “i lavori che non determinano creazioni di
superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli
legittimamente realizzati possono essere classificati sia
come interventi di restauro e risanamento conservativo che
di ristrutturazione” anche se “non espressamente
citati dal legislatore nello stesso comma alla lettera c)”
(Regione Marche,
parere 26.10.2006 n. 8/2006). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Realizzazione postazione di emergenza “118” e
nuovo complesso da adibire a sede operativa della pubblica
assistenza “AVIS” del Comune, Classificazione
dell’intervento ai sensi dell’art. 16, comma 8, del DPR n.
380/2001.
Il Comune fa presente che “l’associazione pubblica
assistenza AVIS del Comune” ha richiesto il rilascio del
permesso di costruire per la “costruzione di un edificio
destinato alla postazione di emergenza 118 e alla sede
operativa della associazione”, nel quale sono previsti “sia
il deposito dei mezzi a disposizione dell’associazione
(autoambulanze, macchine, ecc,) sia sale per i corsi con
relativi servizi igienici e camera da letto per gli
operatori che svolgono il servizio 118”.
A tal proposito fa notare che “l’associazione è iscritta
nel Registro regionale del volontariato, ai sensi dell’art.
6 della L. 266/1991 nel settore sanità e a seguito del
decreto di riforma di cui al D.lgs. 460/1997, che ha
istituito la figura delle ONLUS, è considerata ex lege una
ONLUS di diritto (art. 10, comma 8)”. Precisa infine che
“l’attività istituzionale dell’associazione è configurata
nel trasporto infermi, ammalati e feriti con mezzi sanitari
(autoambulanze) in centri specializzati per cure e terapie
(dialisi, chemioterapia, ecc.) integrazione del carente
servizio effettuato dalla ASL di competenza per territorio
(compreso il servizio 118)”.
Il Comune rileva che “il progetto presentato è funzionale
alle attività svolte dall’associazione” e ritiene
pertanto che “l’intervento può essere classificato come
opera di urbanizzazione secondaria in quanto attrezzatura
sanitaria ai sensi dell’art. 16, comma 8, del D.P.R.
380/2001”, Chiede quindi se tale valutazione “può
considerarsi corretta ai fini del rilascio del permesso di
costruire” (Regione Marche,
parere 21.08.2006 n. 7/2006). |
URBANISTICA:
OGGETTO: Richiesta di chiarimenti sulla durata di un
P.P.E..
Il Presidente dell’Ordine degli Ingegneri della provincia di
Ascoli Piceno ha trasmesso a questo Servizio, con preghiera
di avere un parere in merito, un quesito sull’applicazione
dell’art. 17, primo comma, della legge urbanistica
17.08.1942, n. 1150, secondo il quale “decorso il termine
stabilito per la esecuzione del piano particolareggiato
questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia
avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo
indeterminato l’obbligo di osservare nella costruzione di
nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli
allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano
stesso” (Regione Marche,
parere 08.08.2006 n. 4/2006). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Comune di Osimo (AN) - Realizzazione di un
impianto di distribuzione G.P.L. per autotrazione in zona
verde agricolo con attività produttive (art. 26 delle N.T.A.
del P.R.G.) (Regione Marche,
parere 27.11.1992 n. 516 di prot.) |
NEWS |
ENTI LOCALI: DECRETO
SALVA ENTI/ Non soltanto sindaci, presidenti e assessori nel
mirino del dl. La tagliola anche sui revisori.
Niente incarichi per 10 anni a chi contribuisce al dissesto.
Anche i revisori che contribuiranno al dissesto degli enti
sui quali avrebbero dovuto vigilare incapperanno in pesanti
conseguenze, che nei casi estremi potranno arrivare a un
divieto decennale di assumere nuovi incarichi.
Non ci sono solo sindaci, presidenti e assessori nel mirino
delle misure anti-dissesto varate dal governo nel decreto
sulla finanza locale.
Certo, a fare notizia sono soprattutto le sanzioni previste
per i politici, ma la mannaia potrebbe colpire duro anche i
professionisti.
Qualora, infatti, a seguito della dichiarazione di dissesto,
la Corte dei conti accerti gravi responsabilità nello
svolgimento dell'attività del collegio dei revisori, o
ritardata o mancata comunicazione, secondo le normative
vigenti, delle informazioni, i relativi componenti
riconosciuti responsabili in sede di giudizio contabile non
potranno più essere nominati nel collegio dei revisori degli
enti locali e degli enti e organismi agli stessi
riconducibili fino a dieci anni, in funzione della gravità
accertata.
La Corte dei conti, inoltre, trasmetterà l'esito
dell'accertamento anche all'ordine professionale di
appartenenza per valutazioni inerenti all'eventuale avvio di
procedimenti disciplinari, nonché al ministero dell'interno
per la conseguente sospensione dall'elenco di cui
all'articolo 16, comma 25, del dl 138/2011. Ai revisori
distratti, infine, le sezioni giurisdizionali regionali
della magistratura contabile potranno irrogare una sanzione
pecuniaria pari a un minimo di cinque e fino a un massimo di
20 volte la retribuzione dovuta al momento di commissione
della violazione.
Sanzioni analoghe colpiranno i politici che verranno
riconosciuti dalla Corte dei conti, anche in primo grado,
responsabili di aver contribuito con condotte, dolose o
gravemente colpose, sia omissive che commissive, al
verificarsi del dissesto. Essi non potranno ricoprire, per
un periodo di dieci anni, incarichi di assessore, di
revisore dei conti di enti locali e di rappresentante di
enti locali presso altri enti, istituzioni e organismi
pubblici e privati.
I sindaci e i presidenti di provincia,
inoltre, non saranno candidabili, per un periodo di dieci
anni, alle cariche di sindaco, di presidente di provincia,
di presidente di Giunta regionale, nonché di membro dei
consigli comunali, dei consigli provinciali, delle assemblee
e dei consigli regionali, del Parlamento e del Parlamento
europeo. Essi non potranno neppure ricoprire per un periodo
di tempo di dieci anni la carica di assessore comunale,
provinciale o regionale, né alcuna carica in enti vigilati o
partecipati da enti pubblici. Anche per loro, infine, è
prevista una sanzione pecuniaria pari a un minimo di cinque
e fino a un massimo di 20 volte la retribuzione dovuta al
momento di commissione della violazione.
A ben vedere, misure analoghe erano già contenute nel
decreto «premi e sanzioni» (dlgs 149/2011), adottato
nell'ambito del federalismo fiscale.
Le nuove disposizioni, tuttavia, si inseriscono in un
contesto normativo decisamente cambiato. Il legislatore,
infatti, ha previsto nuovi strumenti volti a prevenire
l'emersione di nuovi casi di dissesto. In particolare, verrà
attivato un fondo rotativo a favore degli enti locali alle
prese con gravi criticità finanziarie, purché si impegnino a
definire un rigoroso piano pluriennale di riequilibrio, da
implementare sotto la stretta vigilanza di Viminale e
(soprattutto) della magistratura contabile.
Il piano dovrà essere accompagnato da un parere dell'organo
di revisione economico-finanziaria.
L'introduzione di simili meccanismi, ovviamente, non potrà
che aggravare la posizione di coloro che (amministratori o
revisori) continueranno a chiudere gli occhi sulle
problematiche contabili e finanziarie più rilevanti, nel
momento in cui queste esploderanno, come recentemente
avvenuto in non pochi comuni. In tali casi, il rischio di
incappare nelle pesanti sanzioni sopra ricordate diventa
sempre più elevato
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Regioni, controlli più duri che in comune.
Si stringe la morsa intorno alle regioni, che vengono a
assoggettate ad obblighi e controlli persino più stringenti
di quelli imposti agli enti locali.
Il dl approvato dal governo rafforza decisamente le
prerogative della Corte dei conti e impone una dieta
sostanzialmente obbligatoria per i costi della politica, con
il recupero delle misure già previste dal dl 138/2011 (quasi
tutte rimaste inattuale malgrado una pronuncia favorevole
della Consulta) e la previsione di ulteriori potature.
I controlli
Sul primo versante, viene reintrodotto il controllo
preventivo di legittimità sui principali atti regionali di
spesa, affidandolo alle sezione regionali di controllo della
magistratura contabile. Ma soprattutto, si prevede che
queste ultime verifichino ex ante l'attendibilità dei
bilanci di previsione proposti dalle giunte ai consigli, in
relazione alla salvaguardia degli equilibri contabili, al
rispetto del Patto di stabilità interno e alla sostenibilità
dell'indebitamento. Qualora siano accertati comportamenti
difformi dalla sana gestione finanziaria o il mancato
rispetto degli obiettivi di Patto, le sezioni regionali
adottano specifica pronuncia e vigilano sull'adozione, da
parte della regione, delle necessarie misure correttive e
sul rispetto dei vincoli e limitazioni ad essa imposte. A
completare il cerchio, viene disposto che i rendiconti
generali delle regioni siano sottoposti a giudizio di
parifica con modalità analoghe a quelle previste per il
bilancio consuntivo statale.
Previsti, poi, controlli semestrali, rispettivamente, sulla
tipologia delle coperture finanziarie adottate dalle leggi
regionali, sulla legittimità e regolarità delle gestioni,
nonché sul funzionamento dei controlli interni.
Laddove vengano accertati casi di squilibri
economico-finanziari, mancata copertura di spese o in
generale violazioni di norme a tutela della sana gestione,
scatta l'obbligo per le regioni di adottare, entro 60
giorni, gli opportuni provvedimenti. Nel frattempo, è
preclusa l'attuazione dei programmi di spesa oggetto di
rilievi.
L'occhio della Corte dei conti viene puntato anche sulle
assemblee e sui gruppi consiliari, che dovranno trasmettere
alle Sezioni Riunite un rendiconto annuale che attesti
(attraverso l'allegazione dei relativi giustificativi) il
regolare utilizzo dei finanziamenti ricevuti. Le eventuali
irregolarità dovranno essere sanate entro un termine
perentorio, a pena di decadenza dal diritto all'erogazione
(che fa scattare anche l'obbligo di restituire le somme
ricevute). Idem in caso di ritardo, inadempimento o di
violazioni palesi.
I costi della politica
A quanto già previsto dall'art. 14 del dl 138, si aggiungono
nuovi obblighi (si veda la tabella).
Questa volta, però, il legislatore sceglie una strada
diversa dal passato per garantire che tali misure vengano
recepire dalle regioni. Oltre a fissare a queste ultime un
termine (30.11.2012, ovvero entro 6 mesi dalla data di
entrata in vigore del dl, laddove sia necessario modificare
lo statuto), esso ha previsto che una quota dei
trasferimenti erariali a favore dei governatori (l'80% di
quelli non destinati a sanità e tpl e il 5% di quelli che
finanziano il Ssn) sarà riservata a chi farà i compiti a
casa. Gli atri resteranno a secco, ma non solo: alle regioni
inadempienti verrà fissato un termine di 90 giorni per
provvedere, decorso il quale potrà essere disposto lo
scioglimento del consiglio regionale ai sensi dell'art. 126
Cost.
Tali disposizioni, si cura di precisare la norma, vale anche
per le regioni speciali (sia pure con le modalità di cui
all'art. 27 della l. 42/2009), nonché per quelle nelle quali
il presidente «abbia presentato le dimissioni» ovvero si
debba andare ad elezioni (vedi Lazio). In tal caso, i
termini decorrono dall'insediamento dei nuovi consigli
(articolo ItaliaOggi del 06.10.2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: DECRETO
SALVA ENTI/ Comuni, il controllato è controllore.
Il dirigente sarà chiamato a dare un parere sui propri atti.
Visto di regolarità contabile e
copertura finanziaria ex ante.
Un'invasione di burocrazia, con limitati effetti concreti.
Il «nuovo» sistema dei controlli interni previsto dal
decreto sulla finanza e il funzionamento degli enti locali
suscita più di una perplessità sul piano del funzionamento
pratico.
Ne costituisce esempio concreto il principale tra i
controlli disciplinati, quello di regolarità amministrativa
e contabile, che più si avvicina alla tipologia dei
controlli preventivi di legittimità troppo disinvoltamente a
suo tempo aboliti dalle riforme Bassanini.
Tale tipologia di controllo, prevede il nuovo articolo
147-bis del dlgs 267/2000 va svolto, dispone la norma,
«nella fase preventiva della formazione dell'atto, da ogni
responsabile di servizio ed è esercitato attraverso il
rilascio del parere di regolarità tecnica attestante la
regolarità e la correttezza dell'azione amministrativa».
La norma è scritta come se vi fosse alterità tra il soggetto
che adotta i provvedimenti amministrativi ed il responsabile
di servizio, chiamato a controllarli. È un errore di
prospettiva e di concezione del procedimento di formazione
delle determine.
La maggior parte dei provvedimenti decisionali degli enti
locali sono le determine, adottate dal dirigente o dal
responsabile di servizio, cioè il medesimo soggetto che il
regime dei controlli chiama ad esprimere un parere,
paradossalmente rivolto, nella sostanza, a se stesso.
Il controllo di regolarità amministrativa è sempre stato da
considerare insito nella stessa sottoscrizione del
provvedimento da parte del vertice amministrativo, che nel
momento in cui lo sottoscrive lo adotta, implicitamente
dichiarandolo regolare.
Di fatto, dunque, il parere diviene un passaggio burocratico
in più, da gestire in una fase precedente la materiale
adozione del provvedimento, che andrà regolamentata con una
proposta di provvedimento o una relazione istruttoria, ai
sensi dell'articolo 6, comma 1, lettera e), della legge
241/1990.
L'articolo assegna anche al responsabile del servizio
finanziario un ruolo rilevante nel controllo di regolarità
amministrativa, confermando che esso vada esercitato
«attraverso il rilascio del parere di regolarità contabile e
del visto attestante la copertura finanziaria», ma
stabilendo che tale parere vada rilasciato a sua volta nella
fase preventiva all'adozione dell'atto. Mentre sin qui, al
contrario, il visto del responsabile è sempre intervenuto
successivamente alla fase di formazione, anche allo scopo di
attribuire al provvedimento di spesa l'efficacia.
Un bel bailamme, involontariamente, tuttavia, coordinabile,
almeno per quanto riguarda le determinazioni a contrattare
precedenti la stipulazione dei contratti, con le previsioni
dell'articolo 18 della legge 134/2012, che rimette
l'efficacia concreta del titolo giuridico per erogare
legittimamente somme ai contraenti la pubblicazione sul sito
delle amministrazioni dei dati previsti dal medesimo
articolo 18. Il quale, dunque, aveva già indirettamente
privato il visto del responsabile del servizio finanziario
della piena efficacia.
Il sistema, in ogni caso, assegna al responsabile dei
servizi finanziari funzioni di controllo di particolare
rilievo. Tale soggetto sarà chiamato in causa per il
consolidamento dei conti dell'ente con le società
partecipate, ma, soprattutto sarà diretto protagonista del
controllo degli equilibri finanziari, fondamentale per il
rispetto dei vincoli di pareggio del bilancio statale (al
quale gli enti locali concorreranno).
Proprio con riferimento al responsabile dei servizi
finanziari, la riforma al dlgs operata dal decreto introduce
una sorta di forma di «garanzia» nella permanenza delle
funzioni, ma limitatamente agli enti privi di dirigenza. Un
rimedio allo spoils system troppo limitato per essere
considerato davvero efficace
(articolo ItaliaOggi del 06.10.2012
- link a www.ecostampa.it). |
APPALTI SERVIZI: DECRETO
CRESCITA/ Utility con affidamenti a tempo.
Termine entro il 2020 a meno di scadenze precedenti.
Approvate nuove regole sulla gestione del servizio pubblico locale.
Gli affidamenti diretti di servizi pubblici locali disposti
prima dell'01.10.2003 termineranno entro il 2020, salvo
che non siano previste scadenze precedenti; se un ente
locale decide di procedere con affidamento diretto per la
gestione di un servizio pubblico ha l'obbligo di pubblicare
sul sito internet le ragioni della scelta e la sussistenza
dei presupposti.
Sono questi alcuni dei contenuti delle norme del
decreto-legge sulla crescita varato dal Consiglio dei
ministri di giovedì in materia di servizi pubblici locali Si
tratta dei commi da 13 a 16 dell'articolo 34 che si pongono
l'obiettivo, in questo nuovo intervento sulla materia, di
assicurare il rispetto del diritto comunitario, sotto il
profilo della concorrenza e della tutela del mercato e di
introdurre ulteriori elementi di trasparenza.
In particolare il comma 13 riguarda i servizi pubblici
locali di rilevanza economica e prevede in primo luogo che
gli enti competenti predispongano e rendano pubblica sul
sito istituzionale una relazione che spieghi le ragioni e la
sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento
comunitario in ordine alla scelta dell'affidamento
individuato per la gestione del servizio. L'obbligo di
rendere pubblica la relazione viene messo in rapporto alla
necessità di assicurare la trasparenza delle scelte di
affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza
economica, il rispetto delle regole europee per il mercato
interno e la concorrenza ovvero la sussistenza dei requisiti
previsti dall'ordinamento europeo per l'affidamento diretto,
implicitamente recependo anche le indicazioni della recente
sentenza della Corte costituzionale (la 119 di quest'anno).
Non si tratta di una particolare novità, dal momento che
tutti i provvedimenti amministrativi devono essere
ovviamente motivati in rapporto ai vincoli normativi
previsti dalla disciplina nella quale si collocano; semmai
la novità è rappresentata dal fatto che la relazione sia
resa pubblica sul sito internet dell'ente. Gli enti locali
sono destinatari di un divieto generale di istituire
organismi, aziende ed enti comunque denominati e di
qualsiasi natura giuridica, che esercitino una o più
funzioni fondamentali e funzioni amministrative attribuite
ai sensi dell'art. 118 della Costituzione.
Diversi i tempi per la pubblicazione della relazione: per
gli affidamenti in essere, entro il 31.12.2013; per
gli affidamenti per i quali non è prevista una data di
scadenza, gli enti competenti provvedono contestualmente ad
inserire nel contratto di servizio o negli altri atti che
regolano il rapporto un termine di scadenza
dell'affidamento, pena la cessazione dell'affidamento
medesimo alla data del 31.12.2013.
Viene poi fissata alla fine del 2020 (salvo data anteriore a
fine 2020), la data limite per la cessazione degli
affidamenti diretti assentiti alla data del primo ottobre
2003 a società a partecipazione pubblica già quotate in
borsa a tale data, e a quelle da esse controllate ai sensi
dell'articolo 2359 del codice civile, laddove non sia
prevista una data di scadenza In altre parole è come se si
prevedesse l'obbligo di inserire la scadenza del 2020 nei
contratti affidati prima del 2003 che non prevedono alcuna
scadenza.
Infine il comma 16 dell'articolo 34 del decreto-legge
prevede un intervento sul comma 1 dell'articolo 3-bis del
decreto legge 13.08.2011, n. 138, convertito, con
modificazioni, dalla legge 14.09.2011, n. 148, e
successive modificazioni,
La norma sulla quale si interviene è quella che stabilisce
che i servizi pubblici locali di rilevanza economica abbiamo
come territorio di riferimento bacini ottimali e omogenei
tali da consentire economie di scala e di differenziazione
idonee a massimizzare l'efficienza del servizio.
La novella apportata dal decreto chiarisce che anche “le
procedure per il conferimento della gestione dei servizi
pubblici locali a rete di rilevanza economica sono
effettuate unicamente per ambiti o bacini territoriali
ottimali e omogenei e che tale onere spetta agli enti di
governo istituiti o designati dalla regioni o province le
quali, a loro volta, hanno definito «il perimetro» degli
ambiti e i bacini ottimali".
La norma, in sostanza, in coerenza con la necessità di
favorire le unioni fra enti locali per la gestione dei
servizi pubblici, rende applicabile il riferimento ai bacini
ottimali per tutte le fasi procedurali, dall'individuazione
dei bacini ad opera della regioni, alla programmazione, alle
procedure di affidamento e alla gestione del servizio
(articolo ItaliaOggi del 06.10.2012
- link a www.ecostampa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Responsabilità
per il dirigente che non usa strumenti informatici.
Un nuovo carico di responsabilità per i dirigenti pubblici.
Il decreto sviluppo-bis allo scopo di assicurare la completa
attuazione della digitalizzazione della pubblica
amministrazione introduce specifiche sanzioni a carico dei
dirigenti che non operino in modo da estendere gli strumenti
informatici.
Una prima tipologia di responsabilità è connessa alle
modalità di trasmissione dei documenti attraverso la posta
elettronica tra le pubbliche amministrazioni.
Il decreto prevede ipotesi di responsabilità dirigenziale e
disciplinare nei confronti dei dirigenti, nel caso in cui si
violi il disposto dell'articolo 47, comma 1, del dlgs
82/2005. Tale norma dispone che «le comunicazioni di
documenti tra le pubbliche amministrazioni avvengono
mediante l'utilizzo della posta elettronica o in
cooperazione applicativa; esse sono valide ai fini del
procedimento amministrativo una volta che ne sia verificata
la provenienza».
Compito specifico della dirigenza, dunque, è organizzare gli
uffici in modo che si prestino a gestire le comunicazioni
con cittadini ed imprese senza più impedimenti. Lo strumento
della posta elettronica certificata, in particolare, deve
essere quello privilegiato.
La responsabilità a carico dei dirigenti è, tuttavia,
piuttosto delicata e al limite delle caratteristiche della
responsabilità oggettiva. È evidente, infatti, che la
dirigenza potrà assicurare la piena operatività delle
comunicazioni online solo ricorrendo una serie di
condizioni. In particolare, occorre ovviamente che gli enti
abbiano correttamente predisposto gli strumenti telematici
necessari. La responsabilità dirigenziale scatta laddove non
si assicuri ai dipendenti la necessaria formazione
sull'utilizzo di questi strumenti e non vengano adottate
chiare e specifiche direttive operative, per iscritto,
finalizzate all'attuazione della norma, come ad esempio la
previsione del divieto assoluto di inviare documenti ad
altre pubbliche amministrazioni se non mediante gli
strumenti telematici.
Simmetriche responsabilità, sempre di tipo «dirigenziale»
(dunque connessa alla valutazione e alla retribuzione di
risultato) e di carattere disciplinare deriva dalla mancata
attivazione del procedimento amministrativo in conseguenza
della ricezione di istanze telematiche.
Da tempo la legislazione ha preso la strada di favorire la
comunicazione telematica con le pubbliche amministrazione.
Non bisogna nascondere che non di rado proprio le strutture
amministrative costituiscano un ostacolo alla piena
esplicazione delle comunicazioni telematiche, in quanto gli
uffici non vengono organizzati in modo corretto.
Per questo, il decreto sviluppo-bis stabilisce che «il
mancato avvio del procedimento da parte del titolare
dell'ufficio competente a seguito di istanza o dichiarazione
inviate» con gli strumenti digitali fa scattare le
responsabilità evidenziate sopra.
La norma, dunque, introduce l'obbligo di avviare i
procedimenti amministrativi laddove i cittadini e le
imprese, chiamate, per altro, dal decreto sviluppo a dotarsi
della posta elettronica certificata (che addirittura diverrà
elemento delle schede della nuova anagrafe) o degli altri
mezzi previsti.
Anche in questo caso, la responsabilità dei dirigenti, per
non essere configurata come oggettiva, deve essere
commisurata alla capacità delle strumentazioni in dotazione
agli enti di dialogare mediante strumenti digitali.
Il protocollo informatico capace di registrare le istanze
pervenute con strumenti digitali costituisce non tanto un
dovere, ma anche solo un presupposto, affinché si attivino
una volta e per sempre modalità di gestione dei procedimenti
amministrativi di tipo informatico, che quanto meno siano in
grado di gestire, se non tutte le fasi dell'iter, almeno
quello dell'avvio del procedimento.
I dirigenti sono chiamati anche in questo caso ad aggiornare
e formare i dipendenti addetti ai procedimenti
amministrativi all'uso corretto degli strumenti e a
impartire indicazioni di dettaglio, volte a un chiaro favore
verso l'acquisizione senza alcun ostacolo alle comunicazioni
mediante strumenti telematici, come presupposto per attivare
i procedimenti
(articolo ItaliaOggi del 06.10.2012
- link a www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI -
VARI: DECRETO
CRESCITA/ Le disposizioni sull'agenda digitale. Pec per le
ditte individuali. Versamenti alla p.a., info via web.
Iban e conti correnti nei siti. Per facilitare i pagamenti.
Iban e conti correnti nei siti delle p.a. per facilitare i
pagamenti dei cittadini. Certificati di malattia dei
bambini, ai fini della fruizione del congedo parentale, da
inoltrare telematicamente. I cittadini potranno comunicare
alla p.a. il proprio indirizzo di posta elettronica
certificata, con cui potrà «interfacciarsi» con le altre
amministrazioni pubbliche. Via libera al fascicolo degli
studenti universitari. Conterrà i dati a partire
dall'immatricolazione sino al conseguimento del titolo.
Anche le imprese individuali dovranno dotarsi della Pec.
Questo in sintesi il pacchetto Agenda digitale contenuto nel
decreto crescita entrato ieri all'esame del Consiglio dei
ministri.
P.a. con l'Iban. Nei siti istituzionali delle p.a., ma anche
in quelli di gestori di pubblici servizi che operano con
utenti, dovranno essere indicati i codici Iban
identificativi del conto di pagamento, ovvero i dati
relativi al conto corrente postale cui i cittadini potranno
effettuare i pagamenti mediante bollettino postale.
Possibile altresì per le p.a. di avvalersi di prestatori di
servizi di pagamento, da individuare attraverso Consip,
cosicché i cittadini potranno effettuare i pagamenti con
strumenti quali le carte di credito, di debito e le
prepagate. Da queste previsioni restano espressamente
escluse le operazioni di competenza delle Agenzie fiscali.
Domicilio digitale del cittadino. Ogni cittadino potrà
comunicare alla pubblica amministrazione un proprio
indirizzo di posta elettronica certificata, quale suo
domicilio digitale. Tale indirizzo verrà inserito
nell'anagrafe nazionale della popolazione residente e reso
così disponibile a tutte le pubbliche amministrazioni e ai
gestori di pubblici servizi. Un successivo decreto del Mininterno metterà nero su bianco le relative modalità di
comunicazione. Il decreto prevede che, a partire
dall'01/01/2013, la p.a. comunicherà con i cittadini
esclusivamente attraverso il suo domicilio digitale, tranne
i casi in cui la normativa vigente prevede una diversa
modalità di comunicazione.
Fascicolo elettronico degli studenti. Dall'anno accademico
2013-2014, le università statali e non statali, legalmente
riconosciute, sono tenute a costituire il fascicolo
elettronico dello studente. Un documento che, nelle
intenzioni dell'esecutivo, ridurrà i costi e migliorerà i
servizi per gli stessi studenti. Il fascicolo conterrà tutte
le informazioni della carriera universitaria, a partire
dall'immatricolazione fino al conseguimento del titolo.
Libri digitali. Dall'anno scolastico 2013-2014, il collegio
dei docenti dovrà adottare libri esclusivamente nella forma
digitale o mista, costituita da un testo digitale o cartaceo
e da supporti digitali integrativi. Per le scuole del primo
ciclo, tale obbligo scatterà dal 2014. Il decreto prevede
che le regioni e gli enti locali potranno stipulare
convenzioni con il Miur, al fine di garantire l'offerta
formativa nei confronti di nuclei familiari in situazioni
svantaggiate. Tra queste, anche la possibilità di fornire
attività didattiche attraverso strumenti di e-learning.
Fascicolo sanitario elettronico. Tutti i dati di tipo
sanitario e socio sanitario saranno inseriti nel Fascicolo
sanitario elettronico. Ad istituirlo penseranno le regioni,
con fini di prevenzione, cura e diagnosi, ma anche di
sorveglianza sanitaria e di valutazione dell'assistenza
sanitaria.
Ricette elettroniche. Le regioni, entro sei mesi
dall'entrata in vigore del decreto crescita, dovranno
accelerare la conversione delle prescrizioni mediche in
formato cartaceo con quelle elettroniche. Anzi, dal prossimo
anno le percentuali e non dovranno essere inferiori al 60%
del totale delle prescrizioni emesse. Rapporto che nel 2014
sale all'80% e al 90% nel 2015. Anche i medici dovranno
adeguarsi a questi standard, pena l'applicazione di sanzioni
disciplinari previste dall'articolo 55-septies del dlgs
165/2001.
Malattia bimbi online. Anche la certificazione di malattia
necessaria al genitore per fruire dei congedi dovrà essere
effettuata per via telematica, al pari di quanto oggi
avviene per i lavoratori dipendenti dei settori pubblici e
privati. Sarà il medico convenzionato Ssn a inoltrare
l'istanza all'Inps e il lavoratore avrà l'obbligo, al
momento della comunicazione di indicare le generalità del
genitore che usufruirà di tale congedo.
Imprese individuali. Chi si iscrive al registro imprese,
entro il 31 dicembre 2013 dovrà comunicare il proprio
indirizzo Pec. In caso di inosservanza, iscrizione sospesa
per tre mesi in attesa di regolarizzazione.
Bus e metro. Il biglietto si acquisterà anche via pc e
smartphone.
Giustizia. Nei procedimenti civili, le comunicazioni e le
notifiche saranno effettuate per via telematica. In
particolare, le notifiche nei confronti dei soggetti per i
quali la legge prevede l'obbligo di munirsi di un indirizzo
Pec e che non abbiano ancora ottemperato a tali
prescrizioni, saranno eseguite solo con il deposito in
cancelleria
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2012). |
LAVORI PUBBLICI: DECRETO
CRESCITA/ Project financing defiscalizzato.
Alleggerimento per finanza di progetto superiore a 500 mln.
Misura per le opere da realizzare e
per quelle già programmate.
Defiscalizzazione per le nuove opere da realizzare in
finanza di progetto di valore superiore a 500 milioni e per
le opere già programmate, in corso di realizzazione o in
gestione, se il piano economico-finanziario non è in
equilibrio; 400 milioni per i pagamenti dei debiti Anas per
appalti di lavori e forniture; attribuzione delle funzioni
dalla soppressa Agenzia stare e autostrade al ministero
delle infrastrutture; previste risorse per i comuni
attraversati dalla Livorno - Civitavecchia.
È quanto prevede
per le infrastrutture la bozza di decreto-legge sulla
crescita approvato ieri in consiglio dei ministri.
Defiscalizzazione per infrastrutture in finanza di progetto.
Il decreto legge da il via libera alla defiscalizzazione, a
favore del soggetto realizzatore in partenariato pubblico
privato di nuove opere pubbliche infrastrutturali di importo
superiore a 500 milioni di euro per le quali non siano
previsti contributi pubblici a fondo perduto e per le quali
sia certa la non sostenibilità del piano economico
finanziario. Si tratta di un credito di imposta a valere
sull'Ires e sull'Irap direttamente generate dalla
costruzione e gestione dell'opera, nel limite del 50% del
costo dell'investimento, che dovrebbe consentire il
riequilibrio del Pef.
Sarà possibile utilizzare questa
misura sia per la fase della costruzione dell'opera, sia in
alcun casi, anche per la gestione dell'opera stessa. Il
credito di imposta è posto a base di gara per
l'individuazione dell'affidatario del contratto di
partenariato pubblico privato e successivamente riportate
nel contratto. L'ammissibilità dei benefici richiesti
avviene a valle della verifica da parte del Cipe -su
proposta del ministro delle infrastrutture e dei trasporti,
di concerto con il ministro dell'economia e delle finanze.
La valutazione riguarda la capacità dei piani economico-finanziari, proprio per effetto del credito di imposta, di
conseguire, anche attraverso il mercato, la sostenibilità
necessaria per la realizzabilità degli obiettivi
programmati.
La defiscalizzazione sarà possibile anche per
le opere già affidate già programmate, affidate o in corso
di affidamento, il cui piano economico finanziario non sia
più in equilibrio. Il governo stima che la misura possa
interessare la Brebemi, la Pedemontana lombarda e veneta,
l'Autostrada tirrenica, il Porto di Ancona e la Strada dei
parchi.
Pagamenti appalti Anas. Il decreto legge affronta il tema,
più volte denunciato in queste ultime settimane anche
dall'Ance, delle difficoltà finanziarie di Anas, soprattutto
per quel che concerne l'esposizione debitoria nei confronti
delle imprese. Si interviene consentendo di utilizzare, in
via transitoria e a titolo di anticipazione, 400 milioni di
euro a valere sulle risorse del Fondo centrale di garanzia
per provvedere al pagamento di lavori e forniture già
eseguite. In un'altra norma si fa anche in modo che siano
destinate a Anas altri 100 milioni per le esigenze relative
ai contratti di programma 2010 e 2011, nelle more del
completamento delle procedure contabili.
Funzioni della soppressa Agenzia nazionale strade e
autostrade. Il decreto legge si occupa anche di risolvere il
problema delle attribuzioni di funzioni che erano state
affidate all'Agenzia strade e autostrade che, dal 30.09.2012, è soppressa
ex lege a causa della mancata
nomina dei commissari.
Scaduto il termine occorreva quindi
consentire l'effettiva operatività del trasferimento delle
funzioni di concedente della rete stradale e autostradale di
interesse nazionale da parte di Anas, prevedendo che
unitamente alle predette funzioni transitino
nell'amministrazione (ministero delle infrastrutture), oltre
alle risorse strumentali, umane e finanziarie relative a Ivca (struttura di Anas deputata a compiti di ispezione e
vigilanza sulle concessionarie autostradali), anche le
risorse delle strutture di Anas attualmente impiegate nelle
funzioni proprie del concedente che consistono in compiti e
attività ulteriori rispetto a quelli di vigilanza.
Si
tratta, fra le altre, delle funzioni concernenti la
selezione dei concessionari, l'approvazione dei progetti
relativi ai lavori inerenti la rete stradale ed autostradale
di interesse nazionale, la proposta di programmazione del
progressivo miglioramento e adeguamento della rete delle
strade e delle autostrade statali; le proposte sulla
regolazioni e variazioni tariffarie per le concessioni
autostradali.
Autostrada Livorno-Civitavecchia.
Al fine di reperire risorse da destinare ai comuni che
verranno attraversati dalla nuova infrastruttura
autostradale in corso di progettazione di realizzazione (per
agevolazioni tariffarie ai residenti), il decreto-legge
stabilisce che per i primi dieci anni di gestione della
nuova tratta Cecina - Civitavecchia si proceda a un
trasferimento alla Regione Toscana di una quota fino al 75%
del canone annuo versato dal concessionario (pari al 2,4%
dei proventi netti da pedaggio). Dovrebbe trattarsi di circa
15 milioni l'anno per dieci anni dal momento che il piano
economico finanziario stima proventi per 20 milioni annui
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2012). |
ENTI LOCALI: DECRETO
SALVA ENTI/ Il governo imbriglia le regioni.
Chi non taglia i costi della politica perderà l'80% dei
fondi. Tornano i controlli
preventivi di legittimità e si rafforzano quelli interni.
Rafforzamento dei controlli interni negli enti locali e
ritorno dei controlli preventivi di legittimità sugli atti
delle regioni.
È un accerchiamento a tenaglia quello che il
governo intende realizzare con il decreto legge sulla
trasparenza e la riduzione dei costi degli apparati politici
regionali approvato ieri, per evitare il ripetersi di casi
di corruzione e malaffare come quello che ha travolto la
regione Lazio.
Con argomenti che si annunciano molto
«dissuasivi» per le regioni che non accetteranno di ridurre
i costi della politica. Perderà il 5% dei fondi destinati
alla sanità e l'80% di tutti gli altri finanziamenti (non
saranno toccati invece i contributi al trasporto pubblico
locale) chi entro sei mesi non avrà: ridotto il numero dei
consiglieri, introdotto il divieto di cumulo di indennità e
emolumenti, imposto la partecipazione gratuita alle
commissioni, pubblicizzato i redditi dei politici regionali
e soprattutto adeguato i contributi ai gruppi consiliari e
le indennità di funzione e di carica a quelli della regione
più virtuosa (che dovrà essere individuata entro fine
ottobre).
Nel caso in cui l'inadempienza persista è prevista
una diffida da parte del Governo e la successiva procedura
per lo scioglimento del consiglio. Stretta anche su pensioni
e vitalizi. Potranno essere erogati agli ex governatori,
consiglieri e assessori solo se hanno compiuto 65 anni di
età e ricoperto le cariche per non meno di 15 anni (non
continuativi).
Il taglio del numero di consiglieri e
assessori regionali dovrà essere realizzato entro 6 mesi
dall'entrata in vigore del provvedimento, ad esclusione
delle regioni in cui è prevista una tornata elettorale (per
le quali il limite verrà applicato dopo le elezioni). Il
decreto obbliga anche le regioni ad attenersi alle regole
statali in materia di riduzione di consulenze e convegni,
auto blu, sponsorizzazioni, compensi degli amministratori
delle società partecipate, ecc.
Passando dai costi della politica al controllo finanziario,
si segnala, come detto, una vera e propria entrata a gamba
tesa della Corte dei conti sull'autonomia regionale. Saranno
sottoposti al controllo preventivo di legittimità dei
giudici contabili il piano di riparto delle risorse ai
dirigenti titolari di centri di costo e tutti gli atti
emanati dal governo regionale aventi rilevanza esterna e
riflessi finanziari. Le regioni a statuto speciale e le
province autonome non potranno sfuggire alla stretta dovendo
recepire le novità del decreto legge entro sei mesi.
La
Corte dei conti inoltre controllerà l'attendibilità dei
bilanci di previsione regionali. Le proposte di preventivi
dovranno essere trasmesse alle sezioni regionali che avranno
20 giorni di tempo per verificare che non mettano in
pericolo gli equilibri di bilancio, il rispetto del patto di
stabilità e la sostenibilità dell'indebitamento. Qualora la
Corte accerti spese senza copertura, le regioni dovranno
rimediare entro 60 giorni. Nel frattempo non potranno dare
seguito alle spese.
Province e comuni. Negli enti locali si rafforzano invece i
controlli interni. Su ogni proposta di deliberazione
sottoposta alla giunta e al consiglio dovrà essere richiesto
il parere del responsabile del servizio e del responsabile
di ragioneria qualora comporti riflessi
economico-finanziari. La norma fa parte di un corposo
pacchetto di disposizioni contenute nella Carta delle
autonomie da tempo ferma su un binario morto al senato. Il
governo Monti ha deciso di estrapolarle dal testo e
inserirle nel decreto legge per renderle immediatamente
operative. Del pacchetto fanno parte anche l'introduzione
del controllo strategico per la verifica dello stato di
attuazione dei programmi e l'obbligo del controllo sulle
società partecipate.
Ma nemmeno le amministrazioni locali saranno immuni dai
controlli della Corte conti. Ogni tre mesi i giudici
dovranno verificare la regolarità delle gestioni e il
funzionamento dei controlli interni ai fini del rispetto del
pareggio di bilancio.
Confermata l'ulteriore stretta sui conti dei comuni
anticipata ieri da ItaliaOggi. Gli enti che utilizzano
entrate a specifica destinazione o chiedono ai propri
tesorieri anticipazioni di cassa non potranno utilizzare gli
avanzi di amministrazione. E dovranno iscrivere in bilancio
un fondo di riserva per far fronte a spese non prevedibili
più sostanzioso rispetto ad oggi. Perché il limite minimo
del fondo da inserire nel preventivo passerà dall'attuale
0,30 allo 0,45% del totale delle spese correnti.
Non solo incandidabilità per chi porta gli enti al dissesto.
Gli amministratori locali riconosciuti responsabili dalla
Corte conti di aver portato gli enti al dissesto con dolo o
colpa grave (conteranno anche le condotte omissive) non
potranno ricandidarsi per 10 anni. E non è una novità perché
la norma è già prevista nel decreto legislativo su premi e
sanzioni (dlgs n. 149/2011) attuativo del federalismo
fiscale. Ciò che cambia invece è che, oltre a restare a
casa, il politico sprecone, se riconosciuto responsabile del
default, dovrà pagare una multa che andrà da un minimo di 5
fino a un massimo di 20 volte la retribuzione percepite al
momento della violazione.
Sterilizzati i tagli della spending review. Come anticipato
da ItaliaOggi (si veda il numero del 3/10/2012) sui comuni
non si abbatteranno più le decurtazioni «cieche» del fondo
di riequilibrio (pari in totale a 500 milioni per
quest'anno, 2 miliardi nel 2013 e 2014 e 2,1 miliardi dal
2015) previste dalla spending review. Le amministrazioni
eviteranno i tagli ma saranno obbligate a dirottare una
cifra di pari importo sulla riduzione del livello di
indebitamento. In pratica dovranno alleggerire la propria
esposizione in mutui e prestiti.
Riscossione. Il provvedimento intervenendo sul tema
dell'attività di gestione e riscossione delle entrate degli
enti territoriali, ne annuncia una prossima riforma. Per
favorirla viene sostanzialmente stabilito il mantenimento
dell'attuale assetto (e quindi sostanzialmente la presenza
di Equitalia), ma non oltre il 30.06.2013.
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L'analisi/ Riforma giusta, ma va cambiata la Costituzione.
Un sistema di controlli a forte sospetto di illegittimità
costituzionale. Il ddl sugli equilibri finanziari degli enti
locali punta alla reintroduzione dei controlli preventivi di
regolarità amministrativa (in parte coincidenti con i vecchi
controlli di legittimità) scriteriatamente aboliti dalle
leggi-Bassanini, ma realizza un ibrido poco convincente sul
piano degli assetti istituzionali, nonché della concreta
efficacia.
Da un lato, il disegno di legge estrapola dalla bozza di
«Carta delle autonomie» ancora giacente in Parlamento il
Capo relativo ai controlli interni e dall'altro lo
arricchisce con una disposizione relativa a controlli
trimestrali della Corte dei conti.
Già di per sé la scelta di anticipare per decretazione
d'urgenza una riforma che interessa autonomie
costituzionalmente garantite come quelle locali suscita più
di una perplessità. La sede propria per una riforma
dell'ordinamento locale è una norma organica, di iniziativa
parlamentare.
In ogni caso, l'assegnazione alla Corte dei conti di un
sostanziale ruolo di controllore esterno si coordina con
estrema difficoltà con l'attuale assetto del Titolo V della
Costituzione. Non si può fare a meno di evidenziare che la
legge costituzionale 3/2001 ha abolito l'articolo 130 della
Costituzione, che precedeva espressamente controlli
preventivi sugli atti di regioni ed enti locali operati da
organi esterni.
Pensare a reintrodurre i controlli è certamente meritorio e
necessario. Ma, a questo scopo, onde evitare qualsiasi
rischio di illegittimità costituzionale, sarebbe altrettanto
necessario modificare la Costituzione stessa, in modo che
essa ponga direttamente la possibilità di controlli affidati
a soggetti esterni.
Si può obiettare che il disegno di legge non assegna alla
Corte dei conti compiti di controllo preventivo. In effetti,
si prevede che «il sindaco, relativamente ai comuni con
popolazione superiore ai 5.000 abitanti, o il Presidente
della provincia, avvalendosi del direttore generale, quando
presente, o del segretario negli enti in cui non è prevista
la figura del direttore generale, trasmette trimestralmente
alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti un
referto sulla regolarità della gestione e sull'efficacia e
sull'adeguatezza del sistema dei controlli interni adottato,
sulla base delle Linee guida deliberate dalla Sezione delle
autonomie della Corte dei conti; il referto è altresì
inviato al presidente del consiglio comunale o provinciale».
La magistratura contabile si pronuncia entro 15 giorni su
tale documentazione.
Per quanto non si tratti di controllo preventivo sui singoli
atti, in ogni caso l'ingerenza pervasiva della Corte dei
conti è forte ed evidente. Non si tratta più del solo
«controllo collaborativo» previsto dall'articolo 8 della
legge 131/2003, tanto è vero che la Corte irrogherebbe
pesanti sanzioni amministrative nel caso di mancato invio
sei referti o laddove rilevasse l'assenza o l'inadeguatezza
degli strumenti di controllo interno.
In ogni caso, al di là del forte problema di
costituzionalità che si pone, ancor più grave appare la
questione connessa all'efficacia di tali controlli. Essi
restano prevalentemente interni ed affidati alla regia di
soggetti come i segretari comunali o i direttori generali i
quali, essendo incaricati dai sindaci o presidenti della
provincia, non possono disporre della terzietà che, invece,
dovrebbe caratterizzare un controllore. A sua volta, la
Corte dei conti esamina non singoli atti, bensì un referto
complessivo.
Lo scopo vero dei controlli, prevenire atti e spese
illegittimi, nella sostanza non viene conseguito.
La strada più lineare resta un'urgente modifica alla
Costituzione tale da reintrodurre controlli preventivi, da
affidare ad autorità amministrative terze, da sottoporre
alla dipendenza funzionale della Corte dei conti. La quale
potrebbe, così, fissare gli indirizzi cui attenersi ed
intervenire per risolvere eventuali contenziosi sugli atti
di controllo
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2012). |
ENTI LOCALI: DECRETO
SALVA-ENTI/ Comuni, ecco il fondo
anti-dissesto.
Gli enti dovranno presentare un piano di riequilibrio di 5
anni. I sindaci saranno costretti a
tagliare la spese. Vigilerà la Corte dei conti.
Un fondo rotativo a favore degli enti locali alle prese con
gravi criticità finanziarie che si impegnano a definire un
rigoroso piano pluriennale di riequilibrio, da implementare
sotto la stretta vigilanza di Viminale e (soprattutto) della
magistratura contabile.
Confermando le anticipazioni delle scorse settimane, il
decreto legge in materia di finanza locale approvato ieri
dal governo introduce il nuovo meccanismo di «pre-dissesto»
destinato alle province ed ai comuni che presentano pesanti
«squilibri strutturali di bilancio». Obiettivo di tale
misura è garantire la tempestiva adozione delle misure
correttive, scongiurando il rischio che la dichiarazione
formale di «default» arrivi quando la situazione dei conti è
ormai deteriorata.
Il provvedimento licenziato dal consiglio dei ministri
introduce tre nuovi articoli (243-bis, 243-ter e 243-quater)
nel Tuel.
Per avviare la nuova «procedura di riequilibrio finanziario
pluriennale», gli enti locali interessati devono adottare
un'apposta deliberazione consiliare, che entro cinque giorni
dalla data di esecutività va trasmessa alla competente
sezione regionale di controllo della Corte dei conti ed al
ministero dell'interno.
Tale iniziativa ha un duplice effetto sospensivo: da un
lato, essa congela la possibilità per i giudici contabili di
assegnare un termine per l'adozione delle misure correttive,
ai sensi dell'art. 6, comma 2, del dlgs 149/2011 (ma se il
termine è già stato fissato il ricorso alla nuova procedura
è precluso); dall'altro, mette temporaneamente in naftalina
le procedure esecutive già intraprese nei confronti dei
medesimi enti.
In entrambi i casi, la sospensione dura fino alla data di
approvazione o di diniego di approvazione del piano di
riequilibrio pluriennale, che il consiglio degli enti che
ambiscono al «pre-dissesto» deve deliberare nel termine
(perentorio) di 60 giorni dall'esecutività della precedente
deliberazione di adesione alla procedura di riequilibrio.
Il piano (che va accompagnato da un parere dell'organo di
revisione) può avere una durata massima di cinque anni, deve
operare una dettagliata analisi dei fattori di squilibrio
rilevati (anche alla luce dell'eventuale disavanzo di
amministrazione risultante dall'ultimo rendiconto approvato
e di eventuali debiti fuori bilancio) e indicare precisare
le conseguenti misure correttive (tenendo conto di quella
già eventualmente adottate), con puntuale «quantificazione e
previsione dell'anno di effettivo realizzo».
Fra queste, il legislatore indica una «rigorosa revisione
della spesa» (con tanto di obiettivi dettagliati di
riduzione), l'incremento delle aliquote e delle tariffe fino
al massimo consentito e le dismissioni patrimoniali, che
aprono la strada all'assunzione di mutui per la copertura di
debiti fuori bilancio per investimenti e soprattutto al
nuovo «Fondo di rotazione per assicurare la stabilità
finanziaria degli enti locali».
Quest'ultimo potrà erogare anticipazioni fino ad un massimo
di 100 euro per abitante, che andranno restituiti entro
cinque anni (prorogabili fino a 10), sulla base di criteri e
modalità che verranno definiti con un decreto del Viminale
atteso entro il prossimo 30 novembre.
Le erogazioni del fondo, tuttavia, sono subordinate a una
duplice condizione. In primo luogo, occorre la preventiva
approvazione del piano di riequilibrio da parte della
Sezione regionale della Corte dei conti, sulla base di
un'istruttoria condotta da un'apposita commissione composta
da rappresentanti del Mef e dell'Interno. La Corte è
chiamata anche a vigilare sull'attuazione del piano, in
stretto raccordo con i revisori interni e con l'interno. I
provvedimenti di accoglimento e diniego potranno essere
impugnati davanti alle sezioni riunite, cosi come quelli
relativi all'ammissione al fondo rotativo.
La seconda condizione è legata ai meccanismi di
condizionalità imposti agli enti beneficiari. Essi dovranno
tagliare la spesa di personale, le spese correnti per
utilizzo di beni di terzi (almeno del 10% in tre anni), e
quelle per interessi passivi e oneri finanziari diversi
finanziate con risorse proprie (-25%). Essi, inoltre, non
potranno contrarre nuovi debiti (salvo i mutui di cui
sopra).
Per gli enti non ammessi alla nuova procedura e per quelli
che non rispettano le relative regole, scatta la procedura
di dichiarazione esterna del dissesto ai sensi del citato
dlgs 149
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2012). |
ENTI LOCALI: Taglio province in ordine
sparso.
Regioni aggrappate a cavilli e deroghe per evitare
sforbiciate. Sono pochi i Consigli
delle autonomie locali (Cal) che hanno approvato il piano di
restyling.
Il taglio delle province, sulla carta, è deciso: via le 64
con meno di 350 mila abitanti, e che si estendono su una
superficie inferiore ai 2 mila 500 chilometri quadrati. E sì
alle città metropolitane (da Milano a Palermo ecc).
Tuttavia, incuranti della «spending review» (legge
135/2012), le regioni procedono in ordine sparso.
E si servono di cavilli, ricorsi e deroghe per fermare «la
mano del boia». La scorsa settimana si sono pronunciati i
Cal, i Consigli delle autonomie locali (o, dove non
presenti, altri organismi), ma in pochi hanno approvato il
piano di restyling, che spetterà all'amministrazione
regionale inoltrare al governo nei successivi 20 giorni
(entro il 23 ottobre), senza rivolgersi alla Corte
costituzionale segnalando, in considerazione delle
specificità del territorio, incongruenze.
La ricognizione di ItaliaOggi Sette restituisce l'immagine di una penisola che,
da Nord a Sud, oppone resistenza alla sforbiciata imposta
dall'esecutivo Monti. Cominciando dal Piemonte, la riduzione
(da 8 a 4) è definita così: non si tocca Cuneo, però Asti
viene unita ad Alessandria e nasce la provincia del Piemonte
Orientale, i cui confini sono quelli di Novara, Verbania
Cusio Ossola, Biella e Vercelli, in più Torino diviene città
metropolitana. La Lombardia ne ha 12, rinuncia a 4 (c'è
Milano città metropolitana), ovvero Pavia, Lodi - Cremona,
Mantova, Brescia, Bergamo, Sondrio, Como - Lecco - Varese,
Monza Brianza, mentre la Liguria passa da 4 a 2, più Genova
città metropolitana (insieme Savona e Imperia ed è salva La
Spezia).
Rimanendo nel Settentrione, verso Est, il Friuli-Venezia
Giulia non cede nulla, poiché vota lascia le province di
Gorizia, Pordenone, Trieste e Udine (il legislatore impone
di fondere le prime due), cercando un «escamotage»: si
pensa, infatti, di delegare le funzioni amministrative a
regione e comuni, affidando ai 4 enti mansioni onorifiche e
consultive. Niente di nuovo in terra veneta: si opta per la
conservazione di tutte e 6 le amministrazioni (Belluno,
Padova, Rovigo, Treviso, Verona e Vicenza), oltre a Venezia
città metropolitana; si mette in moto ...
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: OSSERVATORIO VIMINALE/ L'albo pretorio
va in soffitta. Delibere e determine da pubblicare sul sito web.
Ma gli obblighi a carico delle
amministrazioni locali rimangono inalterati.
Quali sono gli adempimenti che il comune deve espletare in
ordine alla pubblicazione delle determinazioni dirigenziali
sui siti informatici, a seguito dell'emanazione dell'art. 32
della legge 28.06.2009, n. 69, recante norme per
l'eliminazione degli sprechi relativi al mantenimento di
documenti in forma cartacea?
L'art. 32, comma 1, della legge 28.06.2009, n. 69
dispone che «gli obblighi di pubblicazione di atti e
provvedimenti amministrativi aventi effetto di pubblicità
legale si intendono assolti con la pubblicazione nei propri
siti informatici da parte delle amministrazioni e degli enti
pubblici obbligati», e il successivo comma 5 prevede che a
decorrere dall'01.01.2011 le pubblicità effettuate in
forma cartacea non hanno effetto di pubblicità legale.
La disciplina ha implicitamente modificato l'art. 124 del
dlgs n. 267/2000 nella parte in cui dispone che la
pubblicazione avvenga «mediante affissione all'albo pretorio
nella sede dell'ente», sostituita dalla pubblicazione sul
sito istituzionale dell'ente, fermo restando il termine di
15 giorni consecutivi salvo specifiche disposizioni di
legge.
In merito il Consiglio di stato, con sentenza n. 1370 del 15.03.2006, ha stabilito che «la pubblicazione all'albo
pretorio del comune è prescritta dall'art. 124 T.u. n.
267/2000 per tutte le deliberazioni del comune e della
provincia ed essa riguarda non solo le deliberazioni degli
organi di governo (consiglio e giunta municipali) ma anche
le determinazioni dirigenziali».
Lo strumento informatico ha sostituito, dunque, il
tradizionale albo pretorio, rimanendo inalterati, sotto la
nuova forma, gli obblighi di pubblicazione.
L'ente nazionale per la digitalizzazione della pubblica
amministrazione - Digit P.a., nelle due linee guida per i
siti web della pubblica amministrazione ed in particolare
nel «Vademecum sulle Modalità di pubblicazione dei documenti
nell'albo on-line», predisposto sulla base della direttiva
n. 8 del 26.11.2009 del ministro per la pubblica
amministrazione e l'innovazione, ha specificato che «per gli
enti locali l'attività dell'albo consiste nella
pubblicazione di tutti quegli atti sui quali viene apposto
il referto di pubblicazione», includendo tra tali atti
le deliberazioni ed altri provvedimenti comunali tra cui
anche le determinazioni in argomento
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2012). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Nomina capogruppo.
Come viene disciplinata la nomina di un capogruppo
consiliare nel caso in cui all'interno di un gruppo
consiliare composto da due consiglieri, pur in presenza di
regolare designazione del capogruppo consiliare con presa
d'atto del consiglio comunale, il secondo consigliere ha
rivendicato il proprio diritto alla designazione di
capogruppo avendo riportato il maggior numero di voti nella
lista?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente
prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle
disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative
in capo ai gruppi o ai capigruppo (in particolare, art. 38,
comma 3 – art. 39, comma 4 e art. 125 del dlgs n. 267/2000).
Pertanto, la materia dei «gruppi consiliari» è regolata
primariamente dalle norme statutarie e regolamentari proprie
di ogni singolo ente locale, per cui è alla stregua di tali
norme che occorre valutare e risolvere le questioni ad essa
afferenti.
Se, nel caso di specie, lo statuto comunale prevede che il
capogruppo è «eletto dagli appartenenti al Gruppo»,
rinviando al regolamento la disciplina della formazione, del
funzionamento e delle attribuzioni dei gruppi consiliari e
questo prevede che «i singoli gruppi devono comunicare, per
iscritto, al presidente ed al segretario comunale il nome
del proprio capogruppo alla prima riunione del consiglio neo
eletto»; che «con la stessa procedura dovranno segnalarsi le
successive variazioni della persona del capogruppo»; che «in
mancanza di tali comunicazioni viene considerato capogruppo
ad ogni effetto il consigliere del gruppo che abbia
riportato il maggior numero di voti nelle liste di
appartenenza», appare evidente che le variazioni della
persona del capogruppo debbano essere comunicate con nota
sottoscritta «dai singoli gruppi», stante la necessità di
seguire «la stessa procedura» utilizzata per la prima
designazione.
L'automatica individuazione del capogruppo nel consigliere
che abbia riportato il maggior numero di voti nelle liste di
appartenenza è un criterio residuale che può essere
utilizzato solo all'atto dell'insediamento del consiglio
comunale e in mancanza di comunicazioni
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2012). |
TRIBUTI - VARI: Rifiuti e servizi, arriva la Tares.
Con l'avvio del nuovo tributo saranno soppressi quelli
attuali. Tutto quello che c'è da
sapere per prepararsi al debutto previsto per l'01.01.2013.
Dal 1° gennaio 2013 arriva la Tares.
Vale la pena di esaminare le principali novità che
riguardano il nuovo tributo comunale sui rifiuti e sui
servizi. Iniziamo a precisare che con l'introduzione della
Tares, a decorrere dall'01.01.2013, saranno soppressi
tutti i vigenti prelievi relativi alla gestione dei rifiuti
urbani, sia di natura patrimoniale che di natura tributaria,
compresa l'addizionale per l'integrazione dei bilanci degli
enti comunali di assistenza.
La fonte normativa della Tares è l'art. 14 del dl 06.12.2011 n. 201 (salva Italia).
Il nuovo tributo è posto a copertura dei:
a) costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani
e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento, svolto
mediante l'attribuzione di diritti di esclusiva;
b) costi relativi ai servizi indivisibili dei comuni.
Il comune, nel territorio del quale insistono le aree
oggetto dell'imposta, è delegato all'accertamento, alla
riscossione e alla liquidazione della Tares.
Il tributo in questione è dovuto da chiunque possieda,
occupi o detenga a qualsiasi titolo locali o aree scoperte,
a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti
urbani: non sono soggette all'imposta però le aree comuni
scoperte e le aree pertinenziali e accessorie delle civili
abitazioni.
Nel caso di locali in multiproprietà e di centri commerciali
integrati, il soggetto che gestisce i servizi comuni è
responsabile del versamento del tributo.
Ricordiamo che la Tares è dovuta per anno solare.
La tariffa è commisurata alle quantità e qualità delle medie
ordinarie di rifiuti prodotti per unità di superficie, in
relazione agli usi e alla tipologia di attività svolte,
sulla base dei criteri determinati con regolamento.
Per le unità immobiliari a destinazione ordinaria iscritte o
iscrivibili nel catasto edilizio urbano, la superficie
assoggettabile al tributo è pari all'80% della superficie
catastale determinata secondo i criteri stabiliti dal
regolamento di cui al dpr 23.03.1998, n. 138.
Si noti che la superficie assoggettabile al tributo è
costituita da quella calpestabile.
Particolari regole, su cui non entriamo per esigenze di
sintesi, sono stabilite per gli immobili privi di
accatastamento o se si riscontri, da parte dell'ente locale,
la non corrispondenza della superficie con gli atti a
disposizione dei comuni.
Se vi sono aree promiscue in un locale, sono state previste
specifiche disposizioni per la determinazione della
superficie assoggettabile al tributo: non si tiene conto di
quella parte di essa ove si formano di regola rifiuti
speciali, a condizione che il produttore ne dimostri
l'avvenuto trattamento in conformità alla normativa vigente.
La tariffa è composta: 1) da una quota determinata in
relazione alle componenti essenziali del costo del servizio
di gestione dei rifiuti, riferite in particolare agli
investimenti per le opere e ai relativi ammortamenti; 2) da
una quota rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al
servizio fornito e all'entità dei costi di gestione, in modo
che sia assicurata la copertura integrale dei costi di
investimento e di esercizio.
Con regolamento da emanarsi entro il 31.10.2012, su
proposta dei ministri competenti e delle altre autorità
indicate, sono stabiliti i criteri per l'individuazione del
costo del servizio di gestione dei rifiuti e per la
determinazione della tariffa.
Il regolamento cennato si applica a decorrere dall'anno
successivo alla data della sua entrata in vigore.
Alla tariffa determinata in base alle disposizioni
precedenti, si applica una maggiorazione pari a 0,30 euro
per metro quadrato, a copertura dei costi relativi ai
servizi indivisibili dei comuni, i quali possono, con
deliberazione del consiglio comunale, modificare in aumento
la misura della maggiorazione fino a 0,40 euro, anche
graduandola in ragione della tipologia dell'immobile e della
zona ove è ubicato.
Per il primo anno, in luogo di questa, la fonte normativa
precisa che si continuerà ad applicare la tariffa già
esistente e prevista dalle disposizioni di cui al decreto
del presidente della repubblica 27.04.1999, n. 158.
La legge n. 201/2011 ha previsto una potestà regolamentare
in capo al comune, il quale con l'emanazione dell'apposito
strumento giuridico può prevedere riduzioni tariffarie,
nella misura massima del trenta per cento, nel caso di:
a) abitazioni con unico occupante;
b) abitazioni tenute a disposizione per uso stagionale od
altro uso limitato e discontinuo;
c) locali, diversi dalle abitazioni, e aree scoperte adibiti
a uso stagionale o ad uso non continuativo, ma ricorrente;
d) abitazioni occupate da soggetti che risiedano o abbiano
la dimora, per più di sei mesi all'anno, all'estero;
e) fabbricati rurali a uso abitativo.
Si devono prevedere anche riduzioni per la raccolta
differenziata riferibile alle utenze domestiche.
Il consiglio comunale, in aggiunta a quelle già menzionate,
può deliberare anche ulteriori riduzioni ed esenzioni.
Tali agevolazioni sono iscritte in bilancio come
autorizzazioni di spesa e la relativa copertura è assicurata
da risorse diverse dai proventi del tributo di competenza
dell'esercizio al quale si riferisce l'iscrizione stessa.
Inoltre con regolamento da adottarsi ai sensi dell'articolo
52 del decreto legislativo 15.12.1997, n. 446, il
consiglio comunale determina la disciplina per
l'applicazione del tributo, concernente tra l'altro i
seguenti punti:
a) la classificazione delle categorie di attività con
omogenea potenzialità di produzione di rifiuti;
b) la disciplina delle riduzioni tariffarie;
c) la disciplina delle eventuali riduzioni ed esenzioni;
d) l'individuazione di categorie di attività produttive di
rifiuti speciali alle quali applicare, nell'obiettiva
difficoltà di delimitare le superfici ove tali rifiuti si
formano, percentuali di riduzione rispetto all'intera
superficie su cui l'attività viene svolta;
e) i termini di presentazione della dichiarazione e di
versamento del tributo.
Il consiglio comunale deve approvare le tariffe del tributo
entro il termine fissato da norme statali per l'approvazione
del bilancio di previsione, in conformità al piano
finanziario del servizio di gestione dei rifiuti urbani,
redatto dal soggetto che svolge il servizio stesso ed
approvato dall'autorità competente.
Una regolamentazione specifica e separata è prevista per i
comuni che hanno realizzato (o realizzeranno dato che ancora
la norma non è vigente), sistemi di misurazione puntuale
della quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico:
gli enti locali pertanto, possono, con regolamento,
prevedere l'applicazione di una tariffa avente natura
corrispettiva, in luogo del tributo (comma 29, art. 14).
Il costo del servizio da coprire con la tariffa già
accennata è determinato sulla base dei criteri da stabilirsi
con specifico regolamento.
Una particolarità del nuovo tributo risiede nel fatto che il
legislatore non ha previsto, ma anzi sembra escludere, la
possibilità che sia l'ente erogatore del servizio e non il
comune, a gestire le fasi di riscossione, accertamento e
liquidazione del tributo.
Al contrario, solo e soltanto nei confronti dei comuni che
hanno realizzato sistemi di misurazione puntuale della
quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico, si rende
applicabile la deroga per l'affidamento di tali fasi alla
società che gestisce il servizio di raccolta, trattamento e
smaltimento dei rifiuti.
In questo caso, anche la tariffa determinata è applicata e
riscossa dal soggetto affidatario del servizio di gestione
dei rifiuti urbani. In tutti gli altri casi, e cioè la
stragrande maggioranza, sarà il comune a gestire
l'applicazione e la riscossione della Tares.
I comuni che misurano la quantità dei tributi, applicano il
tributo comunale sui rifiuti e sui servizi limitatamente
alla componente diretta alla copertura dei costi relativi ai
servizi indivisibili dei comuni determinata come cennato.
Per quanto attiene alla dichiarazione, i soggetti passivi
del tributo presentano la dichiarazione entro il termine
stabilito dal comune nel regolamento, fissato in relazione
alla data di inizio del possesso, dell'occupazione o della
detenzione dei locali e delle aree assoggettabili a tributo.
Nel caso di occupazione in comune di un fabbricato, la
dichiarazione può essere presentata anche da uno solo degli
occupanti.
La dichiarazione, redatta su modello messo a disposizione
dal comune, ha effetto anche per gli anni successivi
sempreché non si verifichino modificazioni dei dati
dichiarati; in tal caso, la dichiarazione va presentata
entro il termine stabilito dal comune nel regolamento.
Come dianzi riferito, il tributo comunale sui rifiuti e sui
servizi, in deroga all'articolo 52 dlgs n. 446/1997, è
versato esclusivamente al comune.
Infine, il versamento del tributo comunale per l'anno di
riferimento è effettuato, in mancanza di diversa
deliberazione comunale, in quattro rate trimestrali,
scadenti nei mesi di gennaio, aprile, luglio e ottobre,
mediante bollettino di conto corrente postale ovvero modello
di pagamento unificato. È consentito il pagamento in unica
soluzione entro il mese di giugno di ciascun anno.
Per quanto inerisce la fase di accertamento invece, ai fini
della verifica del corretto assolvimento degli obblighi
tributari, il funzionario responsabile può inviare
questionari al contribuente, richiedere dati e notizie a
uffici pubblici ovvero a enti di gestione di servizi
pubblici, in esenzione da spese e diritti, e disporre
l'accesso ai locali e aree assoggettabili a tributo,
mediante personale debitamente autorizzato e con preavviso
di almeno sette giorni.
In caso di mancata collaborazione del contribuente o altro
impedimento alla diretta rilevazione, l'accertamento può
essere effettuato in base a presunzioni semplici di cui
all'articolo 2729 c.c.; quest'ultima costituisce
un'ulteriore novità del nuovo tributo, che non mancherà di
essere oggetto di interesse da parte dei giuristi.
In caso di omesso o insufficiente versamento del tributo
risultante dalla dichiarazione, si applica l'articolo 13 del
decreto legislativo 18.12.1997, n. 471.
In caso di omessa presentazione della dichiarazione, si
applica la sanzione dal 100 al 200% del tributo non versato,
con un minimo di 50 euro. In caso di infedele dichiarazione,
si applica la sanzione dal 50 per cento al 100 per cento del
tributo non versato, con un minimo di 50 euro. In caso di
mancata, incompleta o infedele risposta al questionario,
entro il termine di legge, si applica la sanzione da euro
100 a euro 500. Le sanzioni previste sono ridotte ad un
terzo se, entro il termine per la proposizione del ricorso,
interviene acquiescenza del contribuente, con pagamento del
dovuto.
Concludendo, facendo un rapido commento generale
sulla Tares, si nota lo sforzo che il legislatore ha fatto
disciplinando più nel dettaglio la nuova imposta, anche se
saranno necessari, sui punti applicativi più controversi,
ulteriori approfondimenti in merito. Non è da escludersi,
infatti, l'introduzione di ulteriori modifiche, anche
sostanziali, nelle norme che disciplinano la Tares
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il giudice
spieghi le spese compensate. La
mancata motivazione è una violazione di legge.
Commette una violazione di legge il giudice che compensa le
spese giudiziali senza motivare le ragioni poste a base
della decisione. Alla regione, infatti, devono essere
addebitati i costi sostenuti dal contribuente se notifica in
ritardo la cartella con la quale richiede il pagamento della
tassa automobilistica. L'errore dell'amministrazione
pubblica non può ricadere sul contribuente. Il giudice
tributario, dunque, non può compensare le spese processuali
ritenendo legittimo il provvedimento con un generico e
insignificante riferimento a giusti motivi.
È quanto
affermato dalla Commissione tributaria regionale di Roma,
sezione XIV, con la sentenza 11.07.2012 n. 488.
Nel
caso in esame, la regione Lazio aveva richiesto il pagamento
della tassa auto nonostante la cartella fosse stata
notificata oltre il termine di legge. Quindi, aveva preteso
un credito già prescritto, imponendo al contribuente di
sostenere dei costi per la difesa in giudizio. Per i giudici
capitolini, però, «la decisione di compensazione delle spese
del giudizio giustificata dal generico ed insignificante
riferimento a «giusti motivi» o addirittura senza alcun
riferimento causale come nel caso in esame, integra gli
estremi della violazione di legge».
Del resto, anche la
Cassazione (sentenza 14563/2008) ha sostenuto che qualora
l'azione giudiziaria intrapresa dal contribuente risulti
totalmente fondata, la sua difesa sarebbe compromessa se
fosse tenuto a pagare le spese di giustizia (legali e
fiscali). In effetti, con la riforma del processo civile
(legge 69/2009) è stato imposto al giudice di porre a carico
della parte soccombente l'onere di pagare le spese
processuali, salvo casi eccezionali che devono essere
motivati.
La regola è stata introdotta anche per
deflazionare il contenzioso. Secondo la commissione
tributaria regionale di Catanzaro (sentenza 495/2009), la
condanna alle spese di giudizio costituisce l'ipotesi
ordinaria, legata al fatto stesso della soccombenza, a
maggior ragione dopo la modifica dell'articolo 92 del codice
di procedura civile che ammette la compensazione delle spese
solo per ragioni o eventi eccezionali. Ma che esigono
un'adeguata motivazione. Peraltro, nonostante non via sia
alcun automatismo che comporti la condanna
dell'amministrazione, anche l'adozione del provvedimento di
autotutela in corso di causa non è privo di conseguenze.
Sempre la Ctr Roma, sezione XXIX, con la sentenza 43/2011,
ha stabilito che nel processo tributario il fisco deve
essere condannato a pagare le spese processuali anche nei
casi in cui gli atti di accertamento vengano annullati in
seguito all'attività di riesame. Tuttavia, non è così
semplice per l'amministrazione finanziaria scegliere il
comportamento da adottare. La giurisprudenza recente esclude
che gli errori possano ricadere sui soggetti accertati.
Se vengono annullati gli atti impositivi nel corso del
processo, la soccombenza è virtuale e l'amministrazione va
condannata a pagare le spese. Il rimedio, però, in alcuni
casi si è rivelato peggiore del male, perché dopo l'adozione
del provvedimento di autotutela il fisco è stato condannato
anche a risarcire i danni al contribuente
(articolo ItaliaOggi del 04.10.2012
- link a www.corteconti.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: È impossibile eludere il Tar.
E neppure i procedimenti d'urgenza fanno eccezione.
In vigore il dlgs 160/2012, secondo correttivo
del codice del processo amministrativo.
Non si elude la competenza territoriale del Tar. Neanche nei
procedimenti di urgenza. Il giudice amministrativo, cui si
chiede un provvedimento cautelare, deve controllare se è
competente per territorio. E se non lo è, deve passare la
mano.
Lo prevede il decreto legislativo n. 160/2012
(pubblicato sulla G.U. 18.09.2012 n. 218) noto come
secondo correttivo del codice processo amministrativo (dlgs
104/2010).
Il decreto correttivo è entrato in vigore ieri 03.10.2012 e si occupa anche di spese legali e condizioni di
ammissibilità del ricorso.
Vediamo le principali novità.
Competenza territoriale. Due le novità. La prima obbliga il
giudice a pronunciarsi sulla competenza anche rispetto a
richieste di sospensive.
Se dichiara la propria incompetenza, il Tar deve indicare
quale sia il tribunale ritenuto competente e le parti hanno
trenta giorni di tempo per riproporre la causa al giudice
individuato.
Se non c'è richiesta di provvedimento di urgenza, la parte
interessata deve eccepire l'incompetenza territoriale entro
il termine di costituzione, ma il giudice può sempre
rilevarla d'ufficio. Sulla competenza viene anche
specificato che la competenza territoriale relativa al
provvedimento da cui deriva l'interesse a ricorrere attrae
anche quella relativa agli atti presupposti dallo stesso
provvedimento (tranne atti normativi o generali).
Spese di giudizio. Il giudice, nell'adottare il
provvedimento sulle spese di giudizio, da accollare in via
di principio al soccombente, deve tenere conto
dell'osservanza dei principi di chiarezza e sinteticità
nella stesura degli atti. Atti troppo lunghi oppure oscuri
compromettono il rimborso delle spese legali.
Azione di adempimento. Viene codificata l'azione di condanna
al rilascio da parte dell'amministrazione di un determinato
provvedimento. Il Tar in ogni caso non può intervenire
quando l'atto da adottare sia riservato alla piena
discrezionalità dell'amministrazione, mentre può farlo
quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che
non residuano ulteriori margini di esercizio della
discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori
che debbano essere compiuti dall'amministrazione. L'azione
va proposta contestualmente al ricorso introduttivo con cui
si chiede l'annullamento di un atto oppure si impugna
l'inerzia dell'ente pubblico.
Ricorso. Diventa inammissibile, se i motivi di ricorso non
sono specifici. E i contenuti del ricorso (giudice, parti,
fatto, diritto, conclusioni, sottoscrizione) devono essere
tenuti ben distinti
(articolo ItaliaOggi del 04.10.2012). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA: L'art.
53, c. 2, della legge regionale lombarda n. 12/2005 deve
essere letta unitamente alle disposizioni del testo unico
dell’edilizia ed alle altre previsioni dalla legge regionale
n. 12/2005 che disciplinano i mutamenti di destinazione
d'uso.
L’abusiva realizzazione di un mutamento di destinazione
d'uso che non sia conforme alle previsioni urbanistiche è,
difatti, sanzionata con la demolizione ed il ripristino
dello stato dei luoghi dall’art. 31 d.P.R. n. 380/2001, in
quanto intervento eseguito in assenza di permesso di
costruire.
Né un tale permesso potrebbe comunque essere rilasciato,
stante l’assenza di conformità con le destinazioni di zona.
La l.reg. Lombardia n. 12/2005 non incide su tale
previsione: l’art. 52, c. 2 esclude, difatti, la necessità
del permesso di costruire ed assoggetta a preventiva
comunicazione dell'interessato unicamente i mutamenti di
destinazione d'uso di immobili non comportanti la
realizzazione di opere edilizie “che siano conformi alle
previsioni urbanistiche comunali”.
La previsione di cui all’art. 53, c. 2, l. reg. Lombardia n.
12/2005 non può quindi essere interpretata, come vorrebbe la
ricorrente, quale norma di sanatoria, pena la sua
incostituzionalità, per contrasto con i principi dettati dal
testo unico dell’edilizia.
Essa deve essere quindi intesa quale sanzione aggiuntiva a
quella ripristinatoria prevista dall’art. 31, d.P.R. n.
380/2001.
La questione centrale oggetto del presente ricorso attiene alla
interpretazione dell’art. 53, c. 2, l.reg. Lombardia n.
12/2005, ai sensi del quale “qualora il mutamento di
destinazione d'uso senza opere edilizie, ancorché comunicato
ai sensi dell'articolo 52, comma 2, risulti in difformità
dalle vigenti previsioni urbanistiche comunali, si applica
la sanzione amministrativa pecuniaria pari all'aumento del
valore venale dell'immobile o sua parte, oggetto di
mutamento di destinazione d'uso, accertato in sede tecnica e
comunque non inferiore a mille euro”.
Ad avviso della ricorrente, tale norma consentirebbe la
sanatoria di mutamenti di destinazione d'uso che non siano
conformi alle previsioni dello strumento urbanistico, dietro
pagamento della sola sanzione pecuniaria.
La ricorrente afferma inoltre l’ammissibilità, nel caso di
specie, del richiesto intervento di mutamento di
destinazione d'uso, in quanto esso sarebbe in linea con le
previsioni del nuovo piano di governo del territorio,
adottato in epoca antecedente alla presentazione
dell’istanza di mutamento di destinazione d'uso.
Il Collegio non condivide le argomentazioni della
ricorrente.
È incontestata la non conformità del mutamento di
destinazione d'uso richiesto dalla ricorrente con le
previsioni dello strumento urbanistico vigente.
In mancanza di tale presupposto, indispensabile perché
l’intervento possa essere ritenuto ammissibile, non assume
rilievo la circostanza che l’intervento sia consentito dal
nuovo piano di governo del territorio che, alla data di
adozione del provvedimento, era solamente adottato.
Non può, poi, condividersi la lettura parziale dell’art. 53,
c. 2, della legge regionale lombarda n. 12/2005, proposta
dalla ricorrente.
Tale norma deve difatti essere letta unitamente alle
disposizioni del testo unico dell’edilizia ed alle altre
previsioni dalla legge regionale n. 12/2005 che disciplinano
i mutamenti di destinazione d'uso.
L’abusiva realizzazione di un mutamento di destinazione
d'uso che non sia conforme alle previsioni urbanistiche è,
difatti, sanzionata con la demolizione ed il ripristino
dello stato dei luoghi dall’art. 31 d.P.R. n. 380/2001, in
quanto intervento eseguito in assenza di permesso di
costruire.
Né un tale permesso potrebbe comunque essere rilasciato,
stante l’assenza di conformità con le destinazioni di zona.
La l.reg. Lombardia n. 12/2005 non incide su tale
previsione: l’art. 52, c. 2 esclude, difatti, la necessità
del permesso di costruire ed assoggetta a preventiva
comunicazione dell'interessato unicamente i mutamenti di
destinazione d'uso di immobili non comportanti la
realizzazione di opere edilizie “che siano conformi alle
previsioni urbanistiche comunali”.
La previsione di cui all’art. 53, c. 2, l. reg. Lombardia n.
12/2005 non può quindi essere interpretata, come vorrebbe la
ricorrente, quale norma di sanatoria, pena la sua
incostituzionalità, per contrasto con i principi dettati dal
testo unico dell’edilizia.
Essa deve essere quindi intesa quale sanzione aggiuntiva a
quella ripristinatoria prevista dall’art. 31, d.P.R. n.
380/2001.
In questa situazione, non assume neppure rilevanza la
verifica sul rispetto degli standard da parte del Comune, la
quale rileva unicamente in relazione ai mutamenti
compatibili con le destinazioni di zona, ma, non, come nella
specie, nel caso di cambiamenti del tutto contrastanti con
la vigente zonizzazione (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 03.01.1998, n. 24).
Per le ragioni esposte, il provvedimento di rigetto del
cambio di destinazione d'uso ed il diniego di agibilità sono
quindi da ritenersi adeguatamente motivati con il richiamo
alla non conformità con le previsioni dello strumento
urbanistico vigente ed all’art. 52, c. 2, l.reg. Lombardia
n. 12/2005 che assoggetta a preventiva comunicazione
dell'interessato unicamente i mutamenti di destinazione
d'uso di immobili che siano conformi alle previsioni
urbanistiche comunali.
La legittimità di tale motivo è sufficiente giustificazione
del provvedimento impugnato, sicché è irrilevante la
contestazione in ordine alla necessità di realizzare o meno
opere edilizie
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.10.2012 n. 2467 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Non sussiste alcun obbligo per l'Amministrazione
di pronunciarsi su un'istanza volta a ottenere un
provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile
dall’esterno l'attivazione del procedimento di riesame della
legittimità dell'atto amministrativo mediante l'istituto del
silenzio-rifiuto e lo strumento di tutela offerto (oggi
dall'art. 117 c. p.a.); infatti, il potere di autotutela si
esercita discrezionalmente d’ufficio, essendo rimesso alla
più ampia valutazione di merito dell’Amministrazione, e non
su istanza di parte e, pertanto, sulle eventuali istanze di
parte, aventi valore di mera sollecitazione, non vi è alcun
obbligo giuridico di provvedere.
In questa prospettiva non pare inutile aggiungere che:
- lo stesso art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990,
nell’affermare che il provvedimento amministrativo
illegittimo può essere annullato d’ufficio sussistendone le
ragioni di interesse pubblico rimette la scelta
sull’annullamento a un apprezzamento di natura preventiva
affidato alla P.A.;
- opinare diversamente rispetto a quanto si è detto sopra,
ossia seguire la tesi secondo la quale, in presenza di una
istanza diretta a sollecitare l’esercizio della potestà di
autotutela, l’Amministrazione è obbligata a una pronuncia
esplicita sulla istanza medesima, attraverso l’utilizzo
dell’istituto del silenzio–rifiuto e dello strumento
processuale di cui agli articoli 31 e 117 c. p. a. vorrebbe
dire neutralizzare, in pratica, la condizione di
inoppugnabilità del provvedimento amministrativo (nella
specie, concessivo di finanziamenti a imprese concorrenti)
che non sia stato contestato nei modi ed entro i termini di
legge, vanificando in questo modo una garanzia di certezza
dei rapporti giuridici che vedono coinvolta una P.A.
(certezza che è essa stessa un bene irrinunciabile posto a
tutela anche dei cittadini), e avvilendo lo stesso principio
di economicità dell’azione amministrativa, che verrebbe
posto nel nulla ove si imponesse, a semplice richiesta
dell’interessato, l’ obbligo di riesame di provvedimenti
restati inoppugnati.
Osta infatti all’accoglimento del gravame –sotto il profilo della
insussistenza, in capo all’appellante, di una posizione
soggettiva qualificata e differenziata, tale da legittimare Itel a presentare una istanza/diffida di revoca e/o di
dichiarazione di decadenza dei finanziamenti concessi in via
provvisoria alle società beneficiarie in epigrafe indicate,
sulla quale la Regione abbia l’obbligo di provvedere in modo
esplicito- non solo la estraneità di Itel rispetto al
rapporto intercorrente tra l’Amministrazione e i soggetti
beneficiari dei finanziamenti, ma anche il fatto che Itel,
pur avendone i requisiti, ha deciso di non partecipare alla
procedura “PIT 9” diretta alla concessione dei finanziamenti
in questione, non bastando la qualità di concorrente nel
medesimo mercato del radiofarmaco e nel medesimo contesto
territoriale perché possa ritenersi radicata, in capo alla
società, una posizione legittimante, specifica e concreta,
tale da porre l’Amministrazione nella condizione di essere
obbligata a pronunciarsi in maniera esplicita su una
richiesta rivolta a conseguire un intervento in autotutela.
Viene in rilievo una posizione simile a quella di un
soggetto che, pur potendo essere considerato, in astratto,
come “soggetto qualificato”, per non avere partecipato alla
procedura di interesse non può utilmente proporre ricorso
giurisdizionale avverso gli atti e gli esiti della procedura
in questione “per carenza di interesse” (v. , “ex plurimis”,
Cons. St. , V, n. 102 del 2009).
In questa peculiare situazione va ribadita la insussistenza,
in capo alla Regione, di un obbligo giuridico di
pronunciarsi in maniera esplicita su una “diffida–messa in
mora” diretta essenzialmente a ottenere provvedimenti in
autotutela, essendo l’attività connessa all’esercizio
dell’autotutela (che nella specie dovrebbe concretarsi nel
riesame di legittimità di atti e di provvedimenti ai fini
della revoca e/o della dichiarazione di decadenza dei
finanziamenti già concessi, sia pure in via provvisoria, a Radion) espressione di ampia discrezionalità e, come tale,
incoercibile dall’esterno.
Sulla non percorribilità della procedura del silenzio–rifiuto con riferimento a domande dirette a sollecitare
l’esercizio del potere di autotutela, è principio
giurisprudenziale consolidato –al quale anche questo
collegio aderisce- quello per cui “non sussiste alcun
obbligo per l'Amministrazione di pronunciarsi su un'istanza
volta a ottenere un provvedimento in via di autotutela, non
essendo coercibile dall’esterno l'attivazione del
procedimento di riesame della legittimità dell'atto
amministrativo mediante l'istituto del silenzio-rifiuto e lo
strumento di tutela offerto (oggi dall'art. 117 c. p.a.);
infatti, il potere di autotutela si esercita
discrezionalmente d’ufficio, essendo rimesso alla più ampia
valutazione di merito dell’Amministrazione, e non su istanza
di parte e, pertanto, sulle eventuali istanze di parte,
aventi valore di mera sollecitazione, non vi è alcun obbligo
giuridico di provvedere" (v., di recente, Cons. St., VI, n.
4308 del 2010, ivi rif., e sez. V n. 6995 del 2011).
In questa prospettiva non pare inutile aggiungere che:
- lo stesso art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990,
nell’affermare che il provvedimento amministrativo
illegittimo può essere annullato d’ufficio sussistendone le
ragioni di interesse pubblico rimette la scelta
sull’annullamento a un apprezzamento di natura preventiva
affidato alla P.A.;
- opinare diversamente rispetto a quanto si è detto sopra,
ossia seguire la tesi secondo la quale, in presenza di una
istanza diretta a sollecitare l’esercizio della potestà di
autotutela, l’Amministrazione è obbligata a una pronuncia
esplicita sulla istanza medesima, attraverso l’utilizzo
dell’istituto del silenzio–rifiuto e dello strumento
processuale di cui agli articoli 31 e 117 c. p. a. vorrebbe
dire neutralizzare, in pratica, la condizione di
inoppugnabilità del provvedimento amministrativo (nella
specie, concessivo di finanziamenti a imprese concorrenti)
che non sia stato contestato nei modi ed entro i termini di
legge, vanificando in questo modo una garanzia di certezza
dei rapporti giuridici che vedono coinvolta una P.A.
(certezza che è essa stessa un bene irrinunciabile posto a
tutela anche dei cittadini), e avvilendo lo stesso principio
di economicità dell’azione amministrativa, che verrebbe
posto nel nulla ove si imponesse, a semplice richiesta dell’
interessato, l’obbligo di riesame di provvedimenti restati inoppugnati (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 03.10.2012 n. 5199 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo
sia meramente confermativo, e perciò non impugnabile, o di
conferma in senso proprio e, quindi, autonomamente lesivo e
da impugnarsi nei termini, occorre verificare se l’atto
successivo sia stato adottato o meno senza una nuova
istruttoria e una nuova ponderazione di interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo
rispetto a un atto precedente l'atto la cui adozione sia
stata preceduta da un riesame della situazione che aveva
condotto al precedente provvedimento, giacché solo
l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia
pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un
nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che
caratterizzano la fattispecie considerata, può dare luogo a
un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di
dare vita a un provvedimento diverso dal precedente e quindi
suscettibile di autonoma impugnazione. Ricorre, invece,
l'atto meramente confermativo (di c.d. conferma impropria)
quando l'Amministrazione, a fronte di una istanza di
riesame, si limita a dichiarare l'esistenza di un suo
precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova
istruttoria e senza una nuova motivazione.
La giurisprudenza soggiunge che qualora l’atto successivo,
adottato sulla base di una rinnovata istruttoria e di una
nuova motivazione, abbia valore di atto di conferma in senso
proprio, e non di atto meramente confermativo, dev’essere
dichiarato improcedibile, per sopravvenuta carenza di
interesse, il ricorso diretto avverso il provvedimento che,
in pendenza del giudizio, sia stato sostituito dal
provvedimento di conferma innovativo e dotato di autonoma
efficacia lesiva della sfera giuridica del suo destinatario,
come tale idoneo a rendere priva di ogni utilità la
pronuncia sul ricorso proposto avverso il precedente
provvedimento.
La giurisprudenza consolidata di questo Consiglio -il che esime dal fare
citazioni particolari- ha statuito che allo scopo di
stabilire se un atto amministrativo sia meramente
confermativo, e perciò non impugnabile, o di conferma in
senso proprio e, quindi, autonomamente lesivo e da
impugnarsi nei termini, occorre verificare se l’atto
successivo sia stato adottato o meno senza una nuova
istruttoria e una nuova ponderazione di interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo
rispetto a un atto precedente l'atto la cui adozione sia
stata preceduta da un riesame della situazione che aveva
condotto al precedente provvedimento, giacché solo
l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia
pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un
nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che
caratterizzano la fattispecie considerata, può dare luogo a
un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di
dare vita a un provvedimento diverso dal precedente e quindi
suscettibile di autonoma impugnazione. Ricorre, invece,
l'atto meramente confermativo (di c.d. conferma impropria)
quando l'Amministrazione, a fronte di una istanza di
riesame, si limita a dichiarare l'esistenza di un suo
precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova
istruttoria e senza una nuova motivazione.
La giurisprudenza soggiunge che qualora l’atto successivo,
adottato sulla base di una rinnovata istruttoria e di una
nuova motivazione, abbia valore di atto di conferma in senso
proprio, e non di atto meramente confermativo, dev’essere
dichiarato improcedibile, per sopravvenuta carenza di
interesse, il ricorso diretto avverso il provvedimento che,
in pendenza del giudizio, sia stato sostituito dal
provvedimento di conferma innovativo e dotato di autonoma
efficacia lesiva della sfera giuridica del suo destinatario,
come tale idoneo a rendere priva di ogni utilità la
pronuncia sul ricorso proposto avverso il precedente
provvedimento (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 03.10.2012 n. 5196 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
L’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica
non fa venir meno l’obbligo di restituire al privato il bene
illegittimamente appreso e ciò superando l’interpretazione
che riconnetteva alla costruzione dell’opera pubblica e
all’irreversibile trasformazione dello stato dei luoghi
effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma
specifica del privato.
La Corte Costituzionale con la sentenza 04.10.2010 n. 293
recante declaratoria della illegittimità costituzionale
dell’art. 43 del Testo unico sulle espropriazioni ha
ritenuto che la realizzazione dell’opera pubblica non
costituisca impedimento alla restituzione dell’area
illegittimamente espropriata e ciò indipendentemente dalle
modalità -occupazione acquisitiva o usurpativa- di
acquisizione del terreno.
La presenza di un’opera pubblica sull’area illegittimamente
occupata costituisce in sé un mero fatto, non in grado di
assurgere a titolo di acquisto, come tale inidoneo a
determinare il trasferimento della proprietà per cui solo il
formale atto di acquisizione può essere in grado di limitare
il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti
estintivi della proprietà in altri comportamenti, fatto o
contegni.
---------------
La illegittimità dell’avvenuta occupazione sine titulo e la
natura di illecito permanente della disponibilità del bene
da parte dell’Amministrazione pubblica, senza che ciò sia
sostenuto da un idoneo titolo, integra gli estremi della
sussistenza dell’elemento soggettivo della colpa intesa come
consapevolezza da parte di un organo competente di
violazione della norma comportamentale di buon andamento
dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost., dandosi
così luogo ad una fattispecie di responsabilità che fa
insorgere in capo all’Amministrazione un’obbligazione
risarcitoria.
Nel caso de quo si è
decisamente in presenza di una fattispecie di un’occupazione
illegittima, avvenuta sine titulo, prodottasi a seguito
dell’annullamento del decreto di occupazione d’urgenza e
della intervenuta inefficacia del decreto di esproprio, con
la conseguenza che il Consorzio ha nella sua disponibilità,
sine titulo parte dei terreni di proprietà dei Guetti che,
come correttamente statuito dal primo giudice devono essere
restituiti.
Occorre invero dare atto della intervenuta espunzione dal
nostro ordinamento dell’istituto dell’acquisizione de facto
della proprietà in mano pubblica a seguito della
realizzazione dell’opera.
Questa Sezione ha già avuto modo di precisare (Cons. Stato
Sez. IV 30.01.2006 n. 290; idem 07.04.2010 n. 1983)
che l’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica non fa
venir meno l’obbligo di restituire al privato il bene
illegittimamente appreso e ciò superando l’interpretazione
che riconnetteva alla costruzione dell’opera pubblica e
all’irreversibile trasformazione dello stato dei luoghi
effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma
specifica del privato.
La Corte Costituzionale con la sentenza 04.10.2010 n. 293
recante declaratoria della illegittimità costituzionale
dell’art. 43 del Testo unico sulle espropriazioni ha ritenuto
che la realizzazione dell’opera pubblica non costituisca
impedimento alla restituzione dell’area illegittimamente
espropriata e ciò indipendentemente dalle modalità -occupazione acquisitiva o usurpativa- di acquisizione del
terreno (in tal senso anche Cons. Stato Sez. V 02.11.2011 n. 5844).
La presenza di un’opera pubblica sull’area illegittimamente
occupata costituisce in sé un mero fatto, non in grado di
assurgere a titolo di acquisto, come tale inidoneo a
determinare il trasferimento della proprietà per cui solo il
formale atto di acquisizione può essere in grado di limitare
il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti
estintivi della proprietà in altri comportamenti, fatto o
contegni.
Quanto esposto comporta la infondatezza della tesi giuridica
avanzata dalla parte appellante, non potendo alla luce delle
statuizioni giurisprudenziali e delle novità legislative
intervenute darsi usbergo ad una ipotesi di acquisizione
dell’area e degli immobili ivi realizzati per via
dell’istituto civilistico della specificazione.
---------------
In proposito è
sufficiente far rilevare che la illegittimità dell’avvenuta
occupazione sine titulo e la natura di illecito permanente
della disponibilità del bene da parte dell’Amministrazione
pubblica senza che ciò sia sostenuto da un idoneo titolo
integra gli estremi della sussistenza dell’elemento
soggettivo della colpa intesa come consapevolezza da parte
di un organo competente di violazione della norma
comportamentale di buon andamento dell’azione amministrativa
di cui all’art. 97 Cost., dandosi così luogo ad una
fattispecie di responsabilità che fa insorgere in capo
all’Amministrazione un’obbligazione risarcitoria.
In particolare, la gestione da parte del Consorzio dei suoli
in questione in relazione alla alterata fisionomia e
funzione dei terreni e alla non giustificata fruizione degli
stessi costituisce condotta in cui sono ravvisabili i
caratteri dell’illecito secondo il modello della
responsabilità aquiliana in termini di colpa oltreché di
evento dannoso e di nesso di causalità (Cons. Stato Sez. IV
10.12.2009 n. 7744) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.10.2012 n. 5189 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il termine decennale di prescrizione
dell'obbligazione sul pagamento degli oneri concessori
decorre, nell'ipotesi di mancata esplicita definizione della
domanda di condono, dalla formazione del silenzio assenso e
questo, ai sensi dell'art. 35, l. 28.02.1985 n. 47, si forma
dopo il termine di ventiquattro mesi decorrente dalla data
nella quale viene depositata la documentazione completa a
corredo della domanda di concessione.
Il contributo di concessione dovuto, in caso di condono
edilizio, ai sensi dell'art. 37, l. 28.02.1985 n. 47, è
soggetto a prescrizione decennale, la quale decorre dal
momento in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935
c.c.). Il termine stesso decorre dall'emanazione della
concessione edilizia in sanatoria o, in alternativa, dalla
scadenza del termine perentorio di ventiquattro mesi dalla
presentazione della domanda, decorso il quale quest'ultima
si intende accolta ove l'interessato provveda al pagamento
di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio,
formandosi così il silenzio-assenso.
---------------
Posto che per gli oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione il "dies a quo" decorre dal rilascio della
concessione edilizia, e, quindi, da un momento in cui sono
esattamente noti tutti gli elementi utili alla
determinazione dell'entità del contributo, relativamente al
conguaglio dell'oblazione dovuta in caso di condono
edilizio, il "dies a quo" non può coincidere con la
presentazione della domanda, sfornita della documentazione
prescritta per la domanda di condono, richiesta ai fini
della corretta e definitiva determinazione dell'entità
dell'oblazione; sicché la decorrenza del termine di
prescrizione presuppone -tanto in favore della pubblica
amministrazione per l'eventuale conguaglio, quanto in favore
del privato per l'eventuale rimborso- che la pratica di
sanatoria edilizia sia definita in tutti i suoi aspetti e
siano, per l'effetto, precisamente determinabili, alla
stregua dei parametri stabiliti dalla legge, l'"an" ed il
"quantum" dell'obbligazione gravante sul privato; ciò che
riflette puntualmente la "ratio" sottesa all'art. 2935 c.c.
secondo il quale, in generale, la prescrizione non può
decorrere se non dal giorno in cui il diritto può essere
fatto valere.
Invero costituisce approdo consolidato in giurisprudenza quello per cui
“il termine decennale di prescrizione dell'obbligazione sul
pagamento degli oneri concessori decorre, nell'ipotesi di
mancata esplicita definizione della domanda di condono,
dalla formazione del silenzio assenso e questo, ai sensi
dell'art. 35, l. 28.02.1985 n. 47, si forma dopo il
termine di ventiquattro mesi decorrente dalla data nella
quale viene depositata la documentazione completa a corredo
della domanda di concessione.” (TAR Sardegna Cagliari,
sez. II, 17.11.2010, n. 2600);
”Il contributo di concessione dovuto, in caso di condono
edilizio, ai sensi dell'art. 37, l. 28.02.1985 n. 47,
è soggetto a prescrizione decennale, la quale decorre dal
momento in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935
c.c.). Il termine stesso decorre dall'emanazione della
concessione edilizia in sanatoria o, in alternativa, dalla
scadenza del termine perentorio di ventiquattro mesi dalla
presentazione della domanda, decorso il quale quest'ultima
si intende accolta ove l'interessato provveda al pagamento
di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio,
formandosi così il silenzio—assenso.” (TAR Trentino Alto
Adige Trento, sez. I, 09.12.2010, n. 234).
---------------
La censura non ha pregio,
laddove si consideri che per costante quanto pacifica
opzione ermeneutica (peraltro pienamente condivisa dal
Collegio in quanto aderente alla lettera della legge e non
collidente con la ratio che presiede alla formazione del
titolo abilitativo per silentium) “posto che per gli oneri
di urbanizzazione e costo di costruzione il "dies a quo"
decorre dal rilascio della concessione edilizia, e, quindi,
da un momento in cui sono esattamente noti tutti gli
elementi utili alla determinazione dell'entità del
contributo, relativamente al conguaglio dell'oblazione
dovuta in caso di condono edilizio, il "dies a quo" non può
coincidere con la presentazione della domanda, sfornita
della documentazione prescritta per la domanda di condono,
richiesta ai fini della corretta e definitiva determinazione
dell'entità dell'oblazione; sicché la decorrenza del termine
di prescrizione presuppone -tanto in favore della pubblica
amministrazione per l'eventuale conguaglio, quanto in favore
del privato per l'eventuale rimborso- che la pratica di
sanatoria edilizia sia definita in tutti i suoi aspetti e
siano, per l'effetto, precisamente determinabili, alla
stregua dei parametri stabiliti dalla legge, l'"an" ed il
"quantum" dell'obbligazione gravante sul privato; ciò che
riflette puntualmente la "ratio" sottesa all'art. 2935 c.c.
secondo il quale, in generale, la prescrizione non può
decorrere se non dal giorno in cui il diritto può essere
fatto valere.” (TAR Campania Salerno, sez. II, 03.06.2010, n. 8224)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.10.2012 n. 5201 - link a
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EDILIZIA
PRIVATA:
La disciplina di cui agli artt. 4 e 5 del DPR
20.10.1998 n. 447, volta a favorire ed a semplificare la
realizzazione di impianti produttivi di beni e servizi,
costituisce una procedura di tipo derogatorio, che non vale
ad espropriare l’Ente locale degli ordinari poteri di
assumere le definitive determinazioni al riguardo; e la
proposta di variante positivamente assunta dalla conferenza
dei servizi non è vincolante per il Consiglio comunale.
In particolare, in tale contesto logico-procedimentale, la
proposta della citata conferenza assume in pratica il ruolo
di un atto d’impulso, strumentale alla prosecuzione del
procedimento, in cui il Consiglio comunale può e deve
autonomamente valutare se aderire o meno alla proposta in
questione.
Oggetto di controversia è l’autorizzabilità o meno di una
“struttura ricettiva adibita ad albergo per anziani” in area
classificata agricola che vede contrapposti, da un lato, il
richiedente, “forte” di un parere della conferenza dei
servizi, favorevole alla realizzazione dell’intervento de
quo mediante una variante puntuale ex art. 5 del DPR n. 447
del 20/10/1998, e, dall’altro lato, il Comune di Gagliano
del Capo, contrario al progetto in questione per una serie
di ragioni sostanzialmente coincidenti con una opposta non
compatibilità paesaggistico-urbanistica dell’opera.
La parte privata appellante, con l’articolato mezzo di
gravame, rileva in via prioritaria a carico della contestata
deliberazione consiliare n. 37/2010 l’assenza di una
motivazione che dia adeguata contezza della determinazione
con cui l’Amministrazione si è discostata dal parere della
conferenza dei servizi.
Il dedotto profilo di illegittimità non sussiste.
Nella parte narrativa della delibera n. 37/2010 il Consiglio
comunale ha esplicitato in maniera dettagliata le ragioni
che si frappongono all’approvazione del progetto,
esplicitate specificatamente con riferimento a tre profili
di considerazioni, così riassumibili:
a) l’eccessiva antropizzazione dell’area, con alterazione
delle sue caratteristiche, che sarebbe derivata
dall’approvazione della proposta del sig. Ciardo;
b) l’assenza di adeguate opere di infrastrutturazione
nell’ambito agricolo di che trattasi, contrassegnato da
inadeguata viabilità di accesso;
c) la non configurabilità di un tipologia di insediamento
produttivo giustificante l’applicazione della variante
derogatoria allo strumento urbanistico di cui al DPR
n. 447/1998.
Ebbene, dal punto di vista logico-formale, il suindicato
l’ordito motivazionale contenuto in delibera, per come
articolato, reca una ragionevole spiegazione del perché
l’organo consiliare ha ritenuto di assumere un divisamento
difforme rispetto al parere reso all’esito della conferenza
dei servizi, per cui il dedotto vizio di difetto di
motivazione, inteso come assenza di ragioni giustificative,
non è rilevabile a carico dell’atto de quo, dovendosi
convenire che l’Amministrazione comunale ha “adeguatamente”
adempiuto all’onere di dover dare contezza del perché delle
sua decisione.
Naturalmente occorre pure verificare se le argomentazioni
rese a sostegno del diniego di approvazione resistano o meno
alle critiche di carattere sostanziale portate
dall’appellante in ordine a ciascuna delle ragioni indicate
sub a), b) e c), quanto a valenza e congruità, tali da
legittimare il discostarsi dal parere della più volte citata
conferenza dei servizi.
In ogni modo, non può in primo luogo ritenersi esaustiva ed
assorbente la determinazione della conferenza dei servizi
assunta in via prodromica, dovendosi riconoscere al Comune,
in sede di delibazione di una proposta di variazione allo
strumento urbanistico, come quella approvata con il modulo
procedimentale ex art. 14 legge n. 241/1990, la facoltà di poter
svolgere un’ autonoma, ulteriore valutazione in merito alla
compatibilità a o meno della progettata opera con la
disciplina dell’assetto del territorio.
Come già precisato da questo Consiglio di Stato in consimili
vicende, la disciplina di cui agli artt. 4 e 5 del DPR 20.10.1998 n. 447, volta a favorire ed a semplificare la
realizzazione di impianti produttivi di beni e servizi,
costituisce una procedura di tipo derogatorio, che non vale
ad espropriare l’Ente locale degli ordinari poteri di
assumere le definitive determinazioni al riguardo; e la
proposta di variante positivamente assunta dalla conferenza
dei servizi non è vincolante per il Consiglio comunale (Sez. IV 14.04.2006 n. 2170).
In particolare, in tale contesto logico-procedimentale, la
proposta della citata conferenza assume in pratica il ruolo
di un atto d’impulso, strumentale alla prosecuzione del
procedimento, in cui il Consiglio comunale può e deve
autonomamente valutare se aderire o meno alla proposta in
questione (Sez. IV 07.05.2004 n. 2874).
---------------
Rimangono da esaminare le censure riguardanti la
qualificazione della struttura che si intende realizzare.
Fermo restando che le ragioni di tipo “urbanistico-ambientali”,
nei sensi sopra specificati, sono di per sé idonee a
legittimare l’opposto diniego, parte appellante insiste
nella tesi della natura produttiva dell’insediamento (quindi
della possibilità, sotto tale profilo, della variazione in
deroga ex art. 5 DPR n. 447/1998) in ragione della qualifica di
struttura ricettiva di tipo alberghiero recata dal
progettato intervento.
Ora, al di là del fatto che un albergo per anziani non
rientra tra le tipologie delle strutture ricettive previste
dalla legge regionale n. 11 dell’11/02/1999, recante la
classificazione degli impianti ad uso ricettivo, non può
negarsi la “singolarità” e la “specialità” di un albergo
rivolto esclusivamente ad una determinata fascia di utenti,
quella degli anziani autosufficienti; e riesce veramente
difficile configurare una struttura ricettiva destinata
unicamente a clienti deputati a fruire della struttura in
base all’avanzata età (peraltro non facilmente determinabile
dal punto di vista fisiologico).
Da ciò ben può inferirsi la sussistenza in capo
all’Amministrazione procedente di legittime e giustificate
riserve, come quelle formulate sul punto, che concorrono
anch’esse a considerare non compatibile con l’assetto
territoriale il progettato intervento (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.10.2012 n. 5187 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
La legittimazione dei consiglieri comunali ad
impugnare gli atti degli organo di cui fanno parte è
limitata ai casi in cui vengono in rilievo determinazioni
direttamente incidenti sul diritto all’ufficio ovvero
violazioni procedurali lesive in via diretta del munus di
componente dell’organo.
La Sezione deve qui ribadire il più che consolidato orientamento
giurisprudenziale secondo cui la legittimazione dei
consiglieri comunali ad impugnare gli atti degli organo di
cui fanno parte è limitata ai casi in cui vengono in rilievo
determinazioni direttamente incidenti sul diritto
all’ufficio ovvero violazioni procedurali lesive in via
diretta del munus di componente dell’organo (Cons. Stato
Sez. V 15.12.2005 n. 7122; Cons. Stato Sez. II 09.04.2008 n. 2881).
Ora, come correttamente osservato dal Tar il vizio
procedurale dedotto dagli attuali appellanti costituito
dalla riattivazione del procedimento di adozione del PUC
dalla fase di controdeduzioni alle osservazioni anche avuto
riguardo ai profili di illegittimità sanciti dallo stesso
Tar con la precedente sentenza n. 1452/2006 non attiene alle
prerogative proprie dei consiglieri giacché non va ad
incidere sull’interesse alla regolare e leale dialettica
assembleare che non viene appunto pregiudicato e se così è,
in ragione dei limiti di legittimazione testé illustrati, non
si può riconoscere ai predetti componenti dell’organo
consiliare l’interesse processuale a rilevare profili di
doglianza che escludono la sussistenza di una posizione
giuridica differenziata legittimante la loro contestazione
giudiziale (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.10.2012 n. 5184 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Le determinazioni amministrative che definiscono
gli abusi edilizi costituiscono atti aventi natura
vincolata, che pongono in essere un modus agendi tracciato
in modo analitico dal legislatore, senza che in capo
all’Amministrazione ricada uno specifico onere di
motivazione sia sull’an sia sull’interesse pubblico sotteso
all’adozione delle misure che si vanno ad assumere.
---------------
Il vincolo di inedificabilità assoluta, gravante sull’area
su cui insiste il manufatto abusivamente realizzato,
legittima e rende doveroso il provvedimento di demolizione e
ripristino dello stato dei luoghi, indipendentemente dalla
consistenza della struttura realizzata senza titolo alcuno.
---------------
L’ordine demolizione di opera edilizia
abusiva è sufficientemente motivato con l’affermazione
dell’accertata abusività dell’opera anche in riferimento
all’interesse pubblico che si intende insito nella misura
adottata, senza che nella specie ci si trovi di fronte al
protrarsi del tempo trascorso dalla commissione dell’abuso e
al protrarsi dell’inerzia dell’amministrazione a provvedere,
uniche condizioni che imporrebbero una specifica, congrua
motivazione sul punto.
Relativamente poi alla
questione sollevata sub b) è sufficiente osservare come le
determinazioni amministrative che definiscono gli abusi
edilizi costituiscono, per costante giurisprudenza, atti
aventi natura vincolata, che pongono in essere un modus agendi tracciato in modo analitico dal legislatore, senza
che in capo all’Amministrazione ricada uno specifico onere
di motivazione sia sull’an sia sull’interesse pubblico
sotteso all’adozione delle misure che si vanno ad assumere (Cons. Stato Sez. IV 31.08.2010 n. 3955; idem
01.10.2007 n. 5049; 10.12.2007 n. 6344; Cons. Stato Sez. V 05.09.2009 n. 5229): da ciò deriva, per tali profili,
la legittimità degli atti adottati dall’Amministrazione
comunale di Anacapri, come peraltro puntualmente rilevato
dal Tar con osservazioni e conclusioni che ribadiscono i
principi giurisprudenziali sopra esposti.
---------------
Infondato si rivela
altresì il quinto motivo d’appello con cui parte appellante
lamenta la mancata irrogazione della sanzione pecuniaria in
luogo della adottata misura ripristinatoria trattandosi, ad
avviso dei sigg.ri Petrone-Grilli, di opere non soggette al
regime di cui all’art. 10 del DPR n. 380/2001.
Come già fatto presente, l’opera de qua ricade in area
soggetta a vincolo paesaggistico preesistente e non risulta
compatibile con la normativa edilizia, non risultando
suscettibile di sanatoria ai sensi dell’art. 32, comma 27, del
d.l. 30.09.2003 n.269 .
Ciò significa che il vincolo di inedificabilità assoluta,
gravante sull’area su cui insiste il manufatto abusivamente
realizzato, legittima e rende doveroso il provvedimento di
demolizione e ripristino dello stato dei luoghi,
indipendentemente dalla consistenza della struttura
realizzata senza titolo alcuno, come da orientamento
giurisprudenziale da tempo affermatosi (Cons. Stato Sez. VI
20.11.1998 n. 1583).
Va disattesa infine la censura formulata col sesto ed ultimo
motivo di gravame circa l’assenza di una motivazione
specifica sull’interesse pubblico a demolire: è sufficiente
in proposito richiamare quanto osservato in ordine alle
doglianze di cui al terzo e quarto motivo dell’appello, per
qui riaffermarsi l’assoluta assenza in capo
all’Amministrazione di un onere motivazionale del genere di
quello individuato da parte appellante.
L’ordine demolizione di opera edilizia abusiva è
sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata
abusività dell’opera anche in riferimento all’interesse
pubblico che si intende insito nella misura adottata, senza
che nella specie ci si trovi di fronte al protrarsi del
tempo trascorso dalla commissione dell’abuso e al protrarsi
dell’inerzia dell’amministrazione a provvedere, uniche
condizioni (nella specie non rinvenienti) che imporrebbero
una specifica, congrua motivazione sul punto (Cons. Stato
Sez. IV 06.06.2008 n. 2705; Cons. Stato Sez. V 04.03.2008 n.
883)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.10.2012 n. 5183 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Motivazione ordinanza demolizione e diniego
sanatoria.
Le determinazioni amministrative che definiscono gli abusi
edilizi costituiscono, per costante giurisprudenza, atti
aventi natura vincolata, che pongono in essere un modus agendi
tracciato in modo analitico dal legislatore, senza che in
capo all’Amministrazione ricada uno specifico onere di
motivazione sull’interesse pubblico sotteso all’adozione
delle misure che si vanno ad assumere.
L’ordine di demolizione di opera edilizia abusiva è
sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata
abusività anche in riferimento all’interesse pubblico che si
intende insito nella misura adottata, senza che nella specie
ci si trovi di fronte al protrarsi del tempo trascorso dalla
commissione dell’abuso e al protrarsi dell’inerzia
dell’amministrazione a provvedere, uniche condizioni che
imporrebbero una specifica, congrua motivazione sul punto (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.10.2012 n. 5183 - tratto da
www.lexambiente.it - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
potere del Sindaco, quale Ufficiale di Governo, di adottare
ordinanze contingibili ed urgenti può essere esercitato al
fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano
l’incolumità dei cittadini e solo per fronteggiare
situazioni di carattere eccezionale ed imprevedibile,
costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità,
con la conseguenza che prima dell’adozione di tali ordinanze
si impone un rigoroso accertamento in concreto della
sussistenza dei presupposti che ne giustificano l’esercizio,
dando atto in motivazione della situazione di grave e
concreto pericolo per l’interesse pubblico specifico a cui
si intende apprestare una tutela anticipata attraverso
l’adozione dell’ordinanza contingibile ed urgente.
Ora, se è pur vero che la dichiarazione dello stato di
emergenza costituisce una valutazione rimessa alla
discrezionalità dell’Amministrazione ed assume come suoi
presupposti non solo calamità naturali, ma anche altri
eventi, che comunque per intensità ed estensione non possano
essere fronteggiati con mezzi ordinari ed indipendentemente
dalla causa che li hanno ingenerati, deve rilevarsi che
questo Giudice può legittimamente sindacare il corretto
esercizio di tale potere, al fine di verificare la
sussistenza dei presupposti di legge ed accertare se le
misure assunte non siano manifestamente irragionevoli,
irrazionali o illogiche.
Carattere pregiudiziale ed assorbente rivestono in merito le
doglianze dedotte con il primo, il secondo ed quarto motivo
di ricorso e con le quali il ricorrente si è lamentato nella
sostanza del fatto che l’ordinanza contingibile non trovava
fondamento nella necessità di porre riparo ad un evento
straordinario ed imprevedibile, con danno grave ed imminente
per l’incolumità pubblica (primo motivo), che era illogico
il non aver utilizzato il percorso già da tempo individuato
nella variante al P.R.E. e che al ricorrente non era stata
data comunicazione dell’avvio del procedimento, né lo stesso
era stato convocato nel momento in cui era stato svolto un
sopralluogo per individuare un “percorso di emergenza”.
Va, invero, osservato che -come ha costantemente chiarito
la giurisprudenza amministrativa (cfr., da ultimo, TAR
Campania, sede Napoli, sez. V, 13.06.2012, n. 2799,
TAR Puglia, sede Bari, sez. II, 05.06.2012, n. 1099, e
Cons. St., sez. IV, 06.12.2011, n. 6414)- il potere
del Sindaco, quale Ufficiale di Governo, di adottare
ordinanze contingibili ed urgenti può essere esercitato al
fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano
l’incolumità dei cittadini e solo per fronteggiare
situazioni di carattere eccezionale ed imprevedibile,
costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità,
con la conseguenza che prima dell’adozione di tali ordinanze
si impone un rigoroso accertamento in concreto della
sussistenza dei presupposti che ne giustificano l’esercizio,
dando atto in motivazione della situazione di grave e
concreto pericolo per l’interesse pubblico specifico a cui
si intende apprestare una tutela anticipata attraverso
l’adozione dell’ordinanza contingibile ed urgente.
Ora, se è pur vero che la dichiarazione dello stato di
emergenza costituisce una valutazione rimessa alla
discrezionalità dell’Amministrazione ed assume come suoi
presupposti non solo calamità naturali, ma anche altri
eventi, che comunque per intensità ed estensione non possano
essere fronteggiati con mezzi ordinari ed indipendentemente
dalla causa che li hanno ingenerati, deve rilevarsi che
questo Giudice può legittimamente sindacare il corretto
esercizio di tale potere, al fine di verificare la
sussistenza dei presupposti di legge ed accertare se le
misure assunte non siano manifestamente irragionevoli,
irrazionali o illogiche.
Ciò detto e per passare all’esame del caso di specie, deve
evidenziarsi che le operazioni di ordinaria manutenzione
della vasca in parola non erano state svolte regolarmente da
anni; cosi come da anni era rimasto irrisolta la questione
delle definitiva individuazione del tracciato da seguire per
consentire ai mezzi di raggiungere la vasca in questione.
Per cui, ad avviso del Collegio, innanzi tutto non sembra
che sussistessero nella fattispecie i presupposti di legge
per esercitare legittimamente il potere di ordinanza, in
quanto per un verso non si trattava di prevenire ed
eliminare gravi pericoli che minacciavano l’incolumità dei
cittadini e per altro verso non si trattava di fronteggiare
una situazione di carattere eccezionale ed imprevedibile,
dal momento che il problema dell’individuazione del
tracciato per raggiungere la vasca era da anni a conoscenza
dell’Amministrazione comunale, che non aveva ritenuto di
risolverlo in via definitiva.
Va, inoltre, evidenziato che la problematica in questione
era stata da tempo evidenziata (nell’agosto 2011 erano
pervenute al Comune le prime segnalazioni dei cittadini
interessati) per cui si sarebbe potuto agevolmente
consentire la partecipazione del ricorrente al procedimento,
visto che l’atto impugnato è stato assunto solo nel dicembre
successivo. Né sono state adeguatamente spiegate nell’atto
impugnato le ragioni per le quali non era stato utilizzato
il percorso, ancorché non definitivo, indicato nello
strumento urbanistico e si era preferito attraversare il
terreno del ricorrente.
Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso in esame
deve, conseguentemente, essere accolto e, per l’effetto,
deve essere annullato l’atto impugnato
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 02.10.2012 n. 396 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’avvalimento è istituto di soccorso al
concorrente in sede di gara e, di conseguenza, va escluso
chi si avvale di impresa ausiliaria a sua volta priva del
requisito richiesto dal bando nella misura sufficiente ad
integrare il proprio requisito di qualificazione mancante.
Vero è che l’istituto dell’avvalimento risponde all’esigenza
della massima partecipazione alle gare, consentendo ai
concorrenti che siano privi dei requisiti richiesti dal
bando di concorrere ricorrendo ai requisiti di altri
soggetti; tuttavia, l’istituto va letto in coerenza con la
normativa comunitaria che è volta sì a favorire la massima
concorrenza, ma come condizione di maggior garanzia e di
sicura ed efficiente esecuzione degli appalti.
Se ne deduce che la possibilità di ricorrere ad ausiliari
presuppone che i requisiti mancanti siano da questi
integralmente e autonomamente posseduti, senza poter
estendere teoricamente all’infinito la catena dei possibili
subausilairi.
Va considerato, infatti, che solo il concorrente assume
obblighi contrattuali nei confronti della stazione
appaltante, tanto che l’ausiliario si obbliga verso il
concorrente e la stazione appaltante a mettere a
disposizione le risorse necessarie di cui è carente il
concorrente mediante apposita dichiarazione (art. 49, comma
3, lett. d)) ed, inoltre, l’ausiliario diventa ex lege
responsabile in solido con il concorrente in relazione alle
prestazioni oggetto del contratto (art. 49, comma 4).
La responsabilità solidale, che è garanzia di buona
esecuzione dell’appalto, può sussistere solo in quanto
l’impresa ausiliaria è collegata contrattualmente al
concorrente, tant’è che l’art. 49 prescrive l’allegazione,
già in occasione della domanda di partecipazione, del
contratto di avvalimento; tale vincolo contrattuale diretto
col concorrente e con la stazione appaltante non
sussisterebbe, invece, nel caso in cui si trattasse di
avvalimento da parte dell’ausiliario di requisiti posseduti
da terzi.
Inoltre, l’estensione della categoria di “concorrente” sino
a ricomprendere l’ausiliario e/o il soggetto indicato dal
concorrente per la progettazione (come nella fattispecie),
comportando potenzialmente una catena di avvalimenti di
ausiliarie dell’ausiliaria (potenzialmente all’infinito),
non consentirebbe un controllo agevole da parte della
stazione appaltante in sede di gara sul possesso dei
requisiti dei partecipanti.
Il Collegio non condivide tale interpretazione, che contrasta sia con la
lettera che con la ratio dell’art. 49 del codice dei
contratti.
Ed invero, l’art. 49, comma 2, cod. contratti utilizza in
proposito l’espressione “concorrente”, con la quale si
riferisce in equivocamente al solo operatore economico che
presenta domanda di partecipazione alla gara. Questi, ove
voglia ricorrere all’avvalimento, è tenuto a dichiarare ed
allegare, unitamente alla domanda di partecipazione, il
possesso da parte del soggetto avvalso dei requisiti che,
sommati ai propri, integrano la prescrizione del bando.
L’avvalimento, in altri termini, è istituto di soccorso al
concorrente in sede di gara e, di conseguenza, va escluso
chi si avvale di impresa ausiliaria a sua volta priva del
requisito richiesto dal bando nella misura sufficiente ad
integrare il proprio requisito di qualificazione mancante
(cfr. C.d.S., Sez. VI, 02.05.2012, n. 2508).
Vero è che l’istituto dell’avvalimento risponde all’esigenza
della massima partecipazione alle gare, consentendo ai
concorrenti che siano privi dei requisiti richiesti dal
bando di concorrere ricorrendo ai requisiti di altri
soggetti; tuttavia, l’istituto va letto in coerenza con la
normativa comunitaria che è volta sì a favorire la massima
concorrenza, ma come condizione di maggior garanzia e di
sicura ed efficiente esecuzione degli appalti.
Se ne deduce che la possibilità di ricorrere ad ausiliari
presuppone che i requisiti mancanti siano da questi
integralmente e autonomamente posseduti, senza poter
estendere teoricamente all’infinito la catena dei possibili
subausilairi.
Va considerato, infatti, che solo il concorrente assume
obblighi contrattuali nei confronti della stazione
appaltante, tanto che l’ausiliario si obbliga verso il
concorrente e la stazione appaltante a mettere a
disposizione le risorse necessarie di cui è carente il
concorrente mediante apposita dichiarazione (art. 49, comma
3, lett. d)) ed, inoltre, l’ausiliario diventa ex lege
responsabile in solido con il concorrente in relazione alle
prestazioni oggetto del contratto (art. 49, comma 4).
La responsabilità solidale, che è garanzia di buona
esecuzione dell’appalto, può sussistere solo in quanto
l’impresa ausiliaria è collegata contrattualmente al
concorrente, tant’è che l’art. 49 prescrive l’allegazione,
già in occasione della domanda di partecipazione, del
contratto di avvalimento; tale vincolo contrattuale diretto
col concorrente e con la stazione appaltante non
sussisterebbe, invece, nel caso in cui si trattasse di
avvalimento da parte dell’ausiliario di requisiti posseduti
da terzi.
Inoltre, l’estensione della categoria di “concorrente” sino
a ricomprendere l’ausiliario e/o il soggetto indicato dal
concorrente per la progettazione (come nella fattispecie),
comportando potenzialmente una catena di avvalimenti di
ausiliarie dell’ausiliaria (potenzialmente all’infinito),
non consentirebbe un controllo agevole da parte della
stazione appaltante in sede di gara sul possesso dei
requisiti dei partecipanti (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 01.10.2012 n. 5161 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’ordine
di demolizione non deve essere necessariamente preceduto
dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi
di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al
quale non sono richiesti apporti partecipativi del
destinatario ed il cui presupposto è costituto unicamente
dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità
o in assenza del titolo abilitativo.
Né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica
motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di
interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art.
3, l. n. 241 del 1990, dato che, ricorrendo i predetti
requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente
motivato con l'affermazione dell'accertata abusività
dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico concreto
ed attuale alla sua rimozione.
Anche qualora intercorra un lungo periodo di tempo tra la
realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento
sanzionatorio, tale circostanza non rileva ai fini della
legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso
affidamento circa la legittimità dell'opera, che il
protrarsi del comportamento inerte del comune avrebbe
ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in
relazione ad un presunto ulteriore obbligo, per
l'amministrazione procedente, di motivare specificamente il
provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse
pubblico attuale a far demolire il manufatto, poiché la
lunga durata nel tempo dell'opera priva del necessario
titolo edilizio ne rafforza il carattere abusivo
(trattandosi di illecito permanente), il che preserva il
potere-dovere dell'amministrazione di intervenire
nell'esercizio dei suoi poteri sanzionatori, tanto più che
il provvedimento demolitorio non richiede una congrua
motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico
alla rimozione dell'abuso, che è in re ipsa.
Al riguardo va rimarcato che, per orientamento costante di
questo Collegio, l’ordine di demolizione non deve essere
necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente
vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti
apporti partecipativi del destinatario ed il cui presupposto
è costituto unicamente dalla constatata esecuzione
dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo
abilitativo.
Né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica
motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di
interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art.
3, l. n. 241 del 1990, dato che, ricorrendo i predetti
requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente
motivato con l'affermazione dell'accertata abusività
dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico concreto
ed attuale alla sua rimozione (cfr., ex plurimis, Consiglio
Stato, sez. IV, 31.08.2010, n. 3955).
Anche qualora
intercorra un lungo periodo di tempo tra la realizzazione
dell'opera abusiva ed il provvedimento sanzionatorio, tale
circostanza non rileva ai fini della legittimità di
quest'ultimo, sia in rapporto al preteso affidamento circa
la legittimità dell'opera, che il protrarsi del
comportamento inerte del comune avrebbe ingenerato nel
responsabile dell'abuso edilizio, sia in relazione ad un
presunto ulteriore obbligo, per l'amministrazione
procedente, di motivare specificamente il provvedimento in
ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico attuale a
far demolire il manufatto, poiché la lunga durata nel tempo
dell'opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza
il carattere abusivo (trattandosi di illecito permanente),
il che preserva il potere-dovere dell'amministrazione di
intervenire nell'esercizio dei suoi poteri sanzionatori,
tanto più che il provvedimento demolitorio non richiede una
congrua motivazione in ordine all'attualità dell'interesse
pubblico alla rimozione dell'abuso, che è in re ipsa
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 01.10.2012 n. 4005 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’obbligo del rilascio della licenza edilizia è stato
introdotto per il centro urbano dalla legge n. 1150 del
1942, e con la legge n. 765/1967 è stato esteso a tutto il
territorio comunale.
Inoltre la opposta anteriorità
al 1967 non è idonea a comprovare la dedotta legittimità
delle opere in contestazione in quanto l’obbligo del
rilascio della licenza edilizia è stato introdotto per il
centro urbano dalla legge n. 1150 del 1942, e con la legge
n. 765/1967 è stato esteso a tutto il territorio comunale (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 01.10.2012 n. 4005 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
necessità del previo rilascio del permesso di costruire può
configurarsi anche in presenza di opere che attuino una
trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio anche se
esse non consistano in opere murarie, essendo realizzate in
metallo, in laminati di plastica, in legno od altro
materiale, in presenza di trasformazioni preordinate a
soddisfare esigenze non precarie del costruttore.
---------------
Nel caso delle canne fumarie, la giurisprudenza ha altresì
ravvisato la necessità del previo rilascio del permesso di
costruire qualora esse non presentino piccole dimensioni,
siano di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla
sagoma dell’immobile, e non possano considerarsi un elemento
meramente accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva
destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato
dalla preesistente struttura dell'immobile.
Nella specie, come risulta evidente dalle riproduzioni
fotografiche in atti, le due canne fumarie installate
sull’edificio in esame per le dimensioni, l’altezza, la
relativa conformazione, e la destinazione alla espulsione
dei fumi di un esercizio di ristorazione dotato di un forno,
incidono sul prospetto e la sagoma della costruzione su cui
sono installate. Esse infatti si presentano, nello spazio
interessante la sua apposizione ed elevazione in altezza,
come un visibile prolungamento completativo degli elementi
costituenti una delle facciate interne dell’edificio
esistente.
Le canne fumarie in oggetto non possono perciò considerarsi,
come sostiene la ricorrente, un elemento meramente
accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione
pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla
preesistente struttura dell’immobile.
Contrariamente a quanto
dedotto dalla ricorrente, infatti, l’intervento in esame, ad
avviso del Collegio, è riconducibile ai lavori di
ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1°,
lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, realizzati tramite
inserimento di nuovi elementi ed impianti, ed è quindi
subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi
dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello stesso
D.P.R. laddove comporti, come nel caso di specie, una
modifica del prospetto del fabbricato cui inerisce, come del
resto chiaramente evincibile dalle riproduzioni fotografiche
in atti.
Peraltro la necessità del previo rilascio del permesso di
costruire può configurarsi anche in presenza di opere che
attuino una trasformazione del tessuto urbanistico ed
edilizio anche se esse non consistano in opere murarie,
essendo realizzate in metallo, in laminati di plastica, in
legno od altro materiale, in presenza di trasformazioni
preordinate a soddisfare esigenze non precarie del
costruttore.
Nel caso delle canne fumarie, la giurisprudenza ha
altresì ravvisato la necessità del previo rilascio del
permesso di costruire qualora esse non presentino piccole
dimensioni, siano di palese evidenza rispetto alla
costruzione e alla sagoma dell’immobile, e non possano
considerarsi un elemento meramente accessorio ovvero di
ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale
assorbito o occultato dalla preesistente struttura
dell'immobile (cfr. Tar Veneto Tar Lazio n. 4246 18.05.2001).
Nella specie, come risulta evidente dalle riproduzioni
fotografiche in atti, le due canne fumarie installate
sull’edificio in esame per le dimensioni, l’altezza, la
relativa conformazione, e la destinazione alla espulsione
dei fumi di un esercizio di ristorazione dotato di un forno,
incidono sul prospetto e la sagoma della costruzione su cui
sono installate. Esse infatti si presentano, nello spazio
interessante la sua apposizione ed elevazione in altezza,
come un visibile prolungamento completativo degli elementi
costituenti una delle facciate interne dell’edificio
esistente.
Le canne fumarie in oggetto non possono perciò considerarsi,
come sostiene la ricorrente, un elemento meramente
accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione
pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla
preesistente struttura dell’immobile (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 01.10.2012 n. 4005 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: In
materia di demolizione, la figura del responsabile
dell’abuso non si identifica solo in colui che ha
materialmente eseguito l’opera ritenuta abusiva, ma si
riferisce, necessariamente, anche a colui che di quell’opera
ha la materiale disponibilità e pertanto, quale detentore, è
in grado di provvedere alla demolizione restaurando così
l’ordine violato.
L’ordine di demolizione, infatti, non presuppone
l’accertamento dell’elemento soggettivo integrante
responsabilità a carico del suo destinatario, non è un
provvedimento diretto a sanzionare un comportamento
illegittimo da parte del trasgressore, ma è un atto di tipo
ripristinatorio avendo esso la funzione di eliminare le
conseguenze della violazione edilizia, attraverso la
riduzione in pristino dello stato dei luoghi che consegue
alla rimozione delle opere abusive.
Per tale ragione l’ordine di demolizione deve essere rivolto
a colui che abbia la disponibilità materiale dell’opera
abusiva, indipendentemente dal fatto che l’abbia
concretamente realizzata, cosa che potrebbe rilevare sotto
il profilo della responsabilità penale, ma non per la
legittimità dell’ordine di demolizione. Si è difatti
affermato, con riguardo all’analoga posizione
dell’utilizzatore di un bene abusivo realizzato su area
demaniale che: “i provvedimenti repressivi di illeciti
edilizi possono essere indirizzati anche a persone diverse
da quelle che hanno materialmente realizzato l’abuso, ma è
anche vero che, ai fini della legittimità delle relative
ingiunzioni, è sempre necessaria la sussistenza di una
relazione giuridica o materiale del destinatario con il
bene”.
In ogni caso, il presupposto del provvedimento
amministrativo è la realizzazione di un’opera in assenza di
permesso di costruire, la cui eliminazione è necessaria per
ripristinare il corretto assetto del territorio, sicché
l’ordine di demolizione legittimamente è rivolto, ad avviso
del Collegio, a colui che al momento della sua irrogazione
aveva l’attuale disponibilità del bene abusivo e ciò
indipendentemente dal fatto di averlo realizzato.
Al riguardo è bene
chiarire che in materia di demolizione, ad avviso del
Collegio, la figura del responsabile dell’abuso non si
identifica solo in colui che ha materialmente eseguito
l’opera ritenuta abusiva, ma si riferisce, necessariamente,
anche a colui che di quell’opera ha la materiale
disponibilità e pertanto, quale detentore, è in grado di
provvedere alla demolizione restaurando così l’ordine
violato.
L’ordine di demolizione, infatti, non presuppone
l’accertamento dell’elemento soggettivo integrante
responsabilità a carico del suo destinatario, non è un
provvedimento diretto a sanzionare un comportamento
illegittimo da parte del trasgressore, ma è un atto di tipo ripristinatorio avendo esso la funzione di eliminare le
conseguenze della violazione edilizia, attraverso la
riduzione in pristino dello stato dei luoghi che consegue
alla rimozione delle opere abusive.
Per tale ragione
l’ordine di demolizione deve essere rivolto a colui che
abbia la disponibilità materiale dell’opera abusiva,
indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente
realizzata, cosa che potrebbe rilevare sotto il profilo
della responsabilità penale, ma non per la legittimità
dell’ordine di demolizione. Si è difatti affermato, con
riguardo all’analoga posizione dell’utilizzatore di un bene
abusivo realizzato su area demaniale che: “i provvedimenti
repressivi di illeciti edilizi possono essere indirizzati
anche a persone diverse da quelle che hanno materialmente
realizzato l’abuso, ma è anche vero che, ai fini della
legittimità delle relative ingiunzioni, è sempre necessaria
la sussistenza di una relazione giuridica o materiale del
destinatario con il bene” (cfr C.d.S. sez. IV 16.07.2007 n.
4008).
In ogni caso, il presupposto del provvedimento
amministrativo è la realizzazione di un’opera in assenza di
permesso di costruire, la cui eliminazione è necessaria per
ripristinare il corretto assetto del territorio, sicché
l’ordine di demolizione legittimamente è rivolto, ad avviso
del Collegio, a colui che al momento della sua irrogazione
aveva l’attuale disponibilità del bene abusivo e ciò
indipendentemente dal fatto di averlo realizzato (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 01.10.2012 n. 4005 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Compensi
professionali: come calcolo la parcella per una prestazione
durata oltre 10 anni?
La Corte di Cassazione, Sez. II civile, si pronuncia, con la
sentenza 28.09.2012 n. 16581, in merito al calcolo della
parcella di un professionista la cui prestazione lavorativa
si è protratta per ben 11 anni.
La tariffa applicabile è quella relativa all’inizio
dell’attività, quando è stato sottoscritto il contratto, o
si fa riferimento alla tariffa vigente al momento della
liquidazione? Oppure sarebbe opportuno frazionare la
prestazione professionale?
Durante il corso degli anni c’è stata una evoluzione delle
tariffe professionali, fino all’attuale abolizione delle
stesse e determinazione del compenso attraverso un
preventivo di massima, al momento dell’affidamento
dell’incarico, basato esclusivamente sulla contrattazione
privata tra professionista e cliente (v. art. 2233 del
Codice Civile).
Nel caso in esame, la Cassazione decide che il compenso del
professionista va calcolato prendendo come riferimento le
tariffe vigenti a fine lavori, dovendo considerare “unitaria”
la natura dell’incarico conferito e non frazionato nel corso
degli anni in rapporto alle diverse prestazioni eseguite.
In conclusione, vale la tariffa in vigore a fine incarico.
Ma a questo punto potremmo chiederci: cosa accade per i
lavori iniziati prima dell’abolizione e terminati oggi,
quando le tariffe professionali sono ormai abrogate?
Ad inizio lavori il professionista poteva far affidamento a
tariffe ben precise; alla fine dell’espletamento
dell’incarico lo stesso professionista potrebbe, invece,
correre il rischio di andare incontro ad un compenso
inferiore calcolato (eventualmente in fase di contenzioso)
con il D.M. 20.07.2012 n. 140.
Inoltre, l’organo giurisdizionale può aumentare o diminuire
il compenso determinato rispetto al preventivo fino al 60%
(04.10.2012 - link a www.acca.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Il
soggetto che subisce un procedimento di controllo o
ispettivo ha un interesse qualificato a conoscere
integralmente tutti i documenti utilizzati
dall’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza,
compresi gli esposti e le denunce che hanno determinato
l’attivazione di tale potere, non ostandovi neppure il
diritto alla riservatezza che non può essere invocato quando
la richiesta di accesso ha ad oggetto il nome di coloro che
hanno reso denunce o rapporti informativi nell’ambito di un
procedimento ispettivo, giacché al predetto diritto alla
riservatezza non può riconoscersi un’estensione tale da
includere il diritto all’anonimato di colui che rende una
dichiarazione a carico di terzi, tanto più che l’ordinamento
non attribuisce valore giuridico positivo all’anonimato.
Non può pertanto seriamente dubitarsi che la conoscenza
integrale dell’esposto rappresenti uno strumento
indispensabile per la tutela degli interessi giuridici
dell’appellato, essendo intuitivo che solo in questo modo
egli potrebbe proporre eventualmente denuncia per calunnia a
tutela della propria onorabilità: il che rende del tutto
prive di qualsiasi fondamento giuridico i dubbi sull’uso
asseritamente strumentale e ritorsivo della conoscenza
dell’esposto che ha dato luogo al procedimento disciplinare
in danno del ricorrente, non potendo ammettersi che pretese
esigenze di riservatezza possano determinate un vulnus
intollerabile ad un diritto fondamentale della persona,
quale quello dell’onore.
Quanto al merito della questione la Sezione rileva che,
secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal
quale non vi è motivo per discostarsi, il soggetto che
subisce un procedimento di controllo o ispettivo ha un
interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i
documenti utilizzati dall’amministrazione nell’esercizio del
potere di vigilanza, compresi gli esposti e le denunce che
hanno determinato l’attivazione di tale potere (C.d.S., sez.
IV, 19.01.2012, n. 231; sez. V, 19.05.2009, n.
3081), non ostandovi neppure il diritto alla riservatezza
che non può essere invocato quando la richiesta di accesso
ha ad oggetto il nome di coloro che hanno reso denunce o
rapporti informativi nell’ambito di un procedimento
ispettivo, giacché al predetto diritto alla riservatezza non
può riconoscersi un’estensione tale da includere il diritto
all’anonimato di colui che rende una dichiarazione a carico
di terzi, tanto più che l’ordinamento non attribuisce valore
giuridico positivo all’anonimato (C.d.S., sez. VI, 25.06.2007, n. 3601).
Non può pertanto seriamente dubitarsi che la conoscenza
integrale dell’esposto rappresenti uno strumento
indispensabile per la tutela degli interessi giuridici
dell’appellato, essendo intuitivo che solo in questo modo
egli potrebbe proporre eventualmente denuncia per calunnia a
tutela della propria onorabilità: il che rende del tutto
prive di qualsiasi fondamento giuridico i dubbi sull’uso
asseritamente strumentale e ritorsivo della conoscenza
dell’esposto che ha dato luogo al procedimento disciplinare
in danno del ricorrente, non potendo ammettersi che pretese
esigenze di riservatezza possano determinate un vulnus
intollerabile ad un diritto fondamentale della persona,
quale quello dell’onore
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.09.2012 n. 5132 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Amleto, i Comuni e i diritti dei terzi: "indagare
o non indagare?"
Da sempre esiste un dubbio che
attanaglia i Comuni, specialmente quando si tratta di
rilasciare un permesso di costruire.
Infatti, ai sensi dell’art. 11 (Caratteristiche del permesso
di costruire) del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico
edilizia), il permesso di costruire, che viene “rilasciato
al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per
richiederlo”, in ogni caso “non comporta limitazione dei
diritti dei terzi”.
La formula standard utilizzata nella prassi è piuttosto
nota: “fatti salvi i diritti dei terzi”.
Tuttavia, da sempre la giurisprudenza si interroga circa la
portata della norma appena richiamata soprattutto con
riguardo alle indagini che gli uffici tecnici comunali
devono svolgere per verificare, o meno, la sussistenza di
limitazioni di “diritto privato”.
In questo ambito si colloca la
sentenza 28.09.2012 n. 5128 del Consiglio di
Stato, Sez. VI, qui in esame.
Fa da sfondo alla decisione la materia condominiale.
Infatti, il comproprietario di un appartamento aveva chiesto
di poter realizzare un abbaino al piano secondo (sottotetto)
dell’edificio condominiale, di pertinenza dell’appartamento
di sua proprietà, per ottenere una migliore illuminazione
del locale-soggiorno la cui finestra era parzialmente
coperta dall’ala del tetto dell’edificio.
Ma la richiesta veniva rigettata dal Comune:
- sia per la mancanza del consenso scritto del condominio
(sul presupposto della natura di parte comune del tetto
interessato dall’opera e dell’utilizzo di una parte della
cubatura urbanistica residua dell’edificio condominiale);
- sia per la necessità di integrare la documentazione con
una verifica analitica e grafica sulla cubatura ammissibile
sul lotto e di evidenziare, nella parte planimetrica, le
distanze dai confini e dagli edifici.
Ebbene, in questo quadro, secondo i Giudici di Palazzo Spada
esistete anzitutto l’obbligo per il Comune, in sede di
rilascio del titolo abilitativo edilizio, di verificare il
rispetto dei limiti privatistici, a condizione però che tali
limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente
conoscibili o non contestati, di modo che il controllo da
parte dell’ente locale si traduca in una semplice presa
d’atto dei limiti medesimi, senza la necessità di procedere
ad un’accurata e approfondita disamina dei rapporti
civilistici.
In tal modo viene ribadita una regola molto chiara che
rappresenta in definitiva un approdo equilibrato in materia:
i Comuni devono prendere in considerazione anche gli aspetti
di diritto comune, senza tuttavia doversi impegnare in
indagini eccessivamente laboriose e dispendiose (quelle
semmai riservate al Giudice Ordinario).
In secondo luogo, il Consiglio di Stato afferma che nel caso
in cui l’opera per la quale si chiede il rilascio di un
permesso di costruire sia destinata a incidere (non solo in
senso materiale ma, eventualmente, anche sotto il profilo
del decoro architettonico) su di una parte comune di un
edificio condominiale (in questo caso: il tetto), tale opera
deve qualificarsi come innovazione “voluttuaria” e “non
necessaria”, avendo essa lo scopo di rendere più comodo
il godimento dell’immobile; opere oltretutto idonea ad
imprimere alla cosa comune una destinazione anche ad uso
esclusivo del singolo appartamento.
Per questo motivo il Comune ha legittimamente preteso il
consenso del condominio, a fronte dell’evidente incidenza su
una parte comune dell’edificio condominiale, nonché
paventando prudenzialmente l’eventualità dell’utilizzo di
parte della volumetria residua dell’edificio stesso, in
esplicazione del suo potere/dovere di verifica del titolo di
legittimazione.
In definitiva, si potrebbe dire che soprattutto in alcuni
ambiti delicati, caratterizzati da un forte tasso di
litigiosità (il condominio), i Comuni fanno bene a
richiedere il consenso alla realizzazione dell’opera da
parte degli altri condomini (ovvero, da parte del
condominio).
In questo modo “i diritti dei terzi” vengono in un
certo qual senso tutelati in via preventiva, anche se
ovviamente non in modo pieno. Il vantaggio potrebbe essere
quello di evitare di rimettere ad una successiva causa
ordinaria ogni questione al riguardo, in quel caso con
problemi non indifferenti quanto ad eventuali
sovrapposizioni di giudizi tra loro discordanti (aspetti di
diritto privato, da un lato, e aspetti di diritto
amministrativo, dall’altro) (commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a
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EDILIZIA
PRIVATA: In
sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio sussiste
l’obbligo per il comune di verificare il rispetto da parte
dell’istante dei limiti privatistici, a condizione che tali
limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente
conoscibili o non contestati, di modo che il controllo da
parte dell’ente locale si traduca in una semplice presa
d’atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad
un’accurata e approfondita disanima dei rapporti
civilistici.
Secondo l’orientamento prevalente di questo Consiglio di
Stato, condiviso da questo Collegio, in sede di rilascio del
titolo abilitativo edilizio sussiste l’obbligo per il comune
di verificare il rispetto da parte dell’istante dei limiti
privatistici, a condizione che tali limiti siano
effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili o non
contestati, di modo che il controllo da parte dell’ente
locale si traduca in una semplice presa d’atto dei limiti
medesimi senza necessità di procedere ad un’accurata e
approfondita disanima dei rapporti civilistici (v., ex plurimis, C.d.S., Sez. IV, 10.12.2007, n. 6332;
C.d.S., Sez. IV, 11.04.2007, n. 1654).
Segnatamente, deve affermarsi l’obbligo del comune di
verificare se, a base dell’istanza edificatoria, sia
riconoscibile l’effettiva disponibilità giuridica del bene
oggetto dell’intervento edificatorio, limitando invero
l’art. 70 l.prov. 11.08.1997, n. 13, la legittimazione
attiva all’ottenimento della concessione edilizia a chi sia
munito di titolo giuridico sostanziale per richiederlo (la
citata disposizione normativa, emanata dalla Provincia
autonoma di Bolzano nell’esercizio della potestà legislativa
primaria in materia di urbanistica, corrisponde
sostanzialmente alla previsione contenuta nell’art. 11 d.P.R.
06.06.2001, n. 380).
Nel caso di specie, l’opera in contestazione era destinata a
incidere sulla parte comune costituita dal tetto
dell’edificio condominiale (non solo in senso materiale ma,
eventualmente, anche sotto il profilo del decoro
architettonico). L’opera, contrariamente a quanto assunto
dall’odierno appellante, deve qualificarsi come innovazione
voluttuaria –e non necessaria– per rendere più comodo il
godimento dell’immobile. La medesima, al contempo, deve
ritenersi idonea ad imprimere alla cosa comune una
destinazione anche ad uso esclusivo del suo appartamento.
L’Amministrazione comunale, a fronte dell’evidente incidenza
su una parte comune dell’edificio condominiale, nonché
paventando prudenzialmente l’eventualità dell’utilizzo di
parte della volumetria residua dell’edificio condominiale,
in esplicazione del menzionato potere/dovere di verifica del
titolo di legittimazione ha consequenzialmente, e del tutto
ragionevolmente, richiesto il consenso del condominio.
Orbene, tenuto conto dell’espressa contemplazione,
nell’impugnato provvedimento di diniego, dell’esigenza di
acquisire il consenso condominiale, vi risulta formalmente
indicato l’ente di gestione che sarebbe stato leso nel caso
di rilascio del permesso (il condominio, e per esso
rispettivamente i condomini, agevolmente individuabili
dall’appellante), la cui posizione è connotata dalla
titolarità di un interesse giuridicamente qualificato (nella
specie, del diritto di proprietà su parti comuni –tetto
condominiale– dell’edificio interessato dai lavori),
implicitamente contemplato dall’atto impugnato, a mantener
fermi gli effetti scaturenti dal provvedimento di diniego.
I citati soggetti, quindi, nell’appellata sentenza sono
stati correttamente qualificati come controinteressati in
senso formale e sostanziale e ad almeno uno di essi pertanto
andava notificato a pena di inammissibilità il ricorso
originario a mente dell’art. 21, comma 1, l. n. 1034 del
1971 (v., in fattispecie analoga, C.d.S., Sez. VI, 29.05.2007, n. 2742).
Inconferente appare il richiamo, da parte dell’appellante
(nella memoria di replica dell’11.06.2012), della
sentenza C.d.S., Sez. IV, 04.05.2010, n. 2546, relativa
ad un caso di impugnazione del diniego di concessione per un
intervento sul tetto comune, in quanto vi risultava evocato
in giudizio il condomino controinteressato (poi non
costituitosi in giudizio), con la conseguenza che la
questione di merito è stata decisa previa incardinazione del
rapporto processuale tra i legittimi contraddittori, mentre
nella fattispecie sub iudice questi ultimi non sono
stati evocati in giudizio, con conseguente mancata regolare
costituzione del rapporto processuale e preclusione
all’ingresso delle questioni di merito (attinenti alla
fondatezza, o meno, delle ragioni di diniego opposti dal
Comune all’istanza di concessione)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 28.09.2012 n. 5128 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: A
norma del combinato disposto degli artt. 32 l. 28.02.1985,
n. 45, e 39 l. 23.12.1994, n. 724, il rilascio del titolo
abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su
immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere
favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del
vincolo.
In tale ambito l’amministrazione statale, sebbene non possa
disporre l’annullamento dell’autorizzazione o del parere
paesaggistico adottato in sede regionale (rispettivamente
dall’ente subdelegato) per ragioni di merito e sovrapporre
il proprio giudizio di compatibilità paesaggistica a quella
dell’amministrazione competente, può vagliare
l’autorizzazione o il parere sotto tutti i profili di
legittimità, compreso il vizio di eccesso di potere, qualora
l’autorità che ha emesso il nulla osta o il parere non abbia
esternato una motivazione congrua dalla quale evincere le
ragioni che la inducevano a concludere per la compatibilità
dei manufatti realizzati con il vincolo paesaggistico.
Giova premettere, in linea di diritto, che a norma del
combinato disposto degli artt. 32 l. 28.02.1985, n.
45, e 39 l. 23.12.1994, n. 724, il rilascio del titolo
abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su
immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere
favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del
vincolo, e che anche in tale ambito secondo il consolidato
orientamento giurisprudenziale, condiviso da questo
Collegio, l’amministrazione statale, sebbene non possa
disporre l’annullamento dell’autorizzazione o del parere
paesaggistico adottato in sede regionale (rispettivamente
dall’ente subdelegato) per ragioni di merito e sovrapporre
il proprio giudizio di compatibilità paesaggistica a quella
dell’amministrazione competente, può vagliare
l’autorizzazione o il parere sotto tutti i profili di
legittimità, compreso il vizio di eccesso di potere, qualora
l’autorità che ha emesso il nulla osta o il parere non abbia
esternato una motivazione congrua dalla quale evincere le
ragioni che la inducevano a concludere per la compatibilità
dei manufatti realizzati con il vincolo paesaggistico (v. in
tal senso, ex plurimis, C.d.S., Sez. VI, 08.07.2011, n.
4103; C.d.S., Sez. IV, 04.05.2011, n. 2644)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 28.09.2012 n. 5125 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Determina
una violazione dei principi inderogabili di trasparenza e di
imparzialità che devono presiedere le gare pubbliche il
fatto della conoscenza preventiva di elementi dell'offerta,
la quale consente di modulare il giudizio sull’offerta
tecnica in modo non conforme alla parità di trattamento dei
concorrenti e tale possibilità, ancorché remota ed
eventuale, inficia la regolarità della procedura.
E ciò in quanto "ai fini dell’annullamento della gara non è
necessario che effettivamente la commissione abbia tenuto
conto della conoscenza anticipata dell' offerta economica
-circostanza, questa, come il suo contrario, praticamente
non dimostrabile— ma è sufficiente che le concrete modalità
di svolgimento della gara non abbiano assicurato la garanzia
di piena imparzialità dei giudizi e quindi il rischio di
inquinamento dei medesimi”.
Nello specifico, poi, la giurisprudenza della Sezione ha
avuto modo di precisare come non vi sia "dubbio che la
conoscenza di circa un decimo dell’incidenza dell'offerta
economica costituisce ben più di un parametro di riferimento
per modulare i giudizi della commissione in un senso o
nell’altro”.
Secondo il consolidamento insegnamento della giurisprudenza
della Sezione, infatti, lo stesso determina una violazione
dei principi inderogabili di trasparenza e di imparzialità
che devono presiedere le gare pubbliche, atteso che la
conoscenza preventiva di elementi dell'offerta "consente di
modulare il giudizio sull’offerta tecnica in modo non
conforme alla parità di trattamento dei concorrenti e tale
possibilità, ancorché remota ed eventuale, inficia la
regolarità della procedura” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 08.09.2010 n. 6509; cfr. altresì, Cons. Stato, Sez. V,
25.05.2009 n. 3217).
E ciò in quanto "ai fini dell’annullamento della gara non è
necessario che effettivamente la commissione abbia tenuto
conto della conoscenza anticipata dell' offerta economica -circostanza, questa, come il suo contrario, praticamente non
dimostrabile— ma è sufficiente che le concrete modalità di
svolgimento della gara non abbiano assicurato la garanzia di
piena imparzialità dei giudizi e quindi il rischio di
inquinamento dei medesimi” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 25.05.2009 n. 3217).
Nello specifico, poi, la giurisprudenza della Sezione ha
avuto modo di precisare come non vi sia "dubbio che la
conoscenza di circa un decimo dell’incidenza dell'offerta
economica costituisce ben più di un parametro di riferimento
per modulare i giudizi della commissione in un senso o
nell’altro” (cfr. sentenza 08.09.2010 n. 6509)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.09.2012 n. 5121 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Fermo
restando l’indiscusso principio, più volte ribadito, secondo
cui i concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo
devono eseguire le prestazioni nella percentuale
corrispondente alla quota di partecipazione al
raggruppamento, dovendo sussistere, come requisito di
ammissione alla gara, una perfetta coincidenza tra quota dei
lavori (o, nel caso di forniture o servizi, parti del
servizio o della fornitura) eseguita dal singolo operatore
economico e quota di effettiva partecipazione al
raggruppamento, la Sezione ritiene di non doversi discostare
da quanto statuito da C.d.S., sez. V, 11.12.2007, n. 6363,
ove è stato affermato che “Il disposto dell’art. 95, comma
2, d.P.R. n. 554 del 1999, secondo cui l’impresa mandataria
in ogni caso possiede i requisiti in misura maggioritaria,
deve essere riferito non all’entità del requisito minimo
complessivo prescritto per la specifica gara di cui trattasi
in relazione all’importo dei lavori da commettere, bensì
alle quote effettive di partecipazione all’associazione,
sicché può definirsi maggioritaria l’impresa che, avendo un
qualifica adeguata, assuma concretamente una quota superiore
o comunque non inferiore a quella di ciascuna delle altre
imprese mandanti, a prescindere dai valori assoluti di
classifica di ognuna delle altre; ciò perché, in caso
diverso, si creerebbe un vincolo restrittivo al mercato, in
contrasto con il principio della libertà di determinazione
delle imprese in sede associativa, in quanto sarebbero
privilegiate comunque le imprese di grande dimensione”.
Sul punto, fermo restando l’indiscusso principio, più volte
ribadito, secondo cui i concorrenti riuniti in
raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni
nella percentuale corrispondente alla quota di
partecipazione al raggruppamento (tra le più recenti,
C.d.S., sez. V, 14.12.2011, n. 6538; 08.11.2011,
n. 5892), dovendo sussistere, come requisito di ammissione
alla gara, una perfetta coincidenza tra quota dei lavori (o,
nel caso di forniture o servizi, parti del servizio o della
fornitura) eseguita dal singolo operatore economico e quota
di effettiva partecipazione al raggruppamento (C.d.S., sez. III, 11.05.2011, n. 2805), la Sezione ritiene di non
doversi discostare da quanto statuito da C.d.S., sez. V, 11.12.2007, n. 6363, ove è stato affermato che “Il
disposto dell’art. 95, comma 2, d.P.R. n. 554 del 1999,
secondo cui l’impresa mandataria in ogni caso possiede i
requisiti in misura maggioritaria, deve essere riferito non
all’entità del requisito minimo complessivo prescritto per
la specifica gara di cui trattasi in relazione all’importo
dei lavori da commettere, bensì alle quote effettive di
partecipazione all’associazione, sicché può definirsi
maggioritaria l’impresa che, avendo un qualifica adeguata,
assuma concretamente una quota superiore o comunque non
inferiore a quella di ciascuna delle altre imprese mandanti,
a prescindere dai valori assoluti di classifica di ognuna
delle altre; ciò perché, in caso diverso, si creerebbe un
vincolo restrittivo al mercato, in contrasto con il
principio della libertà di determinazione delle imprese in
sede associativa, in quanto sarebbero privilegiate comunque
le imprese di grande dimensione”.
In mancanza, quindi, di ulteriori e diversi elementi, non
può sostenersi che nel caso di specie la partecipazione
paritaria (50%) all’A.T.I. aggiudicataria delle imprese che
la costituiscono, implichi ex se la mancanza del
possesso in capo alla capogruppo mandataria dei requisiti di
partecipazione maggioritaria previsti dalla legge
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.09.2012 n. 5120 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Realizzazione di manufatti da adibire a serre.
Per la realizzazione di manufatti da adibire a serre è
indispensabile ottenere il permesso di costruire, giacché la
realizzazione di un impianto di tal genere -che sia
stabilmente ancorato al suolo, formi un ambiente chiuso e
sia destinato a perdurare nel tempo- integra una
modificazione apprezzabile dei territorio, non rilevando la
sua destinazione agricola, né che esso possa essere
asportato o spostato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.09.2012 n. 36594 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Beni ambientali. Applicazione principio di offensività.
Il reato di cui all'art. 181, comma 1, del d.Lgs.
22.01.2004, n. 42 è reato di pericolo e, pertanto, per la
configurabilità dell'illecito, non è necessario un effettivo
pregiudizio per l'ambiente, potendo escludersi da! novero
delle condotte penalmente rilevanti soltanto quelle che si
prospettano inidonee, pure in astratto, a compromettere i
valori del paesaggio e l'aspetto esteriore degli edifici.
Reato di pericolo è anche la contravvenzione di cui agli
artt. 13 e 20 della legge n. 394/1991 ed il principio di offensività deve essere inteso, al riguardo, in termini non
di concreto apprezzamento di un danno ambientale, bensì
dell'attitudine della condotta a porre in pericolo il bene
protetto (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.09.2012 n. 36040 -
tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Differenza tra realizzazione e gestione di
discarica abusiva ed illecito smaltimento.
Perché sia configurabile il reato di realizzazione e
gestione di discarica abusiva, sono necessari: l'accumulo
ripetuto e non occasionale di rifiuti in area determinata;
l'eterogeneità della massa di materiali; la definitività del
loro abbandono; il degrado, anche solo tendenziale dello
stato dei luoghi.
Tali elementi non ricorrono quando
l'abbandono di rifiuti abbia avuto carattere occasionale ed
abbia avuto per oggetto materiali in gran parte omogenei e
non abbia cagionato un degrado dell'area, con la conseguenza
che la condotta deve essere in tal caso sussunta nella
diversa fattispecie dello smaltimento abusivo di rifiuti,
che costituisce, quanto alla condotta, una fattispecie
sovrapponibile a quella di discarica abusiva, salvo che per
la mancanza dei presupposti sopra elencati (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.09.2012 n. 36021 -
tratto www.lexambiente.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Progettazione e esecuzione dei lavori, per
certificarli conta il bando.
Nelle presentazione della documentazione richiesta dal
disciplinare di gare da parte delle ditte offerenti le
certificazioni dei lavori richiesti rivestono un ruolo
indispensabile al fine di procedure all'aggiudicazione della
gara; i requisiti richiesti possono essere presenti solo in
alcuni certificati mentre in altri possono risultare anche
incongruenti all'offerta, l'importante e' che quanto
richiesto nel bando di gara sia concretamente attestato.
Il contenzioso riguarda la procedura aperta indetta da un
Comune per l’affidamento della progettazione esecutiva e dei
lavori del programma di riqualificazione degli spazi
pubblici e culminata nell’aggiudicazione in favore di un
Consorzio. Il TAR ha respinto il ricorso proposto da una
società per azioni che aveva partecipato alla gara indetta
dall’ente locale.
Con l’appello principale la società ricorrente ripropone e
sviluppa la tesi secondo cui il Consorzio aggiudicatario non
avrebbe dimostrato il possesso del requisito di
qualificazione, richiesto dal disciplinare, relativo
all’esecuzione, nell’ultimo decennio, di due lavori similari
a quello in oggetto.
Per il Consiglio di Stato il ricorso è infondato. I giudici
di Palazzo Spada evidenziano che: - l’appalto in parola
aveva per oggetto la progettazione esecutiva e l’esecuzione
dei lavori di riqualificazione degli spazi pubblici di
relazione del Comune;- la relazione descrittiva allegata al
progetto definitivo redatto dalla stazione appaltante
precisava, al riguardo, che la programmata riqualificazione
era volta a restituire, in un recuperato contesto, spazi a
vocazione urbana alla collettività per favorire lo svago e
la vita di relazione ed a “promuovere, unitamente ad
altri interventi specifici e puntuali ed attraverso
l’introduzione di attività culturali e di animazione, il
recupero e la rivitalizzazione urbana e sociale del centro
storico”.
Il punto del disciplinare di gara contestato stabiliva, che,
“quale ulteriore requisito di partecipazione”, in
applicazione dell’art. 253, comma 30, del D.Lgs. n. 163/2006
(“le stazioni appaltanti possono individuare, quale
ulteriore requisito di partecipazione al procedimento di
appalto, l'avvenuta esecuzione, nell'ultimo decennio, di
lavori nello specifico settore cui si riferisce
l'intervento, individuato in base alla tipologia dell'opera
oggetto di appalto”), ciascun concorrente avrebbe dovuto
“avere eseguito, nell’ultimo decennio, almeno due lavori
similari a quello in oggetto (…..) per un importo
complessivo non inferiore a quello posto a base di gara (€
6.122.764,68), dei quali almeno uno per un importo pari al
50% di quello posto a base di gara”, puntualizzando che
detti lavori avrebbero dovuto “essere relativi ad opere di
riqualificazione di strade e/o piazze pubbliche”;
Il Consorzio aggiudicatario aveva esibito nell’offerta
presentata un considerevole numero di certificati di
esecuzione di lavori per conto di diversi enti locali ,
mentre la società ricorrente ne contestava l’inerenza con
l’oggetto della gara su alcuni di questi certificati.
La società ricorrente in via principale indirizza le sue
critiche ai lavori espletati dal consorzio aggiudicatario
per il Comune di Marigliano e per la Provincia di Firenze
ritenendo che non erano appieno riconducibili allo specifico
settore della “riqualificazione di strade e/o piazze
pubbliche”, e, quindi, rispondenti al requisito
idoneativo richiesto –ai sensi dell’art. 253, comma 30, del
codice dei contratti pubblici– dal punto 9.2 del
disciplinare di gara.
Per il Consiglio di Stato i rilievi svolti consentono di
approdare alla conclusione secondo cui, a prescindere dalla
congruenza degli ulteriori certificati di esecuzione dei
lavori rilasciati da un ente locale (quelli della Provincia
di Firenze con riguardo a “interventi ai manufatti di
sostegno del corpo stradale e delle pertinenze, alle opere
di regimazione idraulica, alle protezioni veicolari, lungo
le strade provinciali e regionali ) il Consorzio ha
dimostrato il possesso del duplice requisito tecnico secondo
quanto previsto disciplinare di gara, consistente
nell’esecuzione, nell’ultimo decennio, di almeno due lavori
similari a quelli previsti in appalto, relativi ad opere di
riqualificazione di strade e/o piazze pubbliche per un
importo complessivo non inferiore a quello posto a base di
gara (€ 6.122.764,68), dei quali almeno uno per un importo
pari al 50% di quello posto a base di gara.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale pronunciando
sul ricorso, respinge l’appello principale e dichiara
l’improcedibilità dell’appello incidentale (commento tratto
da www.ispoa.it - Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 20.09.2012 n. 5009 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Nozione
di manutenzione straordinaria.
Per manutenzione straordinaria l'art. 3, 1° comma, lett.
b), del T.U. n. 380/2001 [con definizione già fornita
dall'art. 31, 1° comma, lett. b), della legge n. 457/1978]
ricomprende in tale nozione le opere e le modifiche
necessarie per rinnovare o sostituire parti anche
strutturali degli edifici, nonché per realizzare e integrare
i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non
alterino i volumi e le superfici delle singole unità
immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni
d'uso.
La legge pone, dunque, un duplice limite: uno, di
ordine funzionale, costituito dalla necessità che i lavori
siano rivolti alla mera sostituzione o al puro rinnovo di
parti dell'edificio, e l'altro di ordine strutturale
consistente nel divieto di alterare i volumi e le superfici
delle singole unità immobiliari o di mutare la loro
destinazione.
Interventi devono essere inoltre effettuati
nel rispetto degli elementi tipologici, strutturali e
formali nella loro originaria edificazione (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.09.2012 n. 35803 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Beni ambientali. Violazione articolo 734 cod. pen..
La contravvenzione di cui all'art. 734 cod. pen. si
configura come un reato di danno, e non di pericolo,
richiedendo per la sua punibilità che si verifichi in
concreto la distruzione o l'alterazione delle bellezze
protette.
Non è sufficiente, pertanto, per integrare gli
estremi del reato, la mera esecuzione di un'opera o la
semplice alterazione dello stato naturale delle cose
sottoposte a vincolo, ma occorre che tale alterazione abbia
effettivamente determinato la distruzione o il deturpamento
della bellezza naturale (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.09.2012 n. 35792 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: A
norma dell’art. 32, l. 28.02.1985 n. 47, il rilascio del
titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite
su immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere
favorevole delle Amministrazioni preposte alla tutela del
vincolo e anche in tale ambito l’Amministrazione Statale,
sebbene non possa disporre l’annullamento
dell’autorizzazione o del parere paesaggistico adottato in
sede regionale per ragioni di merito e sovrapporre il
proprio giudizio di compatibilità paesaggistica a quello
dell’Amministrazione competente, può vagliare
l’autorizzazione o il parere sotto tutti i profili di
legittimità, compreso il vizio di eccesso di potere qualora
l’autorità che ha emesso il nulla osta o il parere non abbia
esternato una motivazione congrua dalla quale evincere le
ragioni che la inducevano a concludere per la compatibilità
dei manufatti realizzati con il vincolo paesaggistico.
Rileva il Collegio che il provvedimento impugnato è
consistito nell’annullamento del provvedimento n. 4
dell’08.01.2008, a firma del Responsabile dell’Ufficio
Tecnico del Comune di Vibonati, che autorizzava, ai sensi
dell’art. 159 del d. l.vo 42/2004, il rilascio della
sanatoria per il cambio di destinazione d’uso di locali
tecnologici e di manufatti realizzati abusivamente, presso
il fabbricato di proprietà del ricorrente alla località “Le
Ginestre” di quel Comune, in area vincolata giusta D.M.
07.06.1967; che il nucleo centrale della motivazione dello
stesso provvedimento si ritrova nel considerato, secondo il
quale la suddetta autorizzazione paesaggistica comunale “non
giustifica esaustivamente la compatibilità delle opere
eseguite abusivamente con la tutela paesistico–ambientale
della zona”, limitandosi a dichiarare “parere
favorevole trattandosi di tettoie e cambio d’uso di un
locale destinato precedentemente a locale uso tecnologico e
garage, che bene si inserisce nell’ambiente paesaggistico e
tipologia ricorrente in zona”; nonché secondo il quale
la prefata autorizzazione “non giustifica l’ammissibilità
dell’istanza ai sensi delle previsioni di cui al comma 26,
lett. a), dell’art. 32 della l. 326/2003”; e nel
successivo rilievo, secondo cui “la tipologia dell’abuso
non rientra tra quelle ammesse dall’allegato 1 della l.
326/2003”.
Osserva il Tribunale come in materia sia stato affermato il
principio, secondo cui: “A norma dell’art. 32, l.
28.02.1985 n. 47, il rilascio del titolo abilitativo
edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili
sottoposti a vincolo è subordinato al parere favorevole
delle Amministrazioni preposte alla tutela del vincolo e
anche in tale ambito l’Amministrazione Statale, sebbene non
possa disporre l’annullamento dell’autorizzazione o del
parere paesaggistico adottato in sede regionale per ragioni
di merito e sovrapporre il proprio giudizio di compatibilità
paesaggistica a quello dell’Amministrazione competente, può
vagliare l’autorizzazione o il parere sotto tutti i profili
di legittimità, compreso il vizio di eccesso di potere
qualora l’autorità che ha emesso il nulla osta o il parere
non abbia esternato una motivazione congrua dalla quale
evincere le ragioni che la inducevano a concludere per la
compatibilità dei manufatti realizzati con il vincolo
paesaggistico” (Consiglio di Stato – Sez. VI –
08.07.2011, n. 4103).
Orbene, nella specie la Soprintendenza B.A.P.P.S.A.E. di
Salerno ed Avellino ha ritenuto che la motivazione, con cui
l’autorità comunale ha giustificato il rilascio del nulla
osta, non fosse esaustiva: il rilievo va condiviso,
trattandosi a ben vedere di un’affermazione, quella circa il
“buon inserimento” del locale, trasformato da garage
in abitazione, nell’ambiente paesaggistico e tipologico
della zona, anodina, priva com’è di concreti riferimenti
alle caratteristiche costruttive dell’immobile, con
riferimento all’ambiente nel quale lo stesso andava a
collocarsi, tale da non sostanziare, cioè, una compiuta
esternazione delle ragioni, fondanti l’asserita assenza di
contrasto rispetto ai valori ambientali, riassunti nel
decreto ministeriale impositivo del vincolo paesaggistico.
Ma v’è di più, perché il provvedimento di annullamento,
decretato dall’autorità tutoria statale, s’è basato anche
sulla circostanza che la tipologia dell’abuso in questione
non rientrava tra quelle ammesse ai sensi dell’all. 1 al
D.L. 30.09.2003 n. 269 (“Disposizioni urgenti per
favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei
conti pubblici”), convertito in legge, con
modificazioni, dall’art. 1, L. 24.11.2003, n. 326; e che
soprattutto il Comune, nell’autorizzazione paesaggistica,
non aveva “giustificato l’ammissibilità dell’istanza”
ai sensi dell’art. 32, comma 26, lett. a) del citato decreto
legge (“Sono suscettibili di sanatoria edilizia le
tipologie di illecito di cui all’allegato 1: a) numeri da 1
a 3, nell’ambito dell’intero territorio nazionale, fermo
restando quanto previsto alla lettera e) del comma 27 del
presente articolo, nonché 4, 5 e 6 nell’ambito degli
immobili soggetti a vincolo di cui all’articolo 32 della
legge 28.02.1985, n. 47”).
Il rilievo della Soprintendenza, in sostanza, si lega
all’affermazione secondo la quale: “A mente dell’art. 32,
comma 26, d.l. n. 269 del 2003, nelle aree sottoposte a
vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a
tutela degli interessi idrogeologici, ambientali e
paesistici è possibile ottenere la sanatoria soltanto ed
esclusivamente per gli interventi edilizi di minore
rilevanza (restauro, risanamento conservativo e manutenzione
straordinaria), previo parere favorevole da parte
dell’autorità preposta alla tutela del vincolo”
(Tribunale Bari sez. I, 17.11.2010, n. 1736).
Ma di tale rilievo, che pure assume valenza centrale nella
motivazione del gravato provvedimento di annullamento del
nulla osta paesaggistico, non si ritrova, in ricorso, alcuna
confutazione: anche sotto tale profilo, pertanto, risulta
confermata la legittimità del medesimo, non scalfita dalle
doglianze di parte ricorrente.
In giurisprudenza, cfr. la seguente massima: “Allorché un
provvedimento si fondi su due o più autonome ragioni, la
riconosciuta legittimità o la mancata contestazione di uno
dei motivi addotti è sufficiente per la conservazione
dell’atto nel mondo giuridico. Da ciò ne consegue, sul piano
processuale, che di un tale provvedimento si può disporre
l’annullamento unicamente dinanzi ad una fondata censura (o
ad una serie di fondate censure) di tutti i suddetti motivi
e che devono dichiararsi inammissibili per carenza di
interesse le doglianze rivolte solo avverso alcune ragioni
fondanti del provvedimento, ove le rimanenti ragioni restino
inattaccate” (Consiglio Stato – Sez. IV – 11.02.2005, n.
400)
(TAR Campania-Salerno,
sentenza 17.09.2012 n. 1650 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: ●
In tema di condono edilizio il
vincolo di inedificabilità in zona di rispetto stradale è
considerato un vincolo di inedificabilità assoluta e, di
conseguenza, allorché l’abuso edilizio sia stato compiuto
dopo la sua imposizione, non si applica l’art. 32, comma 2,
lett. c), l. 28.02.1985 n. 47 ma, in base al comma 3, il
successivo art. 33 con conseguente insanabilità dell’abuso,
a nulla rilevando la non pericolosità della porzione di
manufatto per la sicurezza del traffico.
● Il vincolo d’inedificabilità sulle zone di rispetto
stradale, imposto dall’art. 33 l. 28.02.1985 n. 47 ha
carattere assoluto e pertanto –a differenza del vincolo di
cui all’art. 32, d’inedificabilità relativa, che può essere
rimosso a discrezione dell’autorità preposta alla cura
dell’interesse tutelato– contiene un divieto di edificazione
a carattere assoluto, che comporta la non sanabilità
dell’opera realizzata dopo la sua imposizione, trattandosi
di vincolo per sua natura incompatibile con ogni manufatto.
● Nell’ipotesi di sanatoria di un’opera edilizia realizzata
abusivamente in prossimità della sede viaria di una strada,
la valutazione della pericolosità o meno dell’opera spetta
all’Anas, ora Ente Nazionale per le Strade, che deve
esprimerlo non tanto in funzione del fatto oggettivo della
distanza, quanto piuttosto della circostanza che la
costruzione costituisca minaccia alla sicurezza del
traffico. Tuttavia, i vincoli urbanistici sulle distanze
minime a protezione del nastro stradale ex art. 33 l. n. 47
del 1985 comportano un divieto assoluto di edificazione, non
rimuovibile a discrezione dell’autorità preposta alla cura
dell’interesse tutelato, e come tale incompatibile con ogni
manufatto, con conseguente non sanabilità dell’opera abusiva
realizzata in sua violazione.
Entrambi i provvedimenti impugnati si sono fondati sui
pareri negativi, espressi dall’A.N.A.S., secondo i quali
gli abusi edilizi, oggetto delle domande di condono di parte
ricorrente, erano “stati realizzati in zona di rispetto
stradale e in data successiva al D.M. 01.04.1968”
(parere del 27.04.1995) e “in area già sottoposta a
vincolo di in edificabilità” (parere del 09.08.1995); di
conseguenza, il Comune ha respinto tali domande, atteso che,
ai sensi dell’art. 32 della l. 47/1985, il rilascio della
sanatoria era necessariamente subordinato al parere
favorevole dell’Amministrazione preposta alla tutela del
vincolo, che nella specie –giusta quanto sopra osservato–
invece mancava, rientrando quindi le opere in questione in
quelle “non suscettibili di sanatoria”, ai sensi
dell’art. 33 della l. 47/1985.
La soluzione adottata dal Comune di Campagna è conforme alla
dominante giurisprudenza in materia, per la quale si
leggano, ex multis, le seguenti massime:
- “In tema di condono edilizio il vincolo di
inedificabilità in zona di rispetto stradale è considerato
un vincolo di inedificabilità assoluta e, di conseguenza,
allorché l’abuso edilizio sia stato compiuto dopo la sua
imposizione, non si applica l’art. 32, comma 2, lett. c), l.
28.02.1985 n. 47 ma, in base al comma 3, il successivo art.
33 con conseguente insanabilità dell’abuso, a nulla
rilevando la non pericolosità della porzione di manufatto
per la sicurezza del traffico” (TAR Lazio–Latina – Sez.
I – 17.11.2011, n. 923);
- “Il vincolo d’inedificabilità sulle zone di rispetto
stradale, imposto dall’art. 33 l. 28.02.1985 n. 47 ha
carattere assoluto e pertanto –a differenza del vincolo di
cui all’art. 32, d’inedificabilità relativa, che può essere
rimosso a discrezione dell’autorità preposta alla cura
dell’interesse tutelato– contiene un divieto di edificazione
a carattere assoluto, che comporta la non sanabilità
dell’opera realizzata dopo la sua imposizione, trattandosi
di vincolo per sua natura incompatibile con ogni manufatto”
(Consiglio Stato – Sez. IV – 05.07.2000, n. 3731);
- “Nell’ipotesi di sanatoria di un’opera edilizia
realizzata abusivamente in prossimità della sede viaria di
una strada, la valutazione della pericolosità o meno
dell’opera spetta all’Anas, ora Ente Nazionale per le
Strade, che deve esprimerlo non tanto in funzione del fatto
oggettivo della distanza, quanto piuttosto della circostanza
che la costruzione costituisca minaccia alla sicurezza del
traffico. Tuttavia, i vincoli urbanistici sulle distanze
minime a protezione del nastro stradale ex art. 33 l. n. 47
del 1985 comportano un divieto assoluto di edificazione, non
rimuovibile a discrezione dell’autorità preposta alla cura
dell’interesse tutelato, e come tale incompatibile con ogni
manufatto, con conseguente non sanabilità dell’opera abusiva
realizzata in sua violazione” (TAR Valle d’Aosta –
14.04.2003, n. 53).
In presenza di tale granitico orientamento
giurisprudenziale, non ha senso alcuno discettare –come fa
il ricorrente– dell’ubicazione delle opere edilizie abusive
in zona extraurbana ampiamente urbanizzata e quindi della
possibile assimilazione della disciplina giuridica dettata
per la stessa a quella, stabilita per le opere ricomprese
all’interno del centro urbano, non incidendo minimamente
tali osservazioni su quella fondamentale della preesistenza
del vincolo di rispetto stradale e quindi dell’assoluta
impossibilità di concedere la sanatoria, per le ragioni
dianzi esposte
(TAR Campania-Salerno,
sentenza 17.09.2012 n. 1645 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: Circa
la competenza ad adottare l'ordinanza di bonifica di un sito
inquinato, il Collegio ritiene infatti d’aderire
all’orientamento maggioritario, espresso, “ex multis”, nelle
seguenti massime:
- “Sebbene l’art. 107 d.lgs. n. 267/2000 attribuisca
l’attività di gestione ai dirigenti, compete al sindaco
l’emanazione dell’ordinanza di rimozione, recupero e
smaltimento dei rifiuti e di ripristino dello stato dei
luoghi, in virtù del carattere di specialità riconosciuto
all’art. 192 d. lg. n. 152/2006, da cui la stessa è
disciplinata”;
- “L’art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, norma
speciale sopravvenuta rispetto all’art. 107, comma 5, d.lgs.
n. 267 del 2000, attribuisce espressamente al sindaco la
competenza a disporre, con ordinanza, le operazioni
necessarie alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti
previste dal comma 2: tale previsione, sulla base degli
ordinari criteri preposti alla soluzione delle antinomie
normative (criterio specialistico e criterio cronologico),
prevale sul disposto dell’art. 107, comma 5, d.lgs. n. 267
del 2000, cit. (nella specie, la riscontrata incompetenza
dirigenziale ha implicato in prima istanza l’annullamento
dell’atto e la remissione del potere di provvedere al
sindaco del comune interessato)”;
- “Spetta al sindaco, ai sensi dell’art. 192, comma 3,
d.lgs. 03.04.2006 n. 152, norma speciale sopravvenuta
rispetto all’art. 107, comma 5, d.lgs. 18.08.2000 n. 267, la
competenza a disporre con ordinanza le operazioni necessarie
per la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti abbandonati”.
... per l’annullamento dell’ordinanza dirigenziale (di
bonifica di sito inquinato) n. 29 del 07.03.2008, emanata dal
Responsabile U.T.C. del Comune di Serre;
...
Carattere dirimente, con assorbimento d’ogni altra censura,
riveste l’eccezione d’incompetenza del Responsabile dell’U.T.C. all’adozione dell’ordinanza impugnata.
Ciò, peraltro, non perché nella specie ci si trovi di fronte
ad un’ordinanza contingibile ed urgente, ma perché è lo
stesso art. 192, comma 3, del d. l.vo 152/2006 (norma,
espressamente richiamata nel testo del provvedimento
gravato) ad attribuire detta competenza al sindaco: “Fatta
salva l’applicazione della sanzioni di cui agli articoli 255
e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è
tenuto a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o
allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato
dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di
diritti reali o personali di godimento sull’area, ai quali
tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in
base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i
soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il
Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine
necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il
quale procede all’esecuzione in danno dei soggetti obbligati
ed al recupero delle somme anticipate”.
Pur registrandosi, in giurisprudenza, anche alcune pronunce
di segno opposto, il Collegio ritiene infatti d’aderire
all’orientamento maggioritario, espresso, “ex multis”,
nelle seguenti massime:
- “Sebbene l’art. 107 d.lgs. n. 267/2000 attribuisca
l’attività di gestione ai dirigenti, compete al sindaco
l’emanazione dell’ordinanza di rimozione, recupero e
smaltimento dei rifiuti e di ripristino dello stato dei
luoghi, in virtù del carattere di specialità riconosciuto
all’art. 192 d. lg. n. 152/2006, da cui la stessa è
disciplinata” (TAR Lombardia–Brescia – Sez. I,
09.06.2011, n. 867);
- “L’art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, norma
speciale sopravvenuta rispetto all’art. 107, comma 5, d.lgs.
n. 267 del 2000, attribuisce espressamente al sindaco la
competenza a disporre, con ordinanza, le operazioni
necessarie alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti
previste dal comma 2: tale previsione, sulla base degli
ordinari criteri preposti alla soluzione delle antinomie
normative (criterio specialistico e criterio cronologico),
prevale sul disposto dell’art. 107, comma 5, d.lgs. n. 267
del 2000, cit. (nella specie, la riscontrata incompetenza
dirigenziale ha implicato in prima istanza l’annullamento
dell’atto e la remissione del potere di provvedere al
sindaco del comune interessato)” (TAR Emilia
Romagna–Bologna – Sez. II, 26.01.2011, n. 61);
- “Spetta al sindaco, ai sensi dell’art. 192, comma 3,
d.lgs. 03.04.2006 n. 152, norma speciale sopravvenuta
rispetto all’art. 107, comma 5, d.lgs. 18.08.2000 n. 267, la
competenza a disporre con ordinanza le operazioni necessarie
per la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti abbandonati”
(Consiglio Stato – Sez. V, 25.08.2008, n. 4061).
La soluzione in rito prescelta –non fondandosi sulla natura
di provvedimento contingibile ed urgente dell’ordinanza
impugnata, bensì sullo stesso testo dell’art. 192 d. l.vo
152/2006, inibisce l’esame dell’eccezione subordinata
d’inammissibilità, sollevata dalla difesa del Comune di
Serre (che aveva rilevato come –trattandosi allora di atto
emanato dal sindaco quale ufficiale del governo, sarebbe
mancata la notifica del ricorso all’Avvocatura dello Stato);
la stessa soluzione destituisce altresì di ogni pregio,
stante la riferita esistenza di contrasti giurisprudenziali
al riguardo, l’esame della domanda risarcitoria, proposta
dai ricorrenti; per le stesse ragioni, il Collegio ritiene
equo disporre la compensazione integrale, tra le parti,
delle spese di giudizio
(TAR Campania-Salerno,
sentenza 17.09.2012 n. 1644 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Beni ambientali. Imposizione vincolo indiretto ex art. 49
del D.Lgs. n. 490 del 1999.
E’ legittimo il decreto di vincolo adottato ex art. 49 del
D.Lgs. n. 490 del 1999 dall’amministrazione al fine di
tutelare, come chiaramente indicato nella Relazione
tecnico-scientifica redatta dalla Soprintendenza, mediante
prescrizioni limitative di nuove costruzioni e di mutamenti
di destinazione d’uso dei terreni, un’area contigua ad un
corso d’acqua di rilevante valore paesaggistico, nonché di
consentire al meglio la visione di due edifici di
particolare interesse paesaggistico-ambientale.
Secondo
l’oramai pacifico orientamento della giurisprudenza
amministrativa, l’imposizione del vincolo indiretto
disciplinato dall’art. 49 del D.Lgs. n. 490 del 1999 (e in
precedenza dall’art. 21 della L. n. 1089 del 1939)
costituisce espressione della discrezionalità tecnica della
amministrazione, sindacabile innanzi al giudice
amministrativo solo quando la motivazione risulti inadeguata
o presenti manifeste incongruenze o illogicità (TAR
Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 12.09.2012 n. 552 - tratto da
www.lexambiente.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 04.10.2012 |
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Per migliaia di bambini in Niger morire di
malnutrizione è solo questione di tempo !!
Affrettati e
telefona subito, immediatamente, ora al numero |
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bella piena ogni giorno ... loro no !! |
L'INDIFFERENZA UCCIDE PIU' DELLA FAME |
04.10.2012 - LA
SEGRETERIA PTPL |
CORTE DEI
CONTI |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Sentenze
in giudicato inviate al presidente di Corte conti.
Le sentenze passate in giudicato che accolgono il ricorso
proposto avverso il silenzio dell'amministrazione devono
essere trasmesse telematicamente al presidente della Corte
dei conti. Sarà l'organo di vertice dell'Istituto,
successivamente, a inoltrare tali atti all'ufficio o agli
uffici competenti, in relazione alle fattispecie oggetto
delle predette sentenze.
È quanto deciso dalle Sezioni
Riunite della Corte dei conti nella
deliberazione
26.09.2012 n.
21, che fa luce sulla disposizione normativa
contenuta all'art. 1, comma 1 del dl semplificazioni
(5/2012). Il legislatore ha previsto che le sentenze dei Tar
passate in giudicato che accolgono il ricorso proposto
avverso il silenzio inadempimento dell'amministrazione,
siano trasmesse alla Corte dei conti, prevedendo, altresì,
che la mancata o tardiva emanazione del provvedimento
costituisca elemento di valutazione della performance
individuale, nonché di responsabilità disciplinare e
amministrativo-contabile dei dirigenti o funzionari
inadempienti.
In assenza di indicazioni da parte del legislatore circa
l'ufficio della Corte destinatario di tali atti, la
magistratura amministrativa ha investito della questione la
Corte. Secondo cui, vertendo su un tema di silenzio
inadempimento che potrebbe generare danno erariale,
l'espresso richiamo operato dal legislatore sulla
performance individuale e sull'eventualità di generare un
danno erariale, «indurrebbe» a ritenere che la
prevista trasmissione sia «funzionale» a rendere
effettiva la prevista responsabilità
amministrativo-contabile. Con la conseguenza che
destinatario della trasmissione telematica delle sentenze in
oggetto potrebbero essere le Procure regionali competenti
per territorio.
Potrebbe verificarsi che in alcuni casi l'inadempimento
potrebbe trovare la sua ragione non in comportamenti
negligenti di funzionari o dirigenti pubblici, ma in
inefficienze amministrative o disservizi. Motivo per cui,
oltre alla Procura, si potrebbe investire della vicenda
anche la Sezione centrale di controllo sulla gestione delle
Amministrazioni dello Stato o la Sezione centrale di
controllo sugli enti, in base alla tipologia di
amministrazione coinvolta nella sentenza.
Il documento ritiene «condivisibile» prevedere che
l'inoltro delle sentenze definitive di accoglimento dei
ricorsi avverso il silenzio inadempimento delle p.a. sia
eseguito nei confronti del Presidente della Corte conti che,
in seguito, ne disporrà l'invio agli uffici competenti in
relazione alla fattispecie oggetto della sentenza
(articolo ItaliaOggi del 02.10.2012
- link a www.corteconti.it). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Riforma del lavoro. La deroga.
Supplenti comunali esclusi dai vincoli sui contratti a
termine.
IL PARERE/
La Funzione pubblica precisa che il concorso consente di
azzerare il calcolo dei 36 mesi per gli incarichi a tempo.
I supplenti comunali sono «salvi» dai vincoli sui contratti
a termine previsti dalla riforma del lavoro (legge 92/2012).
Va in questa direzione il
parere
19.09.2012 n. 37561 di prot. del dipartimento della
Funzione pubblica.
Con l'inizio
del nuovo anno scolastico, è emersa l'esigenza di ricorrere
al personale a tempo determinato per far fronte a temporanee
scoperture d'organico, o ad assenze dal servizio. Gli enti
hanno pensato di ricorrere agli insegnanti che avevano già
prestato servizio l'anno scolastico scorso. Riforma del
lavoro alla mano, qualche solerte funzionario ha bloccato le
assunzioni perché non era trascorso sufficiente tempo fra la
cessazione dell'anno scolastico e il nuovo incarico.
La
legge 92/2012 (articolo 1, comma 9, lettera g), modificando
l'articolo 5, comma 3, del Dlgs 368/2001, stabilisce infatti
che il rinnovo del contratto a termine con lo stesso
lavoratore non può avvenire entro 60 giorni dalla scadenza
se il primo contratto ha durata fino a sei mesi, ed entro 90
giorni in caso di durate superiori, pena la trasformazione
del contratto a tempo indeterminato. Per la Pa, stante il
divieto previsto dall'articolo 36, comma 5, del Dlgs
165/2001, si tramuta nel risarcimento del danno.
Solitamente
gli incarichi annuali terminano al 30 giugno, spesso anche
il 31 luglio, e i nuovi contratti decorrono il 1° settembre:
impossibile, quindi, rispettare la durata minima
dell'interruzione. L'Anci ha rivolto un quesito,
evidenziando che è già prevista un'eccezione
nell'applicazione del Dlgs 368/2001. L'articolo 10, comma
4-bis, come aggiunto dal comma 18 dell'articolo 9 del Dl
70/2011, prevede, infatti, che il decreto legislativo non si
applichi al conferimento di incarichi ai supplenti del
personale docente e Ata, indipendentemente dal fatto che
questi sostituiscano personale a tempo determinato o
indeterminato.
La risposta della Funzione pubblica abbraccia
la tesi dell'Anci, sottolineando che il legislatore ha, da
sempre, riservato attenzione al settore educativo e
scolastico. La necessità di garantire la continuità
didattica, come attuazione del diritto allo studio previsto
dalla Costituzione, rende inapplicabili le norme che
limitano «la costante erogazione del servizio scolastico ed
educativo indiscriminatamente per tutte le istituzioni
pubbliche che sono chiamate a svolgere tali servizi». Sorge
il dubbio, allora, che al personale scolastico degli enti
locali non si applichi in toto il Dlgs 368/2001.
Dopo aver richiamato la necessità del concorso pubblico per
conferire incarichi a termine, la Funzione pubblica
chiarisce anche che il concorso consente di azzerare il
contatore dei 36 mesi, come durata massima prevista dal Dlgs
368/2001 per i contratti a tempo determinato con lo stesso
soggetto, e di superare la barriera della durata minima
dell'interruzione fra un rapporto e l'altro (articolo Il
Sole 24 Ore dell'01.10.2012). |
QUESITI &
PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Silenzio inadempimento.
Domanda
Si chiede se una risposta interlocutoria del ministero
dell'ambiente in ordine alla richiesta di adottare le misure
di precauzione, di prevenzione o di ripristino, in tema di
danno ambientale, possa essere intesa quale silenzio
inadempimento.
Risposta
Il Tribunale amministrativo regionale della Campania (Tar),
Sezione I, con la sentenza dell'08.02.2012, numero 676,
ha evidenziato che la tutela offerta dall'articolo 309,
comma 3, del Decreto legislativo 03.04.2006, numero 152,
prevede che il ministro dell'Ambiente, in tema di
precauzione, di prevenzione o di ripristino della situazione
ambientale compromessa, da inquinamento, deve valutare le
richieste di intervento e la loro documentazione in ordine a
casi di danno o di minaccia di danno ambientale e deve
informare senza ulteriori indugi i soggetti richiedenti in
ordine ai provvedimenti assunti al riguardo.
La fattispecie esaminata dai giudici amministrativi campani
riguarda la cosiddetta cava Sari, meglio nota come discarica
di Terzigno.
Nel caso, una cittadina e una associazione ambientalista
avevano diffidato il Ministero dell'ambiente ad avviare un
procedimento amministrativo al fine di adottare le misure di
precauzione, di prevenzione o di ripristino, previste dal
succitato decreto legislativo 03.04.2006, numero 152,
parte sesta. Il Ministero dell'ambiente era stato invitato a
provvedere all'adozione di misure di precauzione, di
prevenzione o di ripristino, previste dal suddetto decreto
legislativo, e di ordinare ai responsabili l'immediata
cessazione delle condotte dannose, anche a mezzo della
sospensione cautelativa della gestione e la messa in
sicurezza della discarica che insiste nella suddetta cava
Sari. Chiedevano, pure, l'irrogazione delle sanzioni di
legge.
Il citato Tribunale amministrativo regionale della Campania
(Tar), Sezione I, con la suddetta sentenza, alla luce ed in
conformità a quanto previsto dall'articolo 12 della
Direttiva comunitaria del 21.04.2004, numero 2004/35/Ce
del Parlamento europeo e del Consiglio, che, in ordine di
responsabilità ambientale in materia di prevenzione e di
riparazione del danno ambientale, prevede che: «Quanto
prima, e comunque conformemente alle pertinenti disposizioni
della legislazione nazionale, l'Autorità competente in forma
le persone... che hanno presentato osservazioni
all'autorità, della sua decisione di accogliere o rifiutare
la richiesta di azione e indica i motivi della decisione»,
il Tribunale amministrativo regionale della Campania, si
diceva, con la predetta sentenza ha sottolineato che il
mancato riscontro della denunzia di danno ambientale da
parte del Ministero dell'Ambiente e la sua risposta
dilatoria, hanno dato luogo al cosiddetto silenzio
inadempimento, avverso il quale è possibile ricorrere ai
sensi dell'articolo 310, del più volte citato decreto
legislativo 03.04.2006, numero 152.
E tale azione deve essere prima esperita da qualsiasi
soggetto che, in materia, intende ricorrere alla Corte
europea dei diritti dell'uomo (articolo
ItaliaOggi Sette dell'01.10.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - URBANISTICA: Ampliamento area protetta.
Domanda
Per ampliare un'area protetta destinata a riserva naturale è
sufficiente l'intervento normativo della Regione competente?
Risposta
La legge quadro sulle aree protette (legge del 06.12.1991, numero 394) prevede che, ai fini di istituire una
riserva naturale, la sua perimetrazione e i conseguenti
obiettivi, si deve seguire un iter procedimentale, del quale
è elemento qualificante la consultazione degli enti locali,
quali le province, i comuni, le comunità montane. Poi, del
provvedimento adottato, deve essere data adeguata
pubblicità.
L'articolo 22, comma 1, lettere a) e b), della legge del 06.12.1991, numero 394, regolamenta la partecipazione
delle province, delle comunità montane e dei comuni al
procedimento di istituzione dell'area protetta e prevede che
detta partecipazione debba realizzarsi attraverso conferenze
per la redazione di un documento di indirizzo relativo
all'analisi territoriale dell'area da destinare a
protezione, alla perimetrazione provvisoria,
all'individuazione degli obiettivi da perseguire, alla
valutazione degli effetti dell'istituzione dell'area
protetta sul territorio.
La Corte costituzionale, con la sentenza del 26.01.2012, numero 14, ha dichiarato costituzionalmente
illegittimo l'articolo 1 della legge della regione Abruzzo,
del 22.12.2010, numero 60, che aveva disposto
direttamente l'ampliamento dell'estensione di un'area
protetta. Per la Consulta, nella fattispecie, viene violato
il principio di partecipazione degli enti locali, sancito
dal citato articolo 22, comma 1, lettere a) e b), della
legge–quadro del 06.12.1991, numero 394. Infatti, il
momento partecipativo, per la Corte costituzionale, non
costituisce un mero adempimento formale, ma è un passaggio
determinato dell'iter procedimentale, atteso che la tutela
dell'ambiente investe e coinvolge una pluralità di aspetti
che assumono valenza di tipo naturalistico, economico,
sociale e culturale. A tal fine, è necessario assicurare il
coinvolgimento di tutti i soggetti interessati, specie gli
enti locali, conoscitori delle esigenze del territorio di
riferimento quali enti esponenziali degli interessi delle
comunità di appartenenza.
Peraltro, la stessa Corte costituzionale, con la sentenza
numero 282, del 2000, aveva affermato che la partecipazione
al procedimento di istituzione di aree protette regionali
dei singoli enti locali, il cui territorio è destinato a far
parte dell'istituenda area protetta, richiesta dall'articolo
22, succitato, non può ritenersi garantita dalla previsione,
a opera della legge regionale, di un comitato consultivo
regionale per le aree naturali protette che non prevede la
partecipazione dei singoli enti locali interessati in
concreto, né è composto stabilmente da rappresentanti dei
comuni.
In materia, si rimanda, pure, alla sentenza numero 315, del
2010, della Corte costituzionale (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.10.2012). |
APPALTI: ANCI RISPONDE/ Interesse qualificato per accedere agli
atti.
L'aver raggiunto la seconda posizione in una graduatoria di
gara non giustifica l'accesso generalizzato agli atti: è
quanto afferma il Consiglio di Stato nella pronuncia
3398/2012.
La richiesta di accesso, puntualizzano i giudici di Palazzo
Spada, non può mai configurarsi come una forma di controllo
preventivo e generalizzato dell'intera attività
amministrativa, ma deve essere correlata a uno specifico
interesse anche non funzionalmente connesso a una immediata
tutela in via giudiziale, purché concreto e attuale. Nella
vicenda in commento, l'interesse fatto valere a fondamento
della richiesta d'accesso, secondo gli stessi giudici, non
si è rivelato concreto, in quanto non è stata precisata la
natura dello stesso: «La circostanza di essere il secondo
graduato nella procedura di gara per l'affidamento del
contratto, non giustifica certo una richiesta generalizzata
di accesso di tutti gli atti attinenti alla fase esecutiva».
La posizione legittimante l'accesso, in conclusione, è
costituita da una situazione giuridicamente rilevante e dal
collegamento qualificato tra questa posizione sostanziale e
la documentazione di cui si pretende la conoscenza (articolo Il Sole 24
Ore dell'01.10.2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: ANCI RISPONDE/ Segrete le risposte alla Corte dei conti.
La Procura della Corte dei Conti regionale ha inviato una
nota personale al segretario comunale con la quale chiede
informazioni specifiche sui consiglieri comunali. Sia la
richiesta della Corte dei Conti che la risposta del
segretario comunale sono state inviate nel protocollo
riservato dell'ente. Alcuni consiglieri hanno richiesto
copia di questi atti. È possibile concedere l'accesso?
No. La nota riservata inviata dalla Procura della Corte dei
Conti non sembra costituire una fase di un procedimento
amministrativo, bensì giudiziario, e quindi la materia è
sottratta all'applicazione della legge n. 241/1990. Se non è
ravvisabile il nesso tra il documento di cui si chiede
l'accesso e l'esercizio del mandato, poiché il procedimento
in questione attiene alla fase istruttoria di un
procedimento di giurisdizione contabile avviato dal Pm
presso la Corte dei Conti, non si ritiene accoglibile la
richiesta del consigliere.
L'amministrazione può comunque disporre il differimento
dell'accesso fino alla conclusione del procedimento
istruttorio da parte del Pm, a termini dell'articolo 25
della legge n. 241/1990 (articolo Il Sole 24
Ore dell'01.10.2012). |
APPALTI: ANCI RISPONDE/ Nelle gare si può comunicare il nome del
vecchio appaltatore.
In occasione della pubblicazione di un bando di gara per
l'affidamento di un servizio è legittimo comunicare alle
imprese che ne facciano richiesta il nome del precedente
appaltatore e il prezzo di aggiudicazione? Il bando già
prevede un prezzo a base d'asta.
Sì. Si tenga conto che all'esito della precedente gara di
appalto è stato pubblicato l' avviso di post-aggiudicazione,
per cui non può ritenersi segreto né il nome del precedente
appaltatore, né il prezzo della precedente aggiudicazione.
Il rischio di collusione e cartello tra imprese c'è sempre
ma non sembra che questo possa crescere in presenza della
conoscenza del prezzo del precedente appalto, anche perché
c'è la base d'asta del nuovo appalto che è comunque il punto
di riferimento della nuova aggiudicazione. Si consiglia
comunque di chiedere alla ditta che ha effettuato la
richiesta di formalizzarla per iscritto, e di precisare qual
è l'interesse sotteso (articolo Il Sole 24
Ore dell'01.10.2012). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: ANCI RISPONDE/
Ai consiglieri dati sui mandati ma
il segreto va rispettato.
Alcuni consiglieri
comunali hanno chiesto la password per accedere al programma
di contabilità per visionare i mandati emessi tra i quali
sono presenti anche i dati relativi ai beneficiari delle
leggi di settore del sociale. Come si concilia il diritto di
ottenere informazioni utili all'espletamento del mandato con
il diritto di privacy del malato?
L'articolo 43, comma 2, del Testo unico enti locali deve
essere coordinato con le altre norme che tutelano la
segretezza della corrispondenza e delle conversazioni e con
la speciale disciplina che attiene agli atti anagrafici,
allo stato civile, alle liste elettorali. Resta ovviamente
ferma la necessità che i dati siano utilizzati
effettivamente per le sole finalità pertinenti al mandato,
rispettando il segreto.
Ad esempio, si potrà dire che Tizio
fruisce di una determinata prestazione sociale in quanto il
medesimo risulta essere in possesso dei requisiti di
ammissibilità previsti dalla legge o dai regolamenti (articolo Il Sole 24
Ore dell'01.10.2012). |
NEWS |
ENTI LOCALI: Pareggio
di bilancio per gli enti locali.
Il vincolo previsto dalla legge di attuazione della riforma
costituzionale in arrivo al Senato.
COSTI DELLA POLITICA/
Per i consigli regionali che non riducono nei tempi previsti
il numero dei componenti possibile lo scoglimento anticipato.
Enti locali e Regioni tra incudine (Governo) e martello
(Parlamento). Mentre l'Esecutivo Monti si appresta a varare
il decreto sui costi della politica, le Camere stanno
ultimando la messa a punto del Ddl per l'attuazione del
pareggio di bilancio in Costituzione.
Nel testo –su cui
prosegue il confronto tra i tecnici di Palazzo Madama,
Montecitorio e Via XX settembre per definire il disegno di
legge da presentare al Senato– il Titolo IV è espressamente
dedicato all'equilibrio di bilanci delle Regioni e degli
enti locali, nonché al loro concorso alla sostenibilità del
debito pubblico. I loro bilanci faranno, dunque, parte con
quello dello Stato centrale di un «bilancio consolidato
nazionale», che dovrà centrare «gli obiettivi di finanza
pubblica».
Questo implica non solo i controlli ex post sulla
legittimità delle spese, da parte della Corte dei Conti, ma
anche ex ante. Il monitoraggio sui conti pubblici al fine di
blindare il pareggio di bilancio sarà affidato a un
organismo indipendente. Per assicurare l'equilibrio
finanziario l'articolo 10 prevede che, sia nella fase di
previsione che in quella di rendiconto, i bilanci registrino
un saldo non negativo in termini di cassa e di competenza
tra entrate finali e spese finali, nonché un saldo non
negativo (anche qui sia per cassa che per competenza) tra le
entrate correnti e le spese correnti, incluse le quote di
capitale delle rate di ammortamento dei prestiti.
Paletti più rigidi con l'articolo 11 anche sul ricorso
all'indebitamento da parte di Comuni, Province, Città
Metropolitane e Regioni. Il ricorso al debito potrà avvenire
solo con la contestuale adozione di uno specifico piano di
ammortamento di durata non superiore alla vita
del'investimento. Inoltre le operazioni di indebitamento
potranno essere effettuate solo sulla base di apposite
intese concluse in ambito regionale e dovranno garantire per
l'anno di riferimento l'equilibrio della gestione di cassa
finale del complesso degli enti della Regione interessata.
Oltre all'obbligo dell'equilibrio dei conti le Pa locali
saranno chiamati a contribuire alla «sostenibilità del
debito del complesso delle pubbliche amministrazioni». E
nelle fasi favorevoli del ciclo economico dovranno
partecipare al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato.
Dal canto suo il Governo sta chiudendo sui tagli dei costi
della politica da introdurre nel Dl che potrebbe varare già
domani. Il punto di partenza è la piena operatività delle
disposizioni sul taglio delle poltrone già previste nella
manovra estiva di Berlusconi (Dl 138/2001) attraverso una
nuova tempistica e specifiche sanzioni per chi non si
adegua. Sanzioni che potrebbero essere pecuniarie con un
taglio ai trasferimenti oppure ordinamentali come lo
scioglimento del consiglio o l'esclusione dal circolo dei
"virtuosi".
Sul fronte dei controlli, che per i Comuni saranno
rafforzati per scongiurare i dissesti finanziari e per i
quali verrà costituito un apposito Fondo anti-crisi,
verranno ampliati i poteri dei giudici contabili, che per le
Regioni si concentreranno soprattutto proprio sui costi
della politica.
Sullo sfondo infine, una nuova riforma del Titolo V della
Costituzione. Il ministro Filippo Patroni Griffi lo ha già
annunciato: il federalismo va rivisto e l'Esecutivo entro
qualche settimana metterà a punto un Ddl costituzionale per
rivedere l'intero assetto dei poteri delle Regioni
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.10.2012
- link a www.corteconti.it). |
CONDOMINIO:
LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ La riforma approvata alla Camera.
Basta la maggioranza per sorvegliare le parti comuni. Video,
riscaldamento, animali. Nuove regole per il condominio.
Via libera a maggioranza alla videosorveglianza
condominiale. La ripresa di spazi e aree comuni raggiunge
così certezza normativa, all'interno di una grande
confusione giurisprudenziale.
È una delle novità introdotte dalla riforma del condominio
approvata alla camera venerdì scorso in seconda lettura e
ora al senato per l'ormai sicuro sì definitivo (si veda
ItaliaOggi del 28 settembre). Ma vediamo le principali
novità.
La videosorveglianza. L'installazione di sistemi di
videosorveglianza viene sovente effettuata da persone
fisiche per fini esclusivamente personali. In tali ipotesi
possono rientrare, a titolo esemplificativo, strumenti di
videosorveglianza idonei a identificare coloro che si
accingono a entrare in luoghi privati (videocitofoni ovvero
altre apparecchiature che rilevano immagini o suoni, anche
tramite registrazione), oltre a sistemi di ripresa
installati nei pressi di immobili privati e all'interno di
condomini e loro pertinenze (quali posti auto e box). In tal
caso la disciplina del Codice non trova applicazione qualora
i dati non siano comunicati sistematicamente a terzi ovvero
diffusi.
Si ricorda però che, seppure non trovi applicazione
la disciplina del Codice, al fine di evitare di incorrere
nel reato di interferenze illecite nella vita privata,
l'angolo visuale delle riprese deve essere comunque limitato
ai soli spazi di propria esclusiva pertinenza (ad esempio
antistanti l'accesso alla propria abitazione) escludendo
ogni forma di ripresa, anche senza registrazione di
immagini, relativa ad aree comuni (cortili, pianerottoli,
scale, garage comuni) ovvero ad ambiti antistanti
l'abitazione di altri condomini.
Per le aree condominiali, invece, nel provvedimento dell'8
aprile 2010 sulla videosorveglianza il garante ha appurato
una lacuna normativa. In quella sede per i trattamenti
effettuati dal condominio (anche per il tramite della
relativa amministrazione), il garante ha evidenziato
l'assenza di una puntuale disciplina che permettesse di
risolvere alcuni problemi applicativi evidenziati
nell'esperienza di questi ultimi anni. Il garante
evidenziava, infatti, che non era chiaro se l'installazione
di sistemi di videosorveglianza possa essere effettuata in
base alla sola volontà dei comproprietari, o se rilevi anche
la qualità di conduttori; ancora non era chiaro quale fosse
il numero di voti necessario per la deliberazione
condominiale in materia (se occorra cioè l'unanimità oppure
una determinata maggioranza).
La legge di riforma del condominio affronta direttamente la
questione e stabilisce che le deliberazioni concernenti
l'installazione sulle parti comuni dell'edificio di impianti
volti a consentire la videosorveglianza su di esse sono
approvate dall'assemblea con la maggioranza di cui al
secondo comma dell'articolo 1136 del codice civile.
Vediamo dunque cosa prevede l'articolo 1136 del codice
civile, che è stato modificato. In prima convocazione per
l'approvazione di una delibera ci vuole il quorum di 2/3 del
valore e maggioranza per teste, e voto favorevole della
maggioranza degli intervenuti e almeno metà del valore
dell'edificio. In seconda convocazione basta, invece, la
maggioranza degli intervenuti con un numero di voti che
rappresenti almeno un terzo del valore dell'edificio.
Una volta rispettate queste maggioranze si può passare a
installare le telecamere. Ma senza dimenticare che si devono
osservare le precauzioni previste dal provvedimento generale
del garante della privacy.
In particolare si devono osservare le seguenti cautele.
Informativa. Le persone che transitano nelle aree
sorvegliate devono essere informati con cartelli della
presenza delle telecamere, i cartelli devono essere resi
visibili anche quando il sistema di videosorveglianza è
attivo in orario notturno. Nel caso in cui i sistemi di
videosorveglianza installati siano collegati alle forze di
polizia è necessario apporre uno specifico cartello che lo
evidenzi.
Conservazione. Le immagini registrate possono essere
conservate per periodo limitato e fino ad un massimo di 24
ore, fatte salve speciali esigenze di ulteriore
conservazione in relazione a indagini.
Consenso. Contro possibili aggressioni, furti, rapine,
danneggiamenti, atti di vandalismo, prevenzione incendi,
sicurezza del lavoro ecc. si possono installare telecamere
senza il consenso dei soggetti ripresi, ma sempre sulla base
delle prescrizioni indicate dal Garante.
Addio riscaldamento centralizzato. La riforma modifica
l'articolo 1118 del codice civile per precisare che il
singolo condomino può distaccarsi dall'impianto
centralizzato di riscaldamento, ma solo in presenza di due
condizioni. La prima è che l'unità abitativa non gode della
normale erogazione di calore, per problemi tecnici
all'impianto condominiale, che non vengono risolti nel corso
di una intera stagione di riscaldamento. La seconda è che il
distacco non comporti squilibri tali da compromettere la
normale erogazione di calore agli altri condomini o aggravi
di spesa.
Più in dettaglio la norma prevede che il condomino, se viene
oggettivamente constatato che il proprio immobile non gode
della normale erogazione di calore, a causa di problemi
tecnici dell'impianto condominiale, e questi, nell'arco di
una intera stagione di riscaldamento, non sono risolti dal
condominio, può rinunciare all'utilizzo dell'impianto
centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, a
condizione che dal suo distacco non derivino squilibri tali
da compromettere la normale erogazione di calore agli altri
condomini o aggravi di spesa.
Chi si è distaccato non rimane esente da spese: è sempre
tenuto a concorrere esclusivamente al pagamento delle spese
di manutenzione straordinaria dell'impianto e per la sua
conservazione e messa a norma.
Si tratta questa di una specificazione dell'articolo 1118
del codice civile, nella parte in cui prescrive che il
condomino non può, rinunziando al diritto sulle cose
anzidette, sottrarsi al contributo nelle spese per la loro
conservazione.
Inoltre il nuovo articolo 1122 del codice civile, in
generale, esclude che il condomino possa eseguire opere che
rechino danno alle parti comuni o pregiudizio alla
stabilità, alla sicurezza e al decoro architettonico
dell'edificio. L'amministratore deve in ogni caso essere
avvisato prima dell'avvio dei lavori ai fini della relativa
comunicazione in assemblea (articolo
ItaliaOggi Sette dell'01.10.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA: Terre e
rocce hanno gestione a sé.
Dal 6 ottobre la disciplina è fuori dal regime dei rifiuti.
Il dm ambiente 161/2012 ridisegna le regole per il
riutilizzo di sottoprodotti e materiali da scavo.
Dal 06.10.2012 la gestione dei materiali da scavo come
sottoprodotti sarà disciplinata dalle nuove regole dettate
dal dm ambiente 10.08.2012 n. 161 (G.U. del 21.09.2012, n. 221). La nuova disciplina, destinata a sostituire
quella prevista dall'attuale articolo 186 del dlgs 152/2006
(in virtù della delegificazione disposta dallo stesso
«Codice ambientale») stabilisce criteri qualitativi e
adempimenti burocratici per gestire terre e rocce da scavo
fuori dall'oneroso regime dei rifiuti, prevedendo un
controllo degli operatori lungo tutta la filiera delle
sostanze: dalla loro produzione al riutilizzo.
Il dm
161/2012 consentirà la «gestione in deroga» (al regime sui
rifiuti) anche delle terre e rocce da scavo contenenti
«materiali di riporto» così come il trattamento compatibile
con la «normale pratica industriale» prevista dal dlgs
152/2006, ma pretenderà una analitica pianificazione delle
operazioni di riutilizzo e il rispetto di precise scadenze
temporali.
Le novità e il «Codice ambientale». Il dlgs 152/2006 prevede
in termini generali due tipologie di materiali da scavo,
disciplinandone diversamente la gestione: da un lato vi è il
suolo non contaminato e il materiale allo stato naturale
riutilizzato nello stesso sito; dall'altro vi sono i
materiali da scavo non rientranti nella prima categoria.
I
materiali inclusi nella prima categoria (unitamente al
terreno) non sono considerati rifiuti «ex lege» (in forza
dell'articolo 185 dello stesso Codice, che li esclude dal
campo di applicazione della relativa disciplina); tutti gli
altri materiali possono non essere considerati rifiuti solo
in due casi: a) perché rispettano a monte i requisiti propri
dei sottoprodotti; b) perché hanno riacquistano, a valle, a
seguito dunque di operazioni di recupero, lo status di veri
e propri beni.
I materiali da scavo come «sottoprodotti». Il nuovo dm
161/2012 si inserisce nel quadro generale disegnato dal dlgs
152/2006 così come sopra delineato, stabilendo i nuovi
requisiti che le terre e rocce da scavo devono soddisfare
per essere gestiti come sottoprodotti. Le nuove regole
recate dal dm in esame riguarderanno i «materiali da scavo»,
ossia il suolo e il sottosuolo (compresi eventuali
«materiali di riporto» in essi presenti) derivanti dalla
realizzazione di opere di costruzione, demolizione (a
esclusione dell'abbattimento di edifici), recupero,
restauro, ristrutturazione manutenzione. A titolo
esemplificativo, il nuovo dm 161/202 elenca tra le opere in
parola gli scavi in generale (sbancamenti, fondazioni), le
perforazioni e trivellazioni, le opere infrastrutturali
(come gallerie, dighe, strade), la rimozione e il
livellamento di opere in terra.
Il nuovo dm 161/2012 ammette
altresì tra i «materiali da scavo» potenzialmente gestibili
come sottoprodotti quelli contenenti «materiali di riporto»,
ossia le miscele eterogenee di materiali di origine
antropica utilizzati nel corso del tempo per riempimenti del
terreno e sedimentatisi nel suolo, purché nella quantità
massima del 20%. Tale previsione, lo ricordiamo, è la
diretta conseguenza della norma recata dall'articolo 3 del
dl 2/2012, la quale (mediante un'operazione di
«interpretazione autentica») ha stabilito che la nozione di
«suolo» recata dall'articolo 185 del dlgs 152/2006 deve
essere riferita anche alle «matrici materiali di riporto».
Come accennato, non rientrano invece nel campo di
applicazione del nuovo dm 161/2012 i rifiuti provenienti
direttamente dall'esecuzione dei lavori di demolizione degli
edifici o di altri manufatti, per i quali il regolamento in
parola rinvia all'applicazione delle generali regole
previste dalla parte IV del dlgs 152/2006.
I requisiti tecnici. Il dm 161/2012 legittima la gestione
come sottoprodotti dei materiali da scavo a condizione che
siano osservati due ordini di condizioni, ossia: il rispetto
di precisi criteri tecnici e gestionali delle sostanze in
parola; l'adempimento di particolari obblighi formali (sia
da parte dei loro produttori che da parte dei successivi
soggetti della filiera).
In primo luogo, i materiali
dovranno rispondere ai seguenti requisiti (analoghi a quelli
previsti dall'articolo 184-bis del dlgs 152/2006 per i
sottoprodotti in generale), ossia: essere generati durante
la realizzazione di un'opera di cui costituiscono parte
integrante ma il cui scopo primario non è la loro
produzione; essere riutilizzati nel corso dell'esecuzione
della stessa opera dalla quale deriva, (oppure) in una
diversa opera per reinterri, rimodellazioni, miglioramenti
fondiari o viari, altri ripristini e miglioramenti
ambientali, (o, ancora) in processi produttivi, quale
sostituto di materiali di cava; essere riutilizzati
«direttamente», ossia senza subire preventivi trattamenti
diversi dalla «normale pratica industriale»; essere detti
materiali in linea con i parametri di qualità ambientale
previsti dall'allegato 4 al decreto ministeriale in parola
(parametri relativi ai livelli massimi di concentrazione di
sostanze inquinanti ammissibili).
Nel tenore del dm 161/2012
costituiscono, in particolare, «normale pratica industriale»
le operazioni di miglioramento delle caratteristiche
merceologiche dei materiali, finalizzate a renderne il
riutilizzo maggiormente produttivo e tecnicamente efficace.
Tra queste operazioni il dm 161/2012 richiama, a titolo
esemplificativo, quelle più comunemente adottate, come la
selezione granulometrica, la riduzione volumetrica, la
stabilizzazione, la stesa a suolo l'asciugatura, la
riduzione della presenza di materiale da scavo.
---------------
Va rispettato il piano di utilizzo.
Dal punto di vista formale, invece, gli obblighi sono legati
all'intera filiera del riutilizzo. Infatti, sempre che
rispondano i suddetti requisiti, i materiali potranno essere
gestiti come sottoprodotti solo ove: vengano governati nel
rispetto del «piano di utilizzo» concordato con l'autorità
pubblica responsabile dell'autorizzazione dell'opera dalla
quale i materiali provengono (o a quella responsabile della
valutazione di impatto ambientale o autorizzazione
integrata, ove necessarie); siano depositati (nelle more del
riutilizzo) secondo le regole particolari dettate dal dm
161/2012; siano trasportati insieme al peculiare «documento
di trasporto»; siano certificati nel loro riutilizzo da una
apposita «dichiarazione di avvenuto utilizzo» rilasciata
dall'esecutore del medesimo. In caso di inosservanza delle
regole relative anche a un singolo anello della catena, i
materiali saranno considerati non più sottoprodotti, ma
rifiuti, con l'obbligo di doverli gestire come tali.
Il
«piano di utilizzo», in particolare, dovrà essere presentato
dal soggetto che intende gestire i materiali da scavo come
sottoprodotti alla Autorità competente almeno 90 giorni
prima dell'inizio dei lavori per la realizzazione dell'opera
da cui potranno derivare i materiali da scavo, dimostrando,
tramite lo stesso documento, la sussistenza di tutti i
citati requisiti oggettivi dei materiali, e indicando
altresì tempi, modi e luoghi di realizzazione delle opere (o
delle attività manutentive).
La gestione del materiale come sottoprodotto potrà iniziare
decorsi 90 giorni dalla presentazione del suddetto piano e
previa comunicazione della data di inizio lavori alla stessa
autorità competente ma comunque non oltre i 2 anni dalla
presentazione dello stesso. Lo stoccaggio del materiale
escavato in attesa di utilizzo potrà invece avvenire
esclusivamente all'interno del sito di produzione, dei siti
di deposito intermedio o dei siti di destinazione finale.
Il deposito dovrà altresì avvenire nel rispetto delle
indicazioni e della tempistica del citato piano di utilizzo,
separato dal deposito temporaneo di eventuali rifiuti
presenti in loco ed appositamente segnalato. In tutte le
fasi successive all'uscita dal sito di produzione il
materiale escavato dovrà essere accompagnato dal citato
«documento di trasporto» previsto dal dm 161/2012 (sulla
falsariga del formulario di trasporto ex dlgs 152/2006),
predisposto in tre copie e conservato per cinque anni.
Nuovo quadro normativo e regime transitorio. Dalla sua
entrata in vigore (coincidente con il 06.10.2012) le
nuove norme recate dal dm 161/2012 sostituiranno, come
accennato, le analoghe regole per la gestione delle terre e
rocce da scavo recate dall'articolo 186 del dlgs 152/2006. E
ciò in forza (a monte) dell'articolo 184-bis dello stesso
Codice ambientale che legittima il relativo dicastero a
stabilire con proprio decreto particolari regole sui
sottoprodotti per particolari tipologie di sostanze e (a
valle) dall'articolo 39 del dlgs 205/2010 che prevede
l'abrogazione del citato articolo 186 a partire dall'entrata
in vigore del nuovo decreto ministeriale (oggi decreto
161/2012).
Al fine di garantire una gestione dei
sottoprodotti in parola senza soluzione di continuità, il
nuovo dm riconosce però ai soggetti interessati a progetti
di riutilizzo in corso la facoltà di passare dal vecchio
(quello previsto dall'articolo 186 del dlgs 152/2006) al
nuovo regime di gestione tramite la presentazione del
previsto «piano di utilizzo» entro la metà del prossimo
aprile 2012.
In difetto, i progetti in itinere dovranno invece essere
portati a termine secondo le uscenti regole del dlgs
152/2006 (articolo ItaliaOggi
Sette dell'01.10.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Proprietà. Intervento a metà tra la manutenzione
straordinaria e la ristrutturazione.
Più semplice frazionare le unità immobiliari.
Ma l'esclusione dagli oneri urbanistici non è automatica.
IL TITOLO ABILITATIVO/
Permesso di costruire o Dia rafforzata nelle Regioni in cui
l'operazione non è ancora stata alleggerita.
Ville familiari ormai troppo grandi per i nuclei moderni,
crisi economica e necessità di sfruttare al massimo gli
immobili: sono tante le ragioni che spingono i proprietari
di casa a dividere il proprio immobile e a ricavarne più
unità.
Il frazionamento di immobili è in crescita e lo dimostra
anche la recente legge del Veneto che ha deciso di favorirlo.
Ma diverse sono le procedure da seguire per questo tipo di
intervento edilizio, anche a seconda della disciplina
regionale. Se si abita in Lombardia o in Veneto l'intervento
sarà considerato di manutenzione straordinaria: basterà
presentare una Scia (segnalazione certificata di inizio
attività) e, senza alcun onere o tassa, si potrà procedere
ai lavori di frazionamento.
Se invece si abita in un'altra regione questo intervento
sarà classificato come una ristrutturazione e, di
conseguenza, sarà assoggettato a permesso di costruire (o
alla cosiddetta Super-Dia e persino alla Scia in Toscana) e
al pagamento di un contributo simile a quello del totale
rifacimento di un intero edificio.
Perché questa differenza? Per comprendere la discrepanza
bisogna considerare la definizione di manutenzione
straordinaria introdotta dalla legge 457/78 e confermata dal
Testo unico per l'edilizia del 2001. Quest'ultimo impone che
la manutenzione straordinaria non alteri le superfici delle
singole unità immobiliari, senza perciò possibilità di
aumentarne o diminuirne il numero.
Secondo la legge nazionale, frazionare non è quindi un
intervento classificabile come manutenzione straordinaria
(fatte salve le diverse discipline regionali).
Resta da stabilire se la modifica delle unità immobiliari è
sottoposta ad autorizzazione gratuita, qualora sia
considerata come risanamento conservativo, o al pagamento di
oneri, se considerata ristrutturazione. A questo proposito
entra in gioco il concetto di «carico urbanistico», ovvero
bisogna valutare se il frazionamento comporta un aumento
delle spese per servizi da parte dei Comuni. Secondo quasi
tutte le leggi regionali ed una giurisprudenza abbastanza
consolidata il carico urbanistico aumenta, quindi frazionare
un appartamento comporta il pagamento di oneri ed una
procedura più complessa di una mera opera interna, anche
quando per dividere l'immobile è sufficiente chiudere una
porta o un piccolo tratto di muro. La ratio di tale
posizione è che l'aumento dei nuclei familiari comporta
maggiori servizi, ma ad essa si potrebbe obiettare che il
numero di persone insediabili in un grande appartamento può
essere superiore a quello degli abitanti nella somma dei
monolocali corrispondenti alla stessa superficie e che il
calcolo dello standard è sempre stato fatto a superficie
invece che a numero delle unità.
Per riparare a tali contraddizioni, la regione Emilia
Romagna ha previsto, con l'articolo 28 della legge regionale
31/02, la possibile gratuità del frazionamento in caso di
opere ridotte o di minimo aumento del carico, ma la sua
applicazione è controversa (si veda Tar Emilia Romagna n.
352/2008).
Anche la Lombardia, con la legge regionale 12/2005, prevede
fusioni e frazionamenti compresi nella manutenzione
straordinaria. Ma alcuni Comuni non demordono e richiedono
comunque il pagamento di oneri per compensare il maggior
carico.
In conclusione, salvo Lombardia e Veneto, il frazionamento è
trattato come un intervento edilizio rilevante a prescindere
dal fatto che esso riguardi un intero fabbricato o un
singolo appartamento. Anche in Lombardia e Veneto, però, il
frazionamento non deve comportare una sostanziale modifica
dell'intero edificio ed in particolare delle parti comuni,
in tal caso si rientra nella ristrutturazione, a prescindere
dalla modifica del numero delle unità immobiliari.
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Leggi regionali. Le norme
a regime -
Lombardia apripista Ora tocca al Veneto
La spinta alla semplificazione dei frazionamenti immobiliari
viene soprattutto dalle leggi regionali. Da ultimo è
arrivato il Veneto con la legge 34/2012, nata da un'esigenza
del territorio: di famiglie, imprese, associazioni
industriali e della proprietà edilizia.
La norma modifica l'articolo 76 della legge 61/1985 e consente
ai cittadini di frazionare in più unità (o accorpare, al
contrario) una casa, senza dover pagare ai comuni pesanti
oneri di urbanizzazione.
Tutto dipende dalla nuova classificazione attribuita ai
frazionamenti. La legge, in un solo articolo, precisa,
infatti, che questi interventi non sono ristrutturazioni, ma
manutenzioni straordinarie e possono, perciò, essere
eseguiti senza che ciò comporti l'aumento di un carico
urbanistico. La norma vale per locali che mantengono "la
destinazione d'uso residenziale": nulla viene invece detto
per immobili terziari o industriali.
«La legge –spiega il consigliere Dario Bond, primo
firmatario– risponde a una domanda reale. In Veneto le
proprietà immobiliari individuali sono numerose. Ma oggi, a
fronte dei cambiamenti che investono i nuclei familiari, le
case troppo grandi non rispondono ai bisogni delle famiglie,
che invece spesso hanno necessità di avere due appartamenti
vicini e autonomi, da condividere con genitori anziani o
figli indipendenti».
Prima del Veneto, la strada innovativa era già stata
percorsa, e da parecchio, dalla Lombardia. Del tutto diverso
è, invece, il caso dei frazionamenti consentiti dai piani
casa regionali, ma come interventi straordinari in deroga ai
Prg, a tempo limitato e, soprattutto, a fronte spesso di
pesanti restyling dell'edificio. «Il frazionamento senza
oneri –tira le somme Camillo Bertocchi, funzionario del
settore Urbanistica della Lombardia– è stato inserito
all'articolo 27 della legge 12 dell'11 marzo 2005, che
disciplina il governo del territorio. Si tratta di una
possibilità che è stata utilizzata sul territorio ed è molto
attuale. Anche perché è realizzabile presentando in Comune
una semplice Scia o addirittura una comunicazione libera».
Positivo il riscontro delle associazioni che tutelano la
proprietà edilizia. «La legge veneta –commenta Michele
Vigne, presidente della sezione regionale di Confedilizia–
recepisce nel migliore dei modi una proposta che noi stessi
avevamo avanzato. Del resto, se un'unità viene frazionata
senza variare superficie, volume o destinazione d'uso, non
ha senso il pagamento di oneri molto gravosi». L'unica
incertezza aperta è sul fronte delle imposte sulla casa. Il
frazionamento comporta un aggiornamento della situazione
catastale e la definizione di una nuova rendita
indispensabile per il calcolo di tasse e Imu (si veda
l'articolo a fianco). «C'è da augurarsi –conclude Vigne–
che l'ostacolo non arrivi da qui».
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Il Territorio. L'aggiornamento dei dati -
Cambia anche la rendita catastale
Ultimati i lavori di frazionamento di unità immobiliari, va
completata la pratica sotto il profilo catastale. Il
proprietario dovrà rivolgersi a un tecnico professionista –autorizzato a operare negli atti catastali, iscritto
all'albo degli ingegneri, architetti, geometri, dottori
agronomi, periti edili e agrari, agrotecnici diplomati e
laureati– che, esaminata la porzione di fabbricato su cui
operare, dovrà richiedere la visura catastale, contenente
tutti i dati relativi ai possessori, alla consistenza,
categoria, classe e rendita, oltre alla copia della
planimetria originale, previa autorizzazione scritta del
proprietario, sulla quale sono rappresentate le eventuali
pertinenze (cantina, soffitta, eccetera), oltre alle
dipendenze (giardini, terrazzi, orticelli e così via).
Disponendo di questi elementi, il tecnico dovrà individuare
le porzioni in cui è suddivisa l'unità, generalmente due nel
caso di un appartamento di media grandezza, ma anche diverse
nel caso di ville di grande consistenza, o dei grandi
negozi, capannoni e depositi.
Individuate le porzioni di fabbricato, da ricavare
dall'unità originale, il tecnico dovrà delineare le nuove
planimetrie, alle quali annettere eventuali pertinenze e,
quindi,utilizzando il programma Docfa, dovrà attribuire a
ciascuna nuova unità ricavata, un nuovo subalterno
identificativo, una rendita proposta, e quindi trasmetterle
per via telematica all'ufficio provinciale dell'Agenzia
competente. Con lo stesso mezzo l'ufficio, verificata la
correttezza formale di ogni unità dichiarata, trasmette in
automatico la ricevuta di presentazione e, da quel momento,
il possessore potrà utilizzare i nuovi dati catastali per
ogni necessità, sia civilistica (trasferimento di proprietà,
divisone, conferimenti, successione) che fiscale (denuncia
dei redditi, Imu).
Tuttavia, qualora l'ufficio ritenga non congrua la rendita,
potrà modificarla, notificando al possessore la nuova
rendita, che risulterà efficace dalla data di presentazione
della denuncia, se la notifica verrà effettuata entro 12
mesi, mentre se sarà notificata dopo la sua efficacia
decorrerà dalla data della notifica (Cassazione, sentenza
17818/2007).
Il costo delle denunce, oltre al tributo speciale catastale
di 35 euro per ogni unità denunciata, e il bollo, richiede
il pagamento del professionista, sulla base delle vacazioni
orarie impiegate, che per un appartamento di 10o metri
quadrati può variare da 300 a 500 euro.
Se la variazione dovesse riguardare l'ampliamento del sedime
del fabbricato, è necessario effettuare l'aggiornamento
della mappa, mediate il rilievo del fabbricato e l'utilizzo
del programma Pregeo, fornito dalla stessa Agenzia.
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Semplificazioni. Nessun via libera preventivo per chi
accorpa -
La fusione è sempre ammessa
La manutenzione straordinaria, come definita dalla legge
457/1978, non può alterare le superfici delle singole unità
immobiliari e non permette, perciò, di aumentarne o
diminuirne il numero. Cosa fare quindi nel caso in cui si
intenda unire due appartamenti o semplicemente spostare una
stanza da uno all'altro? In realtà il divieto di modificare
la superficie delle unità immobiliari ha sempre riguardato
solo il caso del frazionamento e non la fusione.
Malgrado,
infatti, la definizione di manutenzione straordinaria non
ammetta modifiche alla superficie delle unità immobiliari,
la fusione tra due o più unità è sempre stata trattata in
modo diverso, rispetto al frazionamento, ed ammessa anche
quando non erano in vigore le leggi che lo consentivano, in
ragione del minore carico urbanistico e della conseguente
impossibilità di richiedere oneri per i Comuni.
Dopo la legge 457/78, la legge 47/1985, all'articolo 26, ha
consentito di asseverare opere interne senza aumento del
numero delle unità immobiliari, (consentendone quindi la
diminuzione). Essa ha chiarito altresì che non è considerato
aumento delle superfici utili l'eliminazione o lo
spostamento di pareti. Era quindi possibile accorpare
appartamenti ma non frazionarli. A partire dal 1996 la
situazione si è complicata, infatti la legge 662/1996,
istituendo la Dia (denuncia di inizio attività), ha
assoggettato ad essa le opere interne di singole unità
immobiliari, contraddicendo quindi l'articolo 26, ma senza
abrogarlo.
Dall'entrata in vigore del Testo unico per
l'edilizia nel 2003, l'articolo 26 è scomparso, rendendo
impossibile modificare il numero delle unità immobiliari. Ma
la legge 73/2010 (di conversione del Dl 40/2010)
intervenendo ancora sul Testo unico, ha compreso tra gli
interventi che non richiedono titolo edilizio le opere di
manutenzione straordinaria che non comportino aumento del
numero delle unità immobiliari, per le quali è sufficiente
presentare un'asseverazione di un tecnico, senza alcuna
procedura comunale, rendendo di nuovo possibile modificare
il numero delle unità e ritornando, in pratica, all'articolo
26 del 1985.
Bisogna però sempre ricordare che l'intervento non deve
modificare la destinazione d'uso o, secondo la norma più
recente, comportare incremento dei parametri urbanistici,
passando da una destinazione con minore ad una con maggiore
richiesta di infrastrutture (ad esempio da residenza a
terziario).
Al contrario, se il frazionamento comporta oneri, può anche,
se ammissibile per il Piano regolatore cambiare la
destinazione.
Un'ultima verifica che deve essere fatta è quella della
presenza di vincoli: in caso di vincolo paesaggistico, se le
opere da eseguire sono solo interne, non è necessaria alcuna
autorizzazione; se invece l'immobile è gravato da un vincolo
monumentale la modifica delle unità è sottoposta a
preventivo nullaosta della Soprintendenza
(articolo Il
Sole 24 Ore dell'01.10.2012). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Spending review. Contenzioso.
Obbligo di appello sulle promozioni decise dal giudice.
LA DIRETTIVA/
Le amministrazioni pubbliche devono proporre ricorso contro
gli aumenti e le progressioni di carriera riconosciuti ai
dipendenti.
Le amministrazioni pubbliche devono proporre ricorso contro
le sentenze con cui sono condannate a riconoscere
miglioramenti economici e progressioni di carriera ai propri
dipendenti. Questo vincolo si aggiunge al divieto di
estensione del giudicato, all'obbligo di realizzare in ogni
ente un ufficio per gestire il contenzioso con il personale,
all'obbligo di segnalare alla Funzione Pubblica e al
ministero dell'Economia tutte le cause di lavoro da cui
potrebbero risultare oneri rilevanti per il complesso delle
amministrazioni pubbliche.
L'Aran può infine intervenire nei
processi di lavoro pubblico. Sono questi gli strumenti
attraverso cui si cerca di evitare che gli enti pubblici
sostengano oneri aggiuntivi derivanti dalla conclusione con
esito negativo dei contenziosi di lavoro pubblico. Si deve
inoltre aggiungere la necessità, non sempre rispettata, che
le Pa si costituiscano nei processi del lavoro in cui sono
parte.
L'obbligo più recente è quello della proposizione
dell'appello, introdotto dalla direttiva del presidente del
Consiglio dei ministri «Indirizzi operativi ai fini del
contenimento della spesa pubblica», pubblicata sulla
«Gazzetta ufficiale» del 23 luglio scorso. Nell'ambito delle
misure di spending review, la disposizione è dettata per le
amministrazioni statali ma è un principio di carattere
generale che vale per tutte le Pa, compresi gli enti locali.
Lo scopo è «evitare che le sentenze di primo grado che
riconoscono miglioramenti economici, progressioni di
carriera per dipendenti pubblici passino in giudicato».
Le amministrazioni pubbliche hanno, a tempo indeterminato
(in base all'articolo 41, comma 6, del Dl 207/2008) il
divieto «di adottare provvedimenti per l'estensione di
decisioni giurisdizionali aventi forza di giudicato, o
comunque divenute esecutive, in materia di personale delle
amministrazioni pubbliche». Né un'altra pubblica
amministrazione, né lo stesso ente, possono estendere il
giudicato in materia di lavoro al di là del caso che è stato
oggetto di sentenza sfavorevole per il soggetto pubblico. È
evidente la sfiducia con cui il legislatore guarda alla
giurisprudenza del lavoro, anche nei casi in cui essa sia
definitiva.
Un insieme di previsioni del Dlgs 165/2001 mirano a
rafforzare la posizione delle Pa nel contenzioso del lavoro.
In primo luogo, si richiede la maturazione di
professionalità specifiche, con l'attivazione, anche in
forma associata, dell'ufficio per la gestione del
contenzioso del lavoro. Si impone poi a tutte le Pa di
segnalare alla Funzione pubblica e al ministero
dell'Economia tutti i contenziosi che possono determinare il
maturare di oneri significativi.
Questi enti possono
intervenire nei processi (in base all'articolo 105 del
Codice di procedura civile). Anche l'Aran, per garantire
l'omogeneità nell'interpretazione dei Ccnl, può intervenire
nei contenziosi sul lavoro pubblico (articolo Il
Sole 24 Ore dell'01.10.2012). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA: Opera
interna senza placet se non aumenta il volume.
Non commette reato il proprietario di un immobile che, senza
concessione edilizia, ricava dalla stessa metratura un bagno
e una cucina. In sostanza non sono necessarie autorizzazioni
per le opere interne che non aumentano il volume del
fabbricato.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione che, con la
sentenza 01.10.2012 n. 37713, ha assolto con formula
piena, perché il fatto non sussiste, il proprietario di un
vecchio fabbricato che, dalla stessa metratura, aveva
ricavato (senza concessione edilizia) un bagno e una cucina.
Insomma, ad avviso della sezione feriale, le cosiddette
opere interne, non più previste nel dpr 06.06.2001, n.
380, come categoria autonoma di intervento edilizio sugli
edifici esistenti, quando comportino aumento di unità
immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle
superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso rientrano
negli interventi di ristrutturazione edilizia per i quali è
necessario il permesso di costruire. Ma in questo caso,
spiega il Collegio di legittimità, non c'è stato né aumento
del volume del vecchio casale né, tantomeno, il mutamento
della destinazione. Fra l'altro, secondo la Corte non è
neppure configurabile il residuo reato di cui all'art. 181
del dlgs 42/2004.
Infatti, fermo il principio che la contravvenzione ha natura
di reato di pericolo e non richiede per la sua
configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente, pur
tuttavia devono escludersi dal novero delle condotte
penalmente rilevanti quelle che si prospettino inidonee,
pure in astratto, a compromettere i valori del paesaggio e
l'aspetto esteriore degli edifici
(articolo ItaliaOggi del 02.10.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO - VARI: Cassazione:
non si può spiare i dipendenti. Controlli difensivi Privacy
garantita.
Controlli difensivi sì, ma con le garanzie previste dallo
statuto dei lavoratori. E anche se i sistemi di rilevamento
a distanza sono installati con il placet dei sindacati essi
devono pur sempre essere diretti a reprimere eventuali
condotte illecite dei dipendenti senza tuttavia violare la
riservatezza del lavoratori e, dunque, spiarli durante
l'erogazione della prestazione.
È quanto emerge dalla
sentenza 01.10.2012 n. 16622 della Corte di Cassazione.
Riservatezza prioritaria. Il ricorso dell'operatore del
call
center licenziato è accolto contro le conclusioni del pg e
dopo una doppia sconfitta in sede di merito. Sbaglia il
giudice del merito a confermare il recesso del datore che
usa contro il dipendente, telefonista di un servizio di
prima assistenza, i dati immagazzinati grazie al software
aziendale: i files mostrano che l'operatore ha avuto in 4
mesi 460 contatti telefonici con utenti durati meno di 15
secondi, troppo pochi per ascoltare le richieste e
rispondere; senza dimenticare che l'addetto mostra di avere
effettuato 136 chiamate di natura personale.
Il collegio
intende dare continuità all'indirizzo interpretativo secondo
cui anche i controlli cosiddetti «difensivi», cioè quelli
posti in essere dal datore contro eventuali comportamenti
illeciti dei dipendenti, devono essere sottoposti alle
garanzie procedurali di cui all'articolo 4 dello Statuto dei
lavoratori. Ma anche quando l'installazione delle
apparecchiature avviene all'esito di un procedimento di
concertazione con la rappresentanza sindacale aziendale mai
i rilevamenti possono riguardare l'esatto adempimento della
prestazione.
Filtro necessario.
Il datore punta sulle telefonate private individuate a
carico dell'operatore: secondo l'azienda l'inadempimento
contrattuale ben può emergere con la scoperta dell'illecito.
Il collegio, invece, è fermo nel ritenere che i controllo
effettuati dal software aziendale non possono intaccare la
sfera della prestazione lavorativa del dipendente: è dunque
escluso che i dati rilevati possano essere utilizzati contro
l'incolpato per dimostrare l'inadempimento della
prestazione. Anzi: servono sistemi di filtraggio delle
telefonate per impedire di risalire all'identità del
dipendente, la cui riservatezza va tutelata in tal senso
(articolo ItaliaOggi del 02.10.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il rilascio dell'autorizzazione in sanatoria è
possibile solo nell'ipotesi in cui i lavori non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzabili, non siano
stati impiegati materiali in difformità dall'autorizzazione
paesaggistica, per lavori comunque configurabili quali
interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria (art.
3, d.P.R. 06.06.2001 n. 380), come previsto dai commi 4 e 5
dell'articolo 167 del codice dei beni culturali e del
paesaggio (D.Lgs. n. 42/2004).
Lo ha affermato la
sentenza 24.09.2012
n. 5066 con la quale la VI Sez. del Consiglio di
Stato ha rigettato il ricorso presentato per la riforma di
una precedente sentenza del TAR concernente il rilascio di
un permesso di costruire ed il diniego di riconoscimento di
compatibilità paesaggistica.
I fatti
Il ricorrente aveva ricevuto dall'amministrazione comunale
il permesso di costruire per la realizzazione dei lavori di
ristrutturazione ed ampliamento della sua abitazione. I
lavori erano, però, stati ultimati in maniera difforme dal
titolo autorizzatorio rilasciato, con una serie di
differenziazioni tra le opere effettuate ed il contenuto del
permesso di costruire. Per tale motivo il ricorrente aveva
presentato una richiesta di permesso di costruire a
sanatoria, per la regolarizzazione delle opere completate in
difformità dal permesso di costruire. Tale nuova richiesta
veniva inviata dal responsabile del Comune alla competente
Soprintendenza e successivamente veniva espresso parere
negativo "in quanto i lavori realizzati, in assenza di
autorizzazione paesaggistica o in difformità da essa, ai
sensi dell'art. 167, comma 4, lettera a), hanno determinato
creazione di superfici utili o volumi in aumento rispetto a
quelli legittimamente realizzati".
La nota della Soprintendenza, con la quale veniva espresso
il parere negativo sulla compatibilità paesistica degli
interventi realizzati in difformità dal permesso di
costruire, veniva impugnata per:
1. violazione dell'art. 3, legge n. 241 del 1990, eccesso di
potere per inadeguatezza della motivazione, difetto
istruttorio, illogicità, contraddittorietà, violazione
dell'art. 97, Cost., e violazione del codice dei beni
culturali;
2. ulteriore violazione delle norme del codice dei beni
culturali e del paesaggio, eccesso di potere per violazione
del principio di leale cooperazione tra istituzioni,
irragionevolezza e travisamento dei presupposti di fatto e
diritto;
3. eccesso di potere per travisamento dei fatti, erroneità
dei presupposti, carenza di attività istruttoria, difetto di
motivazione, irragionevolezza e violazione del principio di
proporzionalità ed efficienza dell'attività amministrativa;
4. violazione degli artt. 7 e 10-bis, legge n. 241/1990;
5. violazione dell'art. 146, commi 7 e 8, d.lgs. n. 42/2004,
eccesso di potere, incompetenza e violazione del principio
di leale collaborazione tra le istituzioni.
Il TAR, supportato dalla seguente sentenza del Consiglio di
Stato che ne ha ribadito i contenuti, ha osservato che
l'autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in
sanatoria successivamente alla realizzazione, anche
parziale, delle opere (art. 146, comma 4, d.lgs. n. 42 del
2004), al di fuori dai casi tassativamente previsti
dall'art. 167, commi 4 e 5. Questo in quanto viene escluso
priori che l'esame di compatibilità paesistica possa essere
postergato all'intervento realizzato (sine titulo o in
difformità dal titolo rilasciato).
L'art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004 ha inteso precludere in
radice ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere
abusive (tranne quelle tassativamente indicate nello stesso
art. 167). Se le opere risultino diverse da quelle sanabili
ed indicate nell'art. 167, le competenti autorità non
possono che emanare un atto dal contenuto vincolato e cioè
esprimersi nel senso della reiezione dell'istanza di
sanatoria. L'unica eccezione a tale rigida prescrizione
riguarda il caso in cui i lavori, pur se realizzati in
assenza o difformità dell'autorizzazione paesaggistica, non
abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Dunque, tenuto conto del testo e della ratio
dell'art. 167, nella prospettiva della tutela del paesaggio
non è rilevante la classificazione dei volumi edilizi che si
suole fare al fine di evidenziare la loro neutralità, sul
piano del carico urbanistico, poiché le qualificazioni
giuridiche rilevanti sotto il profilo urbanistico ed
edilizio non hanno rilievo, quando si tratti di qualificare
le opere sotto il profilo paesaggistico, sia quando si
tratti della percezione visiva di volumi, a prescindere
dalla loro destinazione d'uso, sia quando comunque si tratti
di modificare un terreno o un edificio o il relativo
sottosuolo.
Vale la pena ricordare la ratio che ha portato alla
sentenza.
Come previsto dal comma 4, art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004,
l'autorità amministrativa competente accerta la
compatibilità paesaggistica nei seguenti casi:
• per i lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati;
• per l'impiego di materiali in difformità
dall'autorizzazione paesaggistica;
• per i lavori comunque configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi
dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica
6 giugno 2001, n. 380.
Come previsto, invece, dal successivo comma 5, il
proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo
dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi di
cui al precedente comma 4 presenta apposita domanda
all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini
dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli
interventi medesimi. L'autorità competente si pronuncia
sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta
giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da
rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni.
Qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il
trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente
al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto
conseguito mediante la trasgressione. L'importo della
sanzione pecuniaria è determinato previa perizia di stima.
In caso di rigetto della domanda si applica la sanzione
demolitoria (commento tratto da www.lavoripubblici.it - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Bandi. Il Consiglio di Stato chiarisce il perimetro dei
criteri di aggiudicazione.
Gara al massimo ribasso senza documenti tecnici.
L'ente appaltante deve valutare soltanto l'offerta economica.
In una gara indetta con il criterio del prezzo più basso, la
stazione appaltante non può sottoporre a valutazione
l'eventuale documentazione tecnica richiesta per comprovare
la qualità del servizio o dei materiali adoperati. Il bando
non può prevedere, quindi, l'analisi di alcun documento che
non sia la sola offerta economica.
Il Consiglio di Stato (III Sez.), ha chiarito con la
sentenza 21.09.2012 n. 5050 quali sono gli
elementi essenziali che consentono la gestione corretta
della gara da aggiudicare in base al solo dato economico.
Un'azienda sanitaria aveva indetto un appalto di servizi con
il criterio del massimo ribasso previsto dall'articolo 82
del Codice dei contratti pubblici, in base a un progetto
molto dettagliato, tradotto in obblighi precisi per
l'appaltatore, evidenziati nel capitolato prestazionale.
Questa impostazione permette alle amministrazioni di
esplicitare i processi di realizzazione delle prestazioni e
i livelli qualitativi rispondenti alle loro esigenze, per
cui gli operatori economici non devono presentare un
progetto tecnico o di miglioria tecnica, ma devono solo
impegnarsi a rispettare le prescrizioni del capitolato.
Il Consiglio di Stato evidenzia, rispetto a questo profilo,
che le stazioni appaltanti sono obbligate a predisporre la
progettazione anche per gli appalti di servizi e di
forniture, in base all'articolo 279 del Dpr 207/2010.
Quando la gara riguarda servizi semplici, basati su
operazioni ripetitive e standardizzate, l'ente appaltante si
può peraltro limitare a indicare in modo dettagliato, nel
capitolato speciale d'appalto, gli obblighi cui sarà
sottoposto il futuro affidatario, chiedendo ai concorrenti
di impegnarsi contestualmente a svolgere il servizio secondo
le indicazioni immodificabili fornite dall'amministrazione.
Nello schema della gara con il prezzo più basso, il bando
non può quindi prevedere la presentazione di documentazione
tecnica (in busta separata da quella dell'offerta economica)
e tanto meno questa può essere sottoposta a valutazione dal
seggio di gara.
L'esclusione da una gara gestita con il massimo ribasso di
un'offerta per la quale l'organismo che presiede alla gara
assume a motivazione l'inadeguatezza della documentazione
tecnica, evidenzia, secondo il Consiglio di Stato, il
travisamento del tipo di gara secondo il criterio del prezzo
più basso. L'esplicitazione delle specifiche prestazionali
nel capitolato e la richiesta ai concorrenti di svolgere il
servizio in stretta aderenza alle indicazioni fornite dalla
stazione appaltante, fanno rilevare l'insensatezza della
motivazione della esclusione attinente alla non aderenza al
progetto tecnico.
La valutazione dei profili tecnico-qualitativi è infatti
tipica del criterio di aggiudicazione dell'offerta
economicamente più vantaggiosa disciplinato dall'articolo 83
del Dlgs 163/2006, che è usato quando l'ente appaltante ha
bisogno di ottenere dal concorrente, non solo un ribasso
economico, ma anche soluzioni tecniche ottimali rispetto a
una ipotesi progettuale di espletamento del servizio non
sufficientemente dettagliata.
L'impropria commistione e l'esclusione determinata in
rapporto all'insufficienza di elementi non compiutamente
configurabili come parti di un'offerta tecnica, comportano
anche l'elusione del principio di tassatività delle cause di
esclusione previsto dall'articolo 46, comma 1-bis, del Codice
dei contratti, che devono risultare chiaramente dal bando,
escluse le ipotesi in cui rispondano a un particolare
interesse dell'amministrazione.
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Procedure differenziate
01 | LA SENTENZA
Nella sentenza 5050 del 21.09.2012, il Consiglio di
Stato ha chiarito che in una gara indetta con il criterio
del massimo ribasso (prevista dall'articolo 82 del Codice
dei contratti pubblici), in cui le modalità tecniche di
espletamento del servizio
e gli obblighi dell'appaltatore sono esposti in maniera
dettagliata ed esaustiva nel capitolato, non si può chiedere
agli operatori economici di presentare un progetto
tecnico o di miglioria tecnica. Deve essere valutata,
invece,
la sola documentazione relativa all'offerta economica
presentata. Il Consiglio
di Stato ha dunque accolto
il ricorso di una società respinta da una gara indetta
da una Asl per l'inadeguatezza della documentazione
tecnica presentata
02 | LA DISTINZIONE
Il Consiglio di Stato, nel motivare la sentenza, precisa che
la valutazione del progetto tecnico è tipica del criterio di
aggiudicazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa
previsto dall'articolo 83 del decreto legislativo 163/2006,
che è utilizzato quando l'ente appaltante ha bisogno di
ottenere dal concorrente,
non solo un ribasso economico, ma anche soluzioni tecniche
ottimali rispetto a una
ipotesi progettuale di espletamento del servizio
non sufficientemente dettagliata in partenza (articolo Il Sole 24
Ore dell'01.10.2012 - link a www.corteconti.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA
PRIVATA:
Abusi edilizi senza accesso agli atti.
E' esclusa la possibilità di accedere agli atti
amministrativi ai sensi della legge n.241/1990 e s.m.i. in
riferimento alla richiesta di acquisizione di copia degli
atti riguardanti l'attività svolta dalla Polizia Municipale
riguardanti l'accertamento di abuso edilizio.
Il TAR Sicilia
ha negato l'accesso agli atti ad un contribuente che voleva
verificare le modalità con cui erano state svolte le
pratiche amministrativa per dichiarare l'abuso edilizio di
un immobile di sua proprietà.
La vicenda nasce quando il Comune aveva negato ad un
contribuente l’accesso agli atti amministrativi ex L.
241/1990.
Il contribuente aveva richiesto all’amministrazione comunale
di acquisire copia degli atti concernenti l’attività di
accesso e sopralluogo espletata dalla Polizia Municipale nel
suo immobile a seguito di segnalazione di abuso edilizio
fatta da terzi.
Il Comando dei vigili urbani aveva respinto l’istanza,
affermando che gli accertamenti svolti riguardano l’attività
di polizia giudiziaria i cui esiti sono stati trasmessi con
comunicazione di notizia di reato del 25 novembre 2012 alla
Procura della Repubblica presso il Tribunale , precisando
che “la richiesta di accesso debba essere inoltrata
direttamente all’Autorità Giudiziaria competente”.
Avverso tale atto il ricorrente è ricorso al Tribunale
amministrativo regionale. In linea generale il testo della
legge n. 241/1990, nel contemplare l’estensione e la
legittimazione all’esercizio del diritto di accesso, sia
pure con diverse sfumature, opera una limitazione di tale
situazione giuridica richiedendo un interesse qualificato
all’ostensione del documento e, di conseguenza, che le
istanze siano motivate.
In altri termini, non è sufficiente un mero interesse di
fatto teso semplicemente a controllare l’operato dell’azione
amministrativa, ma si richiede che tale interesse sia
corrispondente ad una situazione giuridica soggettiva
riconosciuta e protetta dall’ordinamento generale.
Qualora tale collegamento non sia ritenuto sussistente
dall’amministrazione destinataria della richiesta di
accesso, quest’ultima potrà legittimamente negare la
richiesta di accesso, atteso che la giurisprudenza
amministrativa ha in più di un’occasione affermato il
principio, secondo il quale le istanze di accesso, non
possono essere volte ad effettuare un controllo
generalizzato sull’attività amministrativa.
Tale principio, inoltre, ha trovato una sua positivizzazione
nella legge n. 15/2005 di modifica della legge n. 241/1990,
il cui articolo 16, comma 3, che ha sostituito l’art. 24
della legge del 1990, prevede testualmente: “Non sono
ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo
generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni”.
La ratio di tale ultima disposizione è evidentemente
quella di adattare l’esercizio del diritto di accesso con un
altro bene-interesse, che altrimenti sarebbe oltremodo
sacrificato, avente dignità costituzionale (art. 97) e
meritevole di tutela: il buon andamento della pubblica
amministrazione.
Con riferimento alla sentenza oggetto del presente commento
per i giudici amministrativi regionali il ricorso è, in
parte, infondato ed, in parte, inammissibile, e va pertanto
respinto.
Per i giudici amministrativi non corrisponde al vero quanto
asserito dal contribuente ricorrente in merito al fatto che
vi sia stata violazione e falsa applicazione degli articoli
24 e 25 della legge 241/1990 in quanto il diritto di accesso
agli atti amministrativi costituirebbe principio generale
dell’attività amministrativa non comprimibile nemmeno a
causa del segreto istruttorio, quando il richiedente vuole
conoscere i documenti al fine di tutelare la propria sfera
soggettiva; l’art. 24 della legge 241/1990, riferita
all’esclusione dal diritto di accesso agli atti, riguarda il
diritto di accesso ai documenti amministrativi e non risulta
riferibile agli atti di polizia giudiziaria, ossia a quella
attività che, a norma dell’art. 55 c.p.p., si sostanzia nel
“prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati
a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli
atti necessari per assicurare le fonti di prova e
raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione
della legge penale”.
Per il TAR se è vero che non ogni denuncia di reato
presentata dalla pubblica amministrazione all’autorità
giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio
penale, potendosi registrare casi in cui la denuncia è
presentata dall’amministrazione nell’esercizio delle proprie
istituzionali funzioni amministrative, è vero il contrario
nei casi in cui la P.A. agisca nell'esercizio di funzioni di
polizia giudiziaria specificamente attribuitele
dall’ordinamento. In tali ultimi casi, gli atti redatti sono
soggetti a segreto istruttorio ai sensi dell’art. 329 c.p.p.
e conseguentemente sottratti all’accesso ai sensi dell’art.
24, Legge n. 241/1990.
Di fronte ad atti di polizia giudiziaria, coperti dal
segreto istruttorio ex art. 329 c.p.p., vige il divieto di
pubblicazione sancito dall’art. 114 c.p.p.
In sostanza per i giudici amministrativi vi è una netta
differenza tra atti amministrativi, sui quali è ritenuta
legittima la richiesta di accesso ex art. 241/1990, da
quelli di polizia giudiziaria i quali , proprio per la loro
natura e finalità, sano sottratti al diritto di accesso
(commento tratto da www.ispoa.it - TAR Sicilia-Catania, Sez.
I,
sentenza
20.09.2012 n. 2220 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Consiglio
di Stato. Per il concorrente «riesame» dalla stessa
commissione.
Appalti, più tutele per i riammessi.
Tutela sempre più incisiva per l'impresa esclusa
illegittimamente da una gara di appalto.
L'adunanza plenaria
del Consiglio di Stato, con
sentenza 26.07.2012 n. 30, ha stabilito
che se l'impresa viene riammessa alla procedura a gara
conclusa, la sua offerta deve essere valutata dalla stessa
commissione che ha attribuito i punteggi alle offerte delle
ditte ammesse. E ciò non solo quando la gara è stata
aggiudicata al prezzo più basso, ma anche quando il bando
prevede il metodo dell'offerta economicamente più
vantaggiosa che attribuisce alla commissione ampi margini di
discrezionalità.
Il caso trattato dall'Adunanza plenaria riguarda
l'affidamento dei servizi di sicurezza e vigilanza
dell'aeroporto di Bargamo. Un raggruppamento di imprese
escluso dalla gara per l'insufficienza di un'autorizzazione
di pubblica sicurezza richiesta dal bando ha impugnato il
provvedimento. All'esito di un contenzioso intricato il
Consiglio di Stato (VI Sezione), accertata con sentenza
parziale l'illegittimità dell'esclusione, ha rimesso
all'Adunanza plenaria la questione di principio su come deve
comportarsi a quel punto la stazione appaltante. Le opzioni
in astratto sono tre: azzerare quasi per intero la procedura
richiedendo a tutte le imprese di presentare nuove offerte;
far valutare l'offerta dell'impresa esclusa dalla stessa
commissione che ha esaminato le altre offerte; rimettere in
busta tutte le offerte –senza esclusioni- , e farle
valutare a una nuova commissione.
La seconda opzione, preferita dall'Adunanza plenaria, tutela
molto di più l'impresa esclusa, perché la rimette in gara a
tutti gli effetti. Consente cioè che la sua offerta sia
tenuta ferma e sia valutata in comparazione con le altre. La
prima opzione è più evanescente perché coincide quasi con
l'avvio di una nuova gara. Oltretutto quest'ultima sarebbe
comunque falsata perché le altre imprese potrebbero
confezionare una nuova offerta avendo già conosciuto il
contenuto di quelle presentate dalle altre partecipanti e
già valutate.
La terza opzione, scartata dall'Adunanza plenaria perché
contraria a una norma espressa del Codice dei contratti
pubblici, sembra garantire di più i principi della
segretezza della procedura (in parte vanificata dalla
possibile lettura dei verbali della prima gara) e della
continuità e della contestualità delle valutazioni.
L'esame dell'offerta illegittimamente esclusa a cura della
stessa commissione può porre il problema di un'alterazione
della parità concorrenziale. Ciò perché la commissione già
conosce i punteggi non solo dell'offerta tecnica, ma anche
di quella economica, delle altre imprese e il suo giudizio
discrezionale potrebbe esserne influenzato. Secondo il
Consiglio di Stato, tuttavia, questo rischio può essere
minimizzato, perché la valutazione delle altre offerte offre
già «una fitta rete di riferimenti che (…) consentono di
assicurare l'omogeneità della valutazione postuma» e che
rendono particolarmente stringente il controllo del giudice
amministrativo.
In definitiva, nessuna soluzione è perfetta, ma quella
prescelta dal Consiglio di Stato rispetta di più il
principio del "giusto processo", che pone in primo piano
soprattutto l'interesse del ricorrente
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.10.2012
- link a www.corteconti.it). |
ICI - IMU: Aree
edificabili, valori medi vincolanti.
I valori medi delle aree edificabili fissati dal consiglio
comunale con regolamento sono vincolanti, mentre sono solo
delle direttive interne se deliberati dalla giunta. Il
consiglio comunale può dunque autolimitare il potere di
accertamento per ridurre il contenzioso con il contribuente
indicando dei valori, sia per l'Ici che per l'Imu, e questa
scelta rende illegittimi gli atti impositivi che accertano
un valore superiore a quello dichiarato dal contribuente.
È
l'importante principio affermato dalla Corte di Cassazione,
con l'ordinanza 25.07.2012 n. 13105, che fa chiarezza
sulla valenza degli atti generali adottati dagli organi
municipali e sugli effetti diversi che producono.
La
pronuncia della Cassazione risolve la questione, dibattuta
da tempo, relativa alla diversa efficacia dei due atti
generali (regolamento e delibera) nella determinazione dei
valori delle aree edificabili e le differenti aspettative
dei contribuenti, a seconda del provvedimento adottato
dall'amministrazione comunale e utilizzato poi in sede di
accertamento.
Per i giudici di legittimità, l'atto
regolamentare «è previsto esclusivamente nel caso in cui
l'amministrazione locale intenda autoimporsi dei vincoli
all'esercizio della potestà di accertamento dei tributo».
Questo comporta che gli accertamenti non possono essere
emanati se l'ente ha fissato i valori medi e i contribuenti
li hanno indicati nella dichiarazione e a essi si sono
attenuti nell'autoliquidazione dell'imposta. In caso
contrario gli atti sono illegittimi. Tuttavia, come posto in
rilievo nella pronuncia, «a parte questi vincoli non si può
escludere che la giunta possa commissionare studi statistici
o rilevare detti valori medi recependoli in un atto
amministrativo generale (senza effetti vincolanti-limitativi
del potere di accertamento del tributo)».
E la delibera
assume la veste di mero atto di indirizzo o di norma interna
che serve a fornire criteri uniformi ai funzionari in sede
di accertamento. In effetti l'articolo 59 del decreto
legislativo 446/1997, comma 1, lettera g), attribuiva ai
comuni il potere regolamentare di determinare,
periodicamente e per zone omogenee, i valori venali in
comune commercio delle aree fabbricabili, al fine di
limitare l'attività di accertamento.
La finalità era quella
di ridurre al massimo l'insorgenza di contenzioso. La
ripartizione del territorio comunale in zone dava facoltà
all'ente di attribuire ad esse un diverso valore per
assicurarne una maggiore rispondenza ai valori di mercato.
Anche se la lettera g) dell'articolo 59 non è applicabile
all'Imu, il ministero ha precisato nelle «linee guida»
sui regolamenti che i comuni possono comunque autolimitare i
propri poteri di accertamento
(articolo ItaliaOggi del 03.10.2012). |
AGGIORNAMENTO ALL'01.10.2012 |
ã |
IN EVIDENZA |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Un solo responsabile per le
attività in «alleanza».
Comune di Riva presso Chieri (TO) - Parere in
ordine alle modalità applicative della previsione
contenuta nell’art. 14, co. 27 e segg., del d.l.
31.05.2010, n. 78, conv. dalla legge 30.07.2010, n.
122, recante “Misure urgenti in materia di
stabilizzazione finanziaria e di competitività
economica”, nello specifico al riconoscimento di
posizione organizzativa a più di un dipendente in
relazione alle funzioni svolte in forma associativa
tra più enti.
Il Sindaco del Comune di Riva presso Chieri ha
inoltrato alla Sezione, per il tramite del Consiglio
delle Autonomie Locali del Piemonte, una richiesta
di parere contenente un quesito relativo alla
disciplina dell’esercizio associato di funzioni fra
più Enti locali con riferimento alla possibilità di
riconoscere la posizione organizzativa ed erogare
l’indennità di posizione e la retribuzione di
risultato a più di un dipendente in relazione alle
funzioni svolte in forma associativa tra più enti.
Il richiedente ha precisato che il Comune ha
popolazione inferiore ai 5.000 abitanti e che in
base alle previsioni contenute nell’art. 14, co. 27,
del d.l. n. 78 del 2010 “intende sottoscrivere
con uno o più Comuni limitrofi entro il prossimo 31
dicembre una convenzione per l’esercizio in forma
associata di almeno tre funzioni fondamentali”.
Ha aggiunto che le funzioni che dovranno formare
oggetto dell’accordo associativo “sono
attualmente attribuite, all’interno di ciascun
Comune interessato, ad apposite Aree o Servizi al
cui vertice è posto un Responsabile di Servizio
individuato ai sensi dell’art. 109, comma 2, D.Lgs.
267/2000” e che a detto Responsabile, in base
alle previsioni della contrattazione collettiva,
compete l’indennità di posizione e la retribuzione
di risultato.
Svolta questa premessa, il Sindaco
del Comune di Riva presso Chieri ha domandato alla
Sezione se possa ritenersi “contabilmente
corretto, dopo aver provveduto ad individuare al
vertice di ogni singola funzione gestita in forma
associata un unico Responsabile di servizio,
continuare a riconoscere, per una o più funzioni di
particolare complessità, la posizione organizzativa
e conseguentemente la retribuzione di posizione e di
risultato oltre che al Responsabile del servizio
così come sopra individuato anche ad altro
dipendente del medesimo servizio svolto in forma
associata, di categoria D cui siano affidati compiti
organizzativi complessi, caratterizzati da un
elevato grado di autonomia gestionale ed
organizzativa”.
Ha chiesto, altresì, se, in caso di risposta
positiva al precedente quesito, la somma delle due
indennità di posizione “non potrebbe risultare
superiore alla somma delle due precedenti
retribuzioni di posizione riconosciute ai
Responsabili del servizio dai singoli Comuni prima
del convenzionamento della funzione”.
...
In base all’art.
14, co. 27 e segg. del d.l. 31.05.2010, n. 78, conv.
dalla legge 30.07.2010, n. 122, come modificata ed
integrata dall’art. 19 del d.l. 06.07.2012, n. 95,
conv. dalla legge 07.08.2012, n. 135, recante “Disposizioni
urgenti per la revisione della spesa pubblica con
invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di
rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore
bancario”, i Comuni con popolazione inferiore ai
5.000 abitanti sono tenuti ad esercitare “obbligatoriamente,
in forma associata, mediante unione di comuni o
convenzione, le funzioni fondamentali dei comuni di
cui al comma 27, ad esclusione della lettera l)”
(art. 27, co. 28).
Il legislatore ha indicato l’obiettivo
dell’esercizio associato delle funzioni, da
raggiungere progressivamente, ma non ha fornito
indicazioni in merito alle conseguenze che questo
potrà avere sia sull’organizzazione dei singoli enti
che sulla gestione dei rapporti di lavoro dei
dipendenti.
E’ indubbio che lo scopo perseguito
con la previsione contenuta nei commi 27 e segg. del
citato art. 14 del d.l. n. 78, conv. dalla legge n.
122 del 2010 è quello di migliorare l’organizzazione
degli Enti interessati al fine di fornire servizi
più adeguati sia ai cittadini che alle imprese,
nell’osservanza dei principi di economicità,
efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa.
Spetta, quindi, agli Enti interessati dalla
procedura di aggregazione delle funzioni individuare
le modalità organizzative ottimali al fine di
raggiungere gli obiettivi di maggior efficienza,
razionalizzazione e risparmio che il legislatore
intendeva conseguire prevedendo l’esercizio
associato delle funzioni.
Con specifico riguardo alla concreta organizzazione
di ciascuna funzione, è evidente
che gli Enti interessati dall’aggregazione debbano
unificare gli uffici e, a seconda delle attività che
in concreto caratterizzano la funzione, prevedere la
responsabilità del servizio in capo ad un unico
soggetto che disponga dei necessari poteri
organizzativi e gestionali, nominato secondo le
indicazioni contenute nell’art. 109 del TUEL.
L’atto costitutivo dell’Unione o la
convenzione predisposta per la gestione associata
dei servizi dovrà prevedere le modalità di nomina
dei Responsabili dei servizi e ciascun Ente dovrà
adeguare il proprio Regolamento degli Uffici e dei
servizi per poter procedere allo svolgimento
associato delle funzioni.
Nella predisposizione del modello organizzativo gli
Enti interessati dovranno tenere conto degli
obiettivi di finanza pubblica sottesi al citato art.
14, co. 27 e segg., del d.l. n. 78 del 2010, come
modificato ed integrata dall’art. 19 del d.l.
06.07.2012, n. 95, conv. dalla legge 07.08.2012, n.
135, e dovranno, quindi, evitare di adottare
soluzioni organizzative che, di fatto, si pongano in
contrasto con le finalità, anche di risparmio di
spesa, perseguite dal legislatore e che, nella
sostanza, mantengano l’organizzazione precedente.
L’esercizio unificato della funzione implica che sia
ripensata ed organizzata ciascuna attività, cosicché
ciascun compito che caratterizza la funzione sia
considerato in modo unitario e non quale sommatoria
di più attività simili.
Lo svolgimento unitario di ciascuna funzione non
implica necessariamente che la stessa debba far capo
ad un unico ufficio in un solo Comune, potendosi
ritenere, in relazione ad alcune funzioni, che sia
possibile il mantenimento di più uffici in Enti
diversi. Ma anche in questi casi l’unitarietà della
funzione comporta che la stessa sia espressione di
un disegno unitario guidato e coordinato da un
Responsabile, senza potersi escludere, in linea di
principio, che specifici compiti ed attività siano
demandati ad altri dipendenti.
Spetta agli Enti interessati disegnare, in concreto,
la nuova organizzazione delle funzioni, adottando un
modello che non si riveli elusivo degli intenti di
riduzione della spesa, efficacia, efficienza ed
economicità perseguiti dal legislatore (come si
evince espressamente dal co. 30 del citato art. 14
del d.l. n. 78), non essendo sufficiente che il
nuovo modello organizzativo non preveda costi
superiori alla fase precedente nella quale ciascuna
funzione era svolta singolarmente da ogni Ente.
In proposito, una soluzione che
lasciasse intravedere un’unificazione solo formale
delle attività rientranti in ciascuna funzione e
che, di fatto, permettesse a ciascun Ente di
continuare a svolgere con la sua organizzazione ed
ai medesimi costi i compiti inerenti alla funzione
non risponderebbe all’obbligo previsto dall’art. 14,
co. 27 e segg., del d.l. 31.05.2010, n. 78, conv.
dalla legge 30.07.2010, n. 122, come modificato e
integrato dal citato art. 19 del d.l. n. 95, conv.
dalla legge n. 135 del 2012
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 30.08.2012 n. 287).
---------------
Un solo responsabile per le
attività in «alleanza».
Importante parere sulle gestioni associate quello
fornito dalla Corte dei conti sezione regionale di
controllo per il Piemonte anche per le ripercussioni
sulla organizzazione del personale.
Il
parere 30.08.2012 n. 287
delinea i principi organizzativi e i vincoli anche
contabili cui i Comuni dovranno attenersi in ordine
al personale destinato alla gestione in forma
associata.
Un parere che sostanzialmente si inserisce nel vuoto
normativo che caratterizza questa materia atteso che
gli attuali contratti del personale degli enti
locali disciplinano solo con poche disposizioni le
figure dell'unione e delle convenzioni e dei
rapporti di lavoro inerenti. La Corte dei conti
sottolinea che spetta agli enti interessati dalla
procedura di aggregazione individuare le modalità
organizzative ottimali al fine di raggiungere gli
obiettivi di maggior efficienza, razionalizzazione e
risparmio che il legislatore intendeva conseguire
con l'associazione.
Per i giudici contabili gli enti interessati
dall'aggregazione debbono unificare gli uffici e, a
seconda delle attività che in concreto
caratterizzano la funzione, prevedere la
responsabilità del servizio in capo ad un unico
soggetto che disponga dei necessari poteri
organizzativi e gestionali, nominato secondo le
indicazioni contenute nell'articolo 109 del Testo
unico enti locali.
Questo significa che se due o più enti si associano
per gestire la funzione sociale o amministrativa,
soltanto un dipendente dei due Comuni potrà assumere
le funzioni di responsabile di servizio e usufruire
del relativo trattamento economico.
L'atto costitutivo dell'unione o la convenzione
predisposta per la gestione associata dei servizi
dovrà prevedere le modalità di nomina dei
responsabili dei servizi e ciascun ente dovrà
adeguare il proprio regolamento di uffici e servizi
per poter procedere allo svolgimento associato.
Ai fini contabili, poi, il parere precisa che nella
predisposizione del modello organizzativo gli enti
interessati dovranno tenere conto degli obiettivi di
finanza pubblica sottesi all'articolo 14, commi 27 e
seguenti, del Dl 78/2010, e dovranno, quindi,
evitare di adottare soluzioni organizzative che, di
fatto, si pongano in contrasto con le finalità,
anche di risparmio di spesa, perseguite dal
legislatore e che, nella sostanza, mantengano
l'organizzazione precedente.
L'esercizio unificato della funzione implica che sia
ripensata e organizzata ciascuna attività, cosicché
ciascun compito sia considerato in modo unitario e
non quale sommatoria di più attività simili.
Lo svolgimento unitario di ciascuna funzione non
implica necessariamente che la stessa debba far capo
ad un unico ufficio in un solo Comune, potendosi
ritenere, in relazione ad alcune funzioni, che sia
possibile il mantenimento di più uffici in enti
diversi. Ma anche in questi casi l'unitarietà della
funzione comporta che la stessa sia espressione di
un disegno unitario guidato e coordinato da un
responsabile, senza potersi escludere, in linea di
principio, che specifici compiti ed attività siano
demandati ad altri dipendenti.
Spetta agli enti interessati disegnare, in concreto,
la nuova organizzazione delle funzioni, adottando un
modello che non si riveli elusivo degli intenti di
riduzione della spesa, e degli obiettivi di
efficacia, efficienza ed economicità perseguiti dal
legislatore (come si evince espressamente dal comma
30 dell'articolo 14 del Dl 78), non essendo
sufficiente che il nuovo modello organizzativo non
preveda costi superiori alla fase precedente nella
quale ciascuna funzione era svolta singolarmente da
ogni ente.
In proposito, una soluzione che lasci intravedere
un'unificazione solo formale delle attività
rientranti in ciascuna funzione e che, di fatto,
permetta a ciascun ente di continuare a svolgere con
la propria organizzazione e agli stessi costi i
compiti inerenti alla funzione non risponderebbe
all'obbligo previsto dalla legge (articolo
Il Sole 24 Ore del 24.09.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA
PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
T. Millefiori,
Il regime edilizio delle opere pubbliche e la totale
soggezione delle infrastrutture regionali e sub-regionali ai
poteri (di pianificazione, di accertamento di conformità, di
vigilanza sull’uso del territorio e sanzionatori) comunali
(link a www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
M. Tagliaferro,
Attività di ricerca di idrocarburi e principio di
precauzione (nota a TAR Lecce n. 1341/2011) (link a
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
L. Ramacci,
Il «disastro ambientale» nella giurisprudenza di legittimità
(link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
A. Milone,
VIA e AIA delle centrali termoelettriche: un’interessante
sentenza (nota a TAR Lazio n. 5327/2012) (link a
www.lexambiente.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
N. Morrone e A. La Mendola,
Mancato invio del certificato medico e licenziamento
(link a www.ipsoa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
S. Maglia,
In caso di contaminazioni pregresse è possibile imporre
all’attuale proprietario la bonifica dell’area? (link a
www.tuttoambiente.it). |
QUESITI &
PARERI |
APPALTI:
Appalti pubblici. Responsabilità del committente.
Domanda
Il committente di
un appalto è sempre responsabile in caso di infortunio
durante l'esecuzione dei lavori?
Risposta
Con riguardo ai lavori svolti in esecuzione di un contratto
di appalto o di prestazione d'opera, il dovere di sicurezza
grava, oltre che sull'affidatario dell'opera, anche in capo
al committente, con conseguente possibilità che questi, in
caso di infortunio, possa esserne riconosciuto responsabile.
Tale principio, tuttavia, non va applicato automaticamente,
dato che non può esigersi dal committente un controllo
pressante, continuo e capillare sull'organizzazione e
sull'andamento dei lavori. Per accertare la responsabilità
del committente, pertanto, va approfondito l'esame della
situazione concreta, tenendo conto della specificità dei
lavori da eseguire, dell'effettiva capacità tecnica e
professionale dell'affidatario dell'opera, della eventuale
ingerenza del committente nella esecuzione dei lavori nonché
del grado di percepibilità della situazione di pericolo (25.09.2012
- tratto da www.ipsoa.it). |
UTILITA' |
SICUREZZA
LAVORO: Sicurezza
nei cantieri e nei luoghi di lavoro: ecco le risposte più
interessanti alle domande più frequenti.
1. Qual è la differenza tra DUVRI e POS?
2. Con quale frequenza gli RSPP devono fare i corsi di
aggiornamento?
3. Un proprietario che non rimuove la copertura di eternit
del suo capannone deve comunicarlo al comune?
4. Ai sensi del Decreto 81/2008 chi è il datore di lavoro?
Il Condominio o l’amministratore condominiale pro-tempore?
La risposta a queste e molte altre domande è contenuta nella
pubblicazione “Quesiti sulla sicurezza nei luoghi di
lavoro”, aggiornata a luglio 2012, a cura del servizio
“Info.Sicuri” della Regione Piemonte.
Il documento, rivolto ai datori di lavoro, responsabili e
addetti alla sicurezza, dirigenti, preposti, professionisti,
lavoratori e loro rappresentanti, contiene una serie di
domande a cui la Regione Piemonte ha fornito utili risposte,
a carattere esclusivamente informativo, sulla normativa a
tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro,
relativamente a:
● Applicazione generale del D.Lgs. 81/2008
●
Luoghi di lavoro, macchine e DPI
●
Sicurezza sui cantieri
●
Segnaletica di sicurezza, movimentazione manuale dei
carichi, videoterminali
●
Agenti fisici, sostanze pericolose, agenti biologici,
protezione da atmosfere esplosive
(27.09.2012 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - VARI: Da
ANCE il vademecum su regime fiscale e IVA per cessioni e
locazioni di immobili.
La Legge 07.08.2012, n. 134 (Decreto Sviluppo) ha introdotto
molte novità anche in materia di regime fiscale delle
operazioni immobiliari di cessione e locazione.
Il regime fiscale, sia in caso di cessione che di locazione,
è applicabile diversamente a seconda della tipologia
d’immobile: “abitazioni” o “fabbricati strumentali”.
In merito l’ANCE ha realizzato un vademecum operativo da
seguire per l’applicabilità dell’IVA nelle operazioni di
cessione e locazione di immobili distinti tra abitazioni e
fabbricati strumentali.
Nel documento, inoltre, vengono trattati i seguenti aspetti:
►
il regime dell’inversione contabile per cessioni di
fabbricati abitativi
►
il regime dell’inversione contabile per cessioni di
fabbricati strumentali
►
il regime IVA per cessioni ad immobili pertinenziali ad
abitazioni
(27.09.2012 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Come
adeguare le strutture alberghiere alla normativa
antincendio? Arriva il Vademecum dei VV.F..
Le strutture turistico-alberghiere esistenti con oltre 25
posti letto non ancora conformi alla normativa di
prevenzione incendi possono adeguarsi in base al Piano
Straordinario biennale di Adeguamento, ai sensi del Decreto
del 16.03.2012.
Il termine per realizzare gli interventi di adeguamento,
dopo diverse proroghe, è stato fissato al 31.12.2013.
Il Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco ha realizzato un
vademecum per la presentazione delle domande di accesso al
piano di adeguamento che gli enti e i privati responsabili
devono presentare al Comando provinciale dei Vigili del
Fuoco entro il 31.10.2012.
Obiettivo del documento è quello di definire l’iter
procedurale e i lavori di adeguamento delle strutture
alberghiere ai fini della sicurezza antincendio; sono
definiti i tempi e la modulistica specifica per l’ammissione
al piano e fornite indicazioni sugli altri documenti da
presentare
(27.09.2012 - link a www.acca.it). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: Nuovo regolamento per l’utilizzo delle terre e
rocce da scavo (ANCE di Bergamo,
circolare 25.09.2012 n. 236). |
VARI: Agevolazioni
fiscali per i professionisti: opportunità di deduzione delle
spese per formazione professionale e utilizzo promiscuo
della residenza.
Il professionista che sostiene spese per
l’aggiornamento e la formazione professionale continua può
dedurre dal proprio reddito il 50% degli importi.
Lo ha chiarito l’Agenzia delle Entrate, con
circolare 20.09.2012 n. 35/E: in particolare, in base a
quanto previsto dal D.P.R. 917/1986 (Testo Unico delle
Imposte sui Redditi) è possibile dedurre dal reddito da
lavoro autonomo il 50% delle spese sostenute per la
partecipazione a corsi di aggiornamento professionale,
incluse quelle di viaggio e soggiorno.
Inoltre, se il professionista utilizza la propria abitazione
anche come studio professionale, ossia per lo svolgimento
dell’attività lavorativa, può dedurre il 50% della rendita
catastale.
La Circolare chiarisce, inoltre, una serie di questioni
circa i redditi di impresa, redditi di lavoro, le operazioni
IVA e le operazioni con soggetti residenti in paesi “Black
List”
(27.09.2012 - tratto da www.acca.it). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI: Non sfugge ai tagli
l'anniversario dell'ente.
Deliberazione della Corte dei conti della Lombardia.
Le spese collegate alla celebrazione dell'anniversario
storico del comune non possono essere escluse di per sé dai
tagli imposti dal legislatore con l'articolo 6, comma 8,
della legge n. 122/2010, alle più generali spese di
rappresentanza e per relazioni pubbliche. Infatti, dovrà
essere l'ente a mettere in pratica un'attenta valutazione
sulla natura di tali spese e operare secondo principi di
sana gestione.
Lo ha messo nero su bianco la sezione
regionale di controllo della Corte dei conti per la
Lombardia, nel testo del
parere
14.09.2012 n. 398.
Come noto, la
disposizione sopra richiamata, nell'ottica di un generale
contenimento delle spese della pubblica amministrazione, ha
sancito che dal 2011 le pubbliche amministrazioni non
possono effettuare spese per relazioni pubbliche, convegni,
mostre, pubblicità e di rappresentanza, per un ammontare
superiore al 20% della spesa sostenuta nel 2009 per le
stesse finalità.
Sul versante della «rappresentanza», la
Corte ha rilevato che queste sono da intendersi tutte le
attività che, garantendo «una proiezione esterna
dell'amministrazione verso la collettività», portano
vantaggi all'ente che lo stesso trae dall'essere conosciuto.
Allo stesso modo, la nozione di relazioni pubbliche
comprende tutte quelle attività di comunicazione il cui
obiettivo è quello di sviluppare le relazioni dell'ente. Nel
caso specifico, la previsione voluta dal comune istante di
escludere da tali parametri (e quindi dalle limitazioni
legislative) le spese per la celebrazione dell'anniversario
storico dell'ente stesso, non può essere «ex se» condivisa.
Infatti, le possibili esclusioni dalle disposizioni
richiamate sono state individuate dal legislatore (per
esempio, con riferimento ai convegni organizzati dalle
università o alle feste nazionali previste dalla legge).
Pertanto, ha concluso il collegio, spetta sempre all'ente
valutare se il programma di interventi finalizzati al
«compleanno» del comune, rientri nell'alveo normativo delle
spese individuate dal legislatore nel citato art. 6, comma 8,
della Legge n. 122/2010.
Infatti, è evidente che la ratio della disposizione è
quella di contenere gli oneri finanziari degli enti, al fine
di salvaguardarne gli equilibri di bilancio, ma non
certamente quello di limitarne comunque le azioni, a
prescindere dal loro impatto finanziario sul bilancio
dell'ente stesso
(articolo ItaliaOggi del 25.09.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Sulla responsabilità attribuita al Segretario comunale per
il rimborso di spese di missione sostenute dal Sindaco.
Il
Collegio intende affermare i seguenti principi generali, in
applicazione dei quali –sulla base della specifica
contestazione della Procura– è stata assunta la decisione:
a) il Sindaco, quale figura istituzionale di vertice, non è
tenuto a conseguire una previa autorizzazione prima di
effettuare missioni;
b) la disciplina delle missioni sindacali può esser
contenuta nei regolamenti comunali;
c) il Sindaco ha ampia discrezionalità nella determinazione
di effettuare le missioni stesse e tale discrezionalità, di
per sé insindacabile, incontra il limite della razionalità e
dell’oggettivo perseguimento di un interesse pubblico
specifico, direttamente correlato con le finalità
istituzionali dell’Ente e della rappresentatività della
comunità di riferimento;
d) l’ampia discrezionalità nel disporre le proprie missioni
determina per il Sindaco l’onere particolarmente
“stringente” di documentare in modo compiuto le spese per le
quali chieda il rimborso;
e) in via di principio, lo smarrimento della documentazione
produce gli stessi effetti della mancanza di documentazione
( a meno che lo smarrimento sia giustificato da comprovate
ragioni di forza maggiore);
f) solo in via eccezionale –come in fattispecie– la carenza
di documentazione fa conservare il diritto al rimborso,
quando cioè gli elementi fattuali che determinano il
rimborso stesso siano oggettivamente e certamente desumibili
aliunde (Corte
dei Conti, Sez. giurisdiz. Umbria,
sentenza 10.09.2012 n. 97 -
link a www.corteconti.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
In materia di applicabilità dell'esenzione dal contributo
di costruzione prevista dall'art. 17, comma 3, lett. c) del
D.P.R. 06/06/2001 n. 380 per la realizzazione di chiese da
parte di parrocchie o enti ecclesiastici e delle eventuali
pertinenze quali ostelli, oratori o campi da gioco.
Il Comune per poter addivenire
all’esonero dal contributo di costruzione deve verificare,
secondo i parametri forniti dalla giurisprudenza, la
sussistenza di entrambi i requisiti soggettivo ed oggettivo
indicati dall'art. 17, comma 3, lett. c), dpr 380/2001
considerando sia le finalità di interesse generale
perseguite con la realizzazione di una chiesa e delle
eventuali pertinenze sia la natura degli enti esecutori
delle predette opere (parrocchia o enti ecclesiastici).
L’art. 17, comma 3, lett. c),
del D.P.R. 06/06/2001 n. 380 recante il testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia, prevede che il contributo di costruzione non è
dovuto per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche
o di interesse generale realizzate dagli enti
istituzionalmente competenti nonché per le opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici.
La prima parte della norma per consentire l’esonero dal
contributo di costruzione richiede la contemporanea presenza
di due requisiti: uno oggettivo attinente alla realizzazione
di opere pubbliche o di interesse generale ed uno soggettivo
poiché le opere devono essere realizzate da enti
istituzionalmente competenti.
Il Consiglio di Stato, con sentenza del 10/05/2005 n. 2226,
ha evidenziato che il fine dell'applicazione della norma,
fondata dunque sul presupposto oggettivo della natura delle
opere e su quello soggettivo della qualità dell'ente
realizzatore, è chiaramente quello di assicurare una
ricaduta del beneficio dello sgravio a vantaggio della
collettività, nel senso che la gratuità della concessione si
traduce in un abbattimento dei costi, a cui corrisponde, in
definitiva, un minore aggravio di oneri per il contribuente.
Le opere per cui può ipotizzarsi lo sgravio dagli oneri
concessori devono, dunque, rivelare innanzitutto un
carattere direttamente satisfattivo dell'interesse della
collettività, di per se stesse -poiché destinate ad uso
pubblico o collettivo- o in quanto strumentali rispetto ad
opere del genere anzidetto, o comunque perché immediatamente
collegate con le funzioni di pubblico servizio espletate
dall'ente.
Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, il
requisito c.d. soggettivo necessario per accordare
l'esenzione dal contributo sussiste non solo nel caso in cui
l'opera sia realizzata direttamente da un ente pubblico
nell'esercizio delle proprie competenze istituzionali, ma
anche nel caso in cui l'opus venga realizzato da un soggetto
privato, purché per conto di un ente pubblico come nel caso
della concessione di opera pubblica o in altre analoghe
figure organizzatorie in cui l'opera sia realizzata da
soggetti che non agiscano per scopo di lucro, o che
accompagnino tale lucro ad un legame istituzionale con
l'azione dell'Amministrazione volta alla cura di interessi
pubblici (Cons. Stato 09/09/2008 n. 4296, 12/07/2005 n.
3744).
Nella nozione di ente istituzionalmente competente alla
realizzazione di un’opera pubblica o di interesse generale
devono ritenersi comprese anche le fondazioni che intendono
costruire istituti di cura o di ricerca sanitaria (Cons.
Stato 06/12/2007 n. 6237).
La Sezione Regionale di Controllo per la Lombardia, con
parere
09.10.2009 n. 783, accogliendo
un’interpretazione evolutiva e teleologicamente orientata
del concetto di “ente istituzionalmente competente” previsto
all'art. 17 del D.P.R. n. 380/2001 (anche al di là delle
figure dei concessionari), ha ritenuto che la realizzazione
di opere di riqualificazione di una casa di riposo esistente
sul territorio comunale gestita da una fondazione onlus
rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 17, comma 3,
lett. c), del D.P.R. n. 380/2001.
Peraltro, con la gratuità si è inteso incentivare solo la
dotazione di quelle infrastrutture che danno ordinata e
coerente attuazione alle previsioni urbanistiche
espressamente previste dall'Autorità comunale; l'esenzione
dal contributo concessorio sussiste anche in presenza di
opere classificabili di urbanizzazione e realizzate anche da
privati, ma a condizione che ciò sia avvenuto in attuazione
di quanto previsto dallo strumento urbanistico (Cons. Stato
12/05/2011 n. 2870).
Pertanto, il Comune per poter addivenire all’esonero dal
contributo di costruzione deve verificare, secondo i
parametri forniti dalla giurisprudenza, la sussistenza di
entrambi i requisiti soggettivo ed oggettivo indicati dalla
norma considerando sia le finalità di interesse generale
perseguite con la realizzazione di una chiesa e delle
eventuali pertinenze sia la natura degli enti esecutori
delle predette opere (parrocchia o enti ecclesiastici)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 16.01.2012 n. 3). |
AUTORITA'
VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI |
LAVORI PUBBLICI:
Progetti, comanda uno solo. Illegittimo ogni
ausilio esterno agli uffici tecnici.
L'Autorità di vigilanza sui lavori pubblici boccia i
consulenti alla progettazione.
È illegittimo affidare come supporti
agli uffici tecnici delle stazioni appaltanti incarichi di
ausilio alla progettazione; la responsabilità progettuale
deve fare capo ad un unico centro decisionale; è ammissibile
soltanto il supporto per il controllo e la vigilanza sulla
progettazione.
È quanto afferma l'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici, con la
deliberazione 01.08.2012 n. 80 (relatore Luciano
Berarducci), resa nota in questi giorni, che solleva il
problema della compatibilità di una prassi, piuttosto
invalsa nelle stazioni appaltanti, di considerare «supporti»
agli uffici tecnici quelli che in realtà sarebbero veri e
propri appalti di servizi di ingegneria e architettura.
Questa prassi risulta strumentale alla definizione di un
importo stimato dell'appalto ben inferiore a quello che
risulterebbe in base alle tariffe (in attesa che a breve sia
emanato il nuovo decreto del Ministero della giustizia, di
concerto con il ministero delle infrastrutture); in questo
caso però l'Autorità censura il comportamento della stazione
appaltante esclusivamente sul punto della qualificazione
delle attività, tralasciando l'aspetto economico della
vicenda.
Il caso sul quale si è pronunciata l'Autorità di via di
Ripetta presieduta da Sergio Santoro, riguardava un
affidamento di «servizi di consulenza specialistica di
supporto all'Ufficio Tecnico» di importo superiore a 220
mila euro affidati a fine 2011, sul quale si era già aperto
un «precontenzioso» da parte di un concorrente che
era stato escluso dalla gara. In particolare l'Autorità ha
esaminato nel dettaglio le prestazioni oggetto, la
descrizione dell'oggetto dell'affidamento («servizi di
consulenza specialistica per la redazione di un progetto
definitivo delle opere civili e di distribuzione irrigua,
con previsione della progettazione delle opere civili di
compenso e opere elettromagnetiche») per giungere alla
conclusione che «l'affidamento in questione richiede
espressamente attività inquadrabili come servizi tecnici di
progettazione».
Ciò premesso, l'Autorità afferma l'illegittimità del
comportamento della stazione appaltante che, qualificando in
tale modo le prestazioni, si è posta in violazione della
determinazione 27.07.2010 n. 5 (Linee guida per
l'affidamento dei servizi di Architettura e ingegneria). Le
linee guida avevano infatti chiarito che nel nostro
ordinamento non è prevista la «consulenza» di ausilio
alla progettazione di opere pubbliche. La ragione di ciò
risiede nel fatto, dice l'Autorità, che la responsabilità
della progettazione deve potersi ricondurre ad un unico
centro decisionale, ossia il progettista, e la
responsabilità di quest'ultimo rimane impregiudicata quando
è fatto divieto di avvalersi del subappalto.
Inoltre l'organismo di vigilanza precisa in maniera netta
che la consulenza alla progettazione non appare
riconducibile alle attività a supporto del responsabile
unico del procedimento, essendo diversi i compiti di
quest'ultimo. Infatti, si legge nella delibera, al
responsabile unico del procedimento è affidata la
responsabilità, la vigilanza e i compiti di coordinamento
sull'intero ciclo dell'appalto (progettazione, affidamento,
esecuzione), alla stregua di un vero e proprio project
manager.
In sostanza per la legge il Rup dovrebbe occuparsi di
assicurare che l'appalto sia condotto in modo unitario, in
relazione ai tempi ed ai costi preventivati. Per quel che
attiene alla specifica attività progettuale, il responsabile
del procedimento è tenuto a redigere il documento
preliminare alla progettazione e a coordinare le attività
necessarie alla redazione del progetto preliminare
definitivo ed esecutivo. In tale ottica l'unico ausilio che
i soggetti esterni alla stazione appaltante (selezionati con
procedure di evidenza pubblica) possono fornire riguarda il
supporto inerente le attività di coordinamento e vigilanza
sulla progettazione, «fermo rimanendo che la
progettazione è compito di esclusiva competenza del
progettista».
Pertanto, il bando di gara, qualificato come un affidamento
di servizi di consulenza specialistica e avente ad oggetto
anche servizi di progettazione, non è stato ritenuto
conforme al dlgs 163/2006
(articolo ItaliaOggi del 25.09.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: Procedura aperta per la gestione di
servizi al pubblico in un centro culturale.
Contratti della p.a. - Affidamento misto - Locazione
immobile commerciale comunale - Illegittimità -
Concessione di servizi aggiuntivi - Applicazione delle
regole del Codice Appalti - Valore dell'Appalto - Forme di
Pubblicità sulla GUCE.
La locazione di un immobile pubblico ad uso commerciale deve
qualificarsi come un contratto di concessione, per cui per
la scelta del contraente, la stazione appaltante deve
rispettare le regole dell'evidenza pubblica contenute nel
Codice degli appalti. Di conseguenza, anche l'importo del
relativo affidamento deve essere calcolato sulla base del
fatturato presunto previsto per la gestione e le relative
forme di pubblicità devono essere conformi a quanto
stabilito a livello comunitario.
Il caso
La deliberazione dell'Autorità di vigilanza trae origine da
una procedura di aggiudicazione di un contratto di locazione
di un immobile pubblico adibito a bar caffetteria
nell'ambito di un Centro culturale Comunale, composto da un
auditorium, una biblioteca e da altri siti culturali.
Il segnalante, oltre alla sussistenza di diverse criticità
nella lex di gara rispetto alla durata dell'affidamento,
alle modalità prescritte per il rilascio della cauzione, ai
criteri di valutazione delle offerte, ha contestato in
primis la tipologia contrattuale utilizzata dalla stazione
appaltante. Infatti, il bando riguardava la scelta del
conduttore di un immobile appartenente al patrimonio
indisponibile dell'ente che, secondo il segnalante, invece,
avrebbe dovuto essere assegnato in forza di provvedimento
concessorio.
La stazione appaltante, al contrario, avendo ritenuto che
nel caso in specie prevalesse la causa di locazione rispetto
a quella di concessione di servizi, aveva ricondotto la
fattispecie nell'ambito della legge n. 392 del 1978
"Disciplina delle locazioni degli immobili urbani", facendo
riferimento, per la valutazione del relativo canone, ai
valori reperiti presso l'Agenzia del Territorio. Tale
diversa qualificazione del rapporto aveva inciso anche sul
valore dell'affidamento, calcolato considerando il solo
canone di locazione dovuto dal conduttore, e non i ricavi
derivanti dalla gestione dell'esercizio commerciale.
Ulteriore conseguenza derivante da una non corretta
determinazione del valore dell'affidamento era stata, sempre
secondo il segnalante, la mancata conformazione agli oneri
di pubblicazione e a quelli di contribuzione nei riguardi
della stessa Autorità.
La decisione
L'Autorità di vigilanza ha ritenuto che la fattispecie in
questione fosse riconducibile a quella dei servizi
aggiuntivi museali istituiti dall'art. 4 del d.l. n. 433 del
1992 (convertito in legge n. 4 del 1993, c.d. legge
Ronchey). Si tratta di servizi di assistenza agli utenti dei
siti culturali o museali, in servizi editoriali, nella
vendita di riproduzioni di beni culturali, nella
realizzazione di materiale informativo, beni librari
archivistici, ma anche di servizi di caffetteria e
ristorazione. L'Autorità ha altresì rammentato che l'art.
117 del codice dei beni culturali definisce tutte queste
attività "servizi per il pubblico" e ne consente la
gestione, oltre che in forma diretta, anche tramite
concessione a terzi, scelti mediante procedure di evidenza
pubblica. Quanto all'ambito di applicazione della
disposizione, l'art. 117 citato si applica agli istituti e
ai luoghi della cultura indicati all'articolo 101, ossia
quelli che appartengono a soggetti pubblici e sono destinati
alla pubblica fruizione ed espletano un servizio pubblico;
nella definizione rientrano i musei, gli archivi, le aree e
i parchi archeologici, i complessi monumentali, ma anche le
biblioteche.
L'Autorità ha dunque concluso che, diversamente da quanto
sostenuto dal Comune, la stipula del contratto di locazione
in realtà celasse un vero e proprio contratto di concessione
di un servizio bar caffetteria all'interno di complessi
immobiliari destinati ad attività culturali. Nel caso in
specie, pertanto, il servizio, e non la locazione, avrebbe
dovuto assumere carattere preminente dal punto di vista
economico e il relativo rapporto contrattuale avrebbe dovuto
essere qualificato in termini di concessione ai sensi
dell'art. 30 del Codice dei contratti.
L'Autorità ha poi chiarito che la stazione appaltante
avrebbe dovuto calcolare il valore dell'affidamento nel
rispetto delle regole di cui all'art. 29 del codice dei
contratti, il quale impone di riferirsi al fatturato
presunto derivante dalla gestione del servizio. Sul punto,
l'Autorità infatti aveva già chiarito che il calcolo del
valore stimato degli appalti pubblici e delle concessioni di
lavori o servizi pubblici deve fondarsi "(....) sull'importo
totale pagabile al netto dell'IVA, valutato dalle stazioni
appaltanti. Questo calcolo deve tener conto dell'importo
massimo stimato, ivi compresa qualsiasi forma di opzione o
rinnovo del contratto". Per le concessioni, in particolare,
nella nozione di "importo totale pagabile" deve essere
ricompreso il flusso dei corrispettivi pagati dagli utenti
per i servizi in concessione.
L'Autorità, infine, ha osservato come la mancata indicazione
del valore stimato dell'affidamento probabilmente aveva reso
più difficoltosa per le imprese interessate la formulazione
di un offerta economica consapevole e che l'erronea
indicazione del valore del contratto aveva determinato la
mancata assicurazione di un adeguato livello di pubblicità,
che per le concessioni di servizi di importo superiore alle
soglie comunitarie, consiste nella pubblicazione del
relativo avviso sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea
(commento tratto da www.diritto24.ilsole24ore.com -
deliberazione 01.08.2012 n. 75 - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
LAVORI PUBBLICI: Appalti integrati in libertà.
Sì all'impresa che non attesta i requisiti dello staff.
Il parere dell'Autorità di vigilanza in
contraddizione con la normativa.
L'impresa di costruzioni può partecipare a una gara per
appalto integrato (di progettazione e costruzione) senza
documentare i requisiti progettuali del proprio staff
tecnico.
È quanto afferma l'Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici nel
parere
25.07.2012 n. 137, che
sta per essere reso noto e di cui ItaliaOggi può anticipare
alcuni contenuti, ma la pronuncia dell'Autorità legittima un
principio palesemente contrario alla normativa vigente.
Infatti sia il Codice, sia il regolamento attuativo
impongono alle imprese attestate per progettazione e
costruzione di documentare i requisiti progettuali (di
capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa),
come peraltro la stessa Autorità aveva avuto modo di
precisare nella determinazione 5/2010 sulle linee guida per
i servizi di ingegneria e architettura.
La vicenda riguarda l'affidamento di un appalto integrato
(di progettazione esecutiva e costruzione) per il quale il
disciplinare di gara prevedeva due possibili modalità di
partecipazione: la produzione dell'attestato Soa di
«Qualificazione per prestazione di progettazione e
costruzione», a comprova della disponibilità di un proprio
staff tecnico, oppure il ricorso ad un raggruppamento (con)
o all'individuazione (di) un soggetto tra quelli elencati
all'articolo 90, comma 1, lettere d), e), f), g) e h) del dlgs n. 163/2006; ai soggetti incaricati della progettazione
definitiva ed esecutiva si chiedeva di possedere e
dichiarare, oltre alle qualifiche professionali, l'assenza
di cause di esclusione e i requisiti di ordine generale,
nonché l'iscrizione all'albo professionale.
I requisiti di
carattere economico-finanziario e tecnico-organizzativi
venivano quindi chiesti soltanto ai progettisti indicati e
raggruppati e non all'impresa che aveva l'attestazione per
progettazione e costruzione. Il parere dell'organismo di
vigilanza ritiene legittimo, riferendosi alla sola lex
specialis, il comportamento del raggruppamento di imprese
che avevano dichiarato di essere in possesso della
qualificazione Soa per la prestazione di progettazione e di
costruzione e di partecipare alla progettazione con il
proprio staff tecnico, non facendo alcun riferimento ai suoi
componenti e ai requisiti di carattere generale e
tecnico-finanziario in capo agli stessi.
Per l'Autorità era
quindi tutto regolare perché «il bando di gara non imponeva
ai concorrenti in possesso di idonea attestazione Soa per la
progettazione e costruzione l'obbligo di attestare e
documentare il possesso di ulteriori requisiti (con
indicazione dei progettisti e certificazione delle pregresse
esperienze professionali), ricadendo tale onere documentale
solo sui partecipanti sprovvisti di idonea attestazione Soa».
Il punto è però che la legge dice ben altro e che il parere
dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici sembra
non avere considerato che era proprio la lex specialis della
gara a essere in violazione di legge.
In realtà si tratta di
una doppia violazione, che l'Autorità non ha avuto modo di
vedere: del Codice dei contratti e del regolamento
attuativo. L'articolo 53, comma 3, del Codice (dlgs 163/2006)
prevede che le stazioni appaltanti debbano chiedere (e le
imprese documentarne il possesso) i requisiti progettuali in
ogni caso, sia che si tratti di attestazione Soa per sola
esecuzione, sia per attestazioni Soa di progettazione e
costruzione. D'altro canto sarebbe chiaramente
discriminatorio prevedere solo in un caso (associazione o
indicazione di progettisti) determinate referenze e non
chiederli ai progettisti dell'impresa che possiede uno staff
che potrebbe anche non avere le referenze specifiche per
progettare anche un'opera di rilevante importanza.
Appare curioso che, soprattutto in una fase di tale
complessità normativa, tali considerazioni non siano state
fatte dall'organismo di vigilanza che, viceversa, si è
limitata a verificare la corrispondenza fra gli atti di gara
(illegittimi) e il comportamento del concorrente (peraltro
in quest'ottica corretto)
(articolo ItaliaOggi del 26.09.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Oggetto: Prestazioni professionali svolte nei confronti
delle pubbliche amministrazioni da parte di titolari di
partita I.V.A. - regime introdotto dalla l. n. 92 del 2012
(nota
25.09.2012 n. 38226 di prot.). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Spending
review. Patroni Griffi illustra le regole.
Conto alla rovescia per i tagli nella Pa.
SINDACATI DIVISI/
Sciopero confermato per venerdì prossimo da Cgil, Uil-Fpl,
Uil-Pa e Confsal Contrari Cisl-Fp e Ugl.
È scattato il conto alla rovescia per l'attuazione dei tagli
previsti dalla spending review nelle pubbliche
amministrazioni.
Con l'adozione della
direttiva
24.09.2012 n. 10/2012 ieri da parte del ministero della Pa vengono indicati
alle amministrazioni centrali gli adempimenti e i tempi di
attuazione del piano di riduzione delle dotazioni organiche
dei dirigenti (-20%) e del personale non dirigenziale
(-10%).
Le amministrazioni dovranno rivedere gli assetti
organizzativi razionalizzando le strutture ed eliminando le
sovrapposizioni e le duplicazioni di competenze, per
individuare le eccedenze di personale. Per il ministero
l'operazione «si presenta complessa», la finalità è quella
di «realizzare una revisione razionale della spesa
dell'apparato amministrativo con tagli mirati e non
lineari», ricorrendo «al metodo della compensazione» tra le
amministrazioni.
La gestione dei processi di
rideterminazione della dotazione organica è stata accentrata
presso il Dipartimento della Funzione pubblica che lavorerà
con il ministero dell'Economia e con le amministrazioni
interessate. Il primo step è l'invio delle proposte di
riduzione al Dipartimento, che dovrà avvenire entro due
scadenze: il 28 settembre (enti pubblici e agenzie) e il 4
ottobre (amministrazioni dello Stato). Saranno oggetto di
un'istruttoria da parte del Dipartimento che formulerà una
nuova proposta da adottare con Dpcm entro ottobre.
Con il
passaggio successivo, entro il 31 dicembre, le
amministrazioni dovranno quantificare e comunicare al
Dipartimento il dato del personale in soprannumero, e
predisporre piani per le cessazioni del personale in
servizio fino al 2014. Sono fissate ulteriori scadenze per
avviare i processi di mobilità guidata (31.03.2013), per
la sottoscrizione di contratti di solidarietà (31.05.2013), per la dichiarazione di esubero del personale rimasto
in soprannumero (30.06.2013) e per il monitoraggio dei
posti vacanti presso le amministrazioni (30 settembre).
La direttiva è stata illustrata ai sindacati, convocati ieri
pomeriggio a palazzo Vidoni dal ministro Patroni Griffi. Il
sindacato è diviso: da un lato Fp-Cgil, Uil-Fpl e Uil-Pa e
Confsal confermano lo sciopero di venerdì 28 settembre dei
dipendenti pubblici, giudicando «insensata» la convocazione.
«I temi dell'incontro sono quelli dell'accordo di maggio mai
messo in pratica –affermano –. Dover ridiscuterli dopo aver
raggiunto una sintesi poi fatta a pezzi dalla spending
review ci sembra paradossale». Dall'altro Cisl-Fp e Ugl,
contrarie allo sciopero. «Abbiamo ottenuto l'impegno a
gestire insieme la spending review –commenta Giovanni Faverin (Cisl-Fp)–
e all'invio di due atti di indirizzo all'Aran, sulla
flessibilità in entrata e sulle relazioni sindacali nel
pubblico impiego, che servirà anche per aprire la trattativa
sulle risorse aggiuntive da destinare alla contrattazione
integrativa»
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Direttiva
della funzione pubblica sulla spending review. Per le
agenzie ricognizione entro venerdì. P.a., i tagli in tempi
strettissimi.
Rilevazione e classificazione del personale entro il 4/10.
Spending review, tempi strettissimi per la riduzione degli
organici dello stato. E una direttiva per evitare nuovi casi
di sperpero di denaro pubblico, stile Lazio.
Ieri il
ministro della funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, ha
ufficializzato a ministeri, agenzie ed enti pubblici, fuori
dal parametro d'azione restano le regioni e le autonomie
locali, i tempi e le modalità per rilevare il personale,
classificarlo, rivedere i relativi servizi e realizzare così
i tagli previsti dal decreto legge n. 95/2012, ovvero la
prima spending review del governo Monti: - 20% di dirigenti,
-10% di impiegati.
Per completare la rilevazione, e inviare i moduli a Palazzo
Vidoni, i ministeri hanno tempo fino al 4 ottobre. Per
agenzie ed enti pubblici, i tempi scadono addirittura
venerdì. Ma non è finita: perché, su sollecitazione dei
sindacati, Patroni Griffi si è impegnato a emanare a breve
una direttiva sulla trasparenza: nuovi criteri sulla
compilazione dei bilanci di tutti i soggetti pubblici e
sulla gestione dell'organizzazione del personale, che
consentano di scoprire le magagne su finanziamenti ad
personam e su assunzioni di favore.
La mala gestione,
insomma, che le inchieste giudiziarie stanno portando alla
luce in questi mesi, dal caso Penati in Lombardia al caso
Fiorito nel Lazio. Già, perché è vero che i bilanci sono
pubblici, è il ragionamento, ma sono scritti in maniera tale
da rendere difficile il controllo anche da parte
dell'occhiuta Corte dei conti.
Sul fronte degli impegni
assunti ieri dal ministro verso i sindacati, nel corso di un
vertice sul pubblico impiego, a breve dovrebbe essere dato
mandato all'Aran di rivedere al tavolo negoziale la materia
delle relazioni sindacali e di disciplinare l'armonizzazione
tra pubblico e privato, dopo la riforma Fornero, in materia
di contratti a tempo determinato. Confermano lo sciopero
Cgil, Uil e Confsal, mentre le Cisl prosegue nella linea del
dialogo.
Spending review ed eccezioni.
L'Inps è l'ente pubblico a livello centrale nel quale il
taglio agli organici mieterà più vittime: secondo dati
ancora non ufficiali, sarebbero 4.200 gli esuberi
dell'istituto di previdenza, altri 1.300 all'Inail. Ci sono
però amministrazioni che hanno vacanze di organico: il caso
del ministero dell'istruzione, dove si registrano oltre
1.200 vacanze, ma anche del ministero dell'economia, dove
mancano all'appello 570 dipendenti.
Complessivamente il
taglio sulle amministrazioni ministeriali, secondo una stima
ufficiosa, dovrebbe produrre un esubero di 1.800 unità. Il
ministero ha predisposto i modelli in cui schedare il
personale in servizio. Obiettivo: fare le riduzioni previste
dalla legge entro fine ottobre. A farlo, in base alle
proposte delle singole amministrazioni, sarà la Funzione
pubblica, con un dpcm, che dovrà indicare anche le
compensazioni tra chi ha più esuberi e chi ha vacanze di
organico.
Le riduzioni dei posti dirigenziali del 20% dovrà
essere fatta sia per i livelli generali che di seconda
fascia. Le riduzioni, si legge nella
direttiva
24.09.2012 n. 10/2012,
rappresentano però «il valore minimo che viene richiesto
alla platea dei destinatari, sarebbe apprezzabile
l'eventuale sforzo da parte delle amministrazioni di
operare, al di là di eventuali compensazioni da applicare
nella prevista sede, riduzioni maggiori che siano il
risultato di un effettivo ridisegno dell'organizzazione
operato in relazione a un fabbisogno essenziale».
Sono
esclusi dai tagli scuola e università, ma anche il comparto
sicurezza, e poi ministero dell'economia, agenzie fiscali e
Presidenza del consiglio dei ministri che hanno già operato
i tagli previsti. Tempi più lunghi invece per gli Interni e
gli Esteri. Insomma, il campo di azioni si è notevolmente
ridotto. Per Palazzo Chigi resta in vigore la tagliola
decisa con il dl 95 su tutti gli incarichi dirigenziali
assegnati al personale esterno, privati o di altra
amministrazione, che decadranno allo scoccare del primo
novembre ope legis.
Nuove direttive.
Per superare le contrarietà dei sindacati, il ministro si è
impegnato a un esame congiunto per gestire la spending
review sulle compensazioni e sulla mobilità del personale
che andrà in esubero verso altri comparti, ma anche sulla
formazione necessaria e essere ricollocati.
Annunciati anche
due atti di indirizzo all'Aran per altrettanti contratti
quadro: uno sulla flessibilità in entrata, ovvero
sull'armonizzazione del pubblico impiego con la riforma Fornero sulla durata dei contratti a tempo determinato. Già
oggi, molte amministrazioni non riescono a rinnovare i
contratti che sforano i 36 mesi e, con il blocco delle
assunzioni a tempo indeterminato, si tratta di risorse
imperdibili. «Non ci saranno miracoli sul precariato»,
puntualizza però il ministro mettendo le mani avanti contro
eventuali richieste di stabilizzazioni, «non possiamo
permettercelo».
Un altro atto di indirizzo riguarderà le
relazioni sindacali nel pubblico impiego, da riformare in
anticipo rispetto al prossimo rinnovo del contratto. Che,
con i chiari di luna che ci sono, rischia di non esserci
prima di un triennio. Contro la corruzione nel pubblico
impiego, è stata sollecitata una direttiva che renda
effettivamente chiari bilanci e organizzazione.
Scioperi e attese.
«Lo sciopero è assolutamente confermato», afferma Marco
Paolo Nigi, segretario Snals-Confsal. E spiega Michele
Gentile, responsabile settori pubblici della Cgil: «Le
proposte presentate dal ministro non toccano nessuna delle
ragioni dello sciopero, non si interviene riorganizzando ma
tagliando le dotazioni organiche. Al di là delle soluzioni,
si tagliano i posti disponibili». Per Alberto Civica, Uil
università, si tratta dell'unico modo «per mostrare il
nostro dissenso».
Contraria allo sciopero la Cisl. «Abbiamo
chiesto che il ministro assumesse degli impegni concreti nei
confronti dei lavoratori e del sindacato», spiega il
segretario generale della Cisl Fp, Giovanni Faverin, «la
risposta è stata positiva»
(articolo ItaliaOggi del 26.09.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: Congedo ex art. 42, comma 5 e
ss., del d.lgs. n. 151 del 2001 - personale in regime di
part-time verticale (nota 12.09.2012 n. 36667
di prot.).
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Congedo straordinario riproporzionato se il lavoratore è
part-time. Va calcolato sulla base delle giornate lavorate
La Funzione Pubblica chiarisce che, in caso di personale in
regime di part-time verticale, la durata del congedo
straordinario biennale ex art. 42, commi 5 e segg., D.Lgs. n.
151/2001, va riproporzionata in osservanza della regola
generale per cui il calcolo va effettuato sulla base delle
giornate lavorative del dipendente.
Il Dipartimento della Funzione Pubblica, si è espresso in
merito all’applicazione dell'art. 42, comma 5 e ss., D.Lgs.
n. 151/2001 (congedo straordinario biennale), al personale
dipendente con rapporto di lavoro di part-time verticale.
Il CCNL comparto ministeri del 16.05.2001, integrativo del
CCNL del 16.02.1999, all'art. 23 ha disciplinando la
fruizione dei congedi e permessi per il personale a tempo
parziale ha stabilito che al personale con rapporto di
lavoro a tempo parziale si applicano gli istituti normativi
previsti dal medesimo contratto, in quanto compatibili,
spettanti al personale con rapporto di lavoro a tempo pieno,
tenendo conto della ridotta durata della prestazione.
Il comma 11 del citato art. 23 stabilisce che le ferie, le
festività soppresse e le altre assenze previste dalla legge
e dal contratto nel caso di part-time verticale spettano in
numero proporzionato alle giornate di lavoro prestate nel
corso dell’anno, individuando specifiche deroghe.
Tra queste deroghe non è menzionato il congedo di cui
all'art. 42, commi 5 ss., D.Lgs. n. 151/2001 e, pertanto,
per la Funzione Pubblica, in caso di part-time verticale la
sua durata deve essere riproporzionata in osservanza della
regola generale per cui il calcolo andrà effettuato sulla
base delle giornate lavorative del dipendente per tutto il
periodo in cui il lavoratore presti la propria opera in
regime di part-time. Qualora il dipendente torni a lavorare
a tempo pieno, il periodo di congedo già fruito andrà poi
riproporzionato (rapportandolo alla situazione di rapporto
di lavoro a tempo pieno) e detratto dal complessivo periodo
biennale per conoscere il periodo di congedo residuo, ancora
fruibile dallo stesso.
Per quanto riguarda la rilevanza dei
periodi non lavorativi (ossia dei periodi durante i quali,
in virtù dell'articolazione del part-time verticale la
prestazione non deve essere resa), considerato che in
generale i congedi possono essere fruiti in corrispondenza
dei periodi in cui è dovuta la prestazione, il conteggio
dovrebbe comprendere solo i mesi o le giornate coincidenti
con quelli lavorativi.
Le festività, le domeniche e le giornate del sabato (nel
caso di articolazione dell'orario su 5 giorni alla
settimana) ricadenti nel periodo non lavorativo dovrebbero
essere escluse dal conteggio, con eccezione di quelle
immediatamente antecedenti e seguenti il periodo se al
termine del periodo stesso non si verifica la ripresa del
servizio ovvero se il dipendente ha chiesto la fruizione del
congedo in maniera continuativa (commento tratto da
www.ispoa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Congedi
per assistere disabili in rapporto ai giorni lavorati.
Per i lavoratori in part-time verticale, la durata del
congedo straordinario per assistenza a persone con
disabilità grave, ex art. 42, comma 5 del dlgs n. 151/2001,
va conteggiata in misura proporzionata alle giornate di
lavoro prestate nell'anno, specificando che tale modalità
applicativa continua a verificarsi sin quando perdura la
situazione che l'ha originata, ovvero sino a quando il
dipendente fruisce del part-time verticale.
Lo ha precisato il dipartimento della Funzione pubblica, nel
testo della
nota 12.09.2012 n. 36667
di prot.,
resa nota ieri.
In risposta a una richiesta dell'Agenzia del territorio, la
Funzione pubblica ha rilevato che il Ccnl 16.05.2001 del
Comparto ministeri, che si applica anche alle agenzie
fiscali, ha disciplinato la fruizione di congedi e permessi
per il personale in regime di lavoro parziale.
In linea generale, a tale personale si applicano tutti gli
istituti previsti per il personale in rapporto di lavoro a
tempo pieno, ma tenendo conto della ridotta durata della
prestazione. In particolare, ferie, festività soppresse e
altre assenze spettano a chi è in part-time in misura
proporzionale alle giornate lavorative, tranne alcune
deroghe.
In tali deroghe, ha rilevato la nota di Palazzo Vidoni, non
è menzionato l'articolo 42, comma 5, del dlgs n. 151/2001,
con la conseguenza che in caso di part-time verticale, la
sua durata deve essere riproporzionata nella misura sopra
descritta. Con la precisazione che tale modalità applicativa
deve essere mantenuta sino a quando «perdura la
situazione che l'ha originata» ovvero, sino a quando il
dipendente continua a lavorare a tempo parziale.
Il calcolo, poi, del congedo, ha precisato la nota in esame,
andrà effettuato sulla base delle giornate lavorative del
dipendente per tutto il periodo in cui il lavoratore
mantiene il regime a tempo parziale. Qualora il dipendente
dovesse optare per il ritorno alla prestazione lavorativa a
tempo pieno, la nota chiarisce che il periodo di congedo già
fruito andrà nuovamente «riproporzionato» con le
giornate lavorative a tempo pieno e così detratto dal
complessivo periodo biennale per conoscere quanto ancora
spetta al lavoratore a tale titolo
(articolo ItaliaOggi del 27.09.2012). |
NEWS |
INCARICHI
PROFESSIONALI - PROGETTUALI: Integrativo 4% anche
con le p.a.. La risposta del Lavoro
ai professionisti.
Anche le pubbliche amministrazioni sono tenute a pagare al
professionista il contributo integrativo al 4% e non al 2%.
Questo il senso della risposta fornita dal viceministro al
Lavoro Michel Martone a un'interrogazione proposta alla
camera dal deputato Antonino lo Presti. Un'apertura di
credito nel senso dalla possibilità di applicazione a pieno
titolo anche nel caso delle pubbliche amministrazioni, che
coinvolge e interessa tutti i liberi professionisti iscritti
alle Casse di nuova generazione finora penalizzati da
un'interpretazione in senso contrario del ministero
dell'economia.
La legge «Lo Presti», dal luglio 2011, ha
fornito la possibilità ai liberi professionisti di aumentare
la loro pensione attraverso l'utilizzo di una parte del
contributo integrativo riconosciuto in fattura dal cliente
al momento di liquidare una prestazione professionale. Ma a
una condizione: che il contributo fosse debitamente
aumentato dal 2 al 4%. Questo principio, però, era stato
circoscritto dal ministero dell'economia che metteva al
riparo le pubbliche amministrazioni dal riconoscere la
possibilità di applicare il 4% al posto del 2, coinvolgendo
i professionisti iscritti alle Casse del 103: biologi,
infermieri, psicologi, periti industriali e le quattro
professioni legate alla Cassa pluricategoriale (attuari,
chimici, dottori agronomi e forestali, geologi).
Insomma, il ministero dell'economia introduceva il principio
del doppio binario: quando lavori per un privato, il
contributo integrativo si applica al 4%, quando lavori per
il pubblico, quel contributo resta fermo al 2%. In questo
caso, per i liberi professionisti avrebbe significato niente
possibilità di mettere da parte più denari per la futura
pensione.
Il viceministro Martone, però, ha aperto a una revisione
dell'interpretazione, rispondendo all'interrogazione
parlamentare presentata dallo stesso onorevole Lo Presti
(seduta
20.09.2012 n. 689). Martone ha riconosciuto che
sono intervenuti due fattori che meritano un ripensamento
della lettura limitativa della legge 133/2011: anzitutto
sono stati aboliti i minimi tariffari e, in secondo luogo, è
palese come sia incostituzionale discriminare alcune
categorie professionali rispetto ad altre, spesso coinvolte
in lavori sostanzialmente simili
(articolo ItaliaOggi del 28.09.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
CONDOMINIO: Amministratori, revoca più facile.
Basta una sola firma. Arrivano il registro e l'assicurazione.
Ok della Camera al ddl, ora l'ultimo
sì del Senato. Animali in libertà.
L'amministratore del condominio dovrà avere una polizza di
responsabilità civile e basterà la firma anche di un solo
condomino per chiederne la revoca. L'amministratore dovrà
inoltre iscriversi al registro gestito dall'Agenzia del
territorio e seguire corsi di formazione. Nessun divieto a
chi vuole tenere cani o gatti. Possibilità per il condominio
di aprire un sito Internet dove scambiarsi rendiconti e
delibere, e per il condomino di distaccarsi dal
riscaldamento centralizzato, anche se dovrà continuare a
pagare le spese di manutenzione straordinaria dell'impianto.
Chi acquista è responsabile delle spese condominiali non
pagate alla data del subentro senza limiti.
Sono queste
alcune delle novità del
ddl
C-4041 di riforma del condominio,
approvato ieri dalla Camera in seconda lettura e che adesso
passa al Senato per il sì definitivo.
Riscaldamento. Riprendendo un orientamento della cassazione,
da un lato si consente al singolo condomino di staccarsi
dall'impianto di riscaldamento centralizzato: il presupposto
è che abbia riscontrato un malfunzionamento per un anno e
sempre che li disservizio sia da imputare all'impianto
condominiale; dall'altro lato il singolo condomino dovrà
continuare a partecipare alle spese straordinario
dell'impianto comune.
Animali da compagnia. Il regolamento condominiale non può
porre limiti alle destinazioni d'uso delle unità di
proprietà esclusiva e non può vietare di possedere o
detenere animali da compagnia.
Videosorveglianza. Il garante della privacy più volte ha
sollevato il problema della mancanza di una disposizione
specifica sulla maggioranza relativa all'installazione di
impianti di videosorveglianza sulle parti comuni. La riforma
specifica che basta la maggioranza (articolo 1136, secondo
comma, codice civile) e non ci vuole l'unanimità.
Maggioranze. Viene riscritto articolo 1136 del codice
civile. In prima convocazione per l'approvazione di una
delibera ci vuole il quorum di 2/3 del valore e maggioranza
per teste, e voto favorevole della maggioranza degli
intervenuti e almeno metà del valore dell'edificio. In
seconda convocazione basta, invece, la maggioranza degli
intervenuti con un numero di voti che rappresenti almeno un
terzo del valore dell'edificio.
Amministratore dimezzato. L'amministratore non potrà
accedere nei singoli alloggi per verificare se sono stati
fatti lavoro che mettono in pericolo la sicurezza degli
edifici. La prerogativa prevista nel testo originario è
stata annullata durante l'iter parlamentare.
Polizza dell'amministratore. L'amministratore deve prestare
una polizza di responsabilità civile; anche se il premio è
caricato sul bilancio condominiale.
Revoca dell'amministratore. Basta la firma di un solo
condomino per chiedere la convocazione dell'assemblea per
revocare l'amministratore infedele.
Subentro nell'alloggio. Chi acquista un alloggio diventa
responsabile di tutte le spese condominiali non pagate alla
data del subentro senza limiti di tempo. Occorre, quindi,
che la situazione venga messa in chiaro per evitare un
decreto ingiuntivo del condominio. Sempre in materia di
spese si segnala che il nudo proprietario e l'usufruttuario
diventano responsabili in solido per il pagamento dei
contributi dovuti all'amministrazione condominiali.
Assemblee. La riforma stabilisce il divieto di tenerle nei
giorni di feste religiose.
Millesimi. La possibilità di rettifica a maggioranza dei
millesimi sbagliati riguarda tutti i casi di errore e non
solo quello (unico originariamente previsto) di errore di
calcolo materiale.
Repertorio dei condomini. Viene istituito presso l'agenzia
del territorio il repertorio dei condomini. Saranno annotate
le deliberazioni delle assemblee, i bilanci, le modifiche di
destinazioni di uso, contratti, le ordinanze e sentenze
riguardanti il condominio.
Registro degli amministratori. Sempre presso l'Agenzia del
territorio (e non preso le camere di commercio) è istituito
il registro degli amministratori, in cui possono iscriversi
anche le società. Potranno iscriversi da subito coloro che
hanno un triennio di attività; poi è richiesta la frequenza
a un corso di formazione.
Sito web. Il condominio potrà aprirsi un sito internet on la
maggioranza dell'articolo 1136 codice civile: servirà a
scambiare rendiconti e delibere.
Conciliazione.
Per le mediazioni, precedenti una causa, si deve andare ad
un organismo di conciliazione nella circoscrizione del
tribunale in cui ha sede il condominio
(articolo ItaliaOggi del 28.09.2012). |
APPALTI: Appalti
incagliati sull'asseverazione.
Il giallo su come e chi deve redigere il documento di
asseverazione obbligatorio per liquidare le fatture negli
appalti di lavori, forniture e servizi, sta di fatto
bloccando i pagamenti tra la p.a. e le imprese e tra
appaltatore e subappaltatore.
La nuova difficoltà è stata
segnalata ieri dall'associazione nazionale dei costruttori
edili (Ance) che ha chiesto al governo di sospendere la
norma entrata in vigore ad agosto con il decreto Sviluppo
fino a quando non saranno chiarite le specifiche attuative.
Il documento di asseverazione è previsto dall'articolo
13-ter: stabilisce la responsabilità solidale fiscale
dell'appaltatore con il suo subappaltatore e il suo
committente e certifica che il subappaltatore è in regola
con l'erario sulle ritenute fiscali sui dipendenti e il
pagamento dell'Iva relativa all'appalto. Diversamente, in
mancanza del documento di asseverazione, scatta il
meccanismo della responsabilità fiscale e delle sanzioni.
Il
risultato, ha denunciato ieri l'Ance, è che la poca
chiarezza sui contenuti del documento e su chi è autorizzato
a redigerlo, di fatto sta portando al blocco dei pagamenti
per mancanza dell'asseverazione
(articolo ItaliaOggi del 28.09.2012). |
APPALTI - EDILIZIA
PRIVATA: SEMPLIFICAZIONI/ Il silenzio rifiuto finisce in soffitta.
Provvedimento espresso sulle costruzioni in caso di vincoli.
Le disposizioni della bozza di
decreto in materia di contratti pubblici.
Ammesse alle gare di appalto le imprese che hanno
sottoscritto un contratto di rete, ma con le regole dei
raggruppamenti temporanei e dei consorzi; agevolato lo
svincolo delle garanzie di buona esecuzione rese dalla
imprese di costruzioni, anche per le opere in esercizio non
ancora collaudate; eliminato il silenzio rifiuto sul
permesso di costruire in caso di vincoli; più agevole la
qualificazione delle imprese che operano nel settore
impiantistico.
Sono queste alcune delle novità previste nella bozza di
decreto legge sulla semplificazione che dovrebbe andare oggi
in Consiglio dei ministri.
Diverse le modifiche apportate al
Codice dei contratti pubblici, in primis per quel che
riguarda la qualificazione delle imprese di costruzioni
operanti nell'ambito della categoria OG11 (impianti
tecnologici), la bozza di decreto legge prevede (anche se
sono possibili ancora riformulazioni da parte del ministero
delle infrastrutture) che siano modificate le percentuali
previste dal regolamento del Codice dei contratti pubblici
di possesso di requisiti speciali previsti per tre categorie
specialistiche (OS3, impianti idrici, OS28, impianti
termici e OS30, impianti elettrici e telefonici). In
particolare le percentuali passano dal 40% al 20% per la
OS3, dal 70% al 40% per la OS28 e per la OS30.
Un'ulteriore novità è rappresentata dall'inserimento fra i
partecipanti alle gare di appalto possano esservi anche le
aggregazioni tra imprese aderenti al contratto di rete ai
sensi del comma 4-ter, dell'articolo 3, del decreto legge 10.02.2009, n. 5. Si tratta di imprese appartenenti a un
network ma che mantengono la propria individualità regolando
i rapporti giuridici derivanti da una collaborazione stabile
basata su obiettivi strategici. Il decreto prevede che alle
aggregazioni tra imprese aderenti al contratto di rete si
applichino le disposizioni dell'articolo 37 del Codice dei
contratti pubblici, che a sua volta detta le regole per la
costituzione e il funzionamento dei raggruppamenti
temporanei di imprese e dei consorzi ordinari di
concorrenti. Ciò dovrebbe significa che le imprese che
abbiano sottoscritto il contratto di rete dovranno
configurare la propria «aggregazione» secondo le regole
proprie di queste due tipologie di soggetti raggruppati.
Va
anche rilevato, però, che il decreto prevede comunque che
qualche problema di adeguamento e coordinamento vi possa
essere, dal momento che si premura di precisare che le
disposizioni dell'articolo 37 trovano applicazione alla
partecipazione alle procedure di affidamento delle
aggregazioni tra le imprese aderenti al contratto di rete,
«in quanto compatibili». Con ulteriori modifiche al Codice
dei contratti pubblici vengono anche modificate le
percentuali per lo svincolo delle garanzie di buona
esecuzione (la cauzione definitiva) La norma toccata è
l'articolo 113 del Codice dei contratti che stabilisce che
la cauzione prestata sia progressivamente svincolata, a
misura dell'avanzamento dell'esecuzione, nel limite massimo
del 75 per cento dell'iniziale importo garantito.
Il decreto
alza del 5% questa percentuale, arrivando fino all'80%,
consentendo quindi alle imprese di avere un livello minore
di impegni. Si introduce poi una norma sulle opere in
esercizio stabilendo che, anche prima del collaudo,
l'esercizio protratto per oltre un anno produca, a
determinate condizioni, lo svincolo automatico delle
garanzie di buona esecuzione prestate a favore dell'ente
aggiudicatore, senza necessità di alcun benestare, ferma
restando una quota massima del 20% da svincolare
all'emissione del certificato di collaudo.
Viene poi modificata la norma del codice dei beni culturali
che disciplina l'autorizzazione paesaggistica su immobili e
aree vincolate rilasciata dalla regione, dopo avere
acquisito il parere vincolante del soprintendente eliminando
il silenzio assenso decorsi 90 giorni. Si prevede inoltre
che l'autorizzazione paesaggistica sia resa nel rispetto
delle previsioni e delle prescrizioni del piano
paesaggistico, entro il termine di quarantacinque giorni
dalla ricezione degli atti, decorsi i quali
l'amministrazione competente provvede sulla domanda di
autorizzazione.
Una seconda modifica viene introdotta al comma 9 dello
stesso articolo 146, ove si prevede che decorsi inutilmente
venti giorni senza che il soprintendente abbia reso il
prescritto parere, è direttamente l'amministrazione a
provvedere sulla domanda di autorizzazione. Viene quindi
eliminata la parte della precedente disposizione che
prevedeva la facoltà di richiedere l'autorizzazione alla
regione anche attraverso un commissario ad acta.
Viene anche
prevista l'eliminazione del silenzio rifiuto sul permesso di
costruire in caso di vincoli prevedendosi che il
procedimento sia comunque concluso con l'adozione di un
provvedimento espresso, seguendo le regole previste
dall'articolo 2 della legge sul procedimento amministrativo.
Importante notare che viene soppressa la norma che
consentiva di applicare le regole del procedimento per il
rilascio del permesso di costruire anche ad interventi in
deroga agli strumenti urbanistici, a seguito
dell'approvazione della deliberazione del Consiglio comunale
(articolo ItaliaOggi del 28.09.2012). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Surroga solo ai consiglieri.
L'istituto non si estende al sindaco sospeso.
L'articolo 45 del decreto 267/2000 non si
applica al primo cittadino.
L'istituto della surroga provvisoria del consigliere
comunale, disciplinato dall'art. 45 del dlgs n. 267/2000, è
applicabile anche all' ipotesi della sospensione del Sindaco
disposta ai sensi dell' art. 59 del dlgs citato?
L'art. 45 del dlgs n. 267/2000, al comma 2, dispone che «nel
caso di sospensione di un consigliere ai sensi dell'art. 59,
il consiglio (_) procede alla temporanea sostituzione
affidando la supplenza per l'esercizio delle funzioni di
consigliere al candidato della stessa lista che ha
riportato, dopo gli eletti, il maggior numero di voti».
Tuttavia, la fattispecie in questione, relativa alla
sospensione del Sindaco, non ricade nell'ambito applicativo
dell'art. 45, ma in quello dell'art. 53, il quale,
inequivocabilmente, prevede che il vicesindaco sostituisce
il sindaco «in caso di assenza o impedimento temporaneo,
nonché nel caso di sospensione dall'esercizio della funzione
ai sensi dell'art. 59»
Pertanto, la disciplina dell'art. 45, che si riferisce
unicamente ai consiglieri comunali, non può trovare
applicazione in caso di sospensione dall'esercizio delle
funzioni del sindaco, il quale è sicuramente componente del
consiglio comunale, ma non consigliere comunale
(articolo ItaliaOggi del 28.09.2012). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/
Consigliere decaduto.
Quesito: Può considerarsi decaduto un consigliere comunale
per mancata partecipazione alle sedute del consiglio? È
applicabile la disciplina statutaria -ai sensi della quale
sono dichiarati decaduti i consiglieri che, senza
giustificato motivo, siano assenti dal consiglio per tre
sedute consecutive- in caso di autosospensione, da parte di
consiglieri comunali di minoranza, effettuata allo scopo di
evidenziare il proprio dissenso?
L'istituto della decadenza per mancata partecipazione alle
sedute è previsto dall'art. 43, comma 4, del dlgs n.
267/2000 che demanda allo statuto comunale la relativa
disciplina, «garantendo il diritto del consigliere a far
valere le cause giustificative».
La giurisprudenza ha chiarito che la decadenza dalla carica
di consigliere appartiene alla categoria di quelle
limitazioni all'esercizio di un diritto al munus publicum
che devono essere interpretate restrittivamente.
Di conseguenza la decadenza non può riguardare il deliberato
astensionismo di un gruppo politico che rientra nel novero
delle facoltà ordinariamente a disposizione delle forze di
opposizione, ma piuttosto sanziona comportamenti negligenti
dei consiglieri dai quali possano derivare disagi
all'attività dell'organo la cui valutazione, meramente
discrezionale e di esclusiva competenza del solo consiglio
comunale , costituisce il fondamento giuridico del
provvedimento.
Il Tar Lombardia, Brescia sez.
II, con la sentenza del 28.04.2011 n. 638, nell'accogliere un
ricorso avverso una deliberazione di decadenza di un
consigliere per mancata partecipazione alle sedute del
consiglio, ha ribadito che l'astensionismo ingiustificato di
un consigliere comunale costituisce legittima causa di
decadenza sul presupposto del disinteresse e della
negligenza che l'amministratore mostra nell'adempiere il
proprio mandato e che rientra nel diritto del consigliere
comunale l'impiego di tutti gli strumenti giuridici offerti
dall'ordinamento per opporsi a decisioni non condivise
(quali, ad esempio, l'espressione di voto contrario,
l'astensione dal voto o l'omessa partecipazione alla seduta
anche al fine di impedire il formarsi del quorum
strutturale).
Pertanto, tali principi giurisprudenziali dovrebbero
costituire paradigma di riferimento di un'eventuale
deliberazione del consiglio del comune ai sensi del proprio
statuto comunale, pur rientrando nella discrezionalità del
suddetto organo assembleare la valutazione in ordine alla
sussistenza dei presupposti previsti dalla citata fonte
normativa.
Si soggiunge che l'art. 43 del dlgs n. 267/2000 demanda allo
statuto dell'ente di stabilire i casi di decadenza per
mancata partecipazione alle sedute, fermo restando il
diritto del consigliere a far valere le cause giustificative
delle assenze nonché fornire eventuali documenti probatori
(ex multis Tar Sicilia sent. 14.03.2011, n. 464)
(articolo ItaliaOggi del 28.09.2012). |
APPALTI: Adempimenti.
Sono in vigore dal 12 agosto le disposizioni che
disciplinano il meccanismo di solidarietà che coinvolge
anche il subappaltatore.
Appalti, timbro taglia-responsabilità.
L'attestato del professionista sblocca i pagamenti dei
committenti ma la strada è in salita.
Scatta la responsabilità solidale dell'appaltatore con il
subappaltatore e il rischio di una pesante sanzione per il
committente in caso di omesso versamento dell'Iva e delle
ritenute fiscali. Con la conversione in legge del Dl 83/2012
è stato nuovamente modificato il testo dell'articolo 28,
comma 35, del Dl 223/2006, già oggetto di un primo intervento
(articolo 2, comma 5-bis, del Dl 16/2012). Le novità attuali
sono state introdotte dall'articolo 13-ter del Dl 83/2012.
L'appaltatore
Viene prevista la sua responsabilità solidale con il
subappaltatore con riferimento «al versamento all'erario
delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente e
del versamento dell'imposta sul valore aggiunto dovuta dal
subappaltatore all'erario in relazione alle prestazioni
effettuate nell'ambito del rapporto di subappalto». Questa
responsabilità è limitata all'ammontare del corrispettivo
dovuto e, contrariamente alla precedente versione della
disposizione, non ha più il limite temporale dei due anni
dalla cessazione dell'appalto.
La possibilità
dell'appaltatore di liberarsi dalla responsabilità non è più
legata a una generica (e, come tale, pericolosamente
indefinita) dimostrazione «di aver messo in atto tutte le
cautele possibili per evitare l'inadempimento», quanto
all'aver ottenuto, anteriormente al pagamento del
corrispettivo, la documentazione attestante che i versamenti
di ritenute e Iva scaduti sono stati correttamente eseguiti.
Tale documentazione "può" (non "deve") consistere
nell'asseverazione rilasciata da uno dei soggetti abilitati
previsti dalla norma (commercialisti, consulenti del lavoro,
responsabili Caf, eccetera). Nell'attesa della
documentazione, l'appaltatore può sospendere il pagamento
delle prestazioni. In caso di pagamento senza verifica
scatta la responsabilità solidale verso l'erario.
Il committente
Analoga solidarietà è prevista a carico del committente se
paga l'appaltatore senza aver prima preteso l'esibizione
della stessa documentazione (relativa sia all'appaltatore
che a tutti i subappaltatori), ma tale rischio non consiste
nella responsabilità solidale con gli altri "attori" quanto
nella sanzione amministrativa da 5.000 a 200.000 euro, che
gli verrà comminata se qualche soggetto della "catena"
dell'appalto non ha correttamente eseguito i versamenti di
ritenute e Iva. Il legislatore precisa che queste regole si
applicano agli appalti conclusi da soggetti Iva e, in ogni
caso, dai soggetti degli articoli 73 e 74 Ires (società,
enti commerciali e non, pubbliche amministrazioni, eccetera)
con l'esclusione delle stazioni appaltanti dei contratti
pubblici (decreto legislativo 163/2006).
Le conseguenze
Attualmente, in settori che già soffrono di liquidità
(l'edilizia in particolare), il committente ha una valida
ragione per ritardare i pagamenti in attesa che appaltatori
e subappaltatori consegnino alla propria controparte la
documentazione prescritta a discarico della responsabilità
del destinatario della prestazione. Un professionista
incontra difficoltà per rilasciare una asseverazione se non
ha idea di quali verifiche è tenuto a effettuare per poter
serenamente apporre il "visto" (check list o simili), di
quali situazioni possono determinare un visto "infedelmente"
rilasciato e quali sanzioni sono previste, senza dimenticare
l'aspetto dell'eventuale "assicurabilità" di queste
attestazioni.
Non mancano i dubbi applicativi: per esempio, come può il
soggetto abilitato attestare che i lavoratori che hanno
prestato la propria opera in quel determinato appalto sono
proprio quelli per cui sono state versate le ritenute? Come
regolarsi con il pagamento degli acconti che precedono
l'inizio lavori? Come attestare il versamento dell'imposta
sulle fatture relative all'appalto nell'ambito di una
posizione che globalmente chiude a credito? È sufficiente
attestare che la fattura ha regolarmente concorso alla
liquidazione di periodo? E come regolarsi nei casi di
reverse charge (senza Iva esposta in fattura) o di "Iva per
cassa"?
Il vero problema è che prima si scrive la norma (che
non avendo disposizioni transitorie, è già in vigore dal 12
agosto) e solo dopo si riflette sul suo funzionamento. Nel
frattempo, i pagamenti delle prestazioni si bloccano (ora
anche con una giustificazione "legale"), e chi (in ritardo
nei versamenti fiscali) confidava in questi incassi e nel
ravvedimento operoso per mettersi in pari, deve
drammaticamente rivedere i propri conti.
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Compensi e previdenza. L'obbligazione tutela i lavoratori
che eseguono l'opera o prestano il servizio.
Un vincolo biennale per gli obblighi contributivi.
TEMPI STRETTI/
In questi casi c'è il termine di due anni dalla fine
dell'appalto per la chiamata in causa.
La norma riformulata sulla solidarietà per ritenute e Iva
negli appalti si affianca a quella che disciplina la
responsabilità (altrettanto solidale) di committente,
appaltatore e subappaltatori per retribuzioni, Tfr,
contributi previdenziali e premi assicurativi dei
lavoratori, già in essere da anni e recentemente modificata
dalla "riforma Fornero" (articolo 4, comma 31, della legge
92/2012).
La disposizione in parola (che si affianca al più
generale obbligo previsto dall'articolo 1676 del Codice
civile) è l'articolo 29 del Dlgs 276/2003 e prevede che
(fatta salva una diversa regolamentazione a livello di
contratto nazionale), in caso di appalto di opere o di
servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro
(diverso dalla persona fisica che non esercita attività
d'impresa o professionale) «è obbligato in solido con
l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali
subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione
dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti
retributivi, comprese le quote di trattamento di fine
rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi
assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione
del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo
per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile
dell'inadempimento». La disposizione è stata oggetto della
circolare Inps n. 106 del 10 agosto scorso.
Risultano alcune differenze con la norma che regola la
responsabilità per Iva e ritenute:
- è previsto un limite temporale alla "chiamata in causa"
del committente o dell'appaltatore (due anni da fine
appalto);
- non è previsto un limite quantitativo al rischio, che
invece l'articolo 35, comma 28, del Dl 223/2006 individua
nell'ammontare del corrispettivo;
- non è prevista alcuna attestazione "liberatoria", anche
se, almeno per i contributi, la disciplina in merito al
rilascio del Durc è sicuramente meglio formulata rispetto a
quella relativa all'Iva e alle ritenute;
- non viene attribuito alcun ruolo al pagamento della
prestazione, che, invece, costituisce il momento
qualificante per la responsabilità solidale sui versamenti
fiscali;
- viene assimilata la posizione di committente e
appaltatore, i quali, invece, nel sistema ora delineato dal
Dl 83/2012, hanno un grado di rischio molto differente.
Per completezza, ricordiamo che l'articolo 4, comma 2, del
Dl 207/2010 prevede che nelle ipotesi previste dal
legislatore «in caso di ottenimento da parte del
responsabile del procedimento del documento unico di
regolarità contributiva che segnali un'inadempienza
contributiva relativa a uno o più soggetti impiegati
nell'esecuzione del contratto, il medesimo trattiene dal
certificato di pagamento l'importo corrispondente
all'inadempienza»
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2012). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Statali,
in arrivo nuovi sistemi di valutazione dell'attività.
LA QUESTIONE INCENTIVI/
Palazzo Vidoni pensa a premi di produttività selettivi ed
«elastici» ma solo quando saranno disponibili altre risorse.
Un'operazione in tre tappe. È quella che si sta congegnando
al ministero della Pubblica amministrazione per alzare gli
standard di produttività dei dipendenti pubblici.
La prima
fase sarà imperniata sulla creazione di nuovo sistema di
valutazione degli statali in raccordo con l'operazione spending review. Dovrebbe poi prendere il via un dispositivo
innovativo di misurazione di tutta l'attività svolta dagli
uffici anche per verificare sovracosti interni e oneri
impropri. Il terzo e ultimo step dovrebbe essere quello per
introdurre un meccanismo di incentivi selettivi per premiare
la produttività. Meccanismo che però potrà essere attivato
solo nel momento in cui saranno utilizzabili risorse di cui
attualmente il Governo non dispone, come ieri ha nuovamente
lasciato intendere lo stesso ministro della Pubblica
amministrazione, Filippo Patroni Griffi.
Per il momento il percorso è solo abbozzato. Ma il lavoro
sui nuovi sistemi di valutazione dei dipendenti e di
misurazione dell'attività svolta dagli uffici è in fase
avanzata. E una conferma arriva indirettamente da Patroni
Griffi: «Siamo impegnati nell'assicurare una migliore
performance organizzativa più che individuale, perché quello
che interessa è ciò che la pubblica amministrazione produce,
non tanto chi produce e come si lavora al suo interno», ha
detto ieri mattina a Bologna il ministro.
Patroni Griffi ha sottolineato che «la produttività nel
pubblico è importante» ma anche evidenziato che quando il
datore di lavoro è lo Stato è difficile, soprattutto nella
situazione attuale, reperire le risorse per incentivarla. In
ogni caso la priorità resta il dimagrimento degli organici e
la riduzione dei costi della pubblica amministrazione.
Concetti espressi nel pomeriggio dal ministro nell'incontro
con i sindacati in cui è stata presentata la direttiva
sull'attuazione della prima fase di spending review (si veda
altro articolo in questa pagina).
I nuovi criteri di valutazione e di misurazione dovrebbero
vedere la luce entro la fine dell'anno, anche se non è
escluso che le linee guida possano essere delineate dalla
"fase due" della spending review che scatterà a metà ottobre
insieme alla legge di stabilità. Sul fronte della
misurazione Palazzo Vidoni sta valutando anche l'ipotesi di
ricorrere a un dispositivo simile a quello dei costi
standard anche per individuare le eventuali sacche di spreco
nell'attività di funzionamento degli uffici pubblici.
Nonostante la carenza di risorse a palazzo Vidoni si sta
anche cominciando a ipotizzare un nuovo sistema per premiare
i dipendenti maggiormente produttivi. L'idea sarebbe quella
di attribuire gli incentivi di produttività sulla base di
criteri di selettività ed elasticità superando il sistema
delle quote congegnato dall'ex ministro della Funzione
pubblica, Renato Brunetta, che prevedeva l'esclusione certa
dai premi di una fetta di personale pari al 25 per cento.
Nella stessa agenda per la crescita stilata dal premier
Mario Monti il 24 agosto scorso si parla, del resto, in
relazione alle azioni da attivare nel pubblico impiego, di «sistemi
di performance per gestire in modo efficiente le risorse
assegnate, premiare il merito, orientare le priorità»
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI: Nuovi acquisti solo con
la Consip.
Cellulari e telefoni fissi. E presto anche pulizie, energia
e gas. Debutta il mercato unico per
l'istruzione: sanzionato il dirigente che non si attiene
alle convenzioni.
Cellulari e telefoni fissi a carico delle scuole da
acquistare solo tramite Consip spa, acronimo di
concessionaria servizi informativi pubblici, società
pubblica il cui azionista unico è il ministero dell'economia
e delle finanze e che proprio in questi giorni, comunicato
del 18 settembre, ha annunciato l'avvio del progetto MePi,
mercato elettronico della pubblica istruzione.
E sanzioni di carattere disciplinare e amministrativo per i
responsabili degli acquisti di altri beni e servizi nelle
pubbliche amministrazioni, scuole comprese, che non
ricorrano agli strumenti messi a disposizione da Consip. Non
solo, ma contratti nulli, se stipulati in violazione
dell'obbligo di servirsi di tali strumenti. I quali
strumenti sono rappresentati dalle convenzioni che Consip
stipula con ditte fornitrici di beni e servizi, alle quali
quindi ci si deve rivolgere per chiederne la fornitura e, ai
prezzi concordati nelle convenzioni, stipulare contratti di
acquisto.
Una convenzione sarà presto stipulata, dopo il 25
ottobre, quando scadranno i termini di gara, indetta l'11
luglio scorso, per l'aggiudicazione dei servizi di pulizia
per le scuole di ogni ordine e grado e per i centri di
formazione della pubblica amministrazione, per un importo
complessivo di un milione e ottocentomila euro. Per questa
come per le altre forniture di beni e servizi, le
amministrazioni pubbliche, scuole comprese, possono anche
rivolgersi ad altri fornitori, ma in tal caso devono
assumere i parametri di prezzo-qualità, come limiti massimi,
individuati nelle stesse convenzioni Consip, purché
ovviamente si tratti di beni e servizi comparabili.
Insomma,
gli imperativi sono: maggiore attenzione nel disporre gli
acquisti e realizzazione di risparmi di gestione e di spesa.
Che è poi lo scopo contenuto nei provvedimenti legislativi
comunemente definiti di spending review, in particolare, per
lo specifico caso degli acquisti, l'art. 1, primo e settimo
comma, del decreto legge 06.07.2012, n. 95, convertito
nella legge n. 135/2012. Con il progetto MePi, citato
all'inizio e specificatamente dedicato agli istituti
scolastici di ogni ordine e grado, Consip intende proporre e
presentare beni e servizi a destinazione didattica secondo
ambiti omogenei, con la conseguenza che potranno essere
personalizzati i requisiti tecnici, tecnologici e di
servizio dei singoli prodotti e delle relative soluzioni.
Le
procedure di acquisto saranno rese così più semplici e
rapide e consentiranno alle scuole di accedere a soluzioni
più idonee alle loro esigenze di approvvigionamento. Con
tale iniziativa Consip continua la collaborazione con il
Miur, avviata gli anni scorsi con il Piano nazionale scuola
digitale, progetto Lim (Lavagne interattive multimediali) e
iniziativa Editoria digitale scolastica.
Va ricordato poi
che Consip nel mese di maggio ha aggiudicato la gara per la
fornitura di personal computer a basso impatto ambientale e
di servizi connessi per le pubbliche amministrazioni, la
durata della convenzione è tuttora in corso e le scuole se
ne possono così avvalere.
L'obbligo di servirsi degli
strumenti messi a disposizione da Consip era per altro già
in vigore, essendo stato sancito dalla finanziaria del 2000
(art. 26, terzo comma, della legge 23.12.1999, n.
488), esplicitamente richiamata dalle norme predisposte dal
supertecnico Enrico Bondi ed emanate dal governo presieduto
da Mario Monti.
Forse la norma del 1999 non era molto
incisiva o non è stata applicata con il dovuto rigore, e
allora si è dovuti intervenire nuovamente, aggravando le
conseguenze della sua violazione e aggiungendo l'obbligo di
servirsi in ogni caso delle convenzioni per l'acquisto di
“energia elettrica, gas, carburanti rete e carburanti
extra-rete, combustibili per riscaldamento, telefonia fissa
e telefonia mobile”, solo queste ultime due, tuttavia, di
stretta pertinenza delle scuole.
A dire il vero, anche per queste categorie merceologiche è
possibile esperire autonome procedure ma in tal caso
bisognerà comunque utilizzare «i sistemi telematici di
negoziazione sul mercato elettronico e sul sistema dinamico
di acquisizione messi a disposizione» da Consip S.p.A. o
dalle analoghe strutture regionali di riferimento,
costituite ai sensi dell'articolo 1, comma 455, della legge
27.12.2006, n. 296
(articolo ItaliaOggi del 25.09.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Spending review. Entro l'anno vanno avviata la gestione in
forma unita di tre funzioni fondamentali.
Rischio prefetti sui mini-enti.
Intervento «statale» per chi non rispetta gli obblighi di
associazione.
L'ALTERNATIVA/
Possibile attivare anche le convenzioni che per sopravvivere
dovranno superare la verifica di efficienza dopo tre anni.
L'articolo 19 del decreto legge 95/2012 sulla spending
review interviene sulla normativa in materia di gestione
associata delle funzioni e dei servizi comunali fondamentali
e recepisce alcune puntuali sollecitazioni pervenute dalle
rappresentanze delle autonomie locali, cogliendo l'occasione
per cercare di fare chiarezza sul l'intera disciplina.
Pur dovendo sottolineare l'assoluta inadeguatezza della
decretazione d'urgenza in tema di riforme, va riconosciuto
tuttavia che il decreto pone rimedio ad una lunga, colpevole
inerzia del legislatore.
La principale novità, inserita in sede di conversione del
decreto, consiste nella perentorietà dei nuovi termini di
legge per l'avvio del processo associazionista, con un ruolo
determinante assegnato al prefetto.
Le scadenze da rispettare sono: il 01.01.2013, per
associare almeno tre delle funzioni fondamentali di cui al
comma 28, e il 01.01.2014 per le restanti funzioni
fondamentali. In caso di decorso dei termini, il prefetto
assegna agli enti inadempienti un termine perentorio entro
il quale provvedere. Decorso inutilmente anche questo
termine, trova applicazione l'articolo 8 della legge 131 del
05.06.2003: nell'ambito dei poteri sostitutivi previsti
dall'articolo 120 della Costituzione viene nominato un
commissario il quale provvede in senso conforme alla norma,
sentito il Consiglio delle autonomie locali, tenuto conto
dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione tra
i vari livelli istituzionali
Le unioni ordinarie sono regolate dall'articolo 14, comma
28, del Dl 78/2010; a differenza della precedente
disciplina, l'ambito applicativo comprende ora anche i
comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti, in precedenza
esclusi in quanto soggetti all'obbligo specifico previsto
dall'articolo 16, commi 1-16 del Dl 138/2011 (unioni
"speciali" o "micro-unioni" nelle quali si associano tutte
le funzioni).
Ora la disciplina dell'articolo 16 costituisce una mera
facoltà per questi enti : per tutti i Comuni con popolazione
fino a 5.000 abitanti valgono gli stessi obblighi (articolo
14 Dl 78/2010; articolo 32 del Testo unico enti locali).
I Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti devono
esercitare le loro funzioni fondamentali in forma associata,
ma possono farlo anche mediante una semplice convenzione; il
nuovo comma 31-bis dell'articolo 14, del Dl 78/2010, rimanda
all'articolo 30 del Tuel in materia di convenzioni,
prescrivendo una durata almeno triennale.
Si dispone, tuttavia, l'obbligo di verificare il
raggiungimento –entro il triennio– di «significativi
livelli di efficacia e di efficienza» subentrando, in caso
contrario, l'obbligo di costituire l'unione, analogamente a
quanto prescritto dal l'articolo 16 del Dl 138/2011 per le
micro unioni. In altri termini, o si dimostrano gli
effettivi risultati raggiunti o si deve fare l'unione.
In definitiva, ora si fa sul serio. La riforma è stata
progressivamente bilanciata e resa flessibile nei suoi
contenuti, ma diventano più stringenti e tassativi i tempi
di attuazione. La riduzione della spesa pubblica non può più
attendere.
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Le due strade
COMUNI FINO A 5MILA ABITANTI
Obbligo di gestione associata delle funzioni fondamentali,
tramite:
- unione ordinaria (articolo 14 Dl 78/2010; articolo 32 Tuel);
- oppure convenzione (articolo 14 Dl 78/2010; articolo 30
Tuel), con dimostrazione dei risultati raggiunti nei tre
anni
COMUNI FINO A MILLE ABITANTI
- possono partecipare alle unioni ordinarie o alle
convenzioni;
- in alternativa, possono costituire unioni speciali solo
con altri Comuni sotto i mille abitanti (articolo 16, Dl
138/2011) (articolo Il Sole 24 Ore del
24.09.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI:
Centrale unica per bandire le gare d' appalto.
Le procedure. I servizi da
accorpare.
L'articolo 19 del decreto legge sulla spending review (Dl
95/2012) riformula la normativa in materia di esercizio
associato delle funzioni, secondo modalità più graduali ed
equilibrate. Mentre si continua ad arricchire la normativa
speciale sulle micro-unioni (articolo 16 Dl 138/2011), che
difficilmente prenderanno piede, la disciplina dettata per
le unioni "ordinarie" di Comuni appare tuttora piuttosto
lacunosa.
Viene ridefinito e leggermente ampliato l'elenco delle
funzioni fondamentali che i Comuni fino a 5mila abitanti
devono gestire in forma associata, tramite unione o
convenzione. Con un parziale passo indietro relativo ai
servizi demografici, inclusi tra le funzioni fondamentali ma
esclusi espressamente dall'ambito di quelle da gestire
obbligatoriamente in forma associata; resta peraltro a
nostro avviso la possibilità di un loro accentramento, alla
luce anche dell'articolo 16 del Dl 138/2011 che qualora
applicato prevede l'unificazione di tutte le funzioni -
compresa dunque l'anagrafe, lo stato civile, la materia
elettorale e statistica.
La terminologia utilizzata nell'elenco non è sempre chiara e
univoca: si ritiene in particolare che le funzioni di
amministrazione generale comprendano la globalità dei
servizi interni, sia amministrativi che finanziari, ferma
restando la facoltà di considerare in modo specifico le
segreterie comunali e di mantenere in essere le relative
convenzioni. Tra i servizi interni da associare vi è
certamente quello informatico: il comma 7 dell'articolo 19
dispone l'abrogazione dei commi da 3-bis a 3-octies
dell'articolo 15 del Dlgs 82/2005, superando cosi
l'antinomia dovuta alla sovrapposizione delle due diverse
normative sulla gestione associata delle funzioni Ict.
Altro servizio interno è quello che si occupa di appalti, da
accentrare secondo lo schema della centrale unica di
committenza (articolo 33 del Dlgs 163/2006) dal 01.04.2013. L'obbligo riguarda solo le procedure di gara; ogni
ente rimane responsabile delle fasi a monte (programmazione)
e a valle (esecuzione) e provvede autonomamente agli
affidamenti diretti nei casi consentiti (si veda Corte dei
conti sezione Piemonte, parere n. 271/2012).
Nulla dice, infine, l'articolo 32 del testo unico enti
locali sul trasferimento delle competenze, politiche e
gestionali, dagli organi comunali a quelli del l'unione;
l'articolo 16 del Dl 138 rappresenta un utile punto di
riferimento ma sarebbe opportuno recepire il principio nella
disciplina generale delle unioni.
Con riferimento alle funzioni conferite, tutte le competenze
gestionali spettano agli organi tecnici dell'unione. Lo
stesso principio sembra applicabile sul piano politico, pur
dovendosi individuare alcune fattispecie riservate agli
organi di governo del singolo comune (ad esempio, gli atti
del sindaco come ufficiale di governo citati dall'articolo
16, comma 8). In attesa di ulteriori sviluppi in fase
legislativa è necessario delimitare in sede interpretativa
tali fattispecie. Dovremmo cercare di creare un quadro
giuridico chiaro ed esaustivo prima dell'avvio della
riforma, senza demandare decisioni fondamentali al
l'improvvisazione e, quindi, al diritto vivente.
---------------
Le materie
01 | APPALTI
Va centralizzata con il meccanismo della centrale di
committenza la fase delle gare, mentre resta di competenza
esclusiva dell'ente locale sia la programmazione degli
appalti, che la fase di esecuzione dei contratti di lavori,
servizi e forniture
02 | INFORMATICA
Sono da mettere in comune anche i servizi informatici. La
spending review ha abolito la norma (articolo 15 Dlgs
82/2005) che indicava altre strade per la gestione dei
servizi di Ict nei piccoli comuni
03 | AMMINISTRAZIONE
La gestione associata può riguardare tutti i servizi
interni, amministrativi e finanziari, con la possibilità di
esonerare le segreterie comunali (articolo Il
Sole 24 Ore del 24.09.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA: Una
domanda e permessi multipli. Accorpate 7 abilitazioni
nell'autorizzazione unica ambientale.
Introdotta l'Aua che toccherà micro, piccole, medie
imprese e attività a basso rischio.
Sarà un singolo provvedimento
amministrativo rilasciato dallo sportello unico per le
attività produttive, sull'esito di una sola e cumulativa
domanda, ad autorizzare emissioni di inquinanti in aria,
acqua, suolo e gestione dei rifiuti per micro, piccole e
medie imprese così come per le altre imprese a basso impatto
ambientale.
Con l'approvazione, avvenuta lo scorso 14 settembre, in
prima lettura da parte del governo del decreto istitutivo
della «autorizzazione unica ambientale» (già
battezzato come «Aua») si avvicina lo snellimento
della burocrazia verde previsto a monte dal dl 5/2012 (c.d.
«decreto semplificazioni»).
Il decreto in itinere, formalizzato come dpr e ora in attesa
dei rituali pareri del parlamento e della conferenza
unificata, introdurrà la nuova figura di autorizzazione
unica tra l'istituto della (analoga ma più complessa) «autorizzazione
integrata ambientale» (obbligatoria per gli impianti ad
alto potenziale di inquinamento) e il novero delle singole
procedure previste dalle diverse norme per il rilascio dei
necessari e plurimi titoli a inquinare.
Cos'è l'Aua.
L'autorizzazione unica ambientale sarà il provvedimento
rilasciato dal c.d. «Suap» (Sportello unico per le attività
produttive) che, nel tenore del decreto in corso di
approvazione, sostituirà numerosi atti di comunicazione,
notifica e autorizzazioni in materia ambientale previsti a
livello statale e locale.
Per quali imprese.
Due le categorie di imprese che saranno ammesse
all'autorizzazione unica ambientale. La prima è costituita
dalle micro, piccole e medie imprese, ossia dalle imprese
rientranti nei parametri dimensionali e di fatturato
previsti dall'articolo 2 del dm 18.04.2005 del ministero
delle attività produttive. La seconda è invece costituita
dagli impianti non soggetti alle disposizioni sulla
autorizzazione integrata ambientale (c.d. «Aia») recate dal
dlgs 152/2006.
Sono soggette all'Aia, le grandi industrie elencate
dall'allegato VIII alla parte seconda del «Codice
ambientale» che svolgono particolari attività, come
quella energetica (combustioni a elevate potenze termiche,
raffinerie), della produzione (a elevata capacità) dei
metalli, della fabbricazione di alcuni prodotti chimici (tra
cui idrocarburi e coloranti), dello smaltimento o recupero
di elevate quantità di rifiuti.
Per quali titoli.
L'Aua sostituirà tutti gli atti abilitativi previsti dal dpr
in itinere più quelli che stabiliranno localmente le singole
regioni e le province autonome (nel rispetto dei criteri
generali del decreto statale).
In base allo schema di dpr licenziato dal governo, potranno
essere fin da subito sostituiti dalla Aua: l'autorizzazione
allo scarico nelle acque ex dlgs 152/2006; la comunicazione
preventiva ex articolo 112 del dlgs 152/2006 per utilizzo
agronomico di effluenti di allevamento, acque di vegetazione
di frantoi oleari, acque reflue da parte di aziende del
settore; l'autorizzazione alle emissioni in atmosfera per
gli stabilimenti produttivi ex articolo 269, dlgs 152/2006;
l'autorizzazione generale per le emissioni «scarsamente
rilevanti» in aria ex articolo 272, dlgs 152/2006; il
nulla osta alle emissioni sonore ex articolo 8, legge
447/1995 da parte degli impianti produttivi, sportivi,
ricreativi commerciali; l'autorizzazione ex articolo 9, dlgs
99/1992 per utilizzo fanghi da depurazione in agricoltura;
le comunicazioni per auto smaltimento e/o recupero rifiuti
in procedura semplificata ex articoli 215 e 216, dlgs
152/2006.
Saranno poi eventualmente, come accennato, gli enti locali a
individuare ulteriori atti di comunicazione, notifica e
autorizzazione ambientale che potranno essere ricompresi
dell'Aua.
Obbligo o facoltà?
L'Aua costituirà la via autorizzatoria obbligatoria per le
imprese che intendono acquisire l'intero novero dei titoli
elencati dal dpr, mentre costituirà una mera facoltà sia per
le imprese che agiranno per ottenere un singolo titolo sia
per quelle tenute a presentare semplici comunicazioni ai
sensi delle vigenti norme ambientali.
Rilascio, procedura.
La domanda per il rilascio dell'Aua andrà presentata al Suap
(comunale) di competenza unitamente ai documenti, alle
dichiarazioni e alle altre attestazioni necessarie (a tal
riguardo, il dpr prevede la possibilità per il Minambiente
di adottare un modello di domanda semplificato e unificato).
Verificatane la completezza, il Suap li trasmetterà
all'autorità competente (ossia alla regione, alla provincia
autonoma o all'ente da essi indicato come competente in
relazione alla autorizzazione unica ambientale) chiedendo
poi al soggetto istante (entro 30 giorni) l'eventuale
integrazione della domanda con documenti richiesti
dall'autorità. Subordinatamente all'assenso da parte della
autorità competente, il Suap rilascerà l'autorizzazione
unica ambientale entro un termine «standard» compreso
tra 90 e 150 giorni dalla presentazione della domanda (in
base alla complessità dell'istruttoria prevista dalla
legge).
Durata.
L'Aua avrà una durata di 15 anni dalla data di rilascio,
fatti salvi gli obblighi di comunicazione intermedi alla
citata autorità competente da parte delle imprese a più alto
rischio di inquinamento (es: scarichi di reflui contenenti
sostanze pericolose) o in caso modifiche di attività o
variazioni agli impianti.
Rinnovo, procedura.
Il rinnovo dell'autorizzazione unica dovrà essere richiesto
(sempre tramite Suap) almeno sei mesi prima della scadenza
(a pena della sospensione dell'attività), secondo una delle
due procedure (ordinaria e semplificata) previste dal
decreto.
La procedura ordinaria (che prevede una domanda pedissequa a
quella di primo rilascio) dovrà essere adottata: dagli
impianti che pur non superando le soglie dimensionali del
dlgs 152/2006 per l'assoggettamento all'Aia svolgono
comunque le attività inerenti; dai titolari di scarichi
idrici con sostanze pericolose ex articolo 108 del dlgs
152/2006; i soggetti che emettono in atmosfera alcune
sostanze pericolose previste dal dlgs 152/2006; gli impianti
che utilizzano le sostanze pericolose disciplinate dal dlgs
52/1997.
Per tutte le altre e diverse imprese, sempre che non siano
intervenute modifiche di attività e impianti rispetto alla
autorizzazione in scadenza, il rinnovo avverrà invece
tramite la presentazione di una istanza in autodichiarazione
(dpr 445/2000 e successive modifiche) che attesterà
l'immutata condizione di esercizio. Il rispetto del termine
di sei mesi dalla scadenza dell'autorizzazione consentirà
all'istante di proseguire l'attività fino al provvedimento
di rinnovo.
Modifiche impianti, procedura.
Come accennato, le variazioni di attività o impianti
necessiteranno di una nuova procedura amministrativa che ne
formalizzi la liceità.
A tal proposito il dpr in esame distingue le «semplici
modifiche», legittimate da una semplice comunicazione
indirizzata (direttamente) all'Autorità competente (e in
assenza di una sua opposizione nei successivi 60 giorni)
dalle «modifiche sostanziali» (ossia variazioni
considerate tali dalle norme ambientali di riferimento) per
le quali dovrà essere invece presentata una domanda
pedissequa a quella di prima autorizzazione. Tale ultima e
più rigida procedura ordinaria dovrà altresì essere sempre
utilizzata dagli impianti a più alto rischio (ossia quelli
sottoposti a alla citata procedura ordinaria di rinnovo)
anche per le «semplici modifiche».
Oneri.
Le spese per il procedimento relativo all'Aua saranno a
carico del richiedente, ma esse non potranno comunque
superare quelle complessivamente previste per i singoli
titoli abilitativi disciplinati dalla normativa di
riferimento.
Regime transitorio.
I procedimenti autorizzatori in itinere alla data di entrata
in vigore della nuova disciplina Aua proseguiranno in base
alla pregressa normativa, ossia sfoceranno negli eventuali
titoli abilitativi già previsti. Le imprese, invece, già
titolari di autorizzazioni rilasciate in base al «vecchio»
regime dovranno attendere la scadenza di queste per poterle
rinnovare secondo il nuovo meccanismo dell'Aua
(articolo ItaliaOggi
Sette del
24.09.2012). |
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PROFESSIONALI:
I COMPENSI DEI PROFESSIONISTI/ Dagli ordini i
facsimile delle lettere di incarico. Prima regola: mettere
tutto per iscritto. Niente tariffe e infinite clausole È il
nuovo contratto professionale.
Fra professionista e cliente patti chiari e amicizia lunga.
Sembra essere questo lo spirito che sta animando gli ordini
in questi giorni che, pur non essendo previsto l'obbligo di
preventivo scritto, si stanno dando da fare per dare
istruzioni ai propri iscritti su come rendere chiari, e
quindi evitare problemi in futuro, gli accordi sul
conferimento dell'incarico.
Ed ecco quali sono i punti che non possono mai mancare in un
contratto-tipo: l'oggetto e il grado di complessità
dell'incarico, da esplicitare il più possibile, il compenso
e gli oneri ipotizzabili, il recesso, gli estremi della
polizza professionale, la clausola di mediazione. Ma
comunque l'indicazione unanime degli ordini è: mettere tutto
per iscritto e non lasciare nulla di sottinteso al cliente.
Riguardo la determinazione del compenso, invece, se da un
lato i minimi tariffari sono stati aboliti, dall'altro, con
tutta probabilità, i nuovi parametri elaborati dal ministero
della giustizia per la liquidazione dei compensi da parte
del giudice (dm n. 140/2012) saranno presi a riferimento dai
professionisti per quantificare la propria prestazione
professionale. E metterla al riparo da eventuali
contenziosi. Il resto è lasciato al libero mercato. Ma
vediamo meglio le indicazioni degli ordini ai professionisti
alla luce del dl liberalizzazioni, del dpr di riforma delle
professioni e del dm parametri.
Gli ordini giuridico-economico-contabili. Il Consiglio
nazionale forense, da ultimo, ha elaborato un modello di
contratto per gli iscritti (si veda ItaliaOggi del 20
settembre). Le clausole più importanti riguardano la
privacy, la conciliazione, l'antiriciclaggio, la difficoltà
dell'incarico, eventuali imprevisti, la quantificazione del
compenso, o per fasi o per ore di attività.
Anche il
Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli
esperti contabili ha messo a disposizione il facsimile di
lettera di incarico professionale. Dove non devono mai
mancare le clausole riferibili a: oggetto e grado di
complessità dell'incarico, compenso e oneri ipotizzabili,
recesso, estremi della polizza professionale.
«La principale
indicazione da dare ai professionisti è che il conferimento
dell'incarico venga fatto per iscritto», afferma Massimo Mellacina, consigliere delegato alle tariffe, «lo stesso
decreto sui parametri prevede che il professionista debba
dare prova del preventivo onorario pre-concordato. Quanto ai
parametri, lo consideriamo uno strumento a uso esclusivo
dell'organo giudiziale. Detto ciò, che poi possa essere
assunto dal professionista come base di riferimento la
considero un'opzione possibile e ragionevole. Chiaramente,
non è più vincolante come lo era la tariffa minima».
Pure i
consulenti del lavoro hanno diramato un facsimile di
conferimento di incarico professionale. Gli elementi chiave
sono: l'oggetto e grado di complessità del mandato, il
compenso, durata e recesso, obblighi del professionista e
del mandante. «In seguito all'abolizione delle tariffe è
sorta l'esigenza di predisporre un facsimile di conferimento
di incarico professionale», afferma il presidente, Marina
Calderone, «uno strumento utile, visto che il mandato è
diventato un elemento basilare del rapporto tra il
professionista e il proprio cliente».
Le professioni tecniche. Il Consiglio nazionale degli
ingegneri ha elaborato, tramite il proprio Centro studi, un
documento con una serie di linee guida per ogni fattispecie
di contratto: dall'incarico professionale con committenti
privati, ai mansionari, agli incarichi per i lavori
pubblici. «Ora la difficoltà, per il professionista, è
individuare il compenso senza potersi riferire alle
tariffe», afferma il presidente del Cni, Armando Zambrano,
«si tratta di una contraddizione perché l'utente ha
un'informazione in meno. Con i nuovi parametri, poi, siamo
al paradosso, perché le indicazioni che utilizza il giudice
alla fine del procedimento diventano il compenso del
professionista, mentre non possono essere utilizzate dal
professionista prima del contenzioso».
Il Consiglio
nazionale dei periti industriali sta lavorando in questi
giorni per predisporre un contratto tipo «che sarà molto
complesso», assicura il presidente, Giuseppe Jogna, «perché
abbiamo parecchie specializzazioni. Cercheremo di mettere a
disposizione una sorta di scrittura privata di contratto di
incarico lasciando poi ampio spazio a quella che è
l'attività vera propria. Detto ciò, l'importante, per il
professionista, è che il contratto sia molto chiaro ed
esplicito perché le attività professionali tecniche, come
quella di progettazione, hanno la particolarità di poter
subire modifiche in corso d'opera. È necessario quindi che
il committente ne sia ampiamente informato, perché spesso ci
si nasconde dietro l'asimmetria delle conoscenze».
«Per
quello che riguarda i parametri», continua Jogna, «è
chiaro che il professionista non può utilizzarli. Però dico
anche che se il cliente si lamenta del prezzo e non ha la
capacità di individuare qual sia il meccanismo utilizzato
dal professionista per determinare quella cifra, se si fa
riferimento ai parametri non si sbaglia. Anche perché in un
eventuale contenzioso il giudice può trovare coerente questo
comportamento. In altre parole: come si fa a definire una
prestazione complessa se non dando un'occhiata ai parametri,
in modo tale che il contratto sia salvo in caso di
contenzioso».
Anche il Consiglio nazionale degli agrotecnici sta mettendo
a punto un facsimile. «Non è una semplice lettera di
incarico», afferma il presidente, Roberto Orlandi, «vogliamo
chiarire come costruire il contratto per evitare eventuali
contenziosi. Anche perché, per quanto riguarda la
determinazione del compenso, i nuovi parametri escludono
molte nostre competenze. Il punto principale da chiarire,
comunque, è la descrizione puntuale della prestazione» (articolo
ItaliaOggi Sette del 24.09.2012). |
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PROFESSIONALI:
I COMPENSI DEI PROFESSIONISTI/ L'eliminazione delle
tariffe affida alle parti la negoziazione. Unico riferimento
i nuovi parametri. Il prezzo lo fa il libero mercato.
Un contratto con il professionista: l'abbandono delle
tariffe affida al mercato e, quindi, alle parti di negoziare
il compenso. Anche se si rischia di lasciare nell'indefinito
una materia che prima era regolata da decreti ministeriali.
In mancanza delle tariffe, però, l'unico punto di
riferimento è rappresentato dai parametri stabiliti con il
decreto ministeriale n. 140/2012. Anche se non bisogna
cadere in un equivoco.
I parametri del decreto 140/2012 non
sono un tariffario sopravvissuto finalizzato a regolare i
rapporti con la clientela; i parametri sono linee guida per
il magistrato, chiamato a decidere quale sia il giusto
compenso per il professionista, in una controversia con il
cliente o, per gli avvocati, in sede di liquidazione
giudiziale dei compensi. Non sono invece una griglia
obbligatoria nei rapporti interni tra professionista e
cliente. Anzi la legge vorrebbe eliminare qualsiasi griglia
cogente per la determinazione delle tariffe e lasciare tutto
alla libera negoziazione tra le parti.
D'altro canto c'è una ragione che incentiva il
professionista a stendere il contratto vincolante per il
cliente: il contratto stipulato e accettato dal cliente,
infatti, è intoccabile anche dal magistrato. L'articolo 1
del decreto 140/2012 prevede che l'organo giurisdizionale
che deve liquidare il compenso dei professionisti applica i
parametri, ma solo in difetto di accordo tra le parti in
ordine allo stesso compenso.
Questo significa che il giudice deve valutare innanzitutto
se sia stato stipulato un contratto valido tra le parti; in
questo caso deve applicare il contratto e non può passare
alla applicazione dei parametri.
Naturalmente il cliente potrà contestare la validità del
contratto e sostenerne la nullità totale o parziale;
tuttavia si parte dal contratto; mentre se il contratto non
c'è, allora il professionista non può che affidarsi alla
discrezionalità giudiziale.
L'interesse del professionista a bloccare la discrezionalità
giudiziale nella determinazione del compenso è molto alto.
Si noti, infatti, che i parametri stabiliti dal decreto
140/2012 innanzitutto non sono vincolanti nemmeno per il
giudice, che può discostarsene nei casi concreti; in secondo
luogo i parametri sono fissati con una forbice molto ampia
tra il valore più basso e il valore del maggiore incremento.
Non essendoci più un tariffario unico, seppure modulabile,
considerata la forbice minimo-massimo per singole
prestazioni, il professionista, per regolare i rapporti
economici con la propria clientela, è, dunque, incentivato a
costruire un proprio tariffario di studio.
Anzi il cliente che entra in uno studio professionale e
assegna un incarico si vedrà consegnare il contratto, magari
a seguito di un preventivo di massima, oltre che alcune
specifiche informazioni previste da leggi di settore (dalla
privacy alla conciliazione).
Secondo il disegno del legislatore l'abolizione delle
tariffe e la riconduzione dei compensi ai rapporti
contrattuali dovrebbe incentivare la concorrenza tra
professionisti, singoli e associati, e tra società
professionali.
Non a caso i compensi possono essere oggetto della
pubblicità informativa (su cui si veda il dpr 07/08/2012 n.
137, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 189 del 14.08.2012, regolamento di attuazione dei principi dettati
dall'articolo 3, comma 5, del decreto legge n. 138 del 2011
in materia di professioni regolamentate).
Quindi lo studio professionale potrà preparare una brochure
informativa con il proprio preziario e magari diffonderlo
tramite il sito internet. Così sarà data al cliente la
possibilità di scelta del professionista anche sulla base
del fattore compenso praticato.
A questo proposito va richiamato il decreto ministeriale n.
137/2012 sulla disciplina delle professioni regolamentate,
che dedica un apposito articolo alla libera concorrenza e
alla pubblicità informativa. Innanzi tutto la pubblicità
informativa è ammessa con ogni mezzo purché attinente
l'attività delle professioni regolamentate, le
specializzazioni, i titoli posseduti attinenti alla
professione, la struttura dello studio professionale e anche
i compensi richiesti per le prestazioni.
La pubblicità informativa deve essere funzionale
all'oggetto, veritiera e corretta, non deve violare
l'obbligo del segreto professionale e non dev'essere
equivoca, ingannevole o denigratoria.
Infine, così si chiude l'articolo 4 del decreto 137, la
violazione della disposizione sui principi della pubblicità
informativa costituisce illecito disciplinare, oltre a
integrare una violazione delle disposizioni previste dal
codice del consumo e dalle norme sulla pubblicità
ingannevole.
Questi ultimi riferimenti potrebbero però mettere in dubbio
la qualifica del professionista e spostarla sul versante
imprenditoriale, esito questo fortemente avversato dagli
ordini. A parte queste considerazioni generali, va
sottolineato che la possibilità di mettere a confronto le
tariffe pratiche attraverso le forme lecite di pubblicità
comparativa è ulteriore elemento che spinge alla
individuazione di un tariffario di studio e di una
contrattualistica standard a uso del singolo professionista,
dello studio associato e della società tra professionisti (articolo
ItaliaOggi Sette del 24.09.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
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PROFESSIONALI: I COMPENSI DEI PROFESSIONISTI/
Gli avvocati potranno
esporre i prezzi. Via la distinzione tra diritti e onorari
in nota spese. Tariffario pubblico per i legali.
Gli avvocati potranno costruirsi il tariffario di studio e
pubblicizzarlo. I parametri stabiliti con il decreto
140/2012 sono certo un punto di riferimento, ma il
professionista potrà discostarsene nel contratto con il
cliente. La struttura della nota spese presentata al cliente
non prevede più la distinzione tra diritti e onorari, come
nel vecchio tariffario. Sussiste, quindi, libertà sia nella
modulazione delle voci di spesa sia nella quantificazione
degli importi.
Le voci di spesa potranno essere individuate
per fasi di attività con un importo onnicomprensivo per
singola fase; oppure si potrà ricorrere al compenso orario.
Altre possibilità sono quelle del patto di quota lite o del palmario. Con il palmario il cliente attribuisce
all'avvocato un compenso aggiuntivo per la favorevole
conclusione della pratica. Con il patto di quota lite
l'avvocato viene pagato solo in caso di esito favorevole con
una quota su quanto percepito dal cliente.
Lo schema di contratto elaborato dal Consiglio nazionale
forense prevede il sistema del compenso per fasi in
alternativa al compenso su base oraria. Il modello contiene,
poi, una limitata forma di palmario in caso di conciliazione
della controversia. Il modello del consiglio nazionale
forense non disciplina, invece, una forma di quota lite. La
liquidazione del compenso per fasi rispecchia l'impostazione
del decreto sui parametri per la liquidazione giudiziale,
anche se le fasi individuate nel modello di contratto
proposto dal Consiglio nazionale forense sono diverse da
quelle inserite nel decreto ministeriale sui parametri. Il
modello di contratto prevede queste fasi: mediazione,
studio, cautelare, fase introduttiva, istruttoria, decisoria
ed esecutiva.
Peraltro è possibile articolare le fasi in
maniera differente, senza essere vincolati a uno schema
predefinito. Una questione particolare riguarda il rapporto
tra il compenso stabilito nel contratto e le spese liquidate
dal giudice al termine della causa. Ad esempio Tizio accetta
di pagare all'avvocato Caio la somma di 100 per la
rappresentanza in un determinato giudizio; la causa va bene,
ma il giudice riconosce a Tizio la somma di 50 da chiedere
all'avversario che ha perso; nel modello del Cnf in questo
caso Tizio rimane obbligato a pagare all'avvocato a somma di
100 e recupererà 50 da controparte (rimane, quindi, a carico
di Tizio la differenza di 50).
Altra ipotesi è quella in cui il giudice liquidi spese
legali per un importo superiore a quello contrattuale: la
somma eccedente viene assegnata nello schema di contratto
all'avvocato, che la recupererà dalla controparte
soccombente. Si tratta di una clausola per la quale si
prevede una doppia sottoscrizione (articolo ItaliaOggi
Sette del 24.09.2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Atti difensivi sintetici e chiari. Processo amministrativo, la
p.a. non avrà più vie di fuga. Le
novità del correttivo al dlgs 104/2010 (sulla Gu n. 218).
P.a. condannata al rilascio del provvedimento utile al
cittadino. Il processo amministrativo è un giudizio in cui
la pubblica amministrazione non può sfruttare vie di fuga.
Una volta il processo amministrativo era solo un processo
finalizzato a ottenere l'annullamento di un atto
illegittimo.
Ma questo non necessariamente corrispondeva agli interessi
concreti del cittadino. Magari l'amministrazione rifaceva
l'atto con un'altra motivazione o comunque, annullato
l'atto, non ne seguiva in positivo una determinazione in
grado di soddisfare chi aveva vinto la causa.
Il codice del processo amministrativo (dlgs 104/2010),
invece, si preoccupa ora della effettiva tutela del
cittadino e ha dedicato un apposito articolo alle domande
che si possono formulare in giudizio.
Una di queste domande è in grado di soddisfare le esigenze
effettive del cittadino: si tratta della domanda di condanna
dell'amministrazione all'adozione delle misure idonee a
tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in
giudizio (articolo 34, comma 1, lettera c).
Questo significa che al Tar si può chiedere non solo una
pronuncia di annullamento di un atto, ma anche una pronuncia
con cui si ordina all'ente pubblico di fare qualcosa per
corrispondere ai diritti e agli interessi di chi fa il
ricorso. L'oggetto della domanda è molto ampio (qualunque
pronuncia idonea) e gli avvocati possono elaborare le
richieste più consone.
Il secondo decreto correttivo del codice del processo
amministrativo (decreto legislativo n. 160 del 14.09.2012, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 218 del 18.09.2012) ha aggiunto una prescrizione di carattere
procedurale, che però spingerà a mettere l'amministrazione
da subito di fronte alle sue responsabilità.
La novella legislativa integra l'articolo 34 prescrivendo
che l'azione di condanna al rilascio di un provvedimento
richiesto è esercitata contestualmente all'azione di
annullamento del provvedimento di diniego o all'azione
avverso il silenzio.
Questo significa anticipare la richiesta di condanna
dell'amministrazione e, anziché un trabocchetto per gli
avvocati (che non devono dimenticarsi di inserire la domanda
specifica), potrà diventare un pungolo in più verso le
amministrazioni riottose.
Naturalmente il giudice non può sostituirsi
all'amministrazione: il Tar avrà ampio spazio di azione
quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che
non residuano ulteriori margini di esercizio della
discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori
che debbano essere compiuti dall'amministrazione. In questo
caso nella sentenza c'è già l'ordine all'amministrazione di
adeguarsi.
Negli altri casi sarà l'amministrazione a dover emettere un
nuovo provvedimento, esercitando la sua discrezionalità, ma
nel rispetto della sentenza.
Il secondo correttivo interviene anche sulla formulazione
degli atti rafforzando la regola per cui gli atti difensivi
devono essere sintetici e chiari. Il codice del processo
amministrativo detta, infatti, una disposizione rigorosa
quanto a rispetto del principio di sinteticità degli atti.
Richiamando il codice di procedura civile, l'articolo 26 del
codice del processo amministrativo dispone che il giudice
deve provvedere alla condanna alle spese del giudizio. La
regola è che chi perde paga e le spese, anche per i giudici
amministrativi, sono liquidate in base ai parametri del
decreto del ministero della giustizia n. 140/2012. Il
secondo correttivo prevede che la decisione sulle spese deve
essere presa tenendo conto dell'obbligo che le parti hanno
di redigere atti sintetici e chiari (articolo 3, comma 2 del
cpa). Questo significa che gli atti difensivi troppo lunghi
o troppo oscuri aumentano il rischio di dovere pagare un
conto salato di spese di soccombenza.
Si tratta di una regola per giudice, che va ad aggiungersi
ai parametri previsti dal decreto n. 140/2012, sulla
liquidazione giudiziale dei compensi professionali.
Il decreto 140/2012 contiene la regola per cui costituisce
elemento di valutazione negativa, in sede di liquidazione
giudiziale del compenso, l'adozione di condotte abusive tali
da ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi
ragionevoli. E la prolissità degli atti difensivi potrebbe
avere anche questo scopo: si pensi al fatto che la
controparte possa essere indotta a chiedere un rinvio per
poter analizzare e replicare a un atto lunghissimo.
La novella sul processo amministrativo prescinde da un
intento dilatorio e colpisce la prolissità in sé degli atti
e aggiunge un parametro non scritto nel decreto 140/2012, ma
è direttamente applicabile. Dunque le difese troppo
prolisse, con riferimento alle spese di lite sono un
azzardo. Anche se si ritiene che i giudici distingueranno i
casi in cui la prolissità è irragionevole, da quelli in cui
la complessità della questione merita un approfondimento.
Gli atti, infine, dovranno essere informatizzati in un
processo amministrativo telematico, che è ormai alle porte.
Il decreto correttivo, infatti, stabilisce che tutti gli
atti e i provvedimenti del giudice, dei suoi ausiliari, del
personale degli uffici giudiziari e delle parti potranno
essere sottoscritti con firma digitale (articolo
ItaliaOggi Sette del 24.09.2012). |
VARI:
Autovelox solo a
debita distanza.
Almeno un chilometro tra il dispositivo e la segnalazione.
Tre risoluzioni per allargare
l'obbligo anche all'accertamento da parte di una pattuglia.
Almeno un chilometro tra autovelox e segnale che impone il
limite di velocità. Presegnalamento e visibilità delle
postazioni. Sono di grande rilievo e impatto le disposizioni
introdotte dal legislatore negli ultimi anni per
regolamentare l'uso dei dispositivi che controllano la
velocità dei veicoli.
Ma in questi giorni le interpretazioni ministeriali su
alcuni specifici aspetti dell'impiego degli autovelox, in
particolare quelle sulla distanza dal segnale di velocità,
sono state oggetto di critiche dagli organi parlamentari.
La
commissione trasporti della camera nella seduta del 13.09.2012 ha infatti approvato tre risoluzioni che
impegnano il governo a riconsiderare le indicazioni
contenute nella circolare del 12.08.2010, nel senso di
chiarire che la disposizione di cui all'art. 25 della legge
n. 120/2010 relativa alla distanza non inferiore a un
chilometro dei dispositivi di controllo rispetto al segnale
che impone il limite di velocità è applicabile anche ai casi
in cui l'accertamento dell'illecito è effettuato con la
presenza di un organo di polizia stradale.
Distanza dal segnale di velocità. L'ultima modifica
introdotta dall'art. 25 della legge 120/2010 prevede che con
decreto del ministro delle infrastrutture e dei trasporti,
devono essere definite le modalità di collocazione e uso dei
dispositivi o mezzi tecnici di controllo, finalizzati al
rilevamento a distanza delle violazioni delle norme di
comportamento di cui all'art. 142 del codice della strada,
che fuori dei centri abitati non possono comunque essere
utilizzati o installati a una distanza inferiore a un
chilometro dal segnale che impone il limite di velocità.
Ma con la circolare prot. n. 300/A/11310/10/10/101/3/3/9 del
12.08.2010, il ministero dell'interno, discostandosi dal
dettato normativo e sostituendosi di fatto al previsto
decreto attuativo mai emanato, ha affermato che fuori dai
centri abitati solo gli autovelox fissi devono essere
posizionati ad almeno un chilometro dal segnale stradale che
impone il limiti di velocità.
L'obbligo di rispettare la
distanza minima non riguarda invece i casi in cui
l'accertamento dell'illecito è effettuato dalla polizia
stradale. Di fronte a questa discrasia fra il dettato
normativo e l'interpretazione del ministero dell'interno, la
commissione trasporti della camera ha approvato le tre
risoluzioni.
Presegnalamento e visibilità. Ai sensi dell'art. 3 del
decreto legge n. 117 del 03.08.2007 tutti i dispositivi
per il controllo elettronico della velocità in funzione
sulla rete stradale devono essere ben visibili e segnalati.
In attuazione di tale disposto, il decreto del ministero dei
trasporti del 15.08.2007 ha specificato che le
postazioni di controllo possono essere segnalate con
cartelli stradali di indicazione temporanei o permanenti,
con segnali stradali luminosi a messaggio variabile o con
dispositivi di segnalazione luminosi installati su veicoli.
I segnali stradali di indicazione devono essere realizzati
con un pannello rettangolare, di dimensioni e colore di
fondo propri del tipo di strada sul quale sono installati.
Sul pannello deve essere riportata l'iscrizione «controllo
elettronico della velocità» oppure «rilevamento elettronico
della velocità», eventualmente integrata con il simbolo o la
denominazione dell'organo di polizia stradale che attua il
controllo. I segnali stradali e i dispositivi di
segnalazione luminosi devono essere installati con adeguato
anticipo rispetto al luogo in cui viene effettuato il
rilevamento della velocità, e in modo da garantirne il
tempestivo avvistamento, in relazione alla velocità locale
predominante.
La distanza fra i segnali o i dispositivi e la
postazione di rilevamento della velocità deve essere
valutata in relazione allo stato dei luoghi; in particolare
è necessario che non vi siano tra il segnale e il luogo di
effettivo rilevamento intersezioni stradali che
comporterebbero la ripetizione del messaggio dopo le stesse,
e comunque non superiore a 4 km. Come indicato dalla
direttiva ministeriale del 14.08.2009, salvo casi
particolari in cui l'andamento plano-altimetrico della
strada o altre circostanze contingenti rendono consigliabile
collocarlo a una distanza maggiore, come distanza minima
adeguata fra il segnale e la postazione di controllo si può
considerare quella indicata, per ciascun tipo di strada,
dall'art. 79, c. 3, del regolamento di esecuzione e
attuazione del codice della strada per la collocazione dei
segnali di prescrizione. Questa distanza minima, infatti,
consente di garantire il corretto avvistamento del segnale
da parte degli utenti in transito.
Circa l'obbligo di piena
visibilità delle postazioni di controllo, comunque, il
riferimento deve essere fatto sempre solo alle
strumentazioni e non anche agli agenti operanti. Questo
aspetto è già stato chiarito anche dal ministero dei
trasporti con un parere del 6 ottobre 2009. L'art. 183 del
regolamento stradale, infatti, richiede che gli agenti del
traffico siano ben percepibili quando effettuano
segnalazioni in mezzo alla strada o si trovino ad operare in
condizioni di scarsa visibilità, serali o notturne.
L'obbligo di conoscibilità del controllo autovelox riguarda
la sola postazione, e dunque gli agenti non sono tenuti a
rendersi visibili.
E se l'accertamento della velocità viene
effettuato utilizzando il telelaser? Con una circolare del
15.03.2010 il Ministero dell'interno ha chiarito che in caso
di utilizzo di dispositivi che rilevano la velocità dei
veicoli in avvicinamento, la distanza minima di
posizionamento della segnaletica di preavviso va riferita
alla distanza che deve almeno intercorrere fra il luogo di
posizionamento della segnaletica e il punto di rilevamento
delle infrazioni, senza dunque fare riferimento al punto in
cui è collocata la strumentazione. Questo perché la distanza
deve essere adeguata per garantire il tempestivo
avvistamento della postazione (articolo
ItaliaOggi Sette del 24.09.2012). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
I concorrenti riuniti in raggruppamento
temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale
corrispondente alla quota di partecipazione al
raggruppamento, dovendo sussistere, come requisito di
ammissione alla gara, una perfetta coincidenza tra quota dei
lavori (o, nel caso di forniture o servizi, parti del
servizio o della fornitura) eseguita dal singolo operatore
economico e quota di effettiva partecipazione al
raggruppamento.
Comunque, il disposto dell’art. 95, comma 2, d.P.R. n. 554
del 1999, secondo cui l’impresa mandataria in ogni caso
possiede i requisiti in misura maggioritaria, deve essere
riferito non all’entità del requisito minimo complessivo
prescritto per la specifica gara di cui trattasi in
relazione all’importo dei lavori da commettere, bensì alle
quote effettive di partecipazione all’associazione, sicché
può definirsi maggioritaria l’impresa che, avendo un
qualifica adeguata, assuma concretamente una quota superiore
o comunque non inferiore a quella di ciascuna delle altre
imprese mandanti, a prescindere dai valori assoluti di
classifica di ognuna delle altre; ciò perché, in caso
diverso, si creerebbe un vincolo restrittivo al mercato, in
contrasto con il principio della libertà di determinazione
delle imprese in sede associativa, in quanto sarebbero
privilegiate comunque le imprese di grande dimensione.
In mancanza, quindi, di ulteriori e diversi elementi, non
può sostenersi che nel caso di specie la partecipazione
paritaria (50%) all’A.T.I. aggiudicataria delle imprese che
la costituiscono, implichi ex se la mancanza del possesso in
capo alla capogruppo mandataria dei requisiti di
partecipazione maggioritaria previsti dalla legge.
Sul punto, fermo restando l’indiscusso principio, più volte
ribadito, secondo cui i concorrenti riuniti in
raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni
nella percentuale corrispondente alla quota di
partecipazione al raggruppamento (tra le più recenti,
C.d.S., sez. V, 14.12.2011, n. 6538; 08.11.2011, n. 5892),
dovendo sussistere, come requisito di ammissione alla gara,
una perfetta coincidenza tra quota dei lavori (o, nel caso
di forniture o servizi, parti del servizio o della
fornitura) eseguita dal singolo operatore economico e quota
di effettiva partecipazione al raggruppamento (C.d.S., sez.
III, 11.05.2011, n. 2805), la Sezione ritiene di non doversi
discostare da quanto statuito da C.d.S., sez. V, 11.12.2007,
n. 6363, ove è stato affermato che “Il disposto dell’art.
95, comma 2, d.P.R. n. 554 del 1999, secondo cui l’impresa
mandataria in ogni caso possiede i requisiti in misura
maggioritaria, deve essere riferito non all’entità del
requisito minimo complessivo prescritto per la specifica
gara di cui trattasi in relazione all’importo dei lavori da
commettere, bensì alle quote effettive di partecipazione
all’associazione, sicché può definirsi maggioritaria
l’impresa che, avendo un qualifica adeguata, assuma
concretamente una quota superiore o comunque non inferiore a
quella di ciascuna delle altre imprese mandanti, a
prescindere dai valori assoluti di classifica di ognuna
delle altre; ciò perché, in caso diverso, si creerebbe un
vincolo restrittivo al mercato, in contrasto con il
principio della libertà di determinazione delle imprese in
sede associativa, in quanto sarebbero privilegiate comunque
le imprese di grande dimensione”.
In mancanza, quindi, di ulteriori e diversi elementi, non
può sostenersi che nel caso di specie la partecipazione
paritaria (50%) all’A.T.I. aggiudicataria delle imprese che
la costituiscono, implichi ex se la mancanza del
possesso in capo alla capogruppo mandataria dei requisiti di
partecipazione maggioritaria previsti dalla legge (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 28.09.2012 n. 5120 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il vincolo di inedificabilità della "fascia di
rispetto stradale" -che è una tipica espressione
dell’attività pianificatoria della p.a. nei riguardi di una
generalità di beni e di soggetti- non ha natura
espropriativa, ma unicamente conformativa, perché ha il solo
effetto di imporre alla proprietà l’obbligo di conformarsi
alla destinazione impressa al suolo in funzione di
salvaguardia della programmazione urbanistica,
indipendentemente dall’eventuale instaurazione di procedure
espropriative.
---------------
In presenza di un vincolo conformativo previsto dalla legge
(quale è la fascia di rispetto), non sono predicabili
riferimenti di effettualità edificatoria “di fatto”, ma, ai
fini del ristoro del proprietario inciso, rileva solo la
distinzione tra aree edificabili “di diritto” ed aree
“giuridicamente non edificabili".
La giurisprudenza ha correttamente concluso che il vincolo
di inedificabilità della "fascia di rispetto stradale"
-che è una tipica espressione dell’attività pianificatoria
della p.a. nei riguardi di una generalità di beni e di
soggetti- non ha natura espropriativa, ma unicamente
conformativa, perché ha il solo effetto di imporre alla
proprietà l’obbligo di conformarsi alla destinazione
impressa al suolo in funzione di salvaguardia della
programmazione urbanistica, indipendentemente dall’eventuale
instaurazione di procedure espropriative (cfr. Consiglio
Stato, sez. IV, 13.03.2008, n. 1095).
---------------
Deve dunque concordarsi con la
Cassazione che, in presenza di un vincolo conformativo
previsto dalla legge (quale è la fascia di rispetto), non
sono predicabili riferimenti di effettualità edificatoria “di
fatto”, ma, ai fini del ristoro del proprietario inciso,
rileva solo la distinzione tra aree edificabili “di
diritto” ed aree “giuridicamente non edificabili"
(cfr. infra multa: Cassazione civile, sez. I,
13.04.2006, n. 8707; Cassazione civile, sez. I, 28.10.2005,
n. 21092)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.09.2012 n. 5113 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - ATTI
AMMINISTRATIVI:
La giustizia amministrativa (analogamente a
quella civile, sia pure con diversità di strumenti e di
criteri) non ha il compito di ripristinare la legalità in
senso assoluto, ma quello di tutelare situazioni giuridiche
soggettive qualificate. Ciò significa che può ricorrere al
giudice amministrativo (come anche a quello civile) solo chi
abbia una posizione giuridica legittimante. Del resto una
selezione dei soggetti legittimati a ricorrere si impone
anche da un punto di vista pratico, perché in caso
contrario, essendo inevitabilmente limitate le risorse del
sistema giustizia, quest’ultimo si troverebbe (più di quanto
non lo sia già ora) nell’impossibilità di rispondere a tutte
le domande e in definitiva, nell’intento di allargare oltre
modo l’accesso alla giustizia, si finirebbe col negare
giustizia anche a chi ha più titolo per chiederla.
Ciò comporta che in ogni causa è necessaria la verifica
preliminare (sia pure sommaria e ordinariamente anche
tacita, qualora l’esito sia pacificamente positivo) della
legittimazione del richiedente. Tale verifica può essere
fatta d’ufficio o su eccezione della controparte;
l’eccezione, se del caso, può assumere anche quella forma
che nel processo civile la dottrina chiama “eccezione
riconvenzionale” e che nel processo amministrativo si chiama
“ricorso incidentale”. Pertanto, qualora il ricorso
incidentale abbia lo scopo di promuovere la verifica della
legittimazione del ricorrente principale, è naturale che
venga esaminato prioritariamente e che se fondato conduca a
dichiarare inammissibile il ricorso principale.
Nell’ambito della giustizia amministrativa, com’è noto, la
legittimazione non coincide necessariamente con l’interesse;
non tutti gli interessi sono “legittimi”, ossia tutelati e
non basta un interesse di mero fatto (per quanto, in
ipotesi, di notevole importanza dal punto di vista di chi ne
è portatore) a legittimare la proposizione di un ricorso.
---------------
In materia di gare d’appalto, è opinione comune che i
vizi determinatisi nel corso del relativo procedimento
possano essere impugnati, in linea di principio, solo da chi
ha partecipato alla gara. Ciò si dice anche nell’ipotesi che
si tratti di vizi che possono essere rimediati solamente
mediante l’indizione di una nuova gara e/o la riapertura dei
termini per la presentazione delle domande. Chi si è
volontariamente e liberamente astenuto dal partecipare ad
una gara non è legittimato a chiederne l’annullamento,
benché abbia di fatto interesse a che la gara venga
nuovamente bandita e possa quindi parteciparvi. La gara
infatti è per lui res inter alios acta e i vizi
determinatisi nel corso di essa non lo riguardano; non sono
cioè vizi che abbiano inciso sulla sua posizione giuridica
soggettiva (altra questione è quella di chi non abbia
partecipato perché ostacolato, o perché non vi è stato un
bando, o perché il bando non è stato regolarmente
pubblicato, o perché vi erano clausole di esclusione, etc.:
questa è una problematica diversa da quella ora in
considerazione).
Se tutto quanto detto sin qui si può ritenere comunemente
accettato, si deve ora aggiungere che alla posizione di chi
si è volontariamente e liberamente astenuto dal partecipare
ad una gara va assimilata quella di chi abbia preso, bensì,
l’iniziativa di parteciparvi, ma ne sia stato legittimamente
escluso per causa a lui stesso imputabile (domanda tardiva,
difetto di requisiti, vizi di forma, etc.). Anche per lui,
infatti, a questo punto la gara è res inter alios acta. Può
sperare che venga annullata e ripetuta, ma non ha titolo per
richiederlo (a meno che, s’intende, non rimuova prima l’atto
di esclusione impugnandolo; e riacquistando così lo status
di partecipante alla gara).
In questo quadro, non si vede una sufficiente ragione logica
per differenziare la posizione di chi sia stato escluso con
atto legittimo dell’autorità appaltante e quella di chi,
indebitamente ammesso, venga poi escluso per decisione del
giudice in accoglimento del ricorso (incidentale) di una
controparte. Il vizio dell’offerta è stato riconosciuto più
tardi, ma inficiava sin dall’inizio la partecipazione di
quel soggetto. Quest’ultimo dunque non ha (più) titolo per
partecipare alla gara, e di conseguenza non ha titolo per
impugnare i relativi atti, neppure con lo scopo di
provocarne l’integrale riedizione.
La giustizia amministrativa (analogamente a quella civile,
sia pure con diversità di strumenti e di criteri) non ha il
compito di ripristinare la legalità in senso assoluto, ma
quello di tutelare situazioni giuridiche soggettive
qualificate. Ciò significa che può ricorrere al giudice
amministrativo (come anche a quello civile) solo chi abbia
una posizione giuridica legittimante. Del resto una
selezione dei soggetti legittimati a ricorrere si impone
anche da un punto di vista pratico, perché in caso
contrario, essendo inevitabilmente limitate le risorse del
sistema giustizia, quest’ultimo si troverebbe (più di quanto
non lo sia già ora) nell’impossibilità di rispondere a tutte
le domande e in definitiva, nell’intento di allargare oltre
modo l’accesso alla giustizia, si finirebbe col negare
giustizia anche a chi ha più titolo per chiederla.
Ciò comporta che in ogni causa è necessaria la verifica
preliminare (sia pure sommaria e ordinariamente anche
tacita, qualora l’esito sia pacificamente positivo) della
legittimazione del richiedente. Tale verifica può essere
fatta d’ufficio o su eccezione della controparte;
l’eccezione, se del caso, può assumere anche quella forma
che nel processo civile la dottrina chiama “eccezione
riconvenzionale” e che nel processo amministrativo si
chiama “ricorso incidentale”. Pertanto, qualora il
ricorso incidentale abbia lo scopo di promuovere la verifica
della legittimazione del ricorrente principale, è naturale
che venga esaminato prioritariamente e che se fondato
conduca a dichiarare inammissibile il ricorso principale.
Nell’ambito della giustizia amministrativa, com’è noto, la
legittimazione non coincide necessariamente con l’interesse;
non tutti gli interessi sono “legittimi”, ossia
tutelati e non basta un interesse di mero fatto (per quanto,
in ipotesi, di notevole importanza dal punto di vista di chi
ne è portatore) a legittimare la proposizione di un ricorso.
In materia di gare d’appalto, è opinione comune che i vizi
determinatisi nel corso del relativo procedimento possano
essere impugnati, in linea di principio, solo da chi ha
partecipato alla gara. Ciò si dice anche nell’ipotesi che si
tratti di vizi che possono essere rimediati solamente
mediante l’indizione di una nuova gara e/o la riapertura dei
termini per la presentazione delle domande. Chi si è
volontariamente e liberamente astenuto dal partecipare ad
una gara non è legittimato a chiederne l’annullamento,
benché abbia di fatto interesse a che la gara venga
nuovamente bandita e possa quindi parteciparvi. La gara
infatti è per lui res inter alios acta e i vizi
determinatisi nel corso di essa non lo riguardano; non sono
cioè vizi che abbiano inciso sulla sua posizione giuridica
soggettiva (altra questione è quella di chi non abbia
partecipato perché ostacolato, o perché non vi è stato un
bando, o perché il bando non è stato regolarmente
pubblicato, o perché vi erano clausole di esclusione, etc.:
questa è una problematica diversa da quella ora in
considerazione).
Se tutto quanto detto sin qui si può ritenere comunemente
accettato, si deve ora aggiungere che alla posizione di chi
si è volontariamente e liberamente astenuto dal partecipare
ad una gara va assimilata quella di chi abbia preso, bensì,
l’iniziativa di parteciparvi, ma ne sia stato legittimamente
escluso per causa a lui stesso imputabile (domanda tardiva,
difetto di requisiti, vizi di forma, etc.). Anche per lui,
infatti, a questo punto la gara è res inter alios acta.
Può sperare che venga annullata e ripetuta, ma non ha titolo
per richiederlo (a meno che, s’intende, non rimuova prima
l’atto di esclusione impugnandolo; e riacquistando così lo
status di partecipante alla gara).
In questo quadro, non si vede una sufficiente ragione logica
per differenziare la posizione di chi sia stato escluso con
atto legittimo dell’autorità appaltante e quella di chi,
indebitamente ammesso, venga poi escluso per decisione del
giudice in accoglimento del ricorso (incidentale) di una
controparte. Il vizio dell’offerta è stato riconosciuto più
tardi, ma inficiava sin dall’inizio la partecipazione di
quel soggetto. Quest’ultimo dunque non ha (più) titolo per
partecipare alla gara, e di conseguenza non ha titolo per
impugnare i relativi atti, neppure con lo scopo di
provocarne l’integrale riedizione (Consiglio di Stato, Sez.
III,
sentenza 27.09.2012 n. 5111 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: In
presenza di atti plurimotivati, basati cioè su una pluralità
di motivazioni, ciascuna delle quali sufficiente a reggere
l’atto, l’omessa censura di una di esse determina
l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse a
ricorrere, rimanendo l’atto sorretto dall’ulteriore ragione
giustificatrice non oggetto di censura.
Ove tutte le motivazioni poste a base dell’atto impugnato
siano state censurate, ma che siano infondate le censure
relative ad una delle motivazioni in grado da sola di
reggere l’atto impugnato, il ricorso vada rigettato senza
necessità di disamina delle ulteriori censure relative alle
restanti motivazioni dell’atto, non potendo il ricorrente
vantare alcun interesse all’analisi di tali censure.
---------------
Non appare configurabile, in presenza di attività
interamente vincolata, alcun vizio di eccesso di potere,
essendo l’eccesso di potere ravvisabile per i soli atti
discrezionali e non anche per gli atti vincolati.
Costituisce, infatti, ius receptum che, in presenza di
atti plurimotivati, basati cioè su una pluralità di
motivazioni, ciascuna delle quali sufficiente a reggere
l’atto, l’omessa censura di una di esse determini
l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse a
ricorrere, rimanendo l’atto sorretto dall’ulteriore ragione
giustificatrice non oggetto di censura (cfr., ex multis,
TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 2009; in
senso analogo, TAR Liguria Genova, sez. I, 25.10.2010, n. 10015; TAR Campania Napoli, sez. VII,
02.10.2009, n. 5138).
Analogamente occorre ritenere che, ove tutte le motivazioni
poste a base dell’atto impugnato siano state censurate, ma
che siano infondate le censure relative ad una delle
motivazioni in grado da sola di reggere l’atto impugnato, il
ricorso vada rigettato senza necessità di disamina delle
ulteriori censure relative alle restanti motivazioni
dell’atto, non potendo il ricorrente vantare alcun interesse
all’analisi di tali censure [ex multis, TAR Campania
Salerno, sez. II, 17.01.2011, n. 63 secondo cui «per un
atto c.d. "plurimotivato", anche l'eventuale fondatezza di
una delle argomentazioni addotte non potrebbe in ogni caso
condurre all'annullamento dell'impugnato provvedimento
sindacale, che rimarrebbe sorretto dal primo versante
motivazionale risultato immune ai vizi lamentati»; TAR
Campania Napoli, sez. VIII, 14.01.2011, n. 139 secondo
cui «nel caso di provvedimento di esclusione da una gara
d'appalto "plurimotivato", la riconosciuta legittimità di
una delle ragioni dell'atto è sufficiente a reggere il
provvedimento di estromissione»; TAR Campania Napoli,
sez. VII, 14.01.2011, n. 164 secondo cui «nel caso in
cui il provvedimento impugnato sia fondato su di una
pluralità di autonomi motivi (c.d. provvedimento plrurimotivato), il rigetto della doglianza volta a
contestare una delle sue ragioni giustificatrici comporta la
carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle
ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni
giustificatrici atteso che, seppure tali ulteriori censure
si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe
comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad
ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che
resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto
sussistente»].
---------------
Né appare configurabile,
in presenza di attività interamente vincolata, alla luce del
chiaro disposto normativo, alcun vizio di eccesso di potere,
essendo l’eccesso di potere ravvisabile per i soli atti
discrezionali e non anche per gli atti vincolati (ex multis,
Consiglio Stato, sez. VI, 27.12.2007, n. 6658;
Consiglio Stato, sez. IV, 12.08.2005, n. 4371; Consiglio
Stato, sez. IV, 07.05.2004, n. 2842) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 27.09.2012 n. 4001 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L'omessa
corresponsione della seconda rata dell'oblazione computata
con la domanda di condono edilizio, né nei termini stabiliti
dall'art. 35 l. n. 47 del 1985, né in quelli fissati
dall'art. 39, comma 6, l. n. 724 del 1994, rende
improcedibile l'istanza di condono, a norma di quest'ultimo
articolo, indipendentemente dal mancato versamento delle
somme richieste a conguaglio con la determinazione, in via
definitiva, dell'importo dell'oblazione, senza che all'uopo
si richieda alcun provvedimento ulteriore (trattandosi di
misura sanzionatoria fissata direttamente dalla legge) e
senza che rilevi che l'Amministrazione abbia o meno
richiesto il pagamento delle rate successive alla prima.
In considerazione di
tanto, il Consiglio di Stato ha affermato che «l'omessa
corresponsione della seconda rata dell'oblazione computata
con la domanda di condono edilizio, né nei termini stabiliti
dall'art. 35 l. n. 47 del 1985, né in quelli fissati
dall'art. 39, comma 6, l. n. 724 del 1994, rende improcedibile l'istanza di condono, a norma di quest'ultimo
articolo, indipendentemente dal mancato versamento delle
somme richieste a conguaglio con la determinazione, in via
definitiva, dell'importo dell'oblazione, senza che all'uopo
si richieda alcun provvedimento ulteriore (trattandosi di
misura sanzionatoria fissata direttamente dalla legge) e
senza che rilevi che l'Amministrazione abbia o meno
richiesto il pagamento delle rate successive alla prima»
(Consiglio Stato, sez. V, 13.08.2007, n. 4441) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 27.09.2012 n. 4001 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Nella
motivazione dell’ordine di demolizione è necessaria e
sufficiente l’analitica descrizione delle opere abusivamente
realizzate, in modo da consentire al destinatario della
sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è
necessaria la descrizione precisa della superficie occupata
e dell’area di sedime destinata ad essere gratuitamente
acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza
all’ordine di demolizione, potendo la specificazione
intervenire nella successiva fase dell’accertamento
dell’eventuale inottemperanza all’ordine di demolizione.
---------------
L'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, costituisce atto
vincolato, e che, quindi, non richiede alcuna previa
specifica verifica circa la sussistenza di ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati: presupposto
per la sua adozione è soltanto la constatata esecuzione
dell’opera in totale difformità dal permesso di costruire o
in assenza di questo, cosicché tale provvedimento
–ricorrendo i predetti requisiti– è sufficientemente
motivato con l’affermazione dell’accertata abusività
dell’opera, essendo in re ipsa l’interesse pubblico alla sua
rimozione.
Infatti, secondo una
consolidata giurisprudenza (ex multis, TAR Toscana
Firenze, Sez. III, 06.02.2008, n. 117; TAR Campania
Napoli, Sez. III, 17.12.2007, n. 16311), nella
motivazione dell’ordine di demolizione è necessaria e
sufficiente l’analitica descrizione delle opere abusivamente
realizzate, in modo da consentire al destinatario della
sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è
necessaria la descrizione precisa della superficie occupata
e dell’area di sedime destinata ad essere gratuitamente
acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza
all’ordine di demolizione, potendo la specificazione
intervenire nella successiva fase dell’accertamento
dell’eventuale inottemperanza all’ordine di demolizione.
---------------
Invero, va premesso che
l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, costituisce atto
vincolato, e che, quindi, non richiede alcuna previa
specifica verifica circa la sussistenza di ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati: presupposto
per la sua adozione è soltanto la constatata esecuzione
dell’opera in totale difformità dal permesso di costruire o
in assenza di questo, cosicché tale provvedimento –ricorrendo i predetti requisiti– è sufficientemente
motivato con l’affermazione dell’accertata abusività
dell’opera, essendo in re ipsa l’interesse pubblico alla sua
rimozione (cfr. Cons. di Stato sez. IV, n. 2227 del
10.04.2009; Cons. di Stato sez. IV, n. 4659 del 26.09.2008;
Cons. di Stato sez. V, n. 4530 del 19.09.2008; Cons. di Stato
sez. IV, n. 2529 del 27.04.2004; TAR Piemonte n. 752 del
16.03.2009; TAR Campania-Napoli n. 1376 dell’11.03.2009;
TAR Basilicata n. 44 del 06.02.2009; TAR Campania-Napoli
n. 18085 del 02.12.2004)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 27.09.2012 n. 4001 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: Il
ricorso allo strumento dell’ordinanza contingibile ed
urgente (o anche avente soltanto valenza “ambientale”),
giustifica l’omissione della comunicazione di avvio del
procedimento unicamente in presenza di un’”urgenza
qualificata”, in relazione alle circostanze del caso
concreto, che deve essere debitamente esplicitata in
specifica motivazione sulla necessità e l’urgenza di
prevenire il grave pericolo alla cittadinanza, anche perché
sussiste un rapporto di conflittualità e di logica
sovraordinazione tra l’esigenza di tutela immediata della
pubblica incolumità e l’esigenza del privato inciso
dall’atto amministrativo di avere conoscenza dell’avvio del
procedimento; ciò in quanto il principio partecipativo alla
base della comunicazione di avvio del procedimento ha
carattere generalizzato ed impone, alla luce delle regole
fissate dall’art. 7 L. n. 241/1990, che l’invio di essa
abbia luogo in tutte quelle situazioni nelle quali la
possibilità di coinvolgere il privato non sia esclusa da
esigenze di celerità che caratterizzano la fattispecie e che
devono essere puntualmente esplicitate nel provvedimento in
concreto adottato.
---------------
In caso di rinvenimento di rifiuti da parte di terzi ignoti,
il proprietario o comunque il titolare in uso di fatto del
terreno non può essere chiamato a rispondere della
fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti
sulla propria area se non viene individuato a suo carico
l’elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo
stesso soggetto non può essere destinatario di ordinanza
sindacale di rimozione e rimessione in pristino.
Tanto perché l’art. 14 D.L. vo 05.02.1997, n. 22, in tema di
divieto di abbandono incontrollato sul suolo e nel suolo,
oltre a chiamare a rispondere dell’illecito ambientale
l’eventuale “responsabile dell’inquinamento”, accolla in
solido anche al proprietario dell’area la rimozione, l’avvio
a recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino
dello stato dei luoghi, ma ciò solo nel caso in cui la
violazione fosse imputabile a titolo di dolo o di colpa.
Il Collegio non ignora quella giurisprudenza per la quale la
rimozione dei rifiuti abbandonati su aree di pertinenza
delle autostrade spetta al concessionario in quanto la
normativa del Codice della Strada (art. 14, D.L. vo
30.04.1992, n. 285) si pone in rapporto di specialità
rispetto alle disposizioni del Codice dell’ambiente (art.
192, D.L.vo 03.04.2006, n. 152), tuttavia, nel caso di
specie, il Comune intimato ha adottato l’impugnata ordinanza
con espresso e testuale richiamo all’art. 192, comma 3, del
D.L.vo n. 152 del 03.04.2006, con la conseguenza che il
potere esercitato resta condizionato ai presupposti ed agli
effetti previsti da tale normativa.
Inoltre, in sede applicativa la giurisprudenza ha rilevato
che: <<Il dovere di diligenza, che fa capo al titolare del
fondo, non può arrivare al punto di richiedere una costante
vigilanza, da esercitarsi giorno e notte, per impedire ad
estranei di invadere l’area e, per quanto riguarda la
fattispecie regolata dall’art. 14 citato di abbandonarvi
rifiuti. La richiesta di un impegno di tale entità
travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della
diligenza media (o del buon padre di famiglia) che è alla
base della nozione di colpa, quando questa è indicata in
modo generico, come nella specie, senza ulteriori
specificazioni>>.
Il Collegio ritiene di confermare, in relazione
ai punti in diritto, quanto già ritenuto in una precedente
decisione (Sentenza n. 2800/2011 Tar Campania Sez. V) avente
ad oggetto analoga fattispecie.
Il ricorso è fondato in relazione ai dedotti profili di
violazione dell’art. 192 D.L. vo n. 152/2006, in relazione
agli artt. 7 ed 8 della L. n. 241/1990 ed in relazione
all’art. 3 della L. n. 241 del 1990.
In relazione alla censura con cui la società ricorrente
lamenta l’omessa comunicazione dell’avviso dell’avvio del
procedimento con la conseguente inosservanza delle regole
che garantiscono la partecipazione dell’interessato
all’istruttoria amministrativa si deve ritenerne la
fondatezza perché, nella fattispecie, anche in relazione
alla obiezione sollevata dalla società ricorrente circa la
mancanza di ogni suo coinvolgimento, a qualsiasi titolo,
nell’illecito ambientale contestato, necessitava consentirle
di partecipare in contraddittorio agli accertamenti ed alle
verifiche per individuare una soluzione tecnica e logistica
per la rimozione dei rifiuti depositati in maniera
incontrollata sull’area e la messa in sicurezza della
stessa.
Il Collegio condivide quanto rilevato in giurisprudenza
secondo la quale il ricorso allo strumento dell’ordinanza
contingibile ed urgente (o anche avente soltanto valenza
“ambientale”), giustifica l’omissione della comunicazione di
avvio del procedimento unicamente in presenza di un’”urgenza
qualificata”, in relazione alle circostanze del caso
concreto, che deve essere debitamente esplicitata in
specifica motivazione sulla necessità e l’urgenza di
prevenire il grave pericolo alla cittadinanza (Cfr.: TAR
Campania, Sez. V, 03.02.2005, n. 764), anche perché sussiste
un rapporto di conflittualità e di logica sovraordinazione
tra l’esigenza di tutela immediata della pubblica incolumità
e l’esigenza del privato inciso dall’atto amministrativo di
avere conoscenza dell’avvio del procedimento (Cfr: TAR
Marche, 25.01.2002, n. 97; TAR Toscana, Sez. II, 14.02.2000, n. 168); ciò in quanto il principio
partecipativo alla base della comunicazione di avvio del
procedimento ha carattere generalizzato ed impone, alla luce
delle regole fissate dall’art. 7 L. n. 241/1990, che l’invio
di essa abbia luogo in tutte quelle situazioni nelle quali
la possibilità di coinvolgere il privato non sia esclusa da
esigenze di celerità che caratterizzano la fattispecie e che
devono essere puntualmente esplicitate nel provvedimento in
concreto adottato.
Pertanto, non accennandosi nell’impugnata ordinanza a quali
siano stati i motivi di urgenza che abbiano reso
obiettivamente impossibile la comunicazione di avvio del
procedimento, non sussisteva alcuna concreta ragione, per
adottare il provvedimento impugnato, in assoluta carenza di
contraddittorio e senza il diretto coinvolgimento della
società interessata che, nel caso di specie, sarebbe stato
quanto mai opportuno, per consentirgli di dimostrare
l’estraneità di qualsiasi elemento di colpevolezza a suo
carico.
Inoltre, in relazione alla censura nella quale è stata
dedotta la violazione dell’art. 192 D.L. vo n. 152/2006,
stavolta in relazione all’art. 3 della L. n. 241 del 1990,
come la giurisprudenza ha evidenziato in numerose occasioni
(ex multis, cfr: TAR Campania, sez. V, 06.10.2008, n.
13004), in caso di rinvenimento di rifiuti da parte di terzi
ignoti, il proprietario o comunque il titolare in uso di
fatto del terreno non può essere chiamato a rispondere della
fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti
sulla propria area se non viene individuato a suo carico
l’elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo
stesso soggetto non può essere destinatario di ordinanza
sindacale di rimozione e rimessione in pristino (cfr: TAR
Campania, Sez. I; 19.03.2004, n. 3042, TAR Toscana, 12.05.2003, n. 1548, C. di S., IV Sez. 20.01.2003, n.
168).
Tanto perché l’art. 14 D.L. vo 05.02.1997, n. 22, in
tema di divieto di abbandono incontrollato sul suolo e nel
suolo, oltre a chiamare a rispondere dell’illecito
ambientale l’eventuale “responsabile dell’inquinamento”,
accolla in solido anche al proprietario dell’area la
rimozione, l’avvio a recupero o lo smaltimento dei rifiuti
ed il ripristino dello stato dei luoghi, ma ciò solo nel
caso in cui la violazione fosse imputabile a titolo di dolo
o di colpa (Cfr. TAR Lombardia, Sez. I, 26.01.2000,
n. 292 e TAR Umbria 10.03.2000, n. 253).
Il Collegio non ignora quella giurisprudenza (Cfr. TAR
Puglia, Lecce, 18.06.2008, n. 487) per la quale la
rimozione dei rifiuti abbandonati su aree di pertinenza
delle autostrade spetta al concessionario in quanto la
normativa del Codice della Strada (art. 14, D.L. vo 30.04.1992, n. 285) si pone in rapporto di specialità
rispetto alle disposizioni del Codice dell’ambiente (art.
192, D.L.vo 03.04.2006, n. 152), tuttavia, nel caso di
specie, il Comune intimato ha adottato l’impugnata ordinanza
con espresso e testuale richiamo all’art. 192, comma 3, del
D.L.vo n. 152 del 03.04.2006, con la conseguenza che il potere
esercitato resta condizionato ai presupposti ed agli effetti
previsti da tale normativa.
Inoltre, in sede applicativa la giurisprudenza ha rilevato
che: <<Il dovere di diligenza, che fa capo al titolare del
fondo, non può arrivare al punto di richiedere una costante
vigilanza, da esercitarsi giorno e notte, per impedire ad
estranei di invadere l’area e, per quanto riguarda la
fattispecie regolata dall’art. 14 citato di abbandonarvi
rifiuti. La richiesta di un impegno di tale entità
travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della
diligenza media (o del buon padre di famiglia) che è alla
base della nozione di colpa, quando questa è indicata in
modo generico, come nella specie, senza ulteriori
specificazioni>> (ex plurimis: C. di S., Sez. V,
08.03.2005,
n. 935; TAR Campania, Napoli, sez. V, 05.08.2008, n. 9795).
Nel caso di specie le caratteristiche del bene ed, in
particolare, la sua estensione e la sua difficile
controllabilità, sono tali da non fare emergere in termini
obiettivi i necessari elementi di colpevolezza a carico
della società ricorrente.
Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema
normativo attualmente vigente, quale quello del D.L. vo n.
152/2006 in tema di ambiente. In siffatto disposto normativo
tutto incentrato su una rigorosa tipicità dell’illecito
ambientale, alcun spazio v’è per una responsabilità
oggettiva, nel senso che -ai sensi dell’art. 192- per
essere ritenuto responsabile delle violazione dalla quale è
scaturita la situazione di inquinamento, occorre quantomeno
la colpa. E tale regola di imputabilità a titolo di dolo o
colpa non ammette eccezioni anche in relazione ad
un’eventuale responsabilità solidale del proprietario
dell’area ove si è verificato l’abbandono ed il deposito
incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo.
Nel caso in esame, non emerge, come sovente accade la
possibilità di risalire all’autore materiale dell’abbandono
dei rifiuti sulla piazzola autostradale in questione e, non
facendosi cenno nell’ordinanza impugnata ad accertamenti o a
verifiche dai quali emerga che l’abbandono dei rifiuti sia
ascrivibile alla società ricorrente, se ne fa derivare una
responsabilità di quest’ultima per culpa in vigilando, per
la mera qualità di concessionaria della rete autostradale
con obbligo di manutenzione della stessa.
Ciò non è ammissibile. A diversamente ritenere verrebbe a
configurarsi in capo al gestore un inesigibile obbligo di
garanzia in concreto, per la mera qualità di custode,
obbligo che, tuttavia, in quanto riconducibile ad una
responsabilità oggettiva, esula dal dovere di custodia di
cui all’art. 2051 cod. civ. il quale consente sempre la
prova liberatoria in presenza di caso fortuito (da
intendersi in senso ampio, comprensiva anche del fatto del
terzo e della colpa esclusiva del danneggiato)
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 27.09.2012 n. 3987 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Presupposto
per l'adozione dell’ordine di demolizione di opere abusive è
soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio
in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la
conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è
sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e
non necessita di una particolare motivazione in ordine
all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che
è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto
urbanistico violato, e alla possibilità di adottare
provvedimenti alternativi.
---------------
In sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere
edilizie abusive su area vincolata non è necessario
acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal
momento che l'ordine di ripristino discende direttamente
dall'applicazione della disciplina edilizia vigente e non
costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti
dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio.
Va pure respinto il profilo, con il quale
il ricorrente ha lamentato la mancata enucleazione, nella
motivazione dell’atto, dell’interesse pubblico alla
rimozione dell’opera.
Infatti, come costantemente affermato in giurisprudenza
“...presupposto per l'adozione dell’ordine di demolizione di
opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un
intervento edilizio in assenza del prescritto titolo
abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un
atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con
l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una
particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico
alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato,
e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi”
(tra le molte, TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 1999).
---------------
Infatti, come
costantemente affermato dalla giurisprudenza amministrativa,
“... in sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di
opere edilizie abusive su area vincolata non è necessario
acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal
momento che l'ordine di ripristino discende direttamente
dall'applicazione della disciplina edilizia vigente e non
costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti
dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio”
(così, da ultimo, TAR Liguria, Genova, sez. I, 21.09.2011, n. 1393, nello stesso senso vedi pure TAR
Campania, Napoli sez. VI, 05.03.2012, secondo cui “... in
sede di emanazione di ordinanza di demolizione delle opere
edilizie abusive su area vincolata non è necessario
acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal
momento che l'ordine di ripristino discende direttamente
dall'applicazione della disciplina edilizia vigente ...e in
quanto non vi è alcun obbligo di far luogo ad accertamenti
di danni ambientali, ovvero di applicazione di sanzioni
pecuniarie alternative”)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 26.09.2012 n. 3951 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: In
presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa
urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità
comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di
verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n.
380 del 2001.
Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n.
380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del
competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza
alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art.
36, d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all'esclusiva
iniziativa della parte interessata l'attivazione del
procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi
disciplinato.
Quanto alla carenza di motivazione in ordine
alla sanabilità delle opere, come si è ripetutamente
espressa la sezione (cfr. da ultimo sentenza n. 2962 del 21.06.2012) e come costantemente affermato in
giurisprudenza, condivisa dal collegio “… in presenza di un
abuso edilizio, la vigente normativa urbanistica non pone
alcun obbligo in capo all'autorità comunale, prima di
emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la
sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001.
Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n.
380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del
competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza
alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art.
36, d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all'esclusiva
iniziativa della parte interessata l'attivazione del
procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi
disciplinato” (cfr. TAR Campania Napoli, sez. IV, 06.07.2007,
n. 6552)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 26.09.2012 n. 3950 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
provvedimento di demolizione, in quanto atto vincolato -al
pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia- non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati.
La misura repressivo-ripristinatoria costituisce un atto
dovuto e rigorosamente vincolato, affrancato dalla
ponderazione discrezionale del configgente interesse al
mantenimento in loco della res, dove l’interesse pubblico
risiede in re ipsa nella riparazione (tramite ripristino
dello stato dei luoghi) dell'illecito edilizio. Pertanto,
essa è da ritenersi sorretta da adeguata e autosufficiente
motivazione, allorquando come nel caso di specie sia
rinvenibile la compiuta descrizione degli interventi abusivi
contestati e l’individuazione della violazione commessa.
Né può essere accolta la
censura di difetto di motivazione (quarto e quinto motivo),
atteso che il provvedimento di demolizione, in quanto atto
vincolato -al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia- non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati (tra le molte, TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 29.01.2009, n. 501).
Ribadita la subordinazione delle opere al previo ottenimento
di permesso di costruire, la cui omissione legittima
l’adozione della sanzione ripristinatoria), deve rilevarsi
come “... la misura repressivo-ripristinatoria costituisce
un atto dovuto e rigorosamente vincolato, affrancato dalla
ponderazione discrezionale del configgente interesse al
mantenimento in loco della res, dove l’interesse pubblico
risiede in re ipsa nella riparazione (tramite ripristino
dello stato dei luoghi) dell'illecito edilizio. Pertanto,
essa è da ritenersi sorretta da adeguata e autosufficiente
motivazione, allorquando come nel caso di specie sia
rinvenibile la compiuta descrizione degli interventi abusivi
contestati e l’individuazione della violazione commessa”
(tra le molte, TAR Campania, Napoli sez. VIII, 09.02.2012, n. 693, 09.02.2012, n. 696, sez. II, 06.02.2012, n. 580, sez. VI, 31.08.2011, n. 4253)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 26.09.2012 n. 3950 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
giurisprudenza ha riconosciuto non solo che il parere
dell’autorità preposta alla tutela del vincolo è
"pregiudiziale ad ogni altra valutazione", ma ha anche
rilevato che il “parere” previsto dall'art. 32 cit. ai fini
del rilascio della sanatoria ha natura e funzioni identiche
all'”autorizzazione paesaggistica” ai sensi dell’art. 7
della legge n. 1497/1939, in quanto entrambi gli atti
costituiscono il presupposto per l’assentimento del titolo
che legittima la trasformazione urbanistico-edilizia
dell’area protetta, il quale deve ritenersi realizzato,
quindi, solo con la conclusione della procedura di
regolarizzazione (dal momento che l’autorizzazione
paesaggistica deve essere inviata alla Sovrintendenza per
l’esercizio dei suoi poteri, per l’eventuale annullamento,
entro 60 giorni).
Il procedimento di sanatoria, in
particolare, si compone di due procedure, autonome e
distinte, quanto all'ambito degli interessi sottesi (di
carattere ambientale che coinvolgono anche l’autorità
statale e cioè la Soprintendenza, e di carattere urbanistico-edilizio propri del Comune), ma che confluiscono
nel provvedimento finale di rilascio della concessione
edilizia in sanatoria. In quel momento sono da ritenersi
accertati gli abusi commessi (sia edilizi che ambientali),
essendo stata valutata la possibilità di rilasciare il
titolo che legittima quanto sino a quel momento
illegittimamente realizzato; in particolare, nella
fattispecie ora in esame ed ai fini che interessano, è stata
valutata la compatibilità ambientale dell’opera dallo stesso
Comune, la cui determinazione positiva non è stata oggetto
di annullamento da parte della Soprintendenza.
In proposito la giurisprudenza ha riconosciuto non solo che
il parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo è
"pregiudiziale ad ogni altra valutazione" (C.d.S., sez. V,
n. 177/2000), ma ha anche rilevato che il “parere” previsto
dall'art. 32 cit. ai fini del rilascio della sanatoria ha
natura e funzioni identiche all'”autorizzazione
paesaggistica” ai sensi dell’art. 7 della legge n.
1497/1939, in quanto entrambi gli atti costituiscono il
presupposto per l’assentimento del titolo che legittima la
trasformazione urbanistico-edilizia dell’area protetta
(Cons. Stato, VI, n. 114/1998), il quale deve ritenersi
realizzato, quindi, solo con la conclusione della procedura
di regolarizzazione (dal momento che l’autorizzazione
paesaggistica deve essere inviata alla Sovrintendenza per
l’esercizio dei suoi poteri, per l’eventuale annullamento,
entro 60 giorni).
In definitiva, il momento dell’accertamento dell’illecito
deve individuarsi con quello del compiuto rilascio della
sanatoria edilizia e che determina altresì il venir meno
della sua permanenza; ragionando diversamente, si dovrebbe
giungere ad affermare che, anche dopo il rilascio della
concessione in sanatoria, l’immobile potrebbe essere
demolito perché non compatibile con gli interessi
ambientali, non decorrendo mai il termine della pubblica
amministrazione per esercitare i poteri sanzionatori ai fini
ambientali; ma ciò si porrebbe in contraddizione logica col
rilascio del titolo a sanatoria che a sua volta presuppone
la compatibilità “ambientale” dell’opera.
D’altro canto la
giurisprudenza amministrativa (si veda Cons. di Stato, sez. VI, 3184/2000) ha anche affermato che in generale la
“permanenza” dell’illecito amministrativo de quo viene meno
“solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a
dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni”
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 26.09.2012 n. 3949 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: In
presenza dell'esercizio della facoltà straordinaria di
sanatoria prevista dalla legge (condono edilizio), il
provvedimento repressivo (e quindi quello di accertamento
della non conformità) “perde efficacia in quanto deve essere
sostituito o dal permesso di costruire in sanatoria o da un
nuovo procedimento sanzionatorio, essendo l’Amministrazione
tenuta, in quest'ultimo caso, in base a quanto previsto
dall'art. 40, comma 1, l. n. 47 del 1985, al completo
riesame della fattispecie”, con conseguente “traslazione e
differimento dell'interesse ad impugnare verso il futuro
provvedimento che, eventualmente, respinga la domanda
medesima, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera
edilizia ritenuta abusiva.
Il ricorso è improcedibile in quanto in data 04.03.2001 la ricorrente ha depositato, unitamente
all’istanza di fissazione dell’udienza, copia della
richiesta di concessione edilizia in sanatoria ai sensi
dell’art. 39 della legge 724/1994 s.m.i. presentata in data 28.02.1995 (prot. n. 2204), sulla quale il Comune non
risulta ancora essersi pronunciato.
Invero, per giurisprudenza risalente e consolidata, a tale
definizione in rito della causa deve pervenirsi ove, in sede
di decisione di un ricorso proposto avverso ordini di
demolizione risulti successivamente presentata domanda per
conseguire il condono edilizio. Ciò in quanto in presenza
dell'esercizio della facoltà straordinaria prevista dalla
legge, il provvedimento repressivo (e quindi quello di
accertamento della non conformità) “perde efficacia in
quanto deve essere sostituito o dal permesso di costruire in
sanatoria o da un nuovo procedimento sanzionatorio, essendo
l’Amministrazione tenuta, in quest'ultimo caso, in base a
quanto previsto dall'art. 40, comma 1, l. n. 47 del 1985, al
completo riesame della fattispecie”, con conseguente
“traslazione e differimento dell'interesse ad impugnare
verso il futuro provvedimento che, eventualmente, respinga
la domanda medesima, disponendo nuovamente la demolizione
dell'opera edilizia ritenuta abusiva” (si vedano, fra le
molte, Cons. Stato, sezione V, 06.07.2007 n. 3855, Cons.
Stato, sezione VI, 07.05.2009, n. 2833; TAR Campania,
Napoli, questa sesta sezione, sentenze n. 3933 del 20.07.2011, n. 1645 del 23.03.2011; n. 15979 del 23.06.2010; 25.02.2010, n. 1158 e
09.11.2009, n. 7051;
sezione VII, 09.02.2009, n. 645; TAR Lazio, Roma,
sezione I, 09.02.2010, n. 1780; TAR Emilia Romagna,
Bologna, sezione II, 12.01.2010, n. 20)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 26.09.2012 n. 3947 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Nessun
dubbio sussiste in merito al fatto che nei confronti di Anas
s.p.a., pur essendo soggetto di natura privatistica, sia
esercitabile il diritto di accesso agli atti di cui ai
citati artt. 22 e segg. della legge n. 241/1990.
Invero, Anas. s.p.a. rientra tra le pubbliche
amministrazioni nei cui confronti è esercitatile il diritto
di accesso. Difatti, anche l'attività degli enti pubblici
economici e dei gestori di pubblici servizi, quando
coinvolge interessi pubblici, rientra nell'ambito di
applicazione dell'art. 97 Cost., essendo svolta, pur se
sottoposta di regola al diritto comune, oltre che
nell'interesse proprio, anche per soddisfare quelli della
collettività, con la conseguenza che i relativi atti sono
soggetti all'accesso ex l. n. 241 del 1990.
Va invero rilevato che nessun dubbio sussiste in merito al
fatto che nei confronti di Anas s.p.a., pur essendo soggetto
di natura privatistica, sia esercitabile il diritto di
accesso agli atti di cui ai citati artt. 22 e segg. della
legge n. 241/1990.
In proposito si riporta quanto affermato dalla Sezione in
una recente pronuncia: “Anas. s.p.a. rientra tra le
pubbliche amministrazioni nei cui confronti è esercitatile
il diritto di accesso. Difatti, anche l'attività degli enti
pubblici economici e dei gestori di pubblici servizi, quando
coinvolge interessi pubblici, rientra nell'ambito di
applicazione dell'art. 97 Cost., essendo svolta, pur se
sottoposta di regola al diritto comune, oltre che
nell'interesse proprio, anche per soddisfare quelli della
collettività, con la conseguenza che i relativi atti sono
soggetti all'accesso ex l. n. 241 del 1990” (cfr. TAR
Lombardia Milano, sez. III, 03.03.2010, n. 530).
Inoltre, nessun dubbio sussiste in merito all’interesse
della ricorrente, peraltro adeguatamente illustrato
nell’istanza d’accesso agli atti formulata ad Anas, in
merito alla conoscenza del contenuto degli atti richiesti,
trattandosi di documentazione afferente ad un procedimento
espropriativo che riguarda terreni di sua proprietà.
Infine, non può ancora dubitarsi che sull’istanza si sia
formato un tacito diniego, non essendosi Anas espressa su di
essa entro il termine di trenta giorni dalla ricezione della
domanda, di cui all’art. 25, comma 4, della legge n.
241/1990.
Per queste ragioni la domanda deve essere accolta e, per
l’effetto, Anas s.p.a. deve essere condannata, ai sensi
dell’art. 116 c.p.a., al rilascio, entro trenta giorni dalla
comunicazione delle presente sentenza, della documentazione
richiesta dalla ricorrente con nota del 24.01.2012
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 26.09.2012 n. 2416 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 12 del d.P.R. n. 380 del 2001, in vista del
rilascio del permesso di costruire è necessario che esistano
almeno le opere di urbanizzazione primaria stimate in
concreto necessarie, ivi comprese quelle relative alla
viabilità ed alla rete fognaria, in modo che la zona possa
dirsi sistemata per l'insediamento industriale in argomento.
Compito primario della pianificazione urbanistica è,
infatti, quello di coordinare armonicamente l’attività
edificatoria privata con la predisposizione di un adeguato
sistema infrastrutturale, che valga ad assicurare uno
sviluppo edilizio del territorio ordinato e razionale.
A tal riguardo, vale poi aggiungere che le opere di
urbanizzazione primaria sono elencate dall'art. 4 della l.
29.09.1964 n. 847 e comprendono spazi di sosta o di
parcheggio, rete idrica, rete di distribuzione dell'energia
elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde
attrezzato, strade residenziali nonché, per l’appunto,
idonee fognature, ancor più indispensabili nel caso di
reflui industriali.
Al riguardo, è sufficiente ribadire, in aderenza
ad un orientamento già ripetutamente espresso dalla Sezione
(cfr. TAR Campania, Napoli, Sezione Seconda, n. 694/2006 e
n. 8894/2008) che, ai sensi dell’art. 12 del d.P.R. n. 380 del
2001, in vista del rilascio del permesso di costruire è
necessario che esistano almeno le opere di urbanizzazione
primaria stimate in concreto necessarie, ivi comprese quelle
relative alla viabilità ed alla rete fognaria, in modo che
la zona possa dirsi sistemata per l'insediamento industriale
in argomento. Compito primario della pianificazione
urbanistica è, infatti, quello di coordinare armonicamente
l’attività edificatoria privata con la predisposizione di un
adeguato sistema infrastrutturale, che valga ad assicurare
uno sviluppo edilizio del territorio ordinato e razionale.
A
tal riguardo, vale poi aggiungere che le opere di
urbanizzazione primaria sono elencate dall'art. 4 della l.
29.09.1964 n. 847 e comprendono spazi di sosta o di
parcheggio, rete idrica, rete di distribuzione dell'energia
elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde
attrezzato, strade residenziali nonché, per l’appunto,
idonee fognature, ancor più indispensabili nel caso di
reflui industriali
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 25.09.2012 n. 3942 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
Collegio richiama il portato giurisprudenziale che nega
l'effetto invalidante dell'omissione della comunicazione di
avvio del procedimento, ai sensi del suindicato art. 7,
rispetto alle sanzioni ripristinatorie in materia
urbanistica, trattandosi di procedimenti sanzionatori basati
su meri accertamenti tecnici e scanditi da disposizioni che
escludono qualsiasi valutazione discrezionale, che deve a
maggior ragione applicarsi per le ipotesi di violazione di
normativa antisismica.
Per quanto riguarda le restanti censure,
infondata risulta la dedotta violazione dell’art. 7 della
legge n. 241/1990, per omessa comunicazione di avvio del
procedimento (primo motivo di ricorso), il Collegio richiama
il portato giurisprudenziale che nega l'effetto invalidante
dell'omissione della comunicazione di avvio del
procedimento, ai sensi del suindicato art. 7, rispetto alle
sanzioni ripristinatorie in materia urbanistica, trattandosi
di procedimenti sanzionatori basati su meri accertamenti
tecnici e scanditi da disposizioni che escludono qualsiasi
valutazione discrezionale (TAR Campania Napoli, sez. IV,
17.01.2007, n. 357; TAR Lombardia Milano, sez. II,
n. 2378/2003; TAR Lombardia Milano, sez. II, n. 1278/2008),
che deve a maggior ragione applicarsi per le ipotesi di
violazione di normativa antisismica.
In ogni caso il Collegio, in considerazione di quanto
indicato nella presente parte motiva, ritiene applicabile
all'ipotesi in esame il disposto dell'art. 21-octies della
legge n. 241/1990, secondo cui non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti, vertendosi in ambito
provvedi mentale vincolato e risultando che il contenuto
dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 25.09.2012 n. 3939 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: In
materia di pubblico impiego il dipendente è portatore di un
interesse qualificato alla conoscenza degli atti e documenti
che riguardano la propria posizione lavorativa, atteso che
gli stessi esulano dal diritto alla riservatezza e che
l'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, garantisce l'accesso ai
documenti amministrativi relativi al rapporto di pubblico
impiego «privatizzato», anche se le eventuali controversie
attinenti ad detto rapporto sono devolute alla giurisdizione
del Giudice ordinario.
Ora, il Collegio rileva, in via preliminare, come in
materia di pubblico impiego il dipendente è portatore di un
interesse qualificato alla conoscenza degli atti e documenti
che riguardano la propria posizione lavorativa, atteso che
gli stessi esulano dal diritto alla riservatezza e che
l'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, garantisce l'accesso ai
documenti amministrativi relativi al rapporto di pubblico
impiego «privatizzato», anche se le eventuali controversie
attinenti ad detto rapporto sono devolute alla giurisdizione
del Giudice ordinario (TAR Lecce Puglia, sez. II, 09.02.2012, n. 245; Consiglio di Stato, sez. V, 18.10.2011, n. 5566; Consiglio di Stato, sez. VI, 19.04.2011, n. 2434)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 25.09.2012 n. 3938 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: E’
principio generale previsto dall’allora vigente art. 7 della
legge n. 47/1985 (come interpretato dalla giurisprudenza), e
oggi trasposto nell’art. 31 D.P.R. 380/2001, che l’ordine di
demolizione possa essere adottato nei confronti del
responsabile dell’abuso e del proprietario delle aree anche
se non responsabile.
Inoltre, l’art. 14 della legge n. 47/1985, applicabile
ratione temporis alla fattispecie de qua, prescriveva che
“qualora sia accertata l'esecuzione di opere da parte di
soggetti diversi da quelli di cui al precedente articolo 5
in assenza di concessione ad edificare, ovvero in totale o
parziale difformità dalla medesima, su suoli del demanio o
del patrimonio dello Stato o di enti pubblici, il sindaco
ordina, dandone comunicazione all'ente proprietario del
suolo, previa diffida non rinnovabile al responsabile
dell'abuso, la demolizione ed il ripristino dello stato dei
luoghi”.
L’ordinanza di cui all’art. 14 L. 47/1985 -a differenza di
quella di cui all’art. 7 della medesima legge e oggi
dell’art. 31 D.P.R. 380/2001 che può essere adottata anche
nei confronti del proprietario non responsabile- è
legittimamente adottata nei confronti del solo responsabile
dell’abuso, ovvero di colui che ha realizzato le opere senza
concessione edilizia.
La correttezza di siffatta interpretazione si evince anche
dalla circostanza che il legislatore nel formulare l’art. 31
D.P.R. 380/2001, recependo gli indirizzi giurisprudenziali,
ha fatto riferimento anche al proprietario dell’area come
legittimato passivo dell’ingiunzione di demolizione e non
solo al responsabile dell’abuso, mentre nel formulare l’art.
35 D.P.R. 380/2001 ha previsto come unico legittimato
passivo il responsabile dell’abuso e non anche i soggetti
che a qualunque titolo acquistino la disponibilità dell’area
demaniale.
Illegittimo si presenta, pertanto, l’ordine di demolizione
in quanto la mera circostanza della detenzione dell’area in
forza di un contratto di locazione non era sufficiente a
giustificare la legittimazione passiva del soggetto intimato
rispetto alla ricevuta diffida di riduzione in pristino.
E’ principio generale previsto dall’allora
vigente art. 7 della legge n. 47/1985 (come interpretato dalla
giurisprudenza), e oggi trasposto nell’art. 31 D.P.R.
380/2001, che l’ordine di demolizione possa essere adottato
nei confronti del responsabile dell’abuso e del proprietario
delle aree anche se non responsabile.
Inoltre, l’art. 14 della legge n. 47/1985, applicabile ratione
temporis alla fattispecie de qua, prescriveva che “qualora
sia accertata l'esecuzione di opere da parte di soggetti
diversi da quelli di cui al precedente articolo 5 in assenza
di concessione ad edificare, ovvero in totale o parziale
difformità dalla medesima, su suoli del demanio o del
patrimonio dello Stato o di enti pubblici, il sindaco
ordina, dandone comunicazione all'ente proprietario del
suolo, previa diffida non rinnovabile al responsabile
dell'abuso, la demolizione ed il ripristino dello stato dei
luoghi”.
L’ordinanza di cui all’art. 14 L. 47/1985 -a differenza di
quella di cui all’art. 7 della medesima legge e oggi
dell’art. 31 D.P.R. 380/2001 che può essere adottata anche nei
confronti del proprietario non responsabile- è
legittimamente adottata nei confronti del solo responsabile
dell’abuso, ovvero di colui che ha realizzato le opere senza
concessione edilizia.
La correttezza di siffatta interpretazione si evince anche
dalla circostanza che il legislatore nel formulare l’art. 31
D.P.R. 380/2001, recependo gli indirizzi giurisprudenziali, ha
fatto riferimento anche al proprietario dell’area come
legittimato passivo dell’ingiunzione di demolizione e non
solo al responsabile dell’abuso, mentre nel formulare l’art.
35 D.P.R. 380/2001 ha previsto come unico legittimato passivo
il responsabile dell’abuso e non anche i soggetti che a
qualunque titolo acquistino la disponibilità dell’area
demaniale (TAR Campania Napoli, Sez. VII, 22.03.2012, n.
1445).
Illegittimo si presenta, pertanto, l’ordine di demolizione
in quanto la mera circostanza della detenzione dell’area in
forza di un contratto di locazione non era sufficiente a
giustificare la legittimazione passiva del soggetto intimato
rispetto alla ricevuta diffida di riduzione in pristino
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 25.09.2012 n. 3935 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: I
provvedimenti che irrogano sanzioni previste dalla legge in
materia edilizia non necessitano di alcuna specifica
motivazione in ordine all’interesse pubblico a disporre il
ripristino della situazione conforme a legge, né il Comune
ha discrezionalità nello stabilire le sanzioni derivanti
dall’inosservanza della normativa urbanistica e di tutela
ambientale.
Una volta accertata l'illecita esecuzione di opere abusive
in mancanza di concessione (ora permesso di costruire),
l’adozione dell'ordinanza di demolizione non necessita di
alcuna specifica motivazione sull'interesse pubblico e ne
deve essere disposta la demolizione indipendentemente dalla
verifica della loro eventuale conformità allo strumento
urbanistico e della loro sanabilità.
Infatti, l'abusività di un'opera edilizia costituisce già di
per sé sola presupposto per l'applicazione della prescritta
sanzione demolitoria.
Quanto al profilo del passaggio di un notevole lasso di
tempo dalla commissione alla repressione dell’abuso, il
Collegio ben conosce quel filone giurisprudenziale secondo
cui la repressione dell'abuso edilizio, disposta a distanza
di tempo ragguardevole, richiede una puntuale motivazione
sull'interesse pubblico al ripristino dei luoghi.
Il Collegio ritiene però di non dover seguire l’indicato
orientamento giurisprudenziale, a cui pure alcune volte
questa sezione ha aderito, a fronte dell’orientamento
giurisprudenziale prevalente, ormai anche di questa sezione,
volto in senso contrario e della rilevanza delle
argomentazioni che depongono in tal senso.
La giurisprudenza più recente si è espressa, difatti, nel
senso che il provvedimento di demolizione di una costruzione
abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure
ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare.
In ogni caso l’abuso edilizio rappresenta un illecito
permanente integrato dalla violazione dell’obbligo,
perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a
diritto lo stato dei luoghi, di talché ogni provvedimento
repressivo dell’Amministrazione non è emanato a distanza di
tempo da un illecito ormai esaurito, bensì interviene su una
situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento.
Quanto all’assenza di
valutazioni sulla sussistenza dell’interesse pubblico alla
demolizione, il Collegio osserva come, in generale i
provvedimenti che irrogano sanzioni previste dalla legge in
materia edilizia non necessitano di alcuna specifica
motivazione in ordine all’interesse pubblico a disporre il
ripristino della situazione conforme a legge, né il Comune
ha discrezionalità nello stabilire le sanzioni derivanti
dall’inosservanza della normativa urbanistica e di tutela
ambientale (Consiglio Stato, VI, 28.06.2004, n. 4743;
Consiglio Stato, sez. V, 10.07.2003, n. 4107; TAR
Campania Napoli, Sez. IV, 04.02.2003, n. 617; 15.07.2003, n. 8246).
Una volta accertata l'illecita esecuzione di opere abusive
in mancanza di concessione (ora permesso di costruire),
l’adozione dell'ordinanza di demolizione non necessita di
alcuna specifica motivazione sull'interesse pubblico e ne
deve essere disposta la demolizione indipendentemente dalla
verifica della loro eventuale conformità allo strumento
urbanistico e della loro sanabilità (Consiglio Stato, sez.
V, 09.01.1996, n. 29).
Infatti, l'abusività di un'opera edilizia costituisce già di
per sé sola presupposto per l'applicazione della prescritta
sanzione demolitoria (Consiglio Stato, sez. V, 30.11.2000, n. 6357, nella specie, non è stata ritenuta necessaria
una motivazione "ad hoc" sulla non sanabilità dell'opera
stessa, se tale questione non è stata mai posta dal
proprietario mercé la presentazione dell'istanza di
sanatoria).
Quanto al profilo del passaggio di un notevole lasso di
tempo dalla commissione alla repressione dell’abuso, il
Collegio ben conosce quel filone giurisprudenziale secondo
cui la repressione dell'abuso edilizio, disposta a distanza
di tempo ragguardevole, richiede una puntuale motivazione
sull'interesse pubblico al ripristino dei luoghi (per tutti
Consiglio Stato, Sez. V, 29.05.2006, n. 3270; Consiglio
Stato, Sez. V, 25.06.2002, n. 3443).
Il Collegio ritiene però di non dover seguire l’indicato
orientamento giurisprudenziale, a cui pure alcune volte
questa sezione ha aderito (cfr. TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n. 9620 del; TAR Campania–Napoli,
Sez. IV, 05.05.2009, n. 2357), a fronte dell’orientamento
giurisprudenziale prevalente, ormai anche di questa sezione
(TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 14.06.2012, n. 2822),
volto in senso contrario e della rilevanza delle
argomentazioni che depongono in tal senso.
La giurisprudenza più recente si è espressa, difatti, nel
senso che il provvedimento di demolizione di una costruzione
abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure
ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare (Cons. Stato Sez. IV, 27.10.2011, n. 5758; Cons. Stato Sez. IV, 20.07.2011,
n. 4403; Cons. Stato Sez. V, 27.04.2011, dalla n. 2497
alla n. 2527; Cons. Stato Sez. V, 11.01.2011, n. 79;
TAR Lombardia Milano Sez. II, 08.09.2011, n. 2183;
TAR Lazio Roma Sez. I-quater, 23.06.2011, n. 5582;
TAR Campania Napoli Sez. III, 16.06.2011, n. 3211;
TAR Campania Napoli Sez. VIII, 09.06.2011, n. 3029;
Cons. Stato Sez. V, 09.02.2010, n. 628) e non potendo
l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non
abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi
(Cons. Stato Sez. VI, 11.05.2011, n. 2781).
Inoltre, nel caso di specie, parte ricorrente non ha
comprovato l’esistenza di un affidamento meritevole di
tutela indotto da un comportamento dell’Amministrazione, in
quanto non è stato dimostrato che l’immobile abusivo fosse
stato menzionato quale oggetto di specifica locazione, ed
anzi dal tenore della Delibera di G.M. n. 45 del 15.12.1972, che menziona solo il suolo, si evince il contrario, né è
stato allegato agli atti alcun concreto elemento da cui
dedurre che la situazione creatasi con la stipula del
contratto fosse tale da consentire al medesimo ricorrente di
confidare nella regolarità urbanistica del manufatto oggetto
di demolizione.
In ogni caso l’abuso edilizio rappresenta un illecito
permanente integrato dalla violazione dell’obbligo,
perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a
diritto lo stato dei luoghi, di talché ogni provvedimento
repressivo dell’Amministrazione non è emanato a distanza di
tempo da un illecito ormai esaurito, bensì interviene su una
situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento
(TAR Brescia, Sez. I, 22.02.2010, n. 860)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 25.09.2012 n. 3935 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Sulla legittimità -o meno-
del provvedimento comunale che ha negato l’autorizzazione
alla chiusura dell’area privata a uso pubblico destinata a
parcheggio nell'ambito di un Piano di Lottizzazione.
(a) in via generale l’argomento del
Comune secondo cui l’amministrazione non può rinunciare
senza corrispettivo o indennizzo a un bene di uso pubblico
appare corretto. Nello specifico il parcheggio al servizio
dei negozi è stato realizzato e destinato all’uso pubblico
nell’ambito di un piano di lottizzazione commerciale, e
dunque il diritto di utilizzazione collettiva è entrato a
far parte del demanio comunale al pari del resto del sistema
della viabilità.
Il vantaggio per i lottizzanti è consistito
nell’edificazione e nella possibilità di adibire le
superfici edificate a spazi commerciali. L’equilibrio tra
interesse privato e interesse pubblico stabilito nella
convenzione urbanistica deve essere preservato, e se
l’amministrazione rinuncia a una parte delle facoltà di
utilizzazione del parcheggio è necessaria una compensazione
in termini monetari o attraverso altre soluzioni giudicate
utili per la collettività;
(b) non è invece condivisibile la tesi di segno opposto
presentata nel ricorso, ossia che la destinazione
pubblicistica del parcheggio sarebbe collegata agli orari
dei negozi. In astratto è possibile che le convenzioni
urbanistiche introducano un limite orario all’uso pubblico,
ma se non viene stipulata una specifica regolamentazione in
questo senso si deve ritenere che il diritto di
utilizzazione acquisito dall’ente pubblico sia pieno e
incondizionato. Solo l’amministrazione può quindi decidere
sulle modalità con cui l’utilizzazione deve avvenire;
(c) dove la posizione del Comune appare debole e viziata da
profili di illegittimità è nella parte in cui omette di
considerare la presenza di un problema di sicurezza
pubblica. Il ricorso descrive e documenta ampiamente gli
atti di vandalismo perpetrati ai danni di alcuni negozi del
centro commerciale da parte di ignoti che sono entrati nel
parcheggio durante le ore notturne o di chiusura degli
esercizi. Da questa situazione di pericolo e disagio deriva
per chi gestisce il centro commerciale e per gli operatori
che vi lavorano un’aspettativa a ottenere protezione dal
Comune ai sensi dell’art. 54 del Dlgs. 267/2000 e del DM
05.08.2008;
(d) le modalità di tale protezione appartengono alla
discrezionalità dell’amministrazione. Una soluzione
ammissibile è certamente il blocco dell’accesso al
parcheggio negli orari di chiusura del centro commerciale.
Si tratterebbe di una misura contingibile e urgente, di
durata limitata nel tempo ma estensibile qualora le
circostanze lo richiedessero. Con apposita norma
regolamentare tale soluzione potrebbe poi anche divenire
definitiva. Le ore e le modalità di blocco del parcheggio e
dei percorsi pedonali connessi rientrano parimenti nella
sfera di discrezionalità dell’amministrazione, ferma
restando la possibilità di proporre ricorso giurisdizionale
contro scelte irragionevoli;
(e) altre soluzioni possono prevedere invece il mantenimento
della piena accessibilità del parcheggio, bilanciata però da
una sorveglianza rafforzata da parte della polizia locale,
in aggiunta alla vigilanza privata normalmente attivata dai
gestori dei centri commerciali;
(f) in ogni caso è necessario che gli uffici comunali
effettuino un’attenta ricognizione dell’entità e della
frequenza dei fenomeni di vandalismo resi possibili
dall’accessibilità del parcheggio del centro commerciale.
Parallelamente devono essere valutate, per garantire il
contemperamento dei contrapposti interessi, le esigenze di
utilizzo del suddetto parcheggio con le stesse modalità di
un normale parcheggio pubblico (e quindi per tutte le 24
ore) da parte della collettività o di quanti risiedono nelle
vicinanze oppure di quanti giungono nel territorio comunale
per eventi particolari;
(g) nonostante l’ampia discrezionalità amministrativa non
risulta percorribile la strada dell’imposizione di un canone
quale corrispettivo per il blocco del parcheggio in alcune
fasce orarie, soluzione inizialmente prospettata dal Comune.
Anche se, come si è detto sopra, normalmente ogni rinuncia
all’uso di un bene pubblico o di interesse pubblico deve
essere accompagnata da una compensazione, questo schema non
sembra applicabile nel caso in cui sia necessario tutelare
la sicurezza delle persone che sono esposte al rischio di
diventare vittime di reati.
L’obiettivo della sicurezza è sufficiente da solo a
giustificare la restrizione dell’accesso a un parcheggio di
uso pubblico. Al contrario, l’imposizione di un canone
equivarrebbe a dare un prezzo alla sicurezza e finirebbe per
subordinare a una condizione economica anche un diritto
fondamentale, che deve invece essere garantito a tutti
indistintamente.
... per
l'annullamento della deliberazione giuntale n. 69 del
14.07.2011, con la quale è stata negata l’autorizzazione
alla chiusura dell’area privata a uso pubblico destinata a
parcheggio situata in via Milano.
...
Sulle questioni proposte nel ricorso si possono formulare le
seguenti considerazioni:
(a) in via generale l’argomento del Comune secondo cui
l’amministrazione non può rinunciare senza corrispettivo o
indennizzo a un bene di uso pubblico appare corretto. Nello
specifico il parcheggio al servizio dei negozi è stato
realizzato e destinato all’uso pubblico nell’ambito di un
piano di lottizzazione commerciale, e dunque il diritto di
utilizzazione collettiva è entrato a far parte del demanio
comunale al pari del resto del sistema della viabilità.
Il vantaggio per i lottizzanti è consistito
nell’edificazione e nella possibilità di adibire le
superfici edificate a spazi commerciali. L’equilibrio tra
interesse privato e interesse pubblico stabilito nella
convenzione urbanistica deve essere preservato, e se
l’amministrazione rinuncia a una parte delle facoltà di
utilizzazione del parcheggio è necessaria una compensazione
in termini monetari o attraverso altre soluzioni giudicate
utili per la collettività;
(b) non è invece condivisibile la tesi di segno opposto
presentata nel ricorso, ossia che la destinazione
pubblicistica del parcheggio sarebbe collegata agli orari
dei negozi. In astratto è possibile che le convenzioni
urbanistiche introducano un limite orario all’uso pubblico,
ma se non viene stipulata una specifica regolamentazione in
questo senso si deve ritenere che il diritto di
utilizzazione acquisito dall’ente pubblico sia pieno e
incondizionato. Solo l’amministrazione può quindi decidere
sulle modalità con cui l’utilizzazione deve avvenire;
(c) dove la posizione del Comune appare debole e viziata da
profili di illegittimità è nella parte in cui omette di
considerare la presenza di un problema di sicurezza
pubblica. Il ricorso descrive e documenta ampiamente gli
atti di vandalismo perpetrati ai danni di alcuni negozi del
centro commerciale da parte di ignoti che sono entrati nel
parcheggio durante le ore notturne o di chiusura degli
esercizi. Da questa situazione di pericolo e disagio deriva
per chi gestisce il centro commerciale e per gli operatori
che vi lavorano un’aspettativa a ottenere protezione dal
Comune ai sensi dell’art. 54 del Dlgs. 267/2000 e del DM
05.08.2008;
(d) le modalità di tale protezione appartengono alla
discrezionalità dell’amministrazione. Una soluzione
ammissibile è certamente il blocco dell’accesso al
parcheggio negli orari di chiusura del centro commerciale.
Si tratterebbe di una misura contingibile e urgente, di
durata limitata nel tempo ma estensibile qualora le
circostanze lo richiedessero. Con apposita norma
regolamentare tale soluzione potrebbe poi anche divenire
definitiva. Le ore e le modalità di blocco del parcheggio e
dei percorsi pedonali connessi rientrano parimenti nella
sfera di discrezionalità dell’amministrazione, ferma
restando la possibilità di proporre ricorso giurisdizionale
contro scelte irragionevoli;
(e) altre soluzioni possono prevedere invece il mantenimento
della piena accessibilità del parcheggio, bilanciata però da
una sorveglianza rafforzata da parte della polizia locale,
in aggiunta alla vigilanza privata normalmente attivata dai
gestori dei centri commerciali;
(f) in ogni caso è necessario che gli uffici comunali
effettuino un’attenta ricognizione dell’entità e della
frequenza dei fenomeni di vandalismo resi possibili
dall’accessibilità del parcheggio del centro commerciale.
Parallelamente devono essere valutate, per garantire il
contemperamento dei contrapposti interessi, le esigenze di
utilizzo del suddetto parcheggio con le stesse modalità di
un normale parcheggio pubblico (e quindi per tutte le 24
ore) da parte della collettività o di quanti risiedono nelle
vicinanze oppure di quanti giungono nel territorio comunale
per eventi particolari;
(g) nonostante l’ampia discrezionalità amministrativa non
risulta percorribile la strada dell’imposizione di un canone
quale corrispettivo per il blocco del parcheggio in alcune
fasce orarie, soluzione inizialmente prospettata dal Comune.
Anche se, come si è detto sopra, normalmente ogni rinuncia
all’uso di un bene pubblico o di interesse pubblico deve
essere accompagnata da una compensazione, questo schema non
sembra applicabile nel caso in cui sia necessario tutelare
la sicurezza delle persone che sono esposte al rischio di
diventare vittime di reati.
L’obiettivo della sicurezza è sufficiente da solo a
giustificare la restrizione dell’accesso a un parcheggio di
uso pubblico. Al contrario, l’imposizione di un canone
equivarrebbe a dare un prezzo alla sicurezza e finirebbe per
subordinare a una condizione economica anche un diritto
fondamentale, che deve invece essere garantito a tutti
indistintamente (TAR Lombardia-Brescia, sez. II,
sentenza 25.09.2012 n. 1549 - (link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI:
AL CARABINIERE/ «Invasato» si può dire.
Esclusa la diffamazione per l'automobilista che definisce «invasato
in divisa» il carabiniere che, dopo averlo fermato
perché parlava al cellulare, controlla tutti i suoi
documenti, con chiaro intento vessatorio.
La Suprema corte si schiera con l'indisciplinato utente
della strada, considerando lo sfogo un legittimo diritto di
critica verso il militare andato oltre l'oggetto principale
della contestazione (Corte di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 24.09.2012 n. 36741 -
articolo Il Sole 24 Ore del 25.09.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Malattia prolungata e sospensione della
retribuzione.
Il superamento del periodo di malattia
retribuita (come contrattualmente previsto) determina -senza
eccezione alcuna- la sospensione del trattamento economico
in favore del dipendente, anche in ragione del cessato
rapporto sinallagmatico tra prestazione lavorativa e sua
remunerazione.
Del tutto eccezionale, di particolare favore e, quindi, di
interpretazione restrittiva deve ritenersi una eventuale
regolamentazione interna (o altra fonte) che preveda la
retribuibilità dei giorni durante i quali il lavoratore si è
sottoposto ad accertamenti sanitari richiesti dal datore di
lavoro.
Certamente, questo non legittima una estensione del periodo
retribuibile oltre queste limitate giornate in cui il
dipendente è rimasto a disposizione dell'amministrazione al
fine di contribuire ad accertare il proprio reale stato di
salute. E' così raggiunto -ad avviso dell'Alto Consesso- un
corretto punto di equilibrio.
La sentenza in epigrafe è
infatti meritevole di conferma laddove afferma che, anche
nell’ambito dell’impiego alle dipendenze di pubbliche
amministrazioni, opera il generale principio di tendenziale
sinallagmaticità fra la prestazione lavorativa e la
controprestazione economica.
Si è condivisibilmente stabilito al riguardo che, in via di
principio, il trattamento economico del pubblico dipendente,
quale effetto sinallagmatico di un rapporto di servizio, è
in diretta correlazione con la prestazione dell'attività di
lavoro, per cui solo nel momento in cui detta prestazioni
comincia ad essere eseguita decorre l'obbligo per
l'amministrazione di corrispondere il trattamento economico,
in tutte le sue componenti (Cons. Stato, IV, 22.06.2006, n.
3915).
Ne consegue che le ipotesi in cui al dipendente è comunque
riconosciuta la continuità del trattamento stipendiale pure
in assenza di una specifica prestazione lavorativa (ipotesi
che, pure, sono poste sovente a presidio di interessi di
primario rilievo costituzionale) costituiscono un numerus
clausus e non possono trovare applicazione al di fuori
delle ipotesi contemplate dalle discipline generali e di
settore.
---------------
Allo stesso modo, la sentenza in epigrafe risulta meritevole
di conferma laddove ha statuito che l’articolo 35 del
richiamato regolamento (a tenore del quale “il dipendente
assente dal servizio per essere sottoposto ad accertamenti
sanitari disposti dall’Amministrazione ai sensi dell’art. 32
–1° comma– ha titolo al trattamento retributivo a lui
spettante (…)”) non può essere inteso nel senso di
garantire l’integrale retribuibilità del periodo (comunque,
non lavorato) necessario per svolgere gli adempimenti
finalizzati ad accertare il reale stato di salute del
dipendente.
Al contrario, conformemente al richiamato carattere di
ius singulare delle disposizioni che ammettono la
retribuibilità di tali periodi, deve ritenersi che la
disposizione da ultimo richiamata sia da intendere nel senso
di garantire la retribuzione relativa ai soli giorni nei
quali gli accertamenti sanitari si siano in concreto svolti.
Diversamente opinando, dovrebbe ritenersi instaurata
contra legem una inammissibile estensione del periodo di
aspettativa di cui al richiamato articolo 31, ovvero
l’enucleazione (per via parimenti contra legem) di
un’ulteriore e diversa ipotesi di aspettativa di cui non è
menzione alcuna nell’ambito della disciplina generale o di
settore.
Del resto, anche a voler superare l’approccio fondato sul
rapporto fra princìpi generali e normativa speciale (e a
voler riguardare la questione secondo un’ottica di sistema),
non si individua alcuna ragione logica o giuridica per
ammettere in toto la retribuibilità dei periodi (comunque
non lavorati) nel corso dei quali si siano svolti
accertamenti finalizzati a stabilire il reale stato di
salute del dipendente, laddove essi si siano conclusi –come
nel caso di specie- nel senso della piena idoneità a
svolgere le mansioni di assegnazione.
Sotto tale aspetto il Collegio ritiene che l’approccio volto
ad ammettere la retribuibilità dei soli periodi
effettivamente impiegati nelle attività diagnostiche e di
indagine rappresenti un corretto punto di equilibrio fra –da
un lato– l’esigenza di far comunque salvi i periodi in cui
il dipendente è rimasto a disposizione dell’amministrazione
al fine di contribuire ad accertare il proprio reale stato
di salute e –dall’altro– l’esigenza di evitare atteggiamenti
iper-protezionistici i quali potrebbero determinare
comportamenti opportunistici da parte dei dipendenti,
consapevoli del fatto che l’integrale retribuibilità
potrebbe consentire loro di conseguire indebite
remunerazioni a fronte di stati patologici insussistenti e a
fronte di prestazioni lavorative comunque non rese
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.09.2012 n. 5068 - commento tratto da
www.publika.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Cds
e antitrust. Gare, le Ati monstre illegittime.
È illegittimo sotto il profilo della violazione delle norme
Antitrust costituire raggruppamenti temporanei di imprese
«sovradimensionate» per partecipare a una gara di appalto se
si prova che ciò risulta strumentale all'attuazione di una
intesa restrittiva della concorrenza.
Lo afferma il
Consiglio di Stato (Sez. VI,
sentenza 24.09.2012 n.
5067), ribaltando il giudizio del Tar del Lazio del 2007
sulla gara per la scelta del socio privato per la gestione
dei servizi idrici integrati in Toscana.
Per il Consiglio di stato, infatti, non era in discussione
la funzione economico-sociale del contratto di associazione
temporanea di imprese (ati), né la tipicità legale dello
stesso, ma il suo concreto utilizzo con finalità
anticoncorrenziale e, quindi, per il perseguimento di
interessi illeciti. Il Consiglio di stato afferma che «non è
il sovradimensionamento dell'ati in sé ad essere illecito,
ma l'inserirsi di tale sovradimensionamento in un contesto
di elementi di fatto che denotano i fini illeciti perseguiti
con uno strumento, quello dell'ati, in sé lecito».
Se in
passato i giudici amministrativi avevano ammesso anche le ati sovradimensionate, dice la sentenza, ciò era avvenuto
«senza alcuna presa di posizione, sul piano concorrenziale,
se un'ati siffatta costituisca, o meno, intesa restrittiva
della concorrenza o effetto di una siffatta intesa. In ogni
caso, dice la sentenza, eventuali incentivi legislativi alle
aggregazioni di imprese a che formino «massa critica»,
possono evidentemente giustificarsi solo per forme
aggregative lecite e economicamente razionali, giammai
illecite intese restrittive della concorrenza.
Per i
giudici, «la costituzione di ati sovradimensionate
rispetto ai requisiti previsti dai bandi di gara, viene a
inserirsi in un più complesso contesto collusivo
caratterizzato dall'esistenza di intese a monte
rappresentate da accordi puntuali e macroaggregazioni,
aventi quale loro oggetto esplicito la disciplina del
comportamento delle imprese in vista della stagione di gare
attese all'indomani dell'avvio del processo di
liberalizzazione nel peculiare settore dei servizi idrici
integrati».
E ciò configura un comportamento illecito sanzionabile sotto
il profilo della violazione della legge Antitrust
(articolo ItaliaOggi del 25.09.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Quanto alla collocazione temporale dell’opera
abusiva, rilevante ai fini dell’individuazione della
disciplina urbanistica dell’epoca e delle correlative
eventuali ipotesi d’insanabilità, secondo i principi
generali che presiedono alla determinazione del tempo di
realizzazione delle opere ammesse a condono occorre aver
riguardo alla data di ultimazione delle opere, da ancorare,
per gli edifici, al momento di esecuzione del rustico e di
completamento della copertura, e, per le opere interne agli
edifici già esistenti ed a quelle non destinate alla
residenza, al momento del loro completamento funzionale (v.
artt. 1, comma 1, l. prov. n. 15 del 1995 e 25, comma 2, l.
prov. n. 4 del 1987, corrispondenti alla previsione
dell’art. 31, comma 2, l. n. 47 del 1985).
L’onere della prova dell’ultimazione dei lavori grava sul
richiedente la sanatoria, in quanto, mentre
l’amministrazione comunale non è normalmente in grado di
accertare la situazione edilizia di tutto il proprio
territorio alla data indicata dalla normativa sul condono,
colui che lo richiede può, di regola, procurasi la
documentazione da cui si possa desumere che l’abuso sia
stato effettivamente realizzato entro la data rilevante
(come ad es. fatture, ricevute, bolle di consegna, relative
all’esecuzione dei lavori e/o all’acquisto dei materiali).
In tale contesto, la dichiarazione sostitutiva di notorietà
dell’intervenuta ultimazione delle opere entro la data
rilevante non ha alcuna valenza privilegiata e non preclude
all’amministrazione, in sede di esame della pratica, la
possibilità di raccogliere nel corso del procedimento
elementi di segno contrario e di pervenire a risultanze
diverse, senza che a ciò consegua, in sede processuale,
l’inversione dell’onere della prova a carico
dell’amministrazione medesima.
Quanto alla collocazione temporale dell’opera abusiva,
rilevante ai fini dell’individuazione della disciplina
urbanistica dell’epoca e delle correlative eventuali ipotesi
d’insanabilità, secondo i principi generali che presiedono
alla determinazione del tempo di realizzazione delle opere
ammesse a condono occorre aver riguardo alla data di
ultimazione delle opere, da ancorare, per gli edifici, al
momento di esecuzione del rustico e di completamento della
copertura, e, per le opere interne agli edifici già
esistenti ed a quelle non destinate alla residenza, al
momento del loro completamento funzionale (v. artt. 1, comma
1, l. prov. n. 15 del 1995 e 25, comma 2, l. prov. n. 4 del
1987, corrispondenti alla previsione dell’art. 31, comma 2,
l. n. 47 del 1985).
Sotto il profilo processuale, secondo il criterio della
vicinanza della fonte e dei mezzi di prova alla sfera delle
rispettive parti processuali, l’onere della prova
dell’ultimazione dei lavori grava sul richiedente la
sanatoria (in termini, C.d.S., Sez. VI, 20.03.2012, n.
1563), in quanto, mentre l’amministrazione comunale non è
normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di
tutto il proprio territorio alla data indicata dalla
normativa sul condono, colui che lo richiede può, di regola,
procurasi la documentazione da cui si possa desumere che
l’abuso sia stato effettivamente realizzato entro la data
rilevante (come ad es. fatture, ricevute, bolle di consegna,
relative all’esecuzione dei lavori e/o all’acquisto dei
materiali).
In tale contesto, la dichiarazione sostitutiva di notorietà
dell’intervenuta ultimazione delle opere entro la data
rilevante non ha alcuna valenza privilegiata e non preclude
all’amministrazione, in sede di esame della pratica, la
possibilità di raccogliere nel corso del procedimento
elementi di segno contrario e di pervenire a risultanze
diverse, senza che a ciò consegua, in sede processuale,
l’inversione dell’onere della prova a carico
dell’amministrazione medesima (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.09.2012 n. 5057 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
mutamento di destinazione d'uso di una porzione
dell'immobile, portando ad un organismo in parte diverso dal
precedente e contribuendo ad aumentare il carico
urbanistico, deve ritenersi rientrante nell'ambito della
categoria della "ristrutturazione edilizia".
Coerentemente, anche le attività che “non alterino lo stato
dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”, non possono
rientrare nella esimente di cui all’art. 149, 1° comma lett.
a) d.lgs. n. 42/2004 (di cui –avuto riguardo alla natura
eccezionale della relativa disposizione, in quanto
prefigurativa di una specifica deroga al regime
autorizzatorio ordinario– non pare lecito fornire arbitrarie
interpretazioni estensive: arg. ex art. 14 prel.), per
difetto del (concorrente e necessario) requisito tipologico
(id est, per la argomentata non sussumibilità nella
categoria di interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria, di consolidamento statico e restauro
conservativo).
Contrariamente a quanto prospettato dal gravame,
il mutamento di destinazione d'uso di una porzione
dell'immobile, portando ad un organismo in parte diverso dal
precedente e contribuendo ad aumentare il carico
urbanistico, deve ritenersi rientrante nell'ambito della
categoria della "ristrutturazione edilizia", come si evince,
del resto, dall'esplicito riferimento a tale tipologia di
intervento presente nell'art. 10 comma 1° lettera c) d.p.r.
n. 380/2001 (in termini, TAR Lazio Roma, sez. I, 20.09.2011, n. 7432, TAR Sardegna, sez. II,
06.10.2008, n. 1822), come tale sussumibile nella tipologia 3 di
cui all’allegato 1 della l. n. 326/2003, che preclude la
possibilità di sanatoria per il caso di sussistenza del
vincolo di cui all’art. 32 della legge 28.02.1985, n.
47.
Coerentemente, anche le attività che “non alterino lo stato
dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”, non
possono, come auspicato, rientrare nella esimente di cui
all’art. 149, 1° comma lett. a) d.lgs. n. 42/2004 (di cui –avuto riguardo alla natura eccezionale della relativa
disposizione, in quanto prefigurativa di una specifica
deroga al regime autorizzatorio ordinario– non pare lecito
fornire arbitrarie interpretazioni estensive: arg. ex art.
14 prel.), per difetto del (concorrente e necessario)
requisito tipologico (id est, per la argomentata non sussumibilità
nella categoria di interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria, di consolidamento statico e restauro
conservativo)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 24.09.2012 n. 1683 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Circa
il quadro normativo in materia di
mutamenti di destinazione d'uso lo si può riassumere come di
seguito riportato.
Prima della legge n. 47/1985, la giurisprudenza
amministrativa si era attestata nel senso di ritenere
illegittime le disposizioni contenute negli strumenti
urbanistici che prevedessero limitazioni del mutamento di
destinazione d'uso degli immobili attuato senza opere
edilizie, con l'ulteriore corollario che il mutamento
dell'uso così attuato non era soggetto alla preventiva
acquisizione della concessione edilizia, né
dell'autorizzazione edilizia.
Tale assetto mutava per effetto dell'entrata in vigore della
legge n. 47/1985. Infatti, dal combinato disposto degli
articoli 8, 25 e 26 di tale legge emergeva la seguente
disciplina:
a) erano soggetti a regime concessorio soltanto i mutamenti
di destinazione d'uso che intervenivano tra categorie
funzionalmente autonome sotto il profilo urbanistico, atteso
che all'interno della stessa categoria potevano realizzarsi
mutamenti di fatto privi di incidenza sui carichi
urbanistici;
b) il mutamento di destinazione d'uso accompagnato da
qualsiasi intervento edilizio (per il quale non fosse
altrimenti prevista la concessione), anche se solo interno,
era assoggettato al regime dell'autorizzazione, stante
l'espressa previsione dell'applicabilità del regime delle
opere interne (di cui all'art. 26, comma 1, della legge n.
47/1985) alle opere che "non modifichino la destinazione
d'uso delle costruzioni";
c) il mutamento di destinazione d'uso senza opere era
regolato dall'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985,
il quale demandava al legislatore regionale il compito di
stabilire "criteri e modalità cui dovranno attenersi i
comuni, all'atto della predisposizione di strumenti
urbanistici, per l'eventuale regolamentazione, in ambiti
determinati del proprio territorio, della destinazione d'uso
degli immobili, nonché dei casi in cui, per la variazione di
essa, sia richiesta la preventiva autorizzazione".
La situazione mutava ulteriormente a seguito della novella
apportata all'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985,
dall'art. 2, comma 60, della legge n. 662/1996, secondo il
quale "le leggi regionali stabiliscono quali mutamenti,
connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso
di immobili o di loro parti, subordinare a concessione, e
quali mutamenti connessi o non connessi a trasformazioni
fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti siano
subordinati ad autorizzazione".
La disposizione in esame, nel delegare definitivamente alle
Regioni la disciplina dei mutamenti di destinazione d'uso -e
così la facoltà di poter applicare una disciplina uniforme,
tanto per quelli di carattere strutturale, quanto per quelli
di carattere funzionale- introduceva la facoltà di
sottoporre a concessione edilizia i mutamenti d'uso
maggiormente significativi, ovvero quelli comportanti un
maggiore impatto sull'assetto urbanistico-territoriale
(secondo la suddivisione del territorio in zone residenziali
''A'', ''B'' e ''C'', produttive ''D'', agricole ''E'', e
destinate ad attrezzature ed impianti di interesse generale
''F'', operata dal D.M. n. 1444/1968), ed a semplice
autorizzazione, quelli attuati all'interno della medesima
categoria funzionale.
Da ultimo l'art. 10 del D.P.R. 380/2001 ha previsto, al
comma 2, che le Regioni stabiliscano con legge quali
mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche,
dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a
permesso di costruire o a denuncia di inizio attività.
La conclusione che precede è, del resto, l’unica
coerente con il quadro normativo di riferimento in materia
di mutamenti di destinazione d'uso, che giova di seguito
riassumere (in termini, da ultimo TAR Campania, Napoli,
sez. VII, 22.02.2012, n. 885).
Prima della legge n. 47/1985, la giurisprudenza
amministrativa (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 28.07.1982, n. 525) si era attestata nel senso di ritenere
illegittime le disposizioni contenute negli strumenti
urbanistici che prevedessero limitazioni del mutamento di
destinazione d'uso degli immobili attuato senza opere
edilizie, con l'ulteriore corollario che il mutamento
dell'uso così attuato non era soggetto alla preventiva
acquisizione della concessione edilizia, né
dell'autorizzazione edilizia.
Tale assetto mutava per effetto dell'entrata in vigore della
legge n. 47/1985. Infatti, dal combinato disposto degli
articoli 8, 25 e 26 di tale legge emergeva la seguente
disciplina:
a) erano soggetti a regime concessorio soltanto
i mutamenti di destinazione d'uso che intervenivano tra
categorie funzionalmente autonome sotto il profilo
urbanistico, atteso che all'interno della stessa categoria
potevano realizzarsi mutamenti di fatto privi di incidenza
sui carichi urbanistici;
b) il mutamento di destinazione
d'uso accompagnato da qualsiasi intervento edilizio (per il
quale non fosse altrimenti prevista la concessione), anche
se solo interno, era assoggettato al regime
dell'autorizzazione, stante l'espressa previsione
dell'applicabilità del regime delle opere interne (di cui
all'art. 26, comma 1, della legge n. 47/1985) alle opere che
"non modifichino la destinazione d'uso delle costruzioni";
c) il mutamento di destinazione d'uso senza opere era
regolato dall'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985,
il quale demandava al legislatore regionale il compito di
stabilire "criteri e modalità cui dovranno attenersi i
comuni, all'atto della predisposizione di strumenti
urbanistici, per l'eventuale regolamentazione, in ambiti
determinati del proprio territorio, della destinazione d'uso
degli immobili, nonché dei casi in cui, per la variazione di
essa, sia richiesta la preventiva autorizzazione".
La situazione mutava ulteriormente a seguito della novella
apportata all'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985,
dall'art. 2, comma 60, della legge n. 662/1996, secondo il
quale "le leggi regionali stabiliscono quali mutamenti,
connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso
di immobili o di loro parti, subordinare a concessione, e
quali mutamenti connessi o non connessi a trasformazioni
fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti siano
subordinati ad autorizzazione".
La disposizione in esame,
nel delegare definitivamente alle Regioni la disciplina dei
mutamenti di destinazione d'uso -e così la facoltà di poter
applicare una disciplina uniforme, tanto per quelli di
carattere strutturale, quanto per quelli di carattere
funzionale- introduceva la facoltà di sottoporre a
concessione edilizia i mutamenti d'uso maggiormente
significativi, ovvero quelli comportanti un maggiore impatto
sull'assetto urbanistico-territoriale (secondo la
suddivisione del territorio in zone residenziali ''A'',
''B'' e ''C'', produttive ''D'', agricole ''E'', e destinate
ad attrezzature ed impianti di interesse generale ''F'',
operata dal D.M. n. 1444/1968), ed a semplice
autorizzazione, quelli attuati all'interno della medesima
categoria funzionale.
Da ultimo l'art. 10 del D.P.R. 380/2001 ha previsto, al
comma 2, che le Regioni stabiliscano con legge quali
mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche,
dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a
permesso di costruire o a denuncia di inizio attività
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 24.09.2012 n. 1683 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’art.
34 del D.Lgs. 31.03.1998 n. 80 (come sostituito dalla L.
21.07.2000 n. 205 ed in seguito alla sentenza della Corte
Costituzionale 06.07.2004 n. 204), nel devolvere alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le
controversie aventi per oggetto atti e provvedimenti
dell’Amministrazione in materia urbanistica ed edilizia,
comprende la totalità degli aspetti dell’uso del territorio,
nessuno escluso: sicché, come già previsto dall’art. 16
della L. 28.01.1977 n. 10, devono ritenersi rientranti in
tale giurisdizione anche le controversie relative alla
determinazione, liquidazione e corresponsione degli oneri
concessori che involgono diritti soggettivi delle parti,
considerato anche che il contributo per oneri di
urbanizzazione costituisce un corrispettivo posto a carico
del costruttore a titolo di partecipazione del
concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione (in
proporzione all’insieme dei benefici che la nuova
costruzione ne ritrae) connesso al rilascio della
concessione edilizia e pertanto discendente dall’adozione di
un provvedimento amministrativo.
In altri termini, la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo sulle controversie attinenti alla
corresponsione dei suddetti oneri concessori discende dallo
stretto collegamento funzionale tra il rilascio delle
suddette concessioni edilizie ed i contributi conseguenti a
carico del privato, trattandosi appunto di pretesa del
Comune fondata su provvedimenti amministrativi non gravati e
divenuti inoppugnabili.
Tali argomentazioni sono state svolte anche dalla Corte di
Cassazione, secondo cui “la giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo sussiste anche a prescindere
dall'instaurazione di una controversia in via di
impugnazione diretta del provvedimento amministrativo, di
concessione o di determinazione del contributo, purché fra
la controversia ed il provvedimento vi sia uno stretto
collegamento funzionale”, aggiungendo inoltre che “rientrano
quindi nell'ambito della giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo le controversie in genere aventi ad oggetto
l'inadempimento di obblighi nascenti da una concessione. Né
rileva che il rapporto concessorio si sia esaurito per
decorrenza del termine di durata di esso, poiché la riserva
di giurisdizione operata dalla norma a favore del giudice
amministrativo riguarda il rapporto di concessione
indipendentemente dal fatto che esso sia ancora in vita o
sia cessato, purché la controversia ponga in discussione il
rapporto nel suo momento genetico o funzionale”.
Invero il Collegio ritiene che non
sussistano ragioni valide per discostarsi dal prevalente
orientamento giurisprudenziale (già ritenuta da questo
Tribunale in fattispecie analoghe: cfr. TAR Salerno, sez. II,
nn. 580, 581, 582, 583, e 594/2011) secondo cui l’art. 34
del D.Lgs. 31.03.1998 n. 80 (come sostituito dalla L. 21.07.2000 n. 205 ed in seguito alla sentenza della Corte
Costituzionale 06.07.2004 n. 204), nel devolvere alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le
controversie aventi per oggetto atti e provvedimenti
dell’Amministrazione in materia urbanistica ed edilizia,
comprende la totalità degli aspetti dell’uso del territorio,
nessuno escluso (TAR Campania, Napoli, Sez. I, 26.06.2008 n. 6283, TAR Campania, Salerno,
04.04.2008 n.
475, TAR Piemonte, 17.07.2008 n. 1646): sicché, come
già previsto dall’art. 16 della L. 28.01.1977 n. 10,
devono ritenersi rientranti in tale giurisdizione anche le
controversie relative alla determinazione, liquidazione e
corresponsione degli oneri concessori che involgono diritti
soggettivi delle parti, considerato anche che il contributo
per oneri di urbanizzazione costituisce un corrispettivo
posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione
del concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione
(in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova
costruzione ne ritrae) connesso al rilascio della
concessione edilizia e pertanto discendente dall’adozione di
un provvedimento amministrativo (Consiglio di Stato, Sez. V,
21.04.2006 n. 2258).
In altri termini, la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo sulle controversie attinenti alla
corresponsione dei suddetti oneri concessori discende dallo
stretto collegamento funzionale tra il rilascio delle
suddette concessioni edilizie ed i contributi conseguenti a
carico del privato, trattandosi appunto di pretesa del
Comune fondata su provvedimenti amministrativi non gravati e
divenuti inoppugnabili.
Tali argomentazioni sono state svolte anche dalla Corte di
Cassazione, secondo cui “la giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo sussiste anche a prescindere
dall'instaurazione di una controversia in via di
impugnazione diretta del provvedimento amministrativo, di
concessione o di determinazione del contributo, purché fra
la controversia ed il provvedimento vi sia uno stretto
collegamento funzionale”, aggiungendo inoltre che “rientrano
quindi nell'ambito della giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo le controversie in genere aventi ad oggetto
l'inadempimento di obblighi nascenti da una concessione. Né
rileva che il rapporto concessorio si sia esaurito per
decorrenza del termine di durata di esso, poiché la riserva
di giurisdizione operata dalla norma a favore del giudice
amministrativo riguarda il rapporto di concessione
indipendentemente dal fatto che esso sia ancora in vita o
sia cessato, purché la controversia ponga in discussione il
rapporto nel suo momento genetico o funzionale” (Cassazione
civile, Sezioni Unite, 20.11.2007 n. 24009).
Il Collegio ritiene inoltre che le conclusioni esposte in
ordine alla sussistenza della giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo sulle controversie relative ad oneri
concessori non mutano a seconda della natura giuridica
pubblica o privata del ricorrente, con la conseguenza che
appare del tutto indifferente la circostanza che nel
presente giudizio a ricorrere sia il Comune di Salerno e non
un privato
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 24.09.2012 n. 1676 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Il
termine prescrizionale relativo agli
adempimenti scaturenti da una convenzione annessa ad un
piano di lottizzazione, inizia a decorrere dal momento in
cui si è esaurito il periodo temporale nel quale
l’adempimento relativo aveva il carattere della spontaneità
in colleganza con la volontaria concretizzazione di uno
specifico obbligo pattizio.
Orbene, posta la validità della convenzione in anni 10 e
l’efficacia della stessa per successivi ulteriori anni 10 la
relativa prescrizione si consuma nei successivi ulteriori
dieci anni.
Per giurisprudenza
costante, va osservato che il termine prescrizionale
relativo agli adempimenti scaturenti da una convenzione
annessa ad un piano di lottizzazione, inizia a decorrere dal
momento in cui si è esaurito il periodo temporale nel quale
l’adempimento relativo aveva il carattere della spontaneità
in colleganza con la volontaria concretizzazione di uno
specifico obbligo pattizio.
Orbene, come insegna la giurisprudenza unanime, posta la
validità della convenzione in anni 10 e l’efficacia della
stessa per successivi ulteriori anni 10 (CdS Sez. IV
03.11.1998 n. 1412; CdS Sez. V 19.03.1991 n. 300) la relativa
prescrizione si consuma nei successivi ulteriori dieci anni
(C.G.A. 14.12.2009 n. 1187; TAR BS 03.02.2003 n. 65;
Tar Veneto Sez. II 01.12.2010; Tar Campania Sez. II n. 2773
del 2007; Tar Marche n. 296 del 12.05.2004)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 24.09.2012 n. 1676 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE
GESTIONALI - INCARICHI PROFESSIONALI: Ai
fini della rappresentanza in giudizio del Comune,
l’autorizzazione alla lite da parte della Giunta comunale
non costituisce più, in linea generale, requisito necessario
per la proposizione della domanda o la resistenza in
giudizio.
Ciò, innanzitutto, perché alla Giunta sono state conferite
le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo
degli organi di governo che non siano riservate dalla legge
al Consiglio, mentre spettano ai dirigenti la direzione
degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme
dettati dagli Statuti e dai regolamenti, nonché tutti i
compiti, compresa l’adozione degli atti e provvedimenti
amministrativi che impegnano l’Amministrazione verso
l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo
Statuto tra le menzionate funzioni di indirizzo (art. 48, 50
e 107 d.lgs. n. 267/2000).
In secondo luogo, perché nel nuovo ordinamento delle
autonomie locali il Sindaco ha assunto, ancor più con la
legge n. 81/1993, che ne ha previsto l'elezione diretta, un
ruolo politico ed amministrativo centrale, in quanto
titolare di funzioni di direzione e di coordinamento
dell’esecutivo comunale; onde l’autorizzazione (del
Consiglio prima e poi) della Giunta, se trovava ragione in
un assetto in cui il Sindaco era eletto dal Consiglio e la
Giunta costituiva espressione del Consiglio stesso, non ha
più ragion d’essere in un sistema in cui il Sindaco trae
direttamente la propria investitura dal corpo elettorale e
costituisce egli stesso la fonte di legittimazione degli
Assessori che compongono la Giunta, cui l’art. 48 d.lgs. n.
267/2000 affida il compito di collaborare con il capo
dell’Amministrazione Municipale (salva restando, ovviamente,
la possibilità per lo Statuto comunale -competente a
stabilire i modi di esercizio della rappresentanza legale
dell’ente, anche in giudizio ex art. 6, secondo comma,
d.lgs. n. 267/2000- di prevedere l’autorizzazione della
Giunta, ovvero di richiedere una preventiva determinazione
del competente dirigente, ovvero, ancora, di postulare l’uno
o l’altro intervento in relazione alla natura o all’oggetto
della controversia).
Vale, con argomento assorbente, osservare come, alla luce
del più recente orientamento giurisprudenziale (cfr. da
ultimo TAR Sicilia, Catania, 28.05.2012, n. 1348), ai fini
della rappresentanza in giudizio del Comune,
l’autorizzazione alla lite da parte della Giunta comunale
non costituisce più, in linea generale, requisito necessario
per la proposizione della domanda o la resistenza in
giudizio.
La competenza in materia della Giunta Comunale, come è noto,
si fondava sull’art. 35, secondo comma, legge n. 142/1990,
secondo cui a tale organo spettavano le attribuzioni
residuali su tutti gli atti non riservati dalla legge o
dallo Statuto alla competenza del Sindaco o del Consiglio.
Il nuovo quadro delle competenze degli organi del comune,
già delineato dalla menzionata legge n. 142/1990 e
completato dalle disposizioni successive fino
all’approvazione del d.lgs. n. 267 del 2000, ha indotto,
però, le Sezioni Unite della Corte (Cass., Sez. Un. n.
17550/2002 e n. 12868/2005) a rivedere il precedente
orientamento, anche in considerazione del fatto che la
modifica del titolo V della Costituzione, nonché la
successiva legge n. 131/2003 di adeguamento dell’ordinamento
della Repubblica al nuovo assetto costituzionale, hanno
accentuato l’autonomia degli enti locali e nell’ambito di
essa le potestà degli Statuti nella gerarchia delle fonti
(ormai da considerarsi quali atti normativi atipici con
caratteristiche di rango paraprimario o sub-primario).
La Suprema Corte ha, quindi, affermato che, ai fini della
rappresentanza in giudizio del Comune, l’autorizzazione alla
lite da parte della Giunta Comunale non costituisce più, in
linea generale, atto necessario ai fini della proposizione o
della resistenza all’azione (o all’impugnazione).
Ciò, innanzitutto, perché alla Giunta sono state conferite
le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo
degli organi di governo che non siano riservate dalla legge
al Consiglio, mentre spettano ai dirigenti la direzione
degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme
dettati dagli Statuti e dai regolamenti, nonché tutti i
compiti, compresa l’adozione degli atti e provvedimenti
amministrativi che impegnano l’Amministrazione verso
l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo
Statuto tra le menzionate funzioni di indirizzo (art. 48, 50
e 107 d.lgs. n. 267/2000).
In secondo luogo, perché nel nuovo ordinamento delle
autonomie locali il Sindaco ha assunto, ancor più con la
legge n. 81/1993, che ne ha previsto l'elezione diretta, un
ruolo politico ed amministrativo centrale, in quanto
titolare di funzioni di direzione e di coordinamento
dell’esecutivo comunale; onde l’autorizzazione (del
Consiglio prima e poi) della Giunta, se trovava ragione in
un assetto in cui il Sindaco era eletto dal Consiglio e la
Giunta costituiva espressione del Consiglio stesso, non ha
più ragion d’essere in un sistema in cui il Sindaco trae
direttamente la propria investitura dal corpo elettorale e
costituisce egli stesso la fonte di legittimazione degli
Assessori che compongono la Giunta, cui l’art. 48 d.lgs. n.
267/2000 affida il compito di collaborare con il capo
dell’Amministrazione Municipale (salva restando, ovviamente,
la possibilità per lo Statuto comunale -competente a
stabilire i modi di esercizio della rappresentanza legale
dell’ente, anche in giudizio ex art. 6, secondo comma,
d.lgs. n. 267/2000- di prevedere l’autorizzazione della
Giunta, ovvero di richiedere una preventiva determinazione
del competente dirigente, ovvero, ancora, di postulare l’uno
o l’altro intervento in relazione alla natura o all’oggetto
della controversia) (TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 24.09.2012 n. 1675 e
sentenza 24.09.2012 n. 1674 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA: Lo
strumento convenzionale” è fonte di obbligazioni propter rem
ed è, pertanto, astrattamente idoneo a vincolare anche i
successivi aventi causa del proprietario stipulante.
La giurisprudenza in materia di
convenzioni urbanistiche è, infatti, consolidata nel
ritenere che “lo strumento convenzionale” è fonte di
obbligazioni propter rem ed è, pertanto,
astrattamente idoneo a vincolare anche i successivi aventi
causa del proprietario stipulante (v. in tal senso Cass.,
26.11.1988, n. 6382) (TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 24.09.2012 n. 1675 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
carattere interlocutorio delle note dell’Amministrazione,
implicante comunque assenza della manifestazione della
volontà conclusiva della P.A., non è idoneo ad interrompere
il silenzio serbato dalla stessa. Trattasi di atti
soprassessori non impugnabili alla luce della loro natura
meramente interlocutoria, inidonea a manifestare la volontà
dell’Amministrazione.
Il decorso del termine previsto per la conclusione del
procedimento non consuma il potere dell’Amministrazione di
provvedere in senso satisfattivo o negativo o anche
interlocutorio, purché ovviamente l’atto interlocutorio non
sia meramente strumentale al superamento dell’inerzia, che
in questa ipotesi è destinata a permanere.
Deve convenirsi con la ricorrente circa il carattere
meramente soprassessorio della prefata nota, inidoneo,
pertanto, a far cessare lo stato di denunziata inerzia da
parte dell’Amministrazione, e tanto in conformità
all’indirizzo, palesato nelle massime che seguono: “Il
carattere interlocutorio delle note dell’Amministrazione,
implicante comunque assenza della manifestazione della
volontà conclusiva della P.A., non è idoneo ad interrompere
il silenzio serbato dalla stessa. Trattasi di atti
soprassessori non impugnabili alla luce della loro natura
meramente interlocutoria, inidonea a manifestare la volontà
dell’Amministrazione” (TAR Campania Napoli – Sez. VII –
07.06.2012, n. 2707); “Il decorso del termine previsto
per la conclusione del procedimento non consuma il potere
dell’Amministrazione di provvedere in senso satisfattivo o
negativo o anche interlocutorio, purché ovviamente l’atto
interlocutorio non sia meramente strumentale al superamento
dell’inerzia, che in questa ipotesi è destinata a permanere”
(Consiglio Stato – Sez. IV – 15.01.2009, n. 179)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 24.09.2012 n. 1668 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: Le
assenze per mancato intervento dei Consiglieri alle sedute
del Consiglio comunale non debbono essere giustificate
preventivamente di volta in volta.
Le giustificazioni possono essere fornite successivamente,
anche dopo la notificazione all’interessato della proposta
di decadenza, ferma restando l’ampia facoltà di
apprezzamento del Consiglio comunale in ordine alla
fondatezza, serietà e rilevanza delle circostanze addotte.
I i presupposti dai quali consegue la decadenza vanno
interpretati restrittivamente e con estremo rigore, data la
limitazione che la stessa comporta all’esercizio di un
“munus publicum”.
Le assenze danno luogo a revoca quando denotano un
atteggiamento di disinteresse, ovvero motivi futili o
inadeguati rispetto agli impegni presi con l’incarico
pubblico elettivo.
---------------
► le prerogative del Consigliere comunale non si esauriscono
nella partecipazione alle sedute dell’organo cui appartiene,
ma contemplano lo svolgimento di tutta una serie di attività
individuali di carattere propulsivo, conoscitivo e di
controllo;
► l’astensionismo ingiustificato di un Consigliere comunale
costituisce legittima causa di decadenza sul presupposto del
disinteresse e della negligenza che l’amministratore mostra
nell’adempiere il proprio mandato, con ciò generando non
solo difficoltà di funzionamento dell’organo collegiale cui
appartiene, ma violando l’impegno assunto con il corpo
elettorale che lo ha eletto e che ripone in lui la dovuta
fiducia politico-amministrativa;
► rientra nel diritto del Consigliere comunale l’impiego di
tutti gli strumenti giuridici offerti dall’ordinamento per
opporsi a decisioni non condivise (quali, ad esempio,
l’espressione di voto contrario, l’astensione dal voto o
l’omessa partecipazione alla seduta anche al fine di
impedire il formarsi del quorum strutturale).
---------------
L’assenza di qualsivoglia attività istituzionale del
Consigliere –anche in forme alternative– unita alla (pur
motivata) decisione di non partecipare alle riunioni del
Consiglio oscura oggettivamente il ruolo istituzionale
assunto con il mandato, e giustifica la decisione di
dichiarare la decadenza.
La manifestazione di dissenso politico può esprimersi in
ambiti differenti, ma deve comunque estrinsecarsi in azioni
capaci di dare attuazione (in qualsiasi modo) al mandato
elettivo. L’inerzia totale non può –anche ove costituisca il
frutto di una scelta mirata– protrarsi oltre un tempo
ragionevole, poiché diversamente opinando verrebbe
compromesso il rapporto eletti/elettori, dato che il ruolo
dei primi risulta completamente azzerato.
Riepiloga il Collegio i principi enucleati dal Consiglio di
Stato (sez. V – 09/10/2007 n. 5277), il quale ha in materia
statuito che:
• le assenze per mancato intervento dei Consiglieri alle
sedute del Consiglio comunale non debbono essere
giustificate preventivamente di volta in volta;
• le giustificazioni possono essere fornite successivamente,
anche dopo la notificazione all’interessato della proposta
di decadenza, ferma restando l’ampia facoltà di
apprezzamento del Consiglio comunale in ordine alla
fondatezza, serietà e rilevanza delle circostanze addotte;
• i presupposti dai quali consegue la decadenza vanno
interpretati restrittivamente e con estremo rigore, data la
limitazione che la stessa comporta all’esercizio di un “munus
publicum”;
• le assenze danno luogo a revoca quando denotano un
atteggiamento di disinteresse, ovvero motivi futili o
inadeguati rispetto agli impegni presi con l’incarico
pubblico elettivo.
---------------
Sulla natura di “protesta
politica” delle assenze, da apprezzare politicamente e
discrezionalmente da parte dell’organo consiliare, la
giurisprudenza ha rilevato che l’unico profilo in relazione
al quale è ammissibile il sindacato del giudice
amministrativo sui provvedimenti della pubblica
amministrazione è quello giuridico (Consiglio di Stato, sez.
V – 24/03/2011 n. 1789). Nello specifico questo Tribunale,
nella pronuncia 28/04/2011 n. 638 (che risulta appellata) ha
richiamato un proprio precedente (sentenza 10/04/2006 n.
383), ai sensi del quale:
►
le prerogative del Consigliere comunale non si esauriscono
nella partecipazione alle sedute dell’organo cui appartiene,
ma contemplano lo svolgimento di tutta una serie di attività
individuali di carattere propulsivo, conoscitivo e di
controllo;
►
l’astensionismo ingiustificato di un Consigliere comunale
costituisce legittima causa di decadenza sul presupposto del
disinteresse e della negligenza che l’amministratore mostra
nell’adempiere il proprio mandato, con ciò generando non
solo difficoltà di funzionamento dell’organo collegiale cui
appartiene, ma violando l’impegno assunto con il corpo
elettorale che lo ha eletto e che ripone in lui la dovuta
fiducia politico-amministrativa;
►
rientra nel diritto del Consigliere comunale l’impiego di
tutti gli strumenti giuridici offerti dall’ordinamento per
opporsi a decisioni non condivise (quali, ad esempio,
l’espressione di voto contrario, l’astensione dal voto o
l’omessa partecipazione alla seduta anche al fine di
impedire il formarsi del quorum strutturale).
---------------
L’assenza di qualsivoglia attività istituzionale del
Consigliere –anche in forme alternative– unita alla (pur
motivata) decisione di non partecipare alle riunioni del
Consiglio oscura oggettivamente il ruolo istituzionale
assunto con il mandato, e giustifica la decisione di
dichiarare la decadenza.
La manifestazione di dissenso politico può esprimersi in
ambiti differenti, ma deve comunque estrinsecarsi in azioni
capaci di dare attuazione (in qualsiasi modo) al mandato
elettivo. L’inerzia totale non può –anche ove costituisca il
frutto di una scelta mirata– protrarsi oltre un tempo
ragionevole, poiché diversamente opinando verrebbe
compromesso il rapporto eletti/elettori, dato che il ruolo
dei primi risulta completamente azzerato (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 24.09.2012 n. 1541 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO - VARI: IN
AZIENDA/ «Incapace» non si dice.
Nel corso di un'assemblea aziendale non
si può dire che un impiegato è stato rimosso perché
inadeguato.
Per la Cassazione è diffamante la frase «per valutata
incapacità a ricoprire il ruolo» pronunciata dal
presidente di una società e riferita a un dipendente
facilmente identificabile grazie all'indicazione
dell'attività svolta.
È un apprezzamento «idoneo a ingenerare un'opinione
sfavorevole e a ingenerare nel soggetto attinto un
sentimento di frustrazione» (Corte di Cassazione, Sez. V
penale, sentenza 21.09.2012 n. 36371 -
articolo Il
Sole 24 Ore del 25.09.2012). |
APPALTI:
Sull'annotazione nei verbali di gara dell'orario
di apertura e di chiusura dei lavori.
In materia di gare pubbliche di appalto l'indicazione della
durata delle operazioni verbalizzate (e, quindi, dell'orario
di inizio e di chiusura della seduta collegiale) in alcuni
casi può essere considerato un elemento essenziale (ad
esempio, per i verbali delle commissioni di concorso, perché
tale dato può essere necessario per controllare la
ponderatezza delle relative determinazioni); in altri casi,
cioè nelle ipotesi in cui si evince altrimenti che la
valutazione sia stata attenta e ponderata può risultare,
invece, superflua.
In sostanza le lacune del verbale possano causare
l'invalidità dell'atto verbalizzato solo nel caso in cui
esse riguardino aspetti dell'azione amministrativa la cui
conoscenza risulti necessaria per poterne verificare la
correttezza; mentre quelle che riguardano aspetti diversi e
non determinanti danno luogo a mere irregolarità formali non
idonee a comportare l'illegittimità dell'atto che tali
omissioni presenti (TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis,
sentenza 21.09.2012 n. 8015 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: In materia di gare
pubbliche di appalto l'indicazione della durata delle
operazioni verbalizzate (e, quindi, dell'orario di inizio e
di chiusura della seduta collegiale) in alcuni casi può
essere considerato un elemento essenziale (ad esempio, per i
verbali delle commissioni di concorso, perché tale dato può
essere necessario per controllare la ponderatezza delle
relative determinazioni); in altri casi, cioè nelle ipotesi
in cui si evince altrimenti che la valutazione sia stata
attenta e ponderata può risultare, invece, superflua.
In
sostanza, le lacune del verbale possano causare l'invalidità
dell'atto verbalizzato solo nel caso in cui esse riguardino
aspetti dell'azione amministrativa la cui conoscenza risulti
necessaria per poterne verificare la correttezza; mentre
quelle che riguardano aspetti diversi e non determinanti
danno luogo a mere irregolarità formali non idonee a
comportare l'illegittimità dell'atto che tali omissioni
presenti.
Per quanto concerne, invece, l’annotazione dell’orario la
giurisprudenza amministrativa, evidenziata anche dalla
difesa erariale, ha chiarito che "In materia di gare
pubbliche di appalto l'indicazione della durata delle
operazioni verbalizzate (e, quindi, dell'orario di inizio e
di chiusura della seduta collegiale) in alcuni casi può
essere considerato un elemento essenziale (ad esempio, per i
verbali delle commissioni di concorso, perché tale dato può
essere necessario per controllare la ponderatezza delle
relative determinazioni); in altri casi, cioè nelle ipotesi
in cui si evince altrimenti che la valutazione sia stata
attenta e ponderata può risultare, invece, superflua. In
sostanza le lacune del verbale possano causare l'invalidità
dell'atto verbalizzato solo nel caso in cui esse riguardino
aspetti dell'azione amministrativa la cui conoscenza risulti
necessaria per poterne verificare la correttezza; mentre
quelle che riguardano aspetti diversi e non determinanti
danno luogo a mere irregolarità formali non idonee a
comportare l'illegittimità dell'atto che tali omissioni
presenti" (Cons. Stato V, 22.02.2011 n. 1094).
Nel caso di specie, la mancata indicazione dell’orario
degrada a mera irregolarità non potendosi seriamente
revocare in dubbio, in mancanza di concreti indizi di segno
contrario, l’attendibilità della determinazione
amministrativa ovvero la ponderatezza del relativo esame
svolto dalla commissione
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis,
sentenza 21.09.2012 n. 8015 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
fase della valutazione sostanziale si svolge in seduta
riservata, fermo l’obbligo di seduta pubblica per la
apertura delle buste e per la verifica al loro interno della
presenza della documentazione necessaria alla luce dei
principi di correttezza, pubblicità, trasparenza e par
condicio di cui all’art. 2, commi 1 e 3, D.lgs. n. 163/2006
e di cui all’art. 1, comma 1, legge n. 241/1990.
Deve essere, infine, respinto l’ultimo motivo di appello
relativo alla illegittimità della verifica in seduta non
pubblica della completezza e regolarità della documentazione
presentata da ciascun concorrente.
Anche dai rigorosi principi deducibili dalla sentenza n.
13/2011 dell’Adunanza plenaria (che si riferisce al diverso
caso della valutazione tecnico-discrezionale dell’offerta
economicamente più vantaggiosa), può ricavarsi che la fase
della valutazione sostanziale si svolge in seduta riservata,
fermo l’obbligo di seduta pubblica per la apertura delle
buste e per la verifica al loro interno della presenza della
documentazione necessaria alla luce dei principi di
correttezza, pubblicità, trasparenza e par condicio di cui
all’art. 2, commi 1 e 3, D.lgs. n. 163/2006 e di cui
all’art. 1, comma 1, legge n. 241/1990
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 21.09.2012 n. 5048 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: L’esercizio
del potere di ordinanza extra ordinem presuppone la
sussistenza di una situazione di particolare gravità,
eccezionale e imprevista, che costituisca una minaccia per
la pubblica incolumità, situazione per la quale non sia
possibile utilizzare i normali mezzi apprestati
dall’ordinamento giuridico.
Il ricorso a questo tipo di provvedimento presuppone sempre
un preventivo e puntuale accertamento della situazione di
fatto che deve fondarsi su prove concrete e non su mere
presunzioni.
Il ricorso a questo strumento si giustifica, in materia
igienico-sanitaria, per ovviare a situazioni di grave
degrado degli immobili, insalubrità dei luoghi, o per
pericolo di contagio per le persone o gli animali.
E’ orientamento consolidato che l’esercizio del potere di
ordinanza extra ordinem presuppone la sussistenza di
una situazione di particolare gravità, eccezionale e
imprevista, che costituisca una minaccia per la pubblica
incolumità, situazione per la quale non sia possibile
utilizzare i normali mezzi apprestati dall’ordinamento
giuridico (ex multis Cons. Stato IV, 24.03.2006 n.
1537).
Il ricorso a questo tipo di provvedimento presuppone sempre
un preventivo e puntuale accertamento della situazione di
fatto che deve fondarsi su prove concrete e non su mere
presunzioni (Cons. Stato, sez. VI, 05.09.2005 n. 4252).
Il ricorso a questo strumento si giustifica, in materia
igienico-sanitaria, per ovviare a situazioni di grave
degrado degli immobili, insalubrità dei luoghi, o per
pericolo di contagio per le persone o gli animali.
Nel caso di specie il Collegio ritiene che non ricorrano
quelle condizioni di eccezionale urgenza e gravità da
giustificare il ricorso al potere di cui all’art. 54 del
D.L.gs 267/2000: l’ordinanza contestata è stata adottata in
quanto il portico adibito a parcheggio risulterebbe “in
cattivo stato di pulizia”, al fine di evitare “cattive
esalazione o altri inconvenienti igienico-sanitari”,
senza tuttavia che sia stata valutata l’incidenza di tale
fenomeno sulla salute pubblica e sull’ambiente ed in carenza
di istruttoria.
L’ASL stessa si è limitata a rilevare che “quanto
lamentato sia sostanzialmente causato da azioni
comportamentali eventualmente disciplinate dal Codice
Civile, nonché da norme condominiali”, richiamando
l’art. 3.3.28 del Regolamento Locale d’Igiene che impone ai
proprietari degli spazi privati di tenerli puliti e sgomberi
da materiali che possano causare umidità esalazioni o altri
inconvenienti.
Si evince quindi dalla nota che non è mai stato neppure
effettuato alcun sopralluogo da parte dell’Autorità
sanitaria competente, ma il Sindaco ha adottato il
provvedimento sulla base della sola segnalazione del
privato, in cui si lamenta dello sporco lasciato dagli
pneumatici e di “escrementi e piume di rondine”.
Appare evidente che l’ordinanza è viziata in relazione ai
profili rilevati nel ricorso, per violazione degli artt. 54
del D.Lgs 267/2000: il Sindaco è ricorso ad uno strumento “eccedente”
rispetto alla situazione di fatto, che non presentava né i
presupposti di pericolosità, né di urgenza.
La situazione attiene ad una semplice controversia tra
vicini e l’ordinanza pare proprio configurarsi come il caso
di scuola di eccesso di potere per sviamento dalla causa
tipica: è stato infatti emesso un atto, non solo in assenza
dei presupposti di legge, ma al fine di dirimere una
controversia tra proprietari limitrofi.
E l’uso di un potere pubblico a tale scopo risulta ancor più
manifestamente in contrasto con il principio di buona
amministrazione e di imparzialità se si considera che il
procedimento è stato avviato a fronte di una segnalazione
del coniuge di un vigile urbano del Comune, residente nel
medesimo immobile
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 21.09.2012 n. 2368 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La portata dei requisiti soggettivi richiesti
dalla lex specialis, in via di integrazione della disciplina
legale in materia di qualificazione, deve essere
interpretata in modo da evitare l'introduzione di barrriere
selettive anticompetitive.
In omaggio al principio del favor partecipationis, la
portata dei requisiti soggettivi richiesti dalla lex
specialis, in via di integrazione della disciplina
legale in materia di qualificazione, deve essere
interpretata in modo da evitare l'introduzione di una
barriera di ingresso anticompetitiva che restringa, in modo
non ragionevole e non necessario, la platea dei potenziali
competitori.
Il generico riferimento all'esperienza maturata
nell'esecuzione di precedenti contratti di appalto deve
essere quindi riempito di contenuto seguendo un approccio
ermeneutico estensivo, idoneo a valorizzare i lavori che,
pur se non perfettamente sovrapponibili a quello oggetto
della specifica gara, rivelino la maturazione di capacità
tecniche e operative utili, sul piano teleologico, a
dimostrare la specifica affidabilità dell'impresa con
riguardo all'oggetto delle prestazioni dedotte nel contratto
di cui alla procedura di gara (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 20.09.2012 n. 5009 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Va
riconosciuto come il Comune sia tenuto a rispondere
espressamente alla domanda con la quale i proprietari di
immobili terreni limitrofi a quello interessato da un
supposto abuso edilizio chiedano l’adozione di provvedimenti
repressivi e, ove sussistano le condizioni, anche ad
assumere gli stessi ed, allo stesso modo, l’attività di
verifica ed eventuale repressione deve essere posta in
essere in presenza di una situazione complessa, come quella
in questione, in cui vi è anche un aspetto relativo alla
sicurezza e la necessità di uno specifico del parere
Comitato Tecnico Regionale prevenzione incendi.
Ne deriva che il proprietario o detentore di un'area o di un
fabbricato, nella cui sfera giuridica incida dannosamente il
mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi da
parte dell'organo preposto avverso abusi edilizi, è titolare
di un interesse qualificato alla salvaguardia delle
caratteristiche urbanistiche della zona, che si realizza non
solo attraverso il potere di denuncia di cui al citato art.
27, ma anche attraverso la pretesa di una pronuncia, se non
vengono adottate le misure richieste, e cioè di un
provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni.
In conclusione, in materia edilizia, l’obbligo del Comune di
provvedere sussiste non solo nei casi in cui i privati -che
abbiano uno stabile collegamento con la zona interessata
dall’abuso- chiedano un atto ampliativo a loro favore ma
anche quando, come nel caso di specie, chiedano il rispetto
dei titoli abilitativi rilasciati, degli strumenti
urbanistici o della disciplina edilizia attraverso
l’eliminazione di abusi (intendendo per tali gli interventi
effettuati in violazione degli uni o dell’altra).
Viene in giurisprudenza generalmente
riconosciuto come il Comune sia tenuto a rispondere
espressamente alla domanda con la quale i proprietari di
immobili terreni limitrofi a quello interessato da un
supposto abuso edilizio chiedano l’adozione di provvedimenti
repressivi e, ove sussistano le condizioni, anche ad
assumere gli stessi (TAR Lazio-Latina, 24.10.2003, n. 876; Consiglio Stato, sez. V, 26.11.1994, n.
1381) ed, allo stesso modo, l’attività di verifica ed
eventuale repressione deve essere posta in essere in
presenza di una situazione complessa, come quella in
questione, in cui vi è anche un aspetto relativo alla
sicurezza e la necessità di uno specifico del parere
Comitato Tecnico Regionale prevenzione incendi.
Ne deriva che il proprietario o detentore di un'area o di un
fabbricato, nella cui sfera giuridica incida dannosamente il
mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi da
parte dell'organo preposto avverso abusi edilizi, è titolare
di un interesse qualificato alla salvaguardia delle
caratteristiche urbanistiche della zona, che si realizza non
solo attraverso il potere di denuncia di cui al citato art.
27, ma anche attraverso la pretesa di una pronuncia, se non
vengono adottate le misure richieste, e cioè di un
provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni.
In conclusione, in materia edilizia, l’obbligo del Comune di
provvedere sussiste non solo nei casi in cui i privati -che
abbiano uno stabile collegamento con la zona interessata
dall’abuso- chiedano un atto ampliativo a loro favore ma
anche quando, come nel caso di specie, chiedano il rispetto
dei titoli abilitativi rilasciati, degli strumenti
urbanistici o della disciplina edilizia attraverso
l’eliminazione di abusi (intendendo per tali gli interventi
effettuati in violazione degli uni o dell’altra) (TAR
Campania Napoli, Sez. IV, n. 2766/2012)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 20.09.2012 n. 3901 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il vincolo di rispetto ferroviario è sempre stato
considerato come vincolo di inedificabilità relativa e non
assoluta.
Tale qualificazione ha consentito, tra l’altro, di
permettere l’utilizzo dell’autorizzazione in deroga anche in
sanatoria di edificazioni già compiute, rendendo evidente
come il mero ritardo nella richiesta, anche quando proposta
tramite un soggetto terzo, e nel rilascio di tale
autorizzazione, non possano portare all’illegittimità della
concessione edilizia rilasciata.
Il citato d.P.R. 11.07.1980, n. 753 “Nuove norme in
materia di polizia, sicurezza e regolarità dell'esercizio
delle ferrovie e di altri servizi di trasporto”,
all’art. 60, prevede: “Quando la sicurezza pubblica, la
conservazione delle ferrovie, la natura dei terreni e le
particolari circostanze locali lo consentano, possono essere
autorizzate dagli uffici lavori compartimentali delle F.S.,
per le ferrovie dello Stato, e dai competenti uffici della
M.C.T.C., per le ferrovie in concessione, riduzioni alle
distanze prescritte dagli articoli dal 49 al 56.
I competenti uffici della M.C.T.C., prima di autorizzare le
richieste riduzioni delle distanze legali prescritte, danno,
mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento,
comunicazione alle aziende interessate delle richieste
pervenute, assegnando loro un termine perentorio di giorni
trenta per la presentazione di eventuali osservazioni.
Trascorso tale termine, i predetti uffici possono
autorizzare le riduzioni richieste”.
Nel caso in esame, risulta agli atti come il soggetto
preposto alla tutela, ossia RFI - Rete Ferroviaria Italiana,
avesse effettivamente autorizzato il citato intervento
relativo alla stazione autolinee, in deroga alle distanze
minime previste dai binari e dalle rotatorie ferroviarie più
vicine, con lettera del 25.10.2002, dove espressamente si
legge: “autorizza l'intervento in oggetto alla distanza
minima di mt. 9,60 dalla più vicina rotaia FS”.
Le parti appellate lamentano tuttavia come la detta
autorizzazione in deroga non sia in ogni caso legittima, non
potendo incidere sulla correttezza della concessione
rilasciata, sia perché non comprendente tutte le opere
realizzate, ed in specie l’ulteriore recinzione posta a
distanza ancora inferiore dal tratto delle rotaie, sia per i
vizi procedurali che la connotano.
Gli ulteriori profili di censura non possono essere
condivisi.
In merito poi alla recinzione, non vi sono elementi che
inficino l’affermazione del Comune per cui questa fosse un
manufatto esistente e non di nuova costruzione, tanto da
essere indicata nel progetto di cui alla concessione come
mera ricostruzione, e quindi non integrante i presupposti
per l’applicazione dell’autorizzazione in deroga di cui al
citato art. 60 e, quindi, nemmeno a legittimare una
richiesta di provvedimento in tal senso.
Rispetto poi ai profili procedurali di tale rilascio, e
quindi in relazione al tema della tardività del rilascio ed
al soggetto al quale la stessa è stata rilasciata, occorre
ricordare come in giurisprudenza, il vincolo di rispetto
ferroviario sia sempre stato considerato come vincolo di
inedificabilità relativa e non assoluta. Tale qualificazione
ha consentito, tra l’altro, di permettere l’utilizzo
dell’autorizzazione in deroga anche in sanatoria di
edificazioni già compiute (ad esempio in relazione ai
profili di sanatoria di abusi edilizi, vedi da ultimo TAR
Toscana, sez. III, 18.01.2010 n. 37), rendendo evidente come
il mero ritardo nella richiesta, anche quando proposta
tramite un soggetto terzo, e nel rilascio di tale
autorizzazione, non possano portare all’illegittimità della
concessione edilizia rilasciata (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.09.2012 n. 4974 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'art. 83 del Codice degli Appalti inibisce alla
Commissione giudicatrice di suddividere i criteri valutativi
previsti dal bando in dettagliati sottocriteri cui
attribuire specifici sottopunteggi, procedendo per questa
via ad una formale e sostanziale integrazione e/o
modificazione del bando stesso.
Ed invero, secondo l’insegnamento della giurisprudenza
amministrativa richiamata dalla stessa appellante,
l’invocato art. 83 del Codice degli Appalti inibisce alla
Commissione giudicatrice di suddividere i criteri valutativi
previsti dal bando in dettagliati sottocriteri cui
attribuire specifici sottopunteggi, procedendo per questa
via ad una formale e sostanziale integrazione e/o
modificazione del bando stesso.
Nella specie, però, la Commissione di gara non ha introdotto
formalmente alcun nuovo sottocriterio di valutazione né
alcun specifico sottopunteggio da assegnare alle offerte,
limitandosi a specificare i fattori che sarebbero stati
considerati, nell’ambito dei criteri individuati in sede di
lex specialis, per valutare le offerte stesse .
Infatti, come risulta dal verbale n. 3 del 25.07.2011, prima
di aprire le buste contenenti le offerte tecniche, la
Commissione ha semplicemente deliberato “che nella seduta
odierna verrà anche esposto il metodo che la commissione
giudicatrice utilizzerà per la valutazione delle offerte
tecniche laddove il bando non è esaustivo; si allega al
presente verbale pertanto la metodologia esposta per
l’analisi dell’offerta tecnica”.
Correttamente, pertanto, il primo giudice ha osservato che “In
realtà la commissione si è limitata ad esporre il metodo che
avrebbe utilizzato per valutare le offerte tecniche laddove
i criteri del bando erano eccessivamente ampi, sì da
circoscrivere la propria discrezionalità nella (successiva)
attribuzione del punteggio,fornendo sostanzialmente
–mettendo in evidenza i fattori che sarebbero stati
considerati– gli elementi della motivazione dei propri
giudizi” .
Tale modus agendi, quindi, piuttosto che determinare
una formale e sostanziale integrazione e/o modificazione del
bando costituisce, sempre come correttamente osservato dal
TAR, un’operazione con cui la Commissione ha aumentato la
trasparenza della procedura, formalizzando “le operazioni
retrostanti ai giudizi che sarebbero stati formulati”
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.09.2012 n. 4971 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’ambito di applicazione del richiamato art. 38
va riferito ai soli amministratori della società e non anche
all’institore.
-------------
Quando il soggetto risulti in possesso di tutti i requisiti
richiesti e la lex specialis non preveda espressamente la
sanzione dell'esclusione a seguito della mancata osservanza
delle puntuali prescrizioni sulle modalità e sull'oggetto
delle dichiarazioni da fornire, l'omissione delle
dichiarazioni stesse non produce alcun pregiudizio agli
interessi presidiati dalla norma, ricorrendo al più
un'ipotesi di falso innocuo , come tale inidoneo a
legittimare l'esclusione del concorrente.
---------------
L'avvalimento previsto dal Codice degli appalti non è
imperativamente disciplinato dalla legge nei suoi aspetti
formali e nel suo contenuto sostanziale.
Infatti, l’art. 49 del D.lgs 163/2006 si limita a disporre
che il concorrente, in tale ipotesi, deve semplicemente
allegare “una dichiarazione…….attestante l’avvalimento dei
requisiti necessari per la partecipazione alla gara, con
specifica indicazione dei requisiti stessi e dell’impresa
ausiliaria”, nonché “una dichiarazione sottoscritta
dall’impresa ausiliaria con cui quest’ultima si obbliga
verso il concorrente e verso la stazione appaltante a
mettere a disposizione per tutta la durata dell’appalto le
risorse necessarie di cui è carente il concorrente.”
Ne deriva che per l’esistenza e l’operatività del contratto
di avvalimento non sono necessari, in linea di principio,
contenuti particolari e/o predeterminati, né specifiche
tassative formalità, oltre a quelle specificate dalla norma.
Ed invero, osserva il Collegio come nella specie né il bando di gara né
la lettera d’invito imponevano alle imprese ausiliarie di
presentare la dichiarazione ex art. 38 del D.lgs. 163/2006 .
Ciò posto, atteso che l’obbligo di presentare la predetta
dichiarazione non è –ex se- estensibile a soggetti terzi
(in assenza di esplicito rinvio), ne consegue che le imprese
ausiliarie erano tenute a fornire le sole dichiarazioni
espressamente richieste dall’art. 49, comma 2, lett. c), del
medesimo D.lgs. 163/2006 .
Infatti, nel regolamentare gli obblighi informativi che
gravano sul concorrente che si avvalga di una impresa terza,
il citato art. 49 prevede l’obbligo di fornire la sola
“dichiarazione sottoscritta da parte dell’impresa ausiliaria
attestante il possesso da parte di quest’ultima dei
requisiti generali di cui all’articolo 38”, ricollegando la
sanzione espulsiva al solo caso di dichiarazioni mendaci (di
cui al comma 3 del citato art. 49).
Non v’è dubbio, pertanto, che la comminatoria di esclusione
che la lex specialis di gara ricollega alla mancata
presentazione delle dichiarazioni di cui all’art. 38,
nell’assenza di una formale e specifica estensione
all’impresa ausiliaria, non può ritenersi applicabile a
quest’ultima, contrariamente a quanto erroneamente ritenuto
dall’appellante.
A ciò aggiungasi che secondo il più recente insegnamento
della Sezione, da cui il Collegio non ha motivo di
discostarsi, l’ambito di applicazione del richiamato art.
38 va riferito ai soli amministratori della società e non
anche all’institore (cfr. Sez. V, 21.10.2011, n. 6136; 25.01.2011, n. 513 ).
La società aggiudicataria, quindi, non avrebbe comunque
dovuto presentare le dichiarazioni di cui all’art. 38
relativamente al Sig. Aniello, non rivestendo quest’ultimo
la carica formale di amministratore della Ecologia Falzarano.
In ogni caso, come correttamente rilevato dal primo giudice,
quando il soggetto risulti in possesso di tutti i requisiti
richiesti (cfr. certificato del casellario penale del Sig.
Aniello) e la lex specialis non preveda espressamente la
sanzione dell'esclusione a seguito della mancata osservanza
delle puntuali prescrizioni sulle modalità e sull'oggetto
delle dichiarazioni da fornire, l'omissione delle
dichiarazioni stesse non produce alcun pregiudizio agli
interessi presidiati dalla norma, ricorrendo al più
un'ipotesi di falso innocuo , come tale inidoneo a
legittimare l'esclusione del concorrente (cfr. Cons. Stato,
Sez. V, 24.11.2011 n. 6240).
---------------
Osserva il Collegio, sul
piano generale, come l’avvalimento previsto dal Codice
degli appalti non sia imperativamente disciplinato dalla
legge nei suoi aspetti formali e nel suo contenuto
sostanziale.
Per quanto qui rileva, infatti, l’art. 49 del D.lgs
163/2006 si limita a disporre che il concorrente, in tale
ipotesi, deve semplicemente allegare “una
dichiarazione…….attestante l’avvalimento dei requisiti
necessari per la partecipazione alla gara, con specifica
indicazione dei requisiti stessi e dell’impresa ausiliaria”,
nonché “una dichiarazione sottoscritta dall’impresa
ausiliaria con cui quest’ultima si obbliga verso il
concorrente e verso la stazione appaltante a mettere a
disposizione per tutta la durata dell’appalto le risorse
necessarie di cui è carente il concorrente.”
Ne deriva che per l’esistenza e l’operatività del contratto
di avvalimento non sono necessari, in linea di principio,
contenuti particolari e/o predeterminati, né specifiche
tassative formalità, oltre a quelle specificate dalla norma.
Nella specie, come risulta dal contratto depositato in atti,
l’ausiliaria ha messo a disposizione il proprio requisito di
iscrizione all’Albo nazionale dei gestori ambientali e la
sua capacità economica secondo quanto prescritto dal
richiamato art. 49, così rispondendo alla P.A., solidalmente
con l’aggiudicatario, con tutta l’azienda per l’impegno
assunto.
Pertanto, attesa l’operatività della clausola di generale (e
solidale) responsabilità dell’ausiliaria e nell’assenza di
specifiche prescrizioni normative, deve ritenersi
irrilevante la mancanza di ulteriori formali impegni
contrattuali (affitto ramo d’azienda, noleggio attrezzature etc..), ai fini della validità dell’intercorso avvalimento.
Per le stesse ragioni, deve ritenersi ammissibile anche la
cessione del requisito dell’iscrizione all’Albo dei gestori
ambientali, potendo il concorrente avvalersi di tutta
l’organizzazione aziendale dell’ausiliaria in forza del
contratto stipulato, anche con riferimento a detto requisito
di qualificazione (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.09.2012 n. 4970 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La custodia in cassaforte deve ritenersi quale
“adeguata cautela” per la salvaguardia dei plichi.
Dagli atti di causa,
infatti, risulta che nella prima seduta il Presidente ha
puntualmente specificato le modalità di custodia (in
cassaforte) dei plichi, a cui il segretario doveva
attenersi.
Tale accorgimento risulta pertanto oggettivamente idoneo a
garantire l’integrità e la conservazione della
documentazione di gara.
Come precisato infatti dalla più recente giurisprudenza di
questa Sezione, richiamata dalla stessa appellante, la
custodia in cassaforte deve ritenersi quale “adeguata
cautela” per la salvaguardia dei plichi.
Né, peraltro, l’appellante contesta nello specifico alcun
segno di concreta manomissione della documentazione di gara, risultando quindi la censura dedotta in via meramente
formale vieppiù inconducente
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.09.2012 n. 4970 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Non v’è dubbio che ove la normativa di gara
prescriva a pena di esclusione che tutte le consorziate sono
tenute a rendere le dichiarazioni ex art. 38 del codice
degli appalti il concorrente che non ottemperi a tale
prescrizione debba necessariamente essere escluso dalla
procedura di gara da parte della stazione appaltante.
--------------
Il possesso dei requisiti generali e morali ex art. 38
codice appalti deve essere verificato non solo in capo al
consorzio ma anche alle consorziate dovendosi ritenere
cumulabili in capo al consorzio i soli requisiti di idoneità
tecnica e finanziaria ai sensi dell’art. 35 codice appalti.
La diversa opzione ermeneutica condurrebbe invero a
conseguenze paradossali in quanto le stringenti garanzie di
moralità professionale richieste inderogabilmente ai singoli
imprenditori potrebbero essere eluse da cooperative che
attraverso la costituzione di un consorzio con autonoma
identità riuscirebbero di fatto ad eseguire lavori e servizi
per le pubbliche amministrazioni alle cui gare non sarebbero
state singolarmente ammesse.
Nel caso di consorzi i requisiti generali di partecipazione
alla gara previsti dall’art. 38 devono essere posseduti
dalle singole imprese consorziate; se infatti tali requisiti
andassero accertati solo in capo al consorzio e non in capo
ai consorziati che eseguono le prestazioni il consorzio
potrebbe agevolmente diventare uno schermo di copertura
consentendo la partecipazione di consorziati privi dei
necessari requisiti; per gli operatori che non hanno
requisiti dell’art. 38 basterebbe anziché concorrere
direttamente andando incontro a sicura esclusione aderire ad
un consorzio da utilizzare come copertura.
Ed infatti a prescindere dalla tesi formalistica o sostanzialistica
formatasi in giurisprudenza sulla questione, non v’è dubbio
che ove la normativa di gara prescriva a pena di esclusione
che tutte le consorziate sono tenute a rendere le
dichiarazioni ex art. 38 del codice degli appalti il
concorrente che non ottemperi a tale prescrizione debba
necessariamente essere escluso dalla procedura di gara da
parte della stazione appaltante.
Tanto premesso in via di principio osserva il Collegio che
nel caso di specie il disciplinare di gara (pag. 4) nel
paragrafo “Requisiti di carattere generale” dispone
espressamente che “I requisiti di carattere generale devono
essere posseduti a pena di esclusione da tutti i concorrenti
singoli e raggruppati dai consorzi e dai consorziati e per i
soggetti richiamati dall’art. 38 del D.Lgs. 163/2006;
altresì tutti i soggetti partecipanti sia singoli sia
consorziati o raggruppati devono rendere a pena di
esclusione le ulteriori dichiarazioni prescritte come
innanzi.”
Detta prescrizione pertanto è chiara inequivoca e perentoria
nel prevedere che nel caso in cui il concorrente sia un
consorzio tutti i singoli soggetti che ne fanno parte sono
tenuti a presentare a pena di esclusione le dichiarazioni ex
art. 38 del codice dei contratti pubblici.
È evidente quindi che tutte le consorziate per le quali il
consorzio Mythos ha attestato di concorrere dovessero
rendere le dichiarazioni previste dal disciplinare di gara
contrariamente a quanto avvenuto.
Né al riguardo può accedersi alla tesi sostenuta da Mythos
secondo cui i modelli (modello 1 e modello 2) richiamati
nel bando di gara (pagg. 5 e 6) ed allegati al bando
stesso in ragione della loro formulazione giustificherebbero
la rilevata omissione da parte delle consorziate .
Per un verso infatti gli invocati modelli non precisano
affatto che le dichiarazioni ivi previste debbano essere
rese solo dal consorzio e tantomeno escludono che le stesse
debbano essere rese anche dalle singole consorziate .
Per altro verso poi non v’è dubbio che detti modelli debbano
essere letti ed interpretati alla stregua degli ordinari
criteri ermeneutici in modo da essere conformi a quanto
espressamente disposto dal bando di gara a cui sono
ontologicamente connessi e quindi nel senso che tutte le
consorziate (e non solo il consorzio) siano tenute a
rendere a pena di esclusione le dichiarazioni ivi previste
ex art. 38 del D.lgs. 163/2006.
Del resto sulla questione si è di recente espressa
l’Adunanza Plenaria precisando con sentenza 04.05.2012 n.
8 che “il possesso dei requisiti generali e morali ex art.
38 codice appalti deve essere verificato non solo in capo al
consorzio ma anche alle consorziate dovendosi ritenere
cumulabili in capo al consorzio i soli requisiti di idoneità
tecnica e finanziaria ai sensi dell’art. 35 codice appalti.
La diversa opzione ermeneutica condurrebbe invero a
conseguenze paradossali in quanto le stringenti garanzie di
moralità professionale richieste inderogabilmente ai singoli
imprenditori potrebbero essere eluse da cooperative che
attraverso la costituzione di un consorzio con autonoma
identità riuscirebbero di fatto ad eseguire lavori e servizi
per le pubbliche amministrazioni alle cui gare non sarebbero
state singolarmente ammesse”.
Ed in questo senso peraltro si è espressa più volte anche la
giurisprudenza della Sezione precisando che nel caso di
consorzi i requisiti generali di partecipazione alla gara
previsti dall’art. 38 devono essere posseduti dalle singole
imprese consorziate; se infatti tali requisiti andassero
accertati solo in capo al consorzio e non in capo ai
consorziati che eseguono le prestazioni il consorzio
potrebbe agevolmente diventare uno schermo di copertura
consentendo la partecipazione di consorziati privi dei
necessari requisiti; per gli operatori che non hanno
requisiti dell’art. 38 basterebbe anziché concorrere
direttamente andando incontro a sicura esclusione aderire ad
un consorzio da utilizzare come copertura (cfr. Cons. Stato
sez. V 15.06.2010 n. 3759; Id. sez. V 05.09.2005
n. 4477; Id. sez. V 30.01.2002 n. 507).
Ne consegue quindi che non avendo le consorziate reso le
dichiarazioni sui requisiti generali ex art. 38 il RTI
consorzio stabile Mythos doveva essere escluso dalla gara
contrariamente a quanto avvenuto (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.09.2012 n. 4969 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L’adozione dell’ordinanza contingibile è la
sussistenza e l’attualità del pericolo, cioè del rischio
concreto di un danno grave e imminente per l’incolumità
pubblica e per l’igiene, a nulla rilevando neppure che la
situazione di pericolo fosse, come nel caso di specie, nota
da tempo.
Neppure può trovare ingresso la censura relativa alla
violazione delle garanzie procedimentali, ex art. 7 della
legge 07.08.1990, n. 241, essendo queste incompatibili con
l’urgenza di provvedere, anche in ragione della perdurante
attualità dello stato di pericolo, aggravantesi con il
trascorrere del tempo.
Di fatto la comunicazione di avvio del procedimento nelle
ordinanze contingibili e urgenti del Sindaco non può che
essere di pregiudizio per l’urgenza di provvedere.
Non vi sono poi motivi per discostarsi da quanto ritenuto
dal TAR in ordine alla possibilità da parte del Comune di
ricorrere allo strumento dell’ordinanza contingibile e
urgente per eliminare definitivamente la situazione di
pericolo rilevata, nella considerazione che “nella
fattispecie, in particolare, il concorso dei rischi legati a
possibili ulteriori crolli del fabbricato fatiscente e agli
effetti pregiudizievoli per la salute pubblica derivanti dal
pericolo di dispersione di fibre di amianto oltre che dalle
conseguenze della presenza nei pressi della strada comunale
di un contenitore di stoccaggio di deiezioni zootecniche
parzialmente privo di copertura, come è evidente, palesa una
situazione di concreta e immediata minaccia per la sanità e
l’incolumità pubbliche, indice della necessità di interventi
solleciti e indilazionabili.”
La scelta dell’amministrazione di provvedere a porre rimedio
a tale situazione con l’emanazione di una ordinanza
contingibile ed urgente a tutela dell’igiene e della sanità
pubblica, nonché della sicurezza dei cittadini, “impinge
nel merito dell’azione amministrativa che sfugge al
sindacato di legittimità del giudice amministrativo, non
risultando manifestamente inficiata da illogicità,
arbitrarietà, irragionevolezza, oltre che da travisamento
dei fatti” (Cons. St., sez. V, 28.09.2009, n. 5807).
L’attualità della minaccia per incolumità pubblica e
l’igiene, esclude rilevanza al fatto che la situazione di
pericolo fosse nota da tempo.
La giurisprudenza ha precisato più volte che presupposto per
l’adozione dell’ordinanza contingibile è la sussistenza e
l’attualità del pericolo, cioè del rischio concreto di un
danno grave e imminente per l’incolumità pubblica e per
l’igiene, a nulla rilevando neppure che la situazione di
pericolo fosse, come nel caso di specie, nota da tempo
(C.d.S. sez. V, 28.03.2008, n. 1322).
Neppure può trovare ingresso la censura relativa alla
violazione delle garanzie procedimentali, ex art. 7 della
legge 07.08.1990, n. 241, essendo queste incompatibili con
l’urgenza di provvedere, anche in ragione della perdurante
attualità dello stato di pericolo, aggravantesi con il
trascorrere del tempo (C.d.S., sez. V, 02.04.2001, n. 1904).
Di fatto la comunicazione di avvio del procedimento nelle
ordinanze contingibili e urgenti del Sindaco non può che
essere di pregiudizio per l’urgenza di provvedere (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 19.09.2012 n. 4968 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Ordinanze sindacali.
Caso Ilva, il Sindaco non può ordinare la messa in
sicurezza
E' illegittima, in quanto adottata in difetto del necessario
presupposto della concreta sussistenza di una situazione di
emergenza imprevista, un'ordinanza contingibile e urgente
con la quale il Sindaco, al fine di scongiurare pericoli per
la salute pubblica, ha ingiunto al legale rappresentante di
un'industria siderurgica di porre in essere nel proprio
stabilimento tutte le misure idonee a scongiurare detto
pericolo.
La ricorrente, nota società operante nel settore
siderurgico, ha impugnato l’ordinanza contingibile e urgente
con cui il Sindaco ha ingiunto alla medesima l’adozione, nel
proprio stabilimento, di misure idonee a scongiurare il
pericolo alla salute pubblica, pena la sospensione
dell’attività degli impianti.
In particolare, ha esposto che il menzionato provvedimento
era stato adottato a seguito di una comunicazione del
competente Procuratore della Repubblica, nonché della
relazione dei periti nominati dal G.I.P. nell’ambito
dell’indagine condotta nei confronti dei responsabili dello
stabilimento, dalla quale erano emersi "elementi conoscitivi
tali da destare particolare allarme".
Su tale presupposto, nelle more della predisposizione degli
strumenti ordinari a opera delle altre Autorità, attesa la
sussistenza di "condizioni di eccezionale e urgente
necessità di tutela della salute pubblica e dell’ambiente",
il Sindaco ha emanato la contestata ordinanza, richiamando
l’art. 217 T.U.L.S., l’art. 50 T.U.E.L. e l’art. 117, D.Lgs.
n. 112/1998.
Per siffatte ragioni, la ricorrente ha contestato la
legittimità dell’ordinanza sindacale, all’uopo eccependo la
violazione delle menzionate disposizioni di legge, nonché
degli artt. 3 e 7, L. n. 241/1990.
Il Collegio di Lecce, in via preliminare, ha evidenziato che
la questione a esso demandata verte sulla legittimità
dell’ordinanza contingibile e urgente, con cui il Sindaco ha
fatto ricorso al potere "extra ordinem" per fronteggiare con
immediatezza la situazione di pericolo determinata dalla
mancata osservanza, nello stabilimento siderurgico, di
"tutte le misure idonee a evitare la dispersione
incontrollata di fumi e polveri nocive alla salute di
lavoratori e di terzi".
Orbene, il giudicante, al fine di stabilire se, nella
vicenda, fosse stato correttamente esercitato il potere
straordinario, ha riepilogato i fatti che hanno connotato la
notoria vicenda dello stabilimento ricorrente.
In primis, ha rammentato che il Ministero dell’Ambiente
nell’anno 2011 aveva rilasciato l’autorizzazione ambientale
integrata per l’esercizio dello stabilimento siderurgico,
all’esito di un complesso procedimento, nel corso del quale
si era svolta un’approfondita istruttoria da parte della
Commissione AIA-IPPC di cui all’art. 10, D.P.R. 14.05.2007, n. 90.
Nella successiva Conferenza di servizi i rappresentanti del
Ministero, della Regione, degli Enti locali interessati e
dell’A.R.P.A. avevano espresso parere favorevole al rilascio
dell’autorizzazione ambientale integrata.
La ricorrente, tuttavia, in sede giurisdizionale (in altro
giudizio) aveva censurato una serie di prescrizioni dettate
dall’AIA, tra cui l’installazione di sistemi di abbattimento
dedicati alle emissioni di macro e microinquinanti dai
camini.
Sicché, era stato disposto il complessivo riesame da parte
dell’AIA al fine di adeguare il provvedimento alle
''conclusioni sulle BAT'' relative al settore siderurgico di
cui alla decisione della Commissione Europea 2012/135/UE..
Tanto precisato in punto di fatto, l’adito G.A. ha
considerato insussistenti i presupposti per l’intervento
dell’autorità comunale, a mezzo dello strumento
dell’ordinanza contingibile e urgente.
Al riguardo, infatti, ha rilevato che, in linea di
principio, le predette ordinanze appartengono al novero
degli atti necessitati e costituiscono il rimedio,
approntato dall’ordinamento, per far fronte a situazioni di
emergenza e urgenza impreviste, espressione di un potere
"extra ordinem", derogatorio e dal contenuto libero, con il
solo rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico.
Per siffatta ragione, ha ritenuto che, nella vicenda,
l’ordinanza sindacale non possedeva gli indefettibili
presupposti per la sua emanazione, non essendo la medesima
diretta a fronteggiare un’emergenza sanitaria, ma piuttosto
a imporre l’esecuzione di obblighi derivanti dalle
prescrizioni contenute nell’autorizzazione integrata
ambientale.
A non differente conclusione è pervenuto anche in relazione
alle misure imposte nel provvedimento impugnato, riguardanti
l’obbligo di adottare sistemi di campionamento delle
emissioni, di contenimento dello scarico delle polveri e di
minimizzazione delle emissioni fuggitive, oltre che di
limitazione della produzione effettiva.
Sul punto, non a caso, ha osservato che le suddette
precauzioni erano ulteriori rispetto alle previsioni
contenute nell’autorizzazione integrata ambientale e non
apparivano finalizzate a fronteggiare nell’immediato
un’emergenza sanitaria, bensì a prevenire danni derivanti
dall’esercizio dello stabilimento in violazione delle norme
vigenti e di quelle di futura applicazione contenute nella
Direttiva 2010/75/UE.
Senza del resto tralasciare la circostanza per cui dal
complesso degli atti posti a fondamento dell’ordinanza
impugnata, l’autorità procedente non aveva desunto
l’accertamento della violazione delle prescrizioni imposte
dall’AIA, ma piuttosto la necessità dell’adozione di
ulteriori cautele, la cui competenza sarebbe spettata ad
altre autorità.
Inoltre, ha rilevato l’assenza di un ulteriore elemento
tipico che deve sorreggere l’ordinanza contingibile e
urgente, non palesandosi l’insorgenza improvvisa di una
situazione di danno alla salute della collettività.
Alla luce di tali considerazioni, il Tribunale
amministrativo di Lecce, non ravvisando la ricorrenza dei
presupposti ex lege previsti per l’adozione di un’ordinanza
contingibile e urgente, ha accolto il ricorso con
conseguente annullamento dell’impugnato provvedimento
sindacale (commento tratto da www.ispoa.it - TAR Puglia-Lecce, Sez.
I,
sentenza 19.09.2012 n. 1550 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI
PROGETTUALI: Cosa
accade se la parcella del tecnico “lievita” rispetto al
preventivo?
In seguito all’abolizione delle tariffe professionali il
compenso per le prestazioni va pattuito al momento del
conferimento dell'incarico, con un preventivo di massima
basato esclusivamente sulla contrattazione tra
professionista e committente.
Il professionista deve rendere noto al cliente il grado di
complessità dell'incarico, fornendo tutte le informazioni
utili circa la complessità dell’incarico e gli oneri
ipotizzabili, dal momento del conferimento fino alla
conclusione dell'incarico.
A tal riguardo si esprime la II Sez. civile della Corte di Cassazione che, con la
sentenza 18.09.2012 n. 15628,
respinge il ricorso presentato da un professionista che
aveva richiesto un compenso più alto rispetto a quello
pattuito inizialmente con il cliente, avendo svolto
ulteriori e più costose prestazioni rispetto a quelle
concordate.
La Cassazione stabilisce che il compenso non può essere
ritoccato; in caso di incremento delle prestazioni il
professionista è tenuto ad informare tempestivamente il
cliente, altrimenti si potrebbe configurare un comportamento
non corretto da parte del tecnico
(commento tratto da www.acca.it). |
LAVORI PUBBLICI: In
tema di revoca della procedura di project financing
l’indennizzo può essere riconosciuto solo allorquando si
tratti di rapporti destinati a persistere nel tempo, il che
non ricorre nella presente fattispecie, mancando il
necessario presupposto dell’intervento di un’aggiudicazione
definitiva: infatti, la circostanza che la procedura sia
stata revocata prima del sorgere del vincolo
sull’affidamento della concessione –coincidente con la
conclusione della procedura negoziata per la scelta del
concessionario e non con la semplice individuazione della
proposta di pubblico interesse da porre a base di gara–
impedisce che possa venire ad esistenza il diritto
all’indennizzo in difetto di una situazione giuridica
stabile e consolidata a cui possa ricollegarsi.
L’obbligo di indennizzo dei pregiudizi arrecati ai soggetti
interessati in conseguenza della revoca di atti
amministrativi sussiste esclusivamente in caso di revoca di
provvedimenti definitivi e non anche in caso di revoca di
atti ad effetti instabili e interinali, quali
l’aggiudicazione provvisoria o l’indizione di una procedura
di gara.
- in secondo luogo, ed in via assorbente, in tema di
revoca della procedura di project financing l’indennizzo può
essere riconosciuto solo allorquando si tratti di rapporti
destinati a persistere nel tempo, il che non ricorre nella
presente fattispecie, mancando il necessario presupposto
dell’intervento di un’aggiudicazione definitiva: infatti, la
circostanza che la procedura sia stata revocata prima del
sorgere del vincolo sull’affidamento della concessione –coincidente con la conclusione della procedura negoziata per
la scelta del concessionario e non con la semplice
individuazione della proposta di pubblico interesse da porre
a base di gara– impedisce che possa venire ad esistenza il
diritto all’indennizzo in difetto di una situazione
giuridica stabile e consolidata a cui possa ricollegarsi
(cfr. TAR Campania Napoli, Sez. I, 18.03.2011 n. 1500;
nello stesso senso TAR Lazio Latina, Sez. I, 24.03.2011
n. 286);
- in termini più generali ed in adesione ad un indirizzo
giurisprudenziale ormai consolidato, l’obbligo di indennizzo
dei pregiudizi arrecati ai soggetti interessati in
conseguenza della revoca di atti amministrativi sussiste
esclusivamente in caso di revoca di provvedimenti definitivi
e non anche in caso di revoca di atti ad effetti instabili e
interinali, quali l’aggiudicazione provvisoria o l’indizione
di una procedura di gara (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 05.04.2012 n. 2007; Consiglio di Stato, Sez. VI, 17.03.2010 n. 1554)
(TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 18.09.2012 n. 3888 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Consigli comunali da convocare con anticipo ampio.
L'iter. Le regole per le
raccomandate
IL RICEVIMENTO/
Secondo Palazzo Spada fa fede la data della ricezione
dell'avviso e non quella della sua spedizione.
La notifica dell'avviso di convocazione del Consiglio
comunale a mezzo raccomandata si perfeziona per il
consigliere comunale destinatario non con la spedizione
della raccomandata informativa ma con il ricevimento della
stessa, in base all'articolo 140 del codice di procedura
civile.
Con la
sentenza 14.09.2012 n. 4892 il Consiglio di Stato,
Sez. V, intervenendo sulle notifiche degli avvisi
di convocazione del Consiglio comunale ha ritenuto
applicabili, ove si ricorra allo strumento della
raccomandata in base all'articolo 140 del codice di
procedura civile, i principi garantisti sanciti dalla
sentenza della Corte costituzionale 14.01.2010, n. 3.
Questa sentenza aveva dichiarato dichiarato l'illegittimità
costituzionale dell'articolo 140 nella parte in cui
prevedeva che la notifica si perfeziona per il destinatario
con la spedizione della raccomandata informativa, anziché
con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci
giorni dalla spedizione.
Dopo aver effettuato un excursus sulla funzione dell'avviso
di convocazione (strumento fondamentale per assicurare il
regolare funzionamento del consiglio comunale) il Consiglio
di stato si sofferma sulla incidenza dei principi della
pronuncia della Consulta sul procedimento di convocazione
del Consiglio comunale.
Per i giudici questi principi devono estendersi anche al
procedimento di convocazione del consiglio comunale
(nonostante non abbia carattere giurisidizionale) laddove si
usi il mezzo della raccomandata in quanto non è sufficiente
che l'avviso di convocazione sia solo regolarmente inviato
al consigliere comunale, ma è necessario che lo stesso lo
abbia effettivamente ricevuto e che tra il momento della
ricezione e quello della seduta consiliare intercorra un
ragionevole lasso temporale affinché il mandato consiliare
possa essere effettivamente svolto in modo serio, completo e
consapevole. Non vi è del resto, ad avviso della Sezione,
alcun argomento, logico o sistematico, per restringere il
campo di applicabilità di tale pronuncia, che mira a
salvaguardare la posizione di un soggetto destinatario di
una notificazione per consentirne l'effettivo esercizio dei
diritti/doveri riconosciutigli dalla legge, ai soli
procedimenti giurisdizionali: anche per quanto riguardo il
corretto e regolare funzionamento degli organi
rappresentativi delle comunità locali vengono in rilievo
peculiari principi costituzionali, quali, oltre quello
generale di legalità, di cui all'articolo 97 della
Costituzione, l'effettivo riconoscimento delle autonomie
locali, di cui agli articoli 5 e 114, comma 2, oltre a
quello dell'effettiva rappresentanza politica.
Le conseguenze di una convocazione irregolare sono
particolarmente gravi: l'irregolarità (trattandosi di
violazione dello ius ad officium del consigliere)
travolge le delibere adottate mentre eventuali comportamenti
ostruzionistici possono rilevare soltanto sul piano etico o
politico, ma non certo sotto quello strettamente giuridico (articolo Il
Sole 24 Ore del 24.09.2012). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: Deve
negarsi che i consiglieri comunali, in quanto tali, possano
essere considerati controinteressati, atteso che nel
processo amministrativo sono notoriamente legittimi e
necessari contraddittori solo i soggetti originariamente
contemplati nel provvedimento amministrativo impugnato
ovvero che siano facilmente identificabili come soggetti cui
l’atto specificamente si riferisce e abbiano la titolarità
di una posizione qualificata alla conservazione dello
stesso.
I consiglieri comunali non sono soggetti contemplati nel
provvedimento amministrativo, concorrendo essi, con la loro
manifestazione di volontà, a formare la volontà dell’ente di
cui fanno invece parte, inteso nella sua unitarietà e nella
sua significazione pubblica: essi sono pertanto legittimati
a ricorrere (e di conseguenza anche a contraddire) solo
nell’ipotesi di violazione del loro jus ad officium.
Conseguentemente essi non hanno (neppure) un interesse
protetto e differenziato all’impugnazione delle
deliberazioni dell’ente del quale fanno parte, salvo il caso
in cui venga lesa in modo diretto ed immediato la propria
sfera giuridica per effetto di atti direttamente incidenti
sul diritto all’ufficio o sullo status ad essi spettante,
che compromettano il corretto esercizio del loro mandato
(come nel caso di erronee modalità di convocazione
dell’organo, violazione dell’ordine del giorno, inosservanza
del termine della documentazione necessaria per poter
consapevolmente deliberare, etc.): del resto il giudizio
amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra
organi o componenti di organo di uno stesso ente, ma è
diretto a risolvere controversie intersoggettive.
Sotto altro profilo deve poi negarsi che i consiglieri
comunali, in quanto tali, possano essere considerati
controinteressati, atteso che nel processo amministrativo
sono notoriamente legittimi e necessari contraddittori solo
i soggetti originariamente contemplati nel provvedimento
amministrativo impugnato ovvero che siano facilmente
identificabili come soggetti cui l’atto specificamente si
riferisce e abbiano la titolarità di una posizione
qualificata alla conservazione dello stesso.
I consiglieri comunali non sono soggetti contemplati nel
provvedimento amministrativo, concorrendo essi, con la loro
manifestazione di volontà, a formare la volontà dell’ente di
cui fanno invece parte, inteso nella sua unitarietà e nella
sua significazione pubblica: essi sono pertanto legittimati
a ricorrere (e di conseguenza anche a contraddire) solo
nell’ipotesi di violazione del loro jus ad officium
(tra le più recenti, C.d.S., sez. V, 21.03.2012, n. 1610;
29.04.2010, n. 2457; sez. IV, 26.01.2012, n. 351,
16.10.2007, n. 5396).
Conseguentemente (C.d.S., sez. V, 24.03.2011, n. 1771) essi
non hanno (neppure) un interesse protetto e differenziato
all’impugnazione delle deliberazioni dell’ente del quale
fanno parte, salvo il caso in cui venga lesa in modo diretto
ed immediato la propria sfera giuridica per effetto di atti
direttamente incidenti sul diritto all’ufficio o sullo
status ad essi spettante, che compromettano il corretto
esercizio del loro mandato (come nel caso di erronee
modalità di convocazione dell’organo, violazione dell’ordine
del giorno, inosservanza del termine della documentazione
necessaria per poter consapevolmente deliberare, etc.): del
resto il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle
controversie tra organi o componenti di organo di uno stesso
ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive
(C.d.S., sez. VI, 19.05.2010, n. 3130; sez. V, 15.12.2005,
n. 7122; 23.05.1994, n. 437).
Il ricorso introduttivo del presente giudizio non doveva
pertanto essere notificato agli altri consiglieri comunali,
avendo l’interessato denunciato esclusivamente la violazione
del proprio jus ad officium per non essere stato
asseritamente posto in condizione di partecipare alla
riunione dell’organo consiliare, fattispecie rispetto alla
quale non è ipotizzabile l’esistenza di un interesse
protetto e qualificato (oltre che diretto e contrario) degli
altri consiglieri alla conservazione delle delibere così
invalidamente assunte (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 14.09.2012 n. 4892
- link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Riscossione, la gara può richiedere un fatturato elevato.
Consiglio di Stato. Restrizione
ammessa.
IL DISTINGUO È SULL'AGGIO/
I ricavi da fornire in base ai bandi non riguardano la
movimentazione di tutte le somme gestite ma solo il compenso
per l'attività.
È legittimo il bando di gara per l'affidamento del servizio
di accertamento e riscossione dei tributi locali che impone
alle società partecipanti di aver realizzato un fatturato
consistente.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato -Sez. V- con la
sentenza 14.09.2012 n. 4889, evidenziando in primo
luogo che il fatturato non riguarda la movimentazione
globale delle somme gestite, ma solo il compenso percepito
per l'attività (aggio).
Sarebbe quindi opportuno utilizzare nei bandi di gara il
termine «volume d'affari», riferito alle somme incassate
come compenso per il proprio servizio.
I giudici amministrativi hanno inoltre affermato che il
requisito richiesto dal bando di gara -aver realizzato un
volume d'affari di 40 milioni di euro nel triennio- non è
eccessivamente elevato in quanto il gestore del servizio è
tenuto ad anticipare annualmente 38 milioni di euro come
minimo garantito. Viene così confermato l'orientamento
favorevole all'introduzione nei bandi di gara di requisiti
più rigorosi di quelli richiesti per legge (iscrizione
all'albo ministeriale).
La questione delle clausole restrittive è sempre stata
piuttosto controversa in giurisprudenza. Inizialmente alcune
pronunce (tra cui Tar Lecce 2499/04 e Tar Milano 2676/04)
hanno escluso la possibilità di richiedere, per la
partecipazione alle gare, il possesso di requisiti ulteriori
rispetto all'iscrizione all'albo, tra cui l'espletamento di
analoghi servizi in comuni di pari dimensioni e il volume
minimo d'affari nell'ultimo triennio.
Si è poi sviluppato un orientamento favorevole alla
richiesta di requisiti aggiuntivi (Tar Bologna 100/2004, Tar
Puglia, sezione Bari 995/2005, Tar L'Aquila 454/2005),
confermato dal Consiglio di Stato con diverse pronunce
(5318/2005, 7247/2009, 3809/2011) ed ora anche con questa
sentenza. Alcuni Tar sono comunque rimasti fermi sulle loro
posizioni.
In particolare il Tar Lombardia, sezione di
Milano, con la sentenza 7590/2010, ha annullato un bando di
gara che imponeva alle società partecipanti di aver gestito
negli ultimi cinque anni servizi identici a quelli posti in
gara e in almeno tre comuni da 30mila fino a 100mila
abitanti, ritenendo irrilevanti -al fine di assicurare
l'idoneità tecnica dei partecipanti- le dimensioni dei
comuni precedentemente gestiti. Allo stesso modo il Tar
Puglia, sezione di Lecce, ha ritenuto illegittimo un bando
che richiedeva la pregressa esperienza in almeno due comuni
sopra i 90mila abitanti (sentenza 677/2010), ovvero in
almeno tre comuni da 30mila a 100mila abitanti (decisione
499/2011).
Ora deve tuttavia prevalere la linea possibilista del
Consiglio di Stato. Ma con alcune condizioni. Si deve
trattare di clausole non arbitrarie o sproporzionate
rispetto all'oggetto e al valore del contratto, tali cioè da
non restringere -oltre lo stretto indispensabile- la platea
dei concorrenti (articolo Il
Sole 24 Ore del 24.09.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Diniego autorizzazione impianto
di compostaggio e riciclaggio rifiuti inerti non pericolosi.
Non è necessario che gli impianti di smaltimento o di
recupero rifiuti debbano essere allocati esclusivamente in
zone a vocazione industriale, ma è altrettanto vero che, non
per questo, la localizzazione dell'insediamento può essere
del tutto indifferente, prescindendo dalla considerazione e
comparazione degli interessi in gioco.
In altri termini, la
sola circostanza che l'area di insediamento abbia una
determinata destinazione urbanistica non è di per sé
circostanza ostativa e non è valida giustificazione per il
diniego di approvazione del progetto, in quanto l'
approvazione costituisce un'ipotesi di variante automatica
alla disciplina urbanistico-territoriale dell'area
interessata.
Ma non per questo in sede di autorizzazione si
può prescindere dalla considerazione delle esigenze di
carattere (anche) urbanistico-territoriale e degli interessi
comunque legati alla localizzazione dell'impianto, in quanto
rilevanti (tratto da www.lexambiente.it -
TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 12.09.2012 n. 7725 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Opere preordinate alla lottizzazione
abusiva.
L’individuazione della lottizzazione abusiva presuppone
l’accertamento di una serie di elementi, comprese indagini
complesse che impongono la necessaria partecipazione dei
soggetti interessati al relativo procedimento (ex art. 7
della l. 241/1990), per cui deve essere consentita ad essi
la proposizione delle rispettive osservazioni e deduzioni,
anche se al provvedimento di cui all’art. 18 della l. n.
47/1985 deve comunque riconoscersi una indubbia natura
vincolata.
L’ipotesi di lottizzazione abusiva è contestabile solamente
quando sussistono elementi precisi ed univoci da cui possa
ricavarsi oggettivamente l’intento di asservire
all'edificazione un’area non urbanizzata. Ai fini
dell’accertamento di cui all’art. 18 della l. n. 47/1985 non
è sufficiente il mero riscontro del frazionamento di un
terreno collegato a plurime vendite, ma sussiste anche la
necessità di acquisire un sufficiente quadro indiziario dal
quale sia possibile desumere in maniera non equivoca la
destinazione a scopo edificatorio degli atti posti in essere
dalle parti (tratto da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 10.09.2012 n. 4795 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gare, quando la cauzione provvisoria può diventare una
sanzione.
In caso di esclusione dalla gara per mancata dimostrazione
del possesso dei requisiti di capacità, l'incameramento
della cauzione provvisoria costituisce una conseguenza
sanzionatoria automatica.
Il Consiglio di Stato ha affermato che nel caso di
esclusione dalla gara d'appalto per mancata dimostrazione
del possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria
e tecnico-organizzativa indicati nel bando, l'incameramento
della cauzione provvisoria prevista ai sensi dell'art. 48
D.L.vo 12.04.2006 n. 163 deve intendersi come
conseguenza sanzionatoria del tutto automatica, in quanto
tale non suscettibile di alcuna valutazione discrezionale
con riguardo ai singoli casi concreti e in particolare alle
ragioni meramente formali ovvero sostanziali che
l'Amministrazione ha ritenuto di porre a giustificazione
dell'esclusione medesima.
Quindi, ai fini dell'applicazione di detta sanzione - è
determinante e dunque assorbente l'esito finale
(dell'esclusione) e non la sottostante ragione concreta che
in particolare sia stata posta a suo fondamento. Infatti, il
citato articolo 48 prevede che, quando le dichiarazioni
contenute nella domanda di partecipazione o nell’offerta
circa il possesso dei requisiti di capacità non siano state
comprovate dalla documentazione all’uopo presentata, e per
ciò stesso, “le stazioni appaltanti procedono all’esclusione
del concorrente dalla gara, alla escussione della relativa
cauzione provvisoria e alla segnalazione del fatto
all’Autorità”.
Con il che si rende sufficientemente chiaro che le dette
misure discendenti dall’esclusione si rivelano strettamente
vincolate e consequenziali alla verifica dell’omissione
probatoria di cui si tratta, e prive di qualsivoglia
contenuto discrezionale.
Inoltre, sempre in tema di cauzione provvisoria, in sede di
gara d'appalto, l'incameramento è possibile non solo per la
mancata stipula del contratto, ma anche per dichiarazioni
comunque non veritiere poiché la detta cauzione si profila
come garanzia del rispetto dell'ampio patto d'integrità cui
si vincola chi partecipa alla procedura.
Nel caso di specie, nella propria offerta la ricorrente
aveva dichiarato di possedere il requisito di capacità
tecnica costituito dall’aver effettuato servizi simili, nel
periodo 01.08.2007–31.07.2010, per almeno euro 600.000 oltre
IVA, compilando l’elenco nel quale si sostanziava il
paragrafo A) della propria scheda di rilevazione dei
requisiti, mediante l’indicazione di due specifici
contratti.
Rispetto a questi ultimi aveva quindi contestualmente
fornito, come prescritto, la descrizione del servizio
prestato, specificando l’importo contrattuale eseguito nel
periodo in rilievo, la tempistica di esecuzione del
contratto e la relativa controparte. Successivamente è
emerso, tuttavia, che i servizi così indicati nel paragrafo
A) della scheda non erano stati prestati dalla stessa
ricorrente, ma solo da una sua controllata)
(commento tratto da www.ispoa.it - Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 10.09.2012 n. 4778 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Concorsi e prove orali, tempus (non) fugit?
Le procedure selettive indette per il reclutamento del
personale pubblico devono garantire la parità di trattamento
tra i candidati, anche per quanto concerne la durata della
prova orale, che deve essere la medesima per tutti i
partecipanti. In mancanza, l'amministrazione procedente
rischia l'annullamento della gara, mentre al candidato
sfavorito dovrà essere concessa una nuova chance.
E’ quanto sembrerebbe emergere dall’ordinanza
08.09.2012 n. 513, emessa dal TAR Piemonte, Sez.
.
Nel caso di specie è stata indetta una selezione per il
reclutamento, nell’ambito dell’amministrazione scolastica
periferica, di alcuni dirigenti scolastici dei ruoli
regionali.
Per ottenere il posto, i candidati dovevano superare alcune
prove scritte e un successivo colloquio della durata di “30/35
minuti”.
Tutti i partecipanti che hanno superato le prove scritte
hanno potuto godere del termine poc’anzi citato previsto per
la prova orale.
Tutti, tranne uno. Per quest’ultimo, infatti, il colloquio è
durato soli 25 minuti (ben dieci minuti in meno rispetto a
quelli previsti), peraltro con esito negativo, anche se si
poco (il punteggio conseguito è stato di 18/30).
Ritenutosi leso, il candidato ha deciso di adire il giudice
amministrativo al fine di ottenere la declaratoria di
annullamento della graduatoria pubblicata stilata dalla
stessa amministrazione procedente e di tutti gli atti
riconducibili alla stessa, con contestuale istanza di
sospensione in via cautelare.
Tra le varie censure, la difesa del ricorrente ha paventato
l’illegittimità della procedura, asserendo come
l’abbreviazione dei termini previsti per la prova orale
avesse violato la parità di trattamento a garanzia dei
candidati come anche il principio di buona amministrazione,
principio cui avrebbe dovuto ispirarsi la commissione
d’esame al fine di pronunciarsi correttamente sull’effettiva
preparazione dei partecipanti alla selezione.
Alla luce di tali argomenti è stato chiesto al giudice
amministrativo di ripetere la prova orale, questa volta
osservando i giusti termini.
La domanda cautelare del ricorrente è stata accolta dal
tribunale amministrativo piemontese il quale, con
l’ordinanza in epigrafe, ha sospeso i provvedimenti
impugnati disponendo parallelamente la ripetizione del
colloquio per il candidato.
Sebbene la pronuncia abbia carattere precario, stante la
possibilità, per lo stesso tribunale, di rideterminare in
senso contrario il suo pronunciamento, deve sottolinearsi il
suo carattere innovativo concernente un aspetto (quello
della durata prevista per l’espletamento della prova orale
ai concorsi pubblici) che in passato non ha trovato
particolare interesse nella giurisprudenza amministrativa,
poiché ritenuto agganciato all’orbita della discrezionalità
delle commissioni, come tale insindacabile in sede di
legittimità (commento tratto da www.ipsoa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Nel caso di opere interne abusive con "cambio di
destinazione d'uso" ciò che rileva ai fini del rilascio del
condono edilizio di cui art. 32, comma 25, d.l. 30.09.2003
n. 269, conv. l. 24.11.2003 n. 326, è che sia intervenuto il
completamento funzionale entro i termini di legge,
intendendosi con tale espressione una situazione per cui le
opere, pur non perfette nelle finiture, possano dirsi
individuabili nei loro elementi strutturali e con
caratteristiche necessarie e sufficienti ad assolvere la
funzione cui sono destinate; cioè, l'immobile deve risultare
già fornito di opere indispensabili a rendere effettivamente
possibile un uso diverso da quello asserito, in modo tale da
risultare "incompatibile con l'originaria destinazione.
Infatti, ai fini dell’applicabilità della normativa in
materia di condono edilizio, in caso di mutamento della
destinazione d’uso, la locuzione “ultimazione” riferita alle
opere abusive va intesa in senso funzionale, con riguardo
cioè al momento in cui l’immobile ha acquisito
caratteristiche oggettivamente e univocamente idonee alla
nuova destinazione, anche se i lavori non risultino
completati con gli interventi di finitura.
Sul piano prettamente
giuridico, si osserva, in accordo con quanto affermato dalla
giurisprudenza, che «nel caso di opere interne abusive
con "cambio di destinazione d'uso" ciò che rileva ai fini
del rilascio del condono edilizio di cui art. 32, comma 25,
d.l. 30.09.2003 n. 269, conv. l. 24.11.2003 n. 326, è che
sia intervenuto il completamento funzionale entro i termini
di legge, intendendosi con tale espressione una situazione
per cui le opere, pur non perfette nelle finiture, possano
dirsi individuabili nei loro elementi strutturali e con
caratteristiche necessarie e sufficienti ad assolvere la
funzione cui sono destinate; cioè, l'immobile deve risultare
già fornito di opere indispensabili a rendere effettivamente
possibile un uso diverso da quello asserito, in modo tale da
risultare "incompatibile con l'originaria destinazione»
(cfr. TAR Pescara Abruzzo sez. I 22.10.2007, n. 837, TAR
Lazio, Roma sez. I, 01.12.2005, n. 12734).
Infatti, «ai fini dell’applicabilità della normativa in
materia di condono edilizio, in caso di mutamento della
destinazione d’uso, la locuzione “ultimazione” riferita alle
opere abusive va intesa in senso funzionale, con riguardo
cioè al momento in cui l’immobile ha acquisito
caratteristiche oggettivamente e univocamente idonee alla
nuova destinazione, anche se i lavori non risultino
completati con gli interventi di finitura» (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 26.01.2009, n. 393; Id., sez. V, 23.05.2005,
n. 2578)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 07.09.2012 n. 3804 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La giurisprudenza ha messo in luce la specialità
del procedimento di condono edilizio rispetto all’ordinario
procedimento di rilascio della concessione edilizia, nonché
l’assenza di una specifica previsione della necessaria
acquisizione del parere della Commissione Edilizia
Integrata.
Pertanto l’acquisizione di tale parere ai fini del rilascio
del condono non è obbligatoria, bensì facoltativa, mentre il
parere dell’autorità preposta alla gestione del vincolo
paesaggistico non è necessario laddove l’amministrazione
ravvisi, come nella fattispecie, la sussistenza di ulteriori
ragioni ostative al rilascio della concessione in sanatoria
non connesse alla valutazione di compatibilità dell’abuso
con il vincolo paesaggistico.
Deve essere disatteso anche il
secondo motivo relativo alla omessa acquisizione del parere
della Commissione Edilizia Integrata e della Soprintendenza.
La giurisprudenza ha, infatti, messo in luce la specialità
del procedimento di condono edilizio rispetto all’ordinario
procedimento di rilascio della concessione edilizia, nonché
l’assenza di una specifica previsione della necessaria
acquisizione del parere della Commissione Edilizia
Integrata.
Pertanto l’acquisizione di tale parere ai fini del rilascio
del condono non è obbligatoria, bensì facoltativa, mentre il
parere dell’autorità preposta alla gestione del vincolo
paesaggistico non è necessario laddove l’amministrazione
ravvisi, come nella fattispecie, la sussistenza di ulteriori
ragioni ostative al rilascio della concessione in sanatoria
non connesse alla valutazione di compatibilità dell’abuso
con il vincolo paesaggistico (cfr. TAR, Campania, Napoli,
sez. VII, 14.01.2011, n. 164)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 07.09.2012 n. 3804 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La L. n. 47, all’art. 31, comma 2, stabilisce che
"si intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato
eseguito il rustico e completata la copertura”.
A sua volta la definizione di "rustico" non può prescindere,
secondo la costante giurisprudenza ordinaria ed
amministrativa, dall’intervenuto completamento di tutte le
strutture essenziali, tra le quali anche le "tamponature
esterne".
Tale interpretazione –come ha evidenziato la Corte
costituzionale nella sentenza 27.02. 2009 n. 54- è
rafforzata dalla circolare del Ministero delle
infrastrutture e dei trasporti 07.12.2005 n. 2699, che
riconosce, sulla base della giurisprudenza in materia, "che
l’esecuzione del rustico implica la tamponatura
dell’edificio stesso, con conseguente non sanabilità di
quelle opere ove manchino in tutto o in parte i muri di
tamponamento".
Invero, la giurisprudenza ha rilevato che:
- l'esecuzione del c.d. rustico è riferita al completamento
di tutte le strutture essenziali, tra le quali vanno
annoverate le tamponature esterne, che determinano
l'isolamento dell''immobile dalle intemperie e configurano
l'opera nella sua fondamentale volumetria;
- la mancanza di tamponature esterne e la presenza di
semplici tavole sovrapposte finalizzate a proteggere
l''immobile da incursioni estranee non determina il
completamento della copertura.
---------------
Non costituisce fattore ostativo la nozione di completamento
funzionale dell’immobile, requisito che viene in rilievo per
l’ipotesi di condono con mutamento di destinazione di uso
dell’immobile; in contrario, per gli abusi a carattere
residenziale deve farsi riferimento solo alla nozione di
completamento al rustico di cui all’art. 31 legge 47/1985;
la giurisprudenza sul punto ha avuto modo di precisare che
la nozione di ultimazione delle opere, cui occorre far
riferimento ai fini dell’applicabilità della disciplina sul
condono edilizio, coincide con l’esecuzione del rustico [da
intendersi come muratura priva di rifinitura e da non
confondere con lo scheletro, le pareti esterne non potendo
considerarsi mere rifiniture] .
A tal riguardo anche la Suprema Corte ritiene che: ”La
disposizione (di favore) di cui all’art. 31, c. 2, della L.
n. 47 del 1985, che non può trovare applicazione al di fuori
del limitato ambito di operatività assegnatole dal
legislatore con riferimento al condono, è stata interpretata
dalla giurisprudenza nel senso che la realizzazione al
rustico del manufatto comporta che la copertura deve essere
completata e i muri perimetrali debbono essere tamponati.
Non costituisce completamento della costruzione al rustico
la semplice realizzazione delle strutture portanti in
cemento armato, senza le tamponature laterali“.
---------------
Per ottenere il condono edilizio in caso di mutamento di
destinazione d'uso di un fabbricato è sufficiente (in base
al combinato disposto degli art. 4, comma 1, e 18, comma 1 e
5, l. 28.01.1977 n. 10 e dell'art. 31, comma 2, l.
28.02.1985 n. 47) che quest'ultimo venga funzionalmente
completato entro il 01.10.1983, ossia che entro tale data,
pur se le attività costruttive siano ancora in corso, il
fabbricato sia comunque già fornito delle opere
indispensabili a renderne effettivamente possibile un uso
diverso da quello a suo tempo assentito...cioè di opere del
tutto incompatibili con l'originaria destinazione d'uso, e
ciò per l'evidente ragione di non incorrere nell'eventuale
disparità di trattamento, che potrebbe scaturire tra le
ipotesi di nuova costruzione totalmente abusiva -per la cui
sanabilità bastano l'esecuzione del rustico ed il
completamento della copertura- e i casi di opere interne con
mutamento di destinazione d'uso, per le quali è appunto
sufficiente il completamento funzionale”.
Inoltre: “per il condono dell'abusivo mutamento della
destinazione d'uso di un immobile è sufficiente che, ai
sensi dell'art. 31 comma 2 l. 28.02.1985 n. 47, lo stesso
sia stato "completato funzionalmente" entro il termine del
01.10.1983, vale a dire che entro tale data (anche se le
attività costruttive siano ancora in corso) l'immobile deve
essere comunque già fornito delle opere indispensabili a
rendere effettivamente possibile un uso diverso da quello
assentito".
Invero, sotto un profilo per così dire “sostanziale”, va
rilevato che il condono edilizio del 2003 (il D.L. 30.09.2003, art. 32, comma 25, convertito nella L. 24.11.2003, n. 326), rinvia alla L. 28.02.1985, n.
47.
In particolare, la L. n. 47, all’art. 31, comma 2,
stabilisce che "si intendono ultimati gli edifici nei quali
sia stato eseguito il rustico e completata la copertura”.
A sua volta la definizione di "rustico" non può prescindere,
secondo la costante giurisprudenza ordinaria ed
amministrativa, dall’intervenuto completamento di tutte le
strutture essenziali, tra le quali anche le "tamponature
esterne".
Tale interpretazione –come ha evidenziato la Corte
costituzionale nella sentenza 27.02. 2009 n. 54- è
rafforzata dalla circolare del Ministero delle
infrastrutture e dei trasporti 07.12.2005 n. 2699, che
riconosce, sulla base della giurisprudenza in materia, "che
l’esecuzione del rustico implica la tamponatura
dell’edificio stesso, con conseguente non sanabilità di
quelle opere ove manchino in tutto o in parte i muri di
tamponamento".
Invero, la giurisprudenza ha rilevato che:
- l'esecuzione del c.d. rustico è riferita al completamento
di tutte le strutture essenziali, tra le quali vanno
annoverate le tamponature esterne, che determinano
l'isolamento dell''immobile dalle intemperie e configurano
l'opera nella sua fondamentale volumetria (cfr. TAR
Salerno, sez. II, 13.10.2006 n. 1745);
- la mancanza di tamponature esterne e la presenza di
semplici tavole sovrapposte finalizzate a proteggere
l''immobile da incursioni estranee non determina il
completamento della copertura (cfr. Cassazione penale, sez. III,
02.12.2008 n. 8064).
Venendo a fare applicazione dei suddetti principi alla
fattispecie all’esame, deve rilevarsi che la documentazione
esistente in atti (cfr. verbali di sequestro del 23.08.2002) comprova che le opere eseguite dalla ricorrente, e di
cui viene chiesto il condono, risultano completate al
rustico, in quanto a tale data l’opera viene così descritta:
”Manufatto di circa 160 mq racchiuso perimetralmente con
blocchi in laterizi e presenta copertura con lamiere
coibentate coperto da pilastrini in ferro impostati a circa
mt. 3 dal calpestio. Internamente si presenta parzialmente
tramezzato ....”.
Ciò integra la definizione dell’ingombro volumetrico del
fabbricato idonea a consentire la ammissibilità della
domanda di condono.
Diversamente da quanto sostenuto dal Comune, non costituisce
fattore ostativo la nozione di completamento funzionale
dell’immobile, requisito che viene in rilievo per l’ipotesi
di condono con mutamento di destinazione di uso
dell’immobile; in contrario, per gli abusi a carattere
residenziale deve farsi riferimento solo alla nozione di
completamento al rustico di cui all’art. 31 legge 47/1985;
la giurisprudenza sul punto ha avuto modo di precisare che
la nozione di ultimazione delle opere, cui occorre far
riferimento ai fini dell’applicabilità della disciplina sul
condono edilizio, coincide con l’esecuzione del rustico [da
intendersi come muratura priva di rifinitura (Cass. pen.,
sez. III, 02.12.1998, n. 10082) e da non confondere con
lo scheletro, le pareti esterne non potendo considerarsi
mere rifiniture (C.d.S., sez. IV, 12.03.2009, n. 1474)] .
A tal riguardo anche la Suprema Corte (cfr. Cassazione
penale sez. III - 18.07.2011, n. 28233)
ritiene che: ”La disposizione (di favore) di cui all’art.
31, c. 2, della L. n. 47 del 1985, che non può trovare
applicazione al di fuori del limitato ambito di operatività
assegnatole dal legislatore con riferimento al condono, è
stata interpretata dalla giurisprudenza nel senso che la
realizzazione al rustico del manufatto comporta che la
copertura deve essere completata e i muri perimetrali
debbono essere tamponati. Non costituisce completamento
della costruzione al rustico la semplice realizzazione delle
strutture portanti in cemento armato, senza le tamponature
laterali“ (Sez. 3 n. 5452, 17.03.1999).
Poiché, conclusivamente, nella specie, le tomponature
laterali erano tutte realizzate alla data dell’agosto 2002,
è ininfluente il mancato completamento cd. funzionale
dell’immobile, ossia il fatto che al luglio 2003 le opere
non fossero concretamente utilizzabili per l’uso cui sono
state destinate, come contestato dal Comune con riferimento
ai lavori in corso per le rifiniture interne.
Tale diverso requisito attiene invero alla possibilità di
condono per i mutamenti di destinazione di uso, come
ritenuto dalla concorde giurisprudenza amministrativa: “per
ottenere il condono edilizio in caso di mutamento di
destinazione d'uso di un fabbricato è sufficiente (in base
al combinato disposto degli art. 4, comma 1, e 18, comma 1 e 5,
l. 28.01.1977 n. 10 e dell'art. 31, comma 2, l. 28.02.1985 n. 47) che quest'ultimo venga funzionalmente
completato entro il 01.10.1983, ossia che entro tale
data, pur se le attività costruttive siano ancora in corso,
il fabbricato sia comunque già fornito delle opere
indispensabili a renderne effettivamente possibile un uso
diverso da quello a suo tempo assentito...cioè di opere del
tutto incompatibili con l'originaria destinazione d'uso, e
ciò per l'evidente ragione di non incorrere nell'eventuale
disparità di trattamento, che potrebbe scaturire tra le
ipotesi di nuova costruzione totalmente abusiva -per la cui
sanabilità bastano l'esecuzione del rustico ed il
completamento della copertura- e i casi di opere interne
con mutamento di destinazione d'uso, per le quali è appunto
sufficiente il completamento funzionale” (V, 14.07.1995,
n. 1071);
ed inoltre: “per il condono dell'abusivo mutamento della
destinazione d'uso di un immobile è sufficiente che, ai
sensi dell'art. 31 comma 2 l. 28.02.1985 n. 47, lo
stesso sia stato "completato funzionalmente" entro il
termine del 01.10.1983, vale a dire che entro tale data
(anche se le attività costruttive siano ancora in corso)
l'immobile deve essere comunque già fornito delle opere
indispensabili a rendere effettivamente possibile un uso
diverso da quello assentito” (V, 16.12.1994, n. 1514).
Ne discende, quindi, che entro il termine stabilito dalla
legge, anche se le attività edilizie siano ancora in corso,
l’immobile deve essere già fornito degli elementi
indispensabili a rendere effettivamente possibile un uso
diverso da quello assentito –in modo tale da risultare
incompatibile con l’originaria destinazione (cfr. TAR
Abruzzo Pescara, 22.10.2007 n. 837)– pur se non siano stati
ancora realizzati gli impianti e le rifiniture di carattere
complementare ed accessorio (cfr. TAR Veneto, sez. II,
28.05.2008 n. 1631).
Tuttavia la fattispecie in esame non integra una richiesta
di condono per cambio di destinazione, ma un abuso
consistente in sopraelevazione su immobile residenziale ,
per il quale va applicato il criterio indicato dalla prima
parte dell’ art. 31, comma 2, della legge n. 47/1985 -richiamato dall'art. 39 della legge n. 724/1994-, il quale
stabilisce che, ai fini dell'applicazione delle regole sul
condono , «si intendono ultimati gli edifici nei quali sia
stato eseguito il rustico e completata la copertura, ovvero,
quanto alle opere interne agli edifici già esistenti e a
quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state
completate funzionalmente».
Il criterio del "completamento funzionale" anticipa la data
di ultimazione delle opere ai fini dell'ammissione al
condono, per cui un intervento non ancora completato può
tuttavia essere giudicato sanabile dal punto di vista
funzionale se la costruzione è idonea alle funzioni cui
l'opera è destinata (cfr. Consiglio di Stato, sez. V –
21.06.2007 n. 3315). Tuttavia ciò non si configura nel caso
di specie, in cui già alla data dell’agosto 2002, esisteva
il rustico con definizione dell’ingombro volumetrico.
Né assume valore ostativo la sentenza penale della VII
sezione penale del Tribunale di Napoli in data 20.06.2008 che
ha condannato gli odierni ricorrenti per il reato di
costruzione abusiva , ordinando la demolizione del manufatto
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 07.09.2012 n. 3803 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
preesistenza della domanda di sanatoria rende illegittima la
successiva irrogazione della sanzione demolitoria, per non
essersi l'Amministrazione comunale preventivamente
pronunciata sulla domanda stessa, volta, in caso di suo
accoglimento, a privare le opere del loro carattere di
abusività, ovvero, in caso di suo rigetto, a consentire
nuovamente l’esercizio del potere repressivo.
---------------
L’ordine di demolizione adottato in pendenza di istanza di
condono edilizio è illegittimo perché in contrasto con
l’art. 38 della legge n. 47 del 1985 (richiamato dall’art.
32, comma 25, del decreto-legge n. 269 del 2003), il cui
disposto impone all’Amministrazione di astenersi, sino alla
definizione del procedimento attivato per il rilascio della
concessione in sanatoria, da ogni iniziativa repressiva che
vanificherebbe a priori il rilascio del titolo abilitativo
in sanatoria.
Pertanto, l’amministrazione ha l’obbligo di pronunciarsi
sulla condonabilità o meno dell’opera edilizia abusiva,
anche perché il provvedimento di demolizione non può
costituire implicito rigetto della domanda di condono,
stante l’art. 35 comma 15, delle legge n. 47 del 1985 che
impone la notificazione espressa del diniego al richiedente.
Considerato in diritto che:
A] per giurisprudenza pressoché costante, la preesistenza
della domanda di sanatoria rende illegittima la successiva
irrogazione della sanzione demolitoria, per non essersi
l'Amministrazione comunale preventivamente pronunciata sulla
domanda stessa, volta, in caso di suo accoglimento, a
privare le opere del loro carattere di abusività, ovvero, in
caso di suo rigetto, a consentire nuovamente l’esercizio del
potere repressivo [cfr., ex multis, TAR Campania Napoli,
sez. VII, 30.05.2012, n. 2574].
B) a ciò si aggiunga che, secondo la giurisprudenza di
questa sezione, l’ordine di demolizione adottato in pendenza
di istanza di condono edilizio è illegittimo perché in
contrasto con l’art. 38 della legge n. 47 del 1985
(richiamato dall’art. 32, comma 25, del decreto-legge n. 269
del 2003), il cui disposto impone all’Amministrazione di
astenersi, sino alla definizione del procedimento attivato
per il rilascio della concessione in sanatoria, da ogni
iniziativa repressiva che vanificherebbe a priori il
rilascio del titolo abilitativo in sanatoria.
Pertanto,
l’amministrazione ha l’obbligo di pronunciarsi sulla condonabilità o meno dell’opera edilizia abusiva, anche
perché il provvedimento di demolizione non può costituire
implicito rigetto della domanda di condono, stante l’art. 35
comma 15, delle legge n. 47 del 1985 che impone la
notificazione espressa del diniego al richiedente [così
TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.07.2011, n. 36459]
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 07.09.2012 n. 3802 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Ai pericoli pensa
l'amministratore.
Risponde per la mancata messa in sicurezza di aree comuni.
La Cassazione: non può addurre a sua
difesa di non aver avuto l'autorizzazione dall'assemblea.
È dovere dell'amministratore di condominio impegnarsi per
tutelare i diritti inerenti le parti comuni. Anche senza
autorizzazione diretta dei condomini. E quindi, risponde
penalmente l'amministratore che non si sia attivato per
eliminare una sconnessione presente sul marciapiede di
un'area condominiale che abbia poi causato la caduta di un
passante. È proprio in casi del genere che l'amministratore
non può difendersi eccependo di non essere stato autorizzato
dall'assemblea.
Lo ha chiarito la IV Sez. penale della Corte di
Cassazione nella sentenza 06.09.2012 n. 34147.
Il caso concreto. Un'anziana signora era caduta
rovinosamente a terra a causa dell'avvallamento venutosi a
creare tra il pavimento e il tombino per la raccolta delle
acque reflue condominiali posto sul marciapiede che dava
accesso all'edificio. La donna si era quindi procurata una
frattura giudicata guaribile in un tempo superiore ai 40
giorni.
Per l'accaduto era stato quindi avviato un
procedimento penale nei confronti dell'amministratore
condominiale, giudicato responsabile per non essersi
prontamente attivato per evitare il rischio di incidenti
dovuti all'avvallamento e lo stesso era stato condannato
alla pena della multa e al risarcimento dei danni sofferti
dall'anziana signora, costituitasi parte civile, liquidati
in 5.000,00 euro. L'amministratore aveva quindi impugnato la
sentenza direttamente in Cassazione, ritenendo di non avere
alcuna responsabilità nel caso in questione.
La decisione della Suprema corte. L'amministratore
condominiale sosteneva che nella specie la sua condotta non
fosse penalmente rilevante, difettando nell'ordinamento una
norma che lo obbligasse ad attivarsi in casi del genere. In
altre parole, l'amministratore contestava di non avere mai
avuto alcun incarico dall'assemblea di provvedere alla
sistemazione della predetta area né di aver mai ricevuto
alcuna segnalazione, da parte dei condomini o di terzi,
relativamente alla situazione di pericolo che si era venuta
a creare sul marciapiede in questione.
Quest'ultimo,
inoltre, lamentava il fatto che, secondo l'ordinamento
vigente, all'amministratore condominiale sia possibile porre
in essere lavori di manutenzione straordinaria soltanto ove
connotati dal requisito dell'assoluta urgenza, tanto più che
detto dislivello era del tutto visibile e, quindi, non
poteva essere qualificato come insidia o trabocchetto.
Di tutt'altro avviso si è mostrata però la quarta sezione
penale della Corte di cassazione, che ha integralmente
confermato la sentenza di condanna. I giudici di legittimità
hanno infatti configurato un'ipotesi di responsabilità
omissiva colposa in carico all'amministratore condominiale,
che riveste per legge una specifica posizione di garanzia
rispetto ai pregiudizi che possono derivare ai condomini e
ai terzi dalle parti comuni. Secondo la Suprema corte detto
obbligo di intervenire per evitare situazioni di pericolo
prescinde assolutamente da qualsiasi preventiva
autorizzazione da parte dell'assemblea condominiale, così
come da qualsiasi preliminare segnalazione proveniente dai
condomini, dalla pubblica amministrazione o dai terzi.
Inoltre, sempre secondo la Cassazione, dall'ultimo comma
dell'art. 1135 del codice civile si ricava la conclusione
che l'amministratore ha facoltà di provvedere alle opere di
manutenzione straordinaria che rivestano carattere urgente,
dovendo in seguito informarne l'assemblea. Per i giudici di
legittimità è indubitabile il fatto che l'eliminazione di
un'insidia o di un trabocchetto esistente su una parte
comune rientri nel novero degli interventi urgenti, con
conseguente sanzione dell'eventuale condotta omissiva
dell'amministratore.
---------------
Tra obblighi e doveri, gli interventi di riparazione urgenti.
L'amministratore di condominio non solo ha il compito di
affrontare le spese attinenti alla manutenzione ordinaria e
alla conservazione delle parti e servizi comuni
dell'edificio, ma anche il potere-dovere di ordinare lavori
di manutenzione straordinaria che rivestano carattere
urgente, con l'obbligo di riferirne nella prima assemblea
dei condomini.
Quindi, nell'adempiere agli obblighi sanciti dalla legge in
materia di manutenzione straordinaria, l'amministratore non
deve attendere la deliberazione dell'assemblea, trattandosi
di atti urgenti e che lo espongono direttamente, e
personalmente, a responsabilità penale. In ogni caso non
rileva l'ignoranza dello stato di pericolo in cui si trova
il caseggiato, né una preventiva diffida, con specifica
previsione di un termine perentorio entro cui provvedere
alla manutenzione dell'immobile pericolante, da parte della
pubblica autorità: l'obbligo di mettere mano all'esecuzione
dei lavori necessari a rimuovere il pericolo per
l'incolumità dei condomini o dei terzi sorge infatti
indipendentemente da qualsiasi provvedimento della pubblica
amministrazione.
La responsabilità penale dell'amministratore: casi pratici.
Alla luce di quanto sopra si può affermare che, in linea
generale, ogni evento dannoso conseguente a un mancato
tempestivo intervento di riparazione è ascrivibile
all'amministratore, il quale può addirittura incorrere in
responsabilità penale. Nella predetta sentenza n. 34147
dello scorso 06.09.2012 della Suprema corte, come
detto, l'amministratore condominiale è stato ritenuto
responsabile per le gravi lesioni subite da un'anziana donna
che è inciampata rovinando a terra causata a causa di
avvallamenti e sconnessioni della pavimentazione in
prossimità di un tombino: è certo infatti che l'eliminazione
di un'insidia o trabocchetto derivante dal mancato
livellamento della pavimentazione rappresenti intervento di
ordine urgente a carico dell'amministratore.
In un altro
caso deciso dalla giurisprudenza un amministratore è stato
invece chiamato a rispondere penalmente per le lesioni
causate a un passante dalla caduta di una tegola da un tetto
in stato di cattiva manutenzione. Allo stesso modo
l'amministratore può essere ritenuto responsabile (per
violazione dell'obbligo giuridico di vigilanza) per le
conseguenze di un incendio riconducibile a un difetto di
installazione di una canna fumaria di proprietà di un terzo
estraneo al condominio che attraversi parti comuni
dell'edificio. Infine, è certamente responsabile se ignora
il contenuto di un'ordinanza del sindaco che gli imponga
l'esecuzione di urgenti riparazioni dell'immobile, stante il
pericolo di crollo di alcune parti comuni.
I limiti della responsabilità penale dell'amministratore. È
importante precisare che la responsabilità
dell'amministratore per omissione di lavori deve essere
accertata in concreto. Ad esempio qualora vi sia un mancato
stanziamento dei fondi necessari per porre rimedio al
degrado che dà luogo al pericolo, per parte della
giurisprudenza non potrebbe ipotizzarsi alcuna
responsabilità dell'amministratore per non avere attuato
interventi in quanto, in tale situazione, la responsabilità
è di ciascun singolo condomino. Quindi l'amministratore non
potrà considerarsi colpevole se, nonostante il costante
interessamento per la soluzione del problema verificatosi
nello stabile, ci sia una inerzia dell'organo assembleare
che non abbia dotato l'amministratore di fondi necessari per
la copertura finanziaria dei lavori urgenti utili alla
eliminazione del pericolo.
Del resto, poiché la responsabilità penale sorge allorché
dall'omissione dei lavori derivi un concreto pericolo per
l'incolumità delle persone, è sufficiente per
l'amministratore, al fine di andare esente da
responsabilità, intervenire sugli effetti anziché sulla
causa della rovina, ovverosia prevenire la specifica
situazione di pericolo interdicendo, ove ciò sia possibile,
l'accesso o il transito nelle zone pericolanti (ad esempio
facendo mettere una recinzione nella zona in cui si è
verificata la caduta di calcinacci).
In ogni caso il rifiuto dell'assemblea condominiale di
deliberare lavori urgenti, pur in presenza di un obbligo di
legge o di un provvedimento dell'autorità, legittima
l'amministratore, in forza dei poteri di legge, a denunciare
la decisione assembleare alternativamente alla pubblica
amministrazione o all'autorità giudiziaria che, con il loro
potere, possono porre in atto ogni rimedio affinché non vi
siano danni e la situazione non possa procurare ulteriori e
più gravi conseguenze.
Infine, merita di essere ricordato che la giurisprudenza ha
escluso la responsabilità dell'amministratore in relazione
all'inottemperanza a un provvedimento del sindaco che gli
imponga di effettuare lavori per l'eliminazione di
infiltrazioni di acqua nell'appartamento di un solo
condomino: tali provvedimenti infatti son invalidi, in
quanto relativi alla proprietà esclusiva (articolo
ItaliaOggi Sette del 24.09.2012). |
APPALTI: Gare, informativa prefettizia sempre ok.
Nelle gara pubbliche l'informativa Prefettizia è una tipica
misura cautelare di Polizia, preventiva e interdittiva, che
si aggiunge alle misure di prevenzione antimafia di natura
giurisprudenziale. Non occorre, quindi, la prova di fatti di
reato e dell'effettiva infiltrazione mafiosa nell'impresa,
né la prova del reale condizionamento delle scelte
dell'impresa.
Per i giudici del Consiglio di Stato
l'informativa prefettizia non viola la Costituzione, né la
normativa antimafia e la legge sul procedimento
amministrativo.
La vicenda
Una ditta era ricorsa contro la Prefettura sostenendo una
serie di censure nei suoi confronti riguardanti la
violazione dell’art. 24 della Costituzione, la violazione
della normativa in tema di informazioni antimafia e della
legge sul procedimento amministrativo, nonché l’eccesso di
potere sotto svariati profili; la ditta impugnava
l’informativa prefettizia interdittiva del 13.09.2010, emessa a suo carico in occasione dell’aggiudicazione
di una gara e relativo affidamento dei lavori di
sistemazione e ripristino della funzionalità di una strada
rurale appartenente ad un ente locale.
Il tribunale amministrativo aveva ritenuto il ricorso della
ditta non fondato poiché la presenza di fatti obiettivi era
tale da giustificare l’informativa prefettizia.
La difesa in Cassazione
La difesa della SRL in secondo grado, che l’ha vista
soccombere, si basava sul fatto che non sussisteva alcuna
circostanza di fatto oggettivamente sintomatica del pericolo
concreto di condizionamento mafioso essendosi la
amministrazione, attestata su un piano astratto ed ipotetico
e che comunque, rispetto al quadro indiziario tenuto
presente dal primo giudice all’atto della pronunzia, vi
sarebbero stati successivi sviluppi che porterebbero a
delineare un quadro di ancor minore consistenza e anzi di
affievolimento delle ipotesi indiziarie della Prefettura.
L’analisi della Cassazione
La Corte di Cassazione osserva che i tratti caratterizzanti
dell’istituto dell’informativa prefettizia, di cui agli artt. 4
del D.Lgs. n. 490/1994 e 10 del DPR n. 252/1998, si spiegano
nella logica di una anticipazione della soglia di difesa
sociale ai fini di una tutela avanzata nel campo del
contrasto della criminalità organizzata, in modo da
prescindere da soglie di rilevanza probatorie tipiche del
diritto penale, per cercare di cogliere l’affidabilità
dell’impresa affidataria dei lavori.
Di conseguenza le cautele antimafia non rispondono a
finalità di accertamento di responsabilità, bensì di massima
anticipazione dell’azione di prevenzione rispetto alla quale
sono per legge rilevanti fatti e vicende anche solo
sintomatici ed indiziari, al di là dell’individuazione di
responsabilità penali.
La giurisprudenza ha più volte evidenziato che si tratta di
una tipica misura cautelare di polizia, preventiva e
interdittiva, che si aggiunge alle misure di prevenzione
antimafia di natura giurisdizionale e che prescinde
dall’accertamento in sede penale di uno o più reati connessi
all’associazione di tipo mafioso; non occorre quindi la
prova di fatti di reato e dell’effettiva infiltrazione
mafiosa nell’impresa, né la prova del reale condizionamento
delle scelte dell’impresa da parte di associazioni o
soggetti mafiosi, essendo sufficiente il tentativo o il
rischio di infiltrazione, l’influenza o il condizionamento
latente, la possibilità di condizionare le scelte
dell’impresa.
In particolare, con riferimento agli elementi di fatto
idonei a sorreggere l’impianto probatorio delle informative
prefettizie, la giurisprudenza ha rilevato che in tali
ipotesi il Prefetto, anziché limitarsi a riscontrare la
sussistenza di specifici elementi (come avviene per gli
accertamenti eseguiti ai sensi dell’art. 10, comma 7,
lettere a) e b), del DPR n. 252/1998), deve effettuare la
propria valutazione sulla scorta di uno specifico quadro
indiziario, ove assumono rilievo prevalente i fattori
induttivi della non manifesta infondatezza che i
comportamenti e le scelte dell’imprenditore possano
rappresentare un veicolo di infiltrazione delle
organizzazioni criminali nelle funzioni della pubblica
amministrazione; pertanto, si può ravvisare l’emergenza di
tentativi di infiltrazione mafiosa in fatti in sé e per sé
privi dell’assoluta certezza quali una condanna non
irrevocabile, l’irrogazione di misure cautelari,
collegamenti parentali, cointeressenze societarie e/o
frequentazioni con soggetti malavitosi, dichiarazioni di
pentiti, ma che, nel loro insieme, siano tali da fondare un
giudizio di possibilità che l’attività d’impresa possa,
anche in maniera indiretta, agevolare le attività criminali
o esserne in qualche modo condizionata per vicinanza, nei
centri decisionali, di soggetti legati ad organizzazioni
mafiose.
Per i giudici di legittimità le valutazioni della Prefettura
risultano sostenute da un quadro indiziario sufficiente che
non trae forza da semplici sospetti o congetture, ma risulta
influenzato in via cautelativa dalla esigenza di
anticipazione della soglia di difesa sociale e, quindi,
prescinde dalla rilevanza probatoria tipica del diritto
penale.
Per le motivazioni suesposte la Corte di Cassazione ritiene,
pertanto, che il ricorso della SRL è infondato (commento tratto da www.ispoa.it - Consiglio di Stato,
Sez. III,
sentenza
05.09.2012 n. 4709 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: L’amministrazione
non è tenuta a comunicare i propri atti secondo le regole
specificamente previste per la notificazione degli atti
giudiziari e, quindi, non deve necessariamente indirizzare i
propri atti, prioritariamente, nel luogo di residenza del
destinatario.
Invero, ove non sia possibile la comunicazione diretta in
mani del destinatario dell'avviso di avvio del procedimento,
l'Amministrazione può avvalersi del servizio postale e non
deve necessariamente osservare il sistema di notificazione
degli atti giudiziari a mezzo di ufficiale giudiziario. Il
recapito del plico a mezzo lettera raccomandata avviene con
consegna diretta al destinatario o alle persone abilitate a
riceverlo in suo luogo, indicate dall'art. 38 comma 2, del
regolamento di esecuzione del Codice Postale approvato con
d.P.R. 29.05.1982 n. 655. Il successivo art. 40, comma 4,
prevede che sia dato avviso di giacenza tutte le volte in
cui non sia stata possibile la distribuzione con consegna al
destinatario. In tale seconda ipotesi, si presume la
conoscenza alla data di rilascio dell' avviso di giacenza
presso l'ufficio postale.
Si realizza, quindi, un sistema che, sia nei casi di
consegna diretta, sia a mezzo del succedaneo avviso di
giacenza in caso di mancato diretto recapito per assenza del
destinatario, è idoneo a rendere edotto l'interessato che,
in ogni caso, versa in condizione, ove si allontani dallo
stabile luogo di residenza, di approntare strumenti minimi
per essere informato o per verificare l'esistenza di
comunicazioni a lui indirizzate.
In tal senso, è quindi possibile per l’amministrazione
effettuare le comunicazioni dei propri atti nel luogo di
domicilio del destinatario o, comunque, in altro luogo la
cui indicazione risulti fornita all’amministrazione
direttamente dallo stesso destinatario. Infatti, in base al
disposto di cui all'art. 1335 c.c., applicabile in materia
di comunicazioni di atti recettizi anche al di fuori
dell'ambito contrattuale, ove il documento non venga
consegnato al destinatario personalmente, la presunzione di
conoscenza può aversi solo quando la consegna sia avvenuta
presso il domicilio del destinatario, tranne che costui non
provi di essere stato, senza sua colpa, nella impossibilità
di averne notizia. E per indirizzo, al fine della
presunzione di conoscenza dell'atto che vi perviene, deve
considerarsi il luogo che per il collegamento ordinario,
quale la dimora o il domicilio, o per normale
frequentazione, come posto di esplicazione dell'attività
lavorativa, o per preventiva indicazione, risulti in
concreto nella sfera di dominio e controllo del destinatario
dell'atto.
--------------
Quanto alle ulteriori formalità e con specifico riguardo
alla comunicazione a mezzo posta, va richiamata la L.
20.11.1982 n. 890 (che disciplina le <<Notificazioni di atti
a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con
la notificazione di atti giudiziari>>), che all’art. 8, così
dispone per il caso in cui l'agente postale non possa
recapitare la comunicazione “per temporanea assenza del
destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle
persone sopra menzionate”; ebbene, in siffatte evenienze:
“il piego è depositato lo stesso giorno presso l'ufficio
postale preposto alla consegna o presso una sua dipendenza.
Del tentativo di notifica del piego e del suo deposito
presso l'ufficio postale o una sua dipendenza è data notizia
al destinatario, a cura dell'agente postale preposto alla
consegna, mediante avviso in busta chiusa a mezzo lettera
raccomandata con avviso di ricevimento che, in caso di
assenza del destinatario, deve essere affisso alla porta
d'ingresso oppure immesso nella cassetta della
corrispondenza dell'abitazione, dell'ufficio o
dell'azienda”.
Lo stesso articolo precisa, poi, al comma IV che: “La
notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla
data di spedizione della lettera raccomandata di cui al
secondo comma ovvero dalla data del ritiro del piego, se
anteriore”; aggiungendo, infine, all’ultimo comma, che:
“Qualora la data delle eseguite formalità manchi sull'avviso
di ricevimento o sia, comunque, incerta, la notificazione si
ha per eseguita alla data risultante dal bollo di spedizione
dell'avviso stesso”.
Al riguardo, giova considerare che l’amministrazione non è
tenuta a comunicare i propri atti secondo le regole
specificamente previste per la notificazione degli atti
giudiziari e, quindi, non deve necessariamente indirizzare i
propri atti, prioritariamente, nel luogo di residenza del
destinatario (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 09.03.2011, n.
1468, ove si chiarisce che: "Ove non sia possibile la
comunicazione diretta in mani del destinatario dell'avviso
di avvio del procedimento, l'Amministrazione può avvalersi
del servizio postale e non deve necessariamente osservare il
sistema di notificazione degli atti giudiziari a mezzo di
ufficiale giudiziario. Il recapito del plico a mezzo lettera
raccomandata avviene con consegna diretta al destinatario o
alle persone abilitate a riceverlo in suo luogo, indicate
dall'art. 38 comma 2, del regolamento di esecuzione del
Codice Postale approvato con d.P.R. 29.05.1982 n. 655. Il
successivo art. 40, comma 4, prevede che sia dato avviso di
giacenza tutte le volte in cui non sia stata possibile la
distribuzione con consegna al destinatario. In tale seconda
ipotesi, si presume la conoscenza alla data di rilascio
dell' avviso di giacenza presso l'ufficio postale. Si
realizza, quindi, un sistema che, sia nei casi di consegna
diretta, sia a mezzo del succedaneo avviso di giacenza in
caso di mancato diretto recapito per assenza del
destinatario, è idoneo a rendere edotto l'interessato che,
in ogni caso, versa in condizione, ove si allontani dallo
stabile luogo di residenza, di approntare strumenti minimi
per essere informato o per verificare l'esistenza di
comunicazioni a lui indirizzate"; analogamente cfr.
Cons. Stato Sez., V, 25.01.2005, nonché la giurisprudenza
richiamata nella memoria di parte resistente del
14.05.2012).
In tal senso, è quindi possibile per l’amministrazione
effettuare le comunicazioni dei propri atti nel luogo di
domicilio del destinatario o, comunque, in altro luogo la
cui indicazione risulti fornita all’amministrazione
direttamente dallo stesso destinatario (Cfr. Cassazione
civile, Sent. n. 10564 del 24-10-1998, secondo cui: “in
base al disposto di cui all'art. 1335 c.c., applicabile in
materia di comunicazioni di atti recettizi anche al di fuori
dell'ambito contrattuale, ove il documento non venga
consegnato al destinatario personalmente, la presunzione di
conoscenza può aversi solo quando la consegna sia avvenuta
presso il domicilio del destinatario, tranne che costui non
provi di essere stato, senza sua colpa, nella impossibilità
di averne notizia. E per indirizzo, al fine della
presunzione di conoscenza dell'atto che vi perviene, deve
considerarsi il luogo che per il collegamento ordinario,
quale la dimora o il domicilio, o per normale
frequentazione, come posto di esplicazione dell'attività
lavorativa, o per preventiva indicazione, risulti in
concreto nella sfera di dominio e controllo del destinatario
dell'atto”).
Quanto alle ulteriori formalità e con specifico riguardo,
per quel che qui rileva, alla comunicazione a mezzo posta,
va richiamata la L. 20-11-1982 n. 890 (che disciplina le <<Notificazioni
di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta
connesse con la notificazione di atti giudiziari>>), che
all’art. 8, così dispone per il caso in cui l'agente postale
non possa recapitare la comunicazione “per temporanea
assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o
assenza delle persone sopra menzionate”; ebbene, in
siffatte evenienze: “il piego è depositato lo stesso
giorno presso l'ufficio postale preposto alla consegna o
presso una sua dipendenza. Del tentativo di notifica del
piego e del suo deposito presso l'ufficio postale o una sua
dipendenza è data notizia al destinatario, a cura
dell'agente postale preposto alla consegna, mediante avviso
in busta chiusa a mezzo lettera raccomandata con avviso di
ricevimento che, in caso di assenza del destinatario, deve
essere affisso alla porta d'ingresso oppure immesso nella
cassetta della corrispondenza dell'abitazione, dell'ufficio
o dell'azienda”.
Lo stesso articolo precisa, poi, al comma IV che: “La
notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla
data di spedizione della lettera raccomandata di cui al
secondo comma ovvero dalla data del ritiro del piego, se
anteriore”; aggiungendo, infine, all’ultimo comma, che:
“Qualora la data delle eseguite formalità manchi sull'avviso
di ricevimento o sia, comunque, incerta, la notificazione si
ha per eseguita alla data risultante dal bollo di spedizione
dell'avviso stesso”
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.09.2012 n. 2239 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Diniego concessione edilizia relativa ad
allargamento di un cancello.
E’ legittimo
il diniego di concessione edilizia per l’allargamento di un
cancello d’accesso e la consequenziale ordinanza sindacale
di demolizione emessa in caso accertato ampliamento del
passo carraio mediante demolizione di un pilastro del
muretto di confine e il suo spostamento.
In sede di rilascio
del titolo abilitativo edilizio sussiste l’obbligo per il
comune di verificare il rispetto da parte dell’istante dei
limiti privatistici, a condizione che tali limiti siano
effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili e/o
non contestati, di modo che il controllo da parte dell’ente
locale si traduca in una semplice presa d’atto dei limiti
medesimi senza necessità di procedere ad un’accurata e
approfondita disanima dei rapporti civilistici.
Se, dunque,
l’amministrazione normalmente non è tenuta a svolgere
indagini particolari in presenza di una richiesta
edificatoria, al contrario, qualora uno o più controinteressati (siano essi comproprietari o, confinanti)
si attivino per denunciare il proprio dissenso rispetto al
rilascio del titolo edificatorio, il comune dovrà verificare
se, a base dell’istanza edificatoria, sia riconoscibile
l’effettiva sussistenza della disponibilità del bene oggetto
dell’intervento edificatorio, la legittimazione attiva
all’ottenimento della concessione edilizia al proprietario
dell’area o a chi abbia il titolo per richiederla, ai sensi
dell’art. 11 del d.P.R. 380/2001 (tratto da
www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.09.2012 n. 4676 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Requisiti necessari per la voltura di
concessioni in zona agricola.
Per la edificazione in zona agricola il titolo abilitativo
viene concesso ad un soggetto non esclusivamente in quanto
titolare di un diritto di proprietà, ma in ragione del
possesso da parte sua di una delle necessarie qualifiche,
perché la caratterizzazione di imprenditore agricolo viene
ritenuta l'unica garanzia della prescritta destinazione
delle opere all'agricoltura (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.08.2012 n. 33381 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Una piscina di mq. 45 ha dimensioni comunque tali
da assumere un proprio, autonomo valore di mercato,
incidente sul pregio dell’immobile, sicché ne è esclusa la
qualificazione in termini di pertinenza.
---------------
Un gazebo di dimensioni non trascurabili (m. 2,45 per 2,45
con altezza di m. 2,55), per quanto non stabilmente infisso
al suolo, tuttavia viene a soddisfare un’esigenza di
carattere non precario.
Il ricorrente, proprietario di area sita in via Boccapiana n.
14 del Comune di Palestrina, impugna l’ordine di demolizione
n. 84 del 2006, avente ad oggetto le seguenti opere eseguite
senza permesso di costruire: a) ampliamento di fabbricato A
già oggetto di concessione in sanatoria per mq 68 al piano
terra e mq 105 al primo piano; b) tamponatura di fabbricato
F destinato a tettoia e trasformato in deposito; c)
realizzazione di un gazebo in legno e di una piscina di mq
45.
Il Tribunale premette che tutti questi interventi sono stati
esattamente ritenuti soggetti a permesso di costruire da
parte dell’amministrazione, con riferimento anche alla
piscina prefabbricata ed al gazebo il legno, per i quali il
ricorrente ritiene, invece, fosse necessaria la sola DIA.
Quanto alla piscina, infatti, essa ha dimensioni (mq 45)
comunque tali da assumere un proprio, autonomo valore di
mercato, incidente sul pregio dell’immobile, sicché, sulla
base della costante giurisprudenza di questo Tribunale, ne è
esclusa la qualificazione in termini di pertinenza.
Quanto al gazebo, si è in presenza anche in tal caso di una
nuova costruzione, di dimensioni non trascurabili (m. 2,45
per 2,45 con altezza di m. 2,55), che, per quanto non
stabilmente infissa al suolo, tuttavia viene a soddisfare
un’esigenza di carattere non precario del ricorrente.
È perciò infondato il secondo motivo di ricorso, con cui si
è sostenuto che gazebo e piscina fossero soggetti a DIA.
Ciò premesso, va rilevato che erroneamente il ricorrente
ritiene che l’atto impugnato si basi sull’art. 34 del d.P.R.
n. 380 del 2001, atteso che non si vede, né viene indicato
dal ricorrente stesso, quale permesso di costruire sarebbe
stato eseguito in parziale difformità: si è invece in
presenza di una nuova attività abusiva, eseguita in parte su
immobili già oggetto di sanatoria (fabbricato A e B), in
parte no (gazebo e piscina).
Con riferimento a queste ultime opere, una volta acquisita
la necessità del permesso di costruire, segue la legittimità
dell’ordine di demolizione ai sensi dell’art. 31 del d.P.R.
n. 380 del 2001, espressamente indicato dall’atto impugnato
quale base normativa del provvedimento.
Con riguardo agli interventi eseguiti sui fabbricati
preesistenti, quand’anche essi dovessero valutarsi alla luce
dell’art. 33 del d.P.R. n. 380 del 2001, anziché dell’art.
31 (ma su questo profilo il ricorrente non ha svolto alcuna
censura), in ogni caso, per costante giurisprudenza di
questo Tribunale, l’eventuale impossibilità di ripristino
dello stato originario non ha alcuna incidenza sulla
legittimità dell’ordine di demolizione, poiché si tratta di
circostanza rilevabile dall’amministrazione nella fase
esecutiva: è quindi infondato il primo motivo di ricorso,
con cui si lamenta che l’amministrazione non avrebbe potuto
ordinare la demolizione delle opere, senza motivare
previamente su di un simile profilo.
È infine infondato il terzo motivo: a fronte di un abuso
edilizio, l’attività repressiva della pubblica
amministrazione è vincolata dalla legge nell’an e nel
quomodo, sicché è incongruo evocare in tali casi il
principio di proporzionalità; né la circostanza che l’area
del ricorrente sia già gravemente compromessa
dall’abusivismo e rientri nella perimetrazione dei nuclei
abusivi esime dal munirsi nei necessari titoli abilitativi.
Quanto, infine, alla risalenza nel tempo delle opere,
neppure comprovata in fatto, è costante giurisprudenza di
questo Tribunale che si tratti di profilo irrilevante,
poiché il solo affidamento che l’ordinamento protegge è
quello legittimo, e non certo quello derivante da condotte
lesive della legge (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 13.06.2012 n. 5386 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’eventuale impossibilità
di ripristino dello stato originario non ha alcuna incidenza
sulla legittimità dell’ordine di demolizione, poiché si
tratta di circostanza rilevabile dall’amministrazione nella
fase esecutiva: è quindi infondato il primo motivo di
ricorso, con cui si lamenta che l’amministrazione non
avrebbe potuto ordinare la demolizione delle opere, senza
motivare previamente su di un simile profilo.
---------------
A fronte di un abuso edilizio, l’attività repressiva della
pubblica amministrazione è vincolata dalla legge nell’an e
nel quomodo, sicché è incongruo evocare in tali casi il
principio di proporzionalità; né la circostanza che l’area
del ricorrente sia già gravemente compromessa
dall’abusivismo e rientri nella perimetrazione dei nuclei
abusivi esime dal munirsi nei necessari titoli abilitativi.
---------------
Quanto, infine, alla risalenza nel tempo delle opere,
neppure comprovata in fatto, è costante giurisprudenza di
questo Tribunale che si tratti di profilo irrilevante,
poiché il solo affidamento che l’ordinamento protegge è
quello legittimo, e non certo quello derivante da condotte
lesive della legge
Il ricorrente, proprietario di area sita in via B... n.
14 del Comune di Palestrina, impugna l’ordine di demolizione
n. 84 del 2006, avente ad oggetto le seguenti opere eseguite
senza permesso di costruire: a) ampliamento di fabbricato A
già oggetto di concessione in sanatoria per mq 68 al piano
terra e mq 105 al primo piano; b) tamponatura di fabbricato
F destinato a tettoia e trasformato in deposito; c)
realizzazione di un gazebo in legno e di una piscina di mq
45.
Il Tribunale premette che tutti questi interventi sono stati
esattamente ritenuti soggetti a permesso di costruire da
parte dell’amministrazione, con riferimento anche alla
piscina prefabbricata ed al gazebo il legno, per i quali il
ricorrente ritiene, invece, fosse necessaria la sola DIA.
Quanto alla piscina, infatti, essa ha dimensioni (mq 45)
comunque tali da assumere un proprio, autonomo valore di
mercato, incidente sul pregio dell’immobile, sicché, sulla
base della costante giurisprudenza di questo Tribunale, ne è
esclusa la qualificazione in termini di pertinenza.
Quanto al gazebo, si è in presenza anche in tal caso di una
nuova costruzione, di dimensioni non trascurabili (m. 2,45
per 2,45 con altezza di m. 2,55), che, per quanto non
stabilmente infissa al suolo, tuttavia viene a soddisfare
un’esigenza di carattere non precario del ricorrente.
È perciò infondato il secondo motivo di ricorso, con cui si
è sostenuto che gazebo e piscina fossero soggetti a DIA.
Ciò premesso, va rilevato che erroneamente il ricorrente
ritiene che l’atto impugnato si basi sull’art. 34 del d.P.R.
n. 380 del 2001, atteso che non si vede, né viene indicato
dal ricorrente stesso, quale permesso di costruire sarebbe
stato eseguito in parziale difformità: si è invece in
presenza di una nuova attività abusiva, eseguita in parte su
immobili già oggetto di sanatoria (fabbricato A e B), in
parte no (gazebo e piscina).
Con riferimento a queste ultime opere, una volta acquisita
la necessità del permesso di costruire, segue la legittimità
dell’ordine di demolizione ai sensi dell’art. 31 del d.P.R.
n. 380 del 2001, espressamente indicato dall’atto impugnato
quale base normativa del provvedimento.
Con riguardo agli interventi eseguiti sui fabbricati
preesistenti, quand’anche essi dovessero valutarsi alla luce
dell’art. 33 del d.P.R. n. 380 del 2001, anziché dell’art.
31 (ma su questo profilo il ricorrente non ha svolto alcuna
censura), in ogni caso, per costante giurisprudenza di
questo Tribunale, l’eventuale impossibilità di ripristino
dello stato originario non ha alcuna incidenza sulla
legittimità dell’ordine di demolizione, poiché si tratta di
circostanza rilevabile dall’amministrazione nella fase
esecutiva: è quindi infondato il primo motivo di ricorso,
con cui si lamenta che l’amministrazione non avrebbe potuto
ordinare la demolizione delle opere, senza motivare
previamente su di un simile profilo.
È infine infondato il terzo motivo: a fronte di un abuso
edilizio, l’attività repressiva della pubblica
amministrazione è vincolata dalla legge nell’an e nel
quomodo, sicché è incongruo evocare in tali casi il
principio di proporzionalità; né la circostanza che l’area
del ricorrente sia già gravemente compromessa
dall’abusivismo e rientri nella perimetrazione dei nuclei
abusivi esime dal munirsi nei necessari titoli abilitativi.
Quanto, infine, alla risalenza nel tempo delle opere,
neppure comprovata in fatto, è costante giurisprudenza di
questo Tribunale che si tratti di profilo irrilevante,
poiché il solo affidamento che l’ordinamento protegge è
quello legittimo, e non certo quello derivante da condotte
lesive della legge (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 13.06.2012 n. 5386 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’art.
9 della l. n. 122 del 1989 ha per oggetto i soli parcheggi
interamente interrati, mentre, nel caso di specie, la stessa
ricorrente ammette che il proprio è parcheggio solo
semi-interrato: la giurisprudenza si è oramai attestata nel
senso che, al di fuori della eccezionale ipotesi prevista
dalla legge Tognoli, il parcheggio sia soggetto
all’ordinaria disciplina edilizia.
Esso, pertanto, in ragione dell’autonomo valore di mercato
che gli è proprio, non costituisce pertinenza a fini
urbanistici, ed è soggetto a permesso di costruire.
La censura è perciò infondata: a nulla rileva accertare in
causa se l’amministrazione, nel descrivere l’abuso, abbia
omesso di qualificarlo quale parcheggio, poiché anche in
tale ipotesi il manufatto abusivo è soggetto a demolizione.
La ricorrente, proprietaria di area sita
in via Borgo valle Vergine Campagna del Comune di Rocca di
Papa, impugna l’ordine di demolizione n. 88 del 2007, avente
ad oggetto la realizzazione, senza permesso di costruire, di
un parcheggio di m. 7 per 6, con altezza da m 2,60 a m.
3,60.
Con il secondo motivo di ricorso, da esaminarsi in via
prioritaria, viene dedotto che il parcheggio, alla luce
dell’art. 9 della l. n. 122 del 1989, può essere eseguito
con denuncia di inizio attività, sicché, in difetto di essa,
non sarebbe comunque possibile ordinare la demolizione, ma
sarebbe necessario procedere ai sensi dell’art. 37 del
d.P.R. n. 380 del 2001.
Il Tribunale osserva che l’art. 9 della l. n. 122 del 1989,
a tutt’oggi in vigore secondo quanto disposto dall’art. 144,
comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 ha per oggetto i soli
parcheggi interamente interrati, mentre, nel caso di specie,
la stessa ricorrente ammette che il proprio è parcheggio
solo semi-interrato: la giurisprudenza si è oramai attestata
nel senso che, al di fuori della eccezionale ipotesi
prevista dalla legge Tognoli, il parcheggio sia soggetto
all’ordinaria disciplina edilizia (da ultimo, Tar Liguria,
n. 1176 del 2011).
Esso, pertanto, in ragione dell’autonomo valore di mercato
che gli è proprio, non costituisce pertinenza a fini
urbanistici, ed è soggetto a permesso di costruire.
La censura è perciò infondata: a nulla rileva accertare in
causa se l’amministrazione, nel descrivere l’abuso, abbia
omesso di qualificarlo quale parcheggio, poiché anche in
tale ipotesi il manufatto abusivo è soggetto a demolizione
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 13.06.2012 n. 5369 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L'aver
presentato domanda di accertamento di conformità ai sensi
dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 non si riflette
sulla legittimità dell’ordine di demolizione; tanto meno
l’amministrazione è tenuta a valutare in anticipo se l’opera
possa usufruire di sanatoria, oppure no, come la ricorrente
sembra credere, nello sviluppo dell’ultimo motivo di
ricorso.
Infondato è anche il primo motivo di ricorso, con cui si
deduce che la ricorrente ha presentato domanda di
accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 del d.P.R.
n. 380 del 2001: per costante giurisprudenza di questo
Tribunale, tale circostanza non si riflette sulla
legittimità dell’ordine di demolizione; tanto meno
l’amministrazione è tenuta a valutare in anticipo se l’opera
possa usufruire di sanatoria, oppure no, come la ricorrente
sembra credere, nello sviluppo dell’ultimo motivo di ricorso
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 13.06.2012 n. 5369 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'ordine di demolizione, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto
vincolato che non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
Sul presunto difetto di motivazione si osserva che l'ordine di
demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza
di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare (C.d.S., sez. IV, 01.10.2007, n. 5049;
10.12.2007, n. 6344; 31.08.2010, n. 3955; sez. V,
07.09.2009, n. 5229) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 13.06.2012 n. 5365 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il rilascio del titolo abilitativo edilizio in
sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a
vincolo è subordinato al parere favorevole delle
amministrazioni preposte alla tutela del vincolo, il che
rende contra ius la determinazione espressa dalla Regione,
nella misura in cui ritiene non esaminabile l’istanza di
sanatoria rispetto alla quale l’Amministrazione era tenuta a
dar contezza mediante un processo valutativo di
compatibilità dell’opera con il vincolo ex lege n.
1497/1939.
Difatti, l’autorizzazione paesistica può essere rilasciata
in via posticipata rispetto alla realizzazione
dell’intervento edilizio in zona paesisticamente vincolata
al fine di consentire la sanatoria ai sensi dell’art. 13
della legge n. 47/1985, mediante valutazione concernente la
compatibilità paesistica eseguibile anche successivamente
alla realizzazione del manufatto.
La questione oggetto di controversia attiene alla pretesa
illegittimità dell’assunto espresso dall’Assessorato
regionale nella nota oggetto di impugnativa che sull’istanza
di autorizzazione a sanatoria delle opere realizzate dalla
ricorrente in area sottoposta a vincolo ex lege n. 1497/1939
si è pronunziata nel senso che “la legislazione vigente non
prevede allo stato l’istituto dell’autorizzazione ex art. 7
L. 1497/1939 a sanatoria di opere realizzate negli ambiti
vincolati ai sensi della predetta legge. In tali ambiti,
pertanto, vige il principio generale dell’inapplicabilità
dell’art. 13 della L. 28.02.1985, n. 47”.
Parte ricorrente deduce che tale interpretazione resa in
relazione alla disposizione normativa contenuta nell’art. 7
della legge n. 1497/1939 contrasterebbe, ai fini del
rilascio dell’accertamento di conformità sull’istanza
presentata ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985,
con la norma di cui al successivo art. 32, che ammette il
rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria,
previa acquisizione del parere favorevole reso
dall’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo
insistente sull’area interessata dalla realizzazione del
manufatto.
Orbene, al fine del decidere, il Collegio ritiene che
decisiva valenza assume, ai fini del conseguimento o meno
dell’accertamento di conformità, il parere formulato nei
termini sopra espressi dalla Regione Lazio sull’istanza
presentata dalla stessa sig.ra Maggi sull’opera eseguita in
zona sottoposta a vincolo paesaggistico, il quale risulta
essere di contenuto sostanzialmente negativo, in ragione
però non di una valutazione nel merito dell’istanza, bensì
della ritenuta inapplicabilità della disposizione di cui
all’art. 13 della legge n. 47/1985 alle zone sottoposte a
vincolo ex lege n. 1497/1939.
Ebbene, il provvedimento impugnato deve ritenersi affetto
dal prospettato vizio di legittimità, in considerazione di
quanto previsto a norma dell’art. 32, comma 1, della legge n.
47/1985 secondo cui il rilascio del titolo abilitativo
edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili
sottoposti a vincolo è subordinato al parere favorevole
delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo, il
che rende contra ius la determinazione espressa dalla
Regione, nella misura in cui ritiene non esaminabile
l’istanza di sanatoria rispetto alla quale l’Amministrazione
era tenuta a dar contezza mediante un processo valutativo di
compatibilità dell’opera con il vincolo ex lege n.
1497/1939.
Difatti, secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale l’autorizzazione paesistica può essere
rilasciata in via posticipata rispetto alla realizzazione
dell’intervento edilizio in zona paesisticamente vincolata
al fine di consentire la sanatoria ai sensi dell’art. 13
della legge n. 47/1985, mediante valutazione concernente la
compatibilità paesistica eseguibile anche successivamente
alla realizzazione del manufatto (ex multis, TAR Latina
28.03.2008, n. 269; TAR Puglia, Bari, Sez. II, 09.02.2011,
n. 228; C. Stato, Sez. VI, 10.03.2004, n. 1205) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter,
sentenza 11.06.2022 n. 5299 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
In tema di omissione della comunicazione
dell'avvio del procedimento (strumento principale di
partecipazione), l'adozione di provvedimenti repressivi
degli abusi edilizi non deve essere preceduta dal suddetto
avviso, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati
emessi all'esito di un mero accertamento tecnico della
consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo
delle medesime.
La violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del
procedimento non costituisce un motivo idoneo a determinare
l'annullabilità dei provvedimenti sanzionatori in materia di
abusi edilizi, in quanto è palese, attesa l'assenza di
qualsivoglia titolo abilitativo all'edificazione, che il
contenuto dispositivo del provvedimento "non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato", sicché
sussiste la condizione prevista dall'art. 21-octies, comma
2, della L. n. 241 del 1990 per determinare la non
annullabilità del provvedimento impugnato.
---------------
L'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure
ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare.
b). per consolidata regola giurisprudenziale, ampiamente condivisa da
questo TAR, in tema di omissione della comunicazione
dell'avvio del procedimento (strumento principale di
partecipazione), l'adozione di provvedimenti repressivi
degli abusi edilizi non deve essere preceduta dal suddetto
avviso, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati
emessi all'esito di un mero accertamento tecnico della
consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo
delle medesime (Cons. Stato, sez. IV, 30.03.2000, n.
1814; TAR Campania, sez. IV, 28.03.2001, n. 1404, 14.06.2002, n. 3499, 12.02.2003, n. 797).
Più recentemente è stato precisato che la violazione
dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento
non costituisce un motivo idoneo a determinare
l'annullabilità dei provvedimenti sanzionatori in materia di
abusi edilizi, in quanto è palese, attesa l'assenza di
qualsivoglia titolo abilitativo all'edificazione, che il
contenuto dispositivo del provvedimento "non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato", sicché
sussiste la condizione prevista dall'art. 21-octies, comma
2, della L. n. 241 del 1990 per determinare la non
annullabilità del provvedimento impugnato (Consiglio di
Stato, sez. IV, 15.05.2009, n. 3029).
c). infine, sul presunto difetto di motivazione si osserva
che l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure
ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare (C.d.S., sez. IV, 01.10.2007, n. 5049; 10.12.2007, n. 6344; 31.08.2010, n. 3955; sez. V,
07.09.2009, n. 5229) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 21.05.2012 n. 4526 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il diritto di accesso ai documenti amministrativi
di cui all’art. 22, L. 07.08.1990, n. 241, posto a garanzia
della trasparenza ed imparzialità della P.A., trova
applicazione in ogni tipologia di attività della pubblica
amministrazione.
L’Amministrazione detentrice
dei documenti amministrativi, purché direttamente riferibili
alla tutela di un interesse personale e concreto, non può
limitare il diritto di accesso, se non per motivate esigenze
di riservatezza.
La conoscenza degli atti
amministrativi può essere realizzata pienamente attraverso
il diritto di accesso normativamente previsto, costituendo
il presupposto per il corretto ed imparziale esercizio dei
pubblici poteri, in quanto rende possibile il controllo
degli amministrati sugli atti che li riguardano.
Il diritto di
accesso consente una indefettibile tutela accessoria dei
soggetti privati che interloquiscono con le pubbliche
amministrazioni, nel presupposto che, come nel caso in
esame, i soggetti titolari di interesse giuridicamente
qualificato non abbiano altra possibilità per conoscere il
contenuto dei documenti amministrativi.
E’ ormai principio consolidato che il diritto di accesso ai
documenti amministrativi di cui all’art. 22, L. 07.08.1990, n. 241, posto a garanzia della trasparenza ed
imparzialità della P.A., trova applicazione in ogni
tipologia di attività della pubblica amministrazione.
In linea di principio, dunque, l’Amministrazione detentrice
dei documenti amministrativi, purché direttamente riferibili
alla tutela di un interesse personale e concreto, non può
limitare il diritto di accesso, se non per motivate esigenze
di riservatezza.
Ed invero, osserva il Collegio che la conoscenza degli atti
amministrativi può essere realizzata pienamente attraverso
il diritto di accesso normativamente previsto, costituendo
il presupposto per il corretto ed imparziale esercizio dei
pubblici poteri, in quanto rende possibile il controllo
degli amministrati sugli atti che li riguardano.
Osserva, ulteriormente, il Collegio che il diritto di
accesso consente una indefettibile tutela accessoria dei
soggetti privati che interloquiscono con le pubbliche
amministrazioni, nel presupposto che, come nel caso in
esame, i soggetti titolari di interesse giuridicamente
qualificato non abbiano altra possibilità per conoscere il
contenuto dei documenti amministrativi.
Tanto precisato, rileva il Collegio, con riferimento
specifico alla controversia in esame, che non sussistono
ragioni legittimamente ostative all’esercizio del diritto
fatto valere dalle ricorrenti con l’istanza tesa ad ottenere
copia degli atti ivi indicati, attenendo la richiesta ad
atti certamente formati e detenuti dall'Amministrazione
regionale, in relazione ai quali non risulta l'esclusione
dall'accesso.
E’ indubbio, peraltro, che la posizione delle ricorrenti,
titolari di autorizzazione all’esercizio dell’attività
sanitaria, sia da sola sufficiente a ché le stesse possano
vantare un interesse personale e concreto per la tutela
della loro posizione a conoscere atti concernenti
l’esercizio del potere autorizzatorio da parte dell’Ente
pubblico a ciò preposto, attinente alla medesima attività
sanitaria posta in essere nello stesso ambito territoriale.
D’altro canto, le perplessità espresse dalle ricorrenti in
ordine ad irregolarità sull’attività sanitaria svolta dal
controinteressato ha trovato riscontro negli atti di
decadenza e sospensione dell’autorizzazione, successivamente
adottati dalla Regione medesima.
Pertanto, ritenuta la fondatezza della pretesa al rilascio
di copia degli atti sopra indicati, va dichiarato
illegittimo il silenzio osservato in ordine all'istanza di
accesso, con obbligo, per l'effetto, dell'Amministrazione
competente, individuata nella Regione Lazio, di esibizione,
ai fini della visione e dell’estrazione di copia, dei
documenti di cui alla istanza del 27.10.2011, all'uopo
presentata dalle ricorrenti (TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater,
sentenza 16.05.2012 n. 4441 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'’irrogazione della sanzione demolitoria
costituisce esercizio di attività vincolata, per cui i
profili di eccesso di potere dedotti in questa sede non sono
configurabili, atteso che essi presuppongono il carattere
discrezionale dell’attività medesima.
L’abuso edilizio integra un illecito permanente e pertanto
può essere perseguito in ogni tempo, senza che a corredo
della sanzione comminata sia richiesta l’esplicitazione di
una specifica motivazione, anche in ordine alla sussistenza
dell’interesse pubblico al riguardo.
Considerato:
-
che i due suindicati manufatti integrano interventi di nuova
costruzione, i quali avrebbero richiesto, per la loro
legittima realizzazione, la previa acquisizione del permesso
di costruire, la cui assenza, nella specie pacifica,
determina la sanzione demolitoria in concreto comminata,
implicante l’obbligo, per i destinatari, di darvi esecuzione
entro il termine indicato, a pena di acquisizione gratuita
ex lege al patrimonio comunale delle opere stesse, nonché
dell’area di sedime fino a 10 volte la superficie dell’opera
abusiva;
-
che l’irrogazione della sanzione di che trattasi costituisce
esercizio di attività vincolata, per cui i profili di
eccesso di potere dedotti in questa sede non sono
configurabili, atteso che essi presuppongono il carattere
discrezionale dell’attività medesima;
-
che l’abuso edilizio integra un illecito permanente e
pertanto può essere perseguito in ogni tempo, senza che a
corredo della sanzione comminata sia richiesta
l’esplicitazione di una specifica motivazione, anche in
ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico al riguardo;
-
che, a fronte di quanto appena evidenziato, la
perimetrazione dei nuclei abusivi, che ex se non determina
alcuna variante urbanistica, non fa venir meno il potere
dell’Amministrazione comunale di sanzionare gli abusi
edilizi individuati nell’area oggetto della stessa;
-
che peraltro la ratio sottesa alla L.r. n. 28/1980, in base
alla quale il Comune ha proceduto alla perimetrazione dei
nuclei abusivi, che è quella di consentire la sanatoria di
tutti quei manufatti abusivi altrimenti non sanabili per
contrasto con la destinazione di zona, deve intendersi
superata dalle successive leggi statali in materia di
condono edilizio, che hanno consentito di sanare gli abusi
non solo formali, ma anche sostanziali;
-
che, stante l’efficacia dell’ordinanza demolitoria, non
essendo la stessa stata sospesa né in primo né in secondo
grado nel corso del giudizio impugnatorio, l’effetto
acquisitivo si è determinato automaticamente ex lege, una
volta accertata l’inottemperanza all’ingiunzione di
demolizione nel termine assegnato ai destinatari;
-
che conseguentemente rispetto al verbale di accertamento di
inottemperanza non possono riproporsi i motivi di doglianza
già dedotti nei confronti della menzionata ordinanza;
-
che, quanto agli altri vizi denunciati, deve precisarsi che
il verbale de quo è stato correttamente redatto dalla
Polizia municipale, quale organo di polizia giudiziaria, ed
è stato notificato ai responsabili perché l’art. 31, comma
4, del d.P.R. n. 380/2001 e l’art. 15, comma 3, della L.r.
n. 15/2008 ne richiedono la notifica affinché detto verbale
possa costituire titolo per l’immissione in possesso
dell’area da parte dell’Ente locale (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 23.04.2012 n. 3640 - link a
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EDILIZIA
PRIVATA:
Per quanto riguarda la denunciata incongruità del
termine assegnato per demolire –30 giorni dalla notifica del
provvedimento–, la disposizione in concreto applicata,
rappresentata dall’art. 33 del d.P.R. n. 380/2001 nulla
dispone circa la durata di detto termine, stabilendo
soltanto che esso sia congruo, laddove in altre ipotesi
(cfr. art. 31 del medesimo decreto) esso viene fissato in un
ben più lungo numero di giorni; in tal modo si lascia
all'Amministrazione il potere di determinarlo.
Infine, per quanto riguarda la denunciata incongruità del termine
assegnato per demolire –30 giorni dalla notifica del
provvedimento– di cui alla doglianza sub 4), la
disposizione in concreto applicata, rappresentata dall’art.
33 del d.P.R. n. 380/2001 nulla dispone circa la durata di
detto termine, stabilendo soltanto che esso sia congruo,
laddove in altre ipotesi (cfr. art. 31 del medesimo decreto)
esso viene fissato in un ben più lungo numero di giorni; in
tal modo si lascia all'Amministrazione il potere di
determinarlo.
Quanto poi all’asserita sua incongruità rispetto a quello di
60 giorni per proporre ricorso giurisdizionale
amministrativo, deve ritenersi che essa concretamente non
sussiste, atteso che, per procedere alla demolizione
d’ufficio, previa individuazione della ditta incaricata, è
necessario un sopralluogo successivo alla scadenza del
termine teso ad accertare l'inottemperanza all'ingiunzione
di demolizione, senza considerare che in ultima ipotesi è
possibile avanzare domanda risarcitoria, ove già fosse
intervenuta una demolizione d'ufficio a fronte di una
sanzione demolitoria ritenuta illegittima (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 23.04.2012 n. 3632 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Circa l'abusiva costruzione di un manufatto delle
dimensioni di mq 8,00 per 2,00 mt. circa, con copertura,
realizzato a ridosso del muro di altro organismo edilizio,
va ricordato che, come è noto, in area vincolata tale genere
di intervento necessità di autorizzazione paesaggistica ai
sensi dell’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, atteso che
esso introduce modificazioni nell’assetto paesaggistico,
sulla cui valutazione di compatibilità con il paesaggio non
può che pronunciarsi in via preventiva l’Autorità preposta
alla tutela del vincolo.
Parimenti, esso neppure può divenire oggetto di accertamento
ex post della compatibilità, ai sensi dell’art. 167, comma
4, del d.lgs. n. 42 del 2004, giacché, comportando aumento
volumetrico, per quanto modesto, non rientra in alcuno dei
casi indicati a tale scopo da questa ultima disposizione di
legge.
È altrettanto noto che la nozione di volume tecnico, ovvero
pertinenziale, valevole in urbanistica non spiega invece
effetti sul piano ambientale, laddove tutte le modifiche
aventi un impatto sul territorio, anche di natura visiva,
debbono essere oggetto di preventiva autorizzazione,
quand’anche abbiano natura di pertinenza.
La ricorrente impugna l’ordine di demolizione n. 313 del
2007 del Comune di Roma, avente ad oggetto un manufatto
delle dimensioni di mq 8,00 per 2,00 mt. circa, con
copertura, realizzato a ridosso del muro di altro organismo
edilizio: l’opera sorge su area di proprietà della
ricorrente.
La demolizione è stata ordinata ai sensi dell’art. 33 del
d.P.R. n. 380 del 2001. L’immobile è vincolato ai sensi
dell’art. 1 della l. n. 1497 del 1933, ora art. 157 del
d.lgs. n. 42 del 2004: si è perciò contestato il difetto di
permesso di costruire, in relazione al vincolo archeologico
e paesaggistico, di cui dà conto la relazione tecnica del 28.09.2006 acquisita agli atti del procedimento.
Il Tribunale premette, a tale proposito, che la natura del
vincolo, nei termini sopra indicati e con riferimento
specifico a quello paesaggistico, è ammessa dalla stessa
ricorrente, la quale, nel presentare dopo la contestazione
domanda di accertamento della compatibilità paesistica ex
art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, e nell’allegarvi
relazione tecnica (doc. 5, pag. 7) ha appunto dichiarato
l’inclusione dell’area negli elenchi operativi fin dall’art.
1 della l. n. 1497 del 1933.
Ne segue che in causa, per quanto interessa ai fini della
decisione, non assume rilievo l’art. 142 del d.lgs. n. 42
del 2004, ed in particolare l’eventuale sussistenza del
vincolo archeologico ivi indicato alla lett. m): l’immobile
deve ritenersi, infatti, vincolato non già dalla legge, ma
in base alla legge, con riguardo all’art. 157 del d.lgs. n.
42 del 2004.
Va aggiunto che l’intervento per cui è causa ha i caratteri
propri della ristrutturazione edilizia, giacché trasforma un
organismo preesistente, sfruttandone il muro, per creare un
ambiente chiuso, che sviluppa volume e superficie.
Come è noto, in area vincolata tale genere di intervento
necessità di autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’art.
146 del d.lgs. n. 42 del 2004, atteso che esso introduce
modificazioni nell’assetto paesaggistico, sulla cui
valutazione di compatibilità con il paesaggio non può che
pronunciarsi in via preventiva l’Autorità preposta alla
tutela del vincolo.
Parimenti, esso neppure può divenire oggetto di accertamento
ex post della compatibilità, ai sensi dell’art. 167, comma 4,
del d.lgs. n. 42 del 2004, giacché, comportando aumento
volumetrico, per quanto modesto, non rientra in alcuno dei
casi indicati a tale scopo da questa ultima disposizione di
legge.
È altrettanto noto che la nozione di volume tecnico, ovvero
pertinenziale, valevole in urbanistica non spiega invece
effetti sul piano ambientale, laddove tutte le modifiche
aventi un impatto sul territorio, anche di natura visiva,
debbono essere oggetto di preventiva autorizzazione (in
termini, da ultimo, Tar Napoli, n. 5069 del 2011; Tar
Salerno, n. 1642 del 2011), quand’anche abbiano natura di
pertinenza.
Nel caso di specie, si può convenire con la ricorrente che
il modesto manufatto che ella ha realizzato perché fungesse
da box per attrezzi (ricorso, pag. 3), in ragione
dell’inabitabilità, dello scarso volume prodotto, del
difetto di un accesso autonomo dall’abitazione principale,
dell’assenza di finestre, possa costituire pertinenza
soggetta, sul piano edilizio, a DIA.
Ciò non toglie,
tuttavia, che esso richiedesse comunque l’autorizzazione
paesaggistica, e che, in difetto di essa, debba venire
demolito ai sensi dell’art. 33, comma 5, del d.P.R. n. 380
del 2001 (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 23.04.2012 n. 3629 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il decorso del tempo non spiega alcuna efficacia
sanante nei confronti dell’abuso edilizio, che ha carattere
permanente e può essere perseguito senza limiti di tempo.
Posto che è incontestata la qualità di proprietario
dell’area in capo alla ricorrente, quest’ultima è tenuta
alla demolizione degli abusi contestateli in tale veste,
quale che sia l’epoca di esecuzione delle opere.
-------------
L’ordine di demolizione, in quanto atto dovuto a contenuto
vincolato, non necessiti di alcuna motivazione, che ecceda
la descrizione dell’abuso e l’indicazione del titolo
edilizio carente. In particolare, ciò vale anche con
riguardo ad abusi risalenti nel tempo, atteso che la
reintegrazione dell’assetto del territorio violato
costituisce di per sé ragione sufficiente e necessaria a
sostenere il provvedimento repressivo: dall’altro canto,
nessun affidamento tutelabile può nascere da situazioni
contrarie alla legge.
La censura è infondata: anzitutto, il Tribunale aderisce all’orientamento
giurisprudenziale secondo cui il decorso del tempo non
spiega alcuna efficacia sanante nei confronti dell’abuso
edilizio, che ha carattere permanente e può essere
perseguito senza limiti di tempo. Posto che è incontestata
la qualità di proprietario dell’area in capo alla
ricorrente, quest’ultima è tenuta alla demolizione degli
abusi contestateli in tale veste, quale che sia l’epoca di
esecuzione delle opere.
Al contempo, la ricorrente si limita a depositare in causa
gli atti di compravendita dell’immobile, senza tuttavia
provare la sussistenza di alcun titolo edilizio abilitativo
avente ad oggetto il manufatto. Anzi, tali atti danno conto
della sussistenza di un vano adibito a ripostiglio e garage,
mentre l’edificio di cui ordinata la demolizione, come
risulta evidente dalle fotografie in atti, ha funzione
abitativa: è perciò mancata la prova, di cui era onerata
parte ricorrente, anche in riferimento all’identità fisica
dei manufatti. Né l’opera può ritenersi equivalente ad una
pertinenza dell’immobile principale, rispetto a cui ha una
propria autonomia funzionale e di valore.
Ciò determina l’infondatezza anche del terzo motivo di
ricorso, con cui si sostiene che la ricorrente si sarebbe
limitata a sostituire una serranda in metallo con una porta
in legno nel vano destinato a deposito attrezzi: non solo si
è già osservato che la proprietaria deve demolire opere
abusive, quand’anche eseguite da terzi, ma va aggiunto che
non si vede come con simile impiego possa essere compatibile
la realizzazione di un lavabo, di un WC e di finiture per
alloggio.
Tali considerazioni rendono infondati anche il secondo ed il
quarto motivo di ricorso: è giurisprudenza del tribunale che
l’ordine di demolizione, in quanto atto dovuto a contenuto
vincolato, non necessiti di alcuna motivazione, che ecceda
la descrizione dell’abuso e l’indicazione del titolo
edilizio carente. In particolare, ciò vale anche con
riguardo ad abusi risalenti nel tempo, atteso che la
reintegrazione dell’assetto del territorio violato
costituisce di per sé ragione sufficiente e necessaria a
sostenere il provvedimento repressivo: dall’altro canto,
nessun affidamento tutelabile può nascere da situazioni
contrarie alla legge (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 23.04.2012 n. 3626 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La presentazione dell'istanza di permesso di
costruire in sanatoria per la definizione di illeciti
edilizi ai sensi dell'art. 32 d.l. n. 269/2003, convertito
dalla legge n. 326/2003, in epoca successiva all’adozione
del provvedimento impugnato, comporta la perdita di
efficacia dello stesso.
Infatti, una volta presentata la predetta domanda di
sanatoria, il provvedimento repressivo perde efficacia in
quanto deve essere sostituito o dal permesso di costruire in
sanatoria o da un nuovo procedimento sanzionatorio essendo
l’amministrazione tenuta, in quest’ultimo caso, al completo
riesame della fattispecie assumendo, ove del caso, nuovi e
definitivi provvedimenti sanzionatori.
Il Tribunale ritiene che la presentazione dell'istanza di permesso
di costruire in sanatoria per la definizione di illeciti
edilizi ai sensi dell'art. 32 d.l. n. 269/2003, convertito
dalla legge n. 326/2003, in epoca successiva all’adozione del
provvedimento impugnato, comporti la perdita di efficacia
dello stesso.
Infatti, una volta presentata la predetta domanda di
sanatoria, il provvedimento repressivo perde efficacia in
quanto deve essere sostituito o dal permesso di costruire in
sanatoria o da un nuovo procedimento sanzionatorio essendo
l’amministrazione tenuta, in quest’ultimo caso, al completo
riesame della fattispecie assumendo, ove del caso, nuovi e
definitivi provvedimenti sanzionatori.
Ne consegue che nel primo caso il ricorrente non ha
interesse a proporre il ricorso avverso l'ingiunzione a
demolire mentre nel secondo caso dovrà impugnare il nuovo
provvedimento repressivo.
In questo senso si esprime l’orientamento giurisprudenziale
assolutamente prevalente (Cons. Stato sez. IV n. 756/2008;
Cons. Stato sez. IV n. 3546/2008; Cons. Stato sez. V n.
3659/2007; TAR Marche n. 960/2008) il quale ha avuto modo di
precisare che in fattispecie quali quella in esame, dovendo
l'Amministrazione emettere –se del caso- il diniego
esplicito dell’istanza di condono e, successivamente, un
nuovo provvedimento sanzionatorio, l'interesse del
responsabile dell'abuso edilizio è quello di richiedere la caducazione
giurisdizionale di tali atti e non già dell’originario
provvedimento repressivo che ha perso efficacia in
conseguenza dell’avvenuta tempestiva presentazione della
domanda di condono edilizio (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 23.04.2012 n. 3623 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Ai fini dell’individuazione della nozione di volume
tecnico, assumono valore tre ordini di parametri ovvero
il primo, positivo, di tipo funzionale, ossia che il
manufatto abbia un rapporto di strumentalità necessaria con
l'utilizzo della costruzione, il secondo ed il
terzo, negativi, ricollegati da un lato
all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel
senso che tali costruzioni non devono poter essere ubicate
all'interno della parte abitativa, e dall'altro ad un
rapporto di necessaria proporzionalità fra tali volumi e le
esigenze effettivamente presenti.
Tale nozione può essere applicata solo alle opere edilizie
completamente prive di una propria autonomia funzionale,
anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti
serventi di una costruzione principale, per esigenze
tecnico-funzionali della costruzione stessa.
-
Considerato, infatti, che secondo il costante orientamento
giurisprudenziale, ai fini dell’individuazione della nozione
di volume tecnico, assumono valore tre ordini di parametri
ovvero il primo, positivo, di tipo funzionale, ossia che il
manufatto abbia un rapporto di strumentalità necessaria con
l'utilizzo della costruzione, il secondo ed il terzo,
negativi, ricollegati da un lato all'impossibilità di
soluzioni progettuali diverse, nel senso che tali
costruzioni non devono poter essere ubicate all'interno
della parte abitativa, e dall'altro ad un rapporto di
necessaria proporzionalità fra tali volumi e le esigenze
effettivamente presenti;
-
Considerato, pertanto, che tale nozione può essere applicata
solo alle opere edilizie completamente prive di una propria
autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate
a contenere impianti serventi di una costruzione principale,
per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa
(Cons. Stato sez. IV n. 2565/2010; TAR Campania–Napoli n.
4076/2011; TAR Puglia–Lecce n. 2170/2011);
-
Considerato che nella fattispecie non ricorrono i requisiti
per la qualificazione come volume tecnico delle opere
contestate in quanto non sono stati dimostrati il rapporto
di strumentalità necessaria delle stesse con l’utilizzo
della costruzione principale, l’impossibilità (in senso
assoluto) di soluzioni progettuali diverse (potendosi
ragionevolmente ipotizzare l’allocazione del volume
all’interno del manufatto principale o sottoterra) e la
necessaria proporzionalità tra volume ed esigenze tecniche
laddove le opere realizzate comportano un congruo aumento di
superficie e volumetria, come emerge anche dalla
documentazione fotografica prodotta dal Comune;
- Considerato che proprio il rilevante impatto edilizio ed
urbanistico desumibile dalle dimensioni e dalla natura delle
opere realizzate induce il Tribunale ad escludere che le
stesse siano qualificabili come mera pertinenza e, quindi,
siano sottratte al necessario assenso tramite permesso di
costruire (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 20.04.2012 n. 3613 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha
analiticamente affrontato i rapporti tra la scelta di indire
un nuovo concorso e quella di attingere ad una graduatoria
ancora efficace, evidenziando quanto segue:
a) Va superata la tesi tradizionale, secondo cui la
determinazione di indizione di un nuovo concorso non
richiede alcuna motivazione. A maggiore ragione, è da
respingersi la tesi “estrema”, secondo cui si tratterebbe di
una decisione insindacabile dal giudice amministrativo.
b) Simmetricamente, però, non è condivisibile l’idea
opposta, in forza della quale, la disciplina in materia di
scorrimento assegnerebbe agli idonei un diritto soggettivo
pieno all’assunzione, mediante lo scorrimento, che
sorgerebbe per il solo fatto della vacanza e disponibilità
di posti in organico. Infatti, in tali circostanze
l’amministrazione non è incondizionatamente tenuta alla loro
copertura, ma deve comunque assumere una decisione
organizzativa, correlata agli eventuali limiti normativi
alle assunzioni, alla disponibilità di bilancio, alle scelte
programmatiche compiute dagli organi di indirizzo e a tutti
gli altri elementi di fatto e di diritto rilevanti nella
concreta situazione, con la quale stabilire se procedere, o
meno, al reclutamento del personale.
c) Ferma restando, quindi, la discrezionalità in ordine alla
decisione sul “se” della copertura del posto vacante,
l’amministrazione, una volta stabilito di procedere alla
provvista del posto, deve sempre motivare in ordine alle
modalità prescelte per il reclutamento, dando conto, in ogni
caso, della esistenza di eventuali graduatorie degli idonei
ancora valide ed efficaci al momento dell’indizione del
nuovo concorso.
d) Nel motivare l’opzione preferita, l’amministrazione deve
tenere nel massimo rilievo la circostanza che l’ordinamento
attuale afferma un generale favore per l’utilizzazione delle
graduatorie degli idonei, che recede solo in presenza di
speciali discipline di settore o di particolari circostanze
di fatto o di ragioni di interesse pubblico prevalenti, che
devono, comunque, essere puntualmente enucleate nel
provvedimento di indizione del nuovo concorso.
---------------
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha, da un lato,
affermato che «sul piano dell’ordinamento positivo, si è
ormai realizzata la sostanziale inversione del rapporto tra
l’opzione per un nuovo concorso e la decisione di
scorrimento della graduatoria preesistente ed efficace.
Quest’ultima modalità di reclutamento rappresenta ormai la
regola generale, mentre l’indizione del nuovo concorso
costituisce l’eccezione e richiede un’apposita e
approfondita motivazione, che dia conto del sacrificio
imposto ai concorrenti idonei e delle preminenti esigenze di
interesse pubblico».
La riconosciuta prevalenza delle procedure di scorrimento
non è comunque assoluta e incondizionata. Sono tuttora
individuabili casi in cui la determinazione di procedere al
reclutamento del personale, mediante nuove procedure
concorsuali, anziché attraverso lo scorrimento delle
preesistenti graduatorie, risulta pienamente giustificabile,
con il conseguente ridimensionamento dell’obbligo di
motivazione. In tale contesto si situano, in primo luogo, le
ipotesi in cui speciali disposizioni legislative impongano
una precisa cadenza periodica del concorso, collegata anche
a peculiari meccanismi di progressioni nelle carriere,
tipiche di determinati settori del personale pubblico. In
tali eventualità emerge il dovere primario
dell’amministrazione di bandire una nuova procedura
selettiva, in assenza di particolari ragioni di opportunità
per l’assunzione degli idonei collocati nelle preesistenti
graduatorie.
In aggiunta a tali casi vengono poi segnalate alcune ipotesi
di fatto, in cui si manifesta l’opportunità, se non la
necessità, di procedere all’indizione di un nuovo concorso,
pur in presenza di graduatorie ancora efficaci, con la
conseguente attenuazione dell’obbligo di motivazione, e a
tal fine la vicenda in esame fornisce un esempio
significativo. In particolare, secondo la Plenaria, «può
assumere rilievo l’esigenza preminente di determinare,
attraverso le nuove procedure concorsuali, la
stabilizzazione del personale precario, in attuazione delle
apposite regole speciali in materia. Tale finalità,
tuttavia, non esime l’amministrazione dall’obbligo di
valutare, comparativamente, in ogni caso, anche le posizioni
giuridiche e le aspettative dei soggetti collocati nella
graduatoria come idonei. La normativa speciale in materia,
infatti, non risulta formulata in modo da imporre la
indiscriminata prevalenza delle procedure di
stabilizzazione, ma lascia all’amministrazione un rilevante
potere di valutazione discrezionale in ordine ai
contrapposti interessi coinvolti».
Inoltre «può acquistare rilievo l’intervenuta modifica
sostanziale della disciplina applicabile alla procedura
concorsuale, rispetto a quella riferita alla graduatoria
ancora efficace, con particolare riguardo al contenuto delle
prove di esame e ai requisiti di partecipazione».
Infine «deve attribuirsi risalto determinante anche
all’esatto contenuto dello specifico profilo professionale
per la cui copertura è indetto il nuovo concorso e alle
eventuali distinzioni rispetto a quanto descritto nel bando
relativo alla preesistente graduatoria».
► l’articolo 3, comma 87, della legge 24.12.2007, n. 244 (legge
finanziaria 2008), ha aggiunto, all’articolo 35 del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, il comma 5-ter, in forza
del quale “Le graduatorie dei concorsi per il reclutamento
del personale presso le amministrazioni pubbliche rimangono
vigenti per un termine di tre anni dalla data di
pubblicazione. Sono fatti salvi i periodi di vigenza
inferiori previsti da leggi regionali”.
Da ultimo l’articolo
1, comma 4, del decreto legge n. 216 del 09.12.2011,
convertito dalla legge 24.02.2012, n. 14, dispone che
“L’efficacia delle graduatorie dei concorsi pubblici per
assunzioni a tempo indeterminato, relative alle
amministrazioni pubbliche soggette a limitazioni delle
assunzioni, approvate successivamente al 30.09.2003,
è prorogata fino al 31.12.2012, compresa la Presidenza
del Consiglio dei Ministri”. Ne consegue che non sussistono
dubbi in merito alla perdurante vigenza delle graduatorie
sulle quali si fondano le pretese di parte ricorrente;
► a tal riguardo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato
nella sentenza 28.07.2011, n. 14, invocata dalle
ricorrenti, ha posto in rilievo che «L’intervento normativo
del 2007 abbandona la struttura formale della disciplina di
mera proroga, a carattere contingente, e si caratterizza per
alcuni elementi di novità:
- è definitivamente confermato
che la vigenza delle graduatorie, ora determinata in tre
anni, decorrenti dalla pubblicazione, è un istituto
ordinario (“a regime”) delle procedure di reclutamento del
personale pubblico, disciplinato da una fonte di rango
legislativo e non più dal solo regolamento generale dei
concorsi (d.P.R. n. 487/1994);
- l’ambito oggettivo di
applicazione dell’istituto generale dello “scorrimento” è
riferito, indistintamente, a tutte le amministrazioni, senza
limitazioni di carattere soggettivo od oggettivo. Fermi
restando questi importanti profili innovativi, tuttavia, la
disciplina, per la sua ratio e per la sua formulazione
letterale, va estesa anche alle procedure concorsuali svolte
in epoca precedente alla sua entrata in vigore» (punto 16
della motivazione);
► stante quanto precede, l’Adunanza Plenaria del Consiglio
di Stato nella medesima sentenza ha analiticamente
affrontato i rapporti tra la scelta di indire un nuovo
concorso e quella di attingere ad una graduatoria ancora
efficace, evidenziando quanto segue: «a) Va superata la tesi
tradizionale, secondo cui la determinazione di indizione di
un nuovo concorso non richiede alcuna motivazione. A
maggiore ragione, è da respingersi la tesi “estrema”,
secondo cui si tratterebbe di una decisione insindacabile
dal giudice amministrativo.
b) Simmetricamente, però, non è
condivisibile l’idea opposta, in forza della quale, la
disciplina in materia di scorrimento assegnerebbe agli
idonei un diritto soggettivo pieno all’assunzione, mediante
lo scorrimento, che sorgerebbe per il solo fatto della
vacanza e disponibilità di posti in organico. Infatti, in
tali circostanze l’amministrazione non è incondizionatamente
tenuta alla loro copertura, ma deve comunque assumere una
decisione organizzativa, correlata agli eventuali limiti
normativi alle assunzioni, alla disponibilità di bilancio,
alle scelte programmatiche compiute dagli organi di
indirizzo e a tutti gli altri elementi di fatto e di diritto
rilevanti nella concreta situazione, con la quale stabilire
se procedere, o meno, al reclutamento del personale.
c)
Ferma restando, quindi, la discrezionalità in ordine alla
decisione sul “se” della copertura del posto vacante,
l’amministrazione, una volta stabilito di procedere alla
provvista del posto, deve sempre motivare in ordine alle
modalità prescelte per il reclutamento, dando conto, in ogni
caso, della esistenza di eventuali graduatorie degli idonei
ancora valide ed efficaci al momento dell’indizione del
nuovo concorso.
d) Nel motivare l’opzione preferita,
l’amministrazione deve tenere nel massimo rilievo la
circostanza che l’ordinamento attuale afferma un generale
favore per l’utilizzazione delle graduatorie degli idonei,
che recede solo in presenza di speciali discipline di
settore o di particolari circostanze di fatto o di ragioni
di interesse pubblico prevalenti, che devono, comunque,
essere puntualmente enucleate nel provvedimento di indizione
del nuovo concorso» (punto 31 della motivazione);
► sulla base di tali considerazioni l’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato ha, da un lato, affermato che «sul piano
dell’ordinamento positivo, si è ormai realizzata la
sostanziale inversione del rapporto tra l’opzione per un
nuovo concorso e la decisione di scorrimento della
graduatoria preesistente ed efficace. Quest’ultima modalità
di reclutamento rappresenta ormai la regola generale, mentre
l’indizione del nuovo concorso costituisce l’eccezione e
richiede un’apposita e approfondita motivazione, che dia
conto del sacrificio imposto ai concorrenti idonei e delle
preminenti esigenze di interesse pubblico» (punto 50 della
motivazione).
Peraltro, nei successivi passaggi della
motivazione, è stato posto in rilievo che «la riconosciuta
prevalenza delle procedure di scorrimento non è comunque
assoluta e incondizionata. Sono tuttora individuabili casi
in cui la determinazione di procedere al reclutamento del
personale, mediante nuove procedure concorsuali, anziché
attraverso lo scorrimento delle preesistenti graduatorie,
risulta pienamente giustificabile, con il conseguente
ridimensionamento dell’obbligo di motivazione. In tale
contesto si situano, in primo luogo, le ipotesi in cui
speciali disposizioni legislative impongano una precisa
cadenza periodica del concorso, collegata anche a peculiari
meccanismi di progressioni nelle carriere, tipiche di
determinati settori del personale pubblico. In tali
eventualità emerge il dovere primario dell’amministrazione
di bandire una nuova procedura selettiva, in assenza di
particolari ragioni di opportunità per l’assunzione degli
idonei collocati nelle preesistenti graduatorie» (punto 51
della motivazione).
In aggiunta a tali casi vengono poi
segnalate alcune ipotesi di fatto, in cui si manifesta
l’opportunità, se non la necessità, di procedere
all’indizione di un nuovo concorso, pur in presenza di
graduatorie ancora efficaci, con la conseguente attenuazione
dell’obbligo di motivazione, e a tal fine la vicenda in
esame fornisce un esempio significativo. In particolare,
secondo la Plenaria, «può assumere rilievo l’esigenza
preminente di determinare, attraverso le nuove procedure
concorsuali, la stabilizzazione del personale precario, in
attuazione delle apposite regole speciali in materia. Tale
finalità, tuttavia, non esime l’amministrazione dall’obbligo
di valutare, comparativamente, in ogni caso, anche le
posizioni giuridiche e le aspettative dei soggetti collocati
nella graduatoria come idonei. La normativa speciale in
materia, infatti, non risulta formulata in modo da imporre
la indiscriminata prevalenza delle procedure di
stabilizzazione, ma lascia all’amministrazione un rilevante
potere di valutazione discrezionale in ordine ai
contrapposti interessi coinvolti» (punto 53 della
motivazione).
Inoltre «può acquistare rilievo l’intervenuta
modifica sostanziale della disciplina applicabile alla
procedura concorsuale, rispetto a quella riferita alla
graduatoria ancora efficace, con particolare riguardo al
contenuto delle prove di esame e ai requisiti di
partecipazione» (punto 54 della motivazione).
Infine «deve
attribuirsi risalto determinante anche all’esatto contenuto
dello specifico profilo professionale per la cui copertura è
indetto il nuovo concorso e alle eventuali distinzioni
rispetto a quanto descritto nel bando relativo alla
preesistente graduatoria» (punto 55 della motivazione);
► a fronte delle articolate considerazioni svolte
dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, al Collegio
non resta che rilevare, da un lato, come la fattispecie in
esame rientri tra quelle «in cui la determinazione di
procedere al reclutamento del personale, mediante nuove
procedure concorsuali, anziché attraverso lo scorrimento
delle preesistenti graduatorie, risulta pienamente
giustificabile, con il conseguente ridimensionamento
dell’obbligo di motivazione» (punto 51 della motivazione
della sentenza n. 14/2011) e, dall’altro, che la scelta
amministrativa di indire la procedura concorsuale di cui
trattasi, anziché procedere allo scorrimento della
graduatoria, in realtà è stata compiuta dall’organo
competente in materia, ossia dalla Giunta capitolina;
► quanto al primo aspetto, il Collegio osserva innanzi tutto
che, a seguito dell’adozione della delibera n. 194 in data 01.06.2011, con la quale è stato approvato il nuovo
sistema di classificazione della dirigenza di Roma Capitale,
con conseguente rideterminazione della dotazione organica e
approvazione del piano di assunzioni per il periodo
2011-2013, la Giunta capitolina con la delibera n. 205 in
data 15.06.2011 ha dapprima approvato il “regolamento
per l’accesso alla qualifica di dirigente a tempo
indeterminato”, ove si prevede che “l’accesso alla qualifica
di dirigente a tempo indeterminato nell’Amministrazione di
Roma Capitale avviene mediante una procedura selettiva
pubblica, per titoli ed esami” (art. 2, comma 1) e che “sino
al cinquanta per cento dei posti può essere riservato al
personale interno dell’Amministrazione di Roma Capitale, in
possesso dei requisiti previsti nel presente Regolamento”
(art. 2, comma 2), ma con la successiva delibera n. 331 in
data 28.09.2011 ha modificato la prima disposizione,
prevedendo che il concorso sia solo per esami.
Risulta,
quindi, evidente che ricorre la situazione delineata al
punto 54 della motivazione della sentenza dell’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato n. 14/2011 -ove viene fatto
espresso riferimento alla «intervenuta modifica sostanziale
della disciplina applicabile alla procedura concorsuale,
rispetto a quella riferita alla graduatoria ancora efficace,
con particolare riguardo al contenuto delle prove di esame e
ai requisiti di partecipazione»- quale circostanza che
giustifica ex se la scelta dell’Amministrazione di non
procedere allo scorrimento delle graduatorie e di bandire un
nuovo concorso «con il conseguente ridimensionamento
dell’obbligo di motivazione».
Infatti da un semplice
confronto tra il bando impugnato ed il bando del 2004,
relativo al concorso al quale ha partecipato il dottor
Giovanni Caruso, emergono chiaramente le differenze relative
ai requisiti di partecipazione ed alle prove di esame
(differenze evidentemente determinate dalla necessità di
conformare la lex specialis del concorso alla nuova
disciplina regolamentare), perché il bando del 2004 si
riferiva ad un concorso, per titoli ed esami, riservato ai
dipendenti dell’amministrazione comunale, mentre il nuovo
bando si riferisce ad un concorso, solo per esami, aperto a
tutti i soggetti in possesso dei requisiti indicati
dall’art. 3 del nuovo “regolamento per l’accesso alla
qualifica di dirigente a tempo indeterminato”.
Ne consegue
che il ricorrente non ha motivo di dolersi del fatto che
l’impugnato bando di concorso non rechi una puntuale
motivazione in ordine alla decisione di non procedere allo
scorrimento della graduatoria del precedente concorso perché
-a ben vedere- tale motivazione è contenuta nell’esplicito
richiamo, operato dal bando, alle delibere della Giunta
capitolina n. 205/2011 e n. 331/2011;
► inoltre, posto che l’Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato, nell’affermare la preferenza per lo scorrimento delle
graduatorie, ha attribuito «risalto determinante anche
all’esatto contenuto dello specifico profilo professionale
per la cui copertura è indetto il nuovo concorso e alle
eventuali distinzioni rispetto a quanto descritto nel bando
relativo alla preesistente graduatoria» (punto 55 della
motivazione della sentenza n. 14/2011), nel caso in esame
non può farsi a meno di rilevare che il concorso al quale il
ricorrente ha partecipato si riferiva al profilo
professionale di Dirigente Beni e Attività Culturali, mentre
il bando impugnato si riferisce al profilo professionale di
Dirigente Beni Culturali e Ambientali, previsto dalla Giunta
capitolina con la delibera n. 194 in data 01.06.2011.
Pertanto, stante la maggiore ampiezza delle competenze
relative al profilo professionale di Dirigente Beni
Culturali e Ambientali, anche per tale ragione il ricorrente
non ha motivo di dolersi del fatto che l’impugnato bando di
concorso non rechi una puntuale motivazione in ordine alla
decisione di non procedere allo scorrimento della
graduatoria (TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 17.04.2012 n. 3450 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il diritto di accesso ai documenti amministrativi
costituisce un principio generale dell'attività
amministrativa, volto a favorire diffusamente la
partecipazione al procedimento, al fine di assicurarne
imparzialità e trasparenza.
Per tale finalità, tutti i documenti amministrativi sono, in
via generale, da ritenere accessibili, salvo le eccezioni
espressamente stabilite dall'art. 24 della legge n. 241/1990
e da norme di settore. Gli articoli 22 e seguenti della L.
n. 241 del 1990 riconoscono, a tutela di un personale
interesse, concretamente collegato alle esigenze specifiche
del richiedente, l’accesso agli atti che direttamente lo
riguardano.
---------------
Il fatto legittimante l'accesso alla documentazione, ossia
il possesso dell’interesse definito all'art. 22 della L. n.
241 del 1990, non presuppone una predeterminazione rigida
delle situazioni giuridicamente tutelate, in quanto la loro
individuazione è data dal raccordo tra queste e il documento
per il quale è chiesto l'accesso.
Va premesso che il diritto di accesso ai documenti
amministrativi costituisce un principio generale
dell'attività amministrativa, volto a favorire diffusamente
la partecipazione al procedimento, al fine di assicurarne
imparzialità e trasparenza.
Per tale finalità, tutti i
documenti amministrativi sono, in via generale, da ritenere
accessibili, salvo le eccezioni espressamente stabilite
dall'art. 24 della legge n. 241/1990 e da norme di settore
(Cons. Stato Sez. V, Sent., 20.12.2011, n. 6682). Gli
articoli 22 e seguenti della L. n. 241 del 1990 riconoscono,
a tutela di un personale interesse, concretamente collegato
alle esigenze specifiche del richiedente, l’accesso agli
atti che direttamente lo riguardano.
Nella specie, la
ricorrente, avendo partecipato alla selezione pubblica “de
qua” e avendo l’intenzione di impugnarne le risultanze, non
appare determinante se innanzi al giudice amministrativo
ovvero a quello ordinario, ha un interesse giuridicamente
rilevante a conoscere analiticamente le ragioni che hanno
portato all’attribuzione del punteggio e, quindi, a
visionare atti e documenti della procedura, ivi compresi
quelli che riguardano i concorrenti che la precedono nella
graduatoria finale, atteso che tali atti, per pacifica
giurisprudenza, esulano dal diritto alla riservatezza (Cons.
Stato Sez. IV, 26.03.2012, n. 1768).
Il Collegio condivide un ormai consolidato orientamento
della giurisprudenza amministrativa dal quale emerge con
chiarezza che il fatto legittimante l'accesso alla
documentazione, ossia il possesso dell’interesse definito
all'art. 22 della L. n. 241 del 1990, non presuppone una
predeterminazione rigida delle situazioni giuridicamente
tutelate, in quanto la loro individuazione è data dal
raccordo tra queste e il documento per il quale è chiesto
l'accesso (Consiglio di Stato, sez. VI, 18.09.2009,
n. 5625).
Nel caso di specie, ciò implica che l'accesso
possa essere riconosciuto facendo perno sulla situazione
sostanziale vantata dalla richiedente, e sul fatto lesivo
che ne deriverebbe, prescindendo dalla natura giuridica
dell’ente i cui atti si chiedono di ispezionare (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 16.04.2012 n. 3422 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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